The returned - Jason mott

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Per Harold e Lucilie Hargrave la vita è stata felice e amara allo stesso tempo, da quando hanno perso il figlio Jacob il giorno del suo ottavo compleanno, nel 1966. In tutti questi anni, si sono adattati a una vita tranquilla, senza di lui, lasciando che il tempo alleviasse il dolore... Finché un giorno Jacob, il loro dolce, prezioso bambino, misteriosamente, ricompare alla loro porta, in carne e ossa. E ha ancora otto anni. Qualcosa di strano sta succedendo... i morti stanno tornando dall'aldilà. Mentre il caos rischia di travolgere il mondo intero, la famiglia Hargrave di nuovo riunita si ritrova al centro di una comunità sull'orlo del collasso, costretta a fare i conti con una realtà nuova quanto misteriosa e con un conflitto che minaccia di sovvertire il significato stesso di genere umano.

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Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:The ReturnedMira Books

© 2013 Jason MottTraduzione di Elisabetta Lavarello

Questa edizione è pubblicata per accordo con

Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.

Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti opersone della vita reale è puramente casuale.

© 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

eBook ISBN 978-88-5891-731-2

www.eHarmony.it

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito,noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è statospecificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamenteprevisto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazionedelle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e saràsanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale oaltrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcunaforma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte ancheal fruitore successivo.

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Quel giorno Harold aprì la porta e si trovò davanti un uomo dalla pelle scura vestito con un abitoformale. Per un attimo pensò di prendere lo schioppo, poi ricordò che Lucille glielo aveva fattovendere anni prima, dopo una discussione avvenuta con un predicatore itinerante in merito a dei canida caccia.

«Desidera?» chiese Harold, strizzando gli occhi. La pelle dell’uomo sembrava ancora più nera incontroluce.

«Signor Hargrave?»«Può darsi» rispose Harold.«Chi è, Harold?» chiamò Lucille. Era in salotto, davanti al televisore. Al telegiornale, stavano

parlando di Edmund Blithe, il primo dei Redivivi, e di come fosse cambiata la sua esistenza adessoche era di nuovo vivo.

«Sarà meglio, la seconda volta?» chiese il giornalista, guardando dritto nella telecamera elasciando l’onere della risposta agli ascoltatori.

Il cortile davanti a casa Hargrave era ombreggiato da una quercia, ma il sole era tanto basso chefiltrava in orizzontale sotto i rami, dritto negli occhi. Harold si teneva una mano sulla fronte come unavisiera, eppure l’uomo dalla pelle scura e il bambino erano poco più che due sagome stagliate controuno sfondo verde e azzurro di foglie e cielo. L’uomo era magro, ma aveva le spalle squadrate nellagiacca dal taglio impeccabile. Il bimbo era piccolo, sugli otto o nove anni.

Harold batté le palpebre. I suoi occhi si adattarono un po’ alla luce.«Chi è, Harold?» chiamò Lucille una seconda volta, quando si rese conto che il marito non le

aveva risposto.Harold restò immobile sulla soglia, gli occhi che battevano come luci di pericolo, lo sguardo fisso

sul bambino che catalizzava sempre più la sua attenzione. Qualcosa scattò nei recessi del suocervello e a un tratto capì chi era quel bimbo fermo accanto allo sconosciuto dalla pelle scura. Nonera possibile. Provò a ragionare, ma si ritrovò con la stessa risposta.

In salotto, sullo schermo era apparsa una bolgia di pugni agitati e di bocche urlanti. C’eranodimostranti che alzavano cartelli e soldati armati fermi in quella posizione statuaria che solo uominidotati di autorità e munizioni sanno assumere. Sullo sfondo si vedeva la villetta bifamiliare diEdmund Blithe, con le tende tirate. Tutto ciò che si sapeva era che lui era dentro.

Lucille scosse la testa. «Riesci a immaginartelo?» chiese. Poi: «Ma chi è alla porta, Harold?».Fermo sulla soglia, Harold scrutava il bambino: piccolo, pallido, lentigginoso, coi capelli castani.

Indossava una maglietta un po’ datata, un paio di jeans, e aveva un’espressione di infinito sollievonegli occhi. Occhi che non erano più immoti e sbarrati, ma vibranti di vita e orlati di lacrime.

«Qual è l’animale che ha quattro zampe e fa Buuuu?» chiese il bambino con un tremito nella voce.Harold si schiarì la gola. Non credeva ancora ai suoi occhi. «Non lo so» rispose.«Una mucca col raffreddore!»Poi il bambino abbracciò il vecchio per la vita, singhiozzando: «Papà, papà!», prima che Harold

potesse confermare o negare. Harold si accasciò contro lo stipite e accarezzò la testa del bambinocon un istinto paterno da troppo tempo sopito. «Ssh» bisbigliò. «Ssh.»

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«Harold?» chiamò Lucille, staccando finalmente gli occhi dal televisore. Aveva uno strano sensodi premonizione. «Harold, cosa succede? Chi è?»

Lui si inumidì le labbra. «È... è...»Joseph, stava per dire.«È Jacob» rispose alla fine.Per fortuna di Lucille, il divano era lì a fermare la sua caduta quando svenne.

Jacob William Hargrave morì il 15 agosto del 1966. Il giorno del suo ottavo compleanno. Negli annia seguire, i suoi concittadini avrebbero parlato di quella morte nel cuore della notte, quando nonriuscivano a dormire. Si sarebbero girati su un fianco per svegliare il coniuge e avrebberobisbigliato osservazioni sull’incertezza del mondo e su come bisognasse apprezzare i doni del cielo.Si sarebbero alzati insieme dal letto e si sarebbero affacciati alla porta della camera da letto dei figliper guardarli dormire e per riflettere in silenzio sulla natura di un Dio che toglie un bambino tantopresto da questo mondo. Vivevano in una piccola città del Sud, dopotutto. Come poteva una tragediacome quella non indurli a pensare a Dio?

Dopo la morte di Jacob, sua madre, Lucille, aveva ammesso che si aspettava che quel giornosarebbe successa una cosa terribile a causa di un incubo che aveva fatto proprio la notte prima.

Quella notte Lucille aveva sognato che le cadevano i denti. Un presagio di morte, le aveva dettosua madre molto tempo prima.

Durante tutta la festa di compleanno di Jacob, Lucille aveva tenuto d’occhio non solo il figlio e glialtri bambini, ma anche gli altri invitati. Aveva svolazzato qua e là come un passero nervoso,chiedendo a tutti come stavano, se avevano abbastanza da mangiare, facendo commenti su quantofossero dimagriti dall’ultima volta che si erano visti, su quanto fossero cresciuti i loro figli e,perfino, su quanto fosse bello il tempo. Il sole splendeva e la campagna era di un verde intenso.

Quel disagio fece di lei una meravigliosa padrona di casa. Nessun bimbo restò senza cibo. Nessunospite si trovò escluso dalla conversazione. Riuscì perfino a convincere Mary Green a cantare perloro più tardi, quella sera. La donna aveva una voce più dolce dello zucchero e Jacob, se fosse statoabbastanza grande da avere una cotta per qualcuno, avrebbe avuto un debole per lei. Per questo Fred,il marito di Mary, spesso lo prendeva in giro.

Fu proprio una bella giornata. Una bella giornata, almeno, finché Jacob non sparì.Si allontanò alla chetichella come solo i bambini e altre piccole creature sanno fare. Accadde fra

le tre e le tre e mezzo, come in seguito Harold e Lucille avrebbero detto alla polizia. Per ragioni notesolo al bambino e, forse, alla natura, Jacob attraversò il lato sud del giardino, superò i pini, si inoltrònel bosco e scese fino al fiume dove, senza chiedere il permesso o scusarsi, annegò.

Solo qualche giorno prima che l’uomo del Bureau si presentasse alla loro porta, Harold e Lucilleavevano discusso su cosa avrebbero fatto se mai Jacob fosse tornato Redivivo.

«Non sono persone» dichiarò Lucille, torcendosi le mani. Erano sul portico. Tutte le coseimportanti, in casa loro, avvenivano sul portico.

«Non potremmo mandarlo via» fece notare Harold. Pestò un piede. La discussione era degeneratain fretta.

«Però non sono persone» insistette lei.«Bene. Se non sono persone, allora cosa sono? Vegetali? Minerali?» Harold si sentiva prudere le

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labbra per la voglia di una sigaretta. Fumare lo aveva sempre aiutato ad avere la meglio nellediscussioni con la moglie. E questo, sospettava, era il vero motivo per cui lei disapprovava tantoquell’abitudine.

«Non fare il saccente con me, Harold Nathaniel Hargrave. È una questione seria.»«Saccente?»«Sì, saccente! Sei sempre incline alla supponenza!»«Accidenti. Ieri cos’ero? Loquace? Oggi sono saccente, eh?»«Non prenderti gioco di me se cerco di parlare bene. La mia mente è lucida com’era un tempo,

forse anche di più. E non cambiare discorso.»«Saccente.» Harold scandì la parola, calcando sul te finale al punto che una gocciolina di saliva

piovve oltre il parapetto. «Hmph.»Lucille lasciò perdere. «Io non so cosa siano» riprese. Si alzò. Poi tornò a sedersi. «So solo che

non sono come te e me. Sono... sono...» Una pausa. Si preparò la parola in bocca, costruendola concura, lettera dopo lettera. «Sono diavoli» disse alla fine. Poi si ritrasse, come se quella parolapotesse rivoltarsi contro di lei e morderla. «Sono tornati qui per ucciderci. O per tentarci! Siamovicini alla fine del mondo. Quando i morti cammineranno sulla terra. Lo dice la Bibbia!»

Harold grugnì, ancora offeso per quel saccente. Si mise una mano in tasca. «Diavoli?» chiese,seguendo il filo dei propri pensieri mentre le sue dita trovavano l’accendino. «I diavoli sonosuperstizioni. Il prodotto di menti piccine e di immaginazioni ancora più piccole. Se c’è una parolache dovrebbe essere cancellata dal dizionario è proprio diavolo. Ah! Ecco una parola saccente. Nonha niente a che fare con la realtà, niente a che fare con i... Redivivi. Non commettere questo errore,Lucille Abigail Daniels Hargrave. Sono persone vere. Possono camminare e baciarti. Non ho maiincontrato un diavolo che fosse in grado di farlo... anche se, prima che ci sposassimo, ci fu questabiondina a Tulsa un sabato sera... sì, quella avrebbe potuto essere una diavolessa.»

«Zitto!» abbaiò Lucille, tanto forte che fu la prima a trasalire. «Non resterò qui a sentirti parlarecosì.»

«Così come?»«Non sarebbe il nostro bambino» insistette lei, ma in modo assente, come se si fosse resa conto

solo in quel momento della gravità della situazione, o forse fosse emerso il ricordo del figlioperduto. «Jacob è salito in cielo» dichiarò. Le sue mani erano diventate esili pugni bianchi stretti ingrembo.

Il silenzio si protrasse.Poi venne rotto.«Dov’è?» chiese Harold.«Cosa?»«Nella Bibbia, dove?»«Dove cosa?»«Dov’è che si dice quando i morti cammineranno sulla terra?»«Rivelazione!» Lucille allargò le braccia, come se fosse una domanda assurda, come se lui le

avesse chiesto della rotta di volo dei pini. «È proprio lì, nel libro della Rivelazione! I morticammineranno sulla terra!» Fu lieta di vedere che le sue mani erano ancora strette a pugno. Li agitò,contro nessuno in particolare, come a volte facevano nei film.

Harold rise. «Quale parte della Rivelazione? Quale capitolo? Quale versetto?»

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«Oh, smettila!» sbuffò lei. «C’è, e solo questo conta. E ora, chiudi il becco!»«Sissignora. Non vorrei mai essere saccente.»

Ma quando il diavolo davvero si presentò alla porta, il loro particolare diavolo, piccolo emeraviglioso come era stato tanti anni prima, con gli occhi castani lucidi di lacrime di gioia e delsollievo di un bambino che è stato troppo a lungo lontano dai genitori... ebbene... Lucille, dopoessersi ripresa dallo svenimento, si sciolse come cera di candela davanti all’elegante, ben rasatouomo del Bureau. Da parte sua, l’uomo del Bureau la prese abbastanza bene. Aveva sulle labbra unsorriso consapevole, avendo senza dubbio assistito a quella stessa scena altre volte in quelle ultimesettimane.

«Esistono gruppi di supporto. Gruppi di supporto per i Redivivi. E gruppi di supporto per lefamiglie dei Redivivi.» L’uomo del Bureau sorrise.

Si era presentato, ma Harold e Lucille avevano difficoltà a ricordare i nomi anche in circostanzenormali e trovarsi davanti il loro figliolo morto non li aiutava a concentrarsi. Così, pensavano a luisemplicemente come all’Uomo del Bureau.

«È stato trovato in un villaggio di pescatori nei pressi di Pechino, in Cina» spiegò lui ora. «Erainginocchiato sulla riva di un fiume e cercava di prendere dei pesci, o così pareva. Gli abitanti delluogo, nessuno dei quali parlava inglese abbastanza bene da farsi capire, gli chiesero in mandarinocome si chiamasse, come fosse arrivato lì, da dove venisse. Insomma, tutte le domande che si fanno aun bambino che si è smarrito.» Una pausa. «Quando fu chiaro che la lingua era un ostacolo, alcunedonne riuscirono a calmarlo. Si era messo a piangere... e perché non avrebbe dovuto?» L’uomosorrise di nuovo. «Dopotutto, come si suol dire, non era più in Kansas. Trovarono un funzionariolocale che parlava inglese e, insomma...» Alzò le spalle sotto l’abito scuro, come a indicare che ilresto della storia era irrilevante. Poi aggiunse: «Sta succedendo la stessa cosa in tutto il mondo».

Esitò ancora. Con un sorriso che non era insincero, guardò Lucille accogliere il figlio tornato invita dopo decenni. La donna se lo strinse al petto e lo baciò sui capelli, poi si prese il suo viso tra lemani e lo tempestò di baci sorridenti e lacrimosi.

Jacob reagì ridacchiando, ma non si sottrasse alle effusioni della madre, anche se si trovava inquella particolare fase della crescita in cui un bambino non ama essere sbaciucchiato.

«Sono tempi singolari per tutti» disse l’uomo del Bureau.ina Bianca

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Kamui Yamamoto

Il campanellino d’ottone tintinnò quando lui aprì la porta del piccolo market. Fuori, qualcunoaveva fatto benzina alla pompa e ripartì senza vederlo. Dietro il banco, un uomo dalla facciarubizza smise di parlare con un tizio alto e allampanato. I due lo fissarono. L’unico suono che siudiva nel negozio era il ronzio dei freezer. Kamui fece un profondo inchino, e il campanellinod’ottone tintinnò una seconda volta quando la porta si richiuse alle sue spalle.

Gli uomini dietro il banco restarono in silenzio.Lui si inchinò ancora, sorridendo. «Perdonatemi» disse, e gli uomini trasalirono. «Mi

arrendo.» Alzò le mani.Il tizio dalla faccia rubizza disse qualcosa che Kamui non capì. Guardò l’altro, e i due

confabularono a lungo, sbirciandolo di traverso. L’uomo rubizzo indicò la porta. Kamui si girò,ma vide solo la strada deserta e il sole che si stava alzando nel cielo. «Mi arrendo» ripeté.

Aveva seppellito la pistola accanto a un albero al limitare del bosco in cui si era risvegliatopoche ore prima, proprio come gli altri soldati. Si era tolto la giacca dell’uniforme, il cappello, eaveva lasciato nel bosco anche quelli, per cui ora si trovava in quella piccola stazione di servizioall’alba vestito solo con la maglietta, i pantaloni e gli scarponi ben lucidati. Tutto per evitare diessere ucciso dagli americani. «Yamamoto desu» disse. Poi: «Mi arrendo».

L’uomo dalla faccia rubizza parlò di nuovo, più forte questa volta. L’altro lo affiancò, edentrambi si misero a urlare e a indicare la porta. «Mi arrendo» ripeté Kamui, preoccupato dalmodo in cui le loro voci si erano alzate. Il tizio allampanato afferrò una bibita in lattina dalbanco e gliela tirò addosso. Lo mancò, così lanciò un urlo e tornò a indicare la porta, cercandocon gli occhi qualcos’altro da lanciare.

«Grazie» riuscì a dire Kamui, anche se non era ciò che avrebbe voluto dire. Il suo vocabolariodi inglese si limitava a pochissime parole. Arretrò verso la porta. L’uomo rubizzo cercò sotto ilbanco e trovò un’altra lattina. La scagliò con un grugnito. La bibita colpì Kamui sopra la tempiasinistra. Cadde all’indietro contro la porta. Il campanellino tintinnò.

L’uomo rubizzo tirò altre due lattine. Mentre quello allampanato urlava e cercava corpicontundenti, Kamui fuggì dalla stazione di servizio, inciampando, le mani in alto per dimostrareche non era armato e non aveva altre intenzioni se non quella di consegnarsi. Il cuore glimartellava nelle orecchie.

Fuori, il sole era sorto e la città si era tinta di una luce aranciata. Sembrava pacifica.Con un rivoletto di sangue che gli colava sulla guancia, si incamminò lungo la strada con le

braccia alzate. «Mi arrendo!» urlava, svegliando la città. Sperava che le persone che avrebbeincontrato lo lasciassero vivere.

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Ovviamente, anche per le persone tornate dall’aldilà c’era burocrazia. Il Bureau Internazionale deiRedivivi stava ricevendo più fondi di quelli che riusciva a spendere. Non c’era una sola nazione almondo che non fosse disposta a ricorrere alle riserve auree o a indebitarsi per assicurarsiun’entratura nel Bureau, dato che era l’unica organizzazione del pianeta che fosse in grado dicoordinare la situazione.

L’ironia della sorte era che nessuno, all’interno del Bureau, ne sapeva più degli altri. In realtà,non facevano altro che censire le persone e aiutarle a trovare la via di casa. Niente di più.

Quando, sulla porta della villetta degli Hargrave, la prima ondata d’emotività si attenuò, Jacob venneportato in cucina dove si sedette a tavola e poté recuperare tutto il cibo che si era perso durante lasua assenza. L’uomo del Bureau si accomodò in salotto con Harold e Lucille, tolse un fascio di carteda una ventiquattrore di pelle marrone e si mise al lavoro.

«Quando morì originariamente il Redivivo?» chiese l’uomo del Bureau che, per la seconda volta,si era presentato come agente Martin Bellamy.

«Dobbiamo proprio dire così?» chiese Lucille. Inspirò e si sedette più eretta. Si era sistemata ilunghi capelli grigi che si erano sciolti mentre abbracciava il figlio, e aveva un’aria regale eautorevole.

«Dire cosa?» Harold non capiva.«Si riferisce al termine morire» spiegò l’agente Bellamy.Lucille confermò con un cenno della testa.«Cosa c’è di male nel dire che morì?» chiese Harold, la voce più forte del dovuto. Vedevano

Jacob dalla porta, anche se era troppo lontano per sentirli.«Ssh!»«È morto» ribadì Harold. «Non ha senso fingere che non lo sia.» Non lo aveva fatto

intenzionalmente, ma la sua voce si era abbassata.«Martin Bellamy ha capito cosa intendo» disse Lucille. Si torceva le mani in grembo, cercando

costantemente Jacob con gli occhi, come se fosse una candela in una casa piena di spifferi.L’agente Bellamy sorrise. «È tutto okay. È un atteggiamento piuttosto comune, anzi. Avrei dovuto

essere più delicato. Ricominciamo da capo, d’accordo?» Abbassò gli occhi sul questionario.«Quando il Redivivo...»

«Da dove viene?»«Prego?»«Lei da dove viene?» Harold era in piedi accanto alla finestra e guardava il cielo azzurro.

«Sembra un newyorchese.»«È un bene o un male?» si informò l’agente Bellamy, come se non gli fosse già stato fatto notare il

suo accento una dozzina di volte da quando era stato assegnato ai Redivivi della parte meridionaledel North Carolina.

«Una cosa pessima» rispose Harold. «Ma io sono un uomo indulgente.»«Jacob» li interruppe Lucille. «Lo chiami Jacob, per favore. Il suo nome è Jacob.»

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«Sì, signora» annuì l’agente Bellamy. «Mi scusi. Dovrei saperlo, ormai.»«Grazie, Martin Bellamy» disse Lucille. Per qualche motivo, le sue mani si erano strette a pugno.

Inspirò a fondo e, concentrandosi, le sciolse. «Grazie, Martin Bellamy» ripeté.«Quando se ne andò Jacob?» chiese l’agente Bellamy dolcemente.«Il 15 agosto del 1966» rispose Harold. Si spostò sulla porta, con l’aria turbata. Inumidì le

labbra. Passò le mani dalle tasche dei vecchi pantaloni consumati alle vecchie, consumate labbra,senza trovare pace, o una sigaretta, a nessuna delle due estremità del viaggio.

L’agente Bellamy prendeva appunti.«Come successe?»

La parola Jacob era diventata un mantra quel giorno, durante le ricerche. A intervalli regolari, ilrichiamo si alzava. «Jacob! Jacob Hargrave!» Poi un’altra voce ripeteva il nome e lo passava alvolontario successivo, lungo la linea. «Jacob! Jacob!»

All’inizio i richiami si erano sovrapposti in una cacofonia di paura e disperazione. Ma il bambinonon venne trovato subito e, per risparmiare la voce, gli uomini e le donne della squadra di ricercafecero a turno a urlare mentre il sole scendeva verso l’orizzonte per essere ingoiato prima daglialberi, poi dai cespugli.

Procedevano tutti con passo incerto, sfiniti dalla camminata attraverso il fitto sottobosco, strematidall’ansia. Fred Green era al fianco di Harold. «Lo troveremo» continuava a ripetere. «Hai visto cheespressione aveva negli occhi quando ha scartato il piccolo fucile ad aria compressa che gli horegalato? Hai mai visto un bambino più eccitato?» Fred sbuffava. Si sentiva bruciare i muscoli dellegambe. «Lo troveremo.» Annuì. «Lo troveremo.»

Poi scese la notte e nelle pinete di Arcadia cominciarono a guizzare i fasci di luce delle torce.Quando si avvicinarono al fiume, Harold fu lieto di aver convinto Lucille a restare a casa.

«Potrebbe tornare» le aveva detto. «E cercherà la sua mamma...» Perché sapeva, come si possonosapere certe cose, che avrebbe trovato suo figlio nel fiume.

Harold sguazzava con l’acqua fino al ginocchio lungo la riva. Faceva un passo lento, chiamava ilfiglio, si fermava ad ascoltare, chiamava di nuovo, faceva un altro passo, e ancora e ancora.

Quando alla fine trovò il corpo, il chiaro di luna e l’acqua avevano tinto il bambino diun’inquietante, bellissima sfumatura argentea, lo stesso colore del fiume.

«Buon Dio» disse Harold. E non l’avrebbe più detto in vita sua.

Mentre Harold raccontava la storia, sentiva tutto il peso degli anni nella propria voce. Sembravalogorato dalla vita. Di tanto in tanto, mentre parlava, alzava la mano rugosa a lisciare i radi capelligrigi che ancora restavano attaccati al suo scalpo. Le sue mani erano deturpate da macchie scure e lesue nocche erano gonfie per l’artrite che a volte lo infastidiva. Non quanto capitava ad altre personedella sua età, ma abbastanza da rammentargli che la gioventù era lontana. Anche adesso, mentreparlava, sentì una piccola fitta ai lombi.

Pochi capelli. Pelle chiazzata di scuro. Grandi orecchie grinzose. Vestiti che sembravano caderglidi dosso, a dispetto di tutti gli sforzi di Lucille per adattarglieli. Non c’erano dubbi in merito: eravecchio.

Per qualche motivo, riavere con sé Jacob, piccolo e vitale, rendeva Harold Hargrave ancora piùconsapevole della propria età.

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Lucille, grigia e anziana quanto il marito, si limitava a guardare il figlio di otto anni (seduto altavolo in cucina a mangiare una fetta di torta di noci), come se fossero di nuovo nel 1966 e non cifosse niente che non andava e niente di brutto potesse più succedere. A volte si scostava una cioccagrigia dal viso, ma se scorgeva le proprie mani esili e macchiate, la vista non sembrava disturbarla.

Erano due scriccioli, Harold e Lucille. Lei era diventata più grande di lui in quegli ultimi anni. O,piuttosto, era lui che si era rimpicciolito, al punto che adesso doveva alzare il viso per guardarlaquando litigavano. Lucille aveva anche il vantaggio di essersi conservata meglio, cosa che forsedipendeva dal fatto che, a differenza di lui, non aveva mai fumato. I vestiti le andavano ancora bene.Le lunghe braccia sottili erano sempre agili e forti mentre quelle di lui, nascoste sotto le manichetroppo larghe delle camicie, lo facevano apparire vulnerabile. Cosa che ultimamente metteva lei inuna posizione di vantaggio.

Lucille ne andava fiera, e non si sentiva in colpa per questo, anche se a volte pensava che avrebbedovuto.

L’agente Bellamy scrisse finché non gli venne un crampo alla mano. Stava registrando ilcolloquio, ma preferiva prendere anche appunti. Le persone sembravano offendersi se durante unincontro con un funzionario governativo non veniva scritto nulla. Per l’agente Bellamy non era unproblema. Aveva uno di quei cervelli che preferivano vedere le parole piuttosto che ascoltarle. Senon si scriveva tutto ora, avrebbe dovuto farlo ascoltando la registrazione in seguito.

Bellamy prese nota di tutto, dal momento in cui era iniziata la festa di compleanno, quel giorno del1966. Scrisse dei pianti e del senso di colpa di Lucille. Era stata l’ultima a vedere Jacob vivo;ricordava solo la fugace immagine di un braccino pallido che sfrecciava dietro un angolo,all’inseguimento di uno degli altri bambini. Bellamy scrisse che al funerale erano venute più personedi quante la chiesa potesse contenere.

Ma ci furono parti del colloquio che non scrisse. Dettagli che, per una forma di rispetto,memorizzò piuttosto che registrare in un documento ufficiale.

Harold e Lucille erano sopravvissuti alla morte del loro figlio, ma a mala pena. Gli oltrecinquant’anni che erano passati da allora erano stati contaminati da un singolare tipo di solitudine,una solitudine priva di tatto che si presentava non invitata e iniziava conversazioni poco appropriateal pranzo domenicale. Una solitudine a cui loro raramente accennavano. Ci giravano attornotrattenendo il fiato, giorno dopo giorno, come se fosse un fungo atomico, in scala ridotta maminaccioso e terrificante quanto l’originale, levatosi all’improvviso al centro del loro salotto.

In un certo senso, era proprio così.Nel corso degli anni non solo si erano abituati a sottrarsi alla loro solitudine, erano diventati

abilissimi a farlo. Era quasi un gioco: non parlare della Sagra delle Fragole perché a Jacob erapiaciuta tanto; non fissare troppo a lungo edifici particolari perché potrebbero ricordarti quella voltache lui disse che da grande avrebbe fatto l’architetto; ignorare i bambini sulle cui facce vedevi lui.

Quando, ogni anno, arrivava il giorno del compleanno di Jacob, passavano la giornata incupiti eavevano difficoltà a fare conversazione. Lucille poteva mettersi a piangere senza spiegazione, Haroldpoteva fumare un po’ più del giorno prima.

Ma questo era stato solo all’inizio. Solo in quei primi, tristi anni.Poi erano invecchiati.Le porte si erano chiuse.Harold e Lucille si erano staccati dalla tragedia della morte di Jacob a tal punto che quando il

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bambino si era presentato alla loro porta... sorridente, ancora perfettamente conservato, ancora illoro prezioso figlio, ancora di soli otto anni... era stato un evento talmente lontano che Harold avevascordato il suo nome.

Quando Harold e Lucille finirono di parlare, ci fu solo silenzio. Ma, per quanto solenne, questosilenzio ebbe vita breve. Perché Jacob, ancora seduto al tavolo di cucina, sbatté la forchetta sulpiatto, buttò giù d’un fiato la sua limonata e ruttò con grande soddisfazione. «Scusate» gridò aigenitori.

Lucille sorrise.«Perdonatemi se vi faccio questa domanda» iniziò l’agente Bellamy. «E, per favore, non

prendetela come un’accusa. È semplicemente una cosa che dobbiamo chiedere per comprenderemeglio queste... singolari circostanze.»

«Ecco che arriva» disse Harold. Aveva finalmente smesso di cercare delle sigarette fantasma e siera infilato le mani in tasca. Lucille agitò le dita con un gesto incurante.

«Come andavano le cose fra voi e Jacob prima?» chiese l’agente Bellamy.Harold grugnì. Il suo corpo decise che la gamba destra avrebbe sostenuto il suo peso meglio della

sinistra. Guardò Lucille. «È a questo punto che dovremmo dire che lo inducemmo noi a scappare.Come si vede in televisione. Dovremmo dire che lo sgridammo, che lo mandammo a letto senza cena,o che lo picchiammo. Roba del genere.» Harold si avvicinò a un tavolino che stava di fronte allaporta d’ingresso. Nel cassetto c’era un pacchetto sigillato di sigarette.

Ancor prima che lui potesse tornare in salotto, Lucille aprì il fuoco. «Non pensarci nemmeno!»Harold scartò l’involucro di plastica con precisione meccanica, come se le mani non fossero sue.

Si infilò una sigaretta, spenta, tra le labbra, si strofinò la faccia rugosa e inspirò, a lungo elentamente. «Non ho bisogno d’altro» disse. «Di nient’altro.»

L’agente Bellamy parlò dolcemente. «Non stavo insinuando che voi, o chiunque altro, abbiatecausato la... la morte di vostro figlio. Scusate, sono a corto di eufemismi.» Sorrise. «Era unasemplice domanda. Il Bureau sta cercando di dare un senso a questa situazione, proprio come tutti.Certo, spetta a noi aiutare i Redivivi a ritrovare i propri cari, ma questo non significa che abbiamomaggiori informazioni su quello che sta succedendo. O sul perché.» Si strinse nelle spalle. «Leipotesi sono ancora tutte aperte. Ma la nostra speranza è che, raccogliendo il maggior numeropossibile di dati, facendo anche le domande più intime e imbarazzanti, potremo risolvere qualcuno diquesti interrogativi. E controllare la situazione prima che ci sfugga di mano.»

