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Studio L’EPISTEMOLOGIA DI RICHARD BURTHOGGE di Marco Sgarbi * Abstract. This article deals with the epistemology of Richard Burthogge (1638-1705). Friend and correspondent of Locke, Burthogge published two important epistemological treaties, the Organum Vetus & Novum (1678) and the Essay upon Reason (1694), in which he developed a particular theory of knowledge close to idealism and conceptualism. In this theory he 1) elaborated an instrumental conception of logic; 2) limited the boundaries of reason to sensible experience; 3) conceived the mind as a center of activity, energy, and operations; 4) established that all sensible knowledge is filtered by modi concipiendi, such as substance, quantity, quality, and causality; 5) stated that knowledge is merely phenomenal, namely it concerns only the objects as they appear and not as they really are; 5) established that objects have no reality and sense if not in relation to the mind and that they are framed by a priori rules that are constitutive of reason. The aim of the article is to examine in detail Burthogge’s theory of knowledge and to show his original position within the historical and cultural setting of his time. Keywords: Burthogge, Locke, Kant, Epistemology, Sensation, Mind 1. Status quaestionis Richard Burthogge si presenta alla storiografia filosofica contemporanea come una figura pressoché sconosciuta. Non esiste una monografia a suo riguardo e sono pochi gli studi che trattano il suo pensiero 1 . Eppure non fu una personalità di secondo piano nel * [email protected]; professore a contratto all’Università di Verona. 1 L’unico studio effettuato con una certa esaustività sono le novantaquattro pagine dell’Inaugural-Dissertation di Jakob Grünbaum, cfr. Grünbaum 1939.

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Studio

L’EPISTEMOLOGIA DI RICHARD BURTHOGGE

di Marco Sgarbi*

Abstract. This article deals with the epistemology of Richard Burthogge (1638-1705). Friend and correspondent of Locke, Burthogge published two important epistemological treaties, the Organum Vetus & Novum (1678) and the Essay upon Reason (1694), in which he developed a particular theory of knowledge close to idealism and conceptualism. In this theory he 1) elaborated an instrumental conception of logic; 2) limited the boundaries of reason to sensible experience; 3) conceived the mind as a center of activity, energy, and operations; 4) established that all sensible knowledge is filtered by modi concipiendi, such as substance, quantity, quality, and causality; 5) stated that knowledge is merely phenomenal, namely it concerns only the objects as they appear and not as they really are; 5) established that objects have no reality and sense if not in relation to the mind and that they are framed by a priori rules that are constitutive of reason. The aim of the article is to examine in detail Burthogge’s theory of knowledge and to show his original position within the historical and cultural setting of his time.

Keywords: Burthogge, Locke, Kant, Epistemology, Sensation, Mind

1. Status quaestionis

Richard Burthogge si presenta alla storiografia filosofica contemporanea come

una figura pressoché sconosciuta. Non esiste una monografia a suo riguardo e

sono pochi gli studi che trattano il suo pensiero1. Eppure non fu una personalità di

secondo piano nel delicato periodo della storia della filosofia inglese che vide la

nascita della corrente dell’empirismo.

In quest’articolo mi propongo di esaminare in modo specifico la sua

particolarissima epistemologia, considerata dalla curatrice delle sue opere come

diretta precorritrice della gnoseologia kantiana2. Certo, il giudizio non è

imparziale, ma è vero, come si vedrà, che nelle sue due opere dedicate alla teoria

della conoscenza, Burthogge sviluppa un approccio molto simile a quello del

filosofo di Königsberg. Non è compito del presente articolo stabilire se Burthogge

sia stata una fonte di Kant; tuttavia, come ha giustamente osservato Giorgio

Tonelli, ciò appare assai improbabile3. Nel presente articolo si cercherà di sfuggire

da un paragone estrinseco fra questi due autori senza avere alcun supporto * [email protected]; professore a contratto all’Università di Verona.1 L’unico studio effettuato con una certa esaustività sono le novantaquattro pagine dell’Inaugural-Dissertation di Jakob Grünbaum, cfr. Grünbaum 1939. 2 Cfr. Landes 1921, pp. XV-XXIV. Le citazioni dalle opere di Burthogge sono prese da Burthogge 1921, preceduta dal titolo abbreviato dell’opera stessa. 3 Cfr. Tonelli 1994, p. 141.

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storiografico che provi una loro documentata relazione storica, cioè una lettura di

Burthogge da parte di Kant. Piuttosto ci si soffermerà sulla ricostruzione del

contesto in cui ha operato e sull’analisi delle sue dottrine.

Come si è detto, Burthogge è un Carneade. Nella più omnicomprensiva storia

della logica della modernità, la Logik der Neuzeit di Wilhelm Risse, non è

menzionato4. Mentre Reinhard Brandt nella più importante storia della filosofia

inglese del XVII secolo ne fa solo un piccolo accenno5. È ricordato, ma anche in

questo caso in modo semplicemente cursorio, da William Hamilton nella sua

introduzione alle opere complete di Thomas Reid6.

È invece indiscusso merito di Georges Lyon l’aver rivalutato il pensiero di

Burthogge e aver dimostrato che i risultati più importanti della sua opera furono

del tutto slegati dalla gnoseologia lockiana, ma il suo studio risale alla fine del

XIX secolo e affronta il problema con una metodologia storiografica antiquata7.

Anche Ernst Cassirer nel suo Erkenntnisproblem dedica un certo spazio a

Burthogge, ma più come seguace di Arnold Geulincx che come pensatore

indipendente8.

È da rilevare anche lo scarso valore storiografico dello studio introduttivo alla

pubblicazione delle opere filosofiche complete di Burthogge compiuto da

Margaret W. Landes, la quale, con argomenti assai poco convincenti, presenta il

filosofo inglese da una parte come un seguace dei platonici di Cambridge e

dall’altra come un precursore di Locke e Kant9. Gabriel Nuchelmans, da parte sua,

ha dedicato diverse pagine interessanti alla teoria della significazione di

Burthogge, ma, sulla scia di Cassirer, sempre in stretta connessione con le dottrine

di Geulincx10. John W. Yolton, invece, ne fa un precursore della logica delle idee

e il più importante predecessore di Locke11. Solo recentemente Michael R. Ayers

ha condotto una ricerca rigorosa sul concettualismo e sull’idealismo di Burthogge,

mettendo anche in relazione la sua prospettiva filosofica con quella di pensatori

4 Cfr. Risse 1970. Non c’è alcun riferimento a Burthogge nemmeno nella Bibliographia logica, cfr. Risse 1965.5 Cfr. Brandt 1988, II, pp. 723-725.6 Cfr. Reid 1863, II, pp. 928, 938.7 Cfr. Lyon 1888, pp. 72-96.8 Cfr. Cassirer 1922, I, pp. 545-553.9 Cfr. Landes 1921. Le notizie ivi contenute sono state riprese da Sorley 1965, pp. 129-130.10 Cfr. Nuchelmans 1983, pp. 117-119.11 Cfr. Yolton 1955; Yolton 1984, pp. 106-107.

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contemporanei quali Willard V.O. Quine e Donald Davidson12. In Italia, invece,

Burthogge è rimasto del tutto ignorato dalla storiografia filosofica.

A mio avviso è possibile capire il significato e l’originalità di Burthogge nella

storia della filosofia solo attraverso uno studio attento di storia intellettuale sul

contesto culturale in cui ha operato e dal quale ha assorbito e rielaborato idee e

concetti; secondo questi presupposti metodologici sarà condotta l’analisi sulle sue

dottrine epistemologiche.

2. Profilo bio-bibliografico.

Sono poche le informazioni biografiche riguardo la vita di Burthogge. Nacque

probabilmente sul finire del 1637 o agli inizi del 1638 a Plymouth, nella parte più

sudoccidentale dell’Inghilterra che nel Seicento era al centro dei traffici

commerciali per le Americhe e per le Indie ed era un avamposto per le nuove

tendenze culturali. Questo ambiente culturale aperto e dinamico dovette

sicuramente stimolare il giovane Burthogge13. Fu battezzato il 30 gennaio 1638 a

Plympton St. Maurice e entrò nella prestigiosa Exeter Grammar School. Nel 1654

fu ammesso al All Souls College di Oxford come servitore o corista14 e divenne

bachelor of arts nel 1658 presso il Lincoln College.

All’epoca in cui Burthogge svolse gli studi a Oxford l’ambiente era ancora

fortemente influenzato dalla filosofia aristotelica, la quale fu rafforzata con gli

Statuti Laudiani del 1636, che ripristinarono Aristotele al centro del sistema

educativo.15 Non bisogna però pensare che l’aristotelismo professato a Oxford

fosse conservatore o che mirasse semplicemente alla restaurazione della tradizione

medievale. Piuttosto era all’avanguardia soprattutto nel campo della logica,

sviluppando prospettive molto vicine a quelle che saranno poi elaborate

dall’empirismo inglese. Il fatto che la filosofia aristotelica fosse il fulcro

dell’educazione a Oxford fra la prima e la seconda metà del XVII secolo è provato

12 Cfr. Ayers 2005. Si veda anche la voce biografica curata da Ayers nel Oxford Dictionary of National Biography: http://dx.doi.org/10.1093/ref:odnb/4120.13 Sul milieu intellettuale di quel periodo cfr. Kearney 1970, pp. 141-173; sull’ambiente culturale nella contea di Devon cfr. Roberts 1985; Jackson 1986, appendice 2.14 Cfr. Wood 1820, IV, p. 581.15 Per una panoramica generale sulla diffusione dell’aristotelismo in Inghilterra nel XVII secolo cfr. Schmitt 1983, pp. 3-76, Sgarbi 2012, pp. 85-109, per gli statuti del 1636, p. 43.

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dalle Vindiciae Academiarum di Seth Ward, nelle quali l’autore scrive

esplicitamente che le ragioni principali per cui Aristotele era penetrato così

profondamente nei curricula universitari erano l’universalità dei problemi posti e

la brevità e il metodo con cui erano affrontati, piuttosto che la verità e

l’infallibilità delle sue dottrine.16 Dallo stesso Ward però si viene anche a sapere

che Aristotele in genere non era più letto direttamente dagli studenti, ma erano

preferiti manuali e commentari più agili e comprensibili.17 Si leggevano

soprattutto le opere di Martin Smiglecki (1564-1618), Edward Brerewood (1565-

1613), Richard Crakanthorpe (1567-1624), Samuel Smith (1587-1620), Robert

Sanderson (1587-1663) e Franco Burgersdijk (1590-1635), i quali traevano larga

parte della loro dottrine logiche dai lavori del padovano Jacopo Zabarella (1532-

1589) e sviluppavano una teoria empirica del metodo scientifico18.

Dopo i primi studi oxoniensi, Burthogge si trasferì in Olanda per studiare

medicina presso l’università di Leiden, dove fu ammesso nel 1661 e divenne

l’anno successivo medicinae doctor. Qui probabilmente conobbe Geulincx, che

proprio a cavallo fra il 1662 e il 1663 pubblicava le sue due opere

epistemologiche più importanti, la Logica fundamentis suis restituta (1662) e il

Methodus inveniendi argumenta (1663)19, lavori che sono il frutto delle sue

lezioni private di logica. Tuttavia, non è certo se Burthogge seguì le lezioni di

Geulincx20, soprattutto vista la fede calvinista professata da quest’ultimo, della

quale il giovane pensatore inglese non aveva grande stima: gli scritti religiosi di

Burthogge sono tutti rivolti contro i calvinisti e contro i quaccheri.

Successivamente Burthogge tornò in patria e si trasferì a Totnes21, vicino alla sua

città natale, dove esercitò attivamente la professione di medico, continuando però

la sua intesa attività di saggista. Ivi morì il 24 luglio 1705.

16 Cfr. Ward 1654, p. 39.17 Ivi, p. 25.18 Sugli studi di logica nell’università di Oxford cfr. Ashworth 1988, I, pp. 6-9; Feingold 1997. Su questi autori aristotelici oltre al già citato volume di Schmitt, cfr. Thomas 1959-1960; Trentman 1976; Ashworth 1985; Ashworth 1991.19 Sulla logica di Geulincx cfr. Nuchelmans 1988; van Ruler 2002.20 Geulincx divenne lettore ufficiale a Leiden solo nel 1662, quando Burthogge aveva già ottenuto il grado di medicinae doctor. Siccome le lezioni di logica erano impartite nei primi anni universitari, è molto scarsa la possibilità che Burthogge abbia seguito i corsi del filosofo fiammingo. Certo, questo non toglie che possa averlo conosciuto e aver letto le sue opere.21 Sull’ambiente intellettuale di Totnes in quel periodo cfr. Windeatt 1900.

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Com’è stato giustamente notato da Ayers, Burthogge si inserisce in un contesto

culturale molto simile a quello in cui operavano altri filosofi eccellenti dell’epoca

quali William Chillingworth, Henry More, John Locke e Joseph Glanvill

(anch’egli peraltro nativo di Plymouth), cioè in un clima religioso aperto, anti-

dogmatico e tollerante22.

I suoi primi due lavori di carattere religioso vanno proprio in questa direzione.

Il primo scritto di cui siamo a conoscenza è intitolato Divine Goodness Explicated

and Vindicated from the Exceptions of the Atheistst, pubblicato per la prima volta

a Londra nel 1672 (l’epistola al lettore però reca la data 9 ottobre 1671)23. L’opera

mostra le indiscusse conoscenze di Burthogge nel campo della teologia, ma non

rivela alcuna particolare influenza dei platonici di Cambridge, come invece

sostiene Landes. Lo scritto è esplicitamente diretto da una parte contro gli ateisti

che non credono nella verità rivelata nelle Sacre Scritture e dall’altra contro i

fanatici. L’obbiettivo di Burthogge è dimostrare razionalmente la bontà di Dio al

fine di convincere gli atei sul loro stesso piano razionale, e soprattutto di mostrare

che gli argomenti razionali da lui addotti sono derivabili dalle Sacre Scritture. Si

tratta di un progetto simile a quello che avrebbe sviluppato Locke una quindicina

d’anni più tardi nello scritto The Reasonableness of Christianity, as Delivered in

the Scriptures (1695), che risente dell’influenza di Burthogge24.

Il secondo lavoro di Burthogge esce nel 1675 con il titolo Causa Dei or an

Apology for God25. Si tratta di un’opera più ampia, estesa ed articolata rispetto alla

prima ed è stata scritta da Burthogge in risposta ad una lettera di un «inaspettato»

lettore26, di cui conosciamo solo le iniziali “A.W.”. Leggendo il primo trattato

sappiamo che l’anonimo lettore aveva obiettato a Burthogge sul piano teologico

che due erano le logiche conseguenze evincibili dal suo discorso sulla bontà

divina del 1672: o non esistono i tormenti infernali o essi hanno una durata finita

perché prima o poi la bontà divina interverrà a favore del penitente.

22 Cfr. http://dx.doi.org/10.1093/ref:odnb/4120.23 Cfr. Burthogge 1672. 24 Cfr. Goldie 1992.25 Cfr. Burthogge 1675.26 Così Burthogge si riferisce all’anonimo lettore nella Prefazione dell’opera.

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È nel 1678 che Burthogge irrompe nel panorama filosofico vero e proprio con

la sua prima opera di epistemologia intitolata Organum Vetus & Novum, che, per

la sua importanza, prenderò in considerazione in seguito27.

Seguono poi nell’arco di pochi anni una serie di piccoli trattati sul battesimo

dal titolo An Argument for Infants’ Baptism (1683) e Vindiciae Paedo-Baptismi

(1685), nei quali, sempre secondo argomenti razionali, si voleva dimostrare la

necessità del primo sacramento per gli infanti28.

Nel 1687 esce il breve pamphlet Prudential Reasons for Repealing the Penal

Laws against all Recusants, and for a General Toleration, nel quale l’autore si

scaglia contro l’intervento del governo civile in materia di religione, sostenendo

che i due ambiti devono essere accuratamente distinti e che il prevaricarsi dell’uno

sull’altro non porta altro che ad un disordine controproducente allo Stato. In

particolare, Burthogge è contro le aggressioni che lo Stato effettua nei confronti

coloro che ricusano la religione anglicana e propone la promulgazione di leggi

tolleranti, grazie alle quali soltanto sarebbe possibile la neutralizzazione degli

estremismi delle varie correnti religiose. Sul rapporto fra governo e Chiesa

Burthogge ritorna ancora nel 1690 con lo scritto The Nature of Church-

Government (1690)29.

I successivi due lavori, An Essay upon Reason and the Nature of Spirits (1694)

e Of the Soul of the World and of Particular Souls (1699) – entrambi dedicati a

Locke –, sono degli approfondimenti delle sue teorie in ambito gnoseologico e

psicologico30.

Nel suo ultimo scritto, Christianity a Revealed Mystery (1702)31, Burthogge

ritorna ancora una volta sull’argomento riguardante la possibilità di spiegare

razionalmente la religione, un tentativo ben apprezzato da Locke nella sua A

Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul (1707)32.

Tutti i lavori di Burthogge sono accomunati da un aspetto particolare, quello di

essere esposti sotto forma epistolare. In generale la sua opera si può dividere in

due generi di scritti, quelli dedicati alla religione e alla sua razionalità e quelli 27 Cfr. Burthogge 1678. L’opera ricevette l’imprimatur il 23 novembre 1677. 28 Cfr. Burthogge 1683; Burthogge 1685.29 Cfr. Burthogge 1690.30 Cfr. Burthogge 1694; Burthogge 1699.31 Cfr. Burthogge 1702.32 Cfr. Locke 1707.

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dedicati all’epistemologia. Non si tratta di ambiti perfettamente distinguibili

secondo Burthogge, dato che l’epistemologia e la logica sarebbero lo strumento

più proprio per dimostrare la razionalità della religione33. Nel presente articolo,

tuttavia, mi occuperò prevalentemente del suo pensiero epistemologico, slegato –

per quanto possibile – dagli aspetti riguardanti la religione, la teologia e la

politica.

3. L’organo della ragione, la sua natura e i suoi limiti

Il primo lavoro dedicato esclusivamente a temi epistemologici e di teoria della

conoscenza è l’Organum Vetus & Novum. Come si evince facilmente

dall’espressione del titolo “organum vetus”, il principale riferimento di Burthogge

è l’Organon di Aristotele e più in generale la tradizione aristotelica, che

concepiva la logica come un strumento per le altre scienze. Tale concezione era

stata riproposta con forza sul finire del XVI da Zabarella34 e aveva avuto subito

largo successo in territorio britannico35.

L’altro immediato riferimento di Burthogge che il titolo sembra suggerire –

“organum novum” – potrebbe essere il Novum Organum di Francis Bacon (1561-

1626), ma è subito evidente che delle dottrine del Lord Cancelliere vi sono solo

flebili tracce nei suoi scritti. Probabilmente, Burthogge voleva piuttosto esprimere

la sua intenzione di sviluppare nell’opera un “novum organum”. Nel caso di

Burthogge, questo “novum organum” tuttavia non deve essere concepito in

contrapposizione al “vetus”, cioè alla logica aristotelica, quanto piuttosto come

un’integrazione, un perfezionamento e un miglioramento di quella.

Burthogge non abbandonerà mai questa prospettiva epistemologica, nemmeno

nel più tardo Essay upon Reason, scritto dopo la lettura dell’Essay lockiano di cui

non si rilevano tracce importanti nella sua opera36. L’Essay di Burthogge, infatti,

riprende i temi già trattati nell’Organum, e approfondisce la discussione intorno

33 Giustamente Ayers afferma che l’epistemologia di Burthogge, come quella di Locke, scaturisce dalle sue problematiche politico-religiose e dai suoi interessi scientifici, cfr. Ayers 2005, p. 180.34 Sulla natura strumentale della logica in Zabarella fra gli altri cfr. Corsano 1962; Bottin 1973; Vasoli 2011.35 Cfr. Schmitt 1983.36 Ayers è convinto che l’enfasi data al concetto di “sostanza” nell’Essay rispetto all’Organum sia dovuta all’influenza di Locke, cfr. Ayers 2005, pp. 195-196.

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alla natura della mente, in particolare della coscienza e del rapporto fra mente e

materia, mentre tralascia la discussione intorno alla facoltà del giudizio. Non si

può parlare così in Burthogge di una epistemologia prima e dopo Locke; piuttosto

Burthogge vuole approfondire sistematicamente i temi che nel primo trattato

erano stati solo accennati o trattati confusamente.

Burthogge è perfettamente conscio della sua nuova proposta in campo logico-

epistemologico e non pensa assolutamente di essere meno originale di Locke nella

sua trattazione. L’Organum è un vero e proprio trattato di logica, ma, a differenza

dell’Organon aristotelico, non esamina elementi primi come le categorie, la

proposizione e il sillogismo né le regole formali per la formulazione delle corrette

inferenze, ma si rivolge piuttosto allo studio della “logica delle facoltà” che

studia le operazioni della mente37. Non è una prospettiva totalmente nuova in seno

alla tradizione logica inglese: infatti, non solo Sanderson con il suo Logicae artis

compendium aveva già fatto un deciso passo in questa direzione38, ma soprattutto

Zachary Coke (n. 1618) con il suo The Art of Logick (1654) e Obadiah Walker

(1616-1699) con i suoi Artis rationis libri avevano sviluppato una complessa

logica epistemica fondata sull’analisi delle varie operazioni della mente39 e sui

diversi gradi di assenso rispetto a ciò che viene conosciuto40.

Il tentativo di Burthogge merita un’attenzione particolare proprio perché, al

pari di Coke e Walker – anche loro purtroppo ancora trascurati dalla storiografia

filosofica –, sviluppa una gnoseologia che lo vede come immediato predecessore

di Locke e quindi una sua possibile fonte41.

Burthogge inizia la sua trattazione logica con l’individuazione di tre errori nei

quali la mente umana cade frequentemente: l’orgogliosa ignoranza, lo zelo

ignorante e il ragionamento impertinente.

37 Sulla logica delle facoltà cfr. Buickerood 1985; Auroux 1993; Michael 1997; Schuurmann 2004, pp. 44-50.38 Cfr. Nuchelmans 1998, p. 106.39 Cfr. Coke 1654; Walker 1673.40 Sulla logica epistemica cfr. Hintikka 1968; Hintikka 1986; Boh 1993; Boh 2000; Galvan 2006.41 Non vi sono studi sistematici su Burthogge fonte di Locke in campo epistemologico; l’unico tentativo piuttosto datato è di Yolton, cfr. Yolton 1956, pp. 20-21, 46. Nemmeno l’esaustiva monografia di Gibson cita fra le fonti lockiane Burthogge, cfr. Gibson 1917. La storiografia prende in considerazione Burthogge come fonte Locke solo in campo politico-religioso: cfr. Tully 1993.

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L’orgogliosa ignoranza deriva dalla pretesa della mente di estendere la propria

conoscenza anche al di là dei limiti delle cose che le competono, soprattutto in

campo metafisico e teologico. Burthogge afferma che la presunzione di essere

onniscienti è diretta conseguenza del fatto che non si conosce propriamente e in

modo specifico alcuna cosa. Il vero saggio è invece chi sa che l’ignoranza propria

e degli altri è il vero oggetto di conoscenza, cioè il punto di partenza da cui deve

prendere le mosse il processo cognitivo42: i limiti della ragione sono il territorio

entro il quale l’uomo deve esercitare la propria conoscenza.

Lo zelo ignorante, consiste nella difesa appassionata di una posizione, o

un’opinione, senza avere una conoscenza precisa dell’argomento e assumendo

principi senza alcun fondamento. Si tratta di un tipo di errore piuttosto comune fra

i ferventi religiosi, ma anche fra i filosofi settari, che sono qui presi di mira 43. In

generale, Burthogge è contro ogni sorta di fanatismo tanto religioso quanto

filosofico perché obnubilerebbe gli sforzi della ragione volti a portare la religione

e la filosofia sotto il suo dominio44.

Il ragionamento impertinente, il quale è causa di tutti gli altri tipi di errori, si

può manifestare in diversi modi. In primo luogo quando si passa da un argomento

all’altro nel proprio ragionamento, senza che fra i due ci sia una connessione o un

accordo. Ma, soprattutto, esso accade quando in un ragionamento si prende in

considerazione un solo e semplice mezzo (o termine medio in caso dei sillogismi)

e si conclude in modo precipitoso da una cosa all’altra45.

Una volta esposti gli errori in cui la mente cade, Burthogge si concentra sul

principale argomento del proprio trattato, ovvero la ragione e sui suoi interessi in

campo fisico e religioso, al fine di determinare in che modo sia possibile scoprire

ed assicurare la verità attraverso i suoi ragionamenti e in che modo si dia loro

assenso e approvazione46.

La ragione può essere considerata in tre differenti modi. In un senso molto

ampio essa coincide con la mente e con l’intelletto e come tale essa esercita tre

42 Organum, p. 6.43 Organum, pp. 7-8.44 Cfr. Ayers 2005, p. 180.45 Organum, pp. 8-9.46 Organum, p. 9.

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operazioni particolari47: 1) l’apprensione dei termini semplici; 2) la composizione

di questi termini attraverso affermazioni e negazioni; 3) il discorso che è illazione

di una cosa da un’altra48. Questa idea di ragione era piuttosto comune fra gli

aristotelici del periodo, che solevano identificare con queste tre operazioni gli atti

specifici dell’intelletto e, su questi atti, costruivano il loro sistema logico in modo

progressivo, dal più semplice elemento logico al più composto e complesso.

Come si vedrà, tuttavia, se per gli aristotelici l’analisi delle operazioni della mente

si svolgeva su due piani distinti, quello logico e quello psicologico, per Burthogge

questi due aspetti vengono a fondersi l’uno con l’altro.

In un senso più stretto, poi, la ragione riguarda in modo particolare l’ultima di

queste operazioni, il discorso, attraverso il quale la mente argomenta e inferisce.

Non a caso la ragione si dice tale per via del ragionamento, che è appunto la terza,

ultima e più complessa operazione della mente.

In un senso più specifico o appropriato – e qui si vede tutto il retaggio religioso

di Burthogge – per ragione è da intendere tutto ciò che è opposto alla fede e alla

rivelazione49. In Burthogge opposto non vuol dire contrario o contradditorio, ma

significa semplicemente che la sfera della razionalità umana è tutt’altra cosa

rispetto alla sfera rivelata dalla fede. Sono due sfere complementari che investono

l’intera esperienza umana50, ma l’una sancisce i limiti dell’altra.

La ragione di cui vuole trattare Burthogge in questo suo scritto è quella facoltà

per la quale un essere umano è detto razionale e intelligente, così come ad

esempio la vista è quel tipo di facoltà per la quale un essere umano è detto

vedente. Più in particolare, spiega Burthogge, la ragione è quella facoltà per la

quale l’uomo è detto capace di compiere le sue operazioni più specifiche, così

come appunto la vista è quella facoltà che definisce l’uomo come capace di

vedere. Si tratta di una piccola annotazione certo non priva di significato.

Burthogge sta caratterizzando la ragione e il soggetto non da una prospettiva

ontologico-sostanzialista, ma dal punto di vista funzionalistico, secondo le sue 47 Burthogge usa interscambiabilmente i termini “ragione” e “intelletto”. Preferisce solitamente usare la nozione di “ragione” quando si riferisce alla più complessa operazione della mente, cioè il ragionamento. Quando tratta invece di apprensione semplice preferisce usare il termine “intelletto”.48 Organum, pp. 9-10. 49 Organum, p. 10: «But reason is appropriately taken, or most strictly, as it is oppos’d to Faith and Revelation, of which hereafter».50 Organum, p. 10.

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operazioni e i suoi atti, e questo perché l’atto della ragione è ciò che permette di

conoscere la ragione stessa come facoltà e ne descrive la propria natura specifica.

Infatti, spiega Burthogge, la mente è cosciente delle sue operazioni e dei suoi atti

nel momento in cui li effettua e ha un immediato riscontro del loro risultato,

mentre non vede e non è conscia di se stessa, se non appunto per mezzo di tali

atti51. Quindi per Burthogge è chiaro che non si conoscono le facoltà cognitive in

sé, ma le si conoscono in relazione ai loro atti ed esse non sono altrimenti

concepibili se non per mezzo di questi ultimi52.

L’osservazione di Burthogge cela una riflessione sullo statuto

dell’autocoscienza e dell’Io. Il soggetto autocosciente nella sua identità come “Io”

non è determinato ontologicamente come una sostanza, bensì come un’attività o

meglio come un aggregato dei suoi atti cognitivi. Nell’Essay upon Reason

Burthogge è particolarmente chiaro in merito: la mente non è una semplice

sostanza pensante, distanziandosi dalla concezione di contemporanei come

Descartes, che la considera come una res cogitans, o come Spinoza, per il quale la

mente è l’idea di un corpo attualmente esistente53. La mente per Burthogge è

l’immediato soggetto o principio di ogni pensiero, è centro di energia e attività,

non è perciò “sostanza pensante”, ma è causa efficiente del pensiero ed è per

questo che essa è in primo luogo determinata dalle facoltà concettive e

cogitative54.

Esse sono principalmente tre: il senso, l’immaginazione e la ragione.

Burthogge specifica che tutte queste facoltà concordano insieme e concorrono nel

processo cognitivo; esse sono facoltà meramente mentali e spirituali che non

hanno nulla di meccanico e materiale55. Burthogge nega quindi ogni possibilità di

concepire la mente come l’epifenomeno o il risultato di processi materiali.

Egli aggiunge che queste facoltà concettive e cogitative sono tutte delle

cogitazioni (cogitations). Per cogitazione egli intende un’affezione accompagnata

51 Organum, p. 10; Essay, pp. 55-56.52 Essay, p. 56.53 Essay, pp. 105-107.54 Essay, p. 107. In questo caso è strabiliante la somiglianza della caratterizzazione della mente come centro di energia e attività con la monade leibniziana. Allo stato delle cose, tuttavia, non si può affermare che Burthogge sia stato fonte di Leibniz.55 Essay, p. 57.

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da coscienza. Tale tipo di affezione cosciente, o cogitazione, viene definita

specificatamente conoscenza56.

La conoscenza stessa può essere considerata secondo un duplice aspetto: o in

relazione all’oggetto conosciuto ed è chiamata apprensione (o percezione

cosciente), o rispetto all’immagine e all’idea attraverso la quale si percepisce e si

conosce l’oggetto ed è chiamata propriamente concezione57. Dunque, la differenza

che sussiste per Burthogge fra apprensione e concezione è che la concezione

riguarda l’immagine o l’idea, mentre l’apprensione riguarda la percezione

cosciente dell’oggetto. L’apprensione dell’oggetto, tuttavia, non avviene mai

senza la concezione, infatti l’apprensione è una forma di conoscenza per mezzo

dell’idea o dell’immagine data dalla concezione. In questo senso tutte le facoltà

cognitive dell’uomo riposano sulla concezione ed è per questo motivo che si può

ben definire la posizione di Burthogge come eminentemente concettualista. Lo

stesso Burthogge afferma che l’atto della concezione è uguale all’atto del pensiero

e caratterizza tutte le facoltà della mente, che sono appunto chiamate, per tale

motivo, concettive e cogitative58.

A partire dall’analisi della concezione, Burthogge vuole spiegare l’origine della

coscienza che è sì logicamente distinta dalla concezione, ma mai comunque divisa

da essa. La coscienza sorge normalmente, secondo Burthogge, dalla distinzione e

dalla differenza che c’è fra le diverse concezioni nella mente. L’esempio che

propone il filosofo inglese è particolarmente chiaro: se una persona vede sempre e

solo un oggetto, non avrà mai la percezione di essere affetto da questo oggetto,

cioè non sarà mai cosciente dell’effetto che l’oggetto produce sulla sua mente. In

altre parole, se per ipotesi una persona fin dalla nascita potesse solo vedere, e non

potesse utilizzare gli altri sensi, e vedesse solamente “bianco”, non avrebbe affatto

la coscienza di vedere. La coscienza emerge solo quando da questo bianco si nota

qualcosa di diverso e differente dal bianco stesso, come per esempio un punto

nero. Così, conclude Burthogge, è dalla differenza delle concezioni nella mente,

cioè dalle diverse affezioni delle facoltà da parte degli oggetti, che nasce la

coscienza. Dunque, la concezione è una modificazione della mente e la

56 Ibidem.57 Ibidem.58 Essay, p. 58.

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cogitazione è la concezione accompagnata dalla coscienza. La coscienza di una

concezione, cioè la cogitazione, è un senso di alterazione che avviene nella mente

attraverso la concezione stessa59. In altri termini, per Burthogge ogni pensiero o

cogitazione è accompagnato da coscienza, tuttavia non tutte le idee o immagini

che sono concepite nella mente sono necessariamente e per forza coscienti.

L’alterazione della mente avviene in primo luogo attraverso la sensazione degli

oggetti, cioè quando la mente è conscia che essi esercitano un’impressione su di

essa. La sensazione diviene così, nell’empirismo di Burthogge, la conoscenza

base per la formazione di ogni concezione e coscienza, opponendosi in questo

esplicitamente alle posizioni di Descartes e Honoré Fabri, i quali non solo

avevano negato che la sensazione fosse un tipo di conoscenza sempre

accompagnata da coscienza, ma anche che essa fosse un tipo particolare di facoltà

che avesse a che fare con i concetti60. Per Burthogge è tuttavia evidente che la

sensazione è una capacità che appartiene a tutti gli animali, per cui ciò che

distingue la mente umana da tutte le altre è la sua applicazione all’oggetto, un atto

questo chiamato mentalizzazione o attenzione della mente (minding/attention of

mind)61. Senza attenzione non ci sarebbe alcuna concezione e così alcuna

coscienza. Tuttavia, Burthogge non nega che gli animali abbiano coscienza; infatti

siccome l’essere coscienti non è altro che avere una sensazione dell’alterazione

operata nella mente da nuove affezioni, anch’essi a buona ragione si possono dire

dotati di coscienza, ma il loro livello di attenzione si ferma alla sensazione stessa,

mentre nella mente umana procede fino alla ragione62.

Burthogge procede così a formulare una rigorosa distinzione fra sensazione,

immaginazione e ragione. La sensazione è ciò che fa conoscere gli oggetti esterni,

i quali sono conosciuti per mezzo di immagini o apparenze o per mezzo dei

sentimenti che eccitano gli organi esterni63. L’immaginazione, invece, è una

specie di senso interno, cioè una rappresentazione dell’immagine o dei sentimenti

affetti dai sensi. Per ultimo, la ragione è la facoltà attraverso la quale si conoscono

gli stessi atti della mente e gli oggetti esterni attraverso idee o nozioni. Il processo

59 Essay, p. 59.60 Essay, pp. 59-61.61 Essay, p. 61.62 Ibidem.63 Essay, p. 62.

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che conduce dai sensi alla ragione è così una specie di sublimazione

(sublimation). Infatti, la sensazione è in un certo senso immaginazione, perché

dalla sensazione si produce un’immagine e l’immaginazione è il richiamo o il

ricordo della sensazione. L’immaginazione è però la ripetizione della sensazione

fatta dall’interno, mentre la sensazione è l’immaginazione occasionata sempre

dall’impressione immediata che proviene dall’oggetto esterno. Insomma, in

termini aristotelici, l’immaginazione, che è in diretto contatto con l’oggetto, è la

sensazione, mentre se non è a contatto con questo, è propriamente chiamata con il

suo nome.

La ragione è definita poi da Burthogge come una forma sublimata di

sensazione, cioè la percezione cosciente delle cose per mezzo delle nozioni e non

attraverso immagini o rappresentazioni sensibili delle cose. Così in definitiva

Burthogge afferma che le fonti della conoscenza sono riducibili a due: la

sensazione e la ragione, mentre l’immaginazione svolge un ruolo di semplice

raccordo e congiunzione fra queste due facoltà. Tutta la conoscenza comincia

necessariamente dalla sensazione e in ciò sta l’approccio empirico di Burthogge.

Tuttavia, non tutta la conoscenza deriva dalla sensazione, dato che una vera

conoscenza è possibile solo mediante le nozioni della ragione ed è per questo che

la prospettiva di Burthogge può anche essere definita concettualista64.

A onor del vero, sarebbe meglio caratterizzare la filosofia di Burthogge come

empirico-concettualista; infatti, sensazione e ragione interagiscono in un unico

processo cognitivo al fine di garantire alla mente la conoscenza degli oggetti. Il

processo cognitivo è caratterizzato da due operazioni essenziali: 1) l’apprensione;

2) il giudizio65.

4. Apprensione

La prima e più importante operazione della mente è l’apprensione che è la

capacità di vedere o percepire le cose, ed è in relazione alla mente così come la

vista è in relazione all’occhio66. Questo non significa che l’apprensione sia un

diverso nome dato alla capacità di vedere, infatti, l’apprensione tratta in generale 64 Essay, p. 63.65 Organum, pp. 10-11.66 Organum, p. 11; Essay, p. 66.

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la capacità di sentire e percepire ciò che la vista stessa e gli altri sensi le

forniscono. L’analogia posta da Burthogge significa piuttosto che l’apprensione

sta alla mente in modo meramente strumentale, come un organo che deve

effettuare specifiche funzioni.

Burthogge considera l’apprensione da due punti di vista differenti, uno rispetto

all’uso ordinario che concerne le parole, il secondo – quello più proprio che

riguarda l’aspetto epistemologico – concerne le nozioni67. Poco c’è da dire sul

primo aspetto dell’apprensione se non che è quell’operazione che permette la

comprensione delle parole. Questa comprensione avviene su due livelli di

significato delle parole, uno verbale e uno reale. Questa distinzione nasce a causa

dei limiti della ragione umana che spesso assegna parole e significati a cose che

non sono a loro appropriati. Al fine di cogliere il significato reale delle cose, cioè

quando il significato reale e quello verbale vengono a coincidere, le cose devono

essere apprese chiaramente e distintamente dalla mente.

Diviene così necessaria l’analisi dell’apprensione non nel suo uso ordinario,

ma in quello più specifico che concerne il processo cognitivo. Per chiarezza

(clearness) dell’apprensione Burthogge intende la medesima cosa che per

chiarezza della vista, cioè una certa luce per vedere le cose al di fuori

dell’oscurità68. La luce intellettuale è ciò che permette all’intelletto di vedere e

apprendere il suo oggetto come qualcosa di manifesto. Essa è chiamata anche luce

naturale o della ragione ed è opposta alla luce della rivelazione. Alcune cose,

afferma Burthogge, possono essere viste da entrambe le luci, le quali comunque

non si contraddicono mai l’una con l’altra: infatti, ciò che è vero per una luce è

vero anche per l’altra69. La chiarezza dell’apprensione concerne così

principalmente la capacità di individuare l’oggetto proprio della conoscenza e i

limiti entro cui questa conoscenza può essere esercitata.

La distinzione (distinctness), invece, è la capacità di formare la nozione di una

cosa in modo tale che essa si possa distinguere da tutte le altre. La distinzione

dell’apprensione si acquisisce principalmente o attraverso un processo distintivo

(distinction) o attraverso la definizione (definition). Il processo distintivo consiste

67 Essay, p. 66.68 Organum, p. 19.69 Organum, pp. 19-20.

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nel determinare uno specifico senso di una cosa attraverso una particolare

caratteristica, mentre la definizione consiste in una descrizione, cioè in una

rappresentazione di una cosa attraverso i suoi attributi. Più una cosa è

caratterizzata, cioè più note caratteristiche possiede, e più distinta è la conoscenza

che la mente ha di essa.

Per raggiungere l’adeguata chiarezza e distinzione nell’apprensione, secondo

Burthogge bisogna fare attenzione a quattro condizioni. La prima condizione è

avere una debita, adeguata e significativa rappresentazione dell’oggetto, in modo

tale che si possa procedere con l’esposizione di essa in modo didattico dagli

elementi più semplici a quelli più complessi70.

La seconda condizione è avere una giusta disposizione delle facoltà cognitive e

dei temperamenti, cioè non essere corrotti dai pregiudizi dell’educazione, dei

costumi, delle passioni e dei falsi presupposti. Ciò consiste in campo

epistemologico in una certa “sanità della mente” (sanity of mind), alla quale

corrisponde in campo etico una “santità della mente” (sanctity of mind) per agire

in modo morale71.

La terza condizione è avere una debita distanza dall’oggetto, cioè non

osservarlo né da troppo vicino né da troppo lontano, altrimenti sfuggirebbero da

una parte l’insieme dell’oggetto e la sua organicità e dall’altra gli elementi più

piccoli72.

Infine è necessaria una dovuta attenzione all’oggetto in modo da formare di

esso una nozione corretta; una particolarità questa che, come si è visto,

contraddistingue in modo precipuo gli esseri umani73.

Una volta determinate le caratteristiche dell’apprensione è possibile

comprendere la duplice funzione che essa svolge nel processo cognitivo. Da una

parte l’apprensione è in relazione alle cose così come sono in se stesse e dall’altra

è in relazione alle cose così come sono notate o osservate. Burthogge è

particolarmente interessato a quest’ultimo aspetto. “Notare” ha per Burthogge

diverse accezioni: una prima riguarda la capacità di riconoscere qualche cosa

rispetto alle altre; una seconda accezione considera “notare” come registrare;

70 Organum, p. 27.71 Organum, p. 28.72 Organum, pp. 28-29.73 Organum, p. 29.

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infine, in una terza e ultima accezione “notare” significa caratterizzare qualcosa in

un particolare modo affinché questa cosa possa essere sostituita dalla nota stessa.

In Burthogge il confine di queste accezioni è molto vago e le diverse funzioni del

“notare” si accavallano l’una con l’altra74.

Le cose sono designate o da semplici parole o da proposizioni, che sono parole

congiunte in affermazioni e negazioni. Sia le parole sia le proposizioni sono

apprese dalla mente solo in quanto essa concepisce il loro senso. Il senso (o

significato) – Burthogge ancora non distingue questi due elementi – è il motivo e

l’oggetto immediato dell’apprensione, così come ad esempio il colore lo può

essere della vista. Infatti, l’occhio non vede se non rispetto a qualcosa che è

colorato, così la mente non comprende se non il senso (sence) di qualcosa75. Il

senso viene ad essere per Burthogge il proprio, adeguato e immediato oggetto

della mente percepito per mezzo dell’apprensione76.

In questo modo, il filosofo inglese si scaglia conto coloro i quali sostengono

che la verità sia l’oggetto proprio e adeguato dell’intelletto. La verità entra in

gioco solo con l’operazione del giudizio – da non confondere con l’operazione di

combinazione dei termini semplici in proposizioni – la quale esprime il suo

assenso nei confronti dell’oggetto appreso. Infatti, è possibile apprendere il senso

di una cosa, ma rifiutarne l’assenso, mentre non è affatto possibile il l’inverso

perché non ci sarebbe alcun oggetto su cui assentire.

Ma che cosa intende veramente Burthogge per “senso”? Sulla scia delle

posizioni concettualistiche di Hobbes e Coke77, Burthogge afferma che il senso è

la nozione che si forma della mente al posto di una cosa, così come il colore è un

sentimento generato e causato nell’occhio da un’impressione dell’oggetto su di

esso78. Il senso perciò è qualcosa che è generato completamente nella mente e

come tale viene appreso rispetto ad un oggetto che è nel mondo, fuori dalla mente.

Per capire bene cosa intenda Burthogge per “senso” è necessario analizzare la sua

dottrina delle nozioni, che trasforma in modo decisamente originale la dottrina 74 Organum, p. 11.75 Organum, p. 11: «Sence or Meaning is the Motive and immediate Object of Apprehension, as Colour is of Seeing».76 Ibidem.77 Sul concettualismo di Hobbes cfr. Dal Pra 1962; Pacchi 1965; Gargani 1983.78 Organum, p. 12: «Sence or Meaning is that Conception or Notion that is formed in the Mind, on a proposal to if of an Object […] as Colour is that Sentiment begotten, and caused in the Eye, upon the impression of its Object on it».

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aristotelica delle primae e secundae notiones, la quale aveva avuto larga

diffusione con la disseminazione delle opere degli aristotelici patavini in

Inghilterra e con le rielaborazioni da parte degli aristotelici britannici79.

Il concetto di “nozione” ha due significati. Il significato più ampio definisce la

nozione come qualsiasi concezione o pensiero formato nella mente dalle

impressioni che gli oggetti hanno esercitato sui sensi. Sotto quest’aspetto,

Burthogge nega la possibilità che vi siano delle idee innate nell’intelletto: tutte le

nozioni provengono dai sensi. Tuttavia, Burthogge ammette la possibilità che

nella mente ci siano delle nozioni che appaiono innate e tali nozioni sono dette

prolessi (prolepses), anticipazioni o principi80. Queste anticipazioni, o principi,

non sono veramente innate, ma sono inculcate e apprese molto presto, quando si è

ancora infanti, tanto che vengono conosciute inconsciamente e sembrano perciò

essere innate. Per esempio il principio secondo il quale “il tutto è maggiore della

parte” sembra essere innato, dato che la mente fornisce ad esso un naturale

assenso81. Ma, invero, si può dire di conoscere questo principio solo dopo aver

conosciuto i concetti di parte, tutto, maggiore e minore.

A fianco dell’accezione generale di “nozione” come pensiero, ce n’è un’altra

più ristretta e più interessante che si riferisce alla nozione come modus

concipiendi. Come si è già accennato non si tratta di una novità assoluta: già

Zabarella, infatti, identificava le secundae notiones con i modi considerandi82, e

così poi facevano tutti gli aristotelici britannici della prima metà del XVII secolo.

L’aspetto interessante della teoria di Burthogge è che applica sistematicamente

questo concetto alla sua teoria gnoseologica. La nozione come modus concipiendi

è un particolare modo di concepire le cose per il quale esse non sono veramente le

cose stesse, ma sono propriamente oggetti: oggetti del pensiero. Infatti, in ogni

79 Cfr. Zabarella 1597, c. 6 A-B: «Sunt autem primae notiones nomina statim res significantia per medios animi conceptus, ut animal et homo, seu conceptus ipsi, quorum haec nomina signa sunt […] Nominibus quidem primae notionis statim res ipsa significata extra animum respondet, quo circa haec opus nostrum esse non dicuntur: nemo enim coelum, elementa, animalia et stirpes opus humanum esse diceret […] secundae vero sunt alia nomina his nominibus imposita, ut genus, species, nomen, verbum, propositio, syllogismus, et alia eiusmodi sive conceptus ipsi, qui per haec nomina significantur». Dottrine simili si possono trovare nei manuali di Mark Duncan, Robert Balfour, Samuel Smith, Robert Sanderson, John Flavell, così come nell’opera di Thomas Hobbes. 80 Organum, pp. 37-38; Essay, p. 73.81 Organum, p. 39.82 Cfr. Pozzo 1998.

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cosa, secondo Burthogge, c’è sempre qualcosa di puramente oggettivo o nozionale

(notional) che è appunto il modo in cui essa viene appresa83.

Così per Burthogge la ragione non apprende mai direttamente le cose in se

stesse o come aspetti di esse, ma le apprende rispetto a certe nozioni che fanno di

esse degli oggetti della mente84. Queste nozioni o modi concipiendi sono definite

da Burthogge come enti di ragione che non hanno fondamento nelle cose stesse,

ma hanno un “essere formale” solo nella mente che li struttura85. In particolare

questi modi concipiendi per Burthogge sono l’entità (sostanza-accidente), la

quantità (tutto-parte, grande-piccolo), la qualità e l’azione (causa-effetto)86. Si

tratta di una lista che evidentemente Burthogge modella sulla tavola delle

categorie aristoteliche e che differisce sostanzialmente, sebbene non

funzionalmente, dalla lista dei modi considerandi della logica aristotelica

moderna: essa comprendeva in particolare “genere”, “specie” e “differenza

specifica”, ma lasciava anche aperte le porte alla possibilità di aggiungere altri

concetti come modi di considerare, concepire e conoscere le cose87. È interessante

inoltre notare come i modi concipiendi di Burthogge siano sia funzionalmente, ma

anche nel loro elenco, molto simili alle categorie dell’intelletto di Kant. Proprio

come il filosofo di Königsberg, un secolo prima Burthogge affermava che questi

modi concipiendi erano delle nozioni primitive (primitive notions) sotto le quali

comprendere e ricevere gli oggetti88 e aggiungeva che nessuna cosa poteva essere

compresa dall’intelletto se non per mezzo della nozione dell’entità, della sostanza

o dell’accidente, della causa o dell’effetto, della quantità o della qualità89. Il

filosofo aggiungeva anche che nessuna sostanza, nessun accidente, nessuna causa,

nessun effetto, esistono nelle cose, ma che essi sono solo nozioni (abiti delle

nozioni, dresses of notions), “filtri” attraverso i quali leggere la realtà90.

Ne segue così un corollario fondamentale dell’epistemologia di Burthogge: le

cose non sono mai per la mente così come sono, ma sono sempre così come la

83 Essay, p. 74. I termini “oggetto” e “oggettivo” va considerato alla maniera scolastica come “oggetto della mente” e “mentale”.84 Essay, p. 75.85 Essay, p. 80.86 Essay, pp. 75, 77.87 Cfr. Organum, p. 29.88 Essay, p. 77.89 Essay, pp. 75-76.90 Essay, pp. 80-81.

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mente le concepisce, rafforzando ancor di più la sua posizione concettualista.

Inoltre, se, come si è detto, il senso è la nozione che si forma nella mente della

cosa, si può dire che la mente non conosce mai le cose così come sono, ma sempre

e solo così come le significa, cioè secondo il senso che attribuisce a esse.

Le cose per gli uomini, afferma esplicitamente Burthogge, non sono mai

conosciute come realmente sono, ma sono sempre conosciute per analogia91, cioè

le cose sono per noi così come esse vengono conosciute per mezzo dei modi

concipiendi92. Quindi gli oggetti sono solo in quanto “prodotti” delle nostre

facoltà mentali e senza di esse non hanno alcuna realtà. Egli aggiunge che gli

oggetti non sono nemmeno da considerarsi come delle rappresentazioni o

immagini che in qualche modo corrispondano direttamente alla cosa, opponendosi

così alla posizione corrispondentista e rappresentazionalista all’epoca ancora

sostenuta parzialmente da Smiglecki e Hobbes. Infatti, la ragione non si riferisce

immediatamente alle cose, dalle quali scaturirebbero immagini e rappresentazioni,

ma piuttosto si riferisce alle sensazioni93. Inoltre, aggiunge Burthogge, la ragione è

una facoltà che non attinge immediatamente il particolare dalla natura, ma

piuttosto procede per mezzo di astrazione e ha a che fare con gli universali. La

ragione perciò non tratta di immagini o rappresentazioni, ma di loro sublimazioni,

anche se è cosciente che tali astrazioni sono concetti inadeguati per spiegare

esaustivamente il particolare. Per ultimo, così come l’oggetto immediato dei sensi

è ciò che affetta il sentimento, l’oggetto della ragione è qualche cosa di

intellettuale, escludendo così le immagini che derivano o dai sensi o da un loro

ricordo.

Le cose conosciute, cioè gli oggetti, sono solo apparenze e fenomeni generati

dalle impressioni sulle nostre facoltà. Gli oggetti della conoscenza perciò non

sono più le cose in se stesse, ma le cose così come appaiono e vengono significate

dalla mente94. Ogni facoltà, afferma Burthogge, ha un ruolo decisivo «in making

its immediate Object»95; infatti, così come l’occhio “fa” il colore, l’orecchio il

91 Organum, p. 12: «To understand this, we are to consider, That to us men, things are nothing but as they stand in our Analogie; that is, are nothing to us but as they are known by us»; Essay, p. 76.92 Organum, p. 12.93 Essay, p. 77.94 Non del tutto a torto in questa dottrina Landes aveva visto in nuce la contrapposizione kantiana fra fenomeni (come cose che appaiono) e noumeni (come cose in sé).95 Organum, p. 12. Il corsivo è mio.

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suono, la fantasia le immagini, così anche l’intelletto costruisce i propri concetti

(o nozioni) attraverso i quali apprende le cose96. Nell’affermare ciò, Burthogge

non sta solo dicendo che le proprietà secondarie come il colore e il suono hanno

origine nella mente e non competono alle cose, ma sta sancendo anche che ogni

proprietà degli oggetti e gli oggetti stessi non sono altro che prodotti del pensiero,

degli entia cogitationis97. La realtà di Burthogge viene così privata da ogni statuto

ontologico e assurge a mera virtualità: ogni ens reale diviene un ens rationis.

Infatti, questi entia cogitationis sono tutte delle apparenze (appearances) che non

sono, usando termini legati alla Scolastica, «properly and formally in the things

themselves»98, cioè non si può sapere se essi si riferiscano realmente e veramente

alle cose e abbiano una corrispondenza con esse. Ciò di cui si è certi, è che le

apparenze hanno uno statuto ontologico virtuale solo in relazione alle facoltà

cognitive e questo sembra evidente a Burthogge ancora una volta se si pensa ai

sensi: nessun colore può essere se non nell’occhio, nessun suono può essere se

non nell’orecchio, così nessuna nozione e nessun senso saranno se non nella

mente. Gli entia cogitationis sembrano essere negli oggetti anche senza le facoltà

cognitive, ma, aggiunge Burthogge, lo sono nella stessa misura in cui

un’immagine è (riflessa) in uno specchio o nell’acqua99.

Quindi tutte le cose in quanto entia cogitationis sono in funzione delle facoltà

cognitive, cioè entità della sensazione, se oggetti immediati dei sensi, immagini,

se oggetti dell’immaginazione, e entità mentali (o nozioni), se oggetti della

ragione100.

Gli entia cogitationis (cogitable beings) non hanno perciò alcun fondamento

nella realtà senza le facoltà cognitive, ma sono effetti di esse: sono in un certo

senso chimere o finzioni in relazione ai sensi all’immaginazione, mentre sono

semplici nozioni in relazione all’intelletto101.

96 In questo senso la prospettiva di Burthogge può essere considerata come un costruttivismo debole, cioè che si conosce solo ciò che si costruisce, ma si è coscienti di conoscerlo solo come apparenza. Il costruttivismo forte, invece, afferma che ciò che si costruisce o si fa è la realtà. Sui diversi tipi di costruttivismo, cfr. Rockmore 2005.97 Organum, p. 12.98 Ibidem.99 Organum, p. 13100 Ibidem.101 Organum, p. 14.

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Il fatto che la ragione non percepisca la realtà delle cose come sono in se stesse

e che essa dipenda dalla mente, non significa che nulla sia reale102. Burthogge si

rende conto dell’originalità di questo suo argomento e della necessità che esso

venga difeso103. È vero che per mezzo dei modi concipiendi conosciamo le cose

così come appaiono alla mente e non come sono, tuttavia bisogna ammettere che

queste in un certo senso sono, cioè che abbiano un fondamento

(ground/foundation) nelle cose e tale fondamento consiste proprio nell’essere

causa (cause) e occasione (occasion) della produzione delle apparenze nella

mente104.

In questo senso Burthogge ricorre, come farà Kant, alla cosiddetta “ground-

theory”, secondo la quale è vero che le cose vengono conosciute come appaiono,

ma queste non sono create completamente dalla mente. Le cose hanno una realtà

in se stesse che è sconosciuta, ma che è principio della conoscenza: ci sono delle

cose del mondo che non sono conoscibili così come sono, ma esistono realmente.

L’esistenza di queste cose ha senso solo nella misura in cui esse si fanno

conoscere in un particolare modo, cioè appaiono alla mente attraverso i suoi vari

modi concipiendi. In termini scolastici – così come Burthogge si esprime – gli

oggetti della conoscenza sono reali non formalmente, ma fondamentalmente, cioè

sono solo occasionalmente nelle cose, mentre sono sempre propriamente nella

mente105. In questo senso, la nozione mentale si chiama oggetto in quanto oggetto

della mente nel processo cognitivo e corrisponde a ciò che gli scolastici

chiamavano conceptus objectivi. L’epistemologia di Burthogge è così ancora

legata ad un modello essenzializzato di gnoseologia scolastica, ma trasforma

questi temi in una più elaborata logica delle facoltà e teoria della conoscenza che

erano del tutto sconosciute in quel periodo, e che lasciano preconizzare alcuni

aspetti simili all’epistemologia kantiana.

102 Essay, p. 84.103 Essay, pp. 86-89.104 Organum, p. 12: «they are in our Faculties not in their Realities as they be without them, no nor so much as by Picture and proper Representation, but onely by certain Appearances and Phaenomena, which their impressions on the Faculties do either cause or occasion in them»105 Organum, p. 14: «they are real (as a School-man would express it) not formally, but fundamentally; they are inchoately and occasionally in the things, but not consummately and formally but in the Faculties; not in the things, but as the things relate to our Faculties; that is, not in the things as they are Things, but as they are Objects».

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L’oggetto della conoscenza è semplicemente un’apparenza, un fenomeno, ma

ben fondato nella realtà. Burthogge riconosce che questa sua posizione possa

avere un antecedente in Platone, per il quale le cose del mondo sono solo ombre e

apparenze e il reale risiede nel mondo ideale106. Tuttavia, il filosofo inglese

afferma che solo ciò che si conosce è un’apparenza, e che ciò che è reale è nel

mondo esterno e non nel mondo delle idee. La teoria di Burthogge così si svincola

da una certa tradizione platonica professata da molti pensatori al suo tempo107.

Il modello di conoscenza elaborato da Burthogge è perciò intenzionale

(intentional), piuttosto che reale108: tutto ciò che è conosciuto è un’idea, un

concetto oggettivo, appunto un cogitabile che dà senso alle impressioni che

provengono dalla sensazione.

È proprio nell’intenzionalità della conoscenza che sta il nesso fra il “senso” e la

nozione. Come si è visto, Burthogge identifica il senso con la nozione mentale in

quanto oggetto del pensiero, ma li distingue dal punto di vista funzionale: si parla

di senso solo in relazione a parole o proposizioni, mentre si parla di nozione solo

in relazione agli oggetti della conoscenza. È chiaro però per il filosofo inglese,

riprendendo su questo punto la posizione concettualista di Hobbes, che è

impossibile apprendere una parola o una proposizione senza il senso, né il senso

senza una corrispondente nozione; infatti, conoscere il senso di una parola

significa in primo luogo costruire una nozione di essa. Perciò i concetti hanno una

priorità epistemologica anche rispetto al senso e alla parola e non solo rispetto

all’oggetto che viene conosciuto per mezzo dei modi concipiendi.

Rimane però da risolvere la non facile questione di come le nozioni, per mezzo

del senso, corrispondano alle cose del mondo, soprattutto se è vero che abbiano un

fondamento in esso. Alcune posizione concettualiste, come quella di Zabarella,

lasciavano irrisolto il problema, stabilendo una perfetta corrispondenza fra le cose

e le nozioni mentali; altre, come quella di Hobbes, ricorrevano all’ipotesi più

raffinata della mente specchio del mondo. Burthogge propone, invece, una

soluzione diversa. Il senso è dato solo da una congruità nell’oggetto rispetto alle

facoltà, dove per oggetto si intende sempre un oggetto mentale: «Sence, Meaning,

106 Essay, pp. 88-89.107 Sull’epistemologia dei platonici di Cambridge cfr. Brown 2010.108 Essay, p. 82.

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or Notion arises from a Congruity in the Object to the Faculty»109. In altri termini

l’oggetto in quanto concetto mentale deve essere congruo alle condizioni e alle

leggi interne della mente, altrimenti questo oggetto sarebbe un oggetto del tutto

insignificante, sebbene ancora rappresentabile. Spiegare bene che cosa sia questa

congruità risulta piuttosto difficile anche per Burthogge, e si ha l’impressione che,

come Zabarella e Hobbes, voglia in parte sorvolare sopra l’argomento; ma

siccome su questa questione si gioca tutta la sua logica, il filosofo inglese cerca di

abbozzare una risposta, ricorrendo ancora una volta al parallelo con la sensazione.

Domandarsi perché non si possa comprendere una parola o una proposizione

senza senso, che è laddove non vi è congruità nell’oggetto rispetto alla facoltà,

significa paradossalmente chiedersi perché non si possano vedere o udire i gusti, o

gustare e odorare i suoni, o così gustare, udire e odorare i colori110. La ragione può

comprendere solo ciò che ha un senso, quel senso che essa stessa fornisce a ciò

che è dato dall’esperienza. Un senso però, è bene ricordarlo, che deve essere

congruo alle facoltà stesse che percepiscono l’oggetto. Ad esempio, se si

percepisce un “cavallo”, non può dire di percepire la “cavallinità” o un’animale

quadrupede, perché la sensazione sottostà a delle leggi che individuano l’oggetto e

che non permettono la considerazione dell’universale. Così parimenti l’intelletto

non si occupa uno specifico cavallo, ma con la “cavallinità” secondo le modalità

di sostanza-accidente, causa-effetto etc.

È chiaro quindi che la congruità di cui parla Burthogge è puramente logico-

mentale. Infatti, egli si premura di distinguere questo tipo di congruità da quella

degli oggetti con se stessi o con altri oggetti: la prima è chiamata congruità

rispetto alle facoltà o armonia degli oggetti con le loro facoltà, la seconda è

chiamata congruità nelle cose o armonia degli oggetti con se stessi111, così come

le parti di un corpo organico convengono a costituire la forma del tutto.

Il rapporto significazionale fra senso e cosa diviene così per Burthogge

totalmente intrinseco alla mente e si fonda sull’idea che ci deve essere

adeguatezza e armonia fra l’oggetto concepito e la facoltà che concepisce, cioè nel

109 Organum, p. 15.110 Ibidem.111 Ibidem.

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momento in cui l’oggetto mentale viene formato deve adeguarsi alle condizioni

logiche poste dalla mente stessa.

Ciò riguarda l’apprensione di oggetti singoli espressi medianti parole.

Diversamente accade rispetto alla proposizione e al discorso. Infatti, non è

sufficiente conoscere il senso delle parole, bensì bisogna conoscere anche la

relazione di congiunzione che sussiste fra esse, la quale non è che un altro

concetto mentale o modus concipiendi.

L’intera logica di Burthogge si fonda perciò sull’apprensione di una duplice

relazione: quella degli oggetti con la loro facoltà e quella fra diversi oggetti

espressi dalle parole.

5. Giudizio

La seconda operazione specifica della ragione è il giudizio. Questa parte è

trattata da Burthogge solo nell’opera del 1677, mentre non è presa in

considerazione nell’Essay upon Reason che preferisce, invece, trattare dei

problemi legati al rapporto fra mente e corpo che investono la filosofia cartesiana

e spinoziana, ma che in questo ambito non concorrono a spiegare la sua teoria

epistemologica.

Il giudizio è definito come quell’atto dell’intelletto che consente la

comparazione di più cose acquisite dall’apprensione al fine di fornire il proprio

assenso o dissenso112. L’atto del giudizio è presentato come duplice: il primo

aspetto concerne la possibilità di comparare e considerare le cose, mentre il

secondo di analizzarle e decretare su di esse. Si tratta di due momenti distinti, nei

quali la mente da una parte studia l’oggetto e dall’altra pone il suo assenso o

dissenso. La prima parte dell’atto del giudizio viene chiamata propriamente

ragionamento, mentre la seconda è invece chiamata risoluzione mediante

ragione113.

Il ragionamento consiste secondo Burthogge nella elaborazione e

nell’illustrazione di particolari ragioni. La ragione in quanto motivo è il principio,

il fondamento proprio del giudizio intellettuale, cioè la causa per cui l’intelletto

112 Organum, pp. 29-30.113 Organum, p. 30.

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assente o dissente su una particolare considerazione o comparazione di più cose.

L’assenso prodotto dal giudizio, infatti, è l’approvazione dell’intelletto rispetto

alla cosa considerata o alla comparazione effettuata, mentre il dissenso è l’esatto

opposto, ovvero la disapprovazione rispetto a ciò che è considerato e viene

comparato114. In questi termini, Burthogge fa coincidere l’attività suprema del

giudizio con il ragionamento, o, meglio, in piena tradizione aristotelica, con la

dimostrazione. Infatti, mostrare la ragione di una cosa significa provarla, cioè

argomentarla al punto tale che l’interlocutore non può negare che le cose stiano in

quel particolare modo.

La logica è proprio quel metodo che insegna a condurre il ragionamento a

prove che sono inconfutabili rispetto a ciò che si vuole dimostrare. Ci sono due

vie secondo Burthogge per dirigere la mente nel corretto ragionamento: una è

connaturata con la ragione, mentre l’altra è insegnata. A queste due vie

corrispondono una logica artificiale e una logica naturale. La logica artificiale

coinciderebbe per Burthogge con la logica insegnata nelle scuole, la quale è

essenzialmente una logica aristotelica. Essa è utile in molti modi, dall’acuire

l’ingegno al rendere più sagaci, precise e attente le deduzione115. Tuttavia,

ammette Burthogge, la logica artificiale sarebbe completamente inutile senza la

logica naturale. Quest’ultima è una logica “universale” che compete anche alle

persone semplici e illetterate, ma più in generale a tutti gli uomini116, i quali

proprio per la loro comune razionalità, identificata con la logica naturale, possono

dirsi uguali.

Essere uguali dal punto di vista razionale significa per Burthogge che, avendo

le stesse facoltà, usando lo stesso metodo e partendo dai medesimi principi, il

risultato dell’inferenza, cioè la conclusione, non può che essere identico per ogni

essere umano. Gli esseri umani ovviamente poi si differenziano nell’uso reale di

questa logica, cioè acquisendo con l’esperienza delle particolari abilità che

consentono loro di utilizzare tecniche di argomentazione e metodi d’indagine ben

specifici che riguardano solo alcuni individui e non altri. La logica quindi insegna

come sviluppare queste potenzialità naturali e come usare la ragione a proprio

114 Ibidem.115 Organum, pp. 30-31.116 Organum, p. 31.

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vantaggio. I fini per i quali si può utilizzare la logica sono due, uno è speculativo e

uno pratico. Questi due tipi di fine designano anche due funzioni della ragione, la

ragione speculativa o teoretica e la ragione pratica117.

La ragione speculativa ha lo specifico compito di mostrare se una cosa è vera o

falsa, mentre la ragione pratica ha il compito di indicare se una cosa va fatta

oppure no118. Queste due funzioni della ragione sono il fondamento

rispettivamente del giudizio speculativo e del giudizio pratico. Il giudizio

speculativo concerne la verità e la falsità e determina l’assenso o il dissenso,

mentre il giudizio pratico decreta la moralità di un’azione, determinando

approvazione o biasimo.

In particolare Burthogge è interessato al giudizio speculativo, il quale prova

che una cosa è vera o mostra che una cosa è falsa. Verità e falsità sono perciò due

elementi che contraddistinguono il giudizio dall’apprensione, la quale, invece,

considerava solo l’armonia fra l’oggetto e la facoltà preposta per concepirlo, senza

valutarne l’essere vero o falso dell’oggetto stesso: infatti, una nozione può essere

vera o falsa ma non essere riconosciuta come tale119. Come era lecito aspettarsi,

seguendo in questo caso la proposta di Hobbes di origine aristotelica, per

Burthogge anche la verità e la falsità sono due attributi che competono

esclusivamente alla mente e mai alle cose, dato che essi stanno alla mente così

come il bianco e il nero stanno all’occhio: sono attributi mentali del giudizio

riguardo l’oggetto concepito120. Si tratta quindi di una concezione meramente

logica della verità. Infatti, Burthogge nega la concezione metafisica della verità

propria dei platonici di Cambridge, per la quale essa sarebbe la conformità delle

cose con le idee originarie nell’intelletto divino. Quest’ultima riguarderebbe le

cose così come sono conosciute da Dio: un tipo di conoscenza del tutto

inaccessibile all’uomo. I limitati poteri della ragione umana hanno a che fare con

un tipo di verità che è semplicemente logica, cioè che stabilisce come sono le cose

così come appaiono alla mente121.

117 Organum, pp. 31-32.118 Organum, p. 32.119 Ibidem.120 Ibidem.121 Organum, p. 33.

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Per spiegare la sua concezione di “verità”, Burthogge prende in esame le

dottrine a quel tempo più in voga, in particolare quella cartesiana e quella di

Herbert di Cherbury. La teoria della verità di Descartes è ricondotta a quella degli

stoici e affermerebbe che non ci sarebbe altra regola, altro segno, altra misura per

distinguere ciò che è vero che una chiara e distinta percezione. Burthogge però

critica subito questa posizione, affermando che la percezione non potrà mai essere

la causa e il fondamento dell’assenso di cui gode la verità, ma solo una condizione

di essa. Infatti la verità è qualcosa nell’oggetto concepito e che invita l’assenso,

mentre la percezione chiara e distinta non è nell’oggetto, bensì dell’oggetto.

Questo non significa per Burthogge che la verità sia nelle cose; essa rimane

sempre nella mente ma appunto in quanto mentale essa scaturisce dall’oggetto

concepito e non è propriamente dell’oggetto: gli oggetti mentali non sono mai veri

o falsi, è la mente che li giudica tali.

Burthogge sembra più vicino alla concezione di verità proposta da Cherbury,

per il quale essa è una sorta di accordo o armonia delle cose alle facoltà della

mente che invita a un libero e pieno assenso122. Tale definizione, tuttavia, era stata

utilizzata da Burthogge per spiegare la congruità delle cose percepite dalla mente,

non per la verità. Tale congruità non può essere quindi il fondamento della verità,

ma piuttosto sarà quella dell’apprensione stessa, sia in relazione ai sensi che

apprendono cose sensibili, sia in relazione all’intelletto che apprende cose

intelligibili.

La verità, come motivo, ragione e fondamento dell’assenso, viene così definita

da Burthogge come l’armonia oggettiva, cioè completamente mentale, degli

“oggetti” fra di loro, e quindi non con le facoltà della mente, ma sempre e

comunque all’interno dello schema che questi hanno nella mente stessa: «Truth,

as it is the Ground, Motive, and Reason of Assent, is objective Harmony, or the

Harmony, Congruity, Even-lying, Answerableness, Consistence, Proportion, and

Coherence of things each with other, in the Frame and Scheme in our Mindes»123.

In altre parole questo significa che non solo è necessaria una congruità fra

l’oggetto concepito e la facoltà che lo concepisce secondo le leggi della mente

122 Organum, pp. 35-36. Cfr. Cherbury 1633, p. 68: «est enim veritas (uti saepe monuimus) Harmonia quaedam inter objecta et facultates Analogas, habens sensum gratissimae et lubentissimae sine ulla haesitatione Respondedntem».123 Organum, p. 41.

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stessa: questo sarebbe sufficiente solo per avere una conoscenza dell’oggetto. Per

la verità è necessaria anche una congruità delle cose fra loro che però sottostia

anch’essa ai particolari schemi che la mente ha di concepire le cose. Ad esempio,

si pensi all’affermazione “il veleno causa la salute”. Le nozioni di “veleno”,

“causa” e “salute” per essere concepite hanno bisogno solo della loro congruità

con la rispettiva facoltà, cioè devono essere oggetti consistenti e adeguati alla

facoltà di appartenenza. Per determinare la verità dell’affermazione, tuttavia, è

necessario vedere se “veleno” e “salute” siano oggetti consistenti per mezzo della

nozione di causa attraverso cui sono concepiti. Evidentemente questo è falso,

infatti non c’è un’armonia fra queste due nozioni e il modus concipiendi di causa

(che è esso stesso una nozione): il veleno non potrà mai essere causa di salute. Si

badi bene, questo non significa che le tre nozioni siano state apprese in modo

erroneo, piuttosto che non esiste l’armonia e la congruità fra loro. Inoltre è bene

notare che queste tre nozioni, fra cui c’è il modus concipiendi di causa-effetto,

possono benissimo essere in accordo fra loro nell’affermazione “il veleno non

causa salute”. La differenza fra queste due affermazioni è meramente logica e per

Burthogge in ciò consiste la verità in campo epistemologico: una congruità degli

oggetti nella mente secondo specifiche regole logiche e schemi.

Per Burthogge, come nel caso dell’apprensione, anche nel caso del giudizio, è

sempre la mente con la sua attività a fornire una descrizione della realtà per mezzo

dei suoi modi concipiendi e per mezzo delle relazioni che vengono colte fra gli

oggetti stessi. Per Burthogge questo non significa che le cose stiano così e in

questa maniera, ma è così che vengono conosciute dall’uomo e altrimenti non

possono essere descritte. Ogni tentativo di dare una spiegazione della realtà al di

là delle apparenze apprese dalla mente è un tentativo non solo destinato al

fallimento, ma anche deleterio, in quanto spinto dalla presunzione di elevare la

limitata ragione umana all’intelletto divino, il solo che conosce le cose come sono

in se stesse veramente.

6. Conclusione

L’epistemologia di Burthogge è dunque interessante per la sua posizione

concettualista e costruttivista, fondata però su un forte piano empirico: quello

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della sensazione. Sono diverse le idee epistemologiche di Burthogge che destano

un certo interesse, che mostrano una certa originalità e che devono essere

rivalutate.

Innanzitutto egli difende una concezione strumentale della logica riprendendo e

approfondendo l’idea aristotelica, ma spostando l’interesse verso una logica delle

facoltà che favorisce lo studio della logica naturale che concerne la costituzione

psicologica della mente, piuttosto che la forma delle argomentazioni logiche. Si

tratta questa di una posizione che avrà largo seguito in Locke e in tutta la logica

psicologica del Settecento. Nell’elaborare questo particolare tipo di logica,

Burthogge determina i limiti della ragione umana, confinando il suo campo di

competenza a tutto ciò di cui si fa esperienza e in modo particolare a ciò che

proviene dai sensi. Questo non significa che la conoscenza sia semplicemente

conoscenza sensibile, ma solo che tutta la conoscenza ha origine dall’esperienza,

mentre la conoscenza intellettuale è semplicemente un riflesso di questa. Tutta la

conoscenza proveniente dalla sensazione è una conoscenza filtrata attraverso dei

modi concipiendi – come la sostanza, la quantità, la qualità, la causalità – che

appartengono alla ragione e fanno conoscere le cose al soggetto secondo una

particolare determinazione. La conoscenza è così indubbiamente il risultato di

un’azione congiunta fra sensazione e i modi concipiendi che si esplica in un

processo di sublimazione delle sensazioni in concezioni. Tale conoscenza è una

conoscenza meramente fenomenica, cioè riguarda gli oggetti così come appaiono

alla mente attraverso i suoi modi concipiendi e non come veramente sono nella

realtà: l’accesso alla sostanza è totalmente negato. In questo senso è la mente che

“significa” gli oggetti per mezzo delle facoltà cognitive. Così, inevitabilmente, gli

oggetti non hanno realtà e senso se non in relazione alla mente: essi sono entia

cogitationis. Non esistono realmente, o meglio la loro esistenza reale nel mondo è

insignificante per la mente che li concepisce come semplici apparenze. Essi hanno

valore solo all’interno del processo cognitivo. Gli oggetti della mente sottostanno

a regole a priori che sono costitutive della mente stessa. Non solo perché gli

oggetti sono conosciuti per mezzo dei modi concipiendi, ma anche perché questi

oggetti devono essere congruenti alle rispettive facoltà. L’intelletto non può

concepire un’immagine o una sensazione, così come l’immaginazione non può

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raffigurarsi un concetto. Ogni facoltà ha un proprio oggetto che è appreso secondo

particolari leggi. La mente, tuttavia, costruisce solo i “fenomeni”, che sono oggetti

puramente mentali, non produce dal nulla le cose del mondo. Queste sono

esistenti nel mondo in quanto cause delle alterazioni delle sensazioni percepite

dalla mente. I fenomeni hanno perciò un fondamento nelle cose, sebbene questo

fondamento sia di per sé inconoscibile. Questa concezione epistemologica implica

necessariamente che la verità non appartiene mai alle cose, ma sempre, solo ed

esclusivamente alla mente e consiste nella congruità degli oggetti fra loro,

secondo le leggi e gli schemi mentali che appartengono a priori alla mente stessa.

Solo questo tipo di verità produce l’assenso che porta a una conoscenza rigorosa

degli oggetti.

Sottesa a questa epistemologia concettualista, Burthogge elabora una teoria

funzionalistica della mente come centro di attività, energia e operazioni, piuttosto

che come una cosa o una sostanza. Così, la stessa coscienza non è coscienza della

mente stessa, come res cogitans, quanto coscienza delle attività che la mente

esercita per mezzo delle sue facoltà. Il soggetto non è mai conscio di sé stesso

come sostanza, ma sempre come centro di operazioni cogitative. In particolare la

coscienza deriva dalle differenti concezioni mentali che si fondano

sull’alterazione prodotta dagli oggetti sulla sensazione.

Nella prospettiva di Burthogge la relazione fra mente e mondo è risolta

totalmente a favore del primo termine a discapito del secondo. È la mente che dà

un significato al mondo e costruisce i propri oggetti. Questo non vuol dire che il

mondo sia così come viene costruito, ma che è così che lo si conosce, come esso

appare, e altrimenti non lo si potrebbe descrivere con le limitate capacità umane.

L’alternativa è la caduta in un ontologismo della sostanza occulta e inconoscibile.

Quanto ci sia nell’empirismo di Locke e nel criticismo di Kant di queste

dottrine di Burthogge è difficile dirlo, tuttavia è senz’altro una posizione

epistemologica innovativa e interessante, degna di essere ricordata fra le più

importanti del panorama logico inglese della fine del XVII secolo.

Infine, il caso di Burthogge mostra con evidenza come le ricostruzioni

filosofiche che riconducono le dottrine gnoseologiche pre-lockiane e

contestualizzano la stessa opera di Locke all’interno dell’ambiente cartesiano

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siano piuttosto generiche e in un certo senso anche fuorvianti. Non solo c’erano

solo Descartes e i suoi seguaci sull’agenda dei filosofi del periodo.

La situazione all’epoca era ben più complessa: diverse e divergenti teorie

gnoseologiche stavano nascendo in Inghilterra con spiccati tratti di originalità.

Solo un meticoloso lavoro storico di “decolonizzazione del passato” e una forte

attenzione verso i “trucioli del pensiero” possono restituire l’immagine di un

scenario fondamentale della storia della filosofia moderna come quello

dell’Inghilterra sul finire del XVII secolo124.

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124 Cfr. Piaia 2007.

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