Il futuro dei distretti Imprese distrettuali e rapporto ... · questi anni di sapersi rapidamente...

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Imprese distrettuali e rapporto col mercato: potenzialità e limiti dei processi

di internazionalizzazione del distretto pesarese del mobile

Article · January 1999

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Special Section on Business Management at the 10th International Conference on Economics and Administration (ICEA 2018), Bucharest, June 8-9, 2018 View project

Fabio Musso

Carlo Bo University of Urbino, Italy

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Il futuro dei distretti Vicenza, 4 giugno 1999

Imprese distrettuali e rapporto col mercato: potenzialità e limiti dei processi di internazionalizzazione del distretto pesarese del mobile*

Cosetta Pepe, Dipartimento di Studi sull’Impresa, Università di Roma “Tor Vergata”

Fabio Musso, Istituto di Studi Aziendali, Università degli Studi di Urbino

Abstract

Lo studio riguarda un’indagine condotta nell’arco di oltre dieci anni sul distretto pesarese del mobile con l’obiettivo di cogliere l’evoluzione dei rapporti con i mercati e individuare i cambiamenti nei caratteri e nei comportamenti delle imprese. Si delinea così una varietà di percorsi che evidenziano la natura eterodiretta nello sviluppo internazionale, mettendo però in luce una scarsa permeabilità fra le varie esperienze vissute sul mercato interno e sui mercati esteri. La difficoltà nel capitalizzare e trasferire da un fronte all’altro il know-how acquisito, sfruttando anche le capacità organizzative già disponibili, rivela limiti strategici e gestionali. Resta tuttavia l’accentuata versatilità delle imprese, che hanno mostrato in questi anni di sapersi rapidamente adattare alle alterne vicende del settore in Italia e nel mondo, dando vita a una serie di profili differenti. In questa capacità di presenza sui mercati è stata ed è essenziale la funzione del canale di distribuzione, concepito qui come sistema di riferimento necessario per raggiungere l’obiettivo-mercato, direttamente connesso con quello del distretto di appartenenza che naturalmente favorisce la circolazione dell’informazione, innescando meccanismi imitativi e innovativi, dando visibilità alle imprese, e svolgendo anche un ruolo istituzionale che - non sempre con l’efficacia necessaria - ha focalizzato l’attenzione sul problema, consolidando la sensibilità delle imprese e attivandosi per la loro promozione verso l’esterno. La riflessione finale del lavoro riguarda soprattutto il problema delle competenze, quello della qualità del tessuto distrettuale e delle relazioni, ed eventualmente quello legato alla presenza dei nuovi soggetti necessari ad arricchire il tessuto di relazioni esistente, per saldare potenzialità non ancora valorizzate.

1. Piccole imprese e internazionalizzazione

La progressiva integrazione dell’economia mondiale coinvolge ormai tutte le dimensioni di impresa, allargando il campo di azione e il sistema delle relazioni con altre imprese e con vari tipi di organismi, presenti nel territorio di appartenenza e nell’area di riferimento più vasta. L'internazionalizzazione, anche se sempre più diffusa, riveste però un significato diverso a seconda delle circostanze in cui si verifica.

La varietà delle situazioni e l'incertezza dei percorsi sono particolarmente evidenti nell'esperienza di molte piccole e medie imprese; non a caso il fenomeno è studiato e interpretato soprattutto a partire da quelle di grandi dimensioni, mentre la teoria dello sviluppo internazionale delle imprese minori rimane frammentaria.

* Pur essendo questo lavoro il risultato di una ricerca svolta congiuntamente, la stesura dell’elaborato è stata effettuata secondo la seguente ripartizione: Cosetta Pepe ha curato i paragrafi 1, 2, 3, 8, Fabio Musso i paragrafi 4, 5, 6, 7.

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Tale "arretratezza" è giustificata dalla mutevole natura dell’oggetto di indagine, che contribuisce a moltiplicare gli studi su basi non sempre omogenee e comparabili; con un conseguente, notevole arricchimento della realtà osservata e degli aspetti indagati, ma anche maggiore difficoltà nel formulare una sintesi dei vari contributi.

Il grado di “ottimismo o pessimismo” assunto nello studio della piccola impresa ha avuto, inoltre, una certa discontinuità, modificando di volta in volta il punto di vista dell’analisi. Si è passati infatti dalla scoperta dell’importanza e della vitalità delle imprese minori, negli anni '70, a una rinnovata attenzione per la grande impresa nei primi anni '80, per tornare a sottolineare il ruolo comunque indispensabile delle piccole imprese verso la fine del decennio e negli anni ’90. E questo sia a livello delle singole economie nazionali che delle grandi aree economiche.

Oggi - pur rimanendo fra gli osservatori grande perplessità circa la natura dei processi evolutivi cui sono destinate le piccole imprese - si rinsalda la consapevolezza dell’importanza del loro ruolo. L’industria minore si conferma, infatti, parte integrante del tessuto industriale, rivelandosi indispensabile non solo per l’equilibrio, ma anche per il rinnovo e la crescita di economie già consolidate e di aree in via di sviluppo.

Senza dubbio, la molteplice natura e gli aspetti contraddittori (gravi carenze accanto a buone e anche ottime prestazioni) rendono difficile leggere il fenomeno e soprattutto assumere una logica "interna", che si metta nell'ottica di chi è chiamato a gestire un’impresa di piccole dimensioni e i suoi processi di sviluppo.

Quello che è mancato - rispetto a quanto invece avvenuto per la grande impresa - é la contiguità fra l’esperienza di chi gestisce e quella di chi osserva e analizza: un rapporto che soprattutto nel mondo anglosassone ha sempre contraddistinto l'evolversi dell'economia aziendale. La piccola impresa non favorisce questo tipo di confronto; la creatività e la razionalità delle sue scelte risultano meno trasparenti: chiuse come sono nella soggettività dell’imprenditore, che non ha né il tempo, né lo stesso linguaggio, e nemmeno una comune sensibilità per riflettere con studiosi, consulenti e operatori pubblici, sui problemi e sulle esigenze della propria azienda.

Gli interlocutori esterni rischiano così di trattare con categorie generiche, senza cogliere la varietà delle situazioni e la specificità dei soggetti analizzati; privilegiando di fatto l'ottica - necessaria ma non sufficiente - di chi vede la piccola impresa più come oggetto di intervento o di studio, che come soggetto potenzialmente strategico.

Tuttavia, malgrado queste difficoltà e i dubbi ancora diffusi sulla sua presunta incompletezza quale organismo aziendale, nel confrontarsi sulle sue sorti future, si concorda ormai nell'affermare che la dimensione internazionale costituisce, per la piccola impresa, oltre che un rischio anche una necessità e una preziosa opportunità. L’internazionalizzazione diventa così, anche per le piccole dimensioni, la nuova frontiera del competere, l’unica in grado di garantire la crescita o anche solo la sopravvivenza delle imprese.

Tuttavia, la distanza fra le imprese minori e gli spazi di mercato cui sono destinate e la necessità di passare attraverso forti dinamiche competitive - spesso complicate dalla presenza di strutture distributive esigenti - evidenziano la debolezza delle piccole imprese.

Particolarmente critico è l’aspetto delle risorse umane; non solo in relazione alle capacità e alla sensibilità dell'imprenditore e dei suoi collaboratori, ma anche a quelle dei funzionari delle varie istituzioni, pubbliche e private, che dovrebbero supportare le imprese nel loro sviluppo, compensando i limiti naturali di un’imprenditoria spesso di

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prima, o al massimo di seconda generazione, che nell’arco di una vita si vede catapultata dal mercato locale a quello internazionale, con il solo, prezioso bagaglio della cultura manifatturiera di origine.

La carenza d’informazione (sulle caratteristiche dei mercati di sbocco, sulle possibilità di trasferimento di know-how, sulle opportunità di finanziamento, sui sistemi legislativi nazionali e le barriere all'entrata esistenti), unito ai limiti strutturali e alla scarsa esperienza rendono poi difficile capire le opportunità e i rischi che comporta operare nei mercati esteri, con la conseguente impossibilità a formulare obbiettivi precisi, adeguando allo scopo le risorse e le strutture organizzative. Circostanze che impediscono alle imprese di piccole dimensioni di valorizzare al meglio, e soprattutto a loro vantaggio, punti di forza che potrebbero invece trovare riconoscimento in spazi-mercato di dimensioni contenute, ma di natura internazionale.

2. Il sistema di riferimento e la teoria delle reti

Dall’osservazione del fenomeno dell’internazionalizzazione, risulta sempre più evidente che il processo accentua il legame di appartenenza a circuiti complessi. In realtà, la piccola impresa vive da sempre in un sistema di relazioni (all’interno di un distretto industriale, nell’ambito di un gruppo di imprese, nei rapporti di subfornitura, nel canale di distribuzione); oggi, tuttavia, le esigenze di tali circuiti portano a nuove dinamiche relazionali e di conseguenza anche a nuovi profili di impresa. Questi sono, appunto, gli aspetti indagati.

Infatti, malgrado la rinnovata attenzione, la piccola impresa rimane ancora poco visibile, almeno fino a quando non si analizzano i suoi rapporti con il sistema di riferimento e i processi di cambiamento che da questo dipendono. La natura delle relazioni condiziona quella dei soggetti e viceversa.

In particolare, l’analisi del comportamento internazionale dell'impresa minore non può essere disgiunta dalla sua appartenenza o meno a un distretto industriale e dal suo inserimento in una particolare catena distributiva. Su questo doppio fronte cresce e si verifica il comportamento e la capacità dell’impresa di porsi in modo attivo; d’altra parte le potenzialità della singola impresa vengono sfruttate appieno solo quando si crea una forte attenzione per l’economia delle relazioni dell’intero sistema.

Constatare che le sorti delle piccole imprese e dei loro processi di internazionalizzazione sono legate alle trasformazioni dei sistemi di appartenenza sposta dalle tradizionali chiavi di lettura e avvicina a una teoria, peraltro molto attuale, che fornisce alcuni strumenti per quella visione globale e composita che sembra la più adatta al fenomeno studiato: la teoria delle reti (Collins, 1988; Marchini, 1992; Benedetti e Di Bernardo, 1997; Lomi, 1997).

L’ambizione di questa teoria è quella di adottare una visione che legga l’articolazione del fenomeno come realtà “significativamente ordinata”, dove le parti vengono analizzate e ordinate in funzione del tutto e delle loro connessioni; nel presupposto che una parte può essere compresa solo come manifestazione dell’interazione tra i vari processi: ogni soggetto è un evento che collega fra loro altri eventi.

In realtà, c’è uno spostamento di attenzione dai soggetti agli eventi: un tessuto di eventi in cui rapporti di diversi tipi si alternano, si sovrappongono o si combinano. Le fisionomie e le strutture dei soggetti non sono considerate le caratteristiche

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fondamentali, ma la conseguenza della natura dinamica e della fondamentale interconnessione del tutto, nel presupposto che una parte possa essere compresa solo come manifestazione dell’interazione tra i vari processi. Si può parlare a questo proposito di un effetto di risonanza, del quale è bene tenere conto se si vuole analizzare il comportamento dei singoli soggetti e dell’intero sistema. La risonanza consiglia di collocarsi all’interno del fenomeno, nel suo divenire, cercando di raggiungere una comprensione totale, oltre che dettagliata, per saper individuare i momenti fondamentali del circuito, là dove si crea qualcosa di nuovo, e cogliendo al tempo stesso il senso e l’originalità del divenire complessivo (Pepe, 1991; Pepe, 1997).

Il modello fornito dalla teoria delle reti, ispirato a questo tipo di visione, si dimostra un valido punto di riferimento, malgrado sia (o proprio perché è) uno strumento ancora in via di definizione, che lascia spazio a un suo uso flessibile e interessa vari campi di applicazione: da quello sociologico, a quello organizzativo, fino alle teorie del mercato e dello scambio. In realtà l’analisi di rete - che alcuni studiosi hanno definita “una tecnica in cerca di teoria” - si sta imponendo con una sua autonomia, ma anche come punto di contatto con altre importanti teorie (la teoria dei giochi, la teoria dei sistemi).

In questo lavoro, la teoria delle reti non viene tuttavia usata come tecnica di analisi. Il riferimento a questa teoria scaturisce in realtà da una naturale confluenza fra le sue fondamentali intuizioni e il tipo di sensibilità che si è sviluppata nel corso della ricerca. D’altra parte, sarebbe stata difficile una sua più stretta applicazione, a causa della notevole articolazione del processo di ricerca e della conseguente necessità di ampi gradi di libertà (e quindi di interpretazione soggettiva) che la lettura dei vari momenti di studio ha richiesto.

Della teoria delle reti è servita essenzialmente la struttura concettuale, soprattutto per il tipo di collocazione che la teoria dà all’impresa, quando afferma che i mercati e le reti sono due diverse concezioni del mondo, in cui gli individui si legano fra loro all’interno di una più vasta struttura sociale; e per il tipo di “oggetti” su cui focalizza l’analisi: gli attori, le relazioni, la permanenza e l’intensità delle relazioni, la natura delle relazioni, la struttura complessiva, la struttura parziale, le strategie individuali, le strategie complessive (Lorenzoni, 1997).

La struttura complessiva non è nient’altro che il modo in cui sono strutturate nel tempo e nello spazio tutte le interazioni. La teoria di rete indaga su strutture che a volte possono essere anche molto complesse: il sistema osservato può corrispondere a un insieme di interazioni che si verificano nel contesto di altre interazioni : le reti di reti (Albertini e Pilotti, 1996).

Lo stato di salute del singolo individuo dipende dall’equilibrio e dall’efficacia della rete. Il sistema di relazioni deve svilupparsi verso un’adeguata dotazione delle risorse necessarie e verso una loro equilibrata distribuzione fra soggetti. Il processo di crescita può essere tortuoso e difficile da apprezzare. Può innescarsi in uno dei nodi della rete ed espandersi poi, grazie all’effetto risonanza, a tutta la rete. Nella catena di relazioni possono esistere unità che hanno come compito esclusivo quello di attivare relazioni, anzi spesso - come vedremo nella ricerca - è proprio questo il limite ancora nascosto di reti che sembrano aver completato la dotazione di risorse; l’unica risorsa mancante si rivela essere il “produttore di relazioni”.

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3. Internazionalizzazione del distretto e canali distributivi

A partire da queste considerazioni, lo studio realizzato cerca appunto di cogliere le cause e gli sviluppi di quel fenomeno economico composito che scaturisce dal combinarsi di piccole dimensioni di impresa, distretto industriale e processi di internazionalizzazione.

Verso il distretto industriale è stato compiuto un percorso di riconoscimento e legittimazione che - così come già avvenuto per la piccola impresa - prima ha definito l’identità delle sue varie tipologie e poi ha scoperto e sottolineato la sua potenzialità in campo internazionale, espressa come propensione del distretto a farsi promotore e mediatore sul piano internazionale dei valori e dei vantaggi competitivi locali (Becattini e Rullani, 1993; Grandinetti e Rullani, 1996). Il distretto, quindi, come tessuto indispensabile allo sviluppo dell’impresa minore, soprattutto in un contesto di mercato allargato, dove la piccola dimensione si evidenzia particolarmente fragile.

Le imprese distrettuali, capofila di catene di fornitura interne e variamente collegate con l’ambiente di appartenenza, hanno però un doppio fronte di relazioni: quelle interne verso i subfornitori e le istituzioni della realtà locale, e quelle esterne verso il trade e i mercati esteri. Due sistemi che devono necessariamente diventare complementari e sinergici, se si vogliono sfruttare al massimo le loro potenzialità. Alla dimensione internazionale delle imprese capofila deve quindi corrispondere una dimensione internazionale del distretto nel suo insieme. Processo che si rivela non meno problematico di quello delle singole imprese, e che è ormai manifesto in tutti distretti italiani.

Il distretto gioca infatti un ruolo importante nel rapporto con i mercati e la distribuzione internazionale, innanzitutto perché può avere, agli occhi degli interlocutori commerciali, maggiore visibilità rispetto alle singole imprese. Per i distributori è quindi più facile, una volta individuato il distretto, arrivare a contattare le imprese; il distretto diventa così un naturale strumento di promozione verso il trade.

Il distretto offre inoltre una flessibilità qualitativa e quantitativa che viene affidata alle imprese capofila, le quali coordinano i circuiti a monte a seconda delle esigenze del mercato, rendendo così possibile uno sforzo relazionale contenuto. D’altra parte, alle sue imprese, il distretto garantisce un circuito informativo naturale, ancora molto improntato alla cultura produttiva del distretto, che però ormai non si limita a monitorare le innovazioni di prodotto e di processo, realizzate all’interno o all’esterno dell'area, ma lascia circolare nomi e informazioni relative a potenziali interlocutori commerciali, a nuovi mercati di sbocco, a fornitori di servizi e di supporti di vario genere, istituzionali e non. Oppure, si attrezza per offrire fonti di notizie sistematiche e canali di contatto con operatori nazionali ed esteri, fornendo tramite le proprie istituzioni (Camere di Commercio, associazioni di categoria, banche, Finanziarie regionali, uffici periferici dell’Istituto Commercio Estero) supporti informatici, organizzazione e partecipazione a fiere di livello internazionale, attività di formazione per nuove figure professionali, con competenze mirate alle esigenze delle imprese del distretto (Baccarani e Golinelli, 1993).

Per il consolidamento e l’equilibrio del sistema distrettuale sarebbe in realtà necessaria una presenza più diretta sui mercati di sbocco e una maggiore forza commerciale delle imprese e del distretto nei confronti dei grandi clienti internazionali. Tuttavia, almeno fino ad ora, la realtà distrettuale non è stata sufficiente per portare le imprese all’estero e sono stati piuttosto gli operatori commerciali ad attivare

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l’internazionalizzazione delle imprese e del distretto. La funzione dei canali di distribuzione è quindi ancora molto importante, ed è destinata a rimanere tale almeno fino a quando i distretti non sapranno integrarsi efficacemente con i mercati finali. Il perdurare di una “debolezza distributiva”, ormai concepita anche a livello di distretto, viene infatti segnalata da molte indagini (Varaldo e Ferrucci, 1996; Marcati e Manaresi, 1990; Tagliacarne, 1998).

4. L’indagine sul distretto pesarese del mobile

La ricerca riguarda i processi di internazionalizzazione delle piccole imprese del comparto pesarese del mobile1. L’indagine è stata ripetuta in vari anni (1985, 1988, 1991, 1997) con le stesse modalità: interviste a imprese esportatrici che producono per il mercato finale, contattate inizialmente presso il Salone del Mobile di Pesaro. In occasione delle indagini successive sono state contattate le stesse imprese (presso la sede dell’azienda), in modo da poter costruire dei percorsi individuali e procedere per comparazioni fra le varie indagini campionarie. Non tutte sono state rintracciate o si sono rese disponibili a nuove interviste, per cui si sono aggiunte di volta in volta altre imprese2, il che ha permesso - come si vedrà analizzando i risultati - di individuare nuove tipologie nate nel periodo della ricerca (per esempio esportatrici degli anni ’90).

Con la metodologia adottata, si è di fatto voluto costituire una sorta di osservatorio, dal quale sono stati esclusi i produttori di cucine che per dimensioni, organizzazione produttiva, rapporto col mercato, mostravano caratteristiche molto diverse da quelle delle altre imprese del distretto; d’altra parte, la quasi totale mancanza di attività esportativa che aveva caratterizzato i cucinieri fino a metà degli anni ’90, non ne avrebbe giustificato la presenza nel campione. Le indagini realizzate hanno permesso di:

a) seguire lo sviluppo internazionale del distretto, attraverso l’analisi comparata dei quattro campioni che, anche se numericamente dissimili, mantengono un grado di significatività sostanzialmente omogeneo, basato su criteri di rappresentatività rispetto alla specializzazione merceologica delle imprese del comparto;3

1Per approfondimenti sui processi di internazionalizzazione nel settore del mobile, con riferimenti anche al distretto pesarese, si vedano: Silvestrelli, 1987; CAST, 1992; Grandinetti, Pilotti e Zaghi, 1994; Assindustria Pesaro-Urbino, 1997; Florio, Politi e Sckokai, 1998. 2 Il campione del 1985 è composto da 75 imprese, ricontattato nell’88, con una parziale integrazione rispetto a quelle mancanti, che ha portato a individuare 68 imprese. Nel '91 sono state intervistate le stesse aziende dell’indagine precedente, senza però procedere a integrazioni, anche perché sull’onda delle buona congiuntura della domanda interna si era complessivamente ridotto il numero delle imprese esportatrici. Il risultato è di 56 imprese intervistate, di cui 41 comuni a tutti i campioni fino a quel momento analizzati. Nel 1997 sono state contattate 24 imprese già intervistate, mentre ne sono state aggiunte 26 di nuove, delle quali ben 12 sono risultate nuove esportatrici. 3 L’universo di riferimento per la costruzione del campione è stato individuato attraverso l’elenco degli espositori al 34° SAMP (salone del Mobile di Pesaro), dal quale sono state selezionate le imprese residenti nella provincia di Pesaro-Urbino, integrato con le imprese presenti nell’annuario delle imprese industriali della provincia per l’anno 1995/96. In questo modo è stato possibile definire quante delle 2.070 imprese della provincia che il censimento Istat 1991 indica come appartenenti all’industria del mobile e dell’arredamento in legno sono produttrici per il mercato finale. Delle 324 imprese individuate, dalle quali sono stati esclusi i cucinieri (27 imprese), è stata considerata la specializzazione produttiva e, su questa, è stato costruito il campione. E’ così risultata la seguente composizione merceologica delle imprese analizzate: camere (13,8% delle imprese osservate), camerette (3,4%), complementi (2,7%), salotti (8,1%), soggiorni/sale (10,8%), soggiorni/sale/camere (20,5%), pluriprodotto (39,4%), ufficio (1,3%).

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b) ricostruire i percorsi di internazionalizzazione di 38 imprese con almeno tre interviste (di cui 24 con il dato ’97 e 14 con profili che arrivano solo fino al ’91, non essendosi potuta realizzare l’intervista del ’97 per vari motivi).

c) individuare delle tipologie di imprese esportatrici con tratti diversificati in base alla dimensione, all’anzianità aziendale e all’anzianità dell’esperienza esportativa, alla capacità di presenza nei mercati esteri sia in termini quantitativi (peso delle esportazioni e numero di mercati serviti) che qualitativi (aree prevalenti, variabilità dei mercati, strategie adottate e canali utilizzati).

Complessivamente - e cioè rispetto al totale delle imprese considerate nel corso dell’intera ricerca (82 unità) - quelle che non è stato possibile intervistare nel ’97 sono 32. Di queste, è stato accertato che 8 imprese hanno cessato l’attività, come indicato dal registro delle imprese della Camera di Commercio di Pesaro, altre hanno rifiutato l’intervista (in tutto 5 imprese), alcune non sono più esportatrici (6 unità), altre 8 non sono state rintracciate. Naturalmente anche questi dati sono risultati significativi ai fini dell’indagine. Ulteriori 5 imprese sono state escluse, dopo l’intervista del 1985, perché residenti fuori distretto, anche se presenti in fiera.

Il filone principale di ricerca imperniato sulle imprese esportatrici è stato poi arricchito da una ricerca (1993) sugli operatori commerciali con l’estero, interessati alla produzione del distretto, e con un'indagine (1993) sul distretto veneto dell’Alto Livenza, di medesima vocazione produttiva, ma avviato a una particolare struttura organizzativa del tessuto industriale (i gruppi di imprese) e a un forte orientamento verso il mercato tedesco (Perin, 1993).

Nel 1998 è stata effettuata un’ulteriore indagine rivolta solamente ai produttori di cucine con l’intento di verificare la validità delle tipologie precedentemente individuate come chiave di lettura per questa categoria di imprese. La necessità di estendere l’indagine ai produttori di cucine è emersa nel corso degli anni ’90, in seguito al forte sviluppo dell’attività esportativa delle imprese del settore che, a partire dal 1993, hanno così cercato di compensare il rallentamento della domanda interna, favorite anche dalla corrispondente apertura dei mercati dell’est Europa.

Per questa fase di indagine sono stati contattati tutti i produttori di cucine nel distretto, ossia 31 imprese. Di queste, 5 non si sono rese disponibili all’intervista, 6 sono state escluse perché produttrici anche di altre tipologie di mobili (prevalentemente artigiani senza specializzazione per prodotto), una non è risultata esportatrice, una aveva cessato l’attività. Si sono quindi fatte 18 interviste dirette presso la sede delle aziende, delle quali però solo 16 sufficientemente attendibili per poter essere considerate nell’analisi.

Il campione utilizzato è risultato comunque ampiamente significativo: le imprese considerate realizzano infatti complessivamente il 79,6% del fatturato totale di cucine del distretto e concorrono per l’85,5% all’export di questo prodotto.4

5. Caratteristiche dello sviluppo internazionale del distretto

Criticità dell’esperienza internazionale

4 Fonte dei dati utilizzati come base di calcolo: Csil per il dato distrettuale, interviste alle imprese per il dato relativo al campione. In entrambi i casi si è usato come riferimento il fatturato 1997.

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L’indagine sul comparto pesarese del mobile evidenzia alcuni aspetti dei percorsi internazionali che sono comuni alla maggioranza delle imprese del distretto e altri che, differenziandole, permettono di individuare diverse tipologie di esportatrici.

Il primo risultato importante viene dalla conferma della criticità che ha ormai assunto l’esperienza internazionale, anche in relazione ai modi in cui viene realizzata.

A seconda di come viene vissuto, il processo di internazionalizzazione non è però, necessariamente, garanzia di crescita o di sopravvivenza, perché molte imprese, nei contatti con i mercati esteri, rimangono in un condizione di marginalità o di passività, che a volte le brucia rapidamente e, più spesso, le mantiene in una condizione statica, pericolosa e ormai inadatta alla dinamicità del contesto competitivo. L’esperienza variamente cumulata è comunque positiva, perché costituisce un patrimonio che è condizione necessaria per creare i presupposti di un cambiamento, anche se deve poi essere sostenuta da altri aspetti, soggettivi e strutturali, della singola azienda e del tessuto industriale locale nel suo insieme.

A questo riguardo, il comparto pesarese del mobile ha vissuto e sta vivendo un salto culturale che il periodo della ricerca rileva chiaramente: nel 1985 gli sbocchi internazionali venivano colti come semplici opportunità; per molte imprese erano complementari a quello del mercato interno, per altre diventavano esclusivi (come nel caso di aziende nate per l’export nel Medio Oriente), ma non c’era un orientamento strategico verso un equilibrato sviluppo nazionale e internazionale. A partire dai primi anni ’90 si inizia invece a prendere coscienza dell’importanza della dimensione internazionale. L’espansione sui mercati esteri diventa un obbiettivo del distretto, anche se poche imprese sono finora riuscite a esprimere una strategia di vero confronto internazionale.

In questa crescita, è stata ed è essenziale la funzione del distretto: sia quella naturale, che ha favorito la circolazione dell’informazione, innescando meccanismi imitativi e innovativi, sia quella istituzionale che - non sempre con l’efficacia necessaria - ha focalizzato l’attenzione sul problema, consolidando la sensibilità delle imprese e rendendole anche più visibili all’esterno.

Natura eterodiretta del processo e varietà/variabilità dei mercati di sbocco

Un altro aspetto caratterizzante riguarda la natura sostanzialmente “eterodiretta” del processo di internazionalizzazione. Inizialmente, com’è per molti distretti industriali, l’area viene individuata da operatori di commercio internazionale, che nel caso pesarese apprezzano e valorizzano la sua capacità di offrire prodotti, con buon rapporto qualità-prezzo, su fasce di mercato medio-basse. Questa vocazione produttiva si combina con mercati di riferimento generalmente poco esigenti e caratterizzati da rapporti commerciali, modalità di pagamento e sistemi di relazioni fra i partner poco evoluti. Una notevole parte dei traffici commerciali si sviluppa, infatti, verso paesi emergenti, mentre una parte residuale riguarda le aree sviluppate, ma attraverso canali marginali o di nicchia (spesso singoli dettaglianti).

Parallelamente alla varietà dei mercati serviti si accentua la capacità di adattamento alle esigenze dei clienti e alle varie congiunture dei mercati, e quindi si moltiplica la varietà delle esperienze e la variabilità degli sbocchi.

Nei percorsi internazionali del distretto si possono individuare delle vere e proprie fasi caratterizzate dalla presenza delle imprese in determinati paesi o aree geografiche.

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E’ il caso del Medio Oriente, che nell’85 è già in contrazione rispetto agli anni precedenti ma continua a rappresentare un riferimento non secondario per diverse imprese locali. Significativo è pure il calo di presenze negli Stati Uniti che emerge nell’ultima rilevazione, dopo un periodo in cui il mercato sembrava destinato ad aprirsi rapidamente alla produzione del distretto.

Altrettanto significativo, se pure con un peso minore, è il rapporto col mercato giapponese, verso il quale sembrano essersi manifestati molti dei limiti emersi nelle relazioni con i mercati più esigenti: dopo una fase di sviluppo nei primi anni ’90, caratterizzata però da forniture di carattere esplorativo, i clienti giapponesi hanno preferito orientare i loro acquisti di mobili italiani presso produttori di altre aree, Brianza soprattutto, in grado di assecondare meglio le loro esigenze di qualità sia nel prodotto che nel servizio commerciale.

Più recentemente, si evidenzia l’importanza assunta dai paesi dell’Est Europa, e in particolare la Russia, mercato verso il quale si stanno rivolgendo già da qualche anno molti degli operatori locali.

In Europa, invece, mentre i mercati britannico e francese appaiono in diminuzione (dopo una fase di sviluppo nel ’91 nel caso della Francia), la Germania sta diventando un punto di riferimento per un numero crescente di imprese, e questo conforta l’ipotesi di un cambiamento in corso nella capacità di offrire prodotti qualitativamente migliori e di riuscire a sostenere rapporti con un sistema distributivo più strutturato di quello nazionale.

Il fenomeno Est Europa si prospetta in modo completamente diverso dalla precedente esperienza del Medio Oriente: innanzitutto per la dimensione del fenomeno, in quanto si parla di aree geografiche vaste e popolate, per le quali lo sviluppo comporterà un ulteriore addensamento della popolazione; inoltre, perché si tratta di paesi destinati a percorrere un processo di crescita graduale ma duratura, che li vedrà allinearsi alle economie dell’Europa occidentale; infine per il fatto che l’attuale domanda (di fascia medio-bassa e bassa) potrà in futuro essere soddisfatta dall’offerta locale. In prospettiva si assisterà quindi a un’intensificazione della concorrenza, anche da parte degli altri produttori europei, soprattutto tedeschi. Occorre anche considerare che il sistema distributivo evolverà in modo più rapido dello sviluppo economico, in seguito all’ingresso nel mercato della grande distribuzione, soprattutto tedesca, che ha già iniziato a orientare le sue scelte di internazionalizzazione verso l'Est Europa. In questo scenario lo sbocco Europa orientale, se pure su una scala temporale più ampia, potrebbe quindi rivelarsi limitato.

A livello delle singole imprese prevale - come si vedrà meglio nell’analizzarne i profili - la differenziazione e la variabilità delle esperienze mercato; in alcuni casi ci sono però anche relazioni meno volatili e più esclusive che denotano una maggiore capacità di tenuta. Una presenza più costante è propria delle imprese più grandi ed evolute verso i mercati consolidati (tipicamente Europa e Nord America), ma si può anche riscontrare nell’esperienza di alcune imprese, anche piccolissime, che mantengono il loro inserimento di nicchia in mercati meno avanzati e un tempo emergenti come quello del Medio Oriente.

Assenza di correlazione con le dimensioni e col grado di specializzazione delle imprese

La percentuale del fatturato export mostra nel periodo e complessivamente per il distretto una flessione agli inizi degli anni ’90 e, successivamente, una ripresa che fa

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riguadagnare i livelli dell’85. La propensione all’export non è significativamente correlata con le dimensioni di impresa, quindi la tipologia delle esportatrici non può essere costruita sul dato dimensionale. Si intravedono però delle tendenze: guardando, per esempio, alla stabilità della percentuale export e quindi al grado di coinvolgimento verso l’estero, gli andamenti più stabili, e in fondo anche più equilibrati rispetto al fatturato totale, sono riscontrabili nelle classi dimensionali intermedie.

Seguendo le imprese e il loro comportamento nel periodo considerato si ricava, comunque, una varietà di percorsi che mostra maggiore ricchezza di profili di quanta ne potremmo trovare affidandoci al solo dato dimensionale di base o alla classe di fatturato export, che non riuscirebbe comunque a cogliere la qualità strategica di relazioni peraltro intense.

Complessivamente, le dimensioni delle imprese del distretto che si affacciano sui mercati internazionali si confermano piccole e piccolissime. Viene sostanzialmente rispecchiata la struttura del distretto, a conferma del fatto che i contatti con i mercati esteri non attuano una selezione delle imprese su basi dimensionali. La classe più rappresentata nell’ultima indagine (30%) è quella delle imprese con un numero di dipendenti compreso fra 20 e 49 addetti, che è cresciuta dal 1985 per poi stabilizzarsi negli anni ’90. Una crescita compensata dalla diminuzione delle imprese sotto i 20 addetti. Il numero delle microimprese, pur complessivamente diminuito, ha però una leggera ripresa dal 1991. Stabile invece la classe delle imprese superiori ai 50 addetti. In termini di fatturato le classi dimensionali mostrano una sostanziale correlazione con quelle per addetti, mostrando un leggero rafforzamento delle classi medie, quelle che fatturano fra i 3 e i 10 miliardi. In marcato aumento, invece, quelle che fatturano più di 10 miliardi.

Diminuisce parallelamente la specializzazione dell’offerta, il mix di prodotti si fa più composito e cresce il numero delle imprese pluriprodotto, tendenza che si manifesta dagli inizi degli anni ’90, sull’onda della maggiore attenzione rivolta ai mercati esteri e della conseguente richiesta di prodotti differenziati da parte dei vari paesi serviti. Le pluriprodotto sono legate al leggero aumento delle imprese di dimensioni inferiori in termini di addetti: si tratta di imprese che, concentrandosi nell’attività di commercializzazione, si svuotano quasi completamente delle funzioni produttive, delegate alla catena dei subfornitori.

La maggiore o minore internazionalizzazione del distretto non è quindi un dato di quantità ma, come vedremo, piuttosto di qualità, anche se si pone il problema di un livello dimensionale minimo. La sola, significativa relazione esistente con le dimensioni di impresa riguarda la capacità di consolidamento dell’espansione sui mercati esteri. Intendendo con consolidamento il contatto continuato con mercati evoluti che richiedono una maggiore qualità, garantita da un più alto grado di integrazione produttiva, e quindi da un più efficace controllo di processo e una maggiore adesione alle richieste dei clienti.

Le imprese medio grandi sono anche caratterizzate da maggiore padronanza nelle relazioni di canale: il 66% conosce infatti il prezzo sul mercato finale contro il 38%, dato medio del campione. Da notare tuttavia che anche il 30% delle microimprese lo conosce, aspetto per nulla scontato nel 1985.

La maggiore propensione al consolidamento sui mercati esteri delle imprese medio grandi ha un significato importante: indica cioè che un certo livello dimensionale è importante per caratterizzare l’esperienza internazionale delle imprese in modo meno

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precario e spontaneo. Una trasformazione è comunque in atto e coinvolge anche altre dimensione di impresa, come testimonia una più approfondita analisi dei profili individuati.

Centralità della figura del distributore e scarsa attivazione del marketing

Il cliente estero rimane comunque il perno dell’intera vicenda. E’ lui che in molti casi attiva il contatto e soprattutto esprime una leadership nella filiera. Le caratteristiche del suo operare e la sua fisionomia sono correlate a quelle del mercato servito, al suo grado di sviluppo, alle caratteristiche del consumo e delle modalità distributive interne. Le imprese affrontano quindi canali di entrata differenti, che evolvono nel tempo, trasformando la distribuzione estera del prodotto pesarese da indiretta a forme di canalizzazione sempre più diretta. Già verso la fine degli anno ’80 scompaiono quasi del tutto le case export ancora presenti nell’85.

Anche la sostanziale passività dal punto di vista del marketing riflette la centralità del ruolo del distributore: poche azioni promozionali e tutte rivolte al trade, primi contatti presso le aziende e in fiera, e raramente presso i clienti, scarsa rilevanza del marchio, che non è oggetto di particolari investimenti in immagine.

Questi fattori, in realtà, non fanno che rispecchiare i tratti caratterizzanti del rapporto con gli intermediari nazionali, dove rimane forte la dipendenza dall’agente, su cui convergono i flussi informativi e negoziali di un panorama sia produttivo che distributivo ancora fortemente frammentato. L’atteggiamento scarsamente attivo, consolidato sul mercato nazionale, si ripropone nei mercati esteri, se non altro perché le responsabilità all’interno delle imprese sono quasi sempre le stesse: infatti sono ancora rari i casi di imprese con responsabile estero diverso dal responsabile vendite Italia.

Rispetto alle precedenti indagini si nota comunque una maggiore sensibilità verso pratiche commerciali e di marketing più mirate. Complessivamente, rispetto al 1985, ci sono segnali di un coinvolgimento delle imprese in circuiti che mutano alcuni dei loro comportamenti: aumenta la percentuale delle imprese che forniscono prodotti destinati al marchio del cliente, indice di relazioni con strutture distributive avanzate, che è comunque più significativa verso l’esportazione che sul mercato interno (il 12% contro l’8%).

D’altra parte, aumenta la preoccupazione verso il posizionamento dell’offerta e si incrementa il ricorso a terzi (designer o consigli del distributore) per concepire l’idea prodotto, fenomeno che dovrebbe corrispondere a un processo meno spinto di imitazione all’interno del distretto. Maggiore attenzione a offrire un mix di prodotti porterebbe poi alcune imprese a commercializzare più che in passato prodotti altrui.

6. La tipologia delle imprese esportatrici

Anche se possiamo notare tendenze e comportamenti prevalenti, la diversa natura dei mercati e delle relazioni internazionali finisce per influire sul comportamento e anche sulla struttura delle imprese: le sollecitazioni dei mercati e degli operatori si combinano con le esperienze e con le potenzialità delle caratteristiche insite nelle imprese e nel loro ambiente, modificando i profili e addirittura creandone. Questo avviene indipendentemente dal puro dato dimensionale o dal tipo di ruolo ricoperto nel tessuto relazionale del distretto.

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L’indagine, come noto, riguarda le imprese che ricoprono la stessa posizione di capofila, qualifica che deriva dall’offrire il prodotto finito e dall’essere tutte caratterizzate da un minore o maggior grado di decentramento della produzione; anche se non mancano nel distretto processi di internazionalizzazione di imprese collocate in altra fase della filiera, in particolare quelle produttrici di pannelli semilavorati, alle quali non sono peraltro estranei episodi di integrazione a valle.

Una distinzione che parta dal tipo di esperienza internazionale diventa quindi un’ulteriore classificazione delle tipologie distrettuali, che generalmente vengono fatte derivare dal ruolo ricoperto nella filiera produttiva (specializzazione per fasi) ed eventualmente dalla categoria merceologica dei prodotti (specializzazione per prodotto); quello che però è bene sottolineare è che dal punto di vista dell’analisi del distretto e delle sue prospettive future, il fronte di analisi che questa nuova tipologia apre è di fondamentale importanza e bisognoso di approfondimenti, perché a loro più che agli altri tipi di impresa è affidata la valenza strategica delle filiere interne e dello stesso distretto nel suo complesso.

Di seguito viene riportato un breve approfondimento dei profili scaturiti in più di dieci anni di storia del comparto. Una sintesi riepilogativa viene poi presentata nella successiva tavola 1.

Nuove esportatrici

Sono imprese che hanno iniziato a esportare negli anni ‘90, caratterizzate da livelli contenuti di fatturato (non superiore ai 5/6 miliardi), con basso numero di addetti e quindi con forte ricorso alla subfornitura.

Si ripartiscono in due sottogruppi: quelle nate in periodi precedenti alla data di inizio delle esportazioni, generalmente negli anni ’70 e quelle nate recentemente, spesso contestualmente all’inizio dell’esportazione.

Le prime hanno vissuto per anni sul mercato nazionale, senza però riuscire ad accrescere nel tempo la loro dimensione. Verso l’internazionalizzazione non sembrano mostrare un comportamento particolarmente attivo; le esportazioni si ripartiscono su più paesi e le destinazioni variano, denotando una palese dipendenza dalle sollecitazioni esterne. Le incidenze di fatturato export sono però già nella media del distretto, e in alcuni casi anche superiori. Questo può essere visto, da un lato, come una conferma dello scarso consolidamento della precedente esperienza sul mercato interno, che ha permesso di destinare in pochi anni una quota consistente della produzione ai mercati esteri, dall’altro come una propensione a flessibilità e immediatezza di risposta rispetto alle sollecitazioni dei clienti esteri (agenti o importatori nei mercati più lontani, singoli dettaglianti in quelli più vicini), mentre mancano rapporti con operatori più evoluti (grandi comparatori) che potrebbero fornire uno stimolo verso relazioni più efficienti.

I mercati a cui si rivolgono sono quelli europei - per piccole quote - e in modo prevalente quelli emergenti dell’est Europa, mentre negli anni precedenti (prima metà anni ’90) si nota una presenza anche in mercati extraeuropei.

Le imprese del secondo gruppo, nate negli anni ’90, si sono invece subito caratterizzate per una forte propensione all’export, anche perché in quel periodo il mercato nazionale manifestava già segnali di saturazione per le imprese del distretto. E’ ipotizzabile che esperienze imprenditoriali di questo tipo si basino su preesistenti rapporti con mercati di destinazione e con intermediari di commercio internazionale, in seguito a precedenti esperienze professionali dell’imprenditore.

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Anche se l’incidenza del fatturato export è elevata, più ristretto sembra il numero dei paesi di destinazione, che rimangono circoscritti a quelli emergenti (Est Europa) o “di frontiera” (paesi arabi). Rispetto al sottogruppo delle imprese nate in anni precedenti c’è una più decisa focalizzazione negli orientamenti geografici, segno forse di una maggiore consapevolezza di azione. Questa vocazione verso mercati comunque poco consolidati impedisce però lo sviluppo di rapporti con aree più stabili, come i paesi europei.

Esportatrici consolidate

Sono imprese presenti da più anni nel mercato nazionale, con una lunga esperienza anche nei mercati esteri. Si caratterizzano tutte per una maggiore stabilità dell’incidenza delle esportazioni rispetto alle altre imprese del distretto, e mostrano almeno tre tipi di profili.

a) Forti esportatrici stabilmente presenti nei mercati esteri. E’ una tipologia molto significativa, perché dimostra l’esistenza anche all’interno del comprensorio pesarese della capacità di sviluppare rapporti evoluti coi mercati internazionali, che si esprimono attraverso precise scelte strategiche, criteri gestionali avanzati e una complessiva attenzione alla valorizzazione delle risorse interne.

La capacità di perseguire un preciso impegno commerciale, sia sui mercati esteri che sul mercato interno, pone queste aziende all’avanguardia nel distretto.

Il fatturato è medio-alto per l’area (intorno ai 10 miliardi) con una quota di export superiore al 50%, in costante crescita nel corso degli anni. L’elevato numero di addetti rispetto al fatturato denota un processo produttivo più integrato rispetto alla media, coerentemente con l’esigenza di un più attento controllo della qualità delle lavorazioni, necessario per soddisfare i mercati più avanzati.

L’inizio dell’attività esportativa risale generalmente ai primi anni ’80, con percorsi che sono poi caratteristici delle singole imprese; per esempio, mentre alcune si sono subito rivolte ai mercati occidentali e soprattutto nord-americani, altre hanno sfruttato l’onda dei flussi esportativi verso il Medio Oriente, per poi riconvertirsi successivamente verso i mercati europei, in particolare la Francia. Attualmente vengono assecondate anche le opportunità provenienti dai mercati dell'Est europeo, ma senza trascurare la presenza nei paesi dell'Europa occidentale e del Nord-America.

b) Esportatrici radicate nel mercato interno e regolarmente presenti sui mercati esteri. Sono le imprese che dopo i cucinieri maggiormente rappresentano il distretto sul mercato interno, e che molto spesso fanno da apripista per quelle minori, grazie alla capacità di attrarre nell’area gli intermediari commerciali: sia gli agenti di vendita (che per il settore sono plurimandatari) che i dettaglianti. Vi appartengono sia imprese “storiche”, nate negli anni ’60, che imprese nate negli anni ’80, tutte caratterizzate però da un inizio delle esportazioni concentrato intorno agli anni ’80, e comunque sempre precedute da periodi, anche lunghi, di impegno esclusivo sul mercato interno.

Hanno dimensioni medio-grandi, in alcuni casi arrivano anche alle massime dimensioni del distretto (esclusi i cucinieri), con fatturati intorno ai 40 miliardi, ma vi sono anche imprese con fatturati inferiori ai 10 miliardi. Significativo l’elevato numero di addetti in rapporto al fatturato, soprattutto per quelle più grandi, che sono infatti dotate di impianti per svolgere internamente numerose fasi del processo produttivo

L’incidenza delle vendite all’estero oscilla intorno al 25-30%, senza andare mai oltre il 50%, con andamenti regolari nel corso del tempo, ma con un numero crescente

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di paesi di destinazione, senza però particolari focalizzazioni geografiche. L’elevata variabilità dei mercati di destinazione e la consistente incidenza di quelli emergenti (Medio Oriente negli anni 80, Est Europa attualmente), concorre a delineare un profilo di impresa che considera sempre prioritario l’impegno sul mercato interno - riconoscendo la crescente importanza dei mercati esteri, che asseconda in misura gradualmente maggiore - ma che solo in pochi casi ha elaborato una strategia di sviluppo della propria presenza all’estero. L’impegno viene limitato alla ricerca di occasioni di sbocco, favorendone poi lo sviluppo, ma senza investire più di tanto in una prospettiva di consolidamento nel lungo periodo.

c) Forti esportatrici per necessità. Sono imprese che hanno sviluppato - in alcuni casi da molti anni - una buona capacità di rapporto con i mercati esteri, però non in seguito a un consolidamento dell’esperienza sul mercato interno ma, anzi, proprio a causa delle difficoltà incontrate. Il tipo di distribuzione che caratterizza il mercato domestico richiede infatti requisiti minimi di capacità organizzativo-manageriale, necessarie per gestire direttamente i cataloghi e le relazioni con i numerosi clienti.5

Nonostante un’apparente pericolosa instabilità, riferita alla natura dei mercati di sbocco e all’affidabilità degli interlocutori, queste imprese riescono spesso a sopravvivere e a svilupparsi grazie all’elevata quota dell’export, raggiungendo livelli di fatturato intorno ai 5 miliardi. E’ tuttavia alto il tasso di mortalità, soprattutto fra le imprese che si legano in modo esclusivo a pochi interlocutori o che si concentrano su un solo mercato (è stato così in molti casi verso il Medio Oriente).

Sono imprese talvolta costituite appositamente per sfruttare periodi di forte esportazione verso determinate aree, anche senza precedenti esperienze nel settore6. Generalmente, però, la nascita dell’azienda precede l’attività esportativa: alcune sono nate anche negli anni ’60, mentre l’esportazione inizia negli anni ’80 con lo sviluppo dei mercati arabi o, successivamente, col rallentamento del mercato interno.

La produzione è caratterizzata dal forte ricorso alla subfornitura, e questo conferisce loro sufficiente elasticità che permette di superare i periodi di contrazione della domanda. La propensione all’export è molto alta, ma anche molto oscillante, a conferma della instabilità dei rapporti con i mercati, che sono numerosi, oltre che variabili, e caratterizzati da canali poco evoluti. Complessivamente, il comportamento di queste imprese, essenzialmente di tipo reattivo, non apre la strada a mercati più solidi e stabili. Gli elementi di forza, come l’intraprendenza dell’imprenditore e l’elevata flessibilità, unita a costi ridotti al minimo, si accompagnano a limiti di carattere organizzativo e strutturale che portano a una scarsa consapevolezza di azione verso il mercato.

5 Nel settore del mobile in Italia manca infatti la figura del grossista e risulta quindi difficile una gestione efficiente dei rapporti con i dettaglianti, non solo dal punto di vista amministrativo ma anche, e soprattutto, da quello commerciale, se si considera che il numero di clienti raggiunge in genere alcune centinaia di unità: Questo implica costi e difficoltà organizzative, che possono spingere le imprese meno strutturate a preferire le occasioni commerciali con l’estero, soprattutto quando si tratta di produzioni su commessa che permettono di limitare le energie alle sole fasi produttive. 6 E’ significativa al proposito la presenza, in questa tipologia, dei produttori di salotti. Fra i sottosettori del mobile quello degli imbottiti richiede il minore utilizzo di impianti e quindi le minori difficoltà di approntamento delle produzioni.

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Esportatrici statiche Rappresentano lo zoccolo duro del distretto, e nei loro caratteri si ritrovano infatti

molte delle imprese esportatrici dell’area pesarese. Fortemente radicate nelle vicende locali, che alcune hanno vissuto fin dal primo sviluppo, negli anni ‘50, hanno in gran parte iniziato l’attività negli anni ’60.

Le dimensioni prevalenti sono quelle tipiche delle imprese locali, intorno ai 5 miliardi, ma vi rientrano anche aziende con livelli di vendite superiori, fino a 25 miliardi. Gli andamenti del fatturato a valori correnti risultano stabili o in debole crescita, considerando l’inflazione si ha quindi un tendenziale calo. Alcune sono cresciute rapidamente fino agli inizi degli anni ’90, poi hanno visto gradualmente ridimensionare il giro d’affari. Il rapporto addetti fatturato non presenta caratteri uniformi, anche se sembra trasparire una maggiore integrazione produttiva nelle imprese di più vecchia costituzione.

La percentuale di export è bassa, intorno al 10-15%, se pure con oscillazioni talvolta marcate nel corso degli anni, a dimostrazione di come il rapporto con i mercati esteri sia vissuto con logica occasionale, senza tuttavia rinunciare a rapide espansioni nelle aree di sbocco privilegiate, che si sono periodicamente affacciate nell’esperienza internazionale del distretto. Lo scarso interesse nella ricerca di interlocutori alternativi ha portato queste imprese a rivolgersi o verso le aree “di conquista” (paesi arabi negli anni ’80 ed Est Europa attualmente), o verso i paesi europei più vicini e sicuri, serviti però in maniera frammentaria e non regolare. L’attenzione verso il mercato europeo, se pure con posizioni residuali e di nicchia, rappresenta però un aspetto positivo come presupposto necessario per sviluppare capacità commerciali più avanzate.

Queste imprese possono essere definite come le “promesse non mantenute” del distretto, incapaci di fare quel salto di qualità che, a partire dagli anni ’80, pareva coerente con le loro potenzialità. Non sono invece riuscite né a proporsi efficacemente sul mercato interno, sul quale hanno visto lentamente ma costantemente erose le quote delle regioni meridionali, né a compensare la contrazione con una maggiore presenza in altre aree nazionali o estere. I limiti sono quelli classici della piccola dimensione e di una cultura imprenditoriale che ha mantenuto un approccio al mercato ormai inadeguato, con commesse procurate di volta in volta dagli agenti o dagli importatori incontrati nel distretto, oppure raccolte direttamente dai clienti finali (singoli dettaglianti o piccole catene, ma mai grande distribuzione) contattati in occasione di fiere nazionali. Le cause del mancato sviluppo sono anche da attribuire a difficoltà di ricambio generazionale (come accennato, sono molte quelle nate negli anni ’60 o prima), o più semplicemente alla debolezza di motivazioni da parte dell’imprenditore-fondatore, più propenso a difendere posizioni di quasi-rendita piuttosto che ad affrontare i rischi e le difficoltà del cambiamento. Alcune di queste imprese mostrano evidenti segni di involuzione che, in mancanza di iniziative di riorganizzazione interna e commerciale, le porteranno verso posizioni sempre più marginali.

Piccole esportatrici

Sono imprese con fatturato sotto i 2 miliardi, nate negli anni ’70 e ’80, con quote elevate di fatturato export. Possono a loro volta essere divise in due tipologie: quelle con specializzazione di nicchia e quelle che potremmo definire pluriprodotto adattabili.

Le prime concentrano la produzione su particolari lavorazioni - sono per esempio specializzate nel mobile in giunco - oppure hanno una specializzazione di stile, o sono

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produttrici di particolari complementi di arredo. Sono generalmente imprese con un elevato numero di addetti in relazione al fatturato, a dimostrare che si tratta, date anche le dimensioni, di specializzazioni a spiccato carattere artigianale.

Le altre hanno un profilo opposto: mancano di una specializzazione per prodotto e hanno pochissimi dipendenti, talvolta limitati ai soli impiegati. Si tratta in realtà di imprese che hanno rinunciato alle funzioni produttive e coordinano una rete di subfornitori per approntare produzioni su commessa.

Mentre le prime sono nate prevalentemente negli anni ’60, stabilizzandosi subito su dimensioni contenute, considerate dagli stessi imprenditori soddisfacenti dal punto di vista economico e compatibili con le loro capacità gestionali, il secondo gruppo si è più spesso originato negli anni ’80, in seguito alla rapida espansione dei mercati mediorientali. Non a caso la data di nascita coincide con la data di inizio delle esportazioni, mentre per il primo gruppo l’export si sviluppa diversi anni dopo l’inizio dell’attività.

Tutte però sono caratterizzate da un’alta propensione all’export, soprattutto nel caso delle despecializzate, la cui identità è appunto esclusivamente tarata sulla domanda dei mercati esteri, con una totale impegno nell’attività di vendita; mentre per le imprese specializzate le energie rivolte ai mercati esteri restano condizionate dalla maggiore attenzione riservata al coordinamento delle fasi di produzione e alla cura del prodotto.

Caratteristica comune è anche l’elevata varietà e variabilità dei mercati di riferimento, con un maggior peso relativo dei paesi del Medio Oriente - che sono presenti anche nelle ultime rilevazioni - e dell’area dell’Est europeo. Pur assecondando le occasioni provenienti da ogni parte del mondo, queste imprese mostrano quindi un particolare orientamento per i mercati in forte sviluppo; anzi, la loro piccola dimensione e l’elevata versatilità è tale che, anche quando tali mercati terminano il loro ciclo di espansione e si contraggono (come il Medio Oriente), riescono a conservare spazi residuali, sufficienti per l’impresa ad alimentare un flusso continuo di esportazioni. I contatti con i clienti sono tenuti di solito direttamente dall’imprenditore; si tratta spesso di singoli dettaglianti, incontrati nelle fiere o durante viaggi all’estero, che continuano a essere visitati tramite agenti o dall’imprenditore stesso.

In questo raggruppamento si assiste quindi, paradossalmente, a una capacità di azione all’estero che può essere letta come più attiva e più diretta di quanto non facciano molte delle imprese delle tipologie precedentemente considerate. Occorre però ricordare che si tratta di aziende che sviluppano fatturati minimi, offrendo una specializzazione “di ruolo” nel circuito in cui sono inserite. E’ interessante constatare che, nuovamente, il loro profilo è creato dal mercato internazionale e dai suoi sistemi di connessione.

Esportatrici saltuarie

Sono imprese che vivono solo saltuariamente le esperienze esportative e conservano il mercato interno come riferimento privilegiato. Le dimensioni variano (da 2-3 miliardi a oltre 10) e sono generalmente caratterizzate da basse percentuali di fatturato export. Vendono all’estero solo quando si presentano occasioni che non comportano eccessivi cambiamenti nei piani di produzione e che non richiedano modifiche di prodotto, ad eccezione dei salotti per i quali il rivestimento personalizzato è facilmente realizzabile.

Si tratta di imprese nate per lo più negli anni settanta che hanno iniziato a esportare a cavallo fra gli anni ‘70 e ‘80. Il rapporto addetti/fatturato è medio-alto, con una

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correlazione già osservata in altre tipologie rispetto all’anzianità dell’azienda e al livello del fatturato totale.

La varietà di mercati serviti non è elevata e prevalgono i contatti diretti con i rivenditori finali, da cui provengono le richieste sulla spinta dell’esigenza di trovare assortimenti esclusivi o a costo minore, evitando il ricorso a intermediari, quali agenti o importatori. Molto spesso si tratta di negozianti europei che, data la vicinanza (tipico il caso della Svizzera), non devono sopportare eccessivi costi di trasporto, pur acquistano quantitativi limitati. Il peso dei mercati europei è infatti rilevante, ma è alta anche la presenza nei mercati emergenti, non cercati ma assecondati, con rischi ridotti al minimo dato il rigoroso utilizzo di modalità di pagamento sicure.

La strategia è quindi volutamente passiva, né sembrano trasparire intenti diversi per i prossimi anni: a parte qualche caso di orientamento verso un aumento del numero di mercati di esportazione, la maggior parte di queste imprese non manifesta alcuna volontà di rafforzare l’impegno sui mercati esteri. Considerando però che i fatturati sono stazionari nel corso degli ultimi 10 anni (quindi in costante calo se si considera l’inflazione), e che non sembrano esserci prospettive di significativo recupero sul mercato domestico, la situazione di queste imprese appare caratterizzata da prospettive tutt’altro che positive.

Imprese marginali

Caratterizzate da fatturati minimi, che non arrivano al miliardo di lire annue, rappresentano il pulviscolo imprenditoriale del distretto, pur costituendone complessivamente una parte significativa. Subiscono forti oscillazioni nell’incidenza del fatturato export, in genere corrispondenti ai periodi di espansione e successiva contrazione delle aree di riferimento del distretto (Paesi Arabi, USA, Est Europa). La loro presenza è quindi precaria su tutti i fronti: non riescono a consolidare né i rapporti sul mercato interno né quelli sui mercati esteri, e quindi cercano di volta in volta nuove occasioni per sopravvivere. In questo raggruppamento si rileva la più elevata mortalità (vi appartengono alcune delle imprese di cui non si sono avute più notizie o che hanno cessato l’attività).

I mercati di riferimento sono pochi, semplicemente perché le dimensioni delle imprese non consentono di soddisfarne un numero maggiore, ma sono molto variabili. I contatti avvengono attraverso intermediari di ogni genere, senza una figura prevalente, oppure in modo diretto.

La maggior parte di queste imprese è nata negli anni ’70; ma ve ne sono anche molte nate in precedenza, che non hanno svolto attività esportativa per tutto il periodo di espansione del mercato nazionale, iniziandola alla fine degli anni ’70 o nel corso degli anni ’80.

Anche in questa tipologia, come per altre già viste, vi sono imprese con un numero di addetti relativamente alto rispetto al fatturato e altre con spiccata caratterizzazione commerciale, con pochissimi operai assemblatori. In generale, il rapporto addetti/fatturato rimane basso, e questo spiega la capacità di sopportare andamenti fortemente irregolari, sia nelle vendite che nelle percentuali di export. La flessibilità è però in questi casi una condizione che si realizza nell’ambito di un precario equilibrio fra permanenza nel mercato e rischio di estromissione.

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Tavola 1 – Schema di riepilogo tipologie imprese esportatrici Nuove esportatrici Esportatrici consolidate Esportatrici Piccole esportatrici Esportatrici Imprese Nate in periodi

Precedenti Nate recentemente Forti esportatrici

stabilmente presenti nei

mercati esteri

Radicate nel mercato interno e

regolarmente presenti sui

mercati esteri

Forti esportatrici per necessità

statiche Con specializ-zazione di nicchia

Pluriprodotto adattabili

saltuarie marginali

Anno di nascita

Anni ‘70 Anni ‘90 Anni ’70 o prima Anni ’60 - Anni ‘80

Anni ‘60/’70 Da anni ’50 a’70 (soprattutto ’60)

Anni ‘60/’70 Anni ‘80 Anni ‘70 Anni ‘60/’70 (soprattutto ’70)

Anno inizio export

Anni ‘90 Contemporaneo alla nascita

Inizio anni ‘80 Anni ‘80 Anni ‘80 Molto variabile Anni ‘70/‘80 Contemporaneo alla nascita

A cavallo fra ’70 e ‘80

Fine anni ’70 Anni ‘80

Dimensione di fatturato

Sotto i 5/6 mld Sotto i 5/6 mld Circa 10 mld Da 6 a 40 mld Mediamente di poco sopra i 10

Sotto i 5/6 mld Da 3 a 24 mld Sotto i 2 mld Sotto i 2 mld Da 2/3 a 10 mld Sotto 1 mld

Rapporto ad-detti/fatturato

Basso Basso Alto Alto Basso Variable, ma superiore fra quelle più anziane

Alto Molto basso Alto Variable

Incidenza % export

Medio-alta Alta Alta Medio-bassa Alta Bassa (10-15%) Alta Molto alta Molto bassa Molto variabile

Numero Mercati

Molti Molti In aumento Molti in aumento Molti Pochi Molti Molti Pochi Pochi

Aree di destinazione

UE in piccole % Est Europa

UE in piccole % Est Europa

Europa occ. Nord-America Est Europa

Tutte Tutte Europa occ. Est Europa

Tutte, ma soprat-tutto lle emergenti

Tutte, ma soprat-tutto quelle emergenti

Europa occ. Mercati emergenti

Tutte

Variabilità mercati

Alta Alta Media Alta Alta Bassa Alta Alta Media Alta

Canali Utilizzati

Di frontiera Di frontiera Tradizionali per il distretto

Tradizionali Tradizionali Tradizionali Tradizionali Diretti Diretti Diretti Tradizionali

Vari

Strategia esportativa

Passiva Passiva Reattiva/attiva Passiva/reattiva Reattiva Passiva Reattiva Apparentemente attiva e diretta

Passiva Passiva

Possibilità svi-luppo di rela-zioni evolute

Moderata Moderata Alta Moderata/alta Moderata/bassa Bassa Bassa Bassa Nulla Nulla

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7. I produttori di cucine alla ricerca di un ruolo trainante nei mercati esteri

L’osservazione dei produttori di cucine alla luce della tipologia precedentemente individuata ha permesso perseguire alcune finalità: innanzitutto quella di verificare la valenza della tipologia stessa quale strumento per interpretare i caratteri e i comportamenti delle imprese distrettuali finali nei loro rapporti coi mercati esteri. Inoltre, recuperando la natura dinamica dei profili individuati, si è cercato di delineare il possibile quadro di evoluzione delle imprese produttrici di cucine in merito alle quali, pur mancando un vissuto di riferimento nell’attività esportativa, doveva essere verificata la possibilità che esse ripercorressero gli sviluppi seguiti degli altri produttori finali; in realtà, il mutato scenario economico e competitivo pone tutte le imprese, indistintamente, di fronte a situazioni la cui interpretazione difficilmente trova spunto nelle vicende trascorse (decentramento internazionale della produzione, delocalizzazione, nuovi competitori internazionali). Infine, tenuto conto di svariati aspetti strutturali e strategici che differenziano attualmente alcuni dei produttori di cucine rispetto alla generalità del distretto, si è cercato di comprendere come la diversa capacità di azione dimostrata da tali imprese sul mercato interno potesse costituire anche all’estero un punto di riferimento in grado di innescare modalità di approccio diverse rispetto a quelle finora sperimentate e se anche a livello internazionale potesse essere svolto quel ruolo di “generatore di relazioni” per il distretto che ne ha finora decretato la leadership sul mercato interno.

Prima di affrontare l’analisi è necessario richiamare brevemente alcuni elementi che emergono dall’indagine sui cucinieri e che saranno utili alle considerazioni successive. Fra i produttori di cucine del distretto si trovano realtà imprenditoriali alquanto eterogenee, con alcune imprese leader (tre in particolare) che hanno dimensioni notevolmente maggiori rispetto alle altre e che riescono a fronteggiare il mercato con logiche di marketing improntate all’affermazione del marchio e a un massiccio ricorso alla comunicazione pubblicitaria. Se si escludono questi produttori, tuttavia, il panorama di imprese presenta caratteri molto simili a quelli tipici degli altri produttori finali del distretto, sia come dimensioni di impresa che come logiche gestionali e commerciali. Tuttavia, alcuni cucinieri si distinguono per un maggiore orientamento alla ricerca di caratteri distintivi nella propria offerta, posizionandosi su fasce di mercato più qualificate e rivolgendo più attenzione alla valorizzazione del marchio, mentre altre perseguono una leadership di prezzo. In entrambi i casi però le scelte di posizionamento non si spingono oltre i limiti consentiti dai canali distributivi utilizzati, che sono gli stessi per tutti, perché oltrepassarli significherebbe rivedere tutta la struttura commerciale rivolgendola, nel primo caso, ai soli distributori di fascia alta e di design d’arredamento e, nel secondo caso, alla grande distribuzione (mercatoni e grandi superfici a succursali). Le dimensioni di questi produttori, che sono circa un quarto del totale, sono già ragguardevoli per i distretto, intorno ai 10-15 miliardi di fatturato annuo, coerentemente con la capacità di sostenere livelli superiori di controlli di qualità, di servizio e di investimenti a sostegno del marchio o, nel caso di chi persegue la leadership di prezzo, di conseguire maggiori economie di scala negli approvvigionamenti e nei processi produttivi interni.

Le restanti imprese presentano un’identità molto meno delineata e caratteristiche, sia dimensionali che nelle condotte gestionali, del tutto assimilabili a quelle riscontrate presso gran parte delle imprese produttrici finali del distretto. Le dimensioni di fatturato si collocano al di sotto dei dieci miliardi annui ma mancano le microimprese: la

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maggiore complessità del prodotto “cucina componibile” richiede infatti una minima dotazione organizzativa tale da consentire il coordinamento del rapporto coi subfornitori e, soprattutto, di fornire il necessario supporto informativo ai dettaglianti durante la realizzazione del progetto per il cliente finale.

I comportamenti nei mercati esteri tenuti dai produttori di cucine in questi primi anni di esperienza internazionale sono in gran parte riconducibili entro alcune delle tipologie precedentemente descritte, con delle differenze comunque evidenti fra le imprese leader, che pure impegnandosi nello sviluppo dei mercati esteri mantengono la quota di export più contenuta fra i cucinieri, le imprese posizionate su fasce medio-alte, maggiormente impegnate nel consolidamento delle posizioni sul mercato interno, le imprese che perseguono una leadership di prezzo, più sbilanciate verso l’estero, e le restanti imprese minori, tendenzialmente più proiettate verso le opportunità provenienti dai mercati emergenti e in alcuni casi già con alte incidenze di fatturato export.

Le tipologie di riferimento sono individuabili innanzitutto in quella delle nuove esportatrici, specialmente per i cucinieri minori e per quelli intermedi con orientamento alle politiche di prezzo, ma in prospettiva, quando la fase di forte sviluppo delle esportazioni legata all’apertura dei mercati est-europei si sarà stabilizzata, molte di queste imprese, soprattutto fra quelle minori, finiranno probabilmente per identificarsi nel profilo delle esportatrici statiche o delle esportatrici saltuarie, incapaci quindi di trarre spunto dai nuovi rapporti internazionali per innescare un processo di crescita dell’impresa. Altre, fra cui le imprese leader, rientreranno fra le esportatrici consolidate, anche se difficilmente verrà modificata l’attuale maggiore vocazione per il mercato nazionale. Non è escluso, tuttavia, che proprio l’apertura ai mercati esteri favorirà la crescita di alcune imprese portandole a caratterizzarsi per una forte propensione all’export, rendendo possibili successivi sviluppi dei percorsi di internazionalizzazione attraverso forme più dirette e impegnative di presenza all’estero.

Ciò che conta osservare, tuttavia, è che attualmente non si sta assistendo a modalità di approccio ai mercati esteri diverse da parte dei cucinieri leader. La maggiore dimensione, e con essa le maggiori dotazioni strutturali e organizzative, unitamente a un’esperienza sul mercato interno che segnala indubbia capacità di azione strategica, potevano far presupporre comportamenti più evoluti rispetto a quanto osservato per la generalità del distretto. Prevalgono invece le classiche condotte già sperimentate in passato dagli altri produttori locali, fondate sull’occasionalità della ricerca dei partner e sulla dispersione ad ampio raggio dei tentativi di penetrazione, limitando la programmazione e con essa la consapevolezza delle potenzialità e degli obiettivi perseguibili. D’altra parte non potrebbe essere altrimenti, mancando ancora, in generale, il necessario travaso di competenze dall’esterno del distretto in grado di introdurre elementi nuovi nelle modalità di gestione del rapporto coi mercati. Le competenze si formano all’interno del distretto, quasi sempre con percorsi isolati che impediscono l’acquisizione di metodologie e strumenti manageriali diversi da quelli sperimentati in zona.

E’ tuttavia presente, negli imprenditori, la consapevolezza di dover modificare la propria capacità di azione per sostenere rapporti internazionali che non potranno più essere analoghi a quelli già vissuti. I mercati che si prospettano nel lungo periodo, e lo scenario competitivo che si va delineando, stanno già mettendo in luce la necessità di affrontare l’internazionalizzazione andando oltre la sola attività esportativa. Questo richiede risorse che non sempre la piccola dimensione o il livello di cultura aziendale

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raggiunto permettono di impiegare e richiede anche logiche strategiche attualmente tutt’altro che scontate.

8. Riflessioni sui profili di impresa e considerazioni conclusive

Una prima considerazione riguarda la natura stessa dell’esperienza internazionale, che presenta quasi sempre aspetti contraddittori. Non necessariamente infatti la vendita nei mercati esteri risulta più difficile di quella nel mercato domestico e fonte di apprendimento, può anzi rivelarsi più facile perché il canale di distribuzione, soprattutto verso paesi vicini ed evoluti (vedi alcuni paesi europei), si attiva autonomamente e a volte in modo diretto, eliminando i passaggi intermedi, liberando l’impresa da ogni problema relativo alla commercializzazione, spesso garantendola anche sul piano finanziario, con pagamenti più solleciti e sicuri o anche con il prefinanziamento della commessa.

Dipenderà dall’impresa e dell’imprenditore saper intuire le potenzialità dei mercati contattati e sfruttare l’occasione per attivarsi e sviluppare strategicamente queste esperienze, apprendendo dal contatto con il cliente distributore. Cosa che però non necessariamente avviene, come ampiamente provato dal caso pesarese, che vede molte imprese statiche, sul fronte dello viluppo interno e di quello internazionale, a riprova della sostanziale omogeneità del carattere passivo delle due esperienze. Il rischio è infatti quello che le imprese restino condizionate e viziate dalla delega al canale, che è implicita in questo tipo di rapporti; esposte però all’evenienza di una rottura anche improvvisa delle relazioni, determinata dalla mutata convenienza del partner; sorte che deve essere toccata a più di un’impresa del pesarese. Fra le imprese marginali, e cioè quelle che hanno dimostrato incostanza e marginalità nelle esperienze internazionali, ma anche in quelle domestiche (alcune di queste nel corso della ricerca hanno chiuso l’attività o hanno mostrato una sospetta indisponibilità all’intervista), ci sono molto probabilmente quelle che si sono bruciate sui mercati emergenti e rischiosi, ma anche quelle che sono state tagliate fuori da contatti avuti con distributori di paesi avanzati, protagonisti delle loro scelte e del loro marketing di acquisto.

Non tutti i contatti con mercati evoluti sono quindi utili allo sviluppo delle capacità strategiche delle imprese: oltre che l’atteggiamento dell’impresa e la maggiore o minore solidità del mercato di riferimento, conterà anche (com’era nelle ipotesi iniziali) il profilo del partner e la natura della relazione instaurata. Paradossalmente, maggiori probabilità di apprendimento e di emancipazione si potranno trovare nei rapporti con clienti che chiedono una strettissima aderenza ai propri obiettivi, non solo relativamente alle condizioni di vendita e ai servizi offerti, ma anche alle specifiche dello stesso prodotto (come i grandi e medi distributori). Questo tipo di legame - pur comportando una forte subordinazione iniziale - metterà a contatto con la strategia del cliente e quindi indirettamente con le esigenze del suo mercato.

D’altra parte, le vere esperienze “ di frontiera”, quelle che comportano relazioni di natura precaria e rischiosa con mercati emergenti e figure di intermediari meno radicate, anche se rimangono episodiche o si concludono in un arco di tempo piuttosto breve, possono essere stimolanti, fornendo all’impresa un’occasione di maggiore esperienza e obbligandola a essere reattiva, e a volte anche attiva. Dalla vivacità di questi contatti può infatti venire una componente di quella attitudine disinvolta e flessibile che molte imprese del distretto hanno saputo “consolidare” in anni di vagabondaggio da un

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mercato all’altro, facendo dell’internazionalizzazione necessità e virtù, dividendosi contemporaneamente su più mercati e trattando con interlocutori diversi per cultura e pratiche commerciali, ma spesso ugualmente motivati a creare contatti per sfruttare le opportunità che di volta in volta scaturivano dalle varie congiunture di mercato o dall’emergere di nuove aree e nuove nicchie di consumo. Imprese pronte anche a collaborare per portare gli adattamenti eventualmente necessari, o in alcuni casi a creare prodotti specifici.

Complessivamente, dall’analisi dei profili delle esportatrici pesaresi, si notano quindi, due situazioni di fondo. Per alcune categorie di imprese, si possono infatti osservare delle dinamiche evolutive, più o meno veloci, a volte anche squilibrate, che però vedono il processo di internazionalizzazione come elemento fondamentale della loro qualificazione; percorsi che se non sempre hanno garantito lo sviluppo, hanno almeno permesso una crescita che ha reso le imprese più naturalmente predisposte ad affrontare l’evoluzione del mercato.

Altre, invece, mostrano una tenuta sostanziale, che coinvolge anche l’export, in modo più o meno significativo, ma che non riesce ad avviare uno sviluppo né quantitativo, né qualitativo; solo per poche di queste si vedono segni di reazione verso un più solido e equilibrato sviluppo internazionale.

Preoccupa che questo secondo profilo sia quelle prevalente delle imprese intervistate. Anche se la loro consistente presenza testimonia le possibilità di sopravvivenza che nascono dall’estrema varietà delle occasioni che offrono i mercati, per le loro diverse connotazioni o congiunture, e anche perché i segmenti degli stessi mercati si muovono a velocità diverse, conservando abitudini e stili (per esempio di arredo) che fanno ritrovare a livello internazionale spazi già chiusi sul mercato domestico: in alcuni casi si vende all’estero quello che non si vende più in Italia; fenomeni che danno più tempo alle imprese per trasformarsi, ma che certo non risolvono il problema delle loro prospettive a medio termine.

Ci sono poi dei profili che si vanno via sfrangiando verso una marginalità di posizioni, sul mercato interno e su quelli internazionali, che viene però sempre esposta al pericolo di espulsione dal tessuto industriale, a causa della minore complessiva tenuta della domanda, che elimina i più deboli, ma anche del maggiore consolidamento dei circuiti, nati dalle nuove dinamiche competitive.

Riassumendo, possiamo dire che la varietà dei profili di imprese esportatrici che troviamo nel distretto pesarese è probabilmente il portato inevitabile di una fase di lungo avvio dell’esperienza internazionale del distretto, che dagli anni ’70 passa attraverso varie ondate di opportunità offerte da nuovi mercati e una non brillante, ma costante serie di rapporti con i vicini mercati europei.

A partire dalla varietà delle occasioni di sbocco e dei tipi di relazioni instaurate, le imprese pesaresi sviluppano differenti esperienze che contribuiscono a delineare i profili delle imprese. Alcune, come abbiamo visto, si strutturano in funzione di un’esperienza che combina il mercato domestico con quelli esteri, per altre la relazione è esclusiva: lo dimostra l’esistenza di tipologie le cui connotazioni coincidono con il loro essere esportatrici; per altre, invece, l’export non è riuscito a funzionare da elemento emancipatorio, condannando le impresa un profilo ingessato sulla passata esperienza.

Le considerazioni che scaturiscono dalla nostra indagine ci riportano al linguaggio delle reti, focalizzando tre aspetti del fenomeno analizzato: la completezza del tessuto distrettuale, la qualità delle relazioni, il profilo dei soggetti.

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Relativamente al primo aspetto, si può affermare che, probabilmente, alla rete distrettuale mancano dei “nodi”, e cioè dei punti di collegamento semplicemente funzionali a creare relazioni più complessivamente efficaci, con il mercato e la distribuzione, ma anche con l’ambiente di appartenenza.

Molte delle recenti riflessioni sulle piccole imprese e sui distretti concentrano l’attenzione sui servizi all’internazionalizzazione, denunciandone la carenza o il cattivo coordinamento. Meno evidenziato risulta il problema della comunicazione fra imprese e istituzioni del territorio, i cui limiti possono impedire ad un’offerta di servizi già esistente di operare nel modo più efficace. Infatti le imprese, per limiti strutturali e soggettivi, spesso non sono informate o non sono motivate a ricorrere a tali servizi, anche perché per un insieme di fattori non scatta il meccanismo della fiducia. Così, iniziative valide di informazione e promozione realizzate da organismi distrettuali, pubblici e privati, rischiano di rimanere distanti dalla sensibilità delle imprese e dalla loro capacità di valorizzarle a proprio beneficio. E’ provato ormai che quelli che sanno usufruire dei servizi offerti dall’ambiente sono in genere gli operatori più validi: meccanismo senz’altro virtuoso, ma che rischia di essere troppo selettivo.

Come evidenziato dalla ricerca, ci sono profili di impresa che pur dimostrando una forte attitudine alla sopravvivenza, stentano a fare il salto di qualità richiesto da un processo di crescita e di internazionalizzazione; il cambiamento non può quindi essere affidato alle capacità naturali dei soggetti, né può essere risolto con servizi informativi, promozionali, assicurativi, finanziari, validi per tutti e poi in realtà effettivamente utilizzati solo da pochi.

L’esigenza è già nota ed è stata fin qui affrontata con una politica di personalizzazione dei servizi, orientamento che ispira ormai tutte le istituzioni di sostegno alle piccole imprese, ma che non sembra trovare sufficiente riconoscimento da parte delle imprese. Senza entrare nel merito della natura e della qualità dei servizi offerti dall’ambiente distrettuale - che è già argomento di ampio dibattito - il sospetto che nasce guardando i profili delle esportatrici pesaresi - tuttavia emblematici della situazione di molte piccole e medie imprese italiane - è che la “distanza” fra imprese e istituzioni deve essere colmata da soggetti intermedi, che assumano l’ottica specifica dell’impresa, con l’obbiettivo di collegarla meglio a quella rete di relazioni, nel distretto e fuori, che le è ormai indispensabile. Figure nuove, o radicalmente rinnovate: il riferimento è al classico ruolo del commercialista, che occuperebbe la “posizione” giusta nella rete, ma che è troppo orientato e comunque forse troppo immerso nella stessa cultura distrettuale da cui derivano le carenze che devono essere sanate. Una nuova generazione, non di figli di imprenditori, ma piuttosto del distretto, che grazie alla propria formazione e sensibilità sappia mediare fra le varie esigenze (e carenze) del tessuto industriale locale, praticamente inventando il proprio ruolo.

La saldatura che le figure professionali delineate potrebbero dare alla rete distrettuale può anche derivare da dinamiche di tipo diverso. Il rafforzamento delle imprese - in questo caso la possibilità di affrontare i propri limiti internalizzando le competenze necessarie - potrebbe infatti passare attraverso una trasformazione strutturale di altro genere, già vissuta da altri distretti. Ci si riferisce alla formazione di gruppi di imprese che, come risulta evidente nell’esperienza del comparto veneto dell’Alto Livenza (Perin 1993), può dare alle imprese una maggiore completezza di offerta, di prodotti e servizi, e un maggior potere contrattuale nei confronti di clienti.

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Non a caso i gruppi mobilieri del distretto veneto sono cresciuti in riferimento al mercato tedesco e ai contatti con la grande distribuzione di quel paese.

Perché sia possibile una modifica del tessuto industriale del distretto verso i gruppi di imprese ci deve però essere una spinta da più parti: innanzitutto dalla domanda che, come quella dei grandi clienti, deve motivare a ragionare in termini di economia di scala e di scopo; poi naturalmente dalla realtà delle imprese, che devono essere già culturalmente predisposte a uno snaturamento rispetto al consueto operare del piccolo imprenditore, che consiste in una parziale perdita di autonomia, in un aumento delle dimensioni, in uno stile di gestione più manageriale, e infine in una trasformazione dell’ambiente, soprattutto dal punto di vista della qualità delle infrastrutture, prima fra tutte quella necessaria all’efficienza del circuito logistico.

Nel caso di una ristrutturazioni per gruppi, non si aggiungono “nodi”, ma si rinforzano quelli esistenti per migliorare la qualità delle relazioni esistenti e crearne di nuove, più qualificate. Che questo sia possibile, o anche solo auspicabile nel caso del distretto pesarese, è piuttosto difficile dirlo. Ci sono già delle esperienze in tal senso, ma il processo di concentrazione non sembra decollare più di tanto, o almeno non al punto da proporsi come modello alle altre imprese; anche perché gli obbiettivi delle imprese che attivano queste trasformazioni sono meno chiari o semplicemente meno visibili di quelli delle imprese del comparto veneto. Mentre queste sono, infatti, chiaramente sollecitate dal rapporto con il tipo di mercato servito, per le imprese pesaresi, la costituzione di gruppi aziendali sembra più dettata da motivazioni relative al tipo di crescita (che avviene spesso per “clonazione”, piuttosto che per crescita interna) e comunque non direttamente legati alla preoccupazione degli sbocchi-mercato.

Nel corso delle interviste, si è piuttosto notato, da parte di alcune imprese, un esplicito interesse per la cooperazione consortile, forma più blanda e meno definitiva, che può rinforzare le imprese nell’avvicinamento a certe aree mercato, come già avvenuto nell’esperienza di alcuni consorzi export del distretto (per il Sud Est Asiatico, per esempio), modello che però non si è poi diffuso, né sembra acquistare forza propositiva in questa fase.

Complessivamente, le trasformazioni strutturali che derivano da cooperazione o accorpamenti di natura orizzontale, per esempio fra imprese che si affacciano tutte al mercato, possono avere il loro spazio, soprattutto in determinate circostanze, e cioè per particolari obbiettivi-canale (forniture contract) e specifici obbiettivi-mercato (aree e mercati difficili); non sembra però che possano rappresentare le dinamiche su cui si può basare il rinnovamento del comparto pesarese.

L’attenzione va piuttosto alle forme di cooperazione verticale. Innanzitutto, quella a monte che lega le imprese ai propri fornitori distrettuali e poi quella a valle, verso il canale di distribuzione.

In queste relazioni ci sono, infatti, trasformazioni visibili e fra loro interrelate. Il nuovo tipo di flessibilità richiesta dai clienti, unita all’esigenza di dare carattere di maggiore continuità ai rapporti di fornitura, suggeriscono alle imprese esportatrici pesaresi quella doppia tipologia di relazioni che abbiamo già descritta e che si compone di una rosa di fedelissimi, più altri fornitori di riferimento, cui si ricorre quando serve una flessibilità maggiore di quella già abitualmente assicurata dal circuito consolidato.

Il sistema stabile garantisce la continuità, la dimensione, la qualità e il controllo della fornitura - esigenza che, come si è visto nella ricerca, molte imprese hanno preferito affrontare aumentando il grado di integrazione del processo produttivo interno,

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che cresce quanto più ci si collega a sbocchi più evoluti e sicuri. D’altra parte, una rosa di fornitori “di scorta” è necessaria per affrontare dosi inconsuete di varietà e variabilità della domanda, che però non sono poi così rare.

A seconda della natura degli sbocchi si dovranno quindi combinare in modo bilanciato: il grado di integrazione del processo, il grado di fidelizzazione della catena di subfornitura e l’intensità del ricorso a imprese occasionali che servono più circuiti, anche di livello internazionale. Al distretto pesarese non è infatti estranea l’esperienza di subfornitori che vendono a clienti esteri. Rimane quindi strutturale un certo grado di precarietà nelle natura delle relazioni, compensata da un allargamento della rete complessiva e da una crescita qualitativa dei subfornitori, che vivono non tanto la precarietà di ogni singolo rapporto, quanto la tenuta complessiva di un equilibrato portafoglio clienti.

Le relazioni verticali di filiera si confermano quindi di grande importanza, e con loro la natura dei soggetti collegati. Le relazioni si rafforzano, diventando durevoli e cooperative, mentre i soggetti assumono una identità sempre più definita, che permette di scegliere o di essere identificati dal circuito adatto. La compattezza strategica della filiera e l’efficacia del suo posizionamento sul mercato di sbocco dipendono da questa capacità di autodefinirsi e dalla chiarezza delle scelte in tutti i rapporti che la compongono.

Il problema si ripropone a livello di distretto: anche il suo posizionamento è infatti essenziale per dare il massimo della visibilità e della capacità di porsi direttamente sui mercati internazionali, con proprie iniziative. In questo senso il distretto pesarese soffre di un’identità un po’ generica e forse anche un po’ ingenerosa rispetto alla stessa realtà distrettuale. E non per la collocazione in una fascia di prodotto medio-bassa, che rimane la vocazione del distretto, ma proprio a causa dell’ immagine della produzione pesarese che forse meriterebbe una migliore definizione e maggiori investimenti per il design e per le attività promozionali, senza necessariamente tradire gli stili che sono nella tradizione del distretto, ma sicuramente aggiungendone di nuovi. I francesi parlano a questo proposito di una ricerca di “specialità” (concetto spesso riferito al posizionamento del prodotto a marchio commerciale), vale a dire di una differenziazione applicata a un prodotto di fascia media, e costruita su elementi di immagine e di stile ispirati a quelli dei prodotti di fascia superiore e dei marchi più noti, ma non direttamente copiata; prodotti che sono capaci di collocarsi sia nei segmenti intermedi dei mercati avanzati, sia nei segmenti alti delle aree emergenti. La presenza di imprese con buone performance complessive e non lontane da questo tipo di idea-prodotto, contribuisce a migliorare l’immagine dell’intero distretto e può essere elemento catalizzatore per altre imprese.

Possiamo ricordare, infine, che anche per il distretto pesarese rimangono valide le considerazioni che si fanno per tutti gli altri distretti, soprattutto relativamente alla congruità e al coordinamento dei servizi offerti all’area-sistema. Meno giustificate, invece, le preoccupazioni per eventuali dinamiche di delocalizzazione della produzione, che nel caso del distretto pesarese sembrano ancora poco attuali.

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