Lucille si protese in avanti sul vecchio divano. «In che senso, vi sfugga di mano? Ci sono cose chestanno sfuggendo di mano?»

«Succederà» assicurò Harold. «Puoi scommetterci sulla tua Bibbia.»L’agente Bellamy si limitò a scuotere la testa in un modo lento e professionale, e tornò alla

domanda originale. «Come andavano le cose tra voi e Jacob prima che se ne andasse?»Lucille sentì che Harold stava per rispondere, così lo precedette per chiudergli la bocca. «Andava

tutto bene. A meraviglia. Niente di strano o di insolito. Era il nostro bambino e gli volevamo benecome qualunque genitore dovrebbe amare un figlio. E lui ricambiava il nostro affetto. Tutto qua. Ed èancora così. Lo amiamo, lui vuole bene a noi, e ora, per grazia di Dio, siamo di nuovo insieme.» Simassaggiò la nuca, poi allargò le mani. «È un miracolo» disse.

Martin Bellamy prese un appunto.

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«E lei?» chiese a Harold.Harold si tolse di bocca la sigaretta spenta, si grattò la testa e annuì. «Ha detto tutto mia moglie.»Altri appunti.«E adesso vi farò una domanda che può apparire strana, ma uno di voi due è molto religioso?»«Sì!» esclamò Lucille, sedendosi più eretta. «Seguace e amica di Gesù! E orgogliosa di esserlo.

Amen.» Fece un cenno del capo in direzione di Harold. «Quello lì... lui è un miscredente. Totalmentedipendente dalla grazia di Dio per la salvezza. Continuo a dirgli di pentirsi, ma è testardo come unmulo.»

Quando Harold ridacchiò, parve un vecchio tosaerba. «Facciamo a turno noi due, con la fede»disse. «Son passati più di cinquant’anni, e non tocca ancora a me, per fortuna.»

Lucille agitò le mani.«Quale religione?» chiese l’agente Bellamy, scrivendo.«Battista» rispose Lucille.«Da quanto tempo?»«Tutta la vita.»Appunti.«Be’, non è proprio esatto» precisò Lucille.L’agente Bellamy si interruppe.«Per un po’ sono stata metodista. Ma il pastore e io non la vedevamo allo stesso modo su certi

punti della Parola. Ho provato anche una di quelle chiese Gospel, ma non faceva per me. Troppicanti e balli e grida. Mi sembrava di essere prima a una festa e poi nella casa del Signore. E non è unbel modo di essere cristiani.» Lucille si piegò in avanti per controllare che Jacob fosse ancora dovedoveva essere. Si era appisolato a tavola, come aveva sempre fatto. «Poi c’è stato un periodo in cuiho provato...»

«L’agente non ha bisogno di tutti questi dettagli» la interruppe Harold.«Sta’ zitto! Me l’ha chiesto lui! Non è così, Martin Bellamy?»L’uomo annuì. «Sì, signora, ha ragione. Qualunque particolare può rivelarsi importante. Nella mia

esperienza, sono le piccole cose quelle che contano di più. Soprattutto in una questione grande comequesta.»

«E quanto grande è, esattamente?» intervenne Lucille pronta, come se stesse solo aspettandol’opportunità di chiederlo.

«Intende dire quanti sono?» domandò Bellamy.Lucille annuì.«Non tantissimi» rispose Bellamy in tono misurato. «Non sono autorizzato a rivelare dati precisi,

ma si tratta di un fenomeno limitato, di un numero modesto.»«Centinaia?» insistette Lucille. «Migliaia? Cosa intende con modesto?»«Non sufficiente a preoccuparsi, signora Hargrave.» Bellamy scosse la testa. «Talmente pochi da

restare un miracolo.»Harold ridacchiò. «Ecco il tuo numero» disse.Lucille si limitò a sorridere.Quando l’agente Bellamy fu in possesso di tutti i dettagli, il sole era stato risucchiato dal buio

della terra, c’erano dei grilli che cantavano fuori dalla finestra e Jacob dormiva tranquillo al centrodel letto di Harold e Lucille. Per Lucille era stata una gioia infinita sollevare il bambino dalla sedia

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di cucina e portarlo su in camera da letto. Mai avrebbe creduto che, alla sua età, con la sua anca,avrebbe avuto la forza di portarlo da sola.

Ma quando era arrivato il momento, quando si era chinata sul tavolo, aveva passato le bracciasotto il corpicino del figlio e aveva chiamato a raccolta le forze, Jacob si era sollevato, quasi privodi peso, per venirle incontro. Era stato come se lei avesse ancora vent’anni, fosse giovane e agile.Come se gli anni e i dolori fossero solo chiacchiere.

Lo aveva portato con facilità su per le scale e, quando lo aveva infilato sotto le coperte, si eraseduta sul letto accanto a lui e aveva mugolato piano una canzoncina, come aveva fatto in passato.Jacob non si era addormentato subito, ma non aveva importanza.

Aveva dormito abbastanza a lungo.Lucille era rimasta lì per un po’, a guardare il petto del bambino che si alzava e si abbassava,

senza azzardarsi a staccare gli occhi da lui, timorosa che la magia, o il miracolo, potessero finireall’improvviso. Ma non finirono, e lei rese grazie al Signore.

Quando tornò in salotto, Harold e l’agente Bellamy erano invischiati in un silenzio imbarazzato.Harold era sulla porta, tirava profonde boccate da una sigaretta accesa e soffiava il fumo nella notteattraverso la zanzariera. L’agente Bellamy era in piedi accanto alla sedia su cui era stato seduto tuttala sera. Improvvisamente sembrava assetato, stanco. Lucille si rese conto che non gli aveva neancheofferto da bere, e questo la fece stare male. Ma, dall’atteggiamento di Harold e di Bellamy, capì cheloro stavano per farla stare ancora peggio.

«L’agente ha qualcosa da chiederti, Lucille» iniziò Harold. Gli tremava la mano mentre si portavala sigaretta alle labbra. Per questo, lei prese la decisione di non rimproverarlo perché fumava.

«Di che si tratta?»«Forse è meglio che si sieda» disse Bellamy. E fece un passo avanti per aiutarla a sedersi.Lucille si ritrasse. «Cosa c’è?»«È una domanda delicata.»«L’avevo capito. Ma non può essere niente di grave, no?»Harold le dava la schiena e fumava in silenzio, la testa abbassata.L’agente Bellamy sospirò. «È una domanda che al principio potrà sembrarle semplice ma, mi

creda, si tratta di una questione complessa e seria. E spero che si prenderà un momento per riflettereprima di rispondere. Il che non significa che lei abbia una sola possibilità di rispondere, Lucille.Voglio solo che sia sicura di aver dato la debita considerazione alla cosa. Le sarà difficile ma, sepossibile, cerchi di non lasciarsi guidare dalle emozioni.»

Lucille era diventata tutta rossa. «Martin Bellamy! Non la credevo un maschilista. Solo perchésono una donna, non significa che avrò un crollo nervoso.»

«Dannazione, Lucille» abbaiò Harold, anche se sembrava facesse fatica a trovare la voce.«Ascolta quello che deve dirti quest’uomo.» Poi tossì. O forse era un singhiozzo.

Lucille si sedette.Anche Martin Bellamy si sedette. Si tolse un invisibile pelo dal davanti dei pantaloni e si esaminò

le mani per un attimo.«Dica» lo sollecitò Lucille. «Questa attesa mi sta uccidendo.»«È l’ultima domanda che vi farò questa sera. E non è necessariamente una domanda a cui dovete

rispondere subito, ma prima lo farete, meglio sarà. Rende le cose meno complicate dare una rispostatempestiva.»

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«Cosa c’è?» implorò Lucille.Martin Bellamy sospirò. «Volete tenere Jacob?»

Era stato due settimane prima.Jacob era a casa ora. In modo irrevocabile. La stanza degli ospiti era tornata a essere la sua

cameretta e il bambino si era reinserito nella propria vita come se non fosse passato mezzo secolo.Era piccolo. Aveva una mamma. Aveva un papà. Il suo mondo finiva lì.

Harold, per ragioni che nemmeno lui riusciva a capire, era profondamente turbato da quando eratornato il bambino. Aveva ricominciato a fumare come una ciminiera. Al punto che passava buonaparte del tempo fuori, sul portico, al riparo dalle prediche di Lucille sulla sua disgustosa abitudine.

Era cambiato tutto talmente in fretta. Come si faceva a non prendere una cattiva abitudine o due?Sono diavoli! Harold sentiva l’eco delle parole di Lucille dentro la propria testa.La pioggia scrosciava. La giornata era quasi al finire. Sotto gli alberi era già buio. La casa si era

fatta quieta. Sopra il fragore della pioggia si udì il lieve ansito di una donna anziana che avevapassato troppo tempo a inseguire un bambino. Lucille uscì dalla zanzariera, asciugandosi la fronte, esi lasciò cadere sulla sua sedia a dondolo.

«Signore!» esclamò. «Quel bambino mi sta sfiancando.»Harold spense la sigaretta e si schiarì la gola, cosa che faceva sempre prima di rimbeccare la

moglie. «Intendi dire, quel diavolo?»Lei agitò una mano. «Ssh! Non chiamarlo così!»«Sei stata tu a chiamarlo così. Hai detto che sono tutti diavoli, ricordi?»Lei aveva ancora il fiato corto. Le parole le uscivano a scatti. «Questo era prima» sbuffò. «Mi

sbagliavo. Ora l’ho capito.» Sorrise e si appoggiò all’indietro, sfinita. «Sono una benedizione. Unabenedizione del Signore. Ecco che cosa sono. Una seconda occasione!»

Harold rimase seduto in silenzio per un po’, ad ascoltare il respiro di Lucille farsi più regolare.Era vecchia, anche se era la mamma di un bambino di otto anni. Si stancava facilmente.

«E tu dovresti passare più tempo con lui» riprese Lucille. «Capisce che stai tenendo le distanze.Lo sente. Sa che lo tratti in modo diverso da una volta. Quando era qui... prima.» Sorrise. Le piacevaquella definizione.

Harold scosse la testa. «Cosa farai quando se ne andrà di nuovo?»La faccia di Lucille si irrigidì. «Zitto!» sibilò. «Custodisci la lingua dal male, le labbra da

parole di menzogna. Salmo 34:13.»«Non metterti a recitare Salmi. Sai quello che si dice, Lucille. Lo sai quanto me. Sai che a volte

spariscono all’improvviso e nessuno ha più loro notizie, come se l’aldilà finalmente li avesserichiamati a sé.»

Lucille scosse la testa. «Non ho tempo per certe sciocchezze» dichiarò, alzandosi anche se avevale gambe pesanti come sacchi di farina. «Sono solo voci tendenziose e assurdità. Vado a preparare lacena. Non startene qui fuori. Ti prenderai una polmonite. Questa umidità ti ucciderà.»

«E allora? Ritornerò» ribatté Harold.«Salmo 34:13!»Lucille si chiuse la zanzariera alle spalle e fece scattare il gancetto.

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Dalla cucina arrivava un tramestio di pentole e padelle. Armadietti che si aprivano, si chiudevano.Odori di carne, farina, spezie, che si fondevano con il profumo della pioggia di maggio. «Possovenire lì fuori, papà?» Harold si riscosse. «Come?» Aveva sentito perfettamente la domanda.

«Posso venire fuori con te? Per favore?»A dispetto di tutte le falle della sua memoria di vecchio, Harold ricordava bene di essere sempre

stato indifeso quando quel bimbo diceva per favore.«Alla tua mamma verrà un colpo» disse.«Solo uno piccolo, però.»Harold deglutì per non ridere.Cercò una sigaretta e non la trovò. Eppure gli sembrava di averne ancora una. Frugò meglio. In

fondo a una tasca, dove non c’erano sigarette, trovò una piccola croce d’argento appartenuta aqualcuno, chissà chi. Non ricordava di averla con sé, ma non poté fare a meno di fissarla come sefosse un’arma letale.

Un tempo, al posto del Cristo, erano state incise le parole Dio ti ama. Ma ormai quella scritta erasparita. Ne restava solo una O e mezza M. Harold fissò il crocifisso, poi, quasi senza renderseneconto, cominciò a strofinarlo avanti e indietro col pollice.

Jacob stava in piedi in cucina dietro la zanzariera. Si appoggiò contro lo stipite con le mani sullaschiena e le gambe incrociate, l’aria contemplativa. I suoi occhi percorsero l’orizzonte, guardando lapioggia, il vento e, infine, suo padre. Sospirò a fondo. Poi si schiarì la voce. «Certo che sarebbebello venire lì fuori» disse in tono melodrammatico.

Harold ridacchiò.In cucina, qualcosa friggeva. Lucille stava canticchiando.«Vieni» disse Harold.Jacob uscì, si sedette ai piedi del padre e a un tratto, come in risposta a quel gesto, la pioggia si

infuriò. Invece che cadere dal cielo, sembrava rimbalzare dalla terra. Frustava la balaustra,schizzava addosso a entrambi... non che loro ci facessero caso. Per molto tempo il vecchio e il bimboche non era più morto rimasero seduti a fissarsi. Il bambino aveva i capelli castani, le lentiggini, ilfaccino tondo e liscio come sempre. Le sue braccia erano sproporzionatamente lunghe, dato che ilsuo corpo cominciava a trasformarsi nell’adolescenza che gli era stata negata più di cinquant’anniprima. Sembrava in salute.

Harold si inumidiva insistentemente le labbra, il suo pollice strofinava il centro della croce. Ilbambino non si muoveva affatto. Se non avesse battuto le palpebre di tanto in tanto, avrebbe potutoessere morto.

«Vuole tenerlo?»Era la voce dell’agente Bellamy a riecheggiare dentro la testa di Harold questa volta.«Non è una decisione mia» aveva detto Harold. «Spetta a Lucille. Deve chiedere a lei. Qualunque

cosa dirà, io mi adeguerò.»L’agente Bellamy aveva annuito. «Posso comprendere, signor Hargrave. Ma devo lo stesso

chiederglielo. Ho bisogno di sapere la sua risposta. Resterà tra noi, solo fra lei e me. Posso perfinospegnere il registratore se preferisce. Ma devo sapere cosa intende fare. Devo sapere se vuoletenerlo.»

«No» aveva risposto Harold. «Per niente al mondo. Ma che alternativa ho?»

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ina Bianca

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Lewis e Suzanne Holt

Lui si risvegliò nell’Ontario; lei nei pressi di Phoenix. Lui era stato un ragioniere. Lei insegnavapianoforte.

Il mondo era diverso, eppure sempre lo stesso. Le auto erano più silenziose. Gli edifici eranostranamente alti e di notte sembravano scintillare più di quanto avessero fatto un tempo. Lepersone avevano l’aria più indaffarata. Ma tutto finiva lì. E non erano cose importanti.

Lui si mise in viaggio verso sud, saltando sui treni come non si faceva più da decenni. Riuscì aevitare il Bureau solo grazie alla fortuna o al destino. Lei si era messa in viaggio verso nordest,seguendo un istinto incontenibile, ma presto fu catturata e trasferita nei dintorni di Salt LakeCity, in quello che stava diventando il più grosso centro di schedatura della regione. Accadde nonmolto tempo prima che lui venisse intercettato lungo il confine tra il Nebraska e il Wyoming.

Novant’anni dopo la loro morte, erano di nuovo insieme.Lei non era cambiata affatto. Lui era un po’ più magro, ma solo a causa del lungo viaggio.

Dietro le sbarre, non erano spaventati quanto gli altri.C’è una musica che nasce, a volte, dalla sinergia tra due persone. Una cadenza ineluttabile che

continua per sempre.ina Bianca

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3

Arcadia sorgeva in mezzo alla campagna come tante altre cittadine del Sud. Iniziava con piccole casedi legno a un solo piano, situate su ampi terreni pianeggianti ai due lati di una strada asfaltata a duecorsie che serpeggiava tra boschi di pini, cedri e querce bianche. Qua e là, in primavera e in estate,si vedevano campi di granturco e di soia. In inverno, c’era solo la nuda terra.

Dopo un paio di miglia i campi si facevano più piccoli, le case più ravvicinate. Una volta che sientrava nella città vera e propria, solo due semafori regolavano il traffico di una confusa rete distrade e vicoli con edifici datati e consunti. Le uniche case nuove di Arcadia erano quelle che eranostate ricostruite dopo gli uragani. Si notavano per la vernice fresca e il legno nuovo, e facevanopensare che, forse, qualcosa di nuovo potesse davvero accadere in quella vecchia città.

Ma era raro che succedesse qualcosa di nuovo lì. Questo, almeno, prima dei Redivivi.Le strade non erano numerose, e nemmeno lo erano le case. Al centro della cittadina c’era la

scuola: una vecchia struttura di mattoni con finestre anguste, piccole porte e condizionatori esterniche non funzionavano.

Verso nord, in cima a una collinetta appena fuori dai confini della città, sorgeva la chiesa. Eracostruita con travi di legno e doghe, e si ergeva come un faro, quasi a ricordare agli abitanti diArcadia che c’era sempre qualcuno sopra di loro.

Non accadeva dal 1972 (quando era arrivata in città la Sainted Soul Stirrers of Solomon, quellaband itinerante di gospel con il bassista ebreo dell’Arkansas) che la chiesa fosse tanto piena. Lagente era ammassata. Auto e furgoni riempivano i prati. Un pickup arrugginito carico di legname eraparcheggiato contro il crocifisso al centro del piazzale, come se Gesù fosse sceso dalla croce eavesse deciso di fare un salto al magazzino di materiale edile. Una fila di paraurti copriva il cartellosu cui era scritto Gesù ti ama – Fritto di pesce il 31 maggio. Le auto erano parcheggiate una dietrol’altra sul ciglio della statale, come era successo nel ‘63 (o era il ‘64?), per il funerale dei tre ragazziBenson che avevano perso la vita in un terribile incidente stradale ed erano stati pianti per un’intera,cupa giornata di lamentazioni.

«Devi venire con noi» insistette Lucille, mentre Harold parcheggiava il vecchio pickup e sitoccava le tasche in cerca delle sigarette. «Cosa penserà la gente se non entri?» Slacciò la cintura disicurezza di Jacob e gli ravviò i capelli con le dita.

«Penseranno, Harold Hargrave che non entra in chiesa? Sia ringraziato Dio! In questi tempi difollia, almeno c’è qualcosa che non cambia!»

«Questa non è una funzione, miscredente! È un’assemblea cittadina. Non c’è motivo per cui tu nondebba entrare.»

Lucille scese dal pickup e si sistemò il vestito. Era il suo abito preferito, quello che metteva nelleoccasioni importanti, quello che attirava polvere come un magnete, un misto cotone e poliestere di unverde pastello, con piccoli fiori applicati lungo il colletto e un disegno stampato sulle maniche.«Certe volte mi chiedo perché mi prendo la briga di vestirmi bene. Detesto questo pickup» disse,strofinandosi il dietro della gonna.

«Hai detestato tutti i pickup che ho avuto.»«E tu continui a comprarli.»

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«Posso restare qui?» chiese Jacob, giocherellando con il bottone del colletto della sua camicia. Ibottoni avevano sempre esercitato una misteriosa attrattiva su di lui. «Papà e me potremmo...»

«Papà e io» corresse Lucille.«No.» Harold trattenne una risata. «Va’ con la tua mamma.» Si portò una sigaretta alle labbra e si

grattò il mento. «Il fumo fa male. Fa venire le rughe, l’alito cattivo e fa crescere i peli.»«Rende anche cocciuti» aggiunse Lucille, aiutando Jacob a smontare.«Io non credo che mi vogliano là dentro» disse il bambino.«Va’ con la mamma» ripeté Harold con voce severa. Poi accese la sigaretta e inspirò tanta

nicotina quanta ne potevano contenere i suoi polmoni di vecchio.

Quando sua moglie e l’essere che forse era suo figlio e forse no (non aveva ancora preso unadecisione in merito) si furono allontanati, Harold tirò un’altra boccata e soffiò il fumo dal finestrinoaperto. Poi rimase seduto con la sigaretta che si consumava tra le dita. Si strofinò il mento e fissò lachiesa.

Aveva bisogno di essere ridipinta. Era talmente scrostata che era difficile capire di che colorefosse, ma era chiaro che aveva conosciuto tempi migliori. Harold cercò di farsi venire in mente diche colore fosse stata quando la pittura era fresca. Ricordava perfino chi avesse eseguito il lavoro,un’impresa di Southport. Il nome gli sfuggiva, come pure il colore originale. L’unica immagine cheaveva nella mente era l’attuale facciata sbiadita.

Non succedeva sempre così con la memoria? Col tempo si ossidava e si copriva di una patina diconvenienti omissioni.

Ma di cos’altro ci si poteva fidare?Jacob era stato un petardo, un filo elettrico scoperto. Harold non riusciva a contare le volte in cui

quel bambino si era cacciato nei guai perché non era rientrato a casa prima del tramonto o perché siera messo a correre in chiesa. Una volta per poco non faceva venire una crisi isterica a Lucilleperché si era arrampicato in cima al pero di Henrietta Williams. Tutti lo chiamavano, lo cercavano, elui se ne stava nascosto sui rami, tra le foglie e le pere mature. Probabilmente, godendosela unmondo.

Al chiarore dei lampioni stradali, Harold scorse una piccola creatura alzarsi in volo dalcampanile, un lampo di movimento e di ali. Per un attimo, scintillò come neve nella notte.

E poi sparì, Harold lo sapeva, senza più fare ritorno.«Non è lui» disse. Gettò la sigaretta sull’asfalto e si appoggiò all’indietro contro il vecchio sedile

impolverato. Abbassò la testa sul petto e al suo corpo chiese solo di addormentarsi senza tormentarlocon sogni o ricordi. «Non lo è.»

Lucille teneva stretta la mano di Jacob mentre si faceva strada tra la gente assembrata davanti allachiesa. Camminava spedita quanto glielo permetteva la sua anca.

«Scusatemi. Ciao, Macon, come stai questa sera? Permesso. Tutto bene, Lute? Ottimo. Scusatemi.Scusate. Oh, salve, Vaniece! Sono secoli che non ci si vede. Come va? Bene. Fa piacere sentirlo!Amen. Prenditi cura di te. Scusami. Scusaci. Oh, buonasera. Scusateci.»

La gente le apriva un varco, come lei aveva sperato, lasciandola a chiedersi se fosse il segno cheal mondo esistevano ancora il rispetto e le buone maniere, o la conferma che, alla fine, era diventatavecchia.

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Oppure, si spostavano a causa del bambino che camminava al suo fianco.Non avrebbero dovuto esserci Redivivi lì, quella sera. Ma Jacob era prima di tutto suo figlio, e

niente e nessuno, nemmeno la morte o l’improvvisa cessazione della stessa, avrebbe potuto indurla atrattarlo in qualunque altro modo.

Madre e figlio trovarono posto nel primo banco vicino a Helen Hayes. Lucille fece sedere Jacobaccanto a sé, e si unì al mormorio che aleggiava nella chiesa come una foschia mattutina. «Quantagente» bisbigliò, incrociando le mani sul petto e scuotendo la testa.

«Non si vedrebbero tante persone neanche in un mese di domeniche» commentò Helen Hayes.Quasi tutti gli abitanti di Arcadia erano uniti da qualche vincolo di parentela; Helen e Lucille eranocugine. Lucille aveva preso le linee allungate e spigolose dei Daniels: era alta, con i polsi sottili, lemani piccole, un naso che formava una riga dritta e decisa sotto gli occhi castani. Helen, al contrario,era tutta curve e morbidezza, con un’ossatura grossa e il viso largo e tondo. Solo i loro capelli, grigie lisci adesso, mentre un tempo erano stati scuri come il creosoto, indicavano che le due donne eranodavvero consanguinee.

Helen aveva un pallore impressionante. Parlava con labbra aggrottate che le davanoun’espressione seria e turbata. «E si sarebbe detto che, quando tante persone si fossero finalmentedecise a presentarsi in chiesa, sarebbero venute per il Signore. Gesù è stato il primo a resuscitare,ma cosa importa a questi miscredenti?»

«Mamma?» disse Jacob, ancora affascinato dal bottone allentato sulla sua camicia.«Vengono qui per Gesù?» continuò Helen. «Vengono per pregare? Da quanto tempo non fanno

penitenza? Qual è l’ultima funzione a cui hanno partecipato? Dimmelo tu. Quel ragazzo Thompson,laggiù...» Puntò un indice grassoccio verso un gruppetto di giovani fermi in fondo alla navata. «Tiricordi l’ultima volta che lo hai visto in chiesa?» Grugnì. «È passato tanto tempo che credevo fossemorto.»

«Lo era» disse Lucille a bassa voce. «Lo sai tu come lo sa chiunque posi gli occhi su di lui.»«Credevo che questa assemblea fosse solo per i... insomma, mi hai capito.»«Qualunque persona dotata di buonsenso avrebbe dovuto rendersi conto che non poteva essere

così» ribatté Lucille. «E, francamente, non sarebbe stato giusto escluderli. Questa assemblea riguardaloro. Perché non dovrebbero essere presenti?»

«Ho sentito dire che Jim e Connie vivono qui» disse Helen. «Riesci a crederci?»«Davvero?» esclamò Lucille. «Non lo sapevo. Ma perché non dovrebbero? Fanno parte di questa

città.»«Facevano» corresse Helen asciutta.«Mamma?» la interruppe Jacob.«Sì?» disse Lucille. «Cosa c’è?»«Ho fame.»Lucille rise. Il pensiero di avere un figlio vivo e sempre affamato la rendeva ancora molto felice.

«Ma hai appena mangiato!»Finalmente Jacob riuscì a staccare il bottone dalla camicia. Se lo rigirò fra le manine bianche,

studiandolo come se fosse un problema di matematica teorica. «Ma io ho fame.»«Amen» disse Lucille. Gli diede una piccola pacca sulla gamba e lo baciò sulla fronte. «Ti do

qualcosa quando torniamo a casa.»«Pesche?»

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«Se vuoi.»«Sciroppate?»«Se vuoi.»«Voglio.» Jacob sorrise. «Papà e me...»«Papà e io» lo corresse di nuovo Lucille.

Era solo maggio, ma si soffocava già. La vecchia chiesa non aveva mai avuto un impianto dicondizionamento decente, e con tante persone una sopra l’altra come sedimenti, l’aria era pesante.

Si respirava la sensazione che, da un momento all’altro, potesse succedere qualcosa didrammatico.

Quel pensiero metteva a disagio Lucille. Ricordava di aver letto sul giornale di terribili tragediecausate da un numero eccessivo di persone assembrate in uno spazio troppo ristretto. Si guardòattorno (per quanto poteva con tutta quella gente che le bloccava la visuale) e contò le uscite. Tantoper prudenza. C’era il portone principale in fondo alla chiesa, ovviamente, ma era ostruito dallafolla. Sembrava che tutti i seicento abitanti di Arcadia fossero lì. Un muro di corpi.

Di tanto in tanto, Lucille notava la massa di persone avanzare sotto la spinta di qualcuno che sifaceva strada a forza. Si alzava un brusio di salve e permesso e scusate. Se quello era il preludio auna morte per calpestamento, almeno era cortese, pensò Lucille.

Si inumidì le labbra e scosse la testa. L’aria si era fatta davvero pesante. Non c’era più posto permuoversi, eppure la gente continuava a entrare. Probabilmente, venivano da Buckhead o Waccamawo Riegelwood. Il Bureau cercava di tenere queste riunioni in ogni città, ma c’era chi partecipava atutte, come fan che seguono un famoso musicista da uno spettacolo all’altro. Erano persone cheseguivano gli agenti del Bureau in cerca di incongruenze o di una scusa per scatenare la rissa.

Lucille notò perfino un uomo e una donna che sembravano un fotografo e una giornalista. L’uomoera uno di quei tipi che si vedevano sulle riviste o di cui si leggeva nei libri: capelli spettinati,un’ombra di barba sulle guance. Lucille pensò che doveva profumare di legna tagliata o di oceano.

La donna era vestita in modo impeccabile, con i capelli raccolti in una coda e il trucco perfetto.«Mi chiedo se ci sia il furgone di una rete televisiva qui fuori» commentò Lucille, ma le sue parole sipersero nel clamore della folla.

Fu in quel momento che il pastore Peters uscì dalla porta della sagrestia. Sua moglie lo seguiva,piccola e fragile come sempre. Indossava un semplice abito nero che la faceva sembrare ancora piùminuta. Era già sudata, e si tamponava la fronte con un gesto delicato. Lucille non riusciva mai aricordare come si chiamasse. Doveva essere anch’esso piccolo e inconsistente, il suo nome, un nomeche le persone tendevano a dimenticare, proprio come la donna a cui apparteneva.

In una sorta di contrasto biblico con la moglie, il pastore Robert Peters era un uomo alto emassiccio, con i capelli scuri e la pelle perennemente abbronzata. Era solido come una roccia. Ilgenere d’uomo che sembrava nato e cresciuto per una vita violenta. Eppure, da quando Lucille loconosceva, non lo aveva mai sentito neanche alzare la voce, se non in qualche momento chiave deisuoi sermoni, ma quello non era segno di un animo violento, così come il tuono non è il segno di undio in collera.

«È un assaggio di inferno, reverendo» disse Lucille tirando la bocca in un sorriso quando ilpastore e sua moglie le furono vicini.

«Sì, signora Lucille» rispose il pastore Peters. Girò la grossa testa squadrata sul collo taurino.

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«Forse dovremmo far uscire qualcuno discretamente dal retro. Non ho mai visto questa chiesa tantopiena. Forse dovrei passare il cestino delle offerte. La mia macchina ha bisogno di gomme nuove.»

«Oh, zitto!»«Come sta questa sera, signora Hargrave?» La moglie del pastore si portò una mano delicata alla

piccola bocca, coprendo un lieve colpo di tosse. «Ha un bell’aspetto» aggiunse con una vocina esile.«Lei no.» Lucille accarezzò i capelli di Jacob. «Si sente bene? Sembra sul punto di svenire.»«Sto bene» assicurò la donna. «Mi manca solo un po’ il fiato. Fa un caldo terribile qui dentro.»«Forse sarebbe meglio chiedere a un po’ di gente di accomodarsi fuori» ripeté il pastore. Alzò

una grossa mano squadrata, come se avesse il sole negli occhi. «Non ci sono mai state abbastanzauscite di sicurezza, qui.»

