Novità – Tarka edizioni - Fiabe tibetane estratto · 2016. 12. 3. · mente grato, non solo per...

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radici

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  • radici

  • radicivolumi pubblicati

    Leggende del popolo armeno, a cura di B. Sivazliyan e S. AbbiatiStorie e leggende birmane, a cura di G. Ferraro e G. BuscaglinoStorie e leggende del popolo curdo, a cura di Baykar SivazliyanStorie e leggende dal mondo islamico, a cura di Ada Re

  • a cura di Clifford Thurlow

    FIABE TIBETANE

    TARKA

  • Titolo dell’opera originale:Stories from beyond the clouds. An Anthology of Tibetan folk tales©1975 by Library of Tibetan Works and Archives

    Traduzione dall’inglese di Maria Magrini

    Fiabe tibetanea cura di Clifford Thurlow

    Prima edizione: Novembre 2016

    Tutti i diritti sono riservati

    © 2016 Tarka/Fattoria del Mare s.a.s. Piazza Dante 2 - Mulazzo (MS)www.tarka.it

    ISBN: 978-88-99898-63-2Impaginazione ed editing: Monica Sala

    Finito di stampareDicembre 2016Printbee - Padova

  • INDICE

    Nota dell’editore indiano VII

    Prefazione IX

    Orme nella neve 1

    Il Mago della Pioggia 25

    Fratello “Lungo Giorno di Primavera” 49

    Siruk Khabub 69

    La statua e il gioiello 85

    Fiori di carta 105

    Le tre sorelle 127

    Perché il pesciolino rideva 149

    Il cadavere parlante 167

    Il re e il ladro 183

    Lo strano sogno 201

  • NOTA DELL’EDITORE INDIANO

    La Library of Tibetan Works & Archives, fondata nel novembre 1971, è l’attuazione dei lungimiranti programmi di Sua Santità il Dalai Lama per conser-vare, perpetuare e far rivivere la cultura e la sapienza tibeta-ne. Quelli che non conoscono a fondo il tragico destino del Tibet e delle sue pittoresche e pacifiche popolazioni non potranno apprezzare o valutare le grandi speranze che que-sta istituzione rappresenta, a meno che non siano sensibili alla tragedia della distruzione di una cultura.

    L’antologia di racconti popolari raccolta da Clifford Thurlow rappresenta solo un piccolo ma significativo con-tributo all’arduo compito della Library, che è quello di riu-nire gli sparsi frammenti di una cultura sull’orlo dell’estin-zione. Queste leggende sono particolarmente importanti in quanto rappresentano una minuscola parte della tradi-zione orale della cultura tibetana.

    La Library of Tibetan Works spera di pubblicare e pre-sentare al mondo anche altre opere letterarie del genere, gemme dello spirito tibetano.

    Nel frattempo auguriamo al lettore molte ore di pia-cevole e serena lettura e un felice bon voyage a Shangri-la.

    maggio 1974 Gyatsho Tshering

  • PREFAZIONE

    Le leggende popolari si assomigliano in tutto il mon-do, perché parlano della gente. Non la gente comune che incontriamo durante il viaggio della nostra vita, ma tutto il segreto e affascinante popolo dei maghi con un solo occhio, dei giganti cattivi, dei principi e delle fate che intrec-ciano magiche danze volando fra le pieghe dell’arcobaleno.

    Tutti questi fantastici personaggi non sono che proie-zioni della nostra stessa mente, dei fenomeni misteriosi che giacciono addormentati nella profondità del nostro sub-conscio: un’evasione dal tedioso turbinare della vita quoti-diana che noi ci costruiamo tutt’attorno come le mura di un castello.

    Gli adulti presumono che le storie di fate siano adatte solo ai bambini, la cui mente si libra su nubi invisibili nel mondo celeste della fantasia e della finzione. Le leggende popolari però sono scritte per i bambini, ma pensando agli adulti.

    Le figure mitiche che vivono nelle pagine della leggen-da hanno percorso le infinite eternità del tempo, ultimo anello di collegamento con un passato che sfida la corru-zione della storia. Forse solo qui, nel mondo dei sogni, pos-siamo trovare la vera salute, un soffio d’aria pura nel clima intossicato del progresso.

  • X

    FIABE TIBETANE

    Mentre giganti e re combattevano nelle pianure d’Euro-pa, draghi e orchi inseguivano soavi principesse per le mon-tagne dell’Asia. Su entrambe le sponde del mondo antico si andava formando un patrimonio di tradizioni popolari, e i loro possenti eroi e i loro terribili mostri erano esattamente gli stessi. E nessuno può realmente sapere se questa tradi-zione mitica sia fiorita separatamente presso ciascuna gio-vane nazione o se si sia diffusa al soffio mutevole del vento.

    Il tema fondamentale di tutte le leggende popolari è quello dell’uomo onesto, semplice e gentile, che trionfa sulle nere onde del male. Sotto questo aspetto le leggende del Tibet non sono diverse da tutte le altre.

    Ma il Tibet può orgogliosamente pretendere l’onore di essere unico. Mentre le tradizioni di altre antiche civiltà sono impallidite e svanite, il Tibet ha mantenuto vive le sue, nella sua stessa vita quotidiana. Dato il suo isolamento geografico e la naturale indipendenza delle sue genti, l’anti-ca cultura nazionale è sfuggita all’avanzare della moderniz-zazione. Per migliaia di anni il Tibet ha potuto evolversi in pacifico isolamento, poiché le catene dell’Himalaya, che si stendono come un serpente addormentato attraverso l’In-dia del nord, lo tagliano fuori dal mondo.

    L’unico contatto esterno del Tibet, l’unica influenza che abbia ricevuto è dalla Cina. Le complesse culture dei due pae-si hanno potuto convivere in armonia per innumerevoli gene-razioni e le guerre di un’era dimenticata cessarono mille anni fa. Ma la moderna Repubblica Popolare ha la memoria breve. Da quando i comunisti si impadronirono del potere, vecchie ferite si riaprirono; e nel marzo 1959 il Tibet fu conquistato e divenne uno stato satellite della Repubblica Cinese.

    Dal giorno fatale in cui il Dalai Lama, il secolare capo religioso del Tibet, andò in volontario esilio al di là dei

  • XI

    PREFAZIONE

    confini dell’India, la pacifica popolazione del Tibet è dive-nuta un guscio vuoto da riempire con le invadenti dottrine della nuova Cina.

    Solo i vecchi che riuscirono a fuggire attraverso gli alti passi dell’Himalaya portarono con sé le antiche tradizioni popolari, non scritte nei libri, ma custodite nelle loro men-ti e nel loro cuore.

    Il Tibet è sempre rimasto isolato dal resto del mondo. Persino la ruota non esisteva in questa terra eccezionale, dove i grandi animali villosi chiamati yak erano l’unico mezzo di trasporto attraverso le deserte regioni nevose. Ma anche se era povero di progresso materiale, il Tibet custodi-va tesori d’arte, di cultura, di tradizione e di filosofia.

    L’antico modo di vivere si basava sulla scuola più tradi-zionale del pensiero buddhista, che impronta vivacemente le pittoresche leggende locali. Il concetto buddhista di rina-scita e la Legge di causa ed effetto sono un tema ricorrente, perché i tibetani, come ovunque i buddhisti, credono che si raccoglie ciò che si semina. La buona volontà trova sempre la felicità, mentre i malvagi subiscono il castigo dei loro propri misfatti.

    Come i re e i saggi eremiti, altri elementi ricorrono continuamente nelle nostre storie: le montagne e i fiumi, i grandi alberi e le nevi eterne, i viaggi interminabili attra-verso lande desolate. La splendida regione che costituisce il Tibet si estende su un elevato altipiano, che dal fondovalle, a qualche migliaio di metri sul livello del mare, sale ai pic-chi di oltre settemila metri, quasi all’altezza dell’Everest. Se chiuderemo gli occhi e cercheremo di immaginarci questo paesaggio impervio e freddo, eppure di una strana bellezza, potremo sentirci più vicini a coloro che raccontano queste stesse storie ai loro bambini.

  • XII

    FIABE TIBETANE

    Passerà il tempo, e la Legge di causa ed effetto salverà queste tradizioni uniche. Solo quando l’uomo, sia dell’Est che dell’Ovest, si accorgerà della propria follia porrà il Ti-bet su un alto piedestallo.

    Questa piccola antologia di fiabe e leggende popolari è quindi qualcosa di più che un carro magico capace di tra-sportarci attraverso la barriera temporale della mitologia: è anche una voce gentile che ci ricorda l’unità dell’uomo, un passato dimenticato che tutti gli uomini condividono in fondo al loro cuore.

    La raccolta è stata compilata, sotto l’egida della Library of Tibetan Works & Archives, sulle colline del versante in-diano dell’Himalaya, là dove le comunità tibetane conser-vano i loro costumi e praticano la loro fede.

    I racconti ci sono stati narrati da persone anziane, un ex ambasciatore tibetano in Cina, una massaia, il proprietario di un albergo, un monaco buddhista. A loro io sarò eterna-mente grato, non solo per il tempo che mi hanno dedicato raccontandomi le loro storie, ma per la felicità interiore e l’antica saggezza che emanavano dalle loro persone come raggi di sole.

    Sinceri ringraziamenti devo in particolare al mio amico e collega Dala Sonam Khalintsang, studente dell’università di Delhi, che mi ha fatto da interprete. I narratori sono stati Thupten Sangy, Khamtul Rinpoche, Sonam Dhon-dup, la signora Dawa Saldon, Ngawang Norbu, Dhonden, umile monaco buddhista, e molti altri che mi hanno dato il loro contributo di idee, suggerimenti e gentilezza umana.

    Dharamsala, India – settembre 1973 C.T.

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    ORME NELLA NEVE

    Un ruscello d’argento attraversa come la lama di una spada la valle di Lunchung. Bianche creste di schiuma corrono da una roccia all’altra spruz-zando l’erba che verdeggia lungo le rive. Enormi massi sono sparsi irregolarmente qua e là per i verdi pendii, come proiettili primitivi rimasti dopo una battaglia fra uomini grandi come montagne; o forse Memaye, il leggendario gi-gante, passò per questi luoghi quando il mondo era ancora giovane. Minuscoli fiori bianchi e gialli brillano come goc-ce di colore sui clivi di velluto e prima di arrivare al villag-gio il ruscello passa per una piccola foresta di ginepri che si stringono l’un l’altro, come per cercar protezione, mentre il loro profumo si diffonde fino al villaggio e si perde nei campi di orzo.

    Non lontano dal ruscello sorge una casa bianca con un piccolo cortile, dove alcune vacche masticano senza sosta i pochi ciuffi d’erba e le capre ritte sulle zampe osservano la vita fluire, ignorando il mastino che raspa e ringhia e corre in giro a caccia della sua ombra. Una ripida scala di legno rozzamente tagliata porta a un tetto piatto, dove una fila di vasi di terracotta stanno seccando al sole di primavera. Dal tetto si può vedere il fiume che scorre attraverso la macchia

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    FIABE TIBETANE

    di ginepri, fin dove l’occhio può arrivare nell’enorme diste-sa di campi e alberi, fino alle alte montagne che limitano l’orizzonte.

    In questo mondo di pace, erano cresciuti due ragaz-zi, vivendo una vita dura ma spensierata coi loro genitori nella casetta bianca, che distava giusto un tiro di pietra dal fiume dispensatore di vita. Lhaven e il suo fratello mino-re, Lhunden, avevano gli stessi genitori, lo stesso splendido paesaggio intorno, le stesse condizioni di vita: eppure, stra-namente, erano l’uno l’opposto dell’altro. Tanto Lhaven era irascibile e violento, quando Lhunden era paziente; se Lhaven era avido e gretto, suo fratello divideva con gli altri quel poco che aveva; Lhaven era arrogante e maligno, men-tre Lhunden era umile e gentile.

    I due fratelli impararono a vivere secondo il costume del paese. Badavano alle poche pecore, su per le colline, al tempo del raccolto aiutavano a mietere le messi che splen-devano come un lago d’oro e a primavera andavano in cer-ca degli agnelli appena nati, che vagavano con le greggi, e marcavano con colori diversi i giovani velli, per segnare il loro diritto di proprietà. In quegli anni di duro lavoro il volto di Lhunden splendeva di felicità e giovinezza; i suoi occhi brillavano di piacere a ogni nuova esperienza.

    Lhaven non si soddisfaceva così facilmente. Osservava i ricchi signori e i nobili che arrivavano con le loro carovane, gli animali da soma e i servi; e sognava la vita delle grandi città, le vesti di seta e i nastri d’oro da portare nei capelli. Ma faceva anche qualcosa di più che sognare a occhi aperti: macchinava di continuo astuti espedienti per aggiungere qualche magra monetina al suo salvadanaio, che si anda-va lentamente riempiendo. Lhaven era solo un giovinetto quando riuscì ad imbrogliare un vicino gentile privando-

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    ORME NELLA NEVE

    lo dei diritti di pascolo su un lotto di terreno. Ben presto comprò il terreno coi suoi risparmi e così la vita acquistò per lui un nuovo significato. Lhaven era ora un proprieta-rio di terre, e un proprietario astuto, per giunta.

    Passò un anno, e Lhaven aveva una mandria di vacche. L’anno successivo lo vide padrone di greggi di pecore e di yak che trasportavano i suoi prodotti in città. Lhaven aveva ora più terre, più ricchezze, più potere. Aveva lasciato la casetta della sua giovinezza per un palazzo più sontuoso dall’altra parte della valle, al di là del fiume. I suoi servi scattavano quand’egli urlava i suoi ordini, come un gene-rale al comando della battaglia. I servi naturalmente anda-vano e venivano, poiché nessuno riusciva a sopportare per molto tempo la sua tirannia. Ma il nuovo padrone non se ne curava. Ingrassava a forza di affari loschi, schiacciava gli uomini come fiori di primavera e a poco a poco le rughe dell’età, delle preoccupazioni e della paura incisero il suo volto, come solchi al passaggio dell’aratro. L’unico suo pia-cere consisteva nella sua nuova cerchia di “contatti”, cioè in coloro che gli stavano intorno lusingando la sua superbia.

    Lhunden continuò a vivere con i suoi genitori, che in-vecchiavano pacificamente. La vita per lui era ancora un sogno. Guardava il cielo e ne vedeva la bellezza, odorava le foglie d’autunno che si raccoglievano a mucchi come pa-gine di un libro antico, e si sentiva vivo. Respirava l’aria della vita e diffondeva buon umore e gentilezza in tutti gli uomini e gli animali che passavano vicino alla piccola ca-scina dove le vacche continuavano a brucare e le capre ad aspettare e il cane vigilava come una sentinella presso il cancello sgangherato.

    La vita divenne ancor più un miracolo per il fratello minore quando vi si aggiunse una cosa nuova: l’amore.

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    FIABE TIBETANE

    Tholma era una graziosa ragazza del villaggio, che viveva con la sua famiglia ai piedi delle colline dall’altra parte del fiume. Si incontrarono un giorno al villaggio, e ben presto le due famiglie consentirono alle nozze. Molti parenti fu-rono invitati al festino nuziale, zie e zii, cugini di lontane città, vecchi amici dei giorni passati, e naturalmente anche il ricco fratello padrone di terre, Lhaven, il cui sontuoso palazzo torreggiava fra le colline come un castello in un libro di fiabe: il castello di un cattivo genio, naturalmente.

    E così gli invitati arrivarono. Poveri contadini nei loro vestiti delle feste, che avevano tirato fuori pochi vecchi gio-ielli dalla cassette sotto i letti e portavano i doni dei poveri, bene avvolti in carte colorate: ma sorridevano con bianchi denti splendenti, come un raggio di sole in una giornata buia. Un vecchio monaco del convento che sorgeva sulla collina venne a recitare preghiere speciali e tutti i presenti intonarono i magici mantra della lunga vita, della felicità e della ricchezza: non che fosse molto probabile l’arrivo della ricchezza, a meno che gli strani venti del fato non portasse-ro ai due giovani una di quelle gemme che realizzano i de-sideri. E mentre gli altri intonavano le preghiere, il giovane sposo teneva d’occhio la strada serpeggiante che portava al palazzo, perché il suo fratello ricco non era ancora venuto a unirsi agli altri ospiti.

    Scese la sera. Le donne chiacchieravano e gli uomini ridevano e bevevano dalla botte la birra d’orzo e ascoltava-no gli strani racconti del vecchio monaco. Finalmente, in un turbine di polvere, un possente stallone bianco entrò a precipizio nel cortile. Lhaven era arrivato. Entrò, coi ricchi abiti coperti di polvere e un sorrisetto superbo sulle labbra, e gettò uno sguardo sprezzante agli altri ospiti, aspettando che si inchinassero a lui come canne al vento. Si guardò

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    ORME NELLA NEVE

    attorno con disgusto nell’umile stanza, rise e poi galoppò nuovamente fuori della porta. Il cavallo nitrì al tocco della frusta di cuoio e quattro zoccoli ripercorsero il sentiero su per il pendio, fino al castello che si intravedeva scuro e spie-tato in vetta alla collina.

    Un silenzio imbarazzato calò come nebbia sulla stan-za. Ben presto uno dei visitatori mormorò una scusa e se ne andò, poi un altro e un altro. Infine non rimase che il gruppo dei familiari, insieme al vecchio monaco che si sentiva anch’egli sgomento, dopo la strana visita. Lhunden non sapeva perché il fratello avesse agito così stranamente, e nella bontà del suo cuore cercava per lui delle giustifica-zioni. Così la festa nuziale finì: la vita tornava ora al suo ciclo quotidiano: lavorare, mangiare, dormire, sempre in cerca del denaro o dei prodotti necessari per pagare l’affit-to, nutrire vacche e capre e rappezzare gli abiti logorati dal duro lavoro.

    Uno dei due fratelli viveva in una piccola capanna di pietra ai piedi della collina, l’altro in alto, fra le nuvole dei desideri e delle illusioni: una barriera invisibile li separava, i ricordi del passato erano andati perduti, né mai sarebbero nati ricordi nuovi. Là in alto si ordivano piani e intrighi e dalle conchiglie dell’astuzia uscivano monete d’oro. Le ca-rovane che passavano per la piccola cittadina serpeggiavano lungo la valle e su fino al grande palazzo, per rendere omag-gio al signore, noleggiare degli yak o pernottare. Lhunden vedeva crescere la fortuna del fratello come un seme nell’ac-qua; ma invece di provare gelosia o rancore sentiva paura. Gli pareva di vedere il seme gonfiarsi ed esplodere come una nuvola nera, il frutto maligno che nasce dalle azio-ni cattive. Per ogni nuova vetta di potere che raggiungeva, Lhaven si faceva un nuovo nemico: ogni manciata d’oro

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    FIABE TIBETANE

    significava un amico in meno. Lhunden invece era amato e rispettato, ed era proprio questo che Lhaven segretamente bramava.

    Un giorno si diffuse per il villaggio la voce che il “signo-re” stava per sposarsi. Era ormai tempo, dicevano alcuni, “perché sta diventando così grasso che ben presto nessu-na donna ne vorrà sapere”, malignava il falegname. I servi correvano su e giù per la collina come formiche impegnate a costruire un nuovo formicaio; gli artigiani del villaggio furono chiamati a costruire tavole speciali e altri arredi, e ai mercanti delle grandi città furono ordinati cibi prelibati, carni e ogni genere di ghiottonerie.

    Lhaven doveva sposare Dolker, la bella figlia di un gen-tiluomo che era ministro nella capitale del regno. L’avido fratello aveva trovato ciò che tanto bramava. Ora avrebbe acquistato potere nelle alte sfere, avrebbe avuto la possi-bilità di diventare governatore o ministro: tutto ciò che il denaro da solo non può comprare, ma possono ottenere le relazioni influenti. Dolker, diceva la fama, era bella come una notte d’estate, come l’unica stella che splende in un cielo senza luce. Molti pretendenti l’avevano corteggiata, ma Lhaven aveva manovrato e trafficato negli oscuri mean-dri dell’intrigo e della corruzione ed era uscito dal porcile del potere con un fiore di loto in mano. Nessuno sapeva come il piccolo pecoraio del villaggio fosse riuscito a sali-re tanto in alto da chiedere la mano di una bellezza come Dolker: ma in qualche modo Lhaven c’era riuscito.

    Cadevano le prime nevi dell’inverno. I campi d’orzo erano nascosti da un mantello bianco, gli alberi di ginepro emergevano come cappelli appuntiti, il fiume splendeva e sfidava il gelo. I vecchi si raggomitolavano intorno a grandi fuochi di sterco di yak, mentre i giovani saltellavano per le

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    ORME NELLA NEVE

    strade gelate con le guance rosse e i nasi lucidi. Gli animali scalpitavano con gli zoccoli nella neve e continuavano a ruminare: per loro la vita era la stessa in tutte le stagioni, cercarsi il cibo e aver lo stomaco pieno erano la medesima cosa con la pioggia, la neve o il sole. E il giorno delle nozze si avvicinava: erano già stati mandati i biglietti d’invito di-pinti a mano e anche Lhaven stava aspettando di giorno in giorno il suo. Ma l’invito per lui non arrivava.

    Tutto il villaggio uscì nelle strade per vedere gli ospiti che arrivavano alle nozze. Era la cerimonia più importante che il paese avesse mai visto e molti avevano indossato i loro abiti migliori, come se fosse Capodanno. Alcuni ospiti importanti erano venuti fin dalla capitale con dozzine di animali da soma e centinaia di servi. Le carovane avanzava-no lentamente serpeggiando su per il ripido sentiero della collina, al ritmo imposto dal lento passo degli yak. Passa-vano vicino all’umile capanna di Lhunden e gettavano solo uno sguardo fuggevole a quell’uomo dagli occhi tristi che stava ritto nel cortile.

    Sul dorso di possenti yak v’erano grandi palanchini ornati di gemme dove erano seduti personaggi di nobile aspetto, che passavano a testa alta con lo sguardo rivol-to alle bianche nubi. Uno degli ospiti, che doveva essere uomo di grande importanza, aveva con sé una guardia ar-mata di soldati, che sguainavano la spada mentre il corteo si apriva la via per le strade affollate. Uomini con casacche di pelle e copricapi di metallo, come gli invasori mongoli del passato, formavano la retroguardia, secondo manipo-lo di guardie del corpo per proteggere il signore, invisibile dietro i pesanti tendaggi dell’alta carrozza. Dietro il secon-do gruppo di armati v’erano altre carrozze dorate, alcune ornate e decorate con pietre preziose, altre semplici e lisce,

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    a seconda della persona che viaggiava nascosta nel loro in-terno.

    Innumerevoli carovane salirono il sentiero della collina fino all’alto palazzo del signore. Già cadeva la notte e gli ospiti stavano ancora arrivando: e quando all’aurora il sole arancione si levò da dietro le montagne giunsero gli ulti-mi visitatori, come cavalli dispersi alla fine di una corsa. Era il gran giorno. Il sole splendeva sulla neve bianca, sulle colline i suonatori accordavano i loro strumenti, mentre gli uccelli volavano alti, eccitati come gli uomini. Le vesti gialle e marroni di importanti lama spiccavano sullo sfon-do nevoso: anch’essi erano venuti da lontano per benedire le nozze, per aggiungervi dignità, per santificare i maneggi delle forze politiche.

    Lhunden non si era recato a lavorare nei campi: era ri-masto a casa ad aspettare, sperando che all’ultimo momen-to gli sarebbe arrivato l’invito, come un condannato che attende la sospensione della pena. Dalla sua casetta poteva vedere la balconata del palazzo e gli ospiti che uscivano a prendere una boccata d’aria fresca per poi tornare nel caldo fervore della festa. Musiche, risa e canti echeggiavano per le montagne; e questi suoni gioiosi arrivavano alle orecchie del fratello povero come voci di scherno. Ma invano cerca-va di smetterla di attendere e ascoltare: una forza interio-re, l’altro se stesso, lo teneva incollato sul posto, come un mendicante sui gradini di un tempio.

    Passò il meriggio. La giornata si avvicinava al tramonto. Lhunden stava per rinunciare a ogni speranza quando il fratello, vestito come un re, uscì sulla balconata a stirare le stanche membra. Aveva mangiato bene e bevuto molto. La testa gli girava, ma tutte le sue speranze si erano realizzate, il potere ch’egli bramava era finalmente a portata di mano.

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    Quando aprì le braccia e si grattò la testa dolorante, Lhun-den prese quel gesto per un cenno d’invito, una chiamata dell’ultimo momento. Si precipitò in casa, baciò Tholma sulla fronte e le disse che andava al ricevimento.

    “Finalmente sono stato invitato, finalmente”, cantic-chiava mentre i suoi piedi avanzavano a fatica nella neve fresca.

    Ma quando arrivò, coi suoi logori panni fra le vesti di seta, non v’era alcun fratello a dargli il benvenuto. Rimase in piedi a guardare i nobili ospiti; divinità con occhi umani che lo guardavano come se fosse una lastra di vetro tra-sparente, che la mente vede eppur non vede. Il suo sorriso avvizzì come un fiore d’autunno, le sue spalle si piegarono, il cuore gli si spezzò in un milione di frammenti.

    “Voi, cosa volete qui?” mormorò la voce fredda di un servo, che tradiva così la sua classe.

    “Credevo di essere stato invitato alle nozze”, disse il fra-tello povero.

    “Allora dovete esservi sbagliato. Il padrone mi ha detto di accompagnarvi fuori.”

    Il servo lo prese per un braccio e lo condusse fuori, at-traverso le cucine. Qui gli fu data una ciotola di zuppa, fur-tiva gentilezza del servo, e un osso col midollo da portare a casa a sua moglie. Il servo sorrise e aprì la porta sul retro: Lhunden doveva andarsene per la porta di servizio, il suo aspetto era una macchia per lo splendore della nobiltà. Un passo dopo l’altro, ripercorse lentamente il sentiero verso il fondovalle. Il sole stava sparendo dietro le creste dei monti in una gloria di toni dorati. Scendeva la sera. Il fratello povero guardò il magro osso col midollo e lo gettò fra i cespugli. Quando arrivò a casa, Tholma era già a letto, ave-va detto da sola le sue preghiere. Dormiva placidamente,

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    FIABE TIBETANE

    nulla sapendo della vergogna che il marito sentiva come la lama di una spada nel suo cuore spezzato.

    Il giorno dopo egli raccontò tutto a Tholma. La donna si rattristò per il marito, ma gli rimproverò di aver gettato via l’osso, perché erano povera gente e ogni cosa poteva servire. Allora Lhunden si gettò il mantello sulle spalle e uscì di casa. Camminò a lungo nella fredda mattina, fra il canto degli uccelli, arrampicandosi su per la montagna ad-dormentata fino ai cespugli dove certamente stava ancora l’osso che aveva gettato via, fresco nella neve mattutina.

    Ma quando arrivò ai cespugli l’osso non c’era – e al suo posto vide una gigantesca impronta, anzi una serie di impronte gigantesche che scendevano a valle e risalivano per la gola fra le montagne. Come ipnotizzato, Lhunden le seguì, passando da un’orma all’altra, saltando come un pazzo fossi e burroni. Scalò rocce e scese dirupi, sempre più rapidamente correndo dietro le impronte. E le orme continuavano ad avanzare per dirupi deserti fin dove le montagne si congiungevano, fino alle oscure terrificanti regioni della terra di nessuno, lontana, lontanissima dai paesi abitati dagli uomini. Era divorato da un desiderio, da una forza che lo spingeva avanti, verso l’ignoto. I suoi piedi trovavano appigli fra le rocce, come se conoscessero la via, un qualche lontano richiamo lo attirava, un insano desiderio di vedere, forse vedere qualcosa che nessun altro uomo aveva visto mai.

    Riecheggiavano nella sua mente le storie del gigante Memaye, udite da bambino. Anche allora le nonne di-cevano ai piccoli di star buoni, “sennò il gigante verrà a mangiarvi”. Quale strana forza lo attirava? Lhunden non lo sapeva: sapeva solo, nei recessi della sua mente, che non poteva tornare indietro, non poteva dichiararsi sconfitto.

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    La vita lo aveva spinto in quella ricerca: fallire sarebbe stata la fine, non vi sarebbe stata più una ragione, una scusa per vivere.

    La gola fra le montagne si faceva più buia e profonda. Alti strati di neve celavano micidiali crepacci fra le rocce, il vento soffiava e gemeva investendo gli alti alberi che saet-tavano come un esercito vendicatore contro le grigie nubi che correvano nel cielo. Deboli raggi di sole filtravano da piccoli squarci, prismi di luci danzanti sfioravano le tene-bre come gli eterei piedi di mille fate.

    Gli alberi giganteschi si infittirono, divennero un labi-rinto di tronchi simili a un campo di grano che ondeggia a primavera. Ora era più difficile scoprire le orme che ser-peggiavano dentro e fuori del bosco, su per piccole alture e giù per burroni, e nel letto gelato di fiumi addormentati. Lhunden si sentiva battere il cuore e pulsare il sangue in ondate di paura e trepidazione: fra i suoi capelli si formava-no aghi di ghiaccio mentre il sudore gli imperlava la fronte.

    Improvvisamente sentì il silenzio che stava in agguato, spesso e minaccioso come una belva, pronta a balzar fuori dal nascondiglio con un cozzar di cimbali e un rullo di tamburo. Tuttavia continuò la marcia, seguendo le orme che portavano a un mondo dimenticato, a un’eternità dove il tempo era immobile in attesa.

    Gli alberi si diradarono in una radura. Improvvisamen-te, come una muraglia in mezzo a un deserto, le montagne tornarono ad ergersi ripide verso il cielo, e ai piedi della roccia comparve una strana, vecchia casa intagliata nella pietra dalle mani di mille muratori. Le finestre spiccava-no come nere orbite vuote nel teschio di un cadavere in decomposizione. La porta era grande come una casa e ci sarebbero voluti una dozzina di yak per sollevarla. Un sot-

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    FIABE TIBETANE

    tile filo di fumo azzurro usciva da un’apertura nascosta nel tetto sbilenco; ma a parte questo, ogni cosa era immobile e addormentata.

    Lhunden scivolò più vicino alla strana casa, schivando mucchi di legna e cassette; dalla finestra vuota usciva un odore di cibo. Si issò cauto sul davanzale di pietra ed entrò.

    Il sole stava calando in un fulgore di raggi d’oro, ma la casa era tutta buia, solo il fuoco danzava gaiamente nel focolare, dove una fila di pentole bolliva e borbottava sul fornello di ferro. Lhunden si era alzato presto quella mat-tina, moriva di fame. Saltò giù dal davanzale, si rialzò dal freddo pavimento di pietra e si diresse verso le tre pentole da cui usciva l’aroma del cibo.

    L’affamato visitatore usò un cucchiaio di legno come leva per sollevare i pesanti coperchi che chiudevano ogni pentola. Nella prima vi era del tè, nella seconda uno stufato di carne e nella terza un mucchio di fagioli deliziosamente profumati. Lhunden aveva tanta fame che quasi saltò den-tro le pentole: e per quanto abbondante fosse ogni pietan-za, ben presto divorò tutto lo stufato, e quasi tutti i fagioli, bevendosi tutto il tè. Sazio e molto soddisfatto, si allontanò dal fornello e stava per arrampicarsi nuovamente fino al da-vanzale quando sentì cigolare l’enorme porta. Si precipitò dietro un cassone e vi stette nascosto.

    La porta si spalancò con un boato e sulla soglia apparve la massiccia figura di un gigante. Era Memaye, il leggenda-rio gigante dei tempi antichi, che aveva errato a lungo per la valle di Lunchung ed era poi scomparso nelle viscere di una montagna. Lhunden quasi gemette di paura, ma nello stesso tempo si sentì tutto eccitato, mentre si rannicchiava nel buio dietro il cassone.

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    ORME NELLA NEVE

    Memaye entrò in casa zoppicando – ricordo di qual-che battaglia dimenticata – ma non era solo. All’ombra del gigante apparve un magro vecchio che picchiava sul pa-vimento con un bastone di betulla. Era Zutul, il famoso mago, più vecchio delle montagne e degli alberi, che ormai era cieco e si apriva a tentoni la via nella notte come un pipistrello che porti un messaggio del diavolo. Il gigante si diresse verso le tre pentole. Sollevò il primo coperchio e lo fece ricadere, sollevò il secondo con una mano e il terzo con l’altra e poi li fece ricadere entrambi con un assordante frastuono di ferraglia.

    “Abbiamo avuto un visitatore”, disse Memaye. “Se è fuggito e poi ci tradisce, i vecchi tempi ritorneranno.”

    “Non temere, amico mio”, replicò il mago. “Io non sento guai nell’aria.”

    “Spero che tu abbia ragione”, fece Memaye, prenden-do una scatola di legno da una mensola. “Meno male che abbiamo ancora le selci, così il nostro stomaco non resterà vuoto.”

    Il gigante trasse una scheggia di selce dalla scatola e la sfregò contro il pilastro di pietra di fronte al fornello. Quando le scintille cominciarono a danzare intorno alle sue dita comandò:

    “Prima pentola tè; seconda pentola, stufato di carne; terza pentola, fagioli.”

    Non era passato un secondo che le pentole ricomincia-rono a bollire e a cantare e odorare come a un banchetto. Memaye versò il tè in due scodelle, una molto grande e l’altra piuttosto piccina. Col mestolo servì lo stufato e la carne in due piatti, poi pose i fagioli in due ciotole, una enorme, da gigante, l’altra minuscola, per un vecchietto mingherlino. I due mangiarono il loro cibo, parlando del

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    FIABE TIBETANE

    meraviglioso passato, quando la valle e il mondo erano an-cora giovani. Lhunden ascoltava, spaventato eppure incan-tato come un bambino che sta seduto sulle ginocchia della nonna ad occhi sbarrati. Le parole fluttuavano fra quelle mura di pietra come un sogno melanconico, un glorioso passato ormai spento, dissolto come polvere all’avvicinarsi della tempesta.

    Le parole smorirono. Le vecchie leggende si dissolsero in un sonno senza colori, il gigante e il vecchio mago ripo-savano sognando antiche lotte, guerre vinte, battaglie per-dute e non cantate. Lhunden, stanco e intorpidito, si alzò, strisciò furtivamente verso la finestra, ma qui si fermò. In alto vide la scatola aperta con la selce magica accanto: allora scivolò nel buio verso il cassone, vi montò sopra, raggiunse la mensola. Sbirciò nella scatola: dentro vi era un’altra selce magica. Pensò alle tristi conseguenze che potevano derivare da un furto, ma in fondo c’erano due selci: una per il gigan-te, una per lui. Con la selce magica poteva fare tanto bene, poteva aiutare tutti i poveri del villaggio. Si pose la selce più piccola sotto il braccio, scese dal cassone traballante, si arrampicò sulla finestra aperta e saltò fuori verso la libertà. Corse via nella notte, con un tumulto di pensieri contra-stanti, di ansie e speranze nel cuore.

    La notte era fredda e desolata. Gli alberi sembravano più alti, ostili. Si ammassavano per nascondere tutti i sen-tieri, tutte le impronte di giganti che per un’eternità ave-vano camminato da una vita all’altra. Lhunden si sentiva sperduto e spaventato. Il freddo gli rodeva le viscere, le mani erano come artigli di ghiaccio aggrappati alla gelida notte. Si slanciò in avanti come un disperato. La foresta si faceva più profonda e più fitta, poche stelle solitarie bril-lavano nel cielo come diamanti. Cadde contro una roccia

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    ORME NELLA NEVE

    seminascosta, si fermò a riposare appoggiato a un albero, poi riprese il cammino, mentre la nera notte lo inseguiva lungo le gole che dividevano il passato e il futuro, come un fragile anello tra il dimenticato e l’invisibile. Lunchung era là sotto, in fondo alla valle. Doveva continuare a cam-minare, lottando contro la paura, il vento e il freddo, per arrivare nella calda valle della realtà.

    Poi, all’improvviso, gli alberi si diradarono. I piedi di Lhunden trovarono un solido terreno sotto la neve. Quan-do spuntò la prima luce dell’alba Lhunden poté vedere il profilo delle case, le forme familiari di Lunchung: da due o tre tetti saliva fumo, gli uomini che si alzavano col giorno dicevano le loro preghiere del mattino, si udivano muggire le vacche e abbaiare i cani. Lhunden uscì dal vaneggiare delle sue strane esperienze per rientrare nel giocondo bru-sio della vita che aveva sempre amato. D’improvviso sentì pesare la selce contro le sue membra stanche e doloranti.

    Le settimane divennero mesi mentre la vita continua-va a scorrere. Tholma aveva molti dubbi a proposito delle strane vicende che suo marito andava raccontando, ma si godeva le buone cose che la selce magica procurava. Tut-ti gli uomini del villaggio erano sorpresi di quello stra-no mutamento di fortuna, ma infine anch’essi poterono condividere quella ricchezza. L’oro prodotto dalle scintille danzanti che uscivano dalla magica selce serviva a pagare i mercanti e gli artigiani, i quali producevano innumerevoli oggetti che l’umile coppia aveva sempre desiderato, ma che naturalmente non aveva mai potuto procurarsi. In cambio anch’essi diventavano ricchi, poiché la ricchezza si diffon-deva da una persona all’altra, e poi anche fuori dalla valle e fino alle lontane città.

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    FIABE TIBETANE

    Ben presto Lhunden acquistò reputazione e onori. Portava abiti eleganti, cavalcava nobili destrieri, e tuttavia restava sempre gentile e generoso. Aveva abbandonato la sua capanna di sassi per un bel palazzo e i gentiluomini che passavano per il villaggio diretti in città gli rendevano omaggio e talvolta si fermavano per la notte. I vecchi amici chiedevano a Lhunden da dove gli veniva la sua ricchezza, ma lui si limitava a sorridere e diceva: “Oh, sono stato solo fortunato!”.

    La ricchezza di Lhunden aumentò la sua popolarità. La gente veniva a visitare la sua bella casa e a chiedergli con-siglio, come se fosse un sant’uomo, perché i suggerimenti che egli dava erano sempre saggi.

    “Siate buoni, gentili e onesti”, soleva dire. “Aiutate sem-pre gli altri e non danneggiate mai nessuno, perché questa è la via della natura, e questa è la via del successo.”

    La strana visita alla casa del gigante era svanita in un passato irreale, ma Lhunden non venne mai meno alla pro-messa fatta nel profondo del cuore. Aveva usato la sua for-tuna per fare del bene a tutti e la sua fama di uomo saggio si era diffusa per tutto il regno.

    Lhaven cominciò a sentire la fortuna del fratello come un insulto personale. Nel suo alto palazzo in cima alla col-lina egli progettava, macchinava, intrigava, ma tutto gli an-dava storto. Pian piano il suo patrimonio si consumava, i suoi affari uno dopo l’altro fallivano abbattuti dai venti del-la provvidenza. E quando vide che la fortuna gli sfuggiva come il ritrarsi della bassa marea, si afferrò disperatamente all’ultima tavola di salvezza: Lhunden, che viveva felice nel-la vallata ai piedi del colle.

    Era una pallida mattina di primavera. La neve invernale si andava sciogliendo in una massa fangosa. Lhaven scese

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    ORME NELLA NEVE

    lungo il pendio senza accorgersi del miracolo della natura: gli uccelli che cantavano, le giovani gemme che spuntavano dalla neve per annunciare che l’infallibile ruota della vita continuava a girare, il sole in attesa dietro il grigio mantello di nubi. Si avvicinò alla porta della casa di Lhunden, dove un leone di bronzo lo guardava freddamente. Picchiò forte col battente, come se volesse romperlo, ma la testa del leo-ne continuò a fissarlo con gelida indifferenza.

    Un servo aprì la porta e lo fece entrare in un elegante vestibolo.

    “Sono così felice di vederti, dopo tutti questi anni”, disse Lhunden andandogli incontro con un sorriso di ben-venuto.

    “Sono stato molto sfortunato in questi ultimi tempi; forse tu potresti aiutarmi?” fece il fratello, accigliato.

    “Ma certamente, se posso fare qualcosa.”Lhaven parlò al fratello dei suoi progetti falliti, della

    fortuna che lo aveva abbandonato. Diede colpa dei suoi insuccessi agli altri, ai gentiluomini della città che avevano cospirato contro di lui, alla cattiva sorte, a tutto quel che poteva escogitare: a tutto tranne che alla propria disonestà. Lhunden si offrì di fare un prestito al fratello, ma Lhaven non era soddisfatto. Voleva sapere “come” Lhunden era ri-uscito ad arrivare a tanto successo, e pregò e pianse finché Lhunden cedette e raccontò tutto.

    “Ti ricordi il giorno delle tue nozze, tanti anni fa?” chiese.

    “Allora sono stato uno stupido, non avevo mai avuto l’intenzione di cacciarti via. Dentro di me, volevo anzi che tu fossi l’ospite d’onore”, mentì Lhaven.

    Ma Lhunden non dette peso a quella bugia, e continuò con la sua storia. Raccontò della gentilezza del servo, della

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    FIABE TIBETANE

    ciotola di brodo e dell’osso col midollo. Ricordò i rimbrotti della moglie perché aveva gettato via l’osso, la ricerca fra i cespugli, le orme del gigante che lo avevano condotto alla strana valle sconosciuta. Lhaven ascoltava, metà convin-to, metà nel dubbio di esser preso in giro, come del resto avrebbe fatto lui stesso se la situazione fosse stata invertita. E invece lui era qui, come un mendicante, seduto ai piedi del suo stupido fratello. Era mai possibile che la fortuna di Lhunden fosse mano del fato? Lhaven non sapeva più cosa pensare. Per lui onestà e pietà erano sempre state sciocchez-ze di cui farsi beffe nella realtà della vita. Per ogni lacrima che cadeva dal suo falso cuore, Lhaven odiava suo fratello un po’ di più.

    Udita tutta la storia, Lhaven fu impaziente di andarse-ne, di accingersi alla ricerca della selce magica. “Se Lhun-den ci è riuscito, sono sicuro che ci riuscirò anch’io”, pensa-va, mentre ripercorreva il sentiero fino al suo palazzo. Scese nelle cucine a prendersi un osso col midollo, perché non aveva più servitori che corressero ad eseguire i suoi ordini e andò a gettarlo nel punto dove Lhunden aveva trovato le impronte del gigante. Quindi tornò a casa ad aspettare il mattino, mormorando le egoistiche preghiere che gli uo-mini rivolgono al male nel profondo del loro cuore.

    Sorse l’alba. Il pendio riviveva al soffio della primave-ra, i giovani germogli respiravano la fine aria di montagna attraverso la neve che si andava sciogliendo, gli alberi sten-devano i rami e si scrollavano di dosso il bianco mantel-lo invernale, gli uccellini erano indaffarati a prepararsi un nido caldo per la loro covata annuale. Ma Lhaven era cieco a tutto ciò. Marciava nella luce dell’alba cercando l’osso che aveva gettato via la notte prima, perché in fondo al cuore egli non credeva ancora alla storia dello strano gigante e

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    ORME NELLA NEVE

    del vecchio stregone. Ma l’osso – l’osso era sparito. Cercò bene fra le rocce, ed ecco un’orma, una gigantesca impron-ta fangosa, che stava quasi sparendo al sole del mattino. Fece qualche passo avanti e ne trovò un’altra e poi un’altra.

    Le orme proseguivano su per le colline e giù per le valli, accompagnate da un’altra serie di impronte minuscole, per boschi enormi e fiumi gelati, in cima alle rocce e in fondo a fitte boscaglie che si facevano sempre più nere e impenetra-bili via via che Lhaven avanzava, spinto dalla sua bramosia come da una frusta che lo costringeva a superare la paura. Ora il sole era alto nel cielo, poche nubi bianche vagavano all’orizzonte cambiando continuamente forma e dimensio-ni, fondendosi e separandosi. Il sentiero si fece più ripi-do. Le orme gigantesche serpeggiavano dentro e fuori dai cespugli, sicché Lhaven doveva impiegare più tempo per seguirne la traccia. Talvolta sparivano completamente, ed allora si ostinava a cercarle per molti preziosi disperati mi-nuti, finché trovava appena un segno umido e leggero, l’a-nello di congiunzione con lo strano sentiero che conduceva a un passato dimenticato.

    Finalmente i grandi alberi si diradarono e il sentiero sboccò nella radura dove sorgeva la casa-caverna, aggrap-pata come una sanguisuga ai piedi del monte. Le orbite nere delle finestre lo fissavano cieche, minacciose o invitan-ti come l’unica locanda rimasta in una città abbandonata ai margini della terra di nessuno. Lhaven strisciò attorno al semicerchio di alberi e giunse alla cupa dimora. La porta era chiusa, ma, come Lhunden, anche il fratello maggiore riuscì a issarsi fino al rozzo davanzale di pietra e balzò giù nella stanza.

    Lhaven ignorò le pentole profumate che bollivano sul fornello e si arrampicò fino all’alta mensola. Trovò la sca-

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    FIABE TIBETANE

    tola di legno che il fratello gli aveva descritto, alzò il coper-chio e guardò dentro. Nulla: era vuota. Cercò sulla menso-la: non trovò nulla. Scese a terra e frugò sistematicamente in ogni angolo, nei vasi e nelle scatole, sotto le sedie e nei cassetti che riusciva ad aprire. Ma non trovò niente. Lanciò maledizioni al fratello. Il sudore gli gocciolava dalla fronte, la collera ribolliva nel suo cuore infelice. Non c’era niente da fare se non seguire nuovamente le tracce di Lhunden.

    Sollevò i coperchi delle tre pentole e divorò avidamente lo stufato di carne, i fagioli e il tè bollente. A stomaco pieno si sentì meglio e si accucciò in un nascondiglio per aspetta-re il gigante e la seconda selce magica che avrebbe imban-dito il banchetto per Memaye e Zutul. Mentre aspettava dietro un cassone scese la sera, e la luce del giorno disparve nel nero della notte.

    Sottili lingue di fuoco danzavano intorno alle tre pen-tole vuote. Il fornello di ferro incandescente brillava, vivo fra le pietre morte, come gli occhi di un animale nel buio sinistro della notte. Gli alberi si mormoravano pensieri se-greti mentre il vento soffiava fredde bave di brezza nel fru-scio di un milione di giovani foglie primaverili. Un odore particolare di piante e caligine, come il sentore della mor-te, si diffuse nella stanza mescolandosi all’aroma dei cibi. E Lhaven vide d’improvviso il suo proprio corpo, ardere su un rogo in vetta alla collina. Cominciò a gridare: “No, io sono ancora vivo, sono vivo, vivo”, ma le visioni scom-parvero come fantasmi all’alba. “Corri, fuggi, salvati!” la mente di Lhaven era scossa dai terrori di tutta una vita, gli unici compagni che gli fossero rimasti fedeli. Anche Dolker lo aveva abbandonato. La speranza era svanita. Gli restava solo la selce magica, ultimo vano, egoistico desiderio, la pietra angolare su cui avrebbe potuto costruirsi un nuovo

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    ORME NELLA NEVE

    futuro. Il corpo di Lhaven si muoveva irrequieto, ansioso di lasciare la buia caverna della disperazione: ma la sua ostina-ta avidità lo teneva incollato lì, come una mosca prigionie-ra di una tela di ragno,

    D’improvviso l’intera montagna si scosse col rombo di mille tuoni. La porta si spalancò con un grande fracasso e sulla soglia comparve Memaye, alto come gli alberi della foresta, la faccia agitata da strani pensieri. All’ombra del gigante avanzava Zutul, il mago cieco.

    “Il tuo naso sente lo stesso odore del mio, amico?” rug-gì il gigante.

    “Sì, e sento correre nell’aria le perfide onde delle forze del male”, rispose Zutul.

    Lhaven tremava come una foglia al soffio del tempora-le. Poteva sentire il suo cuore battere, battere.

    Memaye mosse un gran passo verso il focolare. Sollevò le pentole e gridò all’amico cieco: “Il ladro è tornato! Una sola selce magica non è stata abbastanza per lui!”.

    Il gigante prese un fuscello dal fuoco del camino e ac-cese le lampade al burro che pendevano dal soffitto della caverna. La pallida luce gettò lunghe ombre nell’immensa stanza. Zutul sedette a gambe incrociate accanto al fuoco su un sedile coperto di drappi, mentre il gigante andava spostando e spingendo casse e sedili in tutta la stanza, cer-cando sotto il letto, nei pesanti mobili di legno, in tutti gli angoli e in ogni piccolo buco. Lhaven guardò verso la finestra. Chissà se un rapido salto avrebbe potuto salvarlo? Ma Memaye stava avvicinandosi all’angolo in cui stava na-scosto. Troppo tardi: ormai era preso in trappola come una fiera da un cacciatore.

    Memaye agguantò l’ometto atterrito con l’enorme zampa, come se cogliesse un fiore dalla siepe.

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    FIABE TIBETANE

    “Non sono stato io, non sono stato io, è stato mio fra-tello,” gemeva Lhaven.

    Urlava, pregava, piangeva, lottava, ma l’enorme pugno lo teneva stretto come in una morsa. Il gigante lo fece ca-dere al suolo di fronte allo stregone cieco. Lhaven implorò grazia per la sua vita. I suoi occhi cercavano disperatamente una via di scampo, ma il gigante era chino su di lui come un avvoltoio che segue un uomo condannato. La vita egoista e mal vissuta di Lhaven riecheggiava nei meandri della sua mente corrotta, un arcobaleno di paure si inarcava sul fiume dei suoi pensieri. La vita era stata per lui una grande mon-tagna e il suo solo scopo era stato quello di raggiungerne la cima: ma tutti coloro che aveva conosciuto non erano stati nient’altro che uno scalino, un sasso dove poggiare il piede. Ora stava cadendo, precipitando in un gorgo senza fondo di desideri inappagati.

    “Non sono stato io, è stato Lhunden, il mio fratello mi-nore. È lui il ladro. Un terribile, perfido ladro.” Ma Lhaven parlava a orecchie sorde.

    Zutul tirò a sé l’ometto atterrito, come se i suoi occhi ciechi volessero vederlo più da vicino. Invece mormorò uno strano incantesimo, un mantra, il cui solo suono intesseva miriadi di strani pensieri: bizzarre parole in una lingua da lungo tempo sepolta, parole che sfidavano i pensieri, tra-scendevano l’interpretazione. La mente di Lhaven fluttuò nell’oblio. I suoi terrori erano cresciuti, ma ora non sapeva più cosa temeva. Sentiva l’odore della caligine giallastra che penetrava nella stanza fumosa. Il suo corpo diveniva insen-sibile. Poteva vedere le sue mani ma non le sentiva più. I suoi sensi vacillavano, ma i suoi occhi vacui continuavano a fissare il mago cieco, nella cui vecchia faccia sottile danza-vano bizzarri pensieri, mentre i sinistri riflessi delle lampade

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    ORME NELLA NEVE

    che brillavano come stelle striavano il suo volto di ombre grigie.

    Lhaven sentì che l’enorme artiglio lo sollevava da terra. E inaspettatamente si trovò fuori dalla grande porta di le-gno. La porta si chiuse. Il gigante scomparve nel cuore del-la montagna. Una sottile falce di luna veleggiava nel cielo primaverile. Di colpo Lhaven si rese conto di essere libero. Balzò in piedi e si gettò di corsa attraverso la radura, nel fit-to degli alberi che lo avrebbero protetto, che gli avrebbero dato la libertà.

    Ma mentre penetrava inciampando nella foresta le gambe incominciarono a pesargli come fossero di piombo. Cercò di trascinarle, ma sembrava che rimanessero attacca-te, mettendo radici attraverso il sottile strato di neve mezzo sciolta. Le sue braccia si fecero pesanti e deboli, come se avesse lavorato tutto il giorno nei campi. E infine sentì che i suoi abiti si spaccavano e cadevano a terra. Si guardò le braccia: erano nere e rugose come rami d’albero. La sua gamba destra era come attaccata a terra: cercò di sollevarla, ma anche l’altra mise radici. Le sue braccia si sollevarono verso il cielo e ne uscirono rami e dai rami sbocciarono foglie, verdi foglie di primavera. Lhaven sentì crescergli su tutto il corpo uno strato di corteccia: gradualmente la cor-teccia salì a coprirgli il mento, le labbra, il naso, gli occhi, la testa. Strati di giovane corteccia s’avvolsero intorno a ogni sua gamba, minuscole foglie spuntarono dai giovani rami che si stendevano avidamente verso gli alberi della foresta.

    Lhaven urlò, chiamò aiuto, ma la sua voce era solo un fruscio, il sussurro dei rami che stormiscono alla brezza. Era prigioniero, coscienza umana sepolta nella forma di un albero, spirito terrestre che avrebbe sofferto tormenti per innumerevoli secoli. Ora doveva pagare per tutto il male,

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    FIABE TIBETANE

    per tutta la perfidia della sua vita: e non una volta, ma mille volte. Mormorò la lugubre canzone della foresta, ma solo gli alberi lo ascoltavano mentre ripetevano lo stesso inter-minabile canto.

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    IL MAGO DELLA PIOGGIA

    Zor camminava dietro il suo Maestro come una minuscola ombra. Camminava con lo stesso passo lento, le mani giunte dietro la schiena e gli occhi bassi che guardavano, scrutavano, sentivano la terra respi-rare, ondeggiando con lo stesso ritmo gentile. Quando il Maestro si fermava, il ragazzo pure si fermava. Il vecchio sorrideva osservando le nervature di una foglia, sfiorando con le vecchie dita gentili il fine reticolato di vene, men-tre la rugiada mattutina gocciolava come miele fra le sue dita. Poi deponeva di nuovo la foglia a terra, come un bim-bo appena nato, lasciando indisturbata, intatta la bellezza dell’autunno.

    Un grosso sasso giaceva sul terreno sonnecchiando nel dolce sole mattutino che danzava fra gli alberi. Il Maestro lo spinse gentilmente da parte e osservò la vita che formi-colava là sotto. Migliaia di minuscole larve, nere, brune, rosse, i bianchi teneri tessuti della vita appena nata. Rimise il sasso al suo posto e i bruchi continuarono la loro lotta per la sopravvivenza, mentre la grossa pietra ricadeva nei suoi taciti sogni.

    Un albero stava sanguinando e il suo sangue scuro goc-ciolava come melassa da un vaso, liquido al centro e già

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    FIABE TIBETANE

    indurito agli orli, dove si coagulava per difesa contro le mosche e gli insetti che suggono la linfa, come le zanzare dal braccio di un uomo. Lentamente la ferita si sarebbe cicatrizzata, le fredde nevi dell’inverno avrebbero fatto da anestetico, e poi la primavera sarebbe tornata in tutta la sua magnificenza, irradiando gloria e vita nuova: l’immenso mondo avrebbe ricominciato il suo ciclo senza fine, fonda-mento di tutte le cose.

    Erano pochi gli uomini che facevano parte della pos-sente Terra. Il Maestro era uno di essi. Conosceva i suoi se-greti, le gioie della Terra erano le sue gioie. Sapeva quando dovevano venire le nevi, scrutava le vette dei monti, preve-dendo che presto i picchi frastagliati si sarebbero ricoperti di un candido manto, che sarebbe rimasto là fino al primo giorno di primavera. Il Maestro osservava le nubi, che co-nosceva una per una, come i volti dei compagni di scuola, che cambiano eppure sono sempre gli stessi, impressi nel cervello come una vecchia cicatrice. Le osservava veleggiare contro il sole, cambiar colore e formare, disfacendosi e rifa-cendosi, i vapori trasparenti che plasmano i volti degli dèi e poi la nera sinistra faccia del diavolo. Si arrestavano per un attimo sulla vetta delle montagne, poi si allontanavano verso nuove terre, verso un altro sole da velare, un altro interminabile viaggio da iniziare.

    Il Maestro non solo vedeva gli alberi, ma li sentiva, li conosceva, era parte di loro. La Madre Terra e le ruote del Tempo non significavano nulla per la maggiore parte degli uomini, ma per il Maestro erano tutto, erano la vita stessa. Egli respirava con l’aria della vita, rinunciando ai fuggevoli piaceri dell’uomo per l’incanto della Verità. Come l’uomo moderno dedica la sua vita ad accumulare ricchezze, così il Maestro dedicava il suo tempo ad accumulare conoscenza:

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    IL MAGO DELLA PIOGGIA

    conoscenza della Terra e conoscenza dalla Terra. Il suo oro era la molle rugiada che si raccoglie in piccole gocce di per-la sui petali di un fiore; i suoi gioielli erano i lucidi boccioli delle rose che fioriscono in primavera; le stelle che danzano nel cielo erano per lui le monete d’argento che gli altri uo-mini tengono nascoste nelle loro borse di cuoio.

    Il Maestro era anche un uomo santo, che cercava la li-bertà, la liberazione dell’Estrema Beatitudine. Pochi pen-savano che quello non fosse il suo sentiero, il Divino Sen-tiero degli Illuminati che lo avevano preceduto. Tuttavia, essendo un uomo santo, egli era diverso dagli altri monaci, o dai nobili lama che passano lunghi anni meditando sul mondo, costantemente in cerca della verità. Il Maestro non meditava mai sul mondo, perché faceva parte del mondo e il suo cuore pulsava al ritmo dell’enorme cuore che bat-te nelle viscere dell’immenso orbe rotante. Era più che un monaco. Era il Mago della Pioggia.

    Ma il Maestro stava diventando vecchio. Era tempo per lui di ritirarsi nella rotazione della terra e di divenire parte integrante di tutto ciò che è. Per tutta la sua lunga vita era stato uno dei più potenti maghi del paese; fermava le piogge quando si riversavano senza sosta dal cielo, o faceva venire la pioggia quando il sole estivo screpolava la terra, inaridiva i campi e faceva morire di sete i raccolti. Spingeva le nuvole nere al di là delle montagne, arrestava gli uragani sul loro cammino e i venti selvaggi nell’alto dei cieli, per mandarli a perdersi nel vuoto degli spazi.

    Zor era stato per molti anni l’apprendista del Maestro. Aveva imparato a conoscere gli alberi e i fiori, le montagne e il cielo. Poche parole erano state dette fra l’uomo e il ra-gazzo, fra il maestro e l’allievo; ma cosa mai si deve dire, quando la comprensione si raggiunge attraverso gli occhi,

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    FIABE TIBETANE

    l’anima, il cuore? Zor era un orfanello. Un ragazzo intelli-gente, delicato e sensibile, che osservava il mondo intorno a sé mentre i suoi compagni giocavano i giochi dei fanciul-li. Era poco più che un bambino quando un vecchio lama era venuto a prenderlo per portarlo con sé. Il viaggio era stato lungo e strano, lontano dalle vie cittadine della sua infanzia. Il lama, col suo rosso mantello ondeggiante nel vento, sorrideva, lo sguardo lontano, rivolto dentro di sé, trovando la bellezza del Santo dei Santi in fondo al proprio cuore.

    Lasciarono il cavallo e la carrozza all’ombra di un salice e si arrampicarono su per le rocce che portavano alla grotta. Il Maestro era seduto fuori e osservava il sole del mattino che saliva lentamente nel cielo. Fece l’atto di sorridere, ma la sua liscia faccia consumata dal tempo non si increspò neppure: restò immobile, tacita, magnifica figura intagliata nel legno. Il viso di Zor invece si illuminò, e i suoi giovani occhi si riempirono d’amore per l’uomo che doveva esse-re il suo maestro. Sentiva un infinito desiderio di quella nuova vita fra le colline, ogni suo timore si fondeva come una falda di neve in estate. Si inchinò profondamente al vecchio Maestro e al lama che lo aveva portato là: fragile fanciullo fra le grandi ombre dei due uomini.

    Il lama e il Mago della Pioggia non avevano molto da dirsi, le parole erano scritte nei loro occhi. Sapevano e ca-pivano. Non avevano bisogno delle oziose ciarle dei piccoli uomini.

    Zor osservò la carrozza e il cavallo che sparivano in lon-tananza. Era la fine della vecchia vita e l’inizio di una vita nuova. Tutto ciò che aveva saputo finora era solo una nube di polvere all’orizzonte. I suoi giovani occhi sensibili palpi-tarono quando il lama sparì dietro l’ultima curva del sen-

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    IL MAGO DELLA PIOGGIA

    tiero. Il passato se n’era andato. Si voltò e il vecchio Mago della Pioggia gli porse una ciotola di zuppa. Il ragazzo sor-rise: nel suo cuore già amava l’uomo che sedeva in silenzio all’entrata della grotta.

    Via via che gli anni e le stagioni passavano crebbe nel ragazzo l’amore per il Maestro. Osservava le vecchie mani sfiorare la tenera curva di un petalo, tastare le morbide zolle di terra. Il vecchio scrutava le nubi con i suoi saggi occhi che tutto sapevano, mentre il suo volto incavato era pieno della gioia di vivere. Vedeva tutte le cose come se fosse la prima volta, eppure le sentiva con le mani che conosce-vano tutto. I primi fiori di primavera lo eccitavano come un bambino in gita. Li vedeva con gli occhi di un giova-ne e con la mente di un saggio. Osservava le foglie brune dell’autunno cadere dagli alberi e il vento sollevarle come piume e gettarle a mucchi ai piedi di una roccia. Quando veniva l’inverno osservava i piccoli animali che migravano verso climi più caldi. Passavano vicino a lui come vicino a un amico, senza alcun timore nei loro occhi melanconici. Le cornacchie abbandonavano gli alberi spogli lasciando i loro nidi attaccati all’incrocio di forti rami, si levavano in alto come un esercito di fantasmi neri, gridavano il loro segreto linguaggio nel vento gelido, e poi partivano in volo per il loro lungo viaggio, come nomadi che seguono l’erba.

    Zor osservava il Maestro, imparava come sentire al tat-to una foglia, come odorare gli arbusti e le erbe selvatiche che abbondano nei boschi; scopriva come fiutare nell’aria la primavera, come udire la vita che pulsa nelle spire di una conchiglia. Il ragazzo guardava il vecchio mago e vedeva nei suoi occhi la vita, come la luna riflessa nello specchio di un puro lago montano. Il Mago della Pioggia coglieva un fiore selvatico e lo portava nella sua grotta. Quando il fiore

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    appassiva e moriva, staccava dallo stelo gli ultimi segni di vita e poi lo ripiantava in una ciotola di terracotta. In una settimana il piccolo stelo bruno riviveva, spuntavano verdi gemme e il cielo della vita ricominciava. Quando il fiore era pronto, nutrito e curato dalle dita sottili del saggio, era tempo per lui di tornare alla sua dimora nella foresta: una pianta più forte e più bella.

    Talvolta il Maestro insegnava al suo apprendista come trarre da erbe e fiori selvatici un vero banchetto. Racco-glieva le cose naturali che gli uomini di solito vedono e non guardano, e le trasformava nel loro pasto serale. Le nocciole e le bacche senza sapore che crescono sugli alti al-beri rivivevano nella piccola pentola all’entrata della grotta. Il Maestro e l’allievo vivevano di noci e di bacche, di steli bolliti, di felci e rovi che si arrampicano su per le colline in una miriade di brillanti colori. La sera sedevano a osservare le stelle che passavano nel cielo. Il ragazzo imparava i loro nomi e i loro segnali. Quando una brillava, stavano per sopraggiungere le piogge; quando un’altra era più chiara, il Sud doveva aspettarsi la siccità. La conoscenza veniva lenta-mente, automaticamente. Non vi erano né libri né compiti da fare. I nomi dei fiori venivano dalla mente degli uomini. Il Mago della Pioggia imparava i nomi dei fiori ascoltando il loro sottile respiro, sentendo le parole magiche che la bellezza vivente sussurra nel mantello della notte.

    Quando la luna era alta e le stelle basse nel cielo, l’al-lievo vedeva il Maestro uscire lentamente dalla grotta e im-mergersi nella notte bagnandosi nello splendore lattiginoso della luna. All’alba il fanciullo si destava. Il Maestro era tornato e dormiva un sonno silenzioso con un sorriso in-fantile sul volto. Le notti di luna erano importanti per il Mago della Pioggia, e col passare degli anni Zor ne seppe

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    il perché. Le sue conoscenze gli venivano dall’interno, dal suo stesso essere interiore.

    Raramente il Maestro spiegava le cose con le parole. In-segnava con l’esempio. Quando si piegava a cogliere qual-che minuscolo fiore spingeva il ragazzo a fare altrettanto. Osservava con profondo amore quella minuscola creatura della vita e la vedeva come un piccolo miracolo, un dono degli dèi del cielo all’uomo della terra. Zor guardava e la sua conoscenza aumentava ogni giorno, il suo amore per la vita cresceva in lui come una passione.

    Di tanto in tanto giungeva un messaggero a portare una richiesta di aiuto. Aveva piovuto per diverse settimane in quella città o in quel villaggio, poteva il saggio aiutare quella gente? Il Maestro sorrideva, poneva i suoi strumenti di mago in una borsa di cuoio e partiva immediatamente. Talvolta restava lontano solo qualche giorno, talvolta molte settimane. L’allievo lo aspettava impaziente; lo riprendeva il vecchio ritmo quotidiano, con terrori e fantasie infantili, sogni selvaggi e giorni vuoti. Infine il Maestro tornava e ogni cosa ridiventava normale, le segrete fonti della cono-scenza che erano bruscamente scomparse altrettanto stra-namente si riaprivano a lui.

    Col passare degli anni la conoscenza di Zor cresceva. Diminuiva gradualmente la sua dipendenza dal vecchio saggio, aumentava la sua fiducia nella propria abilità. Tal-volta faceva una scoperta e la additava al vecchio. Il Ma-estro sorrideva, felice che il suo allievo imparasse e ricor-dasse il vasto patrimonio di esperienza che lentamente gli trasmetteva. Il saggio vecchio non si era mai considerato onnisciente. Ogni giorno imparava qualche cosa dal mon-do, e via via che l’allievo si faceva più saggio, poteva im-parare qualcosa anche da lui. Vivere significava raccogliere

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    conoscenze, accumulare ricordi e conservarli in un archivio mentale, pronti ad emergere quando se ne presentava l’oc-casione.

    Ogni anno giungeva dalla capitale un importante mes-saggio. Il Mago della Pioggia doveva curare i giardini che circondavano lo splendido palazzo del Dalai Lama. Il Da-lai Lama aveva il più bel giardino che fiorisse sotto il sole. Ogni anno il Mago della Pioggia, a turno con altri due Maghi, aveva il compito di curare i leggiadri fiori che sboc-ciavano per la gioia di tutto il mondo. Il Dalai Lima stesso era un grande giardiniere e impiegava un intero esercito di giardinieri per tenere in ordine i bei prati e le aiuole fiorite. Ma mentre i giardinieri curavano i fiori, i Maghi della Pioggia dovevano assicurarsi che il clima fosse sempre favorevole e ci fosse la giusta quantità di pioggia e molte giornate di sole a tingerli di delicate sfumature. Sua Santità il Dalai Lama aveva per i suoi giardini le stesse cure che aveva per la sua gente, i lama, i monaci e gli uomini e le donne comuni le cui vite egli cercava di guidare col proprio esempio. I tre Maghi della Pioggia amavano il Dalai Lama più di qualsiasi altro essere vivente, e questo faceva del loro compito annuale un grande piacere, e quasi il culmine del lento giro delle ruote del tempo.

    I Maghi della Pioggia erano molto più dei semplici eremiti, che vivevano lungi dagli occhi degli uomini nella serenità delle colline e dei boschi. Erano al servizio delle nazioni, allo stesso modo delle sentinelle che difendono il palazzo reale. Un grande Mago della Pioggia poteva avere una bella casa, molti servi e assistenti e molte più ricchezze di quante gliene occorressero per i suoi bisogni personali. Oppure poteva vivere una vita semplice come il Maestro e passare giorni felici senza la folla degli assistenti e i pro-

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    blemi della casa. Qualunque fosse la vita che sceglievano, e molti naturalmente sceglievano la seconda, i Maghi della Pioggia godevano del più profondo rispetto del popolo, dei funzionari e del Dalai Lama. Essere un Mago della Pioggia di Sua Santità era un grande onore che conferiva prestigio e poneva i pochi eletti su un alto piedistallo, fra i Rinpo-ches che studiano le parole di Buddha e i grandi Gesheys che diffondono i suoi insegnamenti girando di continuo la potente ruota.

    Il Maestro era consapevole dell’importanza della sua posizione non ne andava affatto superbo. Era un onore, ma un onore che egli accettava con calma, con una dignità che gli veniva naturale. Di tanto in tanto si recava a visi-tare i giardini del palazzo per vedere la splendida raccolta di fiori in tutto il loro variopinto splendore. I verdi prati scintillavano con minuscoli cespugli bianchi come gocce di vernice tutt’attorno ai bordi, un ranuncolo giallo si ergeva solitario in tutto quel bianco, come un forestiero alla sua prima visita all’estero. Molti fori rotondi erano stati scavati per consentire ai giovani alberelli di rose di godere la terra fresca, appoggiati al sostegno di un robusto palo come un uomo anziano si appoggia al bastone. La sua logora veste monacale ondeggiava alla tenue brezza estiva mentr’egli camminava su un cuscino d’aria per il magico giardino. Un fiore era caduto, il suo fragile stelo era stato spezzato da un uccello a caccia del pasto quotidiano. Il Maestro lo osservava, come un contadino che tiene il fucile alla tempia di un cavallo zoppo, e cercava di guarire la pianta sangui-nante, spingendo gentilmente il fusto un po’ più in giù nella terra dispensatrice di forza, mentre copriva la ferita con un bendaggio di morbida argilla. Una carrozza con un silenzioso cocchiere avanzava nel crepuscolo per le vie della

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    città. Il Maestro si voltava, felice, serbando dentro di sé l’immagine del giardino come il ricordo di una donna. Il silenzioso cocchiere allentava le briglie ai cavalli, usciva dal-le porte della città e lentamente saliva su per le colline fino alla dimora del Mago della Pioggia, la grotta dove, paziente e impaziente, Zor lo aspettava.

    Zor non era più un ragazzo. Era un uomo ormai, un monaco consacrato. E un Mago della Pioggia. Sapeva can-tare i magici mantra che dissolvono le nubi, sapeva suonare le canzoni dei cieli nel femore di un uomo, mandando i suoni incantati a echeggiare attraverso le nubi su fino al sole. L’allievo ora viaggiava col Maestro fino a città e villag-gi lontani, recando sollievo alle messi assetate o ponendo termine agli interminabili rovesci di pioggia che distrug-gevano gli argini dei fiumi e inondavano campi e case del popolo del Dalai Lama. Osservava il santo vecchio sedendo dietro di lui come un’ombra, ne ascoltava le parole magiche, gli accordi segreti che il mago stringeva con gli spiriti infu-riati. Il vecchio mormorava i suoi scongiuri, gettava strane erbe nell’aria, soffiava nell’osso femorale e poi lo scuoteva selvaggiamente intorno alla propria testa, comunicando con le divinità della pioggia, con le forze delle intemperie. Sedeva su una pietra mentre la pioggia gli scorreva sulla pelle come le onde dello stagno sul dorso di un’anitra. Len-tamente le nere nubi si disintegravano e sparivano. Il cielo grigio si divideva come olio in un vaso d’acqua mentre l’az-zurro di una giornata di sole emergeva come un coniglio dal cappello di un prestigiatore. Gli uomini cadevano in ginocchio lodando il grand’uomo. E il Maestro riponeva i suoi strumenti magici nella borsa di pelle e si allontanava verso la sua grotta, col giovane allievo accanto.

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    Ma il Mago della Pioggia stava facendosi vecchio. I suoi vagabondaggi notturni nei boschi sotto la pallida luce del-la luna diventavano più brevi e meno frequenti. Passava molte ore da solo, seduto in silenzio, meditando sotto un albero o osservando la scia lasciata dal sole, come la traccia argentea di una minuscola lumaca. Il suo volto intagliato come un bassorilievo diventava rugoso, la pelle si tendeva come pergamena sulle vecchie ossa del cranio. Le gambe si facevano più deboli e magre: e la schiena, che era stata ritta come una torre per più anni di quanto ciascuno ricordasse, ora era curva e piegata in avanti. Le rosse vesti da monaco pendevano dalle spalle incurvate come biancheria stesa ad asciugare. I pasti di bacche e di erbe erano sempre più scar-si, la conversazione che era stata sempre tanto parca, ora era del tutto spenta. Egli si era ritirato in un suo mondo interiore. Era diventato come gli alberi, vecchio ed elegan-te, silenzioso e sapiente. Zor vedeva sulle vecchie labbra un sorriso lontano. Guardava con un profondo senso di felicità il suo Maestro, il suo padre, ma i vecchi occhi non avevano più una risposta per lui. Non vedevano più Zor. Non vedevano più nulla.

    Il giovane cuoceva le zuppe, le pietanze, il cibo deli-cato che aveva appreso a preparare dal vecchio saggio. Li preparava in silenzio non volendo disturbare la pace e la contemplazione del Maestro. Lasciava una ciotola di cibo davanti a lui e tornava molte ore dopo. Lo trovava ancora seduto, col volto rigido, la ciotola piena: e diventava sem-pre più magro, come uno spettro, un bianco fantasma che appare fra le brume dell’alba. Le sue brevi passeggiate nella foresta erano cessate: raramente si allontanava dal suo sedi-le di fronte alla grotta. Anche di notte il vecchio meditava al lume della luna, senza sentire il freddo, senza udire gli

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    animali che ululano alla mistica luce. Zor faceva tutto quel che poteva per il Mago della Pioggia: ma l’unica cosa che potesse fare era rispettare il silenzio del vecchio.

    Un giorno il Maestro sedeva nella sua solita posizione fuori della grotta quando, per la prima volta in molti mesi, parlò.

    “Vieni”, disse, e la parola morì nell’aria come se il mo-vimento stesso della bocca gli costasse un grande sforzo.

    Zor accorse prontamente presso il Maestro: il vecchio pareva un’ombra, pareva il soffio che esce dalle fauci di un cavallo dopo una lunga corsa. Il giovane sedette a gambe incrociate ai suoi piedi, con l’amore di un figlio che vede il padre venir meno sul letto di morte.

    “È tempo per me di lasciare questo mondo.” Le parole erano tenui come uno spruzzo di pioggiolina. “Tu hai lavo-rato bene e io ti ho sempre amato.”

    Due lacrime scesero lungo le guance del giovane. Il Maestro respirava ancora, ma respirava appena: le parole gli costavano un duro sforzo e una rapida contrazione di dolore comparve sul vecchio volto rugoso. Il Maestro me-ditava la sua ultima meditazione prima che venisse la mor-te, traeva il suo ultimo respiro cosciente prima di entrare nell’altro regno, nell’esistenza che il bene compiuto nella vita aveva creato per lui, nella felicità dell’ignoto, invisibile futuro. Zor sorrise al vecchio, ma i suoi occhi erano lontani e non vedevano più. E mentre guardava nelle antiche pu-pille colme di saggezza, esse parvero annebbiarsi, vacillare come una candela e poi spegnersi. Il Maestro era morto.

    Zor viveva come in un sogno. Il ricordo degli ultimi momenti del vecchio saggio in questo mondo gli si erano impressi nel cervello. Le parole non dette che brillavano nei suoi occhi erano come piccole perle di saggezza, lacrime di