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Prince - Personal Edition
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RobertoSavianoSuper Santos

Pallone entra quando diovuole.

Vujadin Boškov

Questo racconto è ispirato a una vicenda realmente accaduta. I nomicitati sono veri, ma alcuni sono stati modificati in attesa che le indagini siconcludano o nuove verità facciano chiarezza.

È una regola eterna. Immutabile. E bisognerebbe riuscirea trovare una formula matematica. O quantomeno unariduzione numerica, una frase aritmetica, un tentativo diproporzione, un delirio logaritmico. Insomma, qualcosa chene dimostri l’assoluta scientificità. Si dovrebbe trovare unatraccia formale per poter comprendere i meccanismi inelut-tabili e perenni che regolano le partite di calcio di strada. Ilchiattone in porta, quello smilzo e veloce avanti, il robusto indifesa e quelli che restano a centrocampo. Lì possono andaretutti: quello che non ha i piedi buoni ma sa lanciare, quelloche sa correre veloce ma ha il fiato corto, quello muscolosoma non abbastanza stabile. Insomma, a centrocampo vamesso quello che sa fare tutto a metà. Ora però rispetto aqualche anno fa ci sono delle varianti. Quando ero ragazzinoi portieri erano i peggiori. E la porta era una punizione tra lepiù umilianti. Un posto in cui vedere la partita da lontano ericevere dolorose pallonate in faccia che ti segnavano in visodi rosso per settimane. Un ruolo che ti costringeva a rac-cogliere la colpa del gol subìto e a essere ignorato dagli ab-bracci del gol realizzato. Piuttosto che un giocatore, il por-tiere era un raccattapalle mobile. Un ruolo terribile. Spessoil posto del portiere era sopportato a turno, ma quando nonsi trovava nessuno da umiliare in porta, da poter soggiogarenelle retrovie, quando insomma tutti i giocatori erano capacidi tener testa, allora si sceglieva di giocare a “porta americ-ana”. Senza portiere. Due squadre si fronteggiavano cer-cando di segnare in un’unica porta con nessuno a difenderla:a turno, la squadra difende o attacca, alternandosi nei ruolidopo ogni gol. Non mi è chiaro perché questa modalità sia

stata definita all’americana. Una volta ero in macchina conun gruppo di ragazzi ubriachi, tornavamo da una festa equesti aprirono le quattro portiere dell’auto mentre corre-vano su una strada sterrata urlando “andiamoall’americana”. A Maddaloni c’è una pizzeria che serve pizzeall’americana: su un piccolo treppiedi messo al centro del ta-volo arrivano enormi ruote con diversi condimenti. Enormi,esagerate, “all’americana” appunto. Tutto quello che èstrano e insensato o forse semplicemente fuori dal comune,come giocare senza portiere, mangiare una pizza enormecon sopra di tutto, o rischiare da idioti un incidente mortale,viene definito “americano”.

Oggi invece i portieri sono stati rivalutati. Ora sono campi-oni, hanno donne bellissime, vincono Palloni d’Oro, hanno unruolo decisivo, la loro non è una condizione obbligata perchénon sanno fare altro. Così molti ragazzini scelgono di fare ilportiere. I chiattoni della squadra non si sentono più esiliatinelle retrovie, ma prescelti per difendere l’ultimo baluardo.Nel centro storico di Napoli, tutti i ragazzini neri vanno inporta da quando il Milan ha acquistato un portiere brasilianodi colore, non proprio un campione, Dida. Un po’ come queiragazzi che vengono dall’Argentina e godono di assoluta fi-ducia nelle proprie capacità sportive grazie a Maradona.Dopo la crisi argentina del 2000 che ha prosciugato irisparmi della piccola e media borghesia, sono sbarcati a Na-poli molti argentini i cui antenati erano partiti cento anniprima dal Golfo. Ora i loro nipoti, dopo aver implorato nelleambasciate italiane il passaporto di ritorno che i loro aviavrebbero strappato volentieri, sono tornati ad abitare neiquartieri da cui erano fuggiti gli emigranti. Un percorso in-verso che mai avrebbero immaginato di dover fare. I ragazzidai cognomi italiani e nomi latinoamericani sono tornati a

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giocare per i vicoli dei loro trisavoli, a battere calci d’angolosui piedi delle statue come i loro bisnonni. A questi ragazziniil solo provenire dalla terra di Maradona, il solo avere unacadenza simile a quella del Pibe de Oro basta a concederesubito un carisma infinito e una certezza di bravura. Anchese sono incapaci e brocchi.

Il tocco – così al Sud chiamiamo la conta che avviene tra idue capisquadra per scegliere i giocatori – è un vero labor-atorio antropologico. I capisquadra sono i più bulli, nonsempre i più bravi. Anzi, quasi mai lo sono. Ma sanno farescivolate violente rovinando caviglie, dare testate mirando alnaso, sputare con una mira da cecchino e beccare sempre lapupilla ben aperta. Sono quelli che sanno farla pagare a chibuca il pallone o lo fa finire dietro una cancellata. Ma neltocco non c’è abilità o bravura. Il tocco è determinatodall’arbitrio delle dita lanciate davanti alle pance: solo casoe fortuna. In genere il primo a essere scelto è l’attaccante ditalento, se però la squadra inizia a comporsi di brocchi,quella prima scelta diventa una condanna che non lascia al-cuna speranza di vittoria. Allora spesso accade che mentre sicompone la squadra, che può essere di tre, quattro, cinque osei persone, il giocatore più forte si accorge chiaramente cheil tocco gli è andato storto e il caposquadra sta scegliendo gliscarti. Così non gli rimane che gettarsi a terra e piangere.Senza vergogna alcuna, perché la vergogna di piangerenasce solo quando subisci uno schiaffo, ma piangere controil destino del tocco è l’unico modo per tentare di rimischiarele dita e ricominciare da capo, e non c’è vergogna a protest-are contro la cattiva sorte. Spesso non cambia nulla, ma avolte può capitare che qualcuno rimescoli tutto e tenti di ri-fare le squadre, pur di far cessare il pianto.

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Il pallone è fondamentale. Il proprietario del pallone puòdivenire il reggente assoluto delle scelte. Anche se è un gioc-atore mediocre, può avere l’ultima parola, stravolgere iltocco e in molti casi, quando ci sono falli o rigori non dati,può prendere il pallone e andarsene via. Il pallone compratocon una colletta di monete era la garanzia per una partitamigliore. Il pallone meno costoso era il Super Tele, ma era diplastica leggera, volava via ed era impossibile darglidirezione. Tirare di potenza il Super Tele significava perdereil pallone, condannarsi a scavalcare cancelli, correre per lecampagne, far finire il pallone sotto un autobus. I ragazzinidicevano che era il pallone delle femmine. Un pallone da“sette si schiaccia”, il gioco simile alla pallavolo in cui giuntial settimo palleggio si cerca di schiacciare la palla controuna persona, tentando di colpirla e farle male il più pos-sibile, così da eliminarla. Nel mio paese qualsiasi giocovedesse toccare la palla con le mani era da “ricchione”.