«Non ci saranno uscite di sicurezza all’inferno!» intervenne Helen.Il pastore Peters si limitò a sorridere e si protese sopra il banco per stringerle la mano. «E come

sta questo giovanotto?» chiese, facendo un bel sorriso a Jacob.«Sto bene.»Lucille gli diede un colpetto su una gamba.«Sto bene, signore» si corresse lui.«Che ne dici?» chiese il pastore, ridacchiando. Goccioline di sudore gli imperlavano la fronte.

«Cosa ne facciamo di tutta questa gente, Jacob?»Il bambino alzò le spalle e ricevette un altro colpetto sulla coscia.«Non saprei, signore.»«Li mandiamo tutti a casa? Oppure, potremmo prendere un bel tubo di gomma e annaffiarli.»Jacob sorrise. «Un predicatore non fa certe cose.»«Chi lo dice?»«La Bibbia.»«La Bibbia? Ne sei sicuro?»Jacob annuì. «Vuole sentire un indovinello? Papà me ne insegna di bellissimi.»«Davvero?»«Mmm-hmm.»Il pastore Peters si inginocchiò, con profondo imbarazzo di Lucille. Detestava il pensiero che il

pastore si sporcasse l’abito per una delle facezie da due soldi di Harold. Dio solo sapeva che suomarito conosceva barzellette che non erano fatte per orecchie clericali.

Trattenne il fiato.«Cosa disse il libro di matematica alla matita?»«Mmh.» Il pastore Peters si strofinò il mento ben rasato, con un’aria di profonda concentrazione.

«Non lo so» rispose alla fine. «Cosa disse il libro di matematica alla matita?»«Ho un sacco di problemi» rispose Jacob. Poi rise. Per alcuni, fu solo il suono di un bimbo che

rideva. Altri, sapendo che quel bambino era stato morto fino a poche settimane prima, non sapevanocosa pensare.

Il pastore rise insieme bambino. Lo fece anche Lucille, ringraziando il cielo che non si fossetrattato dell’indovinello sulla matita e sul castoro.

Il pastore Peters si infilò una mano nel taschino dell’abito e, con un gesto teatrale, estrasse unacaramella fasciata in carta argentata. «Ti piace la cannella?»

«Sissignore! Grazie!»

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«È talmente beneducato» commentò Helen Hayes. Si mosse sul sedile, seguendo con gli occhi lafragile moglie del pastore, il cui nome proprio non riusciva a ricordare.

«Un bambino beneducato come lui si merita un dolcetto» disse la moglie del pastore. Era in piedialle spalle del marito e batteva dolcemente al centro della sua schiena, e anche questa parevaun’impresa per lei, dato che lui era tanto grosso e lei così minuta. «È difficile trovare ragazzinibeneducati al giorno d’oggi.» Si interruppe per tamponarsi la fronte. Piegò il fazzoletto, si coprì labocca e fece un colpetto di tosse da topo. «Oh, cielo.»

«Lei è la persona più cagionevole che io conosca» disse Helen.La moglie del pastore sorrise e annuì educatamente. «Sì, signora.»Il pastore Peters diede un buffetto sulla testa di Jacob. Poi sussurrò a Lucille: «Qualunque cosa

dicano, non permetta che turbino il bambino... o lei. Okay?».«Sì, pastore» rispose Lucille.«Sissignore» fece eco Jacob.«Ricorda» disse il pastore al bambino. «Sei un miracolo. Tutta la vita è un miracolo.»

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Angela Johnson

Il pavimento della stanza degli ospiti in cui era rinchiusa da tre giorni era di legno lucidissimo.Quando le portavano da mangiare, cercava di non rovesciare niente, non volendo macchiare ilparquet e aggravare la propria punizione. A volte, per precauzione, consumava i pasti nella vascada bagno e sentiva i suoi genitori parlare in camera da letto, sull’altro lato del muro.

«Perché non sono ancora venuti a prenderla?» chiese ora suo padre.«Non avremmo dovuto lasciare che la portassero qui» replicò sua madre. «È stata una tua

idea. E se i vicini lo scoprissero?»«Credo che Tim lo sappia già.»«E come? Era tardi quando l’hanno portata. Non era possibile che fosse sveglio a quell’ora di

notte, no?»Tra loro scese un attimo di silenzio.«Pensa a cosa succederebbe se si sapesse in studio. È tutta colpa tua.»«È solo che... dovevo sapere» disse lui, e la sua voce si era addolcita. «Assomiglia tanto a...»«Non ricominciare, Mitchell. Non di nuovo! Io torno a chiamarli. Devono venire a portarla via

questa sera stessa!»Lei era seduta con le ginocchia strette al petto, e piangeva solo un po’, dispiaciuta per

qualunque cosa avesse fatto, anche se non capiva che cosa.Si chiedeva dove avessero messo il suo cassettone, i suoi vestiti, i poster che aveva appeso alle

pareti nel corso degli anni. I muri adesso avevano una sfumatura tra il rosa e il rosso. I forilasciati dalle puntine, le tracce di nastro adesivo, i segni a penna sullo stipite che avevanomarcato ogni anno della sua crescita... Era sparito tutto. Cancellato da una bella mano di pittura.

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4

Quando la chiesa fu così piena e l’aria tanto rarefatta che tutti cominciarono a paventare una tragedia,il brusio delle conversazioni si attenuò. Il silenzio partì dal portone e si diffuse tra la folla come unvirus.

Il pastore Peters si eresse (alto e grosso come il monte Sinai, pensò Lucille). Giunse le maniall’altezza della vita e aspettò, mentre sua moglie se ne stava stretta a lui, al riparo della sua ombra.Lucille allungò il collo per vedere cosa stesse succedendo. Forse alla fine il diavolo si era stancatodi aspettare.

«Salve. Salve. Permesso. Scusatemi. Salve. Come sta. Mi scusi. Permesso.»Ogni parola faceva scostare la folla.«Scusatemi. Buonasera. Come sta? Mi scusi. Permesso...» Era una voce pacata, profonda, cortese

e decisa allo stesso tempo. La voce si fece più forte, o forse fu il silenzio a farsi più profondo, finchénon rimase altro che il ritmo di quelle parole, ripetute come un mantra. «Scusatemi. Salve, come sta?Permesso. Buonasera...»

Senza ombra di dubbio, era la voce bene impostata di un funzionario governativo.«Buonasera, pastore» disse l’agente Bellamy, che era finalmente riuscito a guadare quel mare di

gente.Lucille esalò un respiro che non sapeva di aver trattenuto.«Signora?»Bellamy indossava un abito grigio antracite molto simile a quello che aveva portato il giorno in

cui era arrivato con Jacob. Non era il genere di vestito che si vede addosso a molti agentigovernativi. Era un abito degno di Hollywood, di talk-show e di eventi mondani, pensò Lucille. «Ecome sta il nostro bambino?» chiese lui, salutando Jacob con un cenno del capo. Il suo sorriso eraperfetto come se fosse scolpito nel marmo.

«Bene, signore» disse Jacob, la caramella che gli tintinnava contro i denti.«Mi fa piacere saperlo.» Bellamy si raddrizzò la cravatta, anche se non era storta. «Mi fa proprio

piacere.»Poi arrivarono i soldati. Un paio di ragazzi talmente giovani che sembrava giocassero alla guerra.

Lucille si aspettava quasi che cominciassero a rincorrersi intorno al pulpito, come una volta avevanofatto Jacob e il figlio dei Thompson. Ma le pistole che portavano al fianco non erano giocattoli.

«Grazie per essere intervenuto a quest’assemblea» disse il pastore Peters, stringendo la manodell’agente Bellamy.

«Non potevo perdermela. Grazie a lei di avermi aspettato. Una bella folla ha, qui.»«Sono solo curiosi» disse il pastore Peters. «Lo siamo tutti. Lei... o, piuttosto, il Bureau, o il

governo nel suo insieme... avete qualcosa da dirci?»«Il governo nel suo insieme?» chiese l’agente Bellamy, col suo perenne sorriso. «Lei mi

sopravvaluta. Sono solo un povero impiegato statale. Un ragazzino nero di...» Abbassò la voce.«New York» concluse, come se i presenti, e tutti gli abitanti della città, non lo avessero già capitodal suo accento. Tuttavia, non c’era motivo di pubblicizzare la cosa più del dovuto. Il Sud era unostrano luogo.

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L’assemblea iniziò.«Come tutti sapete...» cominciò il pastore Peters dal pulpito, «stiamo vivendo quelli che possiamo

soltanto definire tempi interessanti. È una vera benedizione poter... poter assistere a tanti miracoli eprodigi. E, non fraintendete, è questo che sono... miracoli e prodigi.» Camminava parlando, comefaceva quando era incerto su cosa dire. «Questi sono tempi degni dell’Antico Testamento. Lazzaro siè alzato dal sepolcro, e pare abbia portato tutti con sé!» Il pastore Peters si fermò e si asciugò ilsudore dalla nuca.

Sua moglie tossì.«Sta succedendo qualcosa!» proruppe Peters, facendo trasalire la chiesa. «Qualcosa la cui

motivazione ci è ancora sconosciuta.» Allargò le braccia. «E come dobbiamo comportarci? Comedobbiamo reagire? Dobbiamo avere paura? Questi sono momenti di incertezza, ed è naturale esserespaventati dall’incerto. Ma cosa ne facciamo di questa paura?» Si avvicinò al primo banco, doveerano seduti Lucille e Jacob. Le sue scarpe erano silenziose sulla vecchia moquette color borgogna.Prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la fronte, sorridendo a Jacob.

«Temperiamo la nostra paura con la pazienza...» disse. «Ecco cosa faremo.»Era importante accennare alla pazienza, si rammentò. Prese la manina di Jacob, assicurandosi che

anche le persone che stavano in fondo alla chiesa, anche quelli che non potevano vedere, avessero iltempo di farsi spiegare cosa lui stesse facendo, come stesse parlando della pazienza mentre teneva lamano del bambino che era morto da mezzo secolo e che ora, all’improvviso, stava tranquillamentesucchiando una caramella nel primo banco della chiesa, proprio sotto la croce.

Gli occhi del pastore percorsero la chiesa e la folla seguì il suo sguardo. Uno dopo l’altro, Petersfissò gli altri Redivivi presenti, così che tutti potessero rendersi conto di quanto fosse già diffuso ilfenomeno. Erano reali, non frutto di immaginazione. Innegabili. Anche questo era importante che tutticapissero.

La pazienza era una delle virtù più difficili da comprendere, il pastore Peters lo sapeva. Ed eraancora più difficile metterla in pratica. Lui si rendeva conto di essere il meno paziente di tutti. Nonuna parola di ciò che diceva sembrava avere senso, ma aveva un gregge da guidare, aveva la suaparte da recitare. E doveva distrarsi per non pensare a lei.

Alla fine, piantò i piedi e respinse l’immagine del volto di lei dalla mente. «C’è molto potenzialee, peggio, ci sono molte opportunità per pensieri e comportamenti avventati in questi tempi diincertezza. Basta accendere il televisore per vedere quanto siano spaventati tutti, come stianoreagendo certe persone, gli atti che commettono per paura. Detesto dire che siamo spaventati, ma ècosì. Detesto dire che possiamo essere avventati, ma lo siamo. Detesto dire che siamo tentati di farecose che sappiamo non dovremmo fare, ma è la verità.»

Nella sua mente, lei era allungata su uno dei rami più bassi di una quercia come un felino predatore.Lui era in piedi lì sotto, soltanto un ragazzino a quel tempo, il viso alzato per guardarla mentre leifaceva penzolare un braccio verso di lui. Era tanto spaventato. Aveva paura che cadesse. Avevapaura di lei e di come lo faceva sentire. Paura di se stesso, come capita a tutti i bambini. Paura di...

«Pastore?»Era Lucille.La grande quercia, il sole che filtrava tra le foglie, l’umida erba verde, la ragazzina... Tutto sparì.

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Il pastore Peters sospirò, tendendo le mani vuote davanti a sé.«Cosa ne facciamo di loro?» abbaiò Fred Green dal centro della chiesa. Tutti si girarono a

guardarlo. L’uomo si tolse il berretto stazzonato e rassettò la camicia da lavoro color kaki. «Hannoqualcosa che non va!» riprese, la bocca tirata come la fessura di una cassetta della posta arrugginita.Era tanto che non aveva più i capelli, il suo naso era grosso, gli occhi erano piccoli... tutte cose checospiravano con gli anni per dargli un’espressione scaltra, crudele. «Che cosa ne facciamo di loro?»

«Saremo pazienti» ribadì il pastore Peters. Pensò di parlare della famiglia Wilson, che si trovavanel retro della chiesa. Ma quella famiglia aveva un significato speciale per la città di Arcadia e, perora, era meglio non attirare l’attenzione su di loro.

«Pazienti?» Gli occhi di Fred si sgranarono. Un tremito lo percorse. «Il Diavolo in persona sipresenta alla nostra porta, e lei ci chiede di essere pazienti? Vuole che siamo pazienti, adesso chesiamo vicini alla Fine del Mondo?» Fred non guardava il pastore Peters mentre parlava, ma iconvenuti. Si girò su se stesso, assicurandosi che tutti potessero vedere cosa c’era nei suoi occhi.«Lui ci chiede di essere pazienti in un momento come questo!»

«Su, su» disse il pastore Peters. «Non mettiamoci a parlare di Fine del Mondo. E non chiamiamodiavoli queste povere persone. Sono misteri, questo è certo. Potrebbero perfino essere miracoli. Ma,al momento attuale, è presto per prendere una posizione in merito. Sono troppe le cose che nonsappiamo e dobbiamo evitare di farci prendere dal panico. Avete sentito cos’è successo a Dallas,tutti quei feriti... sia Redivivi che persone normali... quei morti. Non possiamo permettere chequalcosa del genere succeda qui. Non ad Arcadia.»

«Se vuole il mio parere, quella gente di Dallas ha fatto ciò che andava fatto.»La chiesa era in fermento. Tra i banchi, lungo i muri, in fondo alla navata, tutti brontolavano e

annuivano, d’accordo con Fred o, quanto meno, con la sua passionalità.Il pastore Peters alzò le mani per imporre la calma. Il brusio si attenuò un attimo, per riprendere

più forte.Lucille passò un braccio intorno alle spalle di Jacob e lo attirò a sé. Rabbrividì pensando alle

immagini dei Redivivi, sia adulti che bambini, riversi, contusi e insanguinati, sulle assolate strade diDallas.

Accarezzò la testa di Jacob e si mise a mugolare una canzone di cui non ricordava il titolo.Sentiva gli occhi dei suoi concittadini su suo figlio. Più lo fissavano, più dure diventavano le lorofacce. Le labbra si serravano, le fronti si aggrottavano. Ma il bambino si limitava a rilassarsi nellacurva del suo braccio, pensando solo alle pesche sciroppate.

Sarebbe stato tutto molto più semplice, pensò Lucille, se lei avesse potuto nascondere il fatto chelui era un Redivivo. Se avesse potuto farlo passare per un altro bambino. Ma anche se l’intera cittànon avesse conosciuto la sua storia personale, anche se non avesse saputo della disgrazia che eracapitata a lei e Harold il 15 agosto del 1966, non ci sarebbe stato modo di nascondere l’identità diJacob. I vivi riconoscevano sempre i Redivivi.

Fred Green continuava a parlare della tentazione costituita dai Redivivi, di come non ci si potessefidare di loro.

Al pastore Peters venne in mente tutta una serie di citazioni dalle Scritture, di proverbi e dianeddoti canonici da usare come argomentazioni contrarie, ma quella non era una funzione. Non era ilservizio della domenica mattina. Quella era l’assemblea di una città disorientata che si trovava nelbel mezzo di un’epidemia globale. Un’epidemia che, se ci fosse stata un po’ di giustizia al mondo,

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non avrebbe contagiato la loro cittadina sonnolenta, ma si sarebbe diffusa nelle metropoli, a NewYork, Los Angeles, Tokyo, Londra, Parigi. Tutte città dove era normale che succedessero cosegrosse, cose importanti.

«Io dico che dovremmo radunarli da qualche parte» riprese Fred, agitando un grosso pugnogrinzoso mentre un gruppo di uomini più giovani si assembravano attorno a lui, annuendo con vigore.«Magari nella scuola. Oppure in questa chiesa, dato che, a sentire il pastore, Dio si è lasciatosfuggire di mano la situazione.»

Fu allora che il pastore Peters fece una cosa rara per lui. Urlò. Urlò talmente forte da raggelarel’intera chiesa. La sua piccola, fragile moglie si ritrasse un po’.

«E poi?» chiese il pastore. «Che ne sarà di loro? Li chiudiamo in un edificio da qualche parte, epoi cosa? Qual è il passo successivo? Per quanto tempo li tratterremo? Un paio di giorni? Unasettimana? Due? Un mese? Finché non finirà questa vicenda? E quando avverrà? Quando i mortismetteranno di tornare? E cosa accadrà quando Arcadia sarà piena? Quando tutti quelli che sonovissuti qui saranno tornati? Quanti anni ha questa nostra piccola comunità, centocinquanta?Centosettanta? Quante persone fanno? Quante ne potremo ospitare? Quante ne potremo sfamare e perquanto tempo? E cosa succederà quando i Redivivi non saranno più solo i nostri? Sapete tutti cosasta succedendo. Quando tornano, non è quasi mai nel luogo in cui abitavano in vita. Quindi non citroveremo solo ad aprire le nostre porte a coloro per cui questo evento è un ritorno a casa, ma anchea quelli che sono semplicemente smarriti e hanno bisogno di indicazioni. Alle persone sole. A quelleche non hanno legami, neanche tra i Redivivi. Ricordate quel soldato giapponese, nella contea diBladen? Dove si trova ora? Non in Giappone, ma ancora nella contea di Bladen. Vive con unafamiglia che è stata tanto generosa da accoglierlo. E perché? Semplicemente perché lui non volevatornare in patria. Desiderava qualcosa di diverso. E ora, grazie a delle brave persone disposte amostrargli gentilezza, ha la possibilità di rifarsi una vita. Sarei disposto a pagarle una bella somma,Fred Green, se riuscisse a spiegarmi questo! E non si azzardi a dire che i cinesi non ragionano comenoi, vecchio sciocco razzista!» Cominciava a vedere qualche scintilla di raziocinio, forse perfino dipazienza, negli occhi della gente. «E allora, cosa succederà quando non avranno nessun altro luogodove andare? Quando i morti saranno più numerosi dei vivi?»

«È proprio di questo che sto parlando!» ribatté Fred Green. «Cosa succederà quando i mortisaranno più numerosi dei vivi? Cosa ne faranno di noi? Cosa ci capiterà quando saremo alla loromercé?»

«Se succederà, e non c’è motivo di ritenere che accada, ma se dovesse succedere, allora speriamodi avere dato loro un buon esempio di cosa sia la pietà.»

«È una risposta dannatamente stupida! Dio mi perdoni per aver usato questa parola qui nella suachiesa, ma è la verità. È una risposta dannatamente stupida!»

Il volume dei commenti tornò a salire. Brontolii, parole biascicate, ipotesi senza senso. Il pastorePeters guardò l’agente Bellamy. Quando Dio latitava, era il governo a dover prendere in mano lasituazione.

«Va bene! Va bene!» intervenne Martin Bellamy, alzandosi per affrontare la folla. Si passò unamano sul davanti dell’impeccabile abito grigio. Di tutte le persone presenti in chiesa, sembraval’unico a non sudare, a non patire il caldo e l’aria viziata. Questo aveva un effetto tranquillizzante.

«Non mi stupirebbe se fosse tutta colpa del governo!» accusò Fred Green. «Proprio così. Forsenon stavate cercando un modo di riportare in vita i morti, ma scommetto che quelli del Pentagono

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hanno visto l’utilità di far risorgere i soldati.» Strinse le labbra, come a sottolineare la propriaargomentazione. Allargò le braccia, per coinvolgere tutta la chiesa nei propri pensieri. «Mandate unesercito in guerra e, bam, uno dei vostri soldati si becca una pallottola e muore. Vi basta schiacciareun pulsante o fargli un’iniezione e lui è di nuovo in piedi, fucile in mano, a dare la caccia a quelfiglio di puttana che gli ha sparato! È un’arma apocalittica!»

Alcuni annuirono, come se Fred li avesse convinti o, come minimo, avesse aperto una porta alsospetto.

L’agente Bellamy lasciò che si spegnesse l’eco delle parole del vecchio.«Davvero un’arma apocalittica, signor Green» iniziò. «Fatta dello stesso materiale degli incubi.

Ma pensateci... morto un minuto, vivo il successivo per farsi sparare di nuovo. Quanti di voifirmerebbero per una cosa del genere? Io di sicuro non lo farei.» Una pausa. «No, signor Green, ilnostro governo, per quanto potente, non controlla questo evento così come non ha alcun controllo sulsole. Stiamo cercando di non farci travolgere, tutto qua. Cerchiamo solo di fare tutti i progressipossibili.»

Ecco una buona parola: progresso. Una parola rassicurante a cui ci si aggrappa quando si ènervosi.

La folla tornò a fissare Fred Green. Non aveva dato loro niente che potesse confortare quanto laparola progresso. Se ne stava lì impalato, vecchio, piccolo e stizzoso.

Il pastore Peters si mise alla destra dell’agente Bellamy, quasi a proteggerlo con la propriacorporatura massiccia.

L’agente Bellamy era il peggior tipo possibile di funzionario governativo: un uomo sincero. Ungoverno non dovrebbe mai dire al popolo che non sa nulla. Se il governo non aveva le risposte,allora chi diavolo le aveva? Il minimo che un governo potesse fare era avere la decenza di mentire.Fingere di avere tutto sotto controllo. Fingere che, da un momento all’altro, avrebbero trovato la curamiracolosa, il decisivo attacco militare. Nel caso dei Redivivi, sarebbe bastata anche una sempliceconferenza stampa nella quale il presidente, seduto accanto al camino, vestito con un maglione e conla pipa in mano, dicesse con una voce dolce e paziente: «Ho le risposte di cui avete bisogno e andràtutto bene».

Ma l’agente Bellamy non sapeva un bel niente e non se ne vergognava.«Maledetto stupido» sibilò Fred. Poi girò sui tacchi e uscì, e gli altri si scostarono come meglio

potevano per lasciarlo passare.

Appena Fred Green uscì, l’atmosfera si calmò. Del resto, era gente del Sud. Molti intervennero,aspettando il proprio turno per parlare, ponendo domande sia all’uomo del Bureau che al pastore. Ledomande erano quelle previste; del resto ovunque, in ogni nazione del mondo, in ogni chiesa,municipio, auditorium, forum e chat, le domande erano sempre le stesse. Domande ripetute tante volteda risultare perfino noiose.

E le risposte a queste domande (non lo sappiamo, dateci tempo, per favore siate pazienti) eranoaltrettanto noiose. In questo sforzo, il predicatore e l’uomo del Bureau formavano una squadraperfetta. Uno si appellava al senso del dovere civico delle persone. L’altro al senso del doverespirituale. Se non fossero stati una squadra perfetta, forse la cittadinanza avrebbe reagito in mododiverso quando apparvero i Wilson.

Arrivarono dal refettorio che stava dietro alla chiesa. Ci vivevano da una settimana, ormai. Senza

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quasi farsi vedere. Raramente argomento di conversazione.Jim e Connie Wilson, insieme ai loro due figli, Tommy e Hannah, erano la più grande onta che la

città di Arcadia avesse mai conosciuto.Non si verificavano omicidi ad Arcadia.Ma questo era successo. Una notte di tanti anni prima qualcuno aveva sparato ai Wilson nella loro

stessa casa. Il colpevole non era mai stato trovato. Le teorie si erano moltiplicate. Nelle prime fasidelle indagini si era parlato di un vagabondo di nome Ben Watson. Non aveva fissa dimora e sispostava di città in città come un uccello migratore. Di solito arrivava ad Arcadia in inverno e lo sitrovava rintanato nel granaio di qualcuno. Ma nessuno lo riteneva un tipo violento; e quando i Wilsonerano stati uccisi, Ben Watson era a due contee di distanza, chiuso in una cella per ubriachezzamolesta.

Altre ipotesi si erano succedute, ognuna meno plausibile della precedente. Si era parlato di unarelazione clandestina (a volte la colpa era di Jim, altre di Connie), ma l’ipotesi non aveva tardato aessere accantonata per il fatto che Jim, quando non era al lavoro, era in chiesa o a casa, e Conniestava solo a casa, in chiesa o con i figli. Inoltre, la pura e semplice verità era che Jim e Conniestavano insieme dai tempi del liceo, e non avevano mai frequentato nessun altro.

Una relazione extraconiugale, semplicemente, non era nel DNA del loro amore.In vita, i Wilson avevano trascorso molto tempo con Lucille. Jim, che non era tipo da ricerche

genealogiche, aveva preso in parola Lucille quando gli aveva detto che erano imparentati tramite unaprozia (di cui per la verità la donna non ricordava il nome).

Nessuno rifiuta la possibilità di essere trattato come uno di famiglia.Per Lucille – e questa era una cosa che aveva ammesso con se stessa soltanto anni dopo la loro

morte – guardare Jim e Connie crescere i due figli era stato un modo di vedere la vita che lei avevaquasi avuto. La vita che la morte di Jacob le aveva portato via.

Come faceva a non chiamarli famiglia, a non farli partecipi del proprio mondo?Nei lunghi anni che erano seguiti alla strage dei Wilson, la gente alla fine aveva convenuto sul

fatto (con quel tacito accordo tipico di tante piccole comunità di provincia) che il colpevole nonpoteva essere uno di Arcadia. Doveva venire da fuori. Doveva essere stato un estraneo a trovarequesto speciale, segreto puntino sulla mappa, dove tante brave persone vivevano la loro vitatranquilla, a venire lì e a mettere fine alla loro pace.

Tutti rimasero in un silenzio pensoso mentre la famigliola usciva dalla porta del refettorio. Jim eConnie vennero avanti per primi; il piccolo Tommy e Hannah li seguivano quieti. La folla si separòcome burro dal siero.

Jim Wilson era un uomo giovane, sui trentacinque anni, biondo, con le spalle larghe, la mascellasquadrata. Sembrava il tipo che sta sempre costruendo qualcosa, che è sempre impegnato in attivitàproduttive. Per questo la città lo aveva amato tanto in vita. Era stato ciò che doveva essere unabitante di Arcadia: serio, lavoratore, beneducato, con tutte le sane virtù del Sud. Ma ora, in qualitàdi Redivivo, costituiva un problema.

«Vi state avvicinando alla domanda centrale» iniziò Jim a bassa voce. «Quella che avete postoall’inizio della serata ed è rimasta in sospeso. La questione su cosa si debba fare di noi.»

Il pastore Peters lo interruppe. «Su, su. Non c’è niente che si debba fare di voi. Siete persone.Avete bisogno di un posto in cui vivere. Noi lo abbiamo, un posto per voi.»

«Non possono restare qui per sempre» intervenne qualcuno. Altre voci brontolarono un assenso.

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«Certo che bisogna fare qualcosa di loro!»«Io volevo solo dirvi grazie» riprese Jim Wilson. Aveva avuto intenzione di dire molto di più, ma

era sparito tutto dalla sua mente ora... ora che la cittadinanza di Arcadia lo stava fissando. E alcuni inmodo poco amichevole. «Io... volevo solo dirvi grazie» ripeté. Poi si voltò e, portando la suafamiglia con sé, uscì da dove era venuto.

A quel punto, parve che tutti avessero qualche difficoltà a trovare cosa chiedere o cosa dire o dicosa discutere. Rimasero lì ancora un po’, brontolando e bisbigliando tra loro, ma senza giungere anessuna conclusione. A un tratto si sentivano tutti stanchi e oppressi da un peso.

L’agente Bellamy fece un ultimo tentativo di rassicurarli, mentre cominciavano a uscire allaspicciolata dalla chiesa. Strinse mani e sorrise a chi gli passava accanto e, quando glielo chiedevano,promise che avrebbe fatto di tutto per capire cosa stesse succedendo. Disse loro che sarebbe rimastofinché non si fossero chiarite le cose.

Chiarire le cose era ciò che la gente si aspettava dal governo, così rimossero paure e sospetti. Peril momento.

Alla fine in chiesa rimasero solo il pastore, sua moglie e i Wilson che, non volendo creareulteriori problemi, restarono in silenzio nella loro stanza sul retro, lontano dagli occhi di tutti, comese non fossero mai tornati.

«Immagino che Fred abbia avuto un bel po’ di cose da dire» osservò Harold, mentre sua moglie sisistemava sul pickup. Lucille armeggiò con la cintura di sicurezza di Jacob, sbuffando un po’ efacendo movimenti secchi con le mani.

«È solo che sono tutti così... così... strani!» Lo scatto della cintura di sicurezza di Jacob mise ilpunto alla sua frase. Girò la manopola per abbassare il finestrino. Dopo qualche strattone, ci riuscì.Incrociò le braccia sul petto, stizzita.

Harold accese il motore. Si avviò con un rombo. «La tua mamma si sta di nuovo mordendo lalingua, vedo, Jacob. Probabilmente se n’è rimasta seduta zitta per tutta la riunione, eh?»

«Sì, signore» disse Jacob, guardando il padre con un sorriso.«Non fate così, eh» esclamò Lucille, «non fate così, voi due!»«Non ha avuto l’opportunità di usare nessuna delle sue parole forbite, e sai come ci rimane male

quando le capita, vero? Te lo ricordi?»«Sì, signore.»«Io non ci sto, al vostro gioco» ribatté Lucille, lottando suo malgrado contro una risata. «Scendo

da questa macchina e non mi rivedrete mai più!»«Qualcun altro è riuscito a usare una parola forbita?»«Apocalittico.»«Oh... quello. È una parola forbita per davvero. Apocalisse è ciò che succede quando si passa

troppo tempo in chiesa. Per questo io non ci vado.»«Harold Hargrave!»«Come sta il pastore? È un bravo ragazzo del Mississippi, a dispetto della sua religione.»«Mi ha dato una caramella.»«Molto gentile da parte sua.» Harold imboccò la strada buia che portava verso casa. «È una brava

persona, vero?»

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La chiesa era silenziosa ora. Il pastore Peters entrò nel suo minuscolo ufficio e si sedette al tavolo dilegno scuro. In lontananza, lungo la strada, rombava un camion. Sembrava tutto tranquillo, ed era unbene.

La lettera stava nel cassetto della scrivania, sotto pile di libri, documenti che richiedevano la suafirma, sermoni in varie fasi di completamento e tutte le cianfrusaglie che lentamente si accumulano inun ufficio. Nell’angolo opposto della stanza, una vecchia lampada diffondeva un chiarore ambrato.Le pareti erano rivestite di scaffali, tutti sovraccarichi. Ma i suoi libri gli davano poco conforto,ultimamente. Una sola lettera aveva annullato tutto il conforto che le parole possono offrire.

La lettera diceva:

Egregio signor Robert Peters,il Bureau Internazionale dei Redivivi desidera informarla che una Rediviva di nome Elizabeth

Pinch chiede insistentemente di lei. Come è prassi in queste circostanze, non diamo alcunainformazione se non quelle che riguardano la famiglia del Redivivo. Nella maggior parte dei casi,questi individui cercano per prima cosa i congiunti, ma la signorina Pinch ha espresso ildesiderio di vedere lei. A norma del Codice 17, Articolo 21, del Regolamento Redivivi, le è datanotifica della cosa.

Il pastore Peters fissò la lettera e, come gli era successo la prima volta che l’aveva letta, si sentìincerto riguardo a ogni cosa della propria vita.

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Jean Rideau

«Dovresti avere accanto una donna giovane» disse lei a Jean. «Una che possa stare al passo conte in questo momento.» Si sedette sul piccolo letto di ferro battuto, ansimando un po’. «Sei famosoadesso. Io sono solo un’anziana signora che ti è d’impaccio.»

Il giovane artista attraversò la stanza e venne a inginocchiarsi accanto a lei. Posò la testa sulsuo grembo e le baciò il palmo della mano, cosa che la rese ancora più conscia delle grinze edelle macchie scure che erano comparse sul dorso di quella stessa mano negli ultimi anni. «Ètutto merito tuo» le disse.

Jean faceva parte della sua vita da oltre trent’anni. Da quando studiava all’università e si eraimbattuta nelle opere di un artista ignoto, tragicamente morto a Parigi sotto le ruote diun’automobile in una calda sera d’estate del 1921. E adesso lei lo aveva... non solo il suo amore,ma anche lui in carne e ossa. E questo la spaventava.

Fuori, finalmente la strada era tornata silenziosa. La folla era stata dispersa dalla polizia.«Se solo fossi diventato famoso anni fa» disse lui. «Forse la mia vita sarebbe stata diversa.»«Capita spesso che un artista raggiunga fama postuma.» Lei sorrise, accarezzandogli i capelli.Aveva passato anni a studiare le sue opere, la sua vita, senza prevedere che un giorno si

sarebbe trovata lì con lui così, ad annusare il suo profumo, a sentire l’ispido di una barba che luiaveva sempre desiderato ma non era mai riuscito a farsi crescere bene. Passavano le notti aparlare di tutto tranne che della sua arte. Lo faceva già abbastanza la stampa. Jean Rideau, ilritorno degli artisti, era stato il titolo di un quotidiano.

Torna un geniale scultore!, proclamava l’articolo. Non passerà molto tempo che tutti i grandimaestri saranno di nuovo con noi!

Così, adesso era famoso. Opere che aveva realizzato quasi un secolo prima, opere che non eramai riuscito a vendere per più di qualche centinaio di franchi, ora valevano milioni. I suoiestimatori erano impazziti.

Ma Jean non voleva altro che Marissa.«Tu mi hai tenuto vivo» le disse, strofinando la testa nel suo grembo come un gatto. «Hai fatto

conoscere il mio lavoro quando nessun altro mi apprezzava.»«Sono la tua ambasciatrice, allora» disse lei. Con il polso, si respinse una ciocca di capelli dal

viso, capelli che diventavano ogni giorno un po’ più grigi e un po’ più fini. «È questo che sono?»Jean alzò su di lei due placidi occhi azzurri... Anche dalle vecchie foto sgranate in bianco e

nero che lei aveva studiato per anni, aveva capito che lui aveva gli occhi di questo particolare,bellissimo celeste.

«Non mi importa della differenza d’età» disse lui. «Io ero soltanto uno scultore mediocre. Oraso che la mia arte era destinata a portarmi a te.»

Poi la baciò.

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5

Era iniziato tutto in sordina, con una sola Crown Victoria di servizio che aveva a bordo un agentegovernativo, un paio di soldati troppo giovani e un cellulare. Ma era bastata quell’unica telefonata,era bastato qualche giorno, e ora Bellamy era trincerato nella scuola. Una scuola in cui non c’eranopiù studenti, non c’erano lezioni, ma un crescente numero di veicoli e di funzionari del Bureau, che visi stavano insediando.

Il Bureau aveva dei piani che riguardavano Arcadia. L’isolamento che aveva tenuto stagnantel’economia della cittadina da quando era nata era esattamente quello che il Bureau stava cercando.Certo, a Whiteville ci sarebbero stati alberghi e ristoranti, strutture e risorse che il Bureau avrebbepotuto utilizzare, ma ci sarebbero state anche persone. Quasi quindicimila abitanti, per la precisione,per non parlare dell’autostrada e delle svariate vie d’accesso che in un futuro non tanto remotoavrebbero dovuto essere controllate.

Oh no, era Arcadia la città praticamente inesistente che loro andavano cercando. Un pugno diabitanti, nessuno dei quali si distingueva. Soltanto contadini e operai, meccanici e artigiani,macchinisti e bottegai. «Nessuno di cui si potrebbe sentire la mancanza.»

Almeno, così aveva detto il colonnello.Il colonnello Willis. A Bellamy bastava pensare a lui per sentire una stretta allo stomaco. Sapeva

poco sul suo conto, e questo lo metteva a disagio. Nell’era dell’informazione, mai fidarsi di unapersona che non si trova su Google. Ma Bellamy aveva tempo di riflettere sulla questione solo lasera tardi, in albergo, prima di addormentarsi. I suoi doveri quotidiani, e in particolare i colloqui,assorbivano tutta la sua attenzione.

L’aula era piccola. Sapeva di muffa, di vecchio e di vernici al piombo.«Prima di tutto...» Bellamy si appoggiò all’indietro contro lo schienale. Teneva il taccuino

appoggiato alla coscia. «C’è qualcosa di insolito di cui uno di voi due vorrebbe parlare?»«No» rispose Lucille. «Non mi viene in mente nulla.» Jacob approvò con un cenno della testa,

anche se era concentrato sul suo leccalecca. «Ma immagino che lei mi farà delle domande che miaiuteranno a capire cosa intende con qualcosa di insolito» riprese Lucille. «Dev’essere un bravoinquisitore.»

«Inquisitore? Un termine un po’ forte, direi.»«Può darsi» concesse Lucille. «Me ne scuso.» Si inumidì il polpastrello e pulì uno sbaffo

zuccherino dalla faccia di Jacob. Lo aveva vestito bene per quel colloquio. Pantaloni neri nuovi. Unacamicia bianca nuova. Scarpe nuove. Erano nuovi perfino i calzini. E lui si stava impegnando perrestare pulito, da bravo bambino qual era.

«È solo che a me piacciono le parole» riprese Lucille. «E a volte, sì, possono risultare un po’forti, anche se io aspiro solo alla varietà.» Finì di pulire la guancia di Jacob, poi volse l’attenzionesu se stessa. Si lisciò i lunghi capelli grigi. Controllò di avere le mani pulite. Si aggiustò il vestito,spostando il peso del corpo sul sedile per poter abbassare meglio l’orlo, il che non voleva dire che ilsuo vestito color panna fosse corto, cielo no, ma solo che qualunque donna rispettabile, a parere diLucille, quando era in compagnia maschile doveva comportarsi con modestia e decoro.

Decoro era un’altra parola che non si usava abbastanza nelle conversazioni.

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«Decoro» borbottò. Poi si raddrizzò il colletto del vestito.«Una delle cose che molte persone riferiscono è l’insonnia» disse Bellamy. Prese il taccuino dalla

coscia e lo posò sulla scrivania. Non si sarebbe mai aspettato che la maestra di una cittadina diprovincia avesse una cattedra tanto grande.

Si protese in avanti e si assicurò che il registratore fosse in funzione. Si mise a scribacchiare sulproprio taccuino, aspettando che Lucille confermasse o no la sua affermazione, ma presto si reseconto che nessuna risposta sarebbe arrivata senza un’ulteriore elaborazione da parte sua. ScrisseUova sul foglio per darsi un tono.

«Non è che i Redivivi abbiano difficoltà ad addormentarsi» riprese Bellamy, cercando come alsolito di parlare lentamente per attenuare l’accento yankee. «È solo che tendono a dormire poco. Nonlamentano né stanchezza né affaticamento. È risaputo che alcuni di loro resistono giorni senza sonno,poi si riposano un paio d’ore e sono in perfetta forma.» Si appoggiò all’indietro, apprezzando lacomodità della sedia di legno così come aveva apprezzato la qualità della cattedra. «Ma forse cistiamo soltanto arrampicando sugli specchi. È per questo che facciamo tanti colloqui, per cercare dicapire cosa sia un’anomalia e cosa no. Vogliamo avere il maggior numero di informazioni possibilesui Redivivi, come pure sui non-Redivivi.»

«Quindi, la sua domanda riguarda me o Jacob?» chiese Lucille, guardandosi attorno nell’aula.«Entrambi. Ma, per ora, mi basta che mi parli di lei, signora Hargrave. Ha avuto problemi ad

addormentarsi? Brutti sogni? Insonnia?»Lucille si agitò sulla sedia. Guardò verso la finestra. Era una bella giornata. Colori vividi e

profumi di primavera, con la promessa di un’estate umida nell’aria. Lei sospirò e si strofinò le mani.Poi le unì in grembo. Ma loro non riuscivano a stare ferme, così lei si spolverò la gonna e passò unbraccio intorno al figlio, il genere di cosa che una madre dovrebbe fare, pensava.

«No» rispose alla fine. «Sono sveglia da cinquant’anni. Ogni singola notte l’ho passata seduta,sveglia. E ogni singolo giorno l’ho passato in piedi, sveglia. Non ne potevo più di stare con gli occhiaperti.» Sorrise. «Ora dormo tutta la notte. In pace. Un sonno profondo e regolare che non credevopiù possibile.»

Lucille rimise le mani in grembo. Questa volta ci rimasero.«Ora dormo come una persona dovrebbe dormire» disse. «Chiudo gli occhi, e quando si riaprono

c’è il sole. È così che dovrebbe essere, ritengo.»«E che mi dice di Harold? Come dorme lui?»«Bene. Come un sasso. L’ha sempre fatto e probabilmente lo farà sempre.»Bellamy prese appunti sul suo taccuino. Succo d’arancia. Bistecca? Cancellò l’ultima parola e

scrisse Carne trita. Si girò verso Jacob. «E tu, come ti senti?»«Bene, signore. Sto bene.»«È tutto molto strano, eh? Tutte queste domande, questi test, queste persone che ti stanno attorno.»Jacob si strinse nelle spalle.«C’è qualcosa di cui vuoi parlare?»Jacob alzò di nuovo le spalle, portandole quasi alle orecchie e incorniciando il faccino dolce. Per

un attimo parve un dipinto, un’immagine creata con tecniche antiche e vecchi colori a olio. La suacamicia si drappeggiava alla perfezione vicino alle orecchie. I capelli castani gli cadevano sugliocchi. Poi, quasi anticipando la sollecitazione della madre, parlò. «Sono a posto così, signore.»

«Posso farti un’altra domanda, allora? Una domanda più difficile?»

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«Posso o potrei? È stata la mamma a insegnarmi la differenza.» Alzò gli occhi verso Lucille;l’espressione di lei era un misto di approvazione e sorpresa.

Bellamy sorrise. «Davvero? D’accordo, allora. Potrei farti una domanda un po’ più difficile?»«Suppongo» rispose Jacob. Poi: «Vuol sentire un indovinello?». A un tratto gli brillarono gli

occhi. «Conosco un sacco di indovinelli, io.»L’agente Bellamy si puntò con le mani sulla sedia e si piegò in avanti. «Okay, sentiamo.»Di nuovo Lucille pregò in silenzio. Ti prego, Signore, fa’ che non sia quello sul castoro.«Cosa fanno dei galli in mare?»Lucille trattenne il fiato. Qualunque indovinello che riguardasse un volatile aveva il potenziale di

diventare volgare molto in fretta.«Galleggiano!» rispose Jacob senza dare a Bellamy il tempo di riflettere sulla questione. Poi si

batté sulla coscia e rise come un vecchietto.«Divertente» disse Bellamy. «Te l’ha insegnato tuo padre?»«Non ha detto che aveva una domanda difficile per me?» chiese Jacob, distogliendo lo sguardo.

Scrutò la finestra come se aspettasse qualcuno.«Okay. So che te l’hanno già chiesto. So che probabilmente ti sarai stancato di sentirti fare questa

domanda. Te l’ho già chiesto anch’io, ma devo farlo di nuovo. Qual è la prima cosa che ricordi?»Jacob rimase in silenzio.«Ricordi di essere stato in Cina?»Jacob annuì e, stranamente, sua madre non lo rimproverò. Era interessata come tutti ai ricordi dei

Redivivi. La forza dell’abitudine mosse la sua mano per sollecitare gentilmente il bambino a parlare,ma si trattenne. La mano tornò nel grembo.

«Ricordo di essermi svegliato» iniziò Jacob. «Vicino all’acqua. Un fiume. Sapevo di averecombinato un guaio.»

«Perché un guaio?»«Perché mamma e papà non sapevano dov’ero. Quando non sono riuscito a trovarli, mi sono

spaventato ancora di più. Non spaventato perché mi avrebbero sgridato, ma spaventato perché loronon c’erano. Pensavo che papà fosse nelle vicinanze. Ma lui non c’era.»

«Cosa è successo allora?»«Sono arrivate delle persone. Dei cinesi. Parlavano in cinese.»«E poi?»«Poi mi hanno portato da queste due donne che si comportavano in modo buffo, ma erano gentili.

Io non capivo cosa dicevano, ma sapevo che erano gentili.»«Sì» annuì Bellamy. «So esattamente cosa intendi. È come quando un dottore o un’infermiera mi

spiegano qualcosa con quel loro gergo da ospedale. Io non comprendo tutto quello che dicono, macapisco se è una notizia buona o cattiva dal loro tono. Sai, Jacob, è sorprendente quante cose sicapiscano di una persona dal modo in cui parla. Non trovi anche tu?»

«Sì, signore.»Continuarono a discorrere di quello che era successo dopo che Jacob era stato trovato lungo il

fiume, in quel villaggio di pescatori poco lontano da Pechino. Il bambino era contento di raccontare.Si sentiva l’eroe di un’avventura. Sì, era stato spaventato, ma solo al principio. Dopo, si era quasidivertito. Si trovava in una terra lontana con gente strana che gli dava da mangiare cibo buffo a cui,per fortuna, si era abituato in fretta. Anche adesso, seduto in quell’aula con l’uomo del Bureau e la

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sua bella mamma, si sentiva brontolare lo stomaco per la fame al pensiero della cucina cinese. Nonaveva idea di come si chiamava quello che gli avevano dato da mangiare. Ma ne ricordava gli odori,i sapori, gli aromi.

Jacob parlò a lungo del cibo cinese e di quanto erano stati gentili con lui. Anche quando eranoarrivati gli uomini del governo, e con loro i soldati, avevano continuato a trattarlo bene, come sefosse uno di loro. Gli davano da mangiare finché non aveva lo stomaco pieno, e intanto loguardavano con un’espressione di meraviglia e stupore.

Poi c’era stato il lungo viaggio aereo, che non gli aveva fatto nessuna paura. Fin da piccolo avevadesiderato volare, e ora lo aveva fatto per quasi diciotto ore. Gli assistenti di volo erano stati gentili,ma non quanto l’agente Bellamy, quando si erano incontrati.

«Sorridevano molto» disse Jacob, pensando agli assistenti di volo.Furono queste le cose che disse a sua madre e all’uomo del Bureau. E concluse con una semplice

frase che riassumeva tutto. «Mi sono piaciuti tutti. E io sono piaciuto a loro.»«Sembra che tu ti sia proprio divertito in Cina, Jacob.»«Sì, signore. È stato bello.»«Bene. Molto bene.» L’agente Bellamy aveva smesso di prendere appunti. La sua lista della spesa

era completa. «Non sei stanco di tutte queste domande, Jacob?»«No, signore. Non mi dispiacciono.»«Te ne farò ancora una, allora. E ho bisogno che tu ci pensi proprio bene, okay?»Jacob finì il suo leccalecca. Si sedette più eretto e il suo faccino pallido si fece molto serio.

Sembrava un piccolo, elegante uomo politico con quei pantaloni scuri e la camicia bianca.«Sei un bravo bambino, Jacob. So che farai del tuo meglio.»«Sì, lo sei.» Lucille lo accarezzò sulla testa.«Ti ricordi qualcosa, prima della Cina?»Silenzio.Lucille passò un braccio intorno alle spalle del figlio e lo attirò a sé. «Il signor Martin Bellamy

non vuole metterti in difficoltà e non sei obbligato a rispondere se non vuoi. Lui è solo curioso, tuttoqua. Come la tua vecchia mamma. Anche se io più che curiosa sono una ficcanaso, suppongo.»

Sorrise e lo pungolò con un dito all’ascella facendogli il solletico.Jacob ridacchiò.Lucille e l’agente Bellamy aspettarono.Lucille massaggiava la schiena di Jacob, come se la sua mano potesse risvegliare in lui la

memoria. Avrebbe voluto che Harold fosse lì. Per qualche motivo, pensò che quel momento sarebbestato più facile se Jacob avesse avuto anche il padre a strofinargli la schiena e a dargli il suosupporto. Ma quel giorno Harold si era lanciato in una delle sue tirate su quel dannato governo edera intrattabile (si comportava come quando Lucille cercava di trascinarlo in chiesa a Natale), cosìera stato deciso che era meglio restasse sul pickup mentre Lucille e Jacob parlavano con l’uomo delBureau.

L’agente Bellamy posò il taccuino su un banco per mostrare al bambino che non si trattava di unaquestione ufficiale. Voleva fargli capire che era sinceramente interessato alla sua esperienza. Jacobgli era piaciuto sin dalla prima volta che lo aveva visto, e aveva la sensazione che anche Jacob lotrovasse simpatico.

Quando il silenzio si protrasse al punto di risultare pesante, l’agente Bellamy parlò. «Non

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importa, Jacob. Non occorre che...»«Io faccio come mi dicono» si difese Jacob. «Cerco di fare come mi dicono.»«Ne sono sicuro» disse l’agente Bellamy.«Non volevo combinare una marachella. Quel giorno al fiume.»«In Cina? Dove ti hanno trovato?»«No» rispose Jacob dopo una pausa. Si attirò le gambe al petto.«Cosa ricordi di quel giorno?»«Non volevo comportarmi male.»«Lo so che non volevi.»«Davvero, non volevo!»Lucille stava piangendo ora, in silenzio. Il suo corpo tremava, oscillando come un salice sotto il

vento di marzo. Si frugò in tasca e trovò dei fazzolettini di carta con i quali si tamponò gli occhi.«Va’ avanti» disse, la voce strozzata.

«Mi ricordo l’acqua» sussurrò Jacob. «C’è stata solo l’acqua. Prima era il fiume vicino a casa, epoi non lo era più. Solo che io non lo sapevo. È successo così.»

«Non c’è stato niente tra... tra un fiume e l’altro?»Jacob si strinse nelle spalle.Lucille si tamponò di nuovo gli occhi. Qualcosa di pesante le si era posato sul cuore, un malessere

indefinibile. Le costava un enorme sforzo non crollare lì, su quella sedia troppo piccola per lei. Masentiva che sarebbe stata un’imperdonabile scortesia. Povero Martin Bellamy, dover aiutare unavecchia svenuta. Così, per l’etichetta, si dominò anche quando pose la domanda da cui sembravadipendere tutta la sua vita. «Non c’è stato niente prima che ti svegliassi, caro? Tra il momento incui... ti addormentasti e quello del tuo risveglio? Non c’è stata... che so, una luce calda, fulgente? Unavoce? Niente?»

«Qual è la materia preferita di un alce?» chiese Jacob.A quell’indovinello seguì solo silenzio. Silenzio e un bambino combattuto tra ciò che era incapace

di dire e ciò che, lo sentiva, sua madre desiderava sapere.«L’alcebra» disse, quando nessuno rispose.

«È proprio un bravo bambino» disse l’agente Bellamy. Jacob era uscito. Nell’aula accanto, gliteneva compagnia un giovane soldato originario del Midwest. Lucille e l’agente Bellamy potevanovederli attraverso il vetro della porta che collegava le due stanze. Era importante, per Lucille, nonperderlo mai di vista.

«È una benedizione» disse lei dopo una pausa. Il suo sguardo passò da Jacob all’agente Bellamy,alle piccole, esili mani che teneva in grembo.

«Sono lieto di sentire che tutto sta andando tanto bene.»«È così» confermò Lucille. Sorrise, gli occhi ancora abbassati sulle mani. Poi, come se avesse

finalmente risolto un piccolo enigma, si sedette più eretta e il suo sorriso si fece così fiero eluminoso che solo allora l’agente Bellamy si rese conto di quanto prima fosse stato esitante. «È laprima volta che viene da queste parti, agente Martin Bellamy? Qui nel Sud, intendo.»

«Contano gli aeroporti?» Lui si piegò in avanti e unì le mani sopra la grande cattedra. Sentivaarrivare una storia.

«Temo di no.»

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«Sicura? Perché ho cambiato aereo ad Atlanta più volte di quante riesca a contare. È strano, maper qualche motivo sembra che tutti i voli che ho preso siano passati da Atlanta. Giuro che una voltapresi un aereo da New York a Boston che prevedeva una sosta di tre ore ad Atlanta. Non capisconemmeno io come sia successo.»

Lucille abbaiò una risatina. «Come mai non è sposato, agente Martin Bellamy? Perché non si èancora fatto una famiglia?»

Lui si strinse nelle spalle. «Non ne ho mai trovato il tempo, suppongo.»«Dovrebbe sforzarsi di trovarlo» disse Lucille. Accennò ad alzarsi, poi cambiò idea. «Lei mi

sembra una brava persona. E il mondo ha bisogno di brave persone. Si trovi una giovane donna chela renda felice e faccia dei figli con lei.» Lucille stava ancora sorridendo, ma l’agente Bellamy nonpoté fare a meno di notare che il sorriso si era un po’ spento.

Poi Lucille si alzò con un gemito, si avvicinò alla porta e controllò che Jacob fosse ancora di là.«Lo sa? Ci siamo appena persi la Sagra delle Fragole, Martin Bellamy.» La sua voce era bassa,monocorde. «La organizzano tutti gli anni, in questo periodo, a Whiteville. Da tempo immemorabile.Parrà ben poca cosa a un uomo di città come lei, ma da queste parti è un evento. Come dice il nome,è una festa dedicata alle fragole. Raramente ci si pensa, ma c’è stato un periodo, in passato, in cui chiaveva una fattoria riusciva a guadagnarsi da vivere solo coltivando ortaggi. È raro che succeda algiorno d’oggi. Quasi tutte le fattorie che conoscevo da bambina hanno smesso di lavorare da anni.Solo un paio sono ancora in attività. Credo che anche quella degli Skidmore, vicino a Lumberton,resista... ma non lo so con certezza.»

Si staccò dalla porta e venne a fermarsi dietro alla propria sedia, guardando l’agente Bellamy. Luisi era alzato dalla cattedra mentre lei gli dava le spalle e questo la sconcertò. Era parso quasi unbambino, prima, da seduto. Adesso era di nuovo un uomo adulto. Un uomo che veniva da unametropoli lontana. Un uomo che non era più bambino da molti, molti anni.

«Dura tutto il fine settimana» riprese lei. «E con gli anni è diventata sempre più importante, maanche ai vecchi tempi era un evento. Jacob era eccitato quanto qualsiasi bambino ha diritto a essere.Si sarebbe detto che non lo avessimo mai portato da nessuna parte! E Harold, be’, perfino lui eraentusiasta. Cercava di nasconderlo... non era ancora diventato un vecchio sciocco cocciuto, allora.Ma si vedeva che era felice! E perché non avrebbe dovuto esserlo? Era un papà che andava allaSagra delle Fragole della contea di Columbus con il suo unico figlio. Scaldava il cuore vederli! Sicomportavano tutti e due come bambini. C’era anche una mostra canina. E quei due adoravano i cani.Badi bene, non era un dog show come quelli che oggi si vedono in televisione. Era una sana, vecchiamostra canina di campagna. Nient’altro che cani da lavoro. Bracchi, segugi, beagle... Ma, Signore,quanto erano belli! Harold e Jacob correvano da una gabbia all’altra. Facevano commenti sui cani ediscutevano su quale fosse il migliore e perché. Ognuno sembrava più adatto alla caccia in questo oquell’altro posto, con questo o quell’altro clima, per questo o quell’altro animale...»

Lucille era di nuovo raggiante. Era protagonista, orgogliosa, prodigiosamente tornata nel 1966.«Sole ovunque» raccontò. «Un cielo limpido e blu come non se ne vedono più.» Scosse la testa.

«Troppo inquinamento, suppongo. Niente è più com’era una volta.»Tutto a un tratto, si interruppe.Si girò a guardare dalla finestrella di vetro della porta. Suo figlio era ancora lì. Aveva ancora otto

anni. Era ancora bellissimo. «Le cose cambiano» disse dopo un attimo. «Ma avrebbe dovuto vederli,Martin Bellamy. Erano tanto felici, Jacob e il suo papà. Harold portò il bambino sulle spalle per

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metà giornata. Avevo paura che svenisse. Quanta strada facemmo, quel giorno. Cammino, cammino eancora cammino. E, per quasi tutto il tempo, Harold si portava quel bambino sulle spalle come unsacco di patate. Era quasi un gioco, per quei due. Si avvicinavano a una bancarella, guardavano tutto,commentavano. Poi Jacob scappava via ed ecco Harold che lo inseguiva. Correvano tra la gente,scansando, urtando. E io li chiamavo: “Basta, voi due! Smettetela di comportarvi come animali!”».

Guardò Jacob. Sembrava incerta, così il suo viso assunse un’espressione neutra e d’attesa. «Quelbambino è davvero una grazia di Dio, agente Martin Bellamy» disse lentamente. «E solo perché unapersona non capisce lo scopo e il significato di una grazia, questo non la sminuisce... non è così?»

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Elizabeth Pinch

Lei sapeva che lui sarebbe venuto. Non doveva fare altro che aspettare e crederci.Lui era sempre stato migliore di quanto pensasse, più disciplinato, più intelligente. Era tutto

ciò che negava a se stesso di essere.Era stata così vicina a trovarlo...Era riuscita ad arrivare fino in Colorado prima che la catturassero. Uno sceriffo locale

l’aveva vista nell’area di servizio di un’autostrada. Lei aveva avuto un passaggio da uncamionista che era affascinato dai Redivivi e aveva continuato a farle domande sulla morte. Maquando si era rifiutata di rispondere, l’uomo l’aveva lasciata nell’area di servizio dove tuttil’avevano trattata con imbarazzo.

Prima era stata trasferita in Texas, dove aveva chiesto ai funzionari del Bureau: «Qualcunopuò aiutarmi a trovare Robert Peters?». Ripetutamente Con insistenza.

Dopo averla trattenuta in Texas per un po’, l’avevano mandata nel Mississippi, il suo statod’origine, e l’avevano sistemata in un edificio insieme ad altri come lei. Un edificio circondato dauomini armati.

«Ho bisogno di trovare Robert Peters» diceva ogni volta che ne aveva l’opportunità.«Non è qui» le rispondevano, se le rispondevano, e quando lo facevano era con un cenno di

derisione.Ma lui sarebbe venuto da lei.Per qualche motivo, ne era sicura.L’avrebbe trovata e il loro destino si sarebbe finalmente compiuto.

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6

Il pastore Peters brontolava con il contrappunto del ticchettio dei tasti. Dio solo sapeva quantodetestasse scrivere al computer.

Anche se, coi suoi quarantatré anni, era ancora un uomo giovane, non era mai stato bravo allatastiera. Aveva la sfortuna di appartenere a quella generazione di passaggio di persone che avevanoimparato a scrivere quando ancora l’epoca dei computer era relativamente lontana e, da adulti,s’erano trovati ad avere a che fare col QWERTY e i tasti funzione. Riusciva a battere solo con duedita, come un’enorme mantide informatica.

Tic. Tic-tic. Tic, tic, tic-tic, tic.Aveva già iniziato la lettera quattro volte. E l’aveva cancellata cinque... contando quella in cui

aveva spento il computer per la frustrazione.Il problema di essere un povero scrivano dalle dita da mantide, pensava il pastore Peters, era che

nella sua testa le parole correvano avanti, molto più veloci di quelle che i suoi indici riuscivano acomporre. Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe giurato su una pila di tomi consacratiche le lettere della tastiera cambiavano posizione a intervalli di pochi minuti, solo per confonderlo.Certo, avrebbe potuto scrivere la lettera a mano e poi prendersi tutto il tempo di copiarla alcomputer, ma questo non avrebbe risolto il suo problema.

Sua moglie era entrata nell’ufficio un paio di volte, offrendosi di battere la lettera per lui, comespesso faceva, e lui aveva declinato, come raramente accadeva.

«Non imparerò mai se continuo a farlo fare a te» le disse adesso.«Un uomo saggio riconosce i propri limiti» replicò lei. Non aveva voluto offenderlo, solo avviare

un dialogo. Lo sentiva distante da qualche settimana, e la situazione era peggiorata in quegli ultimigiorni. Non capiva perché.

«Preferirei considerarlo un punto debole piuttosto che un limite. Se solo riuscissi a convincere lealtre dita a collaborare... Ma aspetta e vedrai. Diventerò un fenomeno!»

Quando lei cominciò a girare intorno alla scrivania, chiedendogli cortesemente di vedere a cosastesse lavorando, lui cancellò in fretta le poche preziose parole che aveva impiegato un secolo amettere insieme. «È solo una cosa che mi gira per la testa da un po’» le disse. «Niente diimportante.»

«Non vuoi dirmi di cosa si tratta?»«Non è nulla. Davvero.»«Va bene.» Lei alzò le mani in un gesto di resa. Gli sorrise per fargli capire che non era

arrabbiata. Non ancora. «Tieniti pure i tuoi segreti. Mi fido di te» aggiunse, uscendo.La dattilografia del pastore peggiorò ulteriormente ora che sua moglie gli aveva detto che si

fidava di lui, con tutto ciò che questo comportava.Era una sposa molto abile.A chi di competenza.Non c’era scritto altro. Era tornato al punto di partenza. Sbuffò, si strofinò la fronte accigliata col

dorso della mano e ricominciò.Tic. Tic. Tic. Tic-tic. Tic...

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Scrivo per avere informazioni...Il pastore Peters si appoggiò all’indietro e rifletté. Si rese conto che non sapeva bene cosa volesse

chiedere.Tic-tic-tic...Scrivo per avere informazioni sulla posizione della signorina Elizabeth Pinch. Faccio seguito

alla lettera con la quale mi informate che la signorina Pinch mi sta cercando.Canc, canc, canc.Scrivo per avere informazioni sulla posizione della signorina Elizabeth Pinch.Sì, andava meglio. Pensò di limitarsi a firmare la lettera così com’era e a impostarla. Ci pensò al

punto che stampò la pagina. Poi si appoggiò all’indietro contro lo schienale e fissò le parole.Scrivo per avere informazioni sulla posizione della signorina Elizabeth Pinch.Posò il foglio sulla scrivania, prese la penna ed eliminò alcune parole.Scrivo per avere informazioni sulla posizione della signorina Elizabeth Pinch.Anche se la sua mente era insicura, la sua mano sapeva cosa stava cercando di dire. Cancellò e

scribacchiò finché, alla fine, la verità non fu davanti a lui, nero su bianco.Scrivo per Elizabeth.Cos’altro poteva fare, a quel punto, se non appallottolare il foglio e buttarlo nel cestino?Si collegò a Internet e scrisse il nome di Elizabeth sulla barra di ricerca. Trovò dozzine di donne

che si chiamavano Elizabeth Pinch, nessuna delle quali era la quindicenne del Mississippi che, tantianni prima, aveva catturato il suo cuore.

Restrinse la ricerca in modo da mostrare solo le immagini.Foto di donne comparvero sul monitor, una dopo l’altra. Alcune sorridevano guardando

nell’obiettivo. Altre non sembravano rendersi conto di essere fotografate. Alcune delle immagini nonerano nemmeno di persone. Erano tratte da film o dalla televisione. (A quanto pareva a Hollywoodc’era una Elizabeth Pinch che scriveva per una nota serie poliziesca televisiva. Fotogrammi deitelefilm si susseguirono, pagina dopo pagina.)

Il pastore Peters continuò a cercare finché il sole non passò dal dorato al rame, tornando al colororo un attimo prima di scivolare sotto l’orizzonte. Sua moglie gli portò un caffè che non avevachiesto. Lui la ringraziò, la baciò e la cacciò gentilmente prima che lei potesse esaminare il monitor evedere il nome sulla barra di ricerca. Ma anche se lo avesse visto, a cosa le sarebbe servito? Certo,si sarebbe insospettita, ma dei sospetti ce li aveva già. Il nome, però, non le avrebbe detto nulla.

Lui non le aveva mai parlato di Elizabeth.Poco prima che fosse ora di andare a letto, lo trovò: un articoletto scaricato dal Water Main , il

giornale della contea del Mississippi in cui il pastore Peters era cresciuto. Mai avrebbe immaginatoche la tecnologia fosse giunta fin là, che avesse allungato i suoi tentacoli sino a un’anonima cittadinasperduta in un angolo umido del Mississippi dove la più importante industria era la povertà. Il titolo,sgranato ma leggibile, diceva: Ragazza uccisa in un incidente d’auto.

Il pastore Peters si irrigidì. Il sapore della rabbia gli salì in gola, una rabbia diretta control’ignoranza e contro l’inadeguatezza delle parole.

Leggendo l’articolo rimpianse che non ci fossero maggiori dettagli su come, esattamente,Elizabeth Pinch fosse morta in quel groviglio di metallo e di improvvisa inerzia. Ma la stampa eral’ultimo posto in cui bisognava cercare la verità. Era già tanto se vi si trovavano i fatti.

A dispetto delle carenze del breve articolo, il pastore lo lesse più volte. In fondo, la verità

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l’aveva dentro di sé. I fatti servivano solo a riportargli tutto alla memoria.Per la prima volta, da quando si era messo a scrivere, le parole gli vennero facilmente.Scrivo per Elizabeth. La amavo. È morta. Adesso è tornata in vita. Come devo comportarmi?

Harold e Lucille erano seduti a guardare il telegiornale in silenzio, agitandosi ognuno a propriomodo. Jacob era di sopra, a dormire, o a non dormire. Harold era allungato sulla sua poltronapreferita, si strofinava la bocca e pensava alle sigarette. A volte inalava, tratteneva il fiato, poi lospingeva attraverso le labbra schiuse intorno alla circonferenza di un filtro immaginario.

Lucille era seduta con le mani nel grembo della vestaglietta da casa. Le notizie erano assurde.Un giornalista brizzolato, vestito di grigio, aveva solo cose tragiche e incresciose da riferire. «In

Francia, ci sono stati tre morti» disse ora, con una freddezza che Lucille trovò eccessiva. «Ilnumero è destinato a crescere dato che la polizia sembra incapace di contenere le proteste anti-Redivivi, che purtroppo sono degenerate.»

«Sensazionalismo» bofonchiò Harold.«Solo perché è successo in Francia deve parlarne con quel tono sprezzante?» protestò Lucille.L’uomo dai capelli brizzolati sparì dallo schermo, lasciando il posto ad agenti protetti da scudi

antisommossa che brandivano manganelli contro dei dimostranti su una piazza assolata. La folla simuoveva come acqua. Centinaia di persone si ritraevano quando gli uomini in divisa scattavano inavanti. Quando i poliziotti ritenevano di essersi fatti abbastanza sotto e ripiegavano, la follaimmediatamente riempiva lo spazio che avevano lasciato.

Alcuni fuggirono, altri vennero colpiti alla nuca e caddero pesantemente come fantocci. Idimostranti si sollevarono come animali da branco, unendosi a gruppetti, andando a cozzare contro ipoliziotti. Di tanto in tanto una piccola fiamma appariva all’estremità del braccio di qualcuno.Veniva portata indietro per prendere slancio, volava in aria. Dove ricadeva, si alzava una vampata.

Il giornalista tornò sullo schermo. «Impressionante» commentò, e la sua voce era un misto dieccitazione e gravità.

«Ma tu pensa!» sbottò Lucille. Fece un gesto impaziente verso il televisore, come se stessescacciando un gatto che si comportava male. «Dovrebbero vergognarsi, quegli esagitati! Comportarsisenza il minimo senso della decenza. E quel che è peggio è che sono francesi. Non mi sarei maiaspettata un comportamento del genere dai francesi! Gente tanto raffinata.»

«La tua bisnonna non era francese, Lucille» intervenne Harold, anche solo per distrarsi dallebrutte notizie.

«Certo che lo era! Era creola.»«E nessuno della tua famiglia è mai riuscito a dimostrarlo. Vi piace pensare che avete origini

francesi perché avete questo mito della Francia. Che io sia dannato se so perché.»Le immagini successive non arrivavano più dalla Francia, ma erano quelle di un vasto,

pianeggiante campo del Montana. Sullo sfondo si vedevano grandi edifici squadrati che sembravanogranai ma non lo erano. «Passiamo a notizie più vicine a noi...» disse l’uomo brizzolato. «Unmovimento anti-Redivivi sembra essere sorto anche qui, sul suolo americano.» Un attimo doposullo schermo apparvero uomini che sembravano soldati, ma non lo erano.

Americani, lo erano sicuramente.«I francesi sono persone sensibili e civili» disse Lucille, guardando con un occhio il televisore e

con l’altro Harold. «E smettila di imprecare. Jacob potrebbe sentirti.»

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«Quando ho imprecato?»«Hai detto dannato.»Harold buttò le mani in aria in un gesto di finta esasperazione.Sul televisore passavano le immagini degli uomini del Montana... ma non erano solo uomini,

c’erano anche delle donne. Erano tutti in divisa, correvano, saltavano ostacoli e ci strisciavano sotto,imbracciando fucili militari. Avevano un’espressione molto marziale, eppure non riuscivano asembrare soldati.

«E questi qui, cosa vogliono?» chiese Lucille.«Sono solo esaltati.»Lucille sbuffò. «Tu come lo sai? Non abbiamo mai sentito parlare di questa gente.»«Lo so perché riconosco un esaltato quando lo vedo. Non ho bisogno che sia la televisione a

dirmelo.»«Alcuni li liquidano definendoli esaltati...» disse il giornalista dai capelli brizzolati.Harold grugnì.«Ma le agenzie governative consigliano di non prenderli alla leggera.»Lucille grugnì di rimando.Alla televisione, uno dei soldati improvvisati strizzò un occhio guardando lungo la canna di un

fucile e sparò contro la sagoma in carta di una persona. Un piccolo pennacchio di fumo si alzò daterra alle spalle della sagoma.

«Soltanto fanatici» commentò Harold sprezzante.«Tu come lo sai?»«Cos’altro possono essere? Guardali.» Indicò. «Guarda la pancia di quello là. Sono solo gente

comune che ha perso il senso della realtà. Forse dovresti andare là a citare loro le sacre scritture.»Il giornalista tornò sullo schermo per dire: «Sta succedendo ovunque».«Jacob!» chiamò Lucille. Non voleva spaventare il bambino, ma a un tratto aveva paura per lui.Jacob le rispose dalla camera da letto con un vocino dolce.«Tutto okay, caro? Volevo solo controllare.»«Sì, mamma. Sto bene.»Si sentì un rumore di giocattoli che cadevano, poi il suono di una risata.Si erano chiamati Montana True Living Movement, il Movimento dei Veri Vivi del Montana. Un

gruppo paramilitare inizialmente nato con lo scopo di opporsi al governo degli Stati Uniti e diprepararsi per le guerre razziali che prima o poi avrebbero scosso il crogiuolo americano allefondamenta. Ma adesso c’era una minaccia più seria, disse un uomo del MTLM. «Ci sono persone,qui, che non hanno paura di fare quello che deve essere fatto» dichiarò.

L’immagine tornò allo studio, dove il giornalista brizzolato guardò nella telecamera, poi abbassògli occhi sui fogli che aveva davanti, mentre in fondo allo schermo appariva la scritta: I Redivivisono una minaccia?

Finalmente parve trovare le parole. «Dopo Rochester, è una domanda che dobbiamo porci tutti.»Harold grugnì. «Se c’è una cosa in cui l’America avrà sempre il primato mondiale è la

percentuale di imbecilli armati.»Suo malgrado, Lucille rise. Fu una risata che ebbe vita breve, però. Negli occhi del giornalista

passò un’espressione allarmata, come se gli si fosse rotto il gobbo.«Abbiamo una dichiarazione del presidente degli Stati Uniti» annunciò.

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«Ci siamo» sospirò Harold.«Ssh! Sei sempre il solito pessimista.»«Sono realista.»«Sei un misantropo!»«E tu una Battista!»«Tu sei pelato!»Continuarono a rimbeccarsi così finché non si resero conto di cosa stava dicendo il presidente.

«... resteranno confinati nelle loro case fino a nuova comunicazione.» E subito il battibecco siinterruppe.

«Cos’ha detto?»Un istante dopo la risposta apparve in fondo allo schermo, come tutte le notizie importanti del

mondo moderno.Il presidente ordina che i Redivivi restino confinati nelle loro case.«Ossignore.» Lucille sbiancò.In lontananza, sull’autostrada, i camion stavano arrivando. Lucille e Harold non potevano vederli,

ma questo non li rendeva meno reali. Portavano con loro cambiamenti irreversibili, conseguenzepermanenti.

Rombavano come tuoni sull’asfalto. Rombavano verso Arcadia.ina Bianca

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Gou Jun Pei

I soldati lo aiutarono a scendere dal retro del furgone e lo sospinsero in silenzio verso un severoedificio color alabastro che aveva finestre quadrate ben incassate. Lui chiese dove lo stesseroportando, ma non gli risposero, così dopo un po’ smise di domandare.

Dentro l’edificio, i soldati lo lasciarono in una stanzetta al cui centro si trovava una brandache sembrava un letto da ospedale. Lui si mise a camminare in tondo, stanco di stare seduto dopoil lungo viaggio.

Poi entrarono i dottori.Erano in due. Gli chiesero di sedersi sul lettino e fecero a turno a visitarlo ed esaminarlo. Gli

misurarono la pressione e gli puntarono una lucina negli occhi. Controllarono i suoi riflessi, glifecero un prelievo di sangue, lo sottoposero a un infinito numero di test, e si rifiutarono dirispondere quando lui chiedeva: «Dove mi trovo? Chi siete? Perché volete il mio sangue? Dov’èmia moglie?».

Passarono ore prima che la visita finisse, e ancora non gli avevano risposto né mostravano diaver sentito le sue domande. Alla fine, lui si trovò nudo, infreddolito, stanco e indolenzito. Sisentiva una cosa più che una persona.

«Abbiamo finito» lo informò uno dei dottori. Poi se ne andarono.Lui rimase lì, a guardare la porta sbarrata, rinchiuso in un edificio di cui ignorava la

collocazione, alla mercé di persone che non conosceva.«Cosa ho fatto?» chiese. Ma gli rispose solo l’eco delle sue parole nella cella vuota. Era una

solitudine non diversa da quella della tomba.

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7

Harold e Lucille erano seduti sul portico, come facevano spesso. Il sole era alto nel cielo e lagiornata era afosa, ma ogni tanto da ovest arrivava un filo di brezza a rendere la temperatura menoinsopportabile. Molto premuroso da parte del mondo, pensavano sia Harold che Lucille.

Harold fumava in silenzio, attento a evitare che la cenere gli cadesse sui pantaloni kaki nuovi chegli aveva comprato Lucille. I loro soliti battibecchi si erano risolti in un silenzio fatto di occhiateastiose, di linguaggio corporale ostile e di un nuovo paio di pantaloni.

Era iniziato tutto quando i Redivivi erano stati confinati nelle loro case e i Wilson erano spariti. Ilpastore aveva detto che non sapeva dove fossero finiti, ma Harold aveva i propri dubbi in merito.Fred Green aveva agitato le acque, in quelle ultime settimane, convincendo molti a opporsi al fattoche i Wilson vivessero in chiesa.

Certe volte Harold pensava a com’era stato Fred da giovane. A quando, in un tempo lontano, lui eMary avevano l’abitudine di venire a cena da loro la domenica, e lei si metteva in piedi al centro delsalotto per cantare con quella sua bella voce da soprano e Fred se ne stava seduto a guardarla comeun bambino che si è imbattuto in un carnevale variopinto in mezzo a una foresta oscura.

Poi Mary era morta per un tumore al seno che si era diffuso quando era talmente giovane chenessuno aveva pensato a farle fare dei controlli. Non era stata colpa di nessuno, ma Fred si erasentito responsabile e... insomma, adesso non era più l’uomo che era stato quel giorno del 1966,quando aveva camminato nella boscaglia al fianco di Harold, in cerca di quel bambino cheavrebbero avuto la sventura di trovare insieme.

Il vento spazzava la terra, portando il rombo di grossi, pesanti camion e il grattare delle loro marce.Anche se il cantiere era distante, alla scuola, proprio nel centro di Arcadia, il rombo era chiaro ericonoscibile.

«Cosa pensi che stiano costruendo?» Lucille stava rammendando una coperta che si era strappatadurante l’inverno. Quello era un momento buono come un altro per aggiustare le cose rotte.

Harold si limitò a dare un tiro alla sigaretta, guardando Jacob giocare all’ombra della quercia. Ilbambino stava cantando. Era una canzone che Harold non conosceva.

«Cosa pensi che stiano costruendo?» ripeté Lucille, alzando un po’ la voce.«Gabbie.» Harold sbuffò un nuvolone di fumo grigio.«Gabbie?»«Per i morti.»Lucille smise di rammendare. Lasciò cadere la coperta sul portico e ripose ordinatamente ago e

filo nel cestino da cucito. «Jacob, caro?»«Sì, mamma?»«Va’ a giocare più in là, tesoro. Guarda tra quei cespugli vicino alle magnolie e vedi se trovi

delle more. Ce le mangeremo dopo cena, ti va?»«Sì, signora.»Forte della nuova missione affidatagli dalla madre, Jacob lanciò un piccolo urlo di guerra e si

mise a correre verso le magnolie, ai margini occidentali della proprietà.

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Il suo bastone era diventato una spada.«Resta dove posso vederti!» urlò Lucille. «Mi hai sentito?»«Sì, signora» strillò Jacob di rimando, ma stava già assaltando le magnolie con la sciabola

improvvisata. Non gli capitava spesso di avere il permesso di allontanarsi, e si godeva quelmomento.

Lucille si alzò e si avvicinò al parapetto. Indossava un vestito verde che aveva un’impunturabianca intorno al collo e delle spille da balia appuntate sulle maniche perché, in casa, poteva semprecapitare di averne bisogno. Si era raccolta i capelli grigi in una coda di cavallo, e qualche ciocca lecadeva sulla fronte.

Era stata seduta troppo a lungo e le faceva male l’anca, o forse il dolore dipendeva dal fatto cheaveva giocato con Jacob. Fece una smorfia, si massaggiò il fianco e tirò un piccolo sospiroesasperato. Poi posò le mani sulla ringhiera e fissò il terreno.

«Non sopporto che tu li chiami così.»Harold tirò una lunga boccata di fumo, poi spense il mozzicone col tacco della scarpa. Esalò

lentamente l’ultima dose di nicotina. «Okay. Non userò più la parola morti. Dirò Redivivi, anche seproprio non capisco perché sia un termine migliore per definirli. A te piacerebbe essere chiamataRediviva? Sembra una presa in giro.»

«Potresti provare a chiamarli semplicemente persone.»«Ma non sono pe...» Vide negli occhi della moglie che non era il momento di dire una cosa simile.

«È solo che sono un... un gruppo unico nel suo genere, tutto qua. È come dire che qualcuno è unrepubblicano o un democratico.» Si strofinò il mento nervosamente, sorpreso di sentire del ruvido.Come aveva fatto a dimenticare una cosa basilare come radersi? Respinse il mistero della barbadalla mente. «Dobbiamo pur definirli in qualche modo, per sapere che è di loro che stiamoparlando.»

«Non sono morti. Non sono Redivivi. Sono persone e basta.»«Ammetterai che sono un gruppo molto particolare di persone.»«È di tuo figlio che stai parlando, Harold.»Lui la guardò dritto negli occhi. «Mio figlio è morto.»«No. È laggiù.» Lucille alzò una mano per indicare.Silenzio. Un silenzio rotto solo dal frusciare del vento, dai distanti rumori del cantiere, dai

colpetti del bastone di Jacob che picchiava contro i tronchi delle magnolie.«Stanno costruendo delle gabbie per rinchiuderli» disse Harold.«Non farebbero mai una cosa simile! Il problema è che nessuno sa dove metterli. Sono troppi.

Ovunque ti giri, li vedi. Sono sempre di più.»«All’inizio non la pensavi così. Diavoli. Ricordi?»«Be’, questo era prima. Ho imparato molte cose da allora. Il Signore mi ha fatto capire quali

errori possa commettere un cuore chiuso.»Harold sbuffò. «Accidenti. Adesso sembri uno di quei fanatici che si vedono in televisione. Quelli

che vogliono farli sembrare dei santi viventi.»«Sono toccati da un miracolo.»«Sono toccati, sì. Nella testa. Perché altrimenti il governo avrebbe detto che devono restare chiusi

in casa? Perché pensi che, in questo preciso momento, stiano costruendo delle gabbie in città? L’hovisto con i miei occhi, Lucille. Proprio ieri, quando sono andato a fare la spesa. Ovunque ti giri ci

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sono soldati e fucili e Humvee e recinzioni. Miglia e miglia di recinzioni. Impilate sui camion.Scaricate per terra. E ogni soldato che non imbraccia un’arma è occupato a montare quelle grate. Altetre metri. D’acciaio. Con il filo spinato in cima. Le hanno usate quasi tutte per cintare la scuola.Tutt’intorno. Non c’è più stata una lezione da quando il presidente è apparso in televisione.Suppongo abbiano pensato che ad Arcadia non ci siano poi molti bambini, e quindi non sia un grossoproblema per noi usare qualche altro posto come scuola mentre loro trasformano la vera scuola in uncampo di concentramento.»

«Zitto!» Lucille pestò un piede. «Ti aspetti il peggio dalle persone. Sei sempre stato così. È perquesto che hai la mente contorta. Per questo non riesci a vedere un miracolo neanche quando ce l’haidavanti agli occhi.»

«15 agosto 1966.»Lucille attraversò il portico a passo di marcia e schiaffeggiò il marito. Lo schiocco arrivò in

giardino come lo sparo di una pistola di piccolo calibro.«Mamma?»Jacob si era materializzato davanti a Lucille, come un’ombra sorta dalla terra. Lei stava ancora

tremando. Le sue vene erano piene di adrenalina, di rabbia e di dolore. Le formicolava il palmo.Contrasse e rilassò la mano, quasi non fosse sicura che appartenesse ancora a lei.

«Cosa c’è, Jacob?»«Mi serve una scodella.»Il bambino stava in fondo ai gradini del portico. Si era piegato la maglietta sul davanti in modo da

formare un piccolo marsupio pieno zeppo di more. La sua bocca, macchiata di un blu nerastro, erastorta in una smorfia un po’ preoccupata.

«Va bene, caro» disse Lucille.Aprì la zanzariera e sospinse dentro Jacob. I due si avviarono lentamente verso la cucina, attenti a

non far cadere il prezioso carico. Lucille frugò negli armadietti, trovò una ciotola che le piaceva e simise a lavare le more con l’aiuto del bambino.

Harold rimase da solo sul portico. Per la prima volta da settimane, non aveva voglia di fumare.Lucille lo aveva schiaffeggiato una sola volta nella vita. Anni, anni e anni prima. Era passato tantotempo che lui ricordava appena perché fosse successo. Doveva essere stato per un commento cheaveva fatto sulla madre di lei. A quei tempi erano più giovani e si offendevano per certi giudizi.L’unica cosa che sapeva con certezza era che allora, come adesso, aveva commesso qualcosa digrave.

Seduto sulla sua sedia, si schiarì la gola e si guardò attorno in cerca di qualcosa che lo distraesse.Ma non c’era niente. Così, rimase seduto ad ascoltare.

L’unica cosa che sentiva era suo figlio.Era come se al mondo non ci fosse altro che Jacob. E, in fondo, era sempre stato così. Con gli

occhi della mente, guardò trascorrere gli anni della propria vita in una spirale che partiva dal 1966.Questa visione lo terrorizzò. Se l’era cavata bene dopo la morte di Jacob, no? Era fiero di se stesso,fiero di come si era comportato. Non c’era niente da rimpiangere. Non aveva fatto niente disbagliato, no?

Si infilò la mano destra in tasca. In fondo, accanto all’accendino e a qualche spicciolo, le dita diHarold trovarono la piccola croce d’argento, la stessa che sembrava essere comparsa dal nulla

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qualche settimana prima, quella consumata dal tempo e dall’usura.Fu allora che nella sua mente nacque un’idea. Un’idea o una sensazione talmente acuta da

sembrare un’idea. Era stata sommersa nelle profondità fangose della sua memoria, sepolta accanto alpensiero di suo padre e di sua madre, che erano diventati poco più che una fotografia sgranata sottola luce fioca di una lampada.

Ma forse questa cosa, questa idea o questa sensazione che aveva in mente, era più tangibile.Riguardava l’essere genitore. Non faceva più il padre da cinquant’anni e adesso era troppo vecchioper svolgere bene quel ruolo, ma ci era stato trascinato dentro di nuovo da uno strano capriccio delfato... Si rifiutava di darne credito a una divinità, dato che tra Dio e lui c’era qualche vecchiaruggine.

Harold pensò a cosa significasse essere genitore. Lo era stato solo per otto anni, ma erano statiotto anni che erano rimasti con lui anche quando erano passati. Non lo aveva mai detto a Lucille ma,nel primo decennio dopo la morte di Jacob, era stato soggetto a improvvise ondate di un’emotivitàindefinibile che lo travolgevano come una marea oceanica, a volte mentre tornava in macchina dallavoro. Oggi li chiamavano attacchi di panico.

Non gli piaceva quella parola, panico, ma era proprio ciò che aveva provato. Gli tremavanoconvulsamente le mani e il suo cuore batteva come se avesse una mandria in petto. Accostava sulciglio della strada, si accendeva una sigaretta e succhiava con tutte le proprie forze. Si sentivamartellare le tempie. Perfino i suoi dannati occhi sembravano pulsare.

E poi, così come era iniziato, l’attacco spariva. A volte gli lasciava nella mente un fuggevolericordo di Jacob. Come quando si fissa a lungo la luna piena, e la traccia luminosa rimane impressasulla retina anche quando si chiudono le palpebre e dovrebbe esserci solo buio.

Adesso, con quella piccola croce d’argento tra le dita, Harold si sentiva venire uno di quegliattacchi. Gli si riempirono gli occhi di lacrime. E come fanno molti uomini quando si trovano difronte al cieco terrore dell’emotività, si arrese alla moglie.

«Okay» disse.

I due attraversarono insieme il giardino. Harold camminava lentamente e con passo regolare, Jacobgli correva intorno. «Passa un po’ di tempo con lui» aveva detto Lucille alla fine. «Solo voi due. Fatequalcosa insieme, come ai vecchi tempi. È quello di cui lui ha bisogno.» E così eccoli, Harold e ilsuo figlio Redivivo, sul prato. Harold non aveva la minima idea di cosa fare.

Così si limitavano a camminare.Fecero un giro del giardino, poi uscirono dalla proprietà sulla strada sterrata che portava verso la

statale. A dispetto del decreto che imponeva ai Redivivi di restare nelle proprie case, Harold portòil figlio dove i camion militari passavano sull’asfalto cotto dal sole, dove i soldati avrebbero potutoguardare dai loro veicoli e vedere il bambino Redivivo e il vecchio avvizzito.

Harold non avrebbe saputo dire se fosse paura o sollievo quello che provò quando uno degliHumvee di passaggio frenò, invertì la marcia e tornò rombando lungo la statale verso di lui. PerJacob, fu sicuramente paura. Teneva stretta la mano del padre e si nascondeva dietro la sua gamba,sbirciando. Il veicolo si fermò.

«Buon pomeriggio» li salutò un militare sulla quarantina, dal finestrino. Aveva la testa squadrata,i capelli biondi, la mascella dura e freddi occhi azzurri.

«Salve» disse Harold.

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«Come state voi due signori, oggi?»«Siamo vivi.»Il militare rise. Si piegò in avanti sul sedile, osservando Jacob. «E tu come ti chiami?»«Io?»«Sì» disse il militare. «Io sono il colonnello Willis. Qual è il tuo nome?»Il bambino si fece avanti di un passo. «Jacob.»«Quanti anni hai, Jacob?»«Otto, signore.»«Wow. Che bella età! È passato tanto tempo da quando io avevo otto anni. Sai quanti anni ho?

Indovina.»«Venticinque?»«Neanche alla lontana! Ma grazie.» Il colonnello tirò le labbra in un sorriso. Aveva il gomito

posato sul finestrino dell’Humvee. «Ne ho quasi cinquanta.»«Wow!»«Hai proprio ragione. Wow. Sono un uomo molto, molto vecchio.» Poi il colonnello si rivolse ad

Harold. «Come sta oggi, signore?» La voce si era fatta dura.«Sto bene.»«Il suo nome, signore?»«Harold. Harold Hargrave.»Il colonnello Willis si girò verso un soldato più giovane seduto sul camion. Il soldato scrisse

qualcosa. «E dove state andando, voi due, in questa bella giornata?» chiese il colonnello. Alzò gliocchi verso il sole sfolgorante. Pigre nuvole attraversavano il cielo azzurro.

«Nessuna meta particolare» rispose Harold, senza guardare il cielo, ma tenendo gli occhi fissisull’Humvee. «Ci stiamo solo sgranchendo le gambe.»

«E per quanto ancora resterete qui a sgranchirvi le gambe? Avete bisogno di un passaggio pertornare a casa?»

«Siamo venuti fin qua» replicò Harold. «Possiamo tornare indietro da soli.»«Volevo solo rendermi utile. Signor... Hargrave, vero? Harold Hargrave?»Harold prese Jacob per mano, e i due rimasero fermi come statue finché il colonnello Willis non

capì. Si girò e disse qualcosa al giovane soldato al volante. Poi salutò con un cenno del capo ilvecchio e il suo figlio Redivivo.

L’Humvee si rimise in moto e si allontanò rombando.«È stato abbastanza gentile» disse Jacob. «Per essere un colonnello.»

L’istinto diceva ad Harold di tornare subito a casa, ma Jacob lo condusse in un’altra direzione. Ilbambino si avviò verso nord e, sempre aggrappato alla mano del padre, lo attirò nel sottobosco,quindi nel cuore della foresta. Camminarono sotto le conifere e le rare querce bianche. Sentirono unanimaletto scappare via. Poi ci fu un fruscio di uccelli che si alzavano in volo dalla cima deglialberi. Quindi solo il vento, che profumava di terra, di pino, e delle nuvole che si addensavano inlontananza e che forse, più tardi, avrebbero portato pioggia.

«Dove stiamo andando?» chiese Harold.«Cosa fa un mulo per la strada?» chiese Jacob.«Potremmo perderci.»

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«Prende una mul-ta.»Harold rise.Ben presto arrivò l’odore dell’acqua. Padre e figlio continuarono ad andare avanti. Ad Harold

tornò in mente la volta in cui lui, Jacob e Lucille erano andati a pescare da un ponte nei pressi dellago Waccamaw. Non era un ponte alto, il che fu un bene perché, dopo un po’, Lucille aveva decisoche sarebbe stato divertente spingere Harold in acqua. Ma lui l’aveva vista arrivare, era riuscito ascostarsi e darle una piccola spinta che aveva fatto cadere nel fiume lei.

Quando Lucille era emersa ed era salita sulla massicciata, era uno spettacolo: i jeans e lamaglietta di cotone le stavano appiccicati addosso, aveva i capelli grondanti e decorati da fogliecadute dai cespugli.

«Hai preso qualcosa, mamma?» aveva chiesto Jacob, sogghignando da un orecchio all’altro.Così, senza neanche dire una parola, Harold aveva afferrato Jacob per le braccia, Lucille lo aveva

preso per i piedi, e lo avevano lanciato, ridendo, nell’acqua.Sembrava successo solo la settimana prima, pensò Harold.A un tratto la foresta si aprì, e davanti a Jacob e Harold ci fu solo il fiume, scuro e lento. «Non ci

siamo portati dei vestiti di ricambio» fece notare Harold. «Cosa dirà la mamma? Se torniamo a casasporchi e fradici finiremo nei guai tutti e due.» Ma mentre parlava, si stava già togliendo le scarpe esi arrotolava i pantaloni, lasciando che le sue vecchie gambe sottili vedessero la luce del giorno perla prima volta da tempo immemorabile.

Aiutò Jacob a tirarsi i pantaloni sopra il ginocchio. Il bambino si sfilò la maglietta e corse giù perla riva scoscesa, entrando nell’acqua fino alla vita. Si tuffò e riemerse ridendo.

Harold scosse la testa e, suo malgrado, si tolse la camicia. Poi, veloce quanto poteva correre unvecchio, raggiunse il bambino nel fiume.

Sguazzarono finché tutti e due non furono esausti. Poi uscirono lentamente dal fiume, si trovarono unapiccola radura erbosa e si sdraiarono come coccodrilli, lasciando che il sole massaggiasse i lorocorpi.

Harold era stanco, ma felice. Sentiva che il nodo che aveva dentro si stava sciogliendo.Aprì gli occhi e fissò il cielo sopra di sé. Tre pini svettavano e si univano in un gruppo

nell’angolo inferiore della sua visuale, coprendo il sole, che stava scendendo verso l’orizzonte. Ilmodo in cui i pini si congiungevano sulla punta incuriosì Harold. Rimase sdraiato a fissarli per moltotempo.

Poi si mise seduto. Si sentiva tutto indolenzito. Era invecchiato dall’ultima volta che aveva fatto ilpadre. Si attirò le ginocchia al petto come un bambino, abbracciandosele. Si grattò la mascella ispidadi barba e fissò lo sguardo sul fiume. Era già stato lì, in quel punto esatto, con quei tre pini che siunivano in alto nella loro piccola tasca di cielo.

Jacob si era addormentato sull’erba, e si stava asciugando lentamente sotto il sole calante. Adispetto di quello che si diceva sul fatto che i Redivivi dormivano poco, quando finalmenteprendevano sonno, il loro era un riposo profondo, ristoratore. Il bambino sembrava in pace,appagato. Come se nel suo corpo non ci fosse altro che la lenta, naturale metrica del cuore.

Sembra morto, pensò Harold. «È morto» si rammentò a bassa voce.Jacob aprì gli occhi. Fissò il cielo, batté le palpebre e scattò a sedere. «Papà?» strillò. «Papà?»«Sono qui.»

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Appena vide il padre, la paura del bambino sparì rapida come era arrivata.«Ho fatto un sogno.»Harold era tentato di dire al bambino di venire a sedersi in braccio a lui e di raccontarglielo. Era

ciò che avrebbe fatto tanti anni prima. Ma quello non era suo figlio. Il 15 agosto del 1966 avevaportato via per sempre Jacob William Hargrave.

Questa creatura accanto a lui era un’altra cosa. Un’imitazione della vita da parte della morte.Camminava, parlava, sorrideva, rideva e giocava come Jacob, ma non era Jacob. Non potevaesserlo. Secondo tutte le leggi dell’universo, non poteva esserlo.

E anche se, per qualche miracolo, lo fosse stato, Harold non ci avrebbe creduto.Tuttavia, anche se quello non era suo figlio, anche se era solo un elaborato costrutto di luce e

movimento meccanico, anche se era solo frutto della sua immaginazione, era un bambino, o ne avevale fattezze, e Harold non era un essere umano talmente vecchio e cinico da restare insensibile allasofferenza di un bambino. «Parlami del tuo sogno.»

«Non me lo ricordo bene.»«Capita anche a me.» Harold si alzò lentamente, stirò i muscoli e cominciò a mettersi la camicia.

Jacob lo imitò. «Qualcuno ti stava inseguendo?» chiese Harold. «Succede spesso nei sogni. Almeno,nei miei. Fa paura, a volte, essere inseguito da qualcuno.»

Jacob annuì.Harold prese il silenzio come un invito a continuare. «Be’, almeno non hai sognato di cadere.»«Come lo sai?»«Perché avresti scalciato e agitato le braccia!» Harold si mise a battere braccia e gambe

goffamente, in modo teatrale. Erano decenni che non si sentiva tanto sciocco. «E io avrei dovutobuttarti in mezzo al fiume per svegliarti!»

Fu allora che Harold ricordò. Con un’atroce nitidezza, gli tornò in mente tutto.Quel luogo, proprio lì sotto i tre alberi che si intrecciavano in punta contro il cielo aperto... era lì

che aveva trovato Jacob mezzo secolo prima. Era lì che lui e Lucille avevano imparato a conoscere ildolore. Lì che ogni loro sogno si era sgretolato. Lì dove lui aveva tenuto il corpicino privo di vita diJacob tra le braccia e aveva pianto, scosso da un tremito convulso.

E, appena si rese conto di dove stava ora, sotto quei familiari alberi con un essere cheassomigliava tanto a suo figlio, Harold non riuscì a fare altro che ridere.

«Che roba» disse.«Cosa c’è?» chiese Jacob.Harold rispose con un’altra risata. E un attimo dopo ridevano tutti e due. Ma presto, il suono delle

risate fu coperto dai passi dei soldati che si inoltravano nella foresta.I militari sarebbero stati abbastanza cortesi da lasciare i fucili sull’Humvee. Avrebbero tenuto le

pistole nelle fondine invece che impugnarle. Sarebbe stato il colonnello Willis a guidarli. Avrebbecamminato con le mani dietro la schiena, il petto spinto in avanti come un bulldog. Jacob si sarebbenascosto dietro la gamba di suo padre.

«Mi dispiace» avrebbe detto il colonnello Willis. «Ho tentato di evitarlo, davvero. Ma voi dueavreste dovuto tornare subito a casa.»

Sarebbe iniziato un periodo molto difficile per Harold, Lucille, Jacob e tanti altri.Ma, per ora, c’erano solo le risate.ina Bianca

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Nico Sutil. Erik Bellof. Timo Heidfeld.

Quella tranquilla strada di Rochester non aveva mai visto tanta agitazione. I cartelli erano scrittisia in inglese che in tedesco, ma i tedeschi avrebbero capito perfettamente anche se non ci fosserostate traduzioni. Da giorni ormai i dimostranti circondavano la casa, urlando, agitando i pugni.Talvolta un mattone o una bottiglia di vetro si infrangevano contro il muro. Era successo tantospesso che il suono non li spaventava più.

Nazisti, andatevene!, era scritto su molti dei cartelli. Tornatevene all’inferno, nazisti!,proclamavano altri.

«Hanno solo paura, Nicolas» disse il signor Gershon, guardando dalla finestra con il visocontratto. «È troppo, per loro.» Era un uomo piccolo e magro, con la barba brizzolata e una voceche tremava quando cantava.

«Mi spiace» intervenne Erik. Aveva pochi anni più di Nico. Ancora un ragazzo, per il signorGershon.

Il signor Gershon si accovacciò accanto a dove erano seduti Nico ed Erik, attento a restarelontano dalle finestre. Batté su una mano di Nico. «Qualunque cosa accada, non è colpa vostra. Ioho preso questa decisione... la mia famiglia e io abbiamo preso questa decisione.»

Nico annuì. «È stata mia madre a decidere che io mi arruolassi. Adorava il Führer. Iodesideravo solo andare all’università e insegnare inglese.»

«Basta parlare del passato» sbottò Timo. Aveva l’età di Nico, ma ben poco della sua dolcezza. Isuoi capelli erano scuri, il viso magro e affilato. Aveva il tipico aspetto di un nazista, anche senon si comportava come tale.

Fuori, i soldati si stavano adoperando per aprire un varco tra la folla. Erano diversi giorniormai che tenevano i dimostranti lontani dalla casa. All’improvviso alcuni grossi camion scuriinvasero il prato anteriore dei Gershon. Ne smontarono altri soldati, i fucili in pugno.

Il signor Gershon sospirò. «Devo cercare di parlare di nuovo con loro.»«Siamo noi quelli che vogliono» disse Erik, indicando gli altri sei soldati nazisti che i Gershon

avevano nascosto senza troppo successo in quell’ultimo mese. Erano praticamente dei ragazzi chesi erano trovati coinvolti in una situazione più grande di loro, proprio come la prima volta cheavevano vissuto. «Siamo noi quelli che vogliono uccidere, sì?»

Uno dei dimostranti prese un megafono e cominciò a urlare istruzioni verso la casa deiGershon. La folla applaudì. «Tornatevene all’inferno!» urlavano.

«Prendi la tua famiglia e va’» disse Nico. Gli altri soldati annuirono. «Ci arrendiamo. Questasituazione si è protratta già troppo a lungo. Solo per il fatto di aver combattuto in guerra,meritiamo l’arresto.»

Il signor Gershon si alzò con un grugnito. Il suo vecchio corpo fragile tremava. Mise le manisul braccio di Nico. «Siete già morti una volta» disse. «Non è una punizione sufficiente? Non viconsegneremo. Dimostreremo loro che le guerre sono fatte da persone, e le persone, al di fuori diqueste guerre, possono essere ragionevoli, possono convivere in pace... anche una sciocca vecchiafamiglia ebrea come la mia e dei ragazzi tedeschi che un pazzo ha vestito in divisa.» Guardò lamoglie. «Dobbiamo dimostrare che esiste il perdono a questo mondo.»

La donna ricambiò lo sguardo. Aveva il viso risoluto quanto quello di lui.

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Dal piano di sopra arrivò il rumore di un vetro che si infrangeva, seguito da un forte sibilo.Poi qualcosa cozzò contro la fiancata della casa. Un altro sibilo. Una nuvola bianca cominciò asbocciare come un fiore davanti alla finestra.

«Gas!» esclamò Timo, che si era già messo una mano sulla bocca.«Va tutto bene» disse il signor Gershon, il tono pacato. «Lasceremo che accada

pacificamente.» Guardò i soldati tedeschi. «Dobbiamo lasciare che accada tutto pacificamente»ripeté. «Si limiteranno ad arrestarci.»

«Ci uccideranno!» disse Timo. «Dobbiamo batterci!»«Sì.» Erik si alzò. Andò alla finestra, sbirciò e contò gli uomini armati.«No» disse il signor Gershon. «Non possiamo permettere che succeda così. Se combattete,

allora sì vi uccideranno, e solo questo si ricorderà... una casa piena di soldati nazisti che, anchedopo essere tornati dall’aldilà, erano capaci solo di combattere e ammazzare!»

Cominciarono a battere alla porta.«Grazie» disse Nico.Poi la porta si schiantò.ina Bianca

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8

Tre settimane prima, lo stizzoso marito e il precedentemente deceduto figlio di Lucille erano statiarrestati con quella che lei riteneva un’imputazione assurda. Insolenza e presenza di Redivivo inpubblico. E anche se era innegabile che Harold Hargrave era un uomo insolente, e lo status di exdefunto di Jacob era inequivocabile, Lucille era fermamente convinta, essendo una donna capace didistinguere il bene dal male, che se c’era qualcuno da biasimare, questo era il Bureau.

La sua famiglia non aveva fatto niente di male. Nient’altro che passeggiare su un terreno privato(non un terreno governativo, si badi bene, ma una proprietà privata). La loro passeggiata li avevaportati a costeggiare la statale, dove passavano mezzi con a bordo uomini del Bureau. Uomini delBureau che li avevano seguiti e arrestati.

Dal giorno del loro arresto, Lucille non era riuscita a dormire una sola notte. E quando il sonnoarrivava, le accadeva nei momenti più imprevedibili e inappropriati. Proprio in quel momento,Lucille era afflosciata su un banco della chiesa, con il suo vestito della domenica e la testa china conquella molle angolazione che si vede spesso nei bambini che non hanno fatto il riposino. Era un po’sudata. Era giugno ormai e ogni giorno era una sauna.

Mentre dormiva, Lucille sognava dei pesci. Sognava di stare in mezzo a una folla di persone, tutteaffamate. Ai suoi piedi c’era un secchio di plastica da venti litri pieno di pesce persico, trote ebranzini, passere e triglie.

«Vi aiuto io. Prendete» diceva. «Ecco. È per lei. Qui. Mi spiace. Sì. Per favore, accetti questo.Prenda. Mi spiace. Tenga. Mi spiace.»

Le persone del suo sogno erano tutti Redivivi e lei non sapeva perché si stesse scusando, ma lesembrava vitale farlo.

«Mi spiace. Ecco qui. Sto cercando di aiutarvi. Scusatemi. No, non preoccupatevi. Vi aiuterò io.Ecco.» Le sue labbra si muovevano da sole, mentre lei se ne stava accasciata nel banco. «Mi spiace»disse ad alta voce. «Vi aiuterò io. Non preoccupatevi.»

Nel suo sogno, la folla premeva, la spingeva, e a un tratto Lucille si accorse che lei e i Redivivierano chiusi in una gabbia enorme, di barre d’acciaio e filo spinato, che si stava facendo sempre piùpiccola. «Ossignore!» esclamò ad alta voce. «Va tutto bene. Vi aiuterò io!»

E poi si svegliò. E vide che l’intera congregazione della Chiesa Battista di Arcadia la stavafissando.

«Amen» disse il pastore Peters dal pulpito. Sorrideva. «Anche nei suoi sogni, sorella Hargraveaiuta il prossimo. Perché noi, invece, non riusciamo a farlo da svegli?» Poi riprese il suo sermonesulla pazienza tratto dal Libro di Giobbe.

Oltre che vergogna per essersi addormentata in chiesa, Lucille provava imbarazzo per averdistratto il pastore dal sermone. Ma quest’ultima cosa era temperata dal fatto che ultimamente,quando predicava, il pastore Peters sembrava un po’ assente. Era chiaro a tutti i fedeli che avevaqualcosa per la mente o un peso sul cuore.

Lucille raddrizzò la schiena, si asciugò il sudore dalla fronte e borbottò tra i denti un tardivo amenin approvazione di un punto importante del sermone. Le prudevano gli occhi e si sentiva le palpebrepesanti. Prese la Bibbia, la aprì e cercò un po’ affannata i versetti che il pastore Peters stava

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commentando. Il Libro di Giobbe non era il più lungo della Bibbia, ma lo era a sufficienza daconfonderla. Sfogliò affannosamente le pagine finché non trovò quello che pareva il versettoappropriato. Poi fissò la pagina e si riaddormentò.

Quando tornò a svegliarsi, la funzione era finita. L’aria era immobile, i banchi quasi vuoti. Era comese anche il buon Signore avesse deciso che la Sua presenza era necessaria altrove. C’erano però ilpastore e la sua piccola moglie, il cui nome Lucille non riusciva mai a ricordare. Erano seduti nelbanco davanti a lei, e la stavano fissando con l’accenno di un sorriso sulle labbra.

Fu il pastore Peters a parlare per primo.«Ho pensato più di una volta di alzare la voce per tener svegli i miei fedeli durante i sermoni, ma

non è nel mio stile. E comunque...» Sospirò. Le sue spalle si alzarono come montagne sotto la giaccadell’abito.

Aveva la fronte imperlata di goccioline di sudore, eppure indossava la sua giacca di lana scuracome un vero uomo di Dio: disposto a sopportare.

La piccola moglie parlò con la sua vocina anonima. «Siamo preoccupati per lei.» Indossava unvestito chiaro con un cappellino decorato da fiori. Ovviamente, anche il suo sorriso era piccolo.Sembrava non solo sul punto, ma anche lieta, di svenire da un momento all’altro.

«Non datevi pensiero per me» disse Lucille. Eresse la schiena, chiuse la Bibbia e la strinse tra lemani. «Il Signore mi aiuterà a superare questa prova.»

«Oh, no, sorella Hargrave, non le permetterò di rubarmi le frasi» scherzò il pastore con quel suosorriso accattivante.

La moglie si protese sopra il banco e posò la minuscola mano sul braccio di Lucille. «Non ha unabella cera. Quando è stata l’ultima volta che ha dormito?»

«Pochi minuti fa» rispose Lucille. «Non l’ha notato?» Accennò una risatina. «Scusi. Quella nonero io. È stato quel buono a nulla di mio marito a parlare attraverso la mia bocca... diavolo che è.» Sistrinse la Bibbia al petto e sbuffò. «Quale posto migliore di una chiesa per riposare? C’è un altroluogo sulla terra dove potrei trovarmi altrettanto a mio agio? Non credo proprio.»

«A casa?» chiese la moglie del pastore.Lucille non riusciva a capire se lo avesse detto in tono offensivo o per genuina curiosità. Ma, dato

che era una donna talmente mite, Lucille decise di concederle il beneficio del dubbio.«La mia casa non è una casa in questo momento.»Il pastore Peters posò una mano sul suo braccio, accanto a quella della moglie. «Ho parlato con

l’agente Bellamy.»«Anch’io» replicò Lucille. Il suo viso si contrasse. «E scommetto che le ha detto la stessa cosa

che ha detto a me. “Non posso farci niente”.» Lucille sbuffò di nuovo e si aggiustò i capelli. «A cheserve essere un funzionario governativo se non si può fare niente? Se si ha lo stesso potere di noicomuni mortali?»

«Ebbene, a difesa di Bellamy, vorrei farle notare che il governo è molto più potente di qualunquepersona lavori alle sue dipendenze. Sono sicuro che l’agente sta facendo tutto quello che può peraiutarla. Sembra un uomo d’onore. Non è stato lui a rinchiudere Jacob, ma la legge. Harold ha sceltodi restare con Jacob.»

«Che alternativa aveva? Jacob è suo figlio!»«Lo so. Ma altri non si sono comportati come lui. Solo i Redivivi, a sentire Bellamy, dovevano

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stare in custodia. Ma persone come Harold si sono rifiutate di lasciare soli i loro cari, e così ora...»Il pastore lasciò la frase in sospeso. Poi riprese: «Io credo sia la cosa migliore. Non possiamopermettere che queste persone siano segregate, non completamente almeno, non come vorrebbero inmolti».

«Harold ha scelto di restare» ripeté Lucille a bassa voce, come per ricordare a se stessa qualcosa.«Sì» annuì il pastore Peters. «E Bellamy si prenderà cura di entrambi. È una brava persona.»«È ciò che ho pensato anch’io quando l’ho visto la prima volta. Sembrava buono, anche se è di

New York. E non l’ho nemmeno giudicato per il fatto che è nero!» Lucille ci teneva a far notare quelpunto. I suoi genitori erano stati due razzisti convinti, ma lei aveva imparato dalla Parola di Dio chetutte le persone sono uguali. Il colore della loro pelle significava quanto il colore della lorobiancheria. «Ma quando lo guardo adesso, mi chiedo come possa un uomo decente... di qualunquecolore sia la sua pelle... essere coinvolto in una cosa atroce come rapire delle persone dalle lorocase... e dei bambini, per giunta... e chiuderli in prigione.» La voce di Lucille era come un temporale.

«Su, su, Lucille» disse il pastore.«Su, su» ripeté sua moglie.Il pastore Peters girò intorno al banco, si sedette accanto all’anziana signora e le passò un grosso

braccio sulle spalle. «Non li hanno rapiti, anche se so che può sembrare così. Il Bureau sta solocercando di... insomma, di tenere sotto controllo la situazione. Sono tanti i Redivivi, ormai. Credoche il Bureau intenda solo far sentire al sicuro i cittadini.»

«Fanno sentire al sicuro i cittadini portando via un vecchio e un bambino dalla loro casa sotto laminaccia delle armi?» Lucille per poco non fece cadere la Bibbia quando le sue mani scattarono inavanti. Agitava sempre le mani nel parlare, quando era arrabbiata. «Trattenendoli per tre settimane?Mettendoli in prigione senza... accidenti, non so, senza un vero capo d’accusa, in violazione a ogninorma di legge?» Guardò verso una delle finestre della chiesa. Anche da seduta riusciva a vedere lacittà ai piedi della collina. Vedeva la scuola e tutti gli annessi costruiti di recente, vedeva lerecinzioni, i soldati e i Redivivi che camminavano nel piazzale, le case non ancora inglobate nelrecinto. Qualcosa le diceva che lo sarebbero state presto.

In lontananza, sul lato opposto della città, nascosta dagli alberi, dove finiva l’abitato e iniziava lacampagna aperta, c’era la sua casa, buia e vuota. «Signore...» sussurrò.

«Su, su, Lucille» disse invano la moglie del pastore.«Continuo a parlare con quel Martin Bellamy» riprese Lucille. «Continuo a dirgli che è tutto

sbagliato e che il Bureau non ha diritto di tenerli rinchiusi, ma lui insiste che non può farci niente.Dice che è in mano tutto al colonnello Willis ora. È lui che comanda, a sentire Martin Bellamy. Cosaintende con quel non posso farci niente? È un essere umano, no? E gli esseri umani non sono pieni dicose che possono fare?»

Perle di sudore le colavano lungo la fronte. Sia il pastore che sua moglie avevano staccato le manida lei, come se fosse un fornello che qualcuno aveva acceso inavvertitamente.

«Lucille» disse il pastore, abbassando la voce e parlando lentamente, in quel modo che, lo sapevaper esperienza, calmava le persone. Lucille si limitò a fissare lo sguardo sulla Bibbia che teneva ingrembo. Sul suo viso c’era un grande interrogativo. «Dio ha un piano» assicurò il pastore Peters.«Anche se l’agente Bellamy non ce l’ha.»

«Ma sono passate settimane» protestò Lucille.«E tutti e due sono in salute e vivi. Non è così?»

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«Suppongo.» Lei aprì la Bibbia a una pagina a caso. La aprì solo per controllare che le parole, ela Parola, fossero ancora lì. «Ma sono...» Cercò il termine giusto. Si sarebbe sentita meglio se fosseriuscita a trovare un’espressione ricercata in quel momento. «Sono... murati.»

«Si trovano nella stessa scuola in cui tutti i bambini di questa città hanno imparato a leggere escrivere» fece notare il pastore. Aveva passato di nuovo il braccio intorno a Lucille. «Sì, lo so chesembra diversa ora, con tutti quei soldati, ma è pur sempre la nostra scuola. È lo stesso edificio incui Jacob studiava tanti anni fa.»

«Era una scuola nuova, allora» lo interruppe Lucille. La sua mente tornò indietro nel tempo.«E sono sicuro che fosse bellissima.»«Oh, lo era. Nuova fiammante. Era molto più piccola, però. Fu solo in seguito, quando la città si

ingrandì, che aggiunsero le nuove ali.»«Quindi, non possiamo semplicemente pensarli ancora là, in quella bella scuola di un tempo?»Lucille non disse nulla.«Sono al riparo e ben nutriti.»«Perché io porto loro da mangiare!»«Il cibo migliore della contea.» Il pastore guardò la moglie con aria d’intesa. «Non faccio che

dire alla mia amata che dovrebbe venire a passare qualche settimana da lei e carpirle il segreto delsuo famoso clafoutis di pesche.»

Lucille sorrise e si schermì con un cenno della mano. «Non è niente di speciale. Porto damangiare perfino a Martin Bellamy.» Una pausa. «Nonostante tutto, mi piace. Sembra una bravapersona.»

Il pastore Peters le batté sulla schiena. «Certo che lo è. E lui e Harold e Jacob e quelli alla scuolache hanno la fortuna di assaggiare il suo clafoutis... perché ho saputo che lo fa in grandi quantità e lodistribuisce... sono tutti in debito con lei. La ringraziano tutti i giorni, lo so.»

«Solo perché sono prigionieri non significa che debbano mangiare quella sbobba che gli danno isoldati.»

«Credevo che ricevessero il cibo dal ristorante della signora Brown.»«Come ho detto... sbobba.»Risero tutti.«La situazione si calmerà» disse il pastore quando le risate si spensero. «Harold e Jacob ce la

faranno.»«Lei è stato in quel posto?»«Naturalmente.»«Dio la benedica» sospirò Lucille. Batté sulla mano del pastore. «Hanno bisogno di una guida

spirituale. Tutti, in quell’edificio, ne hanno bisogno.»«Faccio quello che posso. Ho parlato con l’agente Bellamy... lui e io parliamo spesso, per la

verità. Come ho già detto, sembra un uomo onesto. Credo che stia davvero facendo tutto quello chepuò. Ma, per come stanno andando le cose, con tutti i Redivivi di cui il Bureau si deve occupare...»

«Hanno messo al comando quell’orribile colonnello Willis.»«Così mi hanno detto.»La bocca di Lucille si strinse. «Qualcuno deve intervenire.» La sua voce era bassa, come acqua

che gorgoglia da una profonda crepa. «È un uomo crudele. Lo si capisce dai suoi occhi. Occhi chesfuggono. Avrebbe dovuto vederlo quando sono andata là per cercare di riavere con me Harold e

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Jacob. Gelido come dicembre, era. Una montagna sarebbe stata meno impassibile.»«Dio troverà un modo.»«Sì» annuì Lucille, anche se, da tre settimane, sempre più spesso le capitava di dubitarne. «Dio

troverà un modo» ripeté. «Comunque, io sono preoccupata.»«Ognuno di noi ha le proprie preoccupazioni» disse il pastore.

Fred Green viveva solo da svariati decenni. Si era abituato al silenzio. E, anche se non era un grancuoco, da tempo ormai aveva imparato a scaldarsi precotti surgelati e a stracuocere un’occasionalebistecca.

Era sempre stata Mary a cucinare.Quando non coltivava i campi, Fred era alla segheria, a cercare di accaparrarsi dei lavori.

Raramente arrivava a casa prima che facesse buio e ogni giorno si sentiva un po’ più stanco delprecedente. Ultimamente, però, aveva difficoltà a procurarsi del lavoro, perché c’era un’ampiadisponibilità di uomini giovani, che aspettavano sin dalle prime luci dell’alba che i capocantieriscegliessero gli operai con cui volevano lavorare quel giorno.

E anche se in carpenteria l’esperienza era importante, la gioventù era impossibile da battere.Quindi ogni sera Fred Green se ne tornava a casa, si scaldava una cena surgelata nel microonde, si

sedeva sul divano e guardava il telegiornale, dove parlavano solo dei Redivivi.Ascoltava con un orecchio solo quello che dicevano i giornalisti. Passava la maggior parte del

tempo a ribattere, a insultarli, afferrando solo qualche frase qua e là sul flusso di Redivivi che stavadiventando ogni giorno più consistente.

Quei frammenti di notizia non facevano che accrescere il suo disagio, riempiendolo di unbruttissimo presentimento.

Ma c’era dell’altro: una sensazione che non riusciva a definire. In quelle ultime settimane era statotormentato dall’insonnia. Ogni sera si metteva a letto nella sua casa vuota e silenziosa, come facevada decenni, e si rigirava fino a mezzanotte passata. E quando finalmente riusciva ad addormentarsi, ilsuo era un sonno irregolare e leggero, privo di sogni eppure agitato.

Certe mattine si svegliava con le mani coperte da lividi di cui incolpava la testiera di legno. Unanotte ebbe l’impressione di cadere, e si svegliò un istante prima di toccare il pavimento, con il visobagnato di lacrime e la gola chiusa da un’infinita, indescrivibile tristezza.

Rimase per terra a singhiozzare, arrabbiato per cose che non riusciva a esprimere a parole, latesta piena di frustrazione e struggimento.

Chiamò sua moglie.Non ricordava l’ultima volta in cui aveva pronunciato il nome di lei. Formò la parola sulla lingua

e la proiettò in aria come un missile, ascoltando il suono riecheggiare nella disordinata casa chesapeva di muffa.

Continuò a restare sul pavimento, in attesa. Come se Mary potesse uscire da qualche nascondiglio,abbracciarlo, baciarlo e cantare per lui, con quella splendida voce che gli mancava tanto, portandomusica nella sua vita dopo anni di vuoto.

Ma nessuno rispose.Alla fine si alzò dal pavimento. Entrò nella cabina armadio e tirò fuori un baule che non vedeva la

luce da decenni. Era nero, con le cerniere d’ottone coperte da una sottile patina. Parve sospirarequando lui lo aprì.

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Era pieno di libri, di spartiti, di scatole contenenti bigiotteria e soprammobili che ormai nessunoin casa apprezzava più. Sul fondo, sotto una camicetta di seta con delle roselline applicate sul collo,c’era un album di foto. Fred lo prese, si sedette sul letto e lo spolverò. La copertina si sollevò conuno scricchiolio.

Ed eccola lì, sua moglie, che gli sorrideva.Fred aveva quasi scordato la rotondità del suo viso, i riflessi scuri dei suoi capelli. Aveva

dimenticato la sua espressione perennemente perplessa... e come fosse stata la cosa che lui piùamava in lei. Anche quando litigavano, Mary era sempre parsa confusa, quasi vedesse il mondo comenessun altro e proprio non riuscisse a capire perché tutti si comportavano come facevano.

Fred continuò a sfogliare le pagine dell’album cercando di non pensare al suono che aveva avutola voce di Mary quando cantava per lui nelle lunghe notti in cui non riuscivano a dormire. Aprì echiuse la bocca, come se cercasse di pronunciare una parola che, ostinatamente, si rifiutava di uscire.

Poi si imbatté in una foto che lo fece trasalire. Il sorriso di Mary non era più tanto luminoso. Lasua espressione non era perplessa, ma decisa. Era stata scattata in un pomeriggio di sole non moltotempo dopo che lei aveva perso il bambino.

Era stato il loro segreto, quella tragedia. Appena avevano avuto la conferma della gravidanza daldottore, era finito tutto. Una notte Fred si era svegliato e l’aveva sentita singhiozzare in bagno.

Lui aveva sempre avuto il sonno profondo. «Svegliare te è come cercare di svegliare un morto»aveva scherzato una volta Mary. Ancora oggi, lui si chiedeva se lo avesse chiamato, quella notte, seavesse chiesto il suo aiuto e lui non l’avesse sentita. Sicuramente avrebbe potuto fare qualcosa.

Come faceva un uomo a dormire quando sua moglie stava male?, si chiese. Come aveva potutoronfare come uno stupido animale, mentre la piccola brace della vita di suo figlio si stavaspegnendo?

Avevano pensato di annunciare la gravidanza agli amici in occasione della festa di compleanno diMary, il mese dopo. Ma poi non era più stato necessario. Solo il dottore aveva saputo cosa fossesuccesso.

L’unica indicazione del dolore che li aveva colpiti, da quel giorno, era stata l’opacità del sorrisodi lei, un’opacità che Fred non poteva dimenticare.

Sfilò la foto dalla pellicola autoadesiva. Sapeva di colla vecchia e di muffa. Quella notte, per laprima volta dalla morte della moglie, pianse.

Il mattino dopo Fred andò alla segheria, ma il capocantiere non lo scelse. Tornò a casa e controllò icampi, ma neanche lì c’era da fare. Così salì sul pickup e si recò a casa di Marvin Parker.

Marvin viveva di fronte al cancello principale della scuola in cui stavano trattenendo i Redivivi.Talmente vicino che poteva starsene seduto in giardino e guardar arrivare i pullman pieni diRedivivi. Ed era proprio quello che stava facendo quel mattino.

Per qualche motivo, Fred sentiva che era lì che doveva stare. Aveva bisogno di vedere coi propriocchi cosa stesse succedendo nel mondo. Aveva bisogno di vedere le facce dei Redivivi.

Sembrava quasi che stesse cercando qualcuno.

Harold era seduto in fondo alla sua branda, in quella che un tempo era stata l’aula di educazioneartistica della signora Johnson. Avrebbe voluto che gli facesse male la schiena, anche solo perpotersene lagnare. Aveva scoperto che riusciva a riflettere meglio su questioni serie o sconcertanti

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dopo una buona, vigorosa lamentela sul suo mal di schiena. Rabbrividiva al pensiero di cosa sarebbesuccesso se, per qualche motivo, non fosse mai stato un brontolone. Lucille avrebbe potutosantificarlo.

Accanto alla branda di Harold c’era quella in cui dormiva Jacob. Il cuscino e la coperta delbambino erano impilati ordinatamente accanto alla testiera. La coperta era una di quelle che avevafatto Lucille ai ferri. Era colorata, con punti intrecciati e ricami che ci sarebbe voluto un attacconucleare per disfare. Gli angoli erano ben ripiegati. Il guanciale perfettamente liscio.

Che bambino ordinato, pensò Harold, cercando di ricordare se fosse stato sempre così.«Charles?»Harold sospirò. Sulla porta dell’aula diventata un dormitorio c’era la vecchia. Una Rediviva. La

luce del pomeriggio che entrava dalla finestra le cadeva sul viso. Sullo stipite c’erano schizzi divernice di vari colori, resti di anni di progetti d’arte. Gialli squillanti erano accanto a rossi infuocati,tutti stranamente vividi se si considerava quanto dovevano essere vecchi.

Incorniciavano l’anziana donna con un arcobaleno di colori, conferendole un’aria magica.«Sì?» disse Harold.«Charles, a che ora partiamo?»«Presto.»«Arriveremo in ritardo, Charles. E io non sopporto di arrivare tardi. È cattiva educazione.»«Sta’ tranquilla. Ci aspetteranno.»Harold si alzò, stirò le braccia, si avvicinò lentamente alla vecchia, la signora Stone, e la

accompagnò fino alla sua branda nell’angolo. Era una grossa donna nera, di ottant’anni passati,senile. Ma era ancora in grado di prendersi cura di se stessa e del proprio letto. Era sempre pulita,aveva i capelli in ordine. I pochi indumenti che possedeva riuscivano a restare immacolati.

«Non hai motivo di preoccuparti» disse Harold. «Non faremo tardi.»«Ma siamo già in ritardo.»«Abbiamo tutto il tempo.»«Sei sicuro?»«Sicurissimo, cara.» Sorrise e le batté su una mano mentre lei si calava sulla branda. Harold si

sedette sul bordo e lei si girò su un fianco. Un attimo dopo si stava già appisolando. Le succedevasempre così: un’improvvisa eccitazione, un inevitabile stress, poi un improvviso, profondo sonno.

Harold rimase seduto accanto alla signora Stone, Patricia si chiamava, finché non si addormentò.Poi, a dispetto del caldo di giugno, la coprì con la coperta presa dal letto di Jacob. Lei mormoròqualcosa sul fatto che non bisognava far aspettare le persone. Poi le sue labbra si rilassarono, ilrespiro si fece lento e regolare.

Harold tornò a sedersi sulla propria branda. Gli dispiaceva di non avere un libro. Avrebbechiesto a Lucille di portargliene uno, quando sarebbe venuta a trovarlo. Purché non si trattasse di unaBibbia o di un’altra scempiaggine del genere.

Si grattò il mento, riflettendo. C’era lo zampino di Bellamy, lì. Anche se la sua autorità eradiminuita da quando il Bureau aveva cominciato a rinchiudere la gente, l’agente Martin Bellamy eraancora la persona più informata e influente della zona.

Era lui che si occupava dei viveri e di assegnare le stanze, di procurare gli indumenti e diassicurarsi che tutti avessero articoli da toilette e oggetti di prima necessità. Teneva un registro delVeri Vivi e dei Redivivi.

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Aveva la responsabilità di tutto questo, anche se erano altri a fare il lavoro di gambe. Tuttavia,Harold stava cominciando a scoprire, grazie ai soldati che parlavano tra loro a voce alta mentregiravano per la scuola, che era sempre meno il lavoro di gambe, ultimamente.

Ormai il Bureau si limitava a trattenere i morti, immagazzinandoli come derrate. Di tanto in tanto,se trovavano qualche personalità nota o di valore, facevano un’eccezione e le compravano unbiglietto aereo per tornare a casa, ma quasi sempre i Redivivi venivano tenuti dove spuntavano.

Forse non era così dappertutto, pensava Harold, ma presto sarebbe stata una procedurageneralizzata. Stava diventando più facile ed economico assegnare al Redivivo un numero e unfascicolo, fargli qualche domanda, inserire pochi dati nel computer, e dimenticarsene. Se la personasembrava valere lo sforzo, e succedeva sempre più di rado, arrivavano a fare una ricerca su Internetinserendo il suo nome. Ma tutto finiva lì. Troppo spesso si limitavano a poche battute sulla tastiera equalche clic. Poco più di niente.

Ora che la vecchia si era addormentata, Harold lasciò la stanza e si incamminò per i corridoi dellascuola affollata. Sin da quando avevano cominciato ad arrestare i Redivivi, quella sistemazione erastata inadeguata. E ogni giorno, da quel momento, lo diventava sempre di più. Mentre prima neicorridoi c’era stato spazio per circolare, adesso c’erano solo brande e persone che le presidiavanoper paura che qualche nuovo arrivato gliele portasse via. Anche se la situazione non era ancoradegenerata al punto di avere più corpi che letti, stava nascendo una gerarchia.

Quelli con dei diritti acquisiti avevano il letto nell’edificio scolastico principale, dove tuttofunzionava e i servizi erano comodi. I nuovi arrivati (a parte i vecchi e i malati, perché per loro c’eraancora posto all’interno) finivano nel parcheggio e in alcuni tratti della strada intorno alla scuola, inun’area chiamata Tendopoli.

La Tendopoli era un tetro assembramento verdastro fatto di tende talmente vecchie che Harold nonriusciva a guardarle senza evocare qualche ricordo di gioventù. Ricordi tanto distanti che sulloschermo cinematografico della sua mente apparivano in bianco e nero.

Ciò che li aveva salvati fino a quel momento era che il clima era stato clemente. Caldo, umido, manon piovoso.

Harold attraversò la Tendopoli verso la palizzata sud, dove viveva l’amico di Jacob, un bambinodi nome Max. Al di là della recinzione, le guardie camminavano lente, i fucili all’altezza della vita.

«Stupidi bastardi» bofonchiò Harold, come faceva sempre.Alzò gli occhi verso il sole. Sembrava più cocente. Un filo di sudore colò al centro della sua

fronte, finendo per gocciolargli dalla punta del naso.A un tratto l’afa si era accentuata. Di almeno cinque gradi. Era come se il sole si fosse abbassato

e si fosse appollaiato sulle sue spalle per sussurrargli a un orecchio qualcosa di importante.Harold si strofinò la faccia e asciugò il palmo della mano sui pantaloni.«Jacob?» chiamò. Un tremito partì dalla base della sua spina dorsale per scendergli nelle gambe.

Si coagulò all’altezza delle ginocchia. «Jacob, dove sei?»Poi, all’improvviso, la terra gli venne incontro.ina Bianca

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Jeff Edgeson

Se si doveva credere all’orologio appeso al muro, l’ora di Jeff con il colonnello era quasi allafine. Il colonnello aveva passato gli ultimi cinquantacinque minuti a fargli domande che a quelpunto entrambi conoscevano a menadito. Jeff avrebbe preferito leggere. Un buon libro cyberpunko, perché no, un romanzo di fantascienza. Lui aveva un debole per gli autori dall’immaginazionefervida. L’immaginazione era una cosa rara e importante, a suo parere.

«Secondo lei cosa succede quando moriamo?» chiese il colonnello.Quella era una domanda nuova, anche se non molto originale. Jeff ci pensò un attimo, un po’

turbato alla prospettiva di parlare di religione con il colonnello. Quell’uomo cominciava apiacergli. Gli ricordava suo padre.

«Le alternative sono due, direi. Paradiso o inferno» rispose Jeff. «Suppongo dipenda da quantoci si è divertiti in vita.» Accennò una risatina.

«Ne è sicuro?»«No.» Jeff scosse la testa. «Sono ateo da tempo. E poi, non sono mai stato sicuro di niente.»«E adesso?» Il colonnello si raddrizzò sulla sedia e le sue mani sparirono sotto il tavolo, come

se stesse cercando qualcosa.«Continuo a non essere sicuro di niente» rispose Jeff. «La storia della mia vita.»Il colonnello Willis si tolse di tasca un pacchetto di sigarette e le tese al giovanotto.«Grazie.» Jeff se ne accese una.«Non deve per forza essere un colloquio insopportabile» disse il colonnello. «Ognuno di noi ha

un suo ruolo qui... sia io che lei.»Jeff annuì. Si appoggiò all’indietro contro lo schienale ed esalò un lungo pennacchio bianco.

In quel momento non gli importava di quanto fosse scomoda la sedia o di quanto fossero nude lepareti o del fatto che, da qualche parte, in questo mondo, aveva un fratello che il colonnello nongli permetteva di cercare.

«Non sono un uomo crudele» disse il colonnello, come se avesse letto nel pensiero di Jeff. «Hosemplicemente un ruolo spiacevole da svolgere.» Si alzò. «Ma ora devo andare. Abbiamo un altropullman in arrivo questa sera.»

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9

Harold riprese conoscenza sotto il sole più abbagliante e implacabile che avesse mai visto. Tuttosembrava remoto, confuso, come se avesse preso troppi farmaci. C’erano delle persone accalcateintorno a lui. Sembravano tutti più alti del normale, esageratamente allungati. Harold chiuse gli occhie respirò a fondo. Quando li riaprì, Martin Bellamy era in piedi accanto a lui, con un’espressioneseria e ufficiale. Continuava a indossare la sua dannata giacca anche con tutto quel caldo, pensòHarold.

Si tirò su a sedere. Gli doleva la testa. Era stato fortunato a cadere sull’erba e non sull’asfalto.C’era qualcosa nei suoi polmoni. Qualcosa di umido e pesante. Tossì.

Un colpo di tosse portò a un altro, e poi non fu più una normale tosse, ma una vera e propria crisi.Si piegò in due, il corpo squassato. Dei puntini gli apparvero davanti agli occhi, puntini tremolanti.

Quando l’assalto alla fine si calmò, Harold si trovò di nuovo sdraiato sull’erba con una copertasotto la testa. Aveva il sole negli occhi e il corpo madido di sudore.

«Cos’è successo?» chiese. Si sentiva qualcosa di liquido e aspro in gola.«È svenuto» spiegò Martin Bellamy. «Come si sente?»«Accaldato.»L’agente Bellamy sorrise. «È una giornata afosa.»Harold cercò di mettersi a sedere ma gli girava la testa. Chiuse gli occhi e tornò a sdraiarsi sul

prato. L’odore di erba calda gli fece pensare a quando era bambino, un tempo in cui sdraiarsi su unprato in un caldo pomeriggio di giugno non dipendeva dal fatto di essere svenuto.

«Dov’è Jacob?» chiese, gli occhi ancora chiusi.«Sono qui» rispose il bambino, facendosi strada fra la gente che si era radunata intorno ad Harold.

Arrivò di corsa, col suo amico Max al seguito. Si inginocchiò accanto al padre e gli prese la mano.«Non ti ho spaventato, vero, piccolo?»«No, signore.»Harold sospirò. «Bene.»L’amico di Jacob, Max, che si era rivelato un bambino molto dolce e premuroso, si inginocchiò

accanto alla testa di Harold, si sfilò la maglietta e la usò per tergere la fronte dell’uomo.«Sta bene, signor Harold?»Max era un Redivivo del ceppo britannico. Completo di accento e buone maniere. Lo avevano

trovato nella contea di Bladen, poco lontano da dove era stato trovato quel giapponese svariatesettimane prima. Sembrava che la contea di Bladen stesse diventando un ricettacolo di esoticiindividui tornati dal’aldilà.

«Sì, Max.»«Perché sembrava che stesse proprio male, e se sta male dovrebbe andare in ospedale, signor

Harold.»A dispetto della sua calma, stoica natura da Redivivo e del suo raffinato accento britannico, Max

parlava a macchinetta.«Mio zio è stato male tanto tempo fa» riprese Max. «E lo hanno portato in ospedale. Poi è stato

ancora più male e tossiva proprio come ha tossito lei ora, solo peggio, e poi... insomma, signor

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Harold, è morto.»Harold annuì, anche se non aveva ascoltato più nulla dopo l’iniziale mio zio è stato male.«Va bene, Max» disse, gli occhi sempre chiusi. «Bene.»Rimase sdraiato a terra ancora a lungo, con le palpebre abbassate e il sole che gli cuoceva le

ossa. Sopra il rumore dei passi dei soldati che marciavano diligenti all’esterno della recinzione, gliarrivavano alle orecchie frammenti di conversazioni. Non gli era parso di essere stato tanto vicino alperimetro quando la tosse aveva cominciato a squassarlo, ma ora si rese conto di essere ai marginidell’accampamento.

La sua mente cominciò a divagare...Visualizzò l’asfalto del parcheggio della scuola. Poi il terreno oltre il recinto. Svoltò sulla Main

Street e superò la stazione di servizio e la fila di negozietti. Vide amici e conoscenti, tutti indaffaraticome sempre. Qualcuno gli sorrise, o fece un cenno con la mano, e forse un paio gli gridarono unsaluto.

Harold si accorse che stava guidando il vecchio pickup che aveva posseduto nel 1966. Erano anniche non pensava più a quel pickup, ma ora lo ricordava in ogni dettaglio. I grandi sedili morbidi. Laforza bruta che ci voleva per girare quel dannato volante. Harold si chiese se i giovani sapesseroapprezzare il lusso di un servosterzo. Proprio come avveniva con i computer: erano diventatitalmente comuni che venivano dati per scontati.

In questa visione, Harold attraversò l’intera città, e poco per volta si rese conto che non c’era unsolo Redivivo per le strade. Lasciò l’abitato lungo la statale che portava verso casa, con il pickupche ronfava piano sotto di lui.

A casa, lottò con il volante per immettersi nel vialetto e trovò Lucille, giovane e bella. Era sedutasul portico alla luce dorata del sole, con la schiena perfettamente eretta e quell’aria regale eimportante che Harold non aveva mai visto in nessun’altra donna. I lunghi capelli corvini lescendevano sulle spalle e scintillavano nel sole. Era una creatura aggraziata e aristocratica. Lointimidiva, ed era per questo che lui la amava tanto. Jacob correva intorno alla quercia davanti alportico, preso da un’immaginaria battaglia tra buoni e cattivi.

Era così che le cose avrebbero dovuto essere.Poi il bambino girò dietro il tronco e non sbucò dall’altra parte. Sparito, in un istante.

L’agente Bellamy era inginocchiato sull’erba; alle sue spalle, due paramedici dall’aria ansiosagettavano un’ombra sul viso madido di sudore di Harold.

«Le è già capitato?» chiese uno di loro.«No» rispose Harold.«Ne è sicuro? Devo andare a prendere la sua cartella medica?»«Può fare quello che vuole, suppongo» borbottò Harold. Gli stavano tornando le forze, e con esse

saliva una lenta marea di rabbia. «È uno dei vantaggi di essere dipendenti governativi, no? Aveteinformazioni su ognuno di noi in qualche dannato fascicolo.»

«Può darsi» convenne Bellamy. «Ma non è il momento di fare polemiche.» Fece un cenno aiparamedici. «Assicuratevi che stia bene. Forse con voi coopererà più di quanto non abbia fatto conme.»

«Non ci conti» borbottò Harold. Detestava fare conversazione mentre era sdraiato sulla schiena,ma in quel momento non aveva alternative. Ogni volta che provava a mettersi seduto, Jacob premeva

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gentilmente sulle sue spalle con un’espressione preoccupata sul faccino.Bellamy si alzò e si spazzolò qualche filo d’erba dalle ginocchia. «Cercherò di recuperare la sua

cartella medica. Annotateci l’accaduto, ovviamente.» Agitò una mano, facendo un cenno a qualcuno.Due soldati si avvicinarono.«Tanto trambusto per un vecchio stanco» disse Harold ad alta voce, riuscendo finalmente a

sedersi con un grugnito.«Su, su» disse il paramedico. Afferrò Harold per un braccio con forza sorprendente. «Dovrebbe

sdraiarsi e permetterci di visitarla, signore.»«Rilassati» disse Jacob.«Sì, signor Harold. È meglio che si corichi» intervenne Max. «Le stavo dicendo di mio zio. Un

giorno si è sentito male, non voleva farsi visitare, e urlava ai dottori quando gli si avvicinavano. Poiè morto.»

«Okay, okay, okay» disse Harold. La rapidità con cui quel bambino parlava era sufficiente aminare il suo moto di ribellione. E, comunque, tutto a un tratto si sentiva davvero stanco. Così cedettee decise di sdraiarsi sull’erba e di lasciare che i paramedici facessero quello che volevano.

E se avessero fatto qualcosa di inammissibile, pensò, avrebbe sempre potuto denunciarli. Erano inAmerica, dopotutto.

Max si lanciò in un altro aneddoto sulla morte dello zio e Harold fu cullato nell’incoscienza dalrapido martellare della voce del bambino.

«Arriveremo in ritardo» disse l’anziana donna nera.Harold si mise a sedere sulla propria branda, incerto su come ci fosse arrivato. Si trovava nella

sua stanza, dove faceva un po’ più fresco. Guardò verso la finestra e vide che il sole stavatramontando, così dedusse che fosse la stessa giornata, solo più tardi. Sul suo avambraccio, unafasciatura copriva un prurito dove probabilmente, a un certo punto, gli avevano infilato un ago.

«Dannati dottori.»«È una brutta parola» fece notare Jacob. Lui e Max erano seduti a giocare per terra. Saltarono su e

corsero al letto. «Prima non ho detto niente, ma mamma non vuole che tu dica dannato» ripreseJacob.

«È proprio una brutta parola» convenne Harold. «Che ne dici se non lo raccontiamo allamamma?»

«Okay.» Jacob sorrise. «Vuoi sentire un indovinello?»«Oh sì» intervenne Max. «È un indovinello fantastico, signor Harold. Uno dei più divertenti che

abbia mai sentito. Mio zio...»Harold alzò una mano per interromperlo. «Qual è l’indovinello, figliolo?»«Cos’è che teme di più un gattopardo?»«Non saprei proprio» disse Harold, anche se ricordava di averglielo insegnato lui, non molto

tempo prima che il bambino morisse.«Un canepardo!»Scoppiarono tutti a ridere.«Non possiamo restare qui tutto il giorno» disse Patricia dal suo letto. «Siamo già in ritardo.

Terribilmente, terribilmente in ritardo. È maleducazione far aspettare la gente. Cominceranno apreoccuparsi per noi!» Allungò una mano scura e la posò sul ginocchio di Harold. «Per favore,

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detesto essere scortese. Mia madre mi ha insegnato l’educazione. Possiamo andare subito? Sonopronta.»

«Presto» disse Harold, anche se non sapeva perché.«Sta bene la signora?» chiese Max.Il bambino di solito parlava per paragrafi, così Harold aspettò il resto della tiritera. Ma il resto

non arrivò mai. Patricia si lisciava i vestiti e passava lo sguardo dall’uno all’altro, dato che nonaccennavano a prepararsi. Questo la turbava molto.

«È solo confusa» spiegò finalmente Harold.«Non sono confusa!» protestò Patricia, ritirando la mano di scatto.«No» le disse Harold. Le prese la mano e gliela strinse gentilmente. «Non sei confusa. E non

arriveremo in ritardo. Hanno chiamato poco fa e hanno cambiato l’orario. Dobbiamo andare piùtardi.»

«Hanno annullato?»«No. Certo che no. Hanno solo cambiato l’orario.»«È così, vero? Hanno annullato tutto perché siamo in ritardo! Sono arrabbiati con noi! È

terribile.»«Non è andata affatto così» assicurò Harold. Si spostò sul letto di lei, lieto che il proprio corpo

stesse tornando alla normalità; forse quei dannati dottori non erano poi tanto male. Passò il bracciointorno alla grossa schiena della donna e le batté su una spalla. «Hanno solo cambiato l’orario, tuttoqua. C’è stato un problema con il buffet, sembra. Gli addetti al catering hanno combinato un guaio incucina e hanno bisogno di più tempo.»

«Ne sei sicuro?»«Sicurissimo» disse Harold. «Anzi, abbiamo ancora tanto tempo che credo tu possa schiacciare un

pisolino. Sei stanca?»«No.» Lei corrugò le labbra. Poi: «Sì». Si mise a piangere. «Sono tanto, tanto stanca.»«Conosco la sensazione.»«Oh» sospirò lei. «Oh, Charles! Cosa c’è che non va in me?»«Niente.» Harold le accarezzò i capelli. «Sei solo stanca. Tutto qua.»Lei lo guardò con il terrore negli occhi, come se, per un istante, si fosse resa conto che Harold non

era colui che fingeva di essere. Poi il momento passò e lei fu di nuovo una stanca, confusa vecchia elui il suo Charles. Appoggiò la testa sulla spalla di Harold e pianse, anche solo perché le sembravala cosa giusta da fare.

In breve tempo la donna si era addormentata. Harold la sistemò meglio sul materasso, le scostòqualche ciocca dalla fronte e la guardò sconcertato.

«È terribile» disse.«Cosa?» chiese Jacob con la sua voce piatta e monotona.Harold si sedette in fondo al proprio letto e si esaminò le mani. Si fissò l’indice e il medio come

se stringessero uno di quei sottili, meravigliosi cilindri di nicotina e sostanze cancerogene. Si portòle dita vuote alle labbra. Inalò. Trattenne il fiato. Lo lasciò andare, tossendo un po’ quando i suoipolmoni finirono l’aria.

«Non dovrebbe fumare» disse Max.Jacob annuì con approvazione.

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«Mi aiuta a pensare» disse Harold.«A cosa sta pensando?» chiese Max.«Mia moglie.»«La mamma sta bene» disse Jacob.«Certo che sta bene» assicurò Harold.«Jacob ha ragione» intervenne Max. «Le mamme stanno sempre bene perché il mondo non

andrebbe avanti senza di loro. È quello che mi ha detto il mio papà prima di morire. Ha detto che lemamme sono il perno intorno a cui gira il mondo e che se non ci fossero tutti sarebbero cattivi eaffamati e i popoli si combatterebbero tra loro e niente di buono succederebbe a nessuno.»

«Aveva ragione» disse Harold.«Il mio papà diceva sempre che la mia mamma era la migliore del mondo. Diceva che non

l’avrebbe scambiata con nessun’altra, ma io credo che sia il genere di cosa che tutti i papà debbanodire. Scommetto che anche Jacob pensi questo della sua mamma... di sua moglie, signor Harold...perché è ciò che ci si aspetta un figlio pensi. È così che vanno le cose...»

Il bambino smise di parlare di colpo e fissò lo sguardo nel vuoto. Harold era lieto del silenzio, maanche innervosito dalla sua repentinità. Max sembrava perplesso, come se a un tratto gli si fossesvuotata la mente.

Poi gli occhi del piccolo Redivivo rotearono all’indietro. Cadde per terra e ci rimase come sedormisse. Solo un rivoletto di sangue sul suo labbro inferiore indicava che qualcosa era andatostorto.

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Tatiana Rusesa

Erano bianchi, perciò lei sapeva che non l’avrebbero uccisa. Meglio ancora, erano americani,quindi era sicura che l’avrebbero trattata bene.

Non le dispiaceva che non le permettessero di andarsene; avrebbe voluto solamente poterliaiutare un po’ di più.

Prima che la portassero lì, era stata in un altro posto. Non era grande come quello, e lepersone che stavano con lei ora non erano le stesse di prima, anche se non erano molto diverse.Dicevano che lavoravano per qualcosa che chiamavano “il Bureau”.

Le portavano del cibo. Le avevano dato un letto. Lei indossava ancora il vestito bianco e bluche le aveva regalato la donna nell’altro posto. Si chiamava Cara, ricordò, e parlava sia ingleseche francese ed era stata molto gentile, ma Tatiana si rendeva conto di non essere di alcun aiutoper loro e questo era come un peso sulle sue spalle.

Ogni mattina alle dieci l’uomo arrivava per portarla nella stanza senza finestre e le parlava...lentamente e con voce chiara, come se non fosse sicuro che lei capisse l’inglese; ma era statabrava a scuola e l’inglese le sembrava una lingua facile e sintetica.

L’accento di lui era strano e qualcosa le diceva che, per lui, quello di lei poteva esserloaltrettanto. Lei rispondeva alle domande con la lentezza e la chiarezza con cui erano state poste, equesto sembrava fargli piacere.

Riteneva fosse importante compiacerlo. Altrimenti, forse lui avrebbe detto loro di mandarla acasa.

Così ogni giorno, da molti giorni ormai, lui veniva a prenderla e la portava in quella stanzadove faceva le sue domande, e lei cercava, come meglio poteva, di rispondere.

Aveva avuto paura di lui al principio. Era un uomo grosso e i suoi occhi erano duri e freddi,come la terra in inverno, ma era sempre molto cortese, anche se, lei lo sapeva, non gli dicevaniente di utile.

Lei aveva persino cominciato a trovarlo un bell’uomo. A dispetto della durezza dei suoi occhi,erano di una piacevole sfumatura di azzurro e i suoi capelli avevano il colore dei campi di erbasecca al tramonto. Sembrava molto, molto forte. E la forza, lei lo sapeva, era una cosa che lepersone di bell’aspetto dovevano avere.

Quel giorno, quando venne a prenderla, sembrava più distaccato del solito. Certe volte leportava delle caramelle, che si mangiavano mentre andavano nella stanza senza finestre. Nonaveva portato caramelle oggi e, anche se era già successo, ora le parve strano.

Lui non conversò mentre si recavano alla stanza. Si limitò a camminare in silenzio e lei siaffrettò per stare al passo con lui, il che le diede la sensazione che le cose sarebbero state diversedal solito. Più serie, forse.

Quando furono nella stanza, lui chiuse la porta come faceva sempre. Si fermò brevemente eguardò la telecamera appesa nell’angolo sopra la porta. Non lo aveva mai fatto prima. Poicominciò con le sue domande, parlando lentamente e in modo chiaro come sempre.

«Prima che ti trovassero in Michigan, qual è l’ultima cosa che ricordi?»«Soldati» rispose lei. «E la mia casa... Sierra Leone.»«Cosa facevano i soldati?»

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«Uccidevano.»«Hanno ucciso anche te?»«No.»«Ne sei sicura?»«No.»Anche se erano passati diversi giorni da quando lui le aveva posto quelle particolari domande,

lei conosceva le risposte a memoria. Le conosceva bene quanto conosceva le domande di lui.Al principio lui le aveva fatto le stesse domande tutti i giorni. Poi aveva smesso e aveva

cominciato a chiederle di raccontargli delle storie, e a lei questo piaceva. Gli parlava di quandotutte le sere la sua mamma inventava per lei favole su divinità e mostri. «“Persone ed eventimagici e soprannaturali sono la linfa vitale del mondo” era solita dire mia madre.»

Per quasi un’ora lui le fece le domande che tutti e due sapevano a menadito. Alla fine dell’ora,perché di un’ora erano i loro colloqui, lui le fece una domanda nuova.

«Secondo te, che cosa succede quando moriamo?»Lei ci pensò un attimo, un po’ sconcertata. E impaurita.Ma lui era bianco, ed era un americano, perciò lei sapeva che non le avrebbe fatto del male.«Non lo so» rispose.«Ne sei sicura?» chiese lui.«Sì.»Allora le venne in mente quello che le aveva detto una volta sua madre sulla morte. La morte è

solo l’inizio di un ricongiungimento che non si sa di volere, aveva detto. Stava per riferirlo alcolonnello Willis quando lui estrasse la pistola e le sparò.

Poi rimase seduto a guardarla, curioso di vedere cosa sarebbe successo.Non sapeva che cosa aspettarsi esattamente, ma si trovò da solo con un corpo senza vita e

sanguinante che, appena un momento prima, era stato una dolce bambina che lo avevaconsiderato una brava persona.

L’aria nella stanza parve viziata. Il colonnello si alzò e uscì, fingendo di non sentire ancoranelle orecchie la voce di Tatiana, tutte le conversazioni che loro due avevano avuto, sopra l’ecodello sparo.

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10

«Quel povero, povero bambino» disse Lucille, stringendosi Jacob al petto. «Quel povero, poverobambino.» Era tutto quello che riusciva a dire sulla morte di Max, ma lo diceva spesso e lo diceva inmodo sentito.

Che brutto mondo, pensava, quello in cui succedevano certe cose. Com’era possibile che unbambino, qualunque bambino, fosse vivo e in salute un momento, e salisse alla Gloria di Dio ilsuccessivo? «Quel povero, povero bambino» ripeté.

Era mattino presto e la sala delle visite che il Bureau aveva allestito presso la scuola di Arcadiaera praticamente vuota. Le guardie sonnecchiavano o parlavano del più e del meno tra loro. Nondavano l’impressione di curarsi del vecchio che era stato arrestato con il figlioletto Redivivo e sirifiutava di lasciarlo, né si curavano dell’anziana donna dai capelli grigi che veniva a trovarli.

E sembrava che non importasse loro neppure del bambino Redivivo che era morto solo l’altrogiorno. Questo addolorava Lucille. Non avrebbe saputo dire esattamente come avrebbero dovutocomportarsi per testimoniare che una vita era andata perduta. Indossare una fascia nera al braccio?Sembrava appropriato. O forse era solo un’idea stupida. Le persone morivano. Anche i bambini.Così andava il mondo.

La sala delle visite era fatta di lamiera ondulata affrancata a montanti di metallo. Grossiventilatori all’entrata e alle uscite cercavano di rendere l’aria più respirabile. Era stata arredata contavoli e panche.

Jacob era seduto tranquillo in braccio alla madre, e soffriva di quel senso di colpa che provano ibambini alla vista della loro mamma in lacrime. Harold era seduto sulla panca accanto a Lucille e leteneva un braccio sulle spalle. «Su, coraggio, mia vecchia nemesi» le disse. La sua voce era dolce,piena di gentilezza e gravità, un tono che lui non credeva più di avere in sé dopo tanti anni passati acomportarsi in modo... sgradevole non era la parola che avrebbe scelto, ma... «È una di quelle coseche capitano» disse. «I dottori parlano di un aneurisma.»

«I bambini non hanno aneurismi» ribatté Lucille.«Li hanno. Anche se raramente. Forse gli era successo anche la prima volta. Forse così era

morto.»«Dicono che ci sia un’epidemia. Non ci credo, ma l’ho sentito dire.»«Non c’è altra epidemia che la stupidità» ribatté Harold.Lucille si tamponò gli occhi. Si aggiustò il colletto del vestito.Jacob si divincolò dalle sue braccia. Indossava i vestiti nuovi che lei gli aveva portato. Erano

puliti e soffici, come solo dei vestiti nuovi possono essere.«Posso farti un indovinello, mamma?»Lucille annuì. «Ma niente di sporco, okay?»«Scherzi?» protestò Harold. «Gli ho sempre insegnato solo indovinelli cristiani...»«Ne ho abbastanza di voi due!»«Non angustiarti per Max» disse Harold. Si guardò attorno. «Max se n’è andato in... sì, ovunque

vadano le persone quando muoiono... molto tempo fa. Questo qui era solo un’ombra che...»«Smettila» disse Lucille piano. «Max era un bravo bambino. Lo sai anche tu.»

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«Sì.» Harold sospirò. «Max era un bravo bambino.»«Era diverso?» domandò Jacob, il faccino corrugato in una specie di smorfia di confusione.«Cosa intendi dire?» chiese Harold. Prima di quel momento, Jacob non aveva mai accennato a

quello di cui tutti volevano che i Redivivi parlassero: loro stessi.«Era diverso da come era stato prima?» chiarì Jacob.«Non lo so, tesoro» rispose Lucille. Prese la mano del figlio. Come aveva visto fare nei film, non

poté fare a meno di pensare. Aveva guardato troppa televisione ultimamente. «Non conoscevo beneMax. Tu e il tuo papà avete passato con lui molto più tempo di me.»

«Anche noi lo conoscevamo appena» intervenne Harold con solo un accenno d’asprezza nellavoce.

Jacob si girò a guardare il volto avvizzito del padre. «Ma tu pensi che fosse diverso?»«Diverso da cosa? Da quando?»Harold lasciò la domanda sospesa nell’aria come una nebbia. Voleva che il bambino lo dicesse.

Voleva sentirgli ammettere che Max era un essere che un tempo era stato morto. Voleva sentirgli direche stava succedendo qualcosa di eccezionale nel mondo, qualcosa di assurdo, di impressionante e,soprattutto, di innaturale. Voleva che Jacob ammettesse che non era il bambino che era morto il 15agosto del 1966.

Harold aveva bisogno di quelle parole.«Non lo so» rispose Jacob.«Certo che non lo sai» intervenne Lucille. «Perché sono sicura che non c’era niente di diverso in

lui. Proprio come so che non c’è niente di diverso in te. Non c’è nulla di diverso in nessuno, tranne ilfatto che siete parte di un grande, bellissimo miracolo. Tutto qua. Siete una benedizione di Dio, nonla Sua ira, come sostengono certe persone.» Lo attirò a sé e lo baciò sulla fronte. «Sei il mioprezioso bambino» disse, con i capelli grigi che le ricadevano sul viso. «Il buon Signore, nostro Dio,si prenderà cura di te e ti riporterà a casa. O lo farò io.»

Lucille guidò verso casa in preda alla frustrazione. Vedeva il mondo offuscato, come se stessepiangendo. In effetti piangeva, ma se ne rese conto solo quando parcheggiò nel cortile, spense ilmotore e guardò la grande casa di legno, vuota e pronta a inghiottirla. Si asciugò gli occhi e se laprese con se stessa perché aveva pianto.

Attraversò il cortile con le braccia cariche di contenitori di plastica vuoti. Li usava per portare damangiare a Jacob, ad Harold e all’agente Bellamy. Il cibo addolciva le persone e allo stesso tempole rendeva più forti.

Se solo la gente cucinasse e mangiasse di più, ci sarebbe meno cattiveria al mondo, pensò.

A Lucille Abigail Daniels Hargrave non era mai piaciuto vivere da sola. Fin da bambina, la cosa cheaveva amato di più era una casa piena di persone. Lucille era la più piccola di dieci figli. Eranocresciuti tutti insieme stipati in una modesta casetta alla periferia di Lumberton, nella North Carolina.Suo padre lavorava nella segheria locale, sua madre faceva la cameriera presso una delle più ricchefamiglie della zona e, quando poteva, cuciva per chiunque avesse bisogno di riparazioni.

Suo padre non aveva mai parlato male della moglie e sua madre non aveva mai parlato male delmarito. Se c’era una cosa che Lucille aveva imparato dal suo matrimonio con Harold era che nonsparlare l’uno dell’altro era il più sicuro segno che un rapporto a lungo termine stava funzionando.

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Tutti quei bacetti, fiori e regalini di compleanno non valevano nulla se il marito diceva brutte cosesul conto della moglie o la moglie diffondeva pettegolezzi sul marito.

Come tante persone, Lucille aveva cercato di ricreare la propria infanzia nella sua vita di adulta,in una sorta di rivincita contro il tempo. Ma, a causa di complicazioni avvenute durante il parto, dopoJacob non aveva potuto avere altri figli. Lucille non aveva pianto il giorno in cui i dottori eranovenuti a portarle la notizia. Si era limitata ad annuire (perché lo sapeva già, in qualche modo loaveva capito) e a dire che Jacob le sarebbe bastato.

E per otto anni aveva fatto la mamma. Poi, per cinquanta, era stata una moglie, una devota Battista,un’amante delle parole, ma non una madre. Era rimasta troppo tempo senza occuparsi di un figlio.

Ma ora, Jacob rappresentava la sconfitta del tempo. Jacob era il tempo fuori sincronia, un tempopiù perfetto di quanto non fosse mai stato. Era la vita come avrebbe dovuto essere. Questo erano tuttii Redivivi, si rese conto allora. E per il resto della serata non pianse, e il suo cuore fu meno pesantedel solito, e quando arrivò l’ora di andare a letto si addormentò facilmente.

Quella notte sognò dei bambini. E quando arrivò il mattino, sentì il bisogno di cucinare.Si sciacquò le mani al rubinetto. Sul fornello stavano friggendo uova e pancetta. Su una piastra

elettrica sobbolliva una pentola di pappa d’avena macinata grossa. Guardò il giardino dalla finestra,lottando contro la strana sensazione di essere osservata. Ovviamente, fuori non c’era nessuno.Riportò l’attenzione sui fornelli e sull’esagerata quantità di cibo che stava preparando.

La cosa più frustrante dell’assenza di Harold era che Lucille non sapeva cucinare per una personasola. Non che lui non le mancasse, perché le mancava terribilmente, ma le sembrava un delitto doverbuttare via tanto cibo. Anche dopo aver preparato i contenitori da portare alla scuola, le restava ilfrigo zeppo di avanzi, e a lei gli avanzi non erano mai piaciuti. Aveva un palato delicato, e le parevache gli alimenti che restavano troppo a lungo chiusi in frigorifero prendessero gusto di rame.

Ogni giorno portava del cibo alla scuola, o meglio, al campo di concentramento per Insolenti e/oRedivivi. Aveva deciso che, anche se erano prigionieri, Jacob e Harold Hargrave sarebbero stati deiprigionieri ben nutriti. Ma non ce la faceva proprio a portare loro anche la colazione. In quegli ultimivent’anni, o anche più, era stato sempre Harold a guidare, e ora Lucille si trovava a disagio alvolante. Non se la sentiva di fare la strada su e giù per consegnare tre pasti caldi. Così la colazionela faceva da sola, parlando tra sé per non sentire il silenzio.

«Dove sta andando il mondo?» chiese alla casa vuota. L’eco della sua voce camminò sulle assi dilegno del pavimento, passò accanto alla piccola scrivania in cui Harold teneva le sigarette, e tornònella cucina con il suo frigo zeppo di cibo e il tavolo a cui nessuno era seduto. La voce riverberònelle altre stanze, salì le scale, verso le camere da letto disabitate.

Lucille si schiarì la gola, come per attirare l’attenzione di qualcuno, ma fu un tentativo inutile.La televisione potrebbe aiutarmi, pensò. Almeno, con il televisore acceso, avrebbe potuto

fingere. Ci sarebbero state risate, conversazioni e parole, come se nella stanza accanto ci fosse unagrande famiglia riunita per il Natale.

Pensò di cercare un telegiornale per sentire se ci fossero notizie di quell’artista francese che erasparito, quel Jean Comesichiama. I media non facevano che parlare di come fosse tornato dall’aldilà,avesse ricominciato a scolpire e avesse fatto tutti i soldi che non aveva guadagnato la prima volta cheera stato vivo, e poi fosse sparito con la donna ultracinquantenne che lo aveva scoperto.

Lucille non avrebbe mai pensato che potessero scoppiare dei disordini a causa di un artista che

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aveva fatto perdere le proprie tracce, ma era stato così. Il governo francese aveva impiegatosettimane per calmare gli animi.

Ma il famoso artista francese Redivivo si era come volatilizzato. C’era chi diceva che la fama erastata eccessiva per lui. Chi osservava che un artista di successo non è più un artista, e che era statoquesto a farlo fuggire. Jean voleva essere di nuovo povero e affamato, per poter ritrovare la sua venacreativa.

Questa cosa faceva ridere Lucille. La sola idea che qualcuno volesse essere povero e affamato eraassurda.

«Forse voleva solo essere lasciato in pace» disse con un sospiro.Ci pensò su per un po’, poi il silenzio della casa tornò a opprimerla come uno scarpone. Così

entrò in salotto, accese il telegiornale e lasciò entrare il mondo.«La situazione sembra peggiorare» stava dicendo il conduttore. Era un ispanico bruno, con una

pelle olivastra che contrastava con l’abito chiaro. Per un attimo Lucille ebbe l’impressione chestesse parlando di qualcosa che aveva a che fare con la finanza o con l’economia globale o con ilprezzo della benzina o con una di quelle altre cose che non facevano che peggiorare, anno dopo anno.Ma no, lui stava commentando la questione dei Redivivi.

«Di che si tratta?» chiese piano Lucille, in piedi davanti al televisore con le mani unite davanti asé.

«Come dicevamo...» riprese il conduttore. «Si è dibattuto molto sul ruolo e sulle competenze delBureau Internazionale dei Redivivi. Secondo le ultime informazioni, questo ente di recentecreazione si è appena assicurato il sostegno finanziario delle nazioni NATO, oltre che di svariatipaesi non affiliati con la NATO. L’esatta finalità dei finanziamenti, come pure gli importi, nonsono ancora stati resi pubblici.»

Sopra la spalla del conduttore apparve un piccolo emblema: un semplice stemma dorato con alcentro le parole International Bureau of the Returned.

Poi il logo sparì e lo schermo si riempì di immagini di soldati su camion e di uomini armati checorrevano sulla pista di un aeroporto verso il ventre di un enorme aereo grigio che sembrava capacedi contenere un’intera chiesa completa di campanile.

«Ossignore» disse Lucille. Spense il televisore e scosse la testa. «Signore, Signore, Signore. Nonpuò essere vero.»

Fu allora che si chiese cosa sapesse il mondo di quello che stava succedendo ad Arcadia. Se sisapesse o no che la loro scuola era stata requisita, e che il Bureau era già diventato un’entità potentee inquietante.

Rifletté su cosa stava succedendo ad Arcadia. I Redivivi erano ovunque. Ce n’erano a centinaia,ormai, come se fossero attratti da quel posto, dalla loro piccola città. Anche se il presidente avevaordinato che restassero confinati nelle loro case, erano troppi quelli le cui case si trovavano all’altrocapo del mondo. A volte Lucille vedeva i soldati che li arrestavano. Come rassicurazione, era la piùsinistra e la più infausta della storia.

Altre volte Lucille scorgeva i Redivivi nei loro nascondigli. Avevano abbastanza buonsenso datenersi alla larga dai militari e da stare il più lontano possibile dalla scuola diventata campo diconcentramento. Ma poco più avanti, sulla Main Street, li si vedeva sbirciare da vecchi edificiabbandonati in cui non abitava nessuno. Lucille li salutava con una mano nel passare, perché così erastata educata a fare, e loro ricambiavano il suo saluto, come se la conoscessero e in qualche modo

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fossero legati a lei. Come se lei fosse una calamita fatta per attrarli, per soccorrerli.Ma era semplicemente una donna anziana che viveva da sola in una casa costruita per tre. Cosa

poteva fare? Doveva essere qualcun altro a risolvere quel problema. Così funzionava il mondo.Situazioni tanto grosse richiedevano l’azione di pezzi grossi. Uomini come quelli che si vedevano neifilm: giovani, atletici, preparati. Non persone che vivevano in una cittadina di cui nessuno avevasentito parlare.

No, si convinse, non spettava a lei aiutare i Redivivi. Forse non toccava a lei neanche aiutareJacob e Harold. Lo avrebbe fatto qualcun altro. Magari il pastore Peters. Più probabilmente, l’agenteBellamy.

Ma Bellamy non era un genitore che si struggeva in una casa vuota. Bellamy non era colui intornoal quale sembravano gravitare i Redivivi. Era lei. Era sempre lei.

«Bisogna fare qualcosa» disse alla casa vuota.

Quando l’eco del televisore si spense e la casa tornò silenziosa, Lucille riprese a cucinare come sefosse tutto normale. Si lavò le mani al lavandino, le asciugò, spezzò altre uova nella padella e si misea strapazzarle. La prima fetta di bacon era bella croccante, così la tolse dalla padella con una spatolae la posò su un tovagliolo di carta per eliminare il grasso in eccesso (il suo dottore era un nemico deigrassi). Poi ne prese un pezzetto e si mise a sgranocchiarlo mentre girava le uova e mescolava lapappa d’avena.

Pensò ad Harold e Jacob, chiusi nel ventre di quella scuola, prigionieri di soldati, steccati, filospinato e, peggio, della burocrazia governativa.

La faceva infuriare il pensiero che i soldati fossero andati a prendere suo figlio e suo marito alfiume, un fiume che praticamente era loro, data la storia della famiglia Hargrave.

Seduta a mangiare al tavolo della cucina, Lucille non sentì i passi che salivano sul portico.La pappa d’avena era calda e priva di grumi. Scivolava nel suo stomaco lasciandole in bocca

appena un accenno di burro. Assaggiò le uova con il bacon: erano saporite, soffici e dolci.«Divino» dichiarò Lucille ad alta voce, parlando al piatto di cibo.Poi rise e si sentì in colpa. Anche un po’ blasfema. Ma Dio aveva il senso dell’umorismo, Lucille

lo sapeva... anche se non lo avrebbe mai ammesso con Harold. E Dio capiva che lei era soltanto unadonna vecchia e sola in una grande casa vuota.

Lucille aveva mangiato metà della colazione che aveva nel piatto prima di rendersi conto dellapresenza della bambina. Fece un salto sulla sedia quando la vide, esile e bionda, spettinata einfangata, al di là della zanzariera della porta della cucina.

«Santo cielo, cara!» urlò Lucille, portandosi una mano alla bocca.Era la figlia dei Wilson (Hannah, se la memoria la assisteva, cosa che normalmente faceva).

Lucille non l’aveva più vista dall’assemblea cittadina che si era svolta in chiesa, settimane prima.«Mi scusi» disse la bambina.Lucille si pulì la bocca. «No, no. Va tutto bene. Solo, non mi ero resa conto che ci fosse

qualcuno.» Si avvicinò alla porta. «Da dove arrivi?»«Mi chiamo Hannah. Hannah Wilson.»«So chi sei, cara. La figlia di Jim Wilson. Siamo parenti.»«Signora...»«Tuo padre e io siamo lontani cugini. Abbiamo una prozia in comune... anche se non ricordo come

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si chiamasse.»«Sì, signora» annuì Hannah incerta.Lucille aprì la zanzariera e fece cenno alla bambina di entrare. «Sembri affamata, cara. Quando è

l’ultima volta che hai mangiato?»La bambina rimase ferma sulla soglia. Profumava di fango e di aria pulita, come se quel mattino

fosse caduta dal cielo e si fosse alzata dalla terra. Lucille le sorrise, ma la bimba continuò a esitare.«Non ti faccio niente, piccola» assicurò Lucille. «O meglio, non ti farò niente se entri. Altrimenti,

troverò il più grosso randello che esiste e ti picchierò in testa finché non ti metterai a tavola e nonmangerai a quattro palmenti!»

Finalmente la bambina ricambiò il suo sorriso, in quel modo casuale, vagamente distaccato, tipicodei Redivivi. «Sì, signora.»

Quando entrò, la zanzariera sbatté piano alle sue spalle.

La bambina divorava tutto quello che Lucille le metteva nel piatto, e non era poco. Quando capì cheHannah avrebbe finito la montagna di cibo che aveva preparato per colazione, Lucille si mise afrugare nel frigo. «Non mi piace questa roba. Avanzi. Non sono più tanto buoni.»

«Non importa, signora Lucille» disse la bambina. «Sono sazia. Grazie, comunque.»Lucille infilò un braccio nelle profondità del frigorifero. «No, non sei ancora sazia. Non sono

neanche sicura che il tuo stomaco abbia un fondo, ma intendo scoprirlo. Ti darò da mangiare finché ilsupermercato non esaurirà le scorte!» Rise, e la sua voce riecheggiò per la casa. «Ma io non cucinogratis.» Lucille scartò la salsiccia che aveva trovato in un angolo. «Per nessuno. Perfino il SignoreGesù dovrebbe meritarselo, se volesse farsi preparare un pasto da me. Così, avrei alcune cosette dafarti fare...» Lucille si portò una mano alla schiena, calandosi nella parte di una fragile vecchietta, edemise un gemito. «Non sono più giovane come un tempo.»

«La mia mamma dice che non devo chiedere l’elemosina» disse la bambina.«E la tua mamma ha ragione. Ma tu non stai chiedendo l’elemosina. Ho bisogno del tuo aiuto. E, in

cambio, ti rimpinzerò. Mi sembra uno scambio equo, no?»Hannah annuì. Dondolava i piedi avanti e indietro, seduta su una sedia troppo alta per lei.«A proposito di tua madre» riprese Lucille, che si era messa a scartare la salsiccia. «Sarà in

pensiero per te. E anche il tuo papà. Sanno dove sei?»«Credo di sì.»«Cosa significa?»Hannah si strinse nelle spalle, ma dato che era voltata e concentrata sulla salsiccia, Lucille non la

vide. Dopo un attimo, la bambina se ne rese conto e rispose: «Non lo so».«Su, piccola.» Lucille unse la padella di ferro per la salsiccia. «Non fare così. So di te e della tua

famiglia. Di tua madre... Rediviva proprio come il tuo papà. E tuo fratello. Dove si trovano? Leultime notizie che ho avuto di voi è che siete spariti dalla chiesa quando i soldati hanno cominciatoad arrestare le persone.» Lucille mise la salsiccia nella padella e abbassò la fiamma.

«Non posso dirlo» rispose la bambina.«Oh, cielo!» esclamò Lucille. «Sembra una cosa seria. I segreti sono sempre molto seri.»«Sì, signora.»«Di solito a me non piacciono i segreti. Causano guai di ogni tipo se non si sta attenti. In tutto il

periodo in cui sono stata sposata, non ho mai nascosto nulla a mio marito.» Lucille si avvicinò alla

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bambina e sussurrò piano: «Ma vuoi sapere una cosa?».«Cosa?» bisbigliò Hannah di rimando.«Non è vero. Ma non dirlo a nessuno. È un segreto.»Hannah sorrise, e il suo sorriso largo, luminoso, assomigliava tanto a quello di Jacob.«Ti ho parlato di mio figlio, Jacob? È come te. Proprio come te e la tua famiglia.»«Dov’è?» chiese la bambina.Lucille sospirò. «Alla scuola. I soldati lo hanno preso.»Hannah impallidì.«Lo so. È una cosa spaventosa. Hanno preso sia lui che mio marito. Se ne stavano per conto loro

al fiume quando i soldati li hanno catturati.»«Al fiume?»«Sì, cara» disse Lucille. La salsiccia stava cominciando a sfrigolare. «Ai soldati piace il fiume.

Sanno che là ci sono tanti posti in cui la gente può nascondersi, così pattugliano spesso la riva. Oh,non sono persone cattive, i soldati. Prego che non lo siano, almeno. Non fanno del male a nessuno, aparte portare via le persone e rinchiuderle. No. Non ti faranno alcun male. Si limiteranno a portartivia. Ad allontanarti da tutti quelli a cui vuoi bene e...»

Quando si girò, Hannah era sparita, lasciando solo lo sbattere della zanzariera nella sua scia.«Ci vediamo quando torni» disse Lucille alla casa vuota. Una casa che, ne era sicura, non sarebbe

rimasta vuota ancora a lungo.Solo la notte prima, non aveva sognato dei bambini?ina Bianca

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Alicia Hulme

«Quello che è successo al bambino è stato un caso fortuito. Non c’è nessuna epidemia. Ma si sonoverificate delle sparizioni.» La ragazza era nervosa nel riferire il messaggio all’elegante uomodalla pelle scura seduto di fronte a lei alla scrivania. «Io non ci capisco niente» aggiunse. «Manon è una buona cosa, vero?»

«È tutto a posto» la rassicurò l’agente Bellamy. «È solo una situazione molto strana.»«E adesso? Non voglio restare qui, così come non volevo stare nello Utah.»«Non ci rimarrai a lungo» promise Bellamy. «Me ne occuperò io, proprio come ti ha promesso

la Mitchell.»Lei sorrise al ricordo dell’agente Mitchell. «È una donna molto buona» disse.L’agente Bellamy si alzò e girò intorno alla scrivania. Accostò una piccola sedia accanto a

quella di lei e si sedette. Poi infilò una mano nella manica e tirò fuori una busta. «Il loroindirizzo» disse, tendendo la busta ad Alicia. «Non sanno di te, ma dalle informazioni che sonoriuscito ad avere, ti vogliono. Moltissimo.»

Alicia prese la busta e la aprì con le mani scosse da un tremito. Era un indirizzo del Kentucky.«Papà è originario del Kentucky» disse con un filo di voce. «Ha sempre detestato Boston, ma lamamma non voleva lasciare la città. Suppongo che alla fine sia riuscito a convincerla.» Abbracciòl’agente dalla pelle scura e lo baciò su una guancia. «Grazie.»

«C’è un soldato di nome Harris, qui fuori. È giovane, sui diciotto o diciannove anni, più omeno la tua età. Resta con lui quando lasci il mio ufficio. Fa’ quello che ti dice. Va’ dove ti dice diandare. Ti porterà fuori di qui.» Le batté su una mano. «È un bene che siano andati in Kentucky. IlBureau è attivo soprattutto nelle aree più popolate. Ci sono molti posti dove potrai nascondertilà.»

«E l’agente Mitchell?» chiese la ragazza. «Mi manderà da lei con un altro messaggio?»«No» rispose l’agente Bellamy. «Non sarebbe sicuro né per te né per lei. Solo, ricordati di

restare con Harris, di fare come ti dice. Ti porterà dai tuoi genitori.»«Va bene» annuì lei, alzandosi. Quando fu sulla porta esitò, incuriosita. «Le sparizioni...»

disse. «Cosa intendeva la Mitchell con questo?»L’agente con l’abito di buona fattura sospirò. «Onestamente, non so se sia la fine o l’inizio.»

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11

Quasi tutti i giorni, ormai, Fred Green si ritrovava con un gruppetto di uomini sul prato di MarvinParker. Se ne stavano sotto il sole cocente e lasciavano montare la rabbia, mentre, uno dopo l’altro, ipullman di Redivivi giungevano ad Arcadia lungo la Main Street.

All’inizio, John Watkins aveva tenuto il conto degli arrivi su un pezzo di legno che aveva trovatosul proprio furgone. Faceva un segno per ogni pullman e li univa a cinque a cinque. In quella primasettimana, le tacche erano state più di duecento.

«Consumerò la matita prima che finiscano di portare qui i Redivivi» disse agli altri un giorno.Nessuno fece commenti.Di tanto in tanto Fred esclamava: «Non possiamo più tollerarlo!». Scrollava la testa e buttava giù

un sorso di birra. Le sue gambe si contraevano come se dovessero andare da qualche parte. «Stasuccedendo proprio qui, nella nostra città!»

Nessuno capiva esattamente cosa stesse accadendo, ma tutti si rendevano conto che si trattava diqualcosa di grosso.

«Chi avrebbe mai pensato che un vulcano potesse spuntare in un prato?» disse Marvin Parker unpomeriggio, mentre guardavano la fila di Redivivi scendere dall’ennesimo pullman. Era un uomo altoe allampanato, con la pelle chiara e i capelli color ruggine. «Ma è capitato. Lo giuro su Dio. Mihanno raccontato la storia di questa donna nel cui giardino si formò un vulcano. All’inizio era solo unpiccolo bozzo nel prato, tipo la montagnola di una talpa. Il giorno dopo era un po’ più grosso, equello successivo ancora di più.»

Nessuno parlava. Tutti si limitavano ad ascoltare e a visualizzare il letale tumulo di terra, dipietre e di fuoco mentre, al di là della strada, i Redivivi venivano scaricati, contati e registrati.

«Poi, un giorno, quando la montagnola fu alta tre metri, lei si spaventò. Non è normale che civoglia tanto perché una persona si preoccupi per una cosa simile, no? Ma così fu. Prenditi il tuotempo, lascia che le cose accadano lentamente, e quando agisci è troppo tardi.»

«Cosa avrebbe potuto fare?» chiese qualcuno.La domanda passò senza risposta. La storia continuò. «Quando finalmente la donna si decise a

parlarne, nell’aria si sentiva puzzo di zolfo. I vicini intervennero. Finalmente si diedero una mossa edecisero di dare un’occhiata al cunicolo di talpa che stava diventando una montagna nel giardinodella loro concittadina. Ma a quel punto non c’era più niente da fare.»

Qualcuno chiese: «Come avrebbero dovuto comportarsi?».Ma anche questa domanda passò senza risposta. E la storia proseguì.«Arrivarono gli scienziati. Studiarono il fenomeno, fecero dei test. E sapete cosa dissero a quella

povera donna? Le dissero: “È meglio che si trasferisca”. Riuscite a crederci? Lei stava perdendo lasua casa, il suo bene più prezioso, il punto fermo della sua vita... la casa che le aveva dato Dio! Eloro le voltarono le spalle e le dissero: “Che sfortuna, ci spiace”.» Una pausa. «Non molto tempodopo, la donna si trasferì. Mise negli scatoloni la sua vita intera e se ne andò. Uno alla volta i suoivicini la imitarono. Scapparono da quella cosa che lei, e tutti loro, avevano guardato crescere.»Marvin finì la sua birra, schiacciò la lattina nel pugno, la lanciò sul prato e grugnì. «Avrebberodovuto darsi da fare sin dall’inizio. Avrebbero dovuto piantare un casino appena avevano visto quel

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bozzo innaturale in mezzo al prato e l’istinto aveva detto loro che c’era qualcosa che non andava. Mano, avevano esitato tutti... e in modo particolare la donna che era proprietaria della casa. Lei persetempo e tutti loro ci rimisero.»

I pullman arrivarono e ripartirono per il resto della giornata, con gli uomini che li guardavano insilenzio. Erano tutti in preda alla sensazione che qualcosa, nel mondo, li stesse tradendo. E forse liaveva traditi per anni.

Avevano l’impressione che il mondo avesse mentito loro da quando erano nati.Fu il giorno dopo che Fred Green si presentò con un cartello. Era un rettangolo di compensato

dipinto di verde. Sopra, a caratteri cubitali rossi, c’era lo slogan Via i Redivivi da Arcadia.Fred Green non sapeva cosa, esattamente, avrebbe ottenuto con quella protesta. Né era sicuro che

fosse una buona idea. Ma così gli sembrava di agire. Gli sembrava di dare forma a quello che loteneva sveglio la notte, a quello che lo faceva sentire uno straccio il mattino.

Era l’idea migliore che gli fosse venuta, per ora.

L’agente Bellamy era seduto alla scrivania con le gambe accavallate, la giacca dell’abito slacciata eil nodo della cravatta di seta un po’ più lento del solito. Harold non lo aveva mai visto così rilassato.Non si era ancora formato un giudizio su Bellamy, ma supponeva che, se a quel punto non lo odiava,significava che probabilmente quell’uomo gli piaceva. Di solito funzionava così.

Harold ingurgitava arachidi bollite tenendo una sigaretta tra le dita. Un filo bianco di fumo glisaliva in faccia. Lui masticava e si puliva sui pantaloni il succo salato che gli appiccicava le mani,dato che Lucille non era lì a protestare. Quando ne aveva voglia, tirava una boccata e la esalavasenza tossire. Gli costava uno sforzo non tossire, ultimamente, ma stava imparando.

Era una delle poche opportunità che l’agente Bellamy avesse di parlare con Harold da solo. Nonera facile convincerlo a staccarsi da Jacob. «Lucille non mi perdonerebbe mