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GIOVANNI MELI RIFLESSIONI SULLO STATO PRESENTE DEL REGNO DI SICILIA (1801) INTORNO ALL’AGRICOLTURA E ALLA PASTORIZIA AUTOGRAFO PUBBLICATO PER CURA DEL Prof. GIUSEPPE NAVANTERI 1

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GIOVANNI MELI

RIFLESSIONISULLO STATO PRESENTE DEL REGNO

DI SICILIA(1801)

INTORNO ALL’AGRICOLTURA E ALLA PASTORIZIA

AUTOGRAFO

PUBBLICATO PER CURADEL

Prof. GIUSEPPE NAVANTERI

RAGUSATIPOGRAFIA PICCITTO & ANTOCI

1896.

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A

GIUSEPPE AURELIO COSTANZO

Padre Maestro Amico

DEDICO

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Essendo andato di proposito in Palermo per istudiare gli autografi del poeta GIOVANNI MELI, che si trovano custoditi religiosamente nella “Biblioteca Comunale” ho trovato, con mia grandissima maraviglia e compiacenza, questo, che pubblico io per la prima volta.

L’autografo porta il seguente titolo: Riflessioni - sullo stato presente - del Regno di Sicilia - riguardo a ciò che concerne l’Agricoltura e la Pastorizia - abbozzate dietro la scorta del senso comune, e dell’esperienza -18011.

Le conoscenze che poteva avere il Meli della Sicilia danno la ragione di ciò che egli scrive; ma una conoscenza più larga delle condizioni dei contadini e della loro vita poté acquistarla quando stette, come medico, a Cinisi. Ed è notevole che col suo fine intuito sia riuscito a formarsi un esatto concetto delle condizioni economiche e sociali dei poveri contadini, giacché egli viaggiò ben poco per la Sicilia, e quel che dice deve averlo cercato, sentito, raccolto raramente sopra luogo e certo indagarlo nella sua patria o, come si è detto, nelle campagne di Cinisi.

Egli, con un ragionamento forte, con la descrizione viva di fatti reali, ci commuove: dice quali siano le cause dell’abbandono dell’Agricoltura e della Pastorizia, in Sicilia, unico e miglior ramo d’industria del quale potrebbe giustamente gloriarsi quest’isola, e ne propone i rimedi per il miglioramento.

Tutte queste idee il Poeta le aveva già svolte nel suo “DON CHISCIOTTI E SANCIU PANZA” e questa prosa non è che lo specchio fedele.

1 Segnatura: 4 Qq D 3 fogl. 1-10.

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Così il Meli dice: “la perdita o la morte del più miserabile bifolco porta più danno allo Stato di quella di cento Paglietti, Baroni, Medici, Razionali, Secretati etc. etc. e la ragione n’è evidentissima: giacché tutti questi consumano, e perciò si scemano i viveri e le derrate dalla massa universale, quello ne somministra, e ne ripone alla medesima”.

E queste medesime cose Egli aveva detto nel suo “Don Chisciotti”:

Avirrà multu assai forsi chi diri Di l’Avvocati e di li Professuri;Genti chi a liti, sciarri, e dispaririCi ànnu attaccatu l’utili, e l’onuri;La società fratantu àvi a nutriri Sti tali a costu di li soi suduri;L’apa cogghi lu meli in ciuri, e in frutti,Ma ciarmulia l’apuni, e si l’agghiutti.

(CANTO VI - 34.)

E ancora:

Ultra di chisti quantu mancia-franchi, Quantu scotula-vurzi, e allampa-cucchi,Chi vannu attornu ’ncipriati, e bianchi,O stannu ’ntra li banchi mucchi mucchi! Quantu oziusi cu li manu all’anchi!Quanti chi di lu jocu mai li scucchi!Quanti vivinu sempri in gioia e spassu,E li renniti soi sù donna, ed assu!

(CANTO VI - 36.)

Tutti si danno al bel tempo, al giuoco, al lusso, e intanto l’Agricoltura, che da noi dovrebbe essere tanto pensata, perché

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l’unica nostra ricchezza, è negletta:

E la terra fratantu abbandunataA pochi vrazza mercenarii, e vili,Chi meravigghia si si attrova ingrata,E nun rispunni cu l’usatu stili?Prima di tuttu a Giovi ’na parrata In termini farrò chiari, e virili,Pruvannu, chi la prima prima cura Divi essiri fra nui l’agricoltura.

(CANTO VI - 37.)

In Sicilia, dunque, il primissimo studio dev’essere l’“Agricoltura” e siccome questa ai tempi del Meli era trascurata - e non è in migliori condizioni al presente - per ciò Egli, vero patriotta, non posa con ogni mezzo di raccomandare perché si pensi ai campi, ai fertili campi di quest’isola benedetta, i quali producono tanto, se sono ben coltivati.

Non basta.Nel canto XII, Sancio (che del resto è il Meli in persona,

come provo nel mio “ studio2”) questi consigli dà al suo Eroe:

Pertantu apri l’oricchi, o cavaleri,Senti la tua sentenza: non cchiù guerra: Spogghia l’armi, e per anni ed anni interi Suda a zappari la gran matri terra.……

(XII — ST. 39.)

E si teni a vergogna lu zappari,

2 GIOVANNI MELI: Studio biografico-critico del prof. Giuseppe Navanteri.

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Umilìa, o superbu, lu to cornu, E pensa chi l’armenti a pasculari Fu vistu Apollu patri di lu jornu Chi a Cadmu bisugnau la terra arari,E siminari in tuttu ddu cuntornu Li denti di un gran serpi, e nni spuntaru Omini armati, chi si sbintricaru.

(XII — ST. 40.)

E Cincinnato

… era vidutu ’ntra lu chianuSimplici e sulu cu l’aratru in manu.

(XII — ST. 41.)

L’arte di coltivare la terra è la più antica e la più grande perché noi abbiamo ogni ricchezza da essa, ed è per ciò che il contadino deve essere il più bene accetto a tutti; egli è il nostro benefattore, e noi dobbiamo a lui molto:

E pensa chi l’aratru, e chi la zappa Sunnu l’arti cchiù antica, e la cchiù granni; Pirchì è la prima chi nni duna pappa,E da la terra ogni ricchezza spanni,E chi la genti suldatisca e vappa Spopula li citati, e apporta danni;Quannu la zappa l’omini susteni,Li niultiplica e abbunna d’ogni beni.

(XII — ST. 42.)

… li re, li papi e imperaturi

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Campanu tutti cu lu zappaturi.(XII — ST. 46.)

S’è così, se il contadino è quello che ci coltiva i campi perché disprezzarlo, avvilirlo rimunerandolo poveramente, e non istudiarci di migliorare la sua condizione? — Dice il Meli: non è l’artigiano, non l’avvocato, non il barone, non il dottore, non il prete, il monaco, il soldato, l’architetto, che ci danno il pane, è il contadino; ma egli, povero uomo “che lavora dodici ore al giorno, al sallione, alla pioggia, alla brezza, nella polvere delle aie e nell’acqua dei pantani, combattendo una lotta senza tregua con l’arsura e col gelo, coi turbini e con le brine, con gl’insetti e con le crittogame, tremando della grandine, che distrugge in un’ora le fatiche d’un anno, delle inondazioni dei fiumi, che devastano i campi, delle frane di neve che seppelliscono le case; che cammina scalzo sui sassi per non logorare le scarpe, che fa dieci miglia a piedi per guadagnare una lira, che stilla il cervello per risparmiare un centesimo, che non può nemmeno comprar tanto sale quanto bisogna a condir la farina di granturco con cui si sfama, che mangia un pane che a noi sfonderebbe lo stomaco, che non beve che acqua per trecento giorni dell’anno, che considera la carne come un lusso “di principi3” questo povero uomo, che divide a mille il pane, ch’egli ha travagliato con grandi sudori, è malvisto, non pensato:

Ogni statu consisti d’artigiani,Di la genti di foru e cuddaretti,Di baruni, dutturi e ciarlatani,Preti, suldati, monaci, architetti,

Tutti chisti però vonnu lu pani,

3 De Amicis — Ai ragazzi — Treves – pag. 112.

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Lu viddanu è lu sulu chi lu metti;E si d’un statu fa decima parti Lu so pani cu deci si lu sparti.

Chi dirrà poi quann’iddu di lu statu Fa millesima parti, e menu ancora?Lu so tozzu a suduri travagghiatu Lu sparti a milli ed iddu resta fora;Cussì pr’autru lu voi porta l’aratu,L’apa fa meli, ed autru lu divora,La pecura e la capra, o nigri o biunni Porta li lani, ed autru si li tunni.

(XII — ST. 47 - 48.)

Queste idee sono svolte ampiamente nel presente autografo, e ho voluto a bello studio riportare tutti questi versi per mostrare che il Poeta aveva molto a cuore che si pensasse con tutto il senno alla patria agricoltura.

Il Balsamo, detto il moderno Varrone, che viveva ai tempi del Meli, nel suo corso di Agricoltura4 aveva levato per il primo la voce a fine di incoraggiare e promuovere quest’arte utilissima; e il Meli, con intelletto d’amore, anch’egli, e in verso e in prosa, si studia di celebrare la cultura dei campi; ma alcune sue idee sono diverse da quelle del Balsamo. Questi dice che la popolazione è effetto della buona coltura, e non la causa5; invece il Meli sostiene che la cagione dell’abbandono della Pastorizia e dell’Agricoltura sono le poche braccia, e queste mancano perché i contadini, trovandosi in uno stato infelicissimo, rifuggono dai matrimoni, e per ciò sono pochi quelli che curano i campi.

4 PAOLO BALSAMO: Corso di Agricoltura - Economico, politico, teorico pratico — Palermo. Natale Biondo Editore —1855.5 Discorso secondo: pag. 23 — Opera citata.

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“È naturale, dice il Balsamo, che quando soprabbondano in un’arte qualunque le braccia, decresce la mano d’opera, ed in proporzione s’aumenta la povertà di coloro che l’esercitano6”.

Non così la pensa il Meli: però in molte cose conviene con il Balsamo, in questo che: per la prosperità delle campagne bisogna pensare alla inviolabilità e sicurezza della proprietà contro gli attentati delle torbide e litigiose persone; che la frequenza delle liti dilapidano i capitali impiegati nella coltura della terra, distraggono i coltivatori dalle loro utili occupazioni, e diminuiscono o spengono affatto la loro industria.

A questo proposito il Meli ci mette sotto gli occhi un quadro così tetro, così vero del povero contadino, costretto a incorrere al Tribunale perché il vicino, avido e prepotente, gli vuole togliere il migliorato e fertilizzato podere, da impietosire e rattristarci.

Da quello che dice si vede che la condizione del contadino d’allora non è diversa dalla presente.

Anche oggi esso si muore di fame, perché la mano d’opera è miseramente retribuita, anche oggi i pesi sono per essi assai gravosi, e, nonostante tutto questo, nessuno pensa a migliorarne le sorti.

Sappiamo per prova quanti dolorosi fatti sono avvenuti tra noi, e in qual modo i contadini si siano fatti sentire, e ci abbiano fatto pensare.

Lo so: coi tempi nuovi e con le nuove idee si vuole far comprendere al pacifico agricoltore che non deve essere egli solo, che deve lavorare la terra, ma tutti, perché tutti man-giamo, e perciò si fa intendere che per tutti deve essere la stessa uguaglianza di diritti e di trattamento.

Si fa intendere che bisogna recare in comune gli averi e le braccia. Comuni le fatiche, comune il riposo, comuni i diletti.

6 Discorso secondo: pag. 24 — Opera citata.

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Tutti operosi, e nessuno infingardo.Che avviene? il contadino, affascinato da queste belle

promesse, odia il campo, non vi attende più con l’usato amore, invidia il cittadino, e pensa e macchina sangue e strage.

No: il contadino siciliano non è cattivo, indolente, rivoluzionario; egli è buono: vuol lavorare; ma vuol essere giustamente retribuito, né vessato da tante tasse e soprattasse, né da vendette e da soprusi...

Amatelo, rispettatelo, ed egli non si curerà di politica: la campagna sarà il suo regno, la zappa e l’aratro i suoi tesori, i suoi più belli e ricchi ornamenti.

Lo canta il più gentile poeta d’Italia:

Sien vostr’armi le falci e le incudi,Vostre gesta l’egregie fatiche,Le corone di olivi e di spiche Vostra prima mercede ed onor7.

Dategli pane e lavoro, ed egli sarà beato e felice, e i campi fioriranno, e la Nazione sarà prospera.

Oggi si cerca di fare allontanare dalla terra il contadino: gli si descrive con colori foschi e terribili la sua condizione, gli si toglie la pace del cuore; i nuovi demagoghi lo ubriacano di principj, impossibili ad effettuarsi, e poi non pensano seriamente a migliorare davvero le sorti di lui, col proporre mezzi giusti e ragionevoli.

Il Meli, sebbene deplori alle lagrìme lo stato del povero contadino, non declama, non lo eccita alla rivolta; ma lo conforta a sperare in un avvenire migliore, e loda a cielo l’agricoltura, e propone savi rimedi perché l’illustre coltivatore del campo sia amato quanto si merita.

Egli dunque - è quasi un secolo - vedeva e diceva le

7 G. AURELIO COSTANZO: Gli Eroi della Pace.

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medesime cose, che dicono oggi quelli che con tanto ardore hanno sposato la causa dei contadini; ma oh con qual occhio diverso e con qual diverso cuore!

Da questo noi vediamo che altro è l’agricoltura la quale non può dirsi quella dei tempi del Meli, altro le condizioni degli agricoltori.

Ed ora se si toglie la forma del Governo e il Nuovo Codice Civile, anche ora il povero contadino è travagliato dalla fame, com’era cento anni fa; è sottoposto alle medesime angarie, al medesimo disprezzo d’una volta, e che il gran problema della questione sociale, che tanto ne agita, non è ancora sciolto.

Il Meli, benché dedito tutto alla poesia, ha posto anch’egli la mano nella piaga, e si è studiato di curarla.

Le gravi osservazioni del gran Poeta siciliano sono degnissime d’essere conosciute, specialmente ai nostri giorni: esse mostrano eloquentemente che mai si è pensato, come sarebbe dovere, allo stato del contadino, che tanto contribuisce alla prosperità della Nazione.

“Nella nostra Provincia (diceva l’onorevole Rudinì ai suoi elettori, in Siracusa, nell’Aprile del 1885) noi agricoltori, abbiamo fortunatamente il concorso di un contadino, del quale non conosco l’uguale. Affronta con coraggio i pericoli della malaria, è audace, operoso, tenace nelle sue imprese. Con questo popolo di lavoratori noi possiamo vincere le “maggiori difficoltà8”.

Ora s’è questo il contadino siciliano, s’è tanto audace, tanto operoso, perché non si pensa di confortare e migliorare quanto più è possibile la sua condizione?

I mezzi, che propone il Meli, con serenità d’animo e con un intuito meraviglioso, sono, a mio credere, ottimi, e fo voti che quelli che reggono la cosa pubblica prendano in considerazione

8 Vedi: Miglioramenti agrari — Avv. Filippo Garofalo — Ragusa Inferiore Tip. Aurora — pag. 10.

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altissima queste “riflessioni che, com’Egli dice, sono state abbozzate dietro la scorta del senso comune, e dell’esperienza”.

E quanto buon senso, quanta esperienza, quanta verità nelle sue parole!

Nessuno ha dato a questo scritto meliano quella importanza che merita. Io sono lieto di far sentire per il primo ai conterranei del Poeta, ai Siciliani la voce di Lui riguardo alla difficile questione del miglioramento dell’agricoltura, intorno alla quale tanto si parla e si scrive; e mi piace di far notare che il Meli, benché tenuto come poeta altissimo e filosofo, pure anch’egli volgeva la mente alle cose che più da vicino interessavano la sua patria, e sentiva e dolorava e piangeva col popolo, perché anch’egli veniva dal popolo, e lo voleva felice e onorato, non con la violenza e con la rivoluzione; ma con un ragionato e giusto e vero mutamento di cose.

Il manoscritto lo pubblico qual è: con gli stessi errori di punteggiatura, di ortografia e di grammatica: mi pare profanazione voler mutare e correggere.

Ragusa (Sicilia) Agosto 1896.

GIUSEPPE NAVANTERI.

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AUTOGRAFODI

GIOVANNI MELI

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Il Regno di Sicilia non ha, né può avere un commercio attivo, perché manca di una Marina per eseguirlo, e per proteggerlo.

Non si è reso segnalato presso l’estere Nazioni per fabriche, lavori e manifatture utili o voluttuose da smerciarle al di fuori, come un tempo Venezia, ed oggi la Boemia per le fabriche de’ vetri e de’ cristalli: come la Sassonia per le faenze e porcellane; come un tempo la Francia, ed oggi l’Inghilterra per le fabriche de’ panni, e de’ drappi, de’ lavori di acciajo, e di altri diversi generi di manifatture: Non ha stabilimenti in America per lusingarsi di attendere, come la Spagna ed il Portugallo, le flottiglie cariche d’oro, e di argento: La Sicilia dunque tutta la sua sussistenza non può sperarla d’altronde, che da’ prodotti della sua terra, dotata per altro dalla Natura di tutta la possibile fertilità.

I prodotti della Sicilia consistono principalmente in frumenti, orzi, vini, olj, legumi, canape, lino, seta, bonbace etc. ed in quelli ancora, che somministra la Pastorizia, come carni, caci, burro, lane, pelli etc. che sono i generi di prima necessità per la sussistenza degli uomini, e perciò sono le ricchezze vere, solide, ed immediate delle umane Società; dunque la Sicilia dovrebbe essere per se stessa, e di sua propria Natura il più realmente ricco, il più popolato, ed il più felice di tutti i Regni del Mondo: Tale non essendo al dì d’oggi, anzi trovandosi di altri molti al disotto, conviene indagarne dunque le cause ad oggetto di poter escogitarne i ripari.

La Ragione, e l’esperienza dimostrano, che i prodotti della

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terra sono costantemente in ragione composta de’ bracci, che la coltivano, e dell’industria, od arte, che vi s’impiega nel coltivarla.

Dunque, se è vero, ciò che asseverantemente contestano le istorie, che la Sicilia nell’epoche de’ Greci, e de’ Romani era opulentissima, e popolatissima, e produceva abbondantemente per sé, e per l’estere Nazioni; nel vederla in oggi tutta all’opposto, dobbiamo ragionevolmente credere, che nella nostra presente epoca le braccia, e l’industria sieno in essa di gran lunga inferiori a quelle surriferite epoche. Se ne deduce da ciò, che i soli mezzi da sgravare la Sicilia dalle presenti angustie, e di restituirla alla primiera opulenza, sono quelli di moltiplicare in essa le braccia utili all’Agricoltura, ed alla Pastorizia, e d’inspirare insieme l’arte, e l’industria ai suddetti mestieri convenienti; Dunque queste due devono essere le mire, a cui dovrebbe applicarsi seriamente, e con tutta la possibile energia il Governo di questo Regno.

Tutto l’anzidetto è così evidente, che non esigge ulteriori dimostrazioni. Resta soltanto la difficoltà nel trovare, ed insieme metter in opera i mezzi da moltiplicare le braccia utili, e l’industria ne’ medesimi.

Io so benissimo, che gli uomini non si moltiplicano con la penna: So ancora, che il moltiplicar gli uomini non è impresa da pochi anni, ma da secoli; e sono pertanto persuaso, che il Governo con apprestare i mezzi da moltiplicar gli uomini non potrebbe al più contribuire, che a preparare alla Sicilia una opulenza, non già per il nostro, ma per i secoli, che succederanno. Ma oltre che questa non sarebbe una mira da essere trascurata (moltoppiù quando i Rè hanno de’ legittimi successori) purnondimeno, per quel che riguarda il presente; il problema = di trovare i mezzi di moltiplicar le braccia utili per l’Agricoltura, e la Pastorizia dato lo stesso numero d’Uomini, ch’esistono attualmente nella Sicilia = si vedrebbe sciolto, e

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realizzato qualora si distogliessero (?) dall’inerzia e dagl’impieghi inutili, superflui, o voluttuosi un gran numero di bracci, che sono a carico della Società, e d’invitarli agli utili lavori dell’Agricoltura e della Pastorizia; E si obbligassero insieme i gran Possidenti de’ fondi agrarj a censire o a far delle lunghe gabelle de’ medesimi a varj individuj.

Lungo sarebbe lo annoverare l’immenso numero di uomini, che vivono attualmente, non solo a carico, ma a danno ancora della Società: Io soltanto accennerò a queste classi, che sono a mia cognizione.

E primieramente, quanti migliaja d’infingardi datisi al commodo mestier d’accattoni,vanno trascinandosi per la Città, infingendosi ciechi, o storpj e studiando con comico artifizio assalir da tutti i lati la commiserazione della pia gente soffocando con lamentevoli stridi la fioca voce de’ veri poveri, perché inabili alla fatica, sottraendo, e perciò rubbando loro le necessarie elemosine?

Inoltre: quanti miserabili marciscono nelle carceri per non venire abilitati dall’inesorabile Creditore ad una ragionevole dilazione del loro debito? O pure per essersi il loro processo, per la frequente trascuraggine di chi doveva conservarlo, o per la calca degli affari, scordato, o smarrito? O per esser poveri, e non aver perciò i mezzi da scuotere l’indolente pigrizia de’ Giudici e de’ Fiscali? Oh quante migliaia di questi miserabili muojono lì dentro d’angosce, di miseria, e di febbre contaggiosa detta da’ medici di carcere, o castrense!

Che dirò poi di tante migliaia di uomini sparsi e perduti per la Società, come se nati fossero a far numero soltanto, e peso alla medesima, e a consumar de’ viveri inutilmente? Tali sono, a mio avviso, quelli, che traggono tutta la loro pingue sussistenza dal cicalio del foro, dalla cabala, e dall’intrico: quelli, che sussistono per le sole ciarlerie: quelli, che vivono lautamente professando soltanto il ladroneccio, il giuoco, ed

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altri vergognosi mestieri: quell’immenso numero di uomini destinato allo strabbocchevole lusso de’ ricchi: quelli, che vivono aggiatamente con alcuni speciosi pretesti di rubbare, colorati col titolo onorifico d’impieghi: Tutto il superfluo seguito della Curia decorato co’ titoli di Mastri d’atti, Algozzini, Uffiziali, Portieri etc., de’ quali la centesima parte basterebbe per servizio de’ Tribunali, qualora questi s’appagassero di un discreto vassallaggio. Insomma io intendo parlare di tutto quell’immenso numero di parassiti, di cui abbondano le città del Regno, e specialmente la Capitale, che, a guisa di mignatte, succhiano, e si nutrono del sangue, e de’ sudori degl’uomini onesti, utili ed industriosi.

Ma quali sarebbero i mezzi per venire a capo di questo proggetto, senza pericolo di caggionare una crisi pericolosa allo Stato? Son quelli appunto, (se il senso comune non m’inganna) che si adoperano per divertire un corso di un fiume, senza che ne succeda il debbordamento, o l’innondazione. Cioè prima di tutto cavasi il letto verso quella tale direzione, che gli si vuol dare: Indi gli si presentano degl’argini dal lato dell’antico corso, da cui svolgerlo si deve, e frastornarlo.

Il pendìo generale degli uomini è verso la felicità, o vogliam dire il buon essere: in effetto si vuol dire: ubi bonum, ibi Patria. Il buon essere nel senso più ristretto de’ Saggi comprende 1° Il possedimento di tutto il bisognevole alla vita. 2° Il godimento di una pace, e 3° Di una onorata riputazione. Questi vantaggi non si trovano al presente nell’Agricoltura e nella Pastorizia; Fa d’uopo dunque che vi si ripongano, come vi erano un tempo nelle surriferite epoche felici. Ed ecco la maniera di spianare il letto al fiume, che ci proponiamo di dirigere verso del lato il più utile, e conveniente.

Riflettendo ora sù de’ trè requisiti, che si comprendono nel buon essere degli uomini, si rilieva primieramente che il

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bisognevole alla vita se in tutti gli Stati, ed in tutte le condizioni degli uomini stimasi conveniente, esso è poi assolutamente necessario ne’ rusticani lavori, duri, aspri, e penosi: i quali esiggono perciò braccia sode, robbuste, e nerborute.

La forza scende ai muscoli da’ buoni alimenti, presi in dose sufficiente e ben diggeriti dalle corporali fatiche; Queste sono necessarie, è vero, alla buona salute, ed alla robbustezza del corpo, ma devono essere da quelli precedute: Se s’inverte quest’ordine, e specialmente se mancano i buoni alimenti tutto va male: I muscoli non reggono alle fatiche, ed il corpo per esse si demolisce. Ubi fames, dice Ippocrate, non oportet laborare9.

Non solo si deve badare alla quantità sufficiente degli alimenti, ma alla qualità similmente. Un uomo, che si è sfamato con le sole erbe, trovasi molto debole; toltene le radici bolbose, farinacee, come sono i pomi di terra, le patate etc., che potrebbero in caso di necessità servir come succedanee al frumento, ed ai legumi, tutte l’erbe, e le loro radici portano ne’ corpi lassità, e spossatezza.

I più sani alimenti sono le carni, il pane, gli uovi, il latte, i caci, i vini, i legumi, le radici e i frutti farinacei, come le castagne etc. Tutti questi prodotti, e queste derrate colano nelle città somministratecci dalla terra, mercè i sudori, e le fatiche de’ Bifolchi, e dei Villani; e pure questi disgraziati benefattori, sono i soli, che ne assaggiano o poco, o niente: e si può dire di questi infelici:

Sic vos non vobis fertis aratra boves,Sic vos non vobis mellificatis apes,Sic vos non vobis nidificatis aves,Sic vos non vobis vellera fertis oves.

9 Non si dimentichi che il Meli era medico pratico molto valente.

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Frattanto il Ceto Cittadinesco sedicente civilizato e siffattamente dalla dominante corruzione affascinato, che non vede, né conosce l’enorme ingratitudine, che esso usa verso de’ suoi veri benefattori; a segno, che l’Autor del D. Chisciotte siciliano, temendo di tirarsi addosso l’indignazione del secolo col far palese questa per lui umiliante verità, fu costretto di metterla in bocca del suo stravacante Eroe:

Vui autri Picurara, e Viddaneddi,Chi stati notti, e jornu sutta un vausu,O zappannu, o guardannu picureddi,Cu l’anca nuda, e cu lu pedi scausu,Siti la basi di città, e casteddi,Siti lu tuttu, ma ’un n’aviti lausu,L’ingrata Società scorcia, e maltratta Ddu pettu, chi la nutri, ed unni addatta10.

Chi non ha visitato l’interno della Sicilia crederà certamente esaggerato il quadro, che io presento della infelice attuale sussistenza de’ nostri agricoltori, che sarà poi per credere, quando sentirà, che questo non è il quadro di quest’ultimi tempi di carestie, ma de’ tempi delle più ubertose raccolte?

Il primo aspetto della maggior parte de’ Paesi, e de’ Casali del nostro Regno annunzia la fame, e la miseria: Non vi si trova da comprare né carne, né caci, né tampoco del pane; perché, tolto qualche benestante, che panizza in sua casa per uso proprio, tutto il dippiù de’ Villani, e de’ Bifolchi si nutrono d’erbe, e di legumi, e nell’autunno di alcuni frutti, spesso selvatici e di fichi d’india11. 10 Poesie Siciliane dell’Abate Giovanni Meli - Tomo III. Canto 2. stanz. 21. (G. MELI)11 Leggendosi oggi qualche viaggio fatto in Sicilia da stranieri nello scorcio del

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Non s’incontrano, che faccie squallide, sopra corpi macilenti, coperti di lane sudice, e cenciose. Negli occhi, e nelle gote dei Giovani e delle Zitelle, invece di brillarvi il natural fuoco di amore, vi alberga la mestizia, e si vedono smunte, arsicce, deformi sospirare per un pezzetto di pane, ch’essi apprezzano per il massimo de’ beni della loro vita.

I Padri di queste infelici si reputano fortunati se al Natale di N. S o alla Pasqua possono giungere a divider con la loro famiglia il piacere di assaggiare un po’ di carne. Il pane istesso, (se pur merita questo nome un masso di creta) loro non si accorda che nelle giornate di somme fatiche, nelle quali, oltre le zuppe di fave, e faggiuoli, vengono ancora gratificati di un vinetto detto acquarello.

Tutto il dippiù dell’anno si nutrono, come si è detto, d’erbe, e di radici, qualche volta di legumi, ed è fortuna quando possono condirli con un po’ d’olio, e sale.

E che ne deve succedere da questo infelice tenor di vita? Ecco le conseguenze: Primo, l’avversione ai maritaggi: imperciocché dalla parte del corpo - sine Cerere, et Bacco friget Venus: dalla parte dello spirito: un’infelice ha in orrore di produrre alla luce altri infelici, e di prorogare in essi la propria infelicità. Perciò la mancanza di moltiplicazione nel ceto il più utile, e necessario.

Secondo, che nei puochi maritaggi, che succedono, la prole sarà sempre poca, ed inferma. Terzo, li più intraprendenti, e

secolo presente, si resta sorpresi, e non senza un certo scetticismo alle notizie delle condizioni del tale o tal altro paese, del tale o tal altro casale, dove non si trovava da mangiare, anche pagandolo a caro prezzo. Eppure il Meli conferma questo stato di cose.L’antico motto, comunissimo anche oggi sopra Rometta (prov. di Messina):

Rumetta — d’ogni beni e netta,Pani e ova — ’un si nni trova.

(Vedi G. PITRÈ: Proverbi sicil. V. III.) si poteva bene applicare a non pochi altri paeselli.

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coraggiosi si danno alla disperazione, che li porta a scorrere, e ad infestare le campagne da Masnadieri. Quarto, li più deboli, e meno arditi, ricorrono alla città, dove presentandosi alla lor vista un gran numero di accattoni, (che col solo merito della poltroneria si divorano la mattina due pagnotte calde, ben condite con lardo, e salsiccie; poi verso il mezzodì si comprano in un parlatorio di monistero un buon piatto di maccheroni bene incaciati, e dopo di avere trincato del vino in una taverna, si sdrajano su di una panca a dormire spensierati12) lor viene il golìo d’imitarli, ed ecco rinunziare alle campagne, e si as-sociano anch’essi all’ordine aggiatissimo degli Accattoni. Quinto finalmente, quei pochi, che restano ne’ villaggi, attaccati alle loro famigliuole, trovandosi deboli, e mal nutriti, o cadono nella rafania (morbo terribile, descritto prima dal cel. Linneo,) che fra la debolezza, e contrazione lor toglie l’uso delli ginocchi, e delle gambe13 o non hanno la forza di resistere alle aeree vicissitudini dell’autunno, od ai rigori dell’inverno, quindi le frequenti epidemie, che spopolano i villaggi, e le campagne; come si è veduto in quest’anno che nella sola Alcara de’ freddi14 fra lo spazio di pochi mesi ne sono mancati mille, metà morti e metà fuggiti per la miseria, ed i debiti. Ed oh la gran perdita, che è questa per lo Stato! Si può asserire senza taccia di esaggerazione, né di maldicenza: che la perdita o la morte del più miserabile Bifolco porta più danno allo Stato di quella di cento Paglietti, Baroni, Medici, Razionali, Secretari etc. etc. e la raggione ne è evidentissima: giacché tutti questi

12 Allude il Meli al costume, non ismesso ancora del tutto in Palermo di andare nei parlatori dei monasteri e di comperarvi per pochi grani una pietanza qualunque: un piatto di maccheroni con cacio, una minestra, delle polpette di riso, di carne ecc., avanzo delle tavole delle moniali.13 Si conviene da tutti gli scrittori: che a produrre la rafania, oltre a qualunque altra non assignabile causa, è necessario il concorso della nutrizione di cattivo pane, o della farina delle cicerchie mischiata al medesimo come si rapporta nel Tom. II delle memorie dei Curiosi di medicina, pag. 81. (G. MELI.)14 Lercara Friddi.

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consumano, e perciò scemano i viveri, e le derrate dalla massa universale, quello ne somministra, e ne ripone alla medesima.

Come dice a questo proposito l’autore del D. Chisciotte Siciliano:

L’apa cogghi lu meli in ciuri, e in frutti, Ciarmulia l’apuni, e si l’agghiutti15.

Il Bifolco insomma, il Villano, il Contadino medesimo (quando non fosse un usuraio) non possono lusingarsi con tutti i loro sforzi, e i loro penosissimi travagli di giungere col presente sistema ad ottenere il bisognevole per la vita, perché tutte le gabelle, tutte le imposizioni, tutte le angherie, tutti i dazj dello Stato piombano sopra di essi. Fa d’uopo dunque di alleggerirli, e di gettare tutti i sudetti pesi parte sulla terra, e parte sull’opposto lato; per servir d’argine e frastornare il fiume dal presente rovinoso pendìo. Fa d’uopo inoltre, che vedano i Vassalli, e specialmente gli Agricoli nel loro Rè l’immagine di un sole benefico: che sebbene attrae l’umidità de’ campi, nel tempo istesso li feconda, e sebbene sul meriggio li dissecca, li ristora alla sera con le brine ed il mattino con le ruggiade: Nell’istessa maniera i pesi ed i dazj devono esser preceduti dall’apprestamento de’ mezzi a poterli, senza un notabile sforzo soddisfare, ed in maniera, che resti loro il bisognevole ad una comoda sussistenza.

Si è detto: che il secondo requisito al ben essere degli uomini è la Pace: Questa in tutti li tempi, ed in tutte le Nazioni ha trovato sempre il suo asilo nelle campagne.

Gli uomini più Saggi hanno spontaneamente rinunziato agli aggi ed ai piaceri delle tumultuose Città, e si sono ritirati nelle campagne a solo oggetto di riposarsi in seno di una tranquilla Pace. Ma ahimè! Questa consolante amica dell’Umanità non

15 Poesie dell’Abate Meli. T. III. cantu 6. stanza 34. (G. MELI.)

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trovasi al presente ne’ campi, e ne’ rusticani Villaggi del nostro Regno! Quanti possessori di fondi campestri si son meco doluti di questa disgrazia?

Essi vorrebbero vivere nel loro feudo, o nel loro podere, ma son costretti a starsene lungi per difenderlo ne’ Tribunali contro i cavilli del foro, o per reclamare il bestiame, che loro è stato dirubato, o i limiti usurpati, o per impetrar equità all’esorbitanza degli oneri, o per ottenere giustizia contro l’abuso dell’autorità de’ Giurati, e degli Offiziali, delegati per la esazione delle tande, e delle gabelle, di maniera che invece di seguire il consiglio di Columella, che esorta colui, che comprasi il podere di vendersi la casa della Città, sono obligati di praticar tutt’all’opposto; perché non sono mai sicuri di conservar ciò, che ne’ campi possiedono, mentre quivi dimorano, né possono perciò goder mai quella Pace tanto conveniente alle georgiche occupazioni.

Ed avvegnacchè un Contadino con l’industria, ed il sudor della sua fronte siasi affaticato, ed abbia riuscito a rendere il suo podere fertile, ed ubbertoso ciò basta per destar l’avidità di un Vicino prepotente, che meglio istruito del presente sistema, o com’essi dicono, delle cose del mondo, ha strappati i figli, i fratelli, i Nepoti dagli studj campestri per applicarli al Pagliettismo, ad oggetto di servirsene per baloardi alla custodia de’ suoi beni, e per baliste e catapulte quando si tratta di assalir quelli degli altri; Armato dunque da queste macchine da guerra si propone la conquista del migliorato e fertilizzato podere; Ed ecco muove al buon Contadino una lite sul gioco di alcune formule legali, di cui i Paglietti ne hanno sempre piene le tasche, e di cui né io, né il Contadino ne comprendiamo il gergo.

Ed ecco il buon uomo per prezzo delle sue industriose fatiche viene obbligato ad abbandonare il suo caro podere, la sua diletta Famiglia, tutti i suoi beni ed a portarsi

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precipitosamente, con grandissimo suo interesse, alla Capitale. Dove arrivato va come una larva trascinandosi di qua e di là dietro la gente del foro, che nell’atto istesso, che gli emunge la borza se ne forma un’oggetto di giuoco, e di derisione.

Le mancie per i Servitori, e per gli Uscieri, le spese per le portantine de’ Professori, che marciano a piedi, o con le lor carrozze, quelle per le citazioni, e per i libelli, i terzi dell’onorario per gli Avvocati, per i Compatroni, per i Causidici, per i Curiali, per gli Agenti etc., etc., ed ecco consumato in questi primi passi il profitto di dieci, o duodici anni delle sue penose fatiche! Se azzarda quest’infelice di aprir la bocca per somministrar le sue ragioni, i termini tecnici del suo rustico mestiere, e 1’accento particolare del suo Villaggio muovono a riso tutti gli astanti; egli insomma appena è ascoltato, niente è capito, come dal suo lato niente capisce del nuovo gergo legale, che sente risonare in bocca de’ suoi Professori. Nonostante questa confusione di lingue, in virtù de’ terzi sborzati e dei complimenti, viene distesa una lunga allegazione, della quale se ne formano infinite copie a costo della borza del Litigante; si mandano, e si ritornano con un circolo vizioso le liturgiche citazioni; si fissano i giorni delle comparse: Indi si postergono: si tornano a fissare: si scusano: sopravvengono frattanto le ferie, le Villeggiature, indi le festi-vità del Natale di N. S. indi li lieti giorni di Carnovale, poi la Pasqua etc., ed ecco le parentasi di mesi, ed anni interi.

Si maturano intanto i nuovi terzi dell’onorario: si tornano a pagare, e così scorrono successivamente le serie degli anni di maniera che quest’infelice resta inviluppato nell’inestricabile laberinto del foro, d’onde non ha più speranza di uscirne, se non vi lascia financo la pelle istessa.

L’istesso succede quando ad un Contadino viene dirubato il bue, l’asino, o il mulo: Quante cure, quante sollecitudini non gli costano le ricerche! E quanti pericoli ancora non incontra

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per rintracciarne i vestigi! Se non giunge a trovarlo piange la sua disgrazia: Ma se riesce la piange doppiamente; imperciocché le spese per le spie, per la ricognizione della bestia, e del legittimo possessore della medesima per la recezione de’ testimoni, per gli Offiziali e per le legali forma-lità, unito all’infinita perdita del tempo, e perciò del lavoro, oltrepassano di gran lunga l’importo della bestia dirubata, di maniera che il miglior partito, che gli resta ad eligere è quello di mai più ricercarla, né più ripeterla dalle mani della, così detta, Giustizia. Ne siegue da ciò, che i furti non si curano, o s’ignorano; ed i ladri allettati dall’impunità si moltiplicano a dismisura.

Se i Coloni sono così scherniti, e scorticati dai Cittadini, e dalla gente del Foro, non minore è la disgrazia, che incontrano presso i medesimi li fondi rusticani.

Per convincersi di questa verità basta gettare un colpo d’occhio a quei Poderi caduti nelle mani del fisco, o di altro Maggistrato cui se n’è affidata la cura dell’amministrazione, e si vedrà, che uno, o due anni di questa siffatta amministrazione equivalgono ad un grande incendio.

Né ciò è soltanto per ispirito di rapina, giacché potrebbero senza la desolazione di quel dato Podere soddisfare più ampiamente la loro avidità; ma il danno che essi vi caggionano è di tal natura, che spiegar non si può senza supporre in essi una specie d’odio, e di nobile avversione per le cose rusticane.

Per far argine ai suddetti enormi inconvenienti ro-vinosissimi per l’Agricoltura, e che fanno fremere l’umana Ragione non trovo altro mezzo più accertato, se non quello proposto alla società di Edimburgo dal Sig. Francesco Home: Cioè di erigersi dal Governo un’Accademia, ed insieme (io vi soggiungo per noi) un maggistrato tutto proprio per l’Agraria, che abbia le sue leggi particolari, e queste siano semplicissime, scritte, e stampate in lingua volgare del paese, circonscritte

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entro un rito sbrigatissimo. I comparenti di questo maggistrato siano li soggetti li più versati in queste materie, li più probi, ed insieme li più accessibili: che non si scelgano dal ceto dei Pa-glietti per non portare in questo nuovo maggistrato il tarlo della corruzione forense: che fossero ammessi primieri all’udienza i più poveri, o sia i giornalieri per essere subito sbrigati: che i beni rusticani caduti nelle mani del fisco si dessero in amministrazione a questo Maggistrato: che il codice delle leggi vada per le mani di tutti, e specialmente de’ Curati, che avranno l’obligo di leggerlo, di spiegarlo, e d’inculcarlo a tutti, unitamente a’ precetti della Religione.

Niente si vede in questo proggetto che repugni al buon’ordine della Società, né vi si scopre difficoltà alcuna nell’eseguirsi; anzi se ne trova l’esempio tra i Militari, e tra gli Ecclesiastici, che godono del lor foro particolare, e delle loro leggi, come ancora de’ loro particolari privileggi, e perché dunque non accordarli all’Agricoltura, ed alla Pastorizia, cui deve il nostro Regno tutta la intiera sua sussistenza?

Intorno finalmente all’ultimo requisito del ben essere degli uomini, che concerne il godimento di una onorata riputazione, convien riflettere: che l’uomo, dopo che si è procacciato una sufficiente sussistenza per se, e per i suoi congionti, e si è insieme assicurato di una Pace tranquilla, e permanente, che sono i beni reali della vita, comincia a sentire i bisogni morali, e specialmente quelli, che hanno con i primi la più intima relazione. Uno, ed il principale di essi, è il decoro, di cui desia di adornare la sua riputazione.

I titoli di decoro, e di onore dovrebbero rigorosamente compartirsi da’ veri Saggi; Ma per somma disgrazia questi in ogni Paese son rari, e moltoppiù ne’ tempi, come il nostro, di somma corruzione, di maniera che quei pochi, che si studiano di avvicinarsi alla Saggezza, sono così avviliti, e soperchiati dall’immenso numero degli stolti, che non ardiscono di aprir la

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bocca, e son’essi medesimi reputati per fatui, e balordi.Perlocchè in questo strano rovesciamento d’idee la facoltà

di compartire la prevenzione, e i titoli di onorificenza ad adornare la reputazione degli uomini oggi trovasi nelle mani della moltitudine, o sia degli stolti, e de’ corrotti.

L’esperienza di tutti i secoli c’insegna: che la misura del colmo della corruzione di un secolo è il disprezzo dell’Agricoltura, quando specialmente questo confina coll’infamia, come in oggi si osserva; e dall’altro lato l’esaltazione di quei ceti, la di cui professione tende direttamente, o indirettamente a fomentare le intestine discordie fra gl’individuj dello Stato.

Quali sieno questi ceti espressamente si manifestano in due versi dell’immortale Ariosto nel descrivere il corteggio della Discordia:

Avea dietro, d’intorno, e d’ambo i lati Notai, Procuratori ed Avvocati.

Trovandosi dunque la riputazione degli uomini in sì cattive mani, deve il Governo avocare a sé la Giurisdizione di compartirla; e qual’uso migliore, qual’uso più giusto, utile, e vantaggioso ne potrebbe Esso fare, che quello di spargerla a larghe mani sul ceto degli Agricoltori, e della Pastorizia?

Deve inoltre aver presente, che ciò non sarebbe un gratuito dono; ma una giusta restituzione delle cose allo stato primiero, collocandola in quel ceto, che sin dall’origine del mondo, e ne’ secoli li più saggi l’ha sempre posseduta. E chi meglio del Governo potrebbe in un attimo far cangiare aspetto ad un fantasma puramente ideale, qual’è il decoro, o l’onore?

È tuttavia in suo potere la facoltà di toglierlo ad un ceto, e collocarlo in un’altro. Esso ne possiede i mezzi in abbondanza, ed i più valevoli, ed efficaci: divise, insegne onorifiche, titoli,

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pensioni, gratificazioni, precedenze, graduazioni, privileggi, esenzioni, riguardi, eloggi etc, etc16.

Ecco di già rapportate sommariamente le principali maniere di spianare il letto al fiume verso il lato il più giusto, e conveniente per l’utile, la ricchezza, la multiplicazione, e la felicità dello Stato.

Resterebbe a trattare nella seconda parte degli argini, che si dovrebbero opporre dall’altro lato, dove al presente questo fiume sbocca, con grave danno del Regno tutto; Ma oltrecchè questi si potranno dedurre come corollarj, da tutto ciò, che sopra si è detto, tutto il dippiù verrà suggerito ai Saggi, ed illuminati Ministri dalle circostanze che insorgiranno.

Io non sò, se queste mie poche idee dettate dal senso comune si adattino a quelle della più sana politica; ad ogni evento vagliano per dimostrare l’interno desiderio che nutro di veder felicitati il Rè, i miei nazionali, e lo Stato.

16 Per comprendere in quanto dispregio sono al presente presso i Cittadini gli abitanti de’ Villaggi, e delle campagne basta portarci una, o due volte ad ascoltar le Commedie nazionali, dove si osserva costantemente che fra li ceti degli uomini, quelli messi nell’ultima derisione sono i facchini, e i Contadini: Basta scorrere le strade della città ne’ tempi; di Carnovale per vedere i poveri Villani l’oggetto dell’obbrobrio e del pubblico disprezzo. Lor si tirano addosso, torsi, limoni, terra, carbone polverizzato, pietre ed altre sporcizie. Ordini dunque il Governo, che lor si prestino i meritati riguardi, e che tutto il ridicolo si versi sopra di quei ceti, che esso reputa di peso, o superflui all’economia dello Stato (G. MELI.)

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