Il Super Santos non era un semplice pallone. Era il pal-lone. Una sfera arancione fuoco con le canalette nere cheformano figure geometriche. Resisteva a tutto, e anche setiravi con tutta la forza che avevi, riusciva a mantenere ladirezione. Quando qualcuno immaginava un pallone, lo im-maginava arancione, nero e con la scritta gialla. Immaginavail Super Santos. Un pallone con la vera dignità di un pallone,a un prezzo economico e una resistenza fuori dal comune. Siassociava uno stato d’animo al Super Santos. Quando nespuntava uno significava scampagnata, partitella. Il SuperSantos diventava sintesi di tutto quello che volevi fare: diver-tirti, stare all’aria aperta, giocare, correre. Il Super Santosera un modo di concepire la vita, anzi una sorta di sogno acui tutti i ragazzini ambivano, star sempre con lui di fianco,sui piedi, averlo sempre a disposizione. Quando eroragazzino per Pasquetta si andava a giocare a pallone alla

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Reggia di Caserta. Le statue diventavano pali, gli alberiporte, le siepi perimetro del campetto. Tutti contro tutti,centinaia di palloni volanti, di bordate contro ringhiere epersone, di partitelle, di storte, caviglie gonfie, slogature eancora partite e partite ancora. I giardini divenivano un viol-ento campo di battaglia di palloni, merende, birre e ancorapalloni. Un guardiano giurava di averne recuperati la mat-tina dopo più di mille. Ovunque. Persi, schiattati, sgonfiati,esplosi, nascosti, affondati. Dopo alcuni anni vietarono l’ac-cesso alla Reggia di Caserta, per Pasquetta.

Finivano ovunque i Super Santos, sui tetti, sui balconi, inscarpate, sugli alberi, dietro cancellate, infilzati su ringhiere,in mezzo agli scogli. La regola anche lì era inflessibile, ossiachi lancia il pallone fuori lo recupera. E per recuperarlo avolte ci volevano ore. Citofonare, far aprire il cancello – chenon ti aprono perché non ne possono più delle pallonate – oarrampicarsi, scavalcare, andare in mezzo alla campagna acercarlo. Se finiva in un giardino con delle rose o in unaterra coltivata a carciofi, le spine lo graffiavano e lentamentesi sgonfiava mentre ci giocavi. La parte maggiore dei SuperSantos di città moriva perché qualche signora lo prelevavase finiva sul balcone o sfondava una finestra, e spesso dav-anti ai ragazzini impietriti commetteva l’esecuzionesquartandolo con un coltello da cucina. L’olocausto del Su-per Santos. Quando questo accadeva, la signora veniva odi-ata con ogni forza, e se poi lanciava il pallone ormai ca-davere giù dal balcone, si faceva sempre la stessa cosa: lo siapriva in due per ammirarne le budella che erano arancionefuoco e liscissime. Così te lo mettevi in testa come una sortadi elmetto. Quando finiva sotto una macchina il Super Santosresisteva, i bus invece lo facevano esplodere. Se una moto loprendeva in pieno, il motociclista non aveva speranza, era aterra. Le auto più grosse o i fuoristrada, invece, lo

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deformavano, ma poteva resistere ancora molte partite.C’erano persino gli esperti di Super Santos secondo cui ilpallone rendeva meglio dopo un paio di settimane di giocate:quando era troppo nuovo e troppo gonfio andava “a vento”.

Ci furono infinite imitazioni. E siccome tra le possibili ori-gini del nome c’è la squadra brasiliana, quella di Pelé, il San-tos, chiamato per la sua imbattibilità Super Santos, alcunefabbriche che usavano schifosa plastica per fare palloniprodussero sfere arancioni dai nomi improbabili: SuperBrazil e Super San Paolo (la squadra rivale del Santos). Tuttipiù economici del Super Santos, ma non avevano la super-ficie porosa, non avevano l’odore della stessa plastica, nonavevano le canalette. Solo strisce nere stampate su una su-perficie liscia di plastica sottile. Il Champions fu l’imitazioneche più somigliava all’originale senza però affatto avvicinarsialla qualità della produzione. Poi arrivò il Pal Santos.Spuntarono il S. Santos o Super S. Quando ti presentavi conun’imitazione del Super Santos al campetto dovevi sempregiustificarti, dare una prova che i negozi vicini non avevanoquello vero, oppure che sulla spiaggia non ne vendevano più.Ma se sgamavano che deliberatamente avevi scelto un’im-itazione schifosa non avevi più diritto di giocare. Il pallonese lo prendevano, ma tu eri fuori.

Il Super Santos riusciva a mantenere giocabilità anche conil tempo, quando pedate, tiri, parate, lentamente lo sgon-fiavano. Si potevano incontrare infiniti gruppi di ragazziniche giocavano con Super Santos sgonfi. La vera condanna amorte di ogni pallone non era il tempo, ma i cocci di bot-tiglia, quelli messi nel cemento in cima alle pareti di cintaper non far scavalcare, gli spunzoni delle cancellate, maanche le parti in lamiera delle macchine incidentate che,parcheggiate, potevano fare da sponda a un tiro, e squar-ciavano il Super Santos. Quando avviene l’irreparabile, tutti

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tentano sempre il grande sogno mai realizzato. E tuttidicevano di aver assistito a un loro cugino o amico fraternoche c’era riuscito. Questo sogno era poter con un accendinosciogliere un po’ di plastica intorno al foro sul pallone. Co-prire meticolosamente il foro, quindi fargli la bucatura, comesi dice per le ruote delle auto. Portare il pallone dal gommis-ta e farlo rigonfiare. Nessuno c’è mai riuscito. Una volta bu-cato, il Super Santos, era finito, ma nessuno si rassegnavamai. Il pallone però che tutti invidiavano era il Tango:quanto di più simile al pallone di cuoio, all’inarrivabile pal-lone di cuoio, esistesse. Di gomma dura, era la perfetta im-itazione del pallone disegnato per i mondiali d’Argentina del1978. Sembrava davvero di cuoio, ma era delicatissimo.Bastava che ti ci sedessi sopra o che finisse anche sotto laruota di un’auto ferma per diventare ovale come un palloneda rugby. Bastava un po’ pressarlo e si deformava subito. Laprima volta che vidi un Tango era tutto sporco, ma lo presi elo carezzai facendomi le mani nerissime. Non m’importava,volevo sentire sotto le dita quella carne di pallone. Immagin-are almeno come poteva essere un vero pallone di cuoio.Dovevi aspettare per averlo, uguale a quello che vedevi ro-tolare sull’erba dello stadio San Paolo. Quando per la comu-nione o la cresima ti regalavano il pallone di cuoio, lo tenevifermo per anni, ci provavi pure a chiedere a tuo padre se po-tevi usarlo, ma la risposta era la stessa: “In un campetto”.Non te lo facevano mai portare per strada. Ma un campettoregolamentare era difficile da trovare. Era come unareliquia, il pallone di cuoio. Dovevi diventare più grande, equando ti si aprivano le porte dei campetti di calcetto, lì fi-nalmente potevi gonfiare e usare il pallone di cuoio dellacomunione. Quando l’avevi ricevuto, sapevi che l’avresti us-ato dopo dieci anni o che sarebbe finito nelle mani di un fra-tello minore, o che essendo stato conservato per anni sgonfio

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e in una scatola poggiata su una mensola, la camera d’ariasarebbe diventata una vescica moscia, sfondata, che nessunaaria avrebbe mai più potuto gonfiare.

Alla fine degli anni ottanta, il gruppetto più forte si trovavasicuramente a nord di Napoli: Dario, Rino, Giovanni, Gi-useppe. Non avevano più di otto anni a testa quando scor-razzavano per la piazza. Non facevano sempre squadra, simischiavano, l’uno contro l’altro, a volte in coppia, maquando si mettevano nella stessa squadra erano imbattibili.Rino al centro era capace di servire Giovanni ovunque sitrovasse. Inventava spazi impossibili, e Giovanni si andava aprendere la palla ovunque: sotto i motorini come a un milli-metro dal palo. Giuseppe in porta faceva delle uscite preci-sissime. Col naso sulla palla, saltava a scatto come unaranocchia, e gli scatti avvenivano sempre nel momentogiusto. Si metteva i guanti di lana come un fregio di profes-sionalità. In estate finiva le partite con le dita completa-mente cotte e la pelle bollita. Dario si posizionava fuoridell’area di rigore e sparava delle bordate che lasciavanol’orma del pallone sul muro. Una volta Rino lanciò il pallonein avanti con un pallonetto, Giovanni si aggrappò alla spalladi una signora per lanciarsi in una mezza rovesciata e ficcò ilpallone proprio all’incrocio dei pali, nella porta disegnatacon la vernice sul muro. La signora, pensando che lastessero scippando, lanciò un grido secco e iniziò a tenersistretta la borsa, mentre un’altra signora acciuffava Giovanniper i capelli ricci tirandoglieli violentemente. La squadra av-versaria chiamò fallo. Giovanni si ribellò dicendo che si eraappoggiato a una signora, non a un giocatore. Alla fine gliavversari ebbero ragione perché per strada tutti sono gioc-atori e ogni cosa fa parte del campo. Chi attraversa il campodiviene, anche se solo per qualche secondo, parte dell’azione

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di gioco. Le auto invece sono “fuori”, mentre i motorini e lesaracinesche tengono la palla in gioco. Anche sulle punizioniRino era preciso. Un piede delicatissimo.

Talvolta, dalla periferia nord prendevano il bus per ar-rivare in piazza Plebiscito. Giocavano proprio sotto il Palazzoreale, sotto gli occhi delle statue dei sovrani di Napoli. Rinopuntava il pallone all’altezza di Gioacchino Murat, poi pren-deva una rincorsa di qualche metro e calciava. Il Super San-tos aveva regole fisiche tutte sue. Ma regole da pallone vero.Punta, collo piede, bordata, tiro a effetto. Col Super Santosdovevi giocarci anni e tutti i giorni per poter capire comefargli fare l’esatto percorso che volevi. La palla calciata daRino partiva con un percorso secco, senza sbavature.Prendeva in pieno l’indice puntato verso terra di Carlo V,che cascava come fosse stato attaccato con la saliva. E iragazzini lo raccoglievano come un trofeo di guerra. Rinoaveva rotto per cinque volte di seguito l’indice di Carlo V. Lamattina poi gli amici lo andavano ad avvertire.

“Rinu’, hanno rimesso ’o rìto!”Era divenuta una sfida tra Rino e il restauratore della

statua. Ogni volta che lo rimettevano, aspettava qualche set-timana e poi andava a staccare il dito regale con le suepunizioni.

In tanti ci provavano. Ma solo lui ci riusciva.

Quando Tonino Porcello divenne capozona dell’area norddi Napoli, passava spesso per la piazza dove giocavano iragazzi. Tonino aveva una faccia tonda e un naso piccolo esottile, consumato dalla coca, o quantomeno così sembrava.Una volta prese una sedia e si piazzò in un angolo dellapiazza per godersi la partita. Per i ragazzini era come sel’autorità massima fosse scesa nello stadio. Come se HugoSanchez, l’attaccante messicano che in quegli anni infuocava

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le curve di mezzo mondo, fosse venuto lì a valutarli per po-terli proporre al Real Madrid. Tonino Porcello decise chequella piazza sarebbe stata in mano loro. Loro avrebberosempre giocato lì, e per farlo gli avrebbe dato settimanal-mente dei soldi. Puntuale, preciso, e con qualche moneta inpiù e mai in meno. La mattina a scuola e poi, dalle quattro dipomeriggio sino a mezzanotte, a giocare a pallone. QuandoTonino si alzava dalla sedia e tendeva l’indice, tutti iragazzini della piazza chiudevano gli occhi e speravano di es-sere scelti. L’indice somigliava a quello di Carlo V: “Tu, tu,tu e pure tu...”.

Chiamò Dario, Rino, Giovanni, Giuseppe. Solo loro. Gli altria casa. Gli altri a giocare nelle ore concesse, solo un po’,come divertimento momentaneo o come avversari da cambi-are di volta in volta. Loro invece avrebbero potuto viveregiocando. In cambio, il lavoro che dovevano svolgere erasemplice. Appena vedevano un’auto della polizia o un’autocivetta che riconoscevano o sospettavano, o qualche faccianon conosciuta, dovevano gettare il pallone in fondo allastrada e urlare: “’o pallone, ’o pallone, ’o pallone”. E cosìtutti avrebbero fatto eco. “’O pallone,” avrebbero gridato inegozianti, “’o pallone,” avrebbe gridato la signora con latesta fuori dalla finestra, e persino il postino avrebbe urlato“’o pallone”. Una richiesta che diventava allarme. In pochiminuti i pusher avrebbero lasciato la strada, le bustine dicoca sarebbero passate di mano in mano e messe al sicuro.L’eroina finiva, avvolta nella carta stagnola, nei tombini in-tasati che poi avrebbero sollevato per recuperarla in unsecondo momento. Tutto in una manciata di secondi. Più ve-loce di qualsiasi altro mezzo di comunicazione. Senza rischiodi arresti, intercettazioni, sospetti. Soltanto una palla lanci-ata tra la gente e dei ragazzini che gridano: “’o pallone”. Ilquartetto era diventato abilissimo. In cambio di qualche

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lancio fuori campo e dello strillo in codice, gli venivagarantita la possibilità di giocare a pallone e nient’altro.Nessuna consegna, nessuno di loro doveva fare il garzone,nessuno di loro doveva vendere nulla. Nessuno di lorodoveva lasciare la scuola. Porcello voleva che continuasseroad andarci sino al diploma, altrimenti gli assistenti sociali liavrebbero tolti alle famiglie e quindi dal quartiere.

Giocare, giocare, giocare.Battere, vincere, segnare.Non avere altro per la testa. Nulla più che le immagini

della porta, del centrocampo, dell’area di rigore. Immaginicosì vive da trasformare una piazza di spaccio nel San Paolo,e una parete marcia d’umido in una porta regolamentare.

Il Tango però mal si adattava all’impresa. Era meravigliosoma pesante. Non rimbalzava veloce nel flipper di auto per-sone vicoli porte e saracinesche, divenendo messaggio d’al-larme. Il loro pallone era il Super Santos. Potevano averequanti Super Santos volevano. Bastava che dopo qualche tiropotente contro una parete o una saracinesca si sgonfiasse unpo’, che subito lo abbandonavano a qualche altro gruppo diragazzini e ne prendevano uno nuovo.

Una volta accadde che andarono dal tabaccaio a chiederel’ennesimo Super Santos gratuito. Di solito entravano e in-dicavano, senza neanche un mugugno. Indicavano e basta ipalloni che tenevano appesi in alto, pendenti dal soffitto inretine blu, come si conservavano i meloni invernali, quelli bi-anchi, nelle masserie napoletane. Indicavano, il tabaccaiotemendo ritorsioni prendeva e dava. I ragazzini, senzaringraziare, aprivano la rete buttandola a terra nel negozio ese ne andavano. Ma quella volta non andò così.

“Lo dovete pagare. E va bene una volta, va bene due volte.Ma qua bucate dieci palloni a settimana. O pagate o niente!”

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Giuseppe impostò lo sguardo nel modo più cupo che po-teva. Fece una faccia feroce. Quella senza età. Un ghignoche avrebbe dovuto intimorirlo anche se aveva di fronte unpiccoletto. Ma il tabaccaio non si sentì minacciato per ni-ente. Bisognava andare direttamente da Tonino Porcello. Gi-useppe andò così, da solo, verso il palazzo dove aveva l’uffi-cio. Fuori dalla porta i due guardaspalle di Porcello lo ricon-obbero subito: “E che ci fai qui, Peppi’?”.

“Devo parlare con Tonino urgentemente.”Il tono perentorio fece considerare uomo quello che era

evidentemente appena un bambino. Fu lasciato passare, idue sapevano che Giuseppe faceva il palo. Dopo pochiminuti, Porcello scese tenendo la mano del bambino. Entròdal tabacchino, chiamò nel negozio gli altri ragazzi, fece ab-bassare la saracinesca e disse al negoziante: “E ora mettitiper terra”.

“Come per terra?”“Per terra, hai capito bene, a quattro zampe, muoviti

animale.”Il tabaccaio ubbidì terrorizzato, si mise carponi. Aveva così

paura che le mani sudate si attaccarono a ventosa sullepiastrelle.

“E ora fate fare il pallone al suo culo.”Giuseppe gli diede un calcio nel sedere con tutta la forza,

di collo pieno. I calci davano un rumore sordo come quello diun pugno su un materasso. Dario lo diede di piatto, Rino fecedi tutto per far finire la punta del piede dritta nell’ano, Gio-vanni prese la rincorsa e lanciò un calcio che beccò persinolo scroto. Il tabaccaio si girò come uno scarafaggio rivoltato,con le mani sulle palle. Urlò di dolore, poi temendo di provo-care la rabbia di Porcello, spense il grido in gola lasciandogonfiare la giugulare come una carota.

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Da quel giorno ebbero sempre palloni in quantità. Senzadover pagare nulla.

Partite, dribbling, punizioni.Tutto quello che accadeva prima o dopo non contava. Non

valeva. Anzi, non esisteva. Giocare era tutto. L’utopia di po-ter solo giocare senza fare altro, senza neanche fermarsi, è ilvero sogno del calcio. Un sogno che i tifosi sentono frustratoquando i novanta minuti terminano, quando arriva il lunedì.Rino, Dario, Giovanni e Giuseppe, invece, non vedevano maitradito il loro sogno. Per strada il gioco perenne diventavarealtà, perché la palla era sempre al piede, perché potevidribblarti il barbiere, fare un corner dalle strisce pedonali,un colpo di testa dal balcone. Nessuno poteva dire niente.Né se rompevano il finestrino di un’auto, né se sfondavanoper un rigore una saracinesca. Tutti i ragazzini di Napoliricevevano rimproveri, urla, scapaccioni per qualche guaiofatto con il pallone, persino secchiate d’acqua in testa lanci-ate dai balconi da chi non trovava pace per il baccano instrada. A tutti gli altri questo accadeva, ma a loro no.Neanche una volta.

E i quattro volevano solo giocare. Giocare sempre. Giocareper esaurire tutte le forze, ma anche tutti i possibili pensieri.Mangiare per ricaricarsi, dormire per trovare altre energie.E giocare senza essere costretti a relegare il gioco al mar-gine, ad aspettarlo come ricompensa per la fatica, per il la-voro, per il dolore. Dopo i compiti, dopo aver fatto bene qual-cosa. No, gioco e basta. Un antidoto al dolore, alla fatica, allavoro. Credere che questa risorsa potesse durare persempre non era affatto impensabile. E anche se, prima o poi,fosse finito tutto perché non si può eternamente vivere nelpaese dei balocchi, che utilità avrebbe avuto anticipare ilterrore, l’angoscia, la paura? Le orecchie si sarebbero al-lungate in forme asinine presto, e quando la trasformazione

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in ciuchi sarebbe avvenuta, niente avrebbe potuto fermarla.Somari come tutti sarebbero diventati. Ma sin quando si po-teva giocare, perché fermarsi? E poi chi ha detto che ilsogno irrealizzato è meno degno del sogno realizzabile? IlNapoli aveva avuto solo sogni irrealizzati. Grandi giocatoricome Rudi Krol, Omar Sivori, José Altafini, Giuseppe Savoldi:partite meravigliose, ma alla fine nessun risultato import-ante. L’illusione a volte può essere l’unica vera realizzazionepossibile. E quindi va bevuta tutta. Sino alla feccia.

Intanto Porcello cresceva nel suo clan. Era riuscito a tras-formare i luoghi del contrabbando in luoghi di stoccaggio evendita di cocaina, eroina e tutti i tipi di droghe leggere,pasticche e acidi. Un mercato floridissimo. Col tempo Por-cello ebbe incarichi dirigenziali e non più esclusivamente or-ganizzativi e militari. Una volta raccontò del Tranviere. IlTranviere era uno dei massimi dirigenti sportivi, i procur-atori gli erano vassalli, gli arbitri gli dovevano carriere eville, non c’era giocatore straniero di talento che lui nonpotesse raggiungere o tesserare. Non c’era quotidiano sport-ivo che non potesse condizionare o trasmissione televisivache si sottraesse dal favore di parlare bene di un suo gioc-atore o lanciare un suo pupillo. In quelle terre, a Napoli, ilTranviere era diventato potente, aveva saputo stillare denaroe potere dalle imprese che più rendevano: politica e cam-orra. Aveva mandato in cancrena giocatori, squadre, allen-atori. Aveva imboscato miliardi di lire bruciandoli per l’ac-quisto di celeberrimi brocchi, aveva saputo difendere suoi di-rigenti accusati d’ogni malefatta, aveva saputo fare di suofiglio, il più tonto dei figli, un rinomato procuratore sportivo.Dal veleno dell’infezione aveva ricavato vita e ricchezza persé e per i suoi clienti. Il Tranviere adorava tutti gli interme-diari, i mediatori, li vedeva come braccia da usare senza

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doversi sporcare le dita, candide e senza calli. La sua forzaerano gli intermediari. Il suo talento saperli scegliere, la suaastuzia sapere come tenerli sotto ricatto, la sua autorevol-ezza avere la loro incondizionata fedeltà. E il suo enormepotere consisteva nello scaricare sugli intermediari tutto ciòche aveva fatto di criminale, illecito o semplicemente scor-retto, senza però permettere mai che fosse ricondotto a lui.Quando gli intermediari facevano qualcosa di buono eranosuoi uomini, quando commettevano illegalità erano uominisenza scrupoli, disposti a tutto per denaro. E poi esisteva unulteriore vantaggio: queste braccia aggiunte potevano es-sere tagliate in ogni momento. Tonino Porcello era una dellemiriadi di braccia che il Tranviere usava. Tonino gestiva isoldi che il suo clan investiva in giocatori e squadre, si sen-tiva prescelto dal Tranviere, ignorando di far parte di unostuolo interminabile di sensali, tra i quali lui era uno deimolti e uno degli ultimi. Aveva iniziato a fare carriera nelcalcio quando aveva accompagnato il Tranviere a conoscereil presidente dell’Avellino, il costruttore di Mercogliano, An-tonio Sibilia. Lo incontrarono in tribunale a un processo. Sib-ilia non vi era andato a testimoniare, né era imputato, ma siera recato in visita da Raffaele Cutolo, il capo della NuovaCamorra Organizzata. L’aveva salutato con tre baci duranteuna pausa del processo; tre come si salutano i compari, eaveva fatto dono al boss di una medaglia, consegnataglidirettamente dalle mani dell’attaccante brasiliano dell’Avel-lino Juary. Una medaglia d’oro con dedica. Da un lato incisoil profilo del lupo irpino, simbolo della squadra, dall’altrol’omaggio: “A Raffaele Cutolo dall’Avellino calcio”. Ungiornalista denunciò l’accaduto. Luigi Necco, il giornalistasportivo che seguiva il Napoli. Lo raccontò a 90° minuto, unatrasmissione che interrompeva operazioni chirurgiche, cel-ebrazioni di matrimoni e funerali, capace di far tacere

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qualsiasi discorso al solo vibrare della sigla d’inizio. Avevasvelato il rapporto tra Cutolo e Sibilia, tra la camorra e il cal-cio nella trasmissione più vista d’Italia. Se avesse sporto de-nuncia in una questura, scritto un editoriale o partecipato aqualsiasi altra trasmissione, non avrebbe generato il dannoche provocò invece pronunciare quelle parole durante90°minuto. Era come se in casa di ogni italiano si fosse se-duto a tavola, insieme a tutta la famiglia, e avesse raccontatoquell’episodio.

E così il giorno dopo, contravvenendo all’assoluto ordine diCutolo di non toccare i giornalisti, Enzo Casillo detto ’oNirone, suo braccio destro, mandò tre uomini in un ristor-ante di Avellino dove stava mangiando Necco e gli fecesparare alle gambe. Lo punirono perché aveva svelatol’omaggio privato, il vassallaggio che doveva rimanere ungesto familiare.

Dario, Rino, Giuseppe e Giovanni erano ormai i più forticalciatori di strada dell’area nord di Napoli. Una volta lasquadra juniores del Napoli li convocò per fare un provino. Enessuno, neanche Porcello, poteva impedire a quattrobambini di fare il provino per il Napoli. E quindi diede loro ilpermesso di assentarsi per un po’ di giorni. Anche sull’erba iquattro erano forti: giocarono tre partitelle, mostrando atutti cosa significava avere talento nel calcio. Indossaronoper la prima volta le scarpette con i tacchetti, la magliettinaazzurra e i calzoncini bianchi. Macinavano il campo. Listavano per tesserare, avevano buone possibilità. ToninoPorcello fu avvertito, però, e si presentò al campo duranteuno degli ultimi allenamenti. Chi aveva segnalato al Napoli iquattro ragazzini sapeva che lavoravano per Porcello. Esapeva soprattutto che solo lui poteva avere l’ultima parola,solo a lui spettava la decisione finale, se lasciarli tesserare e

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farli diventare calciatori o riprenderseli. Rino lo vide dalontano mentre si stava tirando su i calzettoni. E prima difinire di srotolarli aveva già capito tutto: la piazza era tropposcoperta, gli altri ragazzi non riuscivano a coprirla bene eaddio tesseramento. Porcello non disse nulla. Rifece il gestoche aveva fatto all’inizio del loro rapporto: tu, tu, tu e tu. Enon disse altro. Lo seguirono a testa bassa senza nemmenorispondere al saluto degli altri ragazzini e alla voce degli al-lenatori che chiedevano spiegazioni: “Oh guaglio’, dove an-date? E che si lascia così il campo? Addo’ jate?”. Uscironodal campo e basta, obbedendo a Porcello.

Tornarono così per strada, a giocare. Qualche mese piùtardi, fecero una partita con i maranesi. I rivali di sempre. Sistavano scontrando con falli pesanti, cross nervosi, spallateda rugby. Dario aveva tra i piedi il pallone. Davanti duedifensori e il portiere fuori dai pali. Gli venne in menteun’azione che aveva visto pochi giorni prima in Atalanta-Juventus. Aveva stampato in mente come tutta la difesa fossestata dribblata da Evair, un brasiliano tozzo finitoall’Atalanta quasi per caso, con una faccia da innocuo mas-calzone. Dario gli somigliava persino. Proprio in quel mo-mento arrivò un’auto della polizia, ma lui continuò l’azione.Ne passò un’altra, ma Dario continuò i suoi tocchi. Gli altriiniziarono a urlare “’o pallone, ’o pallone”. Ci fu immediata-mente un’ansia generale, i ragazzini iniziarono a scappare eurlare, terrorizzati perché non lanciava il pallone. Dario os-tinato continuava ancora la sua azione ispirata da Evair.“Dario, ’o pallone, lancia ’o pallone”, Rino, Giuseppe e Gio-vanni cercavano di attirare l’attenzione, di ricordargli quelloche doveva fare, ma Dario nulla. Iniziarono a correre verso ilvicolo urlando “’o pallone, ’o pallone”, gli spacciatori in ri-tardo iniziarono a far partire la catena di montaggio del nas-condimento. I poliziotti scorsero i movimenti, videro

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ragazzini urlare “’o pallone”, senza che ve ne fosse alcuno.Si insospettirono. I ragazzi furono tutti identificati. La poliziaarrestò diversi pusher, bloccò alcune donne che stavano nas-condendo bustine di coca. Il fortino venne espugnato.

Dario fu convocato la sera stessa. Lo andarono a prenderea casa. Suo padre, all’uomo di Porcello che lo reclamava allaporta, disse solo: “Non fategli troppo male, non so che hafatto, ma anche se ha fatto qualcosa che non doveva èguaglione, deve ancora crescere, capitelo”. Il padre sapevache non avrebbe potuto fare, né ottenere di più. Le cose van-no così, a comandare sono loro, e quando loro decidono,bisogna starci, e basta. Punto. Anche quando decidono di tuofiglio. Lo portarono davanti a Tonino Porcello e Dario nonaveva neanche il coraggio di muovere la lingua in bocca:“Pcché? Pcché non hai urlato? Non hai lanciato ’o pallone?Cherè t’eri mangiato la lingua, di’, ti sei venduto? Che èstato, volevi più soldi... pcché hai fatto sta strunzat’”.

“Era troppo bella l’azione che stavo facendo...”“Cazzo dici? Ma che significa troppo bella? Io ti pago, ma

tu veramente vuoi fare il calciatore con i soldi miei? Tudovevi lanciare il pallone e urlare, perché non l’hai fatto?Rimmell’ a verità.”

“Era troppo bella l’azione, mi dispiaceva che finiva cosìcon un senza niente...”

“Un senza niente... ma che stai ricenn’? Ma tu te crer’ chesei calciatore o’ veramente! Il capocannoniere della serie A èarrivato... non poteva non finire l’azione, l’attaccante! Si sulonu strunzill’ e io chiu’ strunz che t’aggio pigliato.”

Porcello gli mollò uno schiaffo di rovescio lasciandoglisulla guancia un graffio, la traccia del suo anello. Per iragazzi essere pali significava poter vivere giocando a pal-lone. Per il clan giocare a pallone significava poter viverementre i ragazzi facevano i pali.

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Ormai i quattro amici erano cresciuti e non potevano piùricevere pochi spiccioli per stare in strada. Ora dovevanoscegliere il ruolo da rivestire nell’organizzazione. Ognuno fufatto entrare da Tonino Porcello nel Sistema. Sistema, la pa-rola con cui ormai da anni si definisce la camorra. Oraavevano smesso di giocare. Il Super Santos non l’avrebberoinseguito più e non avrebbero più urlato “’o pallone”. Quellaispirata da Evair fu l’ultima partita che fecero tra loro. Tuttie quattro. Erano cresciuti, potevano fare altro. Dovevanofare altro.

Anni dopo arrivò una convocazione a Brescia, in un al-bergo. Vennero chiamati tutti. Rino aveva conservato un visoidentico. Giuseppe arrivò con i guanti, ancora. Una scara-manzia che giustificava dicendo che aveva freddo alle mani.Giovanni continuava a essere scheletrico e nodoso. Sem-brava che non fosse passato un solo giorno dalle partite perstrada. Si vedevano poco ma avevano continuato a frequent-arsi. Mancava solo Dario. Ma ormai lui si era inimicato ilSistema. Era un inaffidabile. Dopo lo schiaffo, ogni suo ruoloera stato cancellato. Forse qualcuno di loro lo sentiva e ve-deva ancora, ma pronunciare il nome di uno scomunicato timacchiava. Dario non esisteva più. Tutti e tre erano staticonvocati da Porcello. Lo raggiunsero mentre dava i docu-menti alla reception dell’albergo. E solo in quel momentoseppero che Porcello non era un soprannome. Era il suoreale cognome. Sulla carta d’identità c’era scritto proprioAntonio Porcello. Tutti lo avevano sempre chiamato “’o Por-cello”, e in terra di soprannomi mai avrebbero pensato chequello fosse davvero il suo cognome, che tra l’altro a quel vi-so e a quel naso si addiceva perfettamente. Li invitò a seder-si intorno al tavolo del bar dell’hotel, provò a fargli qualche

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domanda su come stavano e finse persino di ricordarsiquando erano ragazzini.

“Mi ricordo quando tutti e sei vi presi a fare i guagliuncellicol pallone.”

“Eravamo quattro...” rispose Giovanni.“Ah, quattro, sì... Chi c’era? Tu, Ciro, quell’altro... quello,

bravo. Poi tu, sì tu eri forte, dovevi giocare nei pulcini delNapoli... sì mi ricordo.”

Avevano capito che si riferiva a chissà chi altro, lui stessosi sentiva patetico, confondeva i nomi, si sbagliava con ledate e le zone. Aveva avuto molti ragazzini pali poi diventatiaffiliati, loro erano parte di questo esercito, ma avrebbe vo-luto essere capace, Porcello, di far credere che loro erano isuoi preferiti. Dopo un po’ arrivò subito alla questione. IlTranviere gli aveva chiesto un favore. Un favore delicato.Uno di quelli che devono con ogni forza essere fatti bene, inbreve tempo e in sicurezza. Ma è difficile trovare il modo dispiegare un’operazione tanto singolare. Nella testa di Por-cello c’era tanta confusione e così semplificò dando ordini: ilmodo migliore per far capire qualcosa.

“Bisogna scortare un cuore. Lo dovete fare voi...”“Scortare che?” disse Giuseppe.“Un cuore, avete capito bene...”“Oh Porcello, ma quanta cocaina ti sei tirato. Scortare un

cuore! Ma che cazzo vuol dire?”“Vuol dire che adesso ascolti quello che devo dire e

capisci... Ignorante eri, ignorante rimani e stai zitto...”I tre rimasero zitti. Porcello sudava e agitava forte il piede

che aveva accavallato sulla gamba. Loro avrebbero dovutoscortare un cuore da trapiantare. Il cuore di un ragazzo dadare all’uomo di un boss, Francesco Mollo, braccio destro diGennaro Veneruso, il boss di Volla, uno dei padrini più

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spietati del Vesuviano. Mollo attendeva il cuore da tempo,però temeva che non l’avrebbero fatto mai arrivare.

“Sta cacato sotto che bloccano il cuore che deve arrivarenell’ospedale dove lo operano...”

“Ma cacato sotto di che, scusate? Come fanno a bloccare ilcuore?” provò a chiedere Rino.

“Cacato sotto che fermano la macchina che porta il cuorenella borsa termica... se aprono la borsa, il cuore marcisce elui non campa più... Ora avete capito? Ignoranti eravate, ig-noranti siete...”

La notizia del trapianto circolava, ed erano in molti a nonvoler far continuare la vita di Mollo. Aveva bisogno di unasicurezza, voleva che il suo cuore fosse scortato. Per questosi era rivolto ai secondiglianesi. Così Porcello aveva convoc-ato i suoi ragazzi. Il cuore da dare a Mollo si diceva fosse diun giocatore del Brescia: Vittorio Mero. Un difensore cent-rale. Prima che un tir travolgesse la sua auto mentre stavatornando a casa, erano solo i tifosi del Brescia a conoscerlo.Mero era un giocatore perbene. Uno di quelli che lavoravasenza falli, attento su ogni palla. Uno di quelli di cui nessunosi ricordava. Perché i difensori devono spaccare le ossa, farsiespellere, tranciare i piedi in silenzio, senza troppo darenell’occhio. Ci sono calciatori che sembrano giocare come sestessero alla catena di montaggio, lì in mezzo al campo afare il proprio dovere, avanti e indietro. Terrorizzati dall’es-sere tagliati, cacciati, prestati in qualche serie minore a ottoore di treno dalla famiglia. Vittorio stava ritornando a casaquando è morto. Era stato squalificato. I suoi compagniavrebbero dovuto giocare contro il Parma, una semifinale diCoppa Italia. Roberto Baggio aveva avuto la notizia del suoincidente e l’aveva detto ai compagni di squadra. Nessuno sela sentì di scendere in campo. I telecronisti diedero la notizia

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del decesso in diretta tv, e la sua famiglia, che attendeva lapartita, apprese la morte di Vittorio così.

Porcello spiegò che quel cuore doveva arrivare a Roma ilgiorno dopo e dovevano metterci meno di cinque ore. Cor-rere e non fermarsi mai. “Manco se la Madonna in personavi ferma a un posto di blocco.”

La mattina dopo arrivò il cuore in hotel nella borsatermica. I tre entrarono armati nell’auto che gli aveva datoTonino Porcello. La squadra si era ricomposta. Rino che gui-dava, a fianco Giovanni e dietro Giuseppe a mantenerel’enorme borsa termica che occupava mezzo sedile. A untratto Rino inchiodò, prima di imboccare l’autostrada perMilano. Le ruote posteriori pattinarono. Giovanni sbatté latesta contro il cruscotto bestemmiando. Come per istinto ca-ricò il fucile, sicuro che ci fosse qualche problema. Chefossero seguiti.

“Cos’è stato, mannaggia la morte?”Rino si fissava le cosce. Poi iniziò a parlare: “Non mi pare

giusta questa cosa...”.“Quale cosa Rinu’?”“Che il cuore di questo ragazzo debba essere dato a

Francesco Mollo. Uno non vive fino a trent’anni per dare ilcuore a uno come Mollo.”

Giovanni era già in ansia e le riflessioni di Rino non lorasserenavano.

“Ma come ti viene in mente adesso di farti questi prob-lemi? Ma proprio ora, cazzo, hai deciso di pensare al cuoredi questo? Eddai che se non arriviamo in tempo ’o Porcello ciscanna...”

“Questo è il cuore di un calciatore. Quello che volevamofare noi. Un cuore. Un cuore di uno che ha giocato a pallone.Sapete cosa significa? Non è giusto!”

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Difficile discutere di giustizia quando hai sotto il sedile unamitraglietta Uzi e i tuoi compagni di viaggio due fucili apompa, carichi e senza sicura a tracolla. Ma forse non è maiil momento giusto, per riflettere su certe cose. Rino non cela faceva a consegnare il cuore di un giocatore a un camor-rista. Anche lui era un camorrista, anche lui si era affiliato,ma si sentiva diverso. Lui l’aveva fatto per fare altro, percampare come un calciatore, per vivere di gioco. E poi nonavrebbe mai chiesto il cuore a nessuno. Mollo era l’uomo difiducia di un boss implicato in una storia che i ragazzi nonpotevano sopportare.

“Rinu’ ma proprio ora ti fai venire ’ste filosofie.”“Ma tu la sai la storia no? Noi stiamo prendendo il cuore di

un giocatore, di uno che viveva per giocare a pallone, comenoi quando non eravamo bestie come mo’... e lo stiamodando a quello...”

“Evvabbe’, così vanno le cose,” chiuse Giovanni. “Ma mo’jamm’, che so cazzi pure che qua ci riempiono di botte inpetto, per ’sto cuore che dobbiamo portare a questomannaggia-la-marina di Mollo.”

Rino non ne voleva sapere: “Ma noi come dormiamo mo’.Come fai a dormire sapendo che abbiamo portato il cuore diuno di noi, di un calciatore, a una chiavica come Mollo?”.

“Ma uno di noi cosa Rinu’, questo era un calciatore, noisiamo calciatori? Noi siamo del Sistema. Tu che fai juoc’ apallone? No. E Allora? Tu fatichi con la roba, io sui cantieri,Giuseppe sui trasporti, cazzo c’entriamo noi col calcio?”

Rino si girò verso di lui. Non disse niente, ma era come sesi fosse fermato, impastando in bocca saliva e disprezzo.

“Sì vabbuò, dieci anni fa in piazza giocavamo col pallone,ma che c’entra. Che c’entra...”

“C’entra. C’entra,” chiuse il discorso Rino, e ripartì a testabassa.

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Veneruso, che nei paesi del Vesuviano si contendeva i traf-fici di droga, sigarette e racket con il clan degli Orefice, ungiorno aveva dato l’ordine di punire un uomo del clan rivalee aveva organizzato tutto affinché l’omicidio fosse realizzatocon la massima violenza. L’agguato doveva avvenire in unacittà del Napoletano dal nome ridicolo, Pollena Trocchia, cheTotò usava come metafora per definire un paese sperduto,una realtà microscopica per antonomasia. Ma di ridicolo eironico questo paese aveva soltanto la cacofonia del nome. Ikiller dovevano colpire Domenico Arlistico, condannato daisuoi ex alleati del clan Veneruso-Castaldo perché aveva inizi-ato a investire in droga sui territori di Sant’Anastasia e Pol-lena Trocchia, assieme agli Orefice. Dovevano colpire lui, nelsuo negozio di fiori. Ma si trovarono dinanzi Raffaele Terrac-ciano, nipote di Arlistico, e così iniziarono a sparare su tuttoquanto si muovesse o fosse immobile. Avere lo stesso sanguedel bersaglio ti fa diventare a tua volta bersaglio. Valentina,una bimba, la figlia di Raffaele, morì con un colpo alla testa.Davanti a suo padre e sua madre che si salvarono. Aveva dueanni, stava in braccio al padre quando la pioggia di colpi siabbatté su di loro. Veneruso non si prese la responsabilitàdell’ordine che aveva dato e si lavò dall’onta facendo fuorigli esecutori e scaricando su di loro tutte le colpe. Persino ilpadre della bambina, al funerale di sua figlia, negò che fossestato un agguato di camorra, ma solo una rapina, finita intragedia. Preferiva sapere liberi gli assassini di sua figlia pi-uttosto che innescare nuovo sangue, nuovi massacri checoinvolgessero la sua famiglia. Andarono in tanti per l’es-ecuzione: killer, pali e quelli che dovevano difendere le vie difuga o l’eventuale risposta armata. Ciro Molaro, Pasquale Fi-orillo, Carmine De Simone, Ciro Improta, Domenico DellaRatta e Giuseppe Castaldo erano la batteria di fuoco che uc-cise quella bimba di due anni. Dopo l’esecuzione se l’erano

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fatta sotto e Gennaro Veneruso, il boss, aveva nelle primeore deciso di prendersi la responsabilità di quell’errore cosìgrave. Li aveva fatti scappare nelle zone che la camorra con-sidera a sua disposizione per investimenti e fughe: il Lazio. Edove lo stesso Veneruso aveva fatto il soggiorno obbligato.Tutta la paranza di camorra si nascose in campagna, a Cer-veteri, e Veneruso mandava i suoi uomini a portare cibo,panni, acqua e soldi. Finché un giorno, ai capicamorra deipaesi del Vesuviano che gli chiedevano spiegazioni su un ag-guato tanto rischioso in cui era morta una bambina, disseche lui non c’entrava niente e che era stata tutta colpa deisuoi uomini. Quelle parole suonarono come una condanna amorte. Regola eterna dei clan: se qualcuno ti ucciderà, saràil tuo più caro amico. Gli stessi uomini che li avevano as-sistiti fino a quel momento, una mattina, arrivarono nellacampagna di Cerveteri e con un pretesto li fecero uscire alloscoperto, in aperta campagna, dove era difficilissimo trovareriparo e impossibile cercare aiuto. I sicari di Veneruso scari-carono addosso ai latitanti interi caricatori. Uno di loro cac-ciò la pistola, ma non riuscirono a difendersi. Finirono aterra tutti. I primi due e gli altri che erano arrivati in ritardoalla chiamata. Gli assistenti alla latitanza, che in un attimoerano divenuti esecutori, presero il corpo del primo caduto,De Simone, e iniziarono a portarlo vicino a un pozzo per nas-conderlo e farlo marcire nel suo fondo. Mentre tiravano ilcorpo su dal terreno e a fatica lo trascinavano, come resus-citati, Molaro e Fiorillo si alzarono e iniziarono a scappare.Avevano finto di essere morti. Erano stati colpiti, ma soloferiti. Fiorillo si catapultò al pronto soccorso di Ladispoli,sanguinante, dicendo che aveva subito una rapina in cam-pagna. Molaro rimase nascosto e finì quasi dissanguato. Sipentirono subito: non avevano speranza di vita. Quando hai

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una condanna a morte dai clan speri che lo Stato ti tengastretto il più possibile.

All’agguato di Cerveteri scamparono Domenico Della Rattae Giuseppe Castaldo, anche loro responsabili della mortedella piccola Valentina. Chi dice come mandanti, chi comefacenti parte del commando omicida. Furono poi arrestati.Ma la cosa che colpisce è che Giuseppe Castaldo è accusatoanche della morte di un altro piccolo innocente: GioacchinoCostanzo, di diciotto mesi, ammazzato durante una sparator-ia a Somma Vesuviana, paese non lontano da Pollena Troc-chia, nel ’95. Era in macchina con il compagno di sua nonna.Massacrarono entrambi. Castaldo era libero al momentodella morte di Valentina Terracciano, avvenuta domenica 12novembre 2000. Non latitante, ma libero, perché scaduti itermini della custodia cautelare. Qualcuno, parlando diquesta triste vicenda, ha detto amaramente: “Le pene dellacamorra sono certe e immediate, a differenza di quelle delloStato”.

Rino inchiodò di nuovo.“E a quella bambina non ci devo pensare? Neanche le palle

di prendersi loro la responsabilità hanno avuto!”“No, non ci devi pensare, a te ha fatto qualcosa? No! E

allora?”Era vero. Mollo, il compare di Veneruso, non gli aveva

fatto nulla. E questo bastava per renderlo degno di rispetto ein diritto di ricevere il cuore di quel giovane calciatore. Ilprincipio di giustizia non può articolarsi in maniera astratta.Altrimenti coinvolge tutti: colpevoli i ministri, colpevoli ipapi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e ireazionari. Colpevoli tutti di aver fallito, ucciso, sbagliato.Giustizia e ingiustizia potevano avere definizione solo con-siderate nel loro ruolo concreto. Di vittoria o sconfitta, di

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atto fatto o subìto. Se qualcuno ti feriva, ti maltrattava, stavacommettendo un’ingiustizia, se invece ti trattava nelmigliore dei modi, ti faceva giustizia. Bisognava fermarsi aquesti calibri. A queste maglie di giudizio. Bastavano.Dovevano bastare. Questa era l’unica reale forma divalutazione della giustizia. Cosa avessero fatto prima di fartidel male o del bene non ti riguardava. Giudica come una per-sona ti tratta. Vendicati se ti tratta male, consideralo padrese ti dà il pane, sii grato se vieni trattato bene. E così ancheMollo, il boss alleato di Veneruso, meritava il suo cuoregiovane, la possibilità di campare ancora.

L’auto con il cuore di ricambio per il camorrista vesuvianoarrivò sana e salva a Roma. Un viaggio tranquillo. Nessunoaveva cercato di bloccare l’auto né di rapire quel cuore. Lepaure del boss erano ingiustificate. Porcello li aspettava neipressi di Termini. Si fermò vicino a Rino: “Poi mi sono di-menticato di dirti che non era più il cuore del giocatore. Eramesso troppo male, ma qua si ammazzano continuamentesulle strade, e un primario amico del Tranviere ne ha trovatosubito un altro di cuore da dare a quel disgraziato di Mollo”.Il cuore del giocatore del Brescia non fu mai trapiantato, nétantomeno nel torace del boss. Avevano provato a recuper-arlo ma niente da fare. I quotidiani sportivi e quelli localismentirono la vicenda dicendo che era solo leggenda, che ilcuore del calciatore del Brescia non avrebbe mai potutofinire a Mollo, era tutta una montatura.

Il Tranviere riusciva a decidere non solo della volontà edella vita degli altri, ma persino degli organi, della morte,dei trapianti. Sembrava davvero capace di mettere le maninelle viscere di chiunque. Rino fissò Giovanni e Giuseppecercando di capire chi avesse raccontato a Porcello le sueperplessità. Ma della delazione non se ne curò molto. Era

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una necessità per chi fa certi lavori. Per Rino fuori dal giocotutto poteva accadere e tutto si aspettava. Nel gioco, solo nelgioco, poteva esistere la realtà che lui voleva vivere. Era sulcampo la vera vita, non altrove. Rino non smise mai digiocare a pallone. Divenne centravanti del Real Casavatore.Real! Con questo prefisso altisonante, non giustificato danessuna monarchia e nessuna assoluta nobiltà, si appel-lavano molte squadre dell’entroterra campano: il Real Mar-cianise, il Real Aversa, il Real Marzano. Una volta il sindacodi un paesino del Casertano, orgoglioso per la promozionedella propria squadra, aveva orgogliosamente portato la fo-tografa della “Gazzetta dello Sport”. Mentre stava per fare lafoto, due del Real la bloccarono. Chiamarono due giardinieriche si spogliarono dinanzi a lei. Poi si rivestirono con il com-pleto della squadra. L’attaccante e il libero del Real eranolatitanti, non potevano apparire, giocavano sotto nome falsoe nelle foto erano sempre sostituiti da facce occasionali.

Con il tempo, Rino divenne un fedelissimo del clan DiLauro di Secondigliano. Approfittava delle trasferte per in-contrarne i referenti. Li vedeva prima di ogni partita, fuoridallo stadio. Raccoglieva i soldi dei pusher, dei capiterritorioche dovevano dare alla dirigenza la loro quota mensile. Glipermisero persino di portare idee di investimento alla diri-genza del clan. I referenti dei Di Lauro aspettavano che lasquadra di Rino andasse a giocare nella loro zona perversare le quote alla cassa del clan. Da un po’ di tempo peròagli appuntamenti fuori lo stadio non si presentava più nes-suno. Casavatore, il paese di Rino, era finito in mano ai ri-belli, e nessuno voleva correre il rischio di trattare con qual-cuno che proveniva dalla zona di chi si era rivoltato contro ilboss, almeno non prima di capire chi sarebbero stati i vin-citori della guerra.

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Giovanni e Giuseppe seguivano sempre Rino nei suoi in-contri di lavoro. Loro avevano lasciato perdere il calcio. Ilsogno del gioco perenne l’avevano abbandonato, pagandolocon l’affiliazione al clan e la cura della fornitura di hascisced eroina a diversi trafficanti del Centro Italia. Ma nessunorimpiangeva nulla. Al loro paese si era abituati a pagare perqualsiasi cosa, ogni scelta la si pagava. La scelta di restare,la scelta di emigrare, di lavorare in nero, di arruolarsi, tuttosi pagava senza possibilità di vantaggio. Era la prima cosache imparavi quando crescevi da quelle parti. Aver pagatoper un sogno, il sogno di vivere giocando, in fondo non erapeggio di pagare per qualche altro motivo. Se proprio sidoveva subire, meglio subire per un desiderio che in parte siera assaggiato che per qualcosa che non si sarebbe assapor-ato mai.

Rino finì la partita e dopo la doccia uscì con Giovanni e Gi-useppe. Mentre stavano tornando, un’auto li fermò. Avevauna sirena sul tetto. Scesero due uomini con i tesserini dellapolizia. I ragazzi non tentarono di fuggire né di fare res-istenza. Sapevano come dovevano comportarsi: l’avvocato loavrebbe pagato il clan, avrebbero continuato ad avere unostipendio e un indennizzo versato alle famiglie. Li am-manettarono e li caricarono in auto. Poi l’auto d’improvvisosi fermò e li fece scendere. I tre non capirono subito, maquando videro le pistole tutto fu chiaro. Era un’imboscata.Non erano poliziotti, ma gli spagnoli. Il gruppo ribelle. Gio-vanni iniziò a correre, mentre Rino come se lo stesse lan-ciando in attacco urlava: “Vai Giova’, vai, vai, vai...”.

Giovanni correva sbilenco, per le mani legate dietro laschiena, la testa come unico perno d’equilibrio. Cadde. Si ri-alzò. Ricadde. Si faceva forza con il collo. Corse ancora. Loraggiunsero e gli puntarono un’automatica in bocca.

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Lo hanno trovato con i denti rotti, aveva tentato dimordere la canna della pistola, come per spezzarla.

Dario seppe la notizia quasi subito, a Roma. Era andato viada Napoli, via dal quartiere, via da tutto. Ma ancora, dalontano, talvolta si sentiva con i compagni di squadra.Mantenendo quel legame che non si rompe.

Lo svegliò la moglie, gli indicò un telegiornale che siapriva con notizie da Napoli. Non ci fu neanche il bisogno diraccontare i particolari. Era scoppiata la guerra di camorra,e sapeva che tra i soldati c’erano Rino, Giuseppe e Giovanni.Prese il treno e tornò lì, dove era cresciuto. Arrivò di notte.Andò sul posto dell’agguato, vide per terra i disegni colgesso, il sangue seccato vicino ai battiscopa dei marciapiedi,dove l’acqua delle secchiate l’aveva spinto. Chissà se inquell’istante gli tornò in mente la storia di Evair, chissà se siricordò che quell’azione gli aveva salvato la vita. Dario nonebbe difficoltà a raggiungere la piazza dove erano solitigiocare, anche se ora era completamente cambiata. Attra-versata da muretti abusivi, fortini abbattuti e ricostruiti, lapiazza era stata trasformata in un territorio blindato, un sitodi stoccaggio della cocaina che avrebbe inondato mezzaEuropa. Scavalcò un muro, tagliandosi il palmo con un coc-cio di bottiglia, ma non se ne accorse nemmeno, non c’erapiù dolore da sentire.

Dallo zaino tirò fuori il Super Santos. E cominciò la partita.Iniziò a sbattere il pallone sul muro, dove era ancora trac-

ciata la porta con la vernice.Punizioni, dribbling, palleggi e poi bordate contro il muro.Nessuno in porta, nessuno in difesa, nessun centravanti.Da solo.All’americana.

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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Mil-ano

Prima edizione nella collana “Zoom”gennaio 2012

ISBN: 9788858850312

© 2011 Roberto SavianoPublished by arrangement with Roberto Santachiara Liter-

ary AgencyUscito in allegato al “Corriere della Sera” (2 giugno 2011). Una preced-

ente versione è apparsa nell’antologia Il pallone è tondo, a cura di A.Leogrande (Napoli, 2005).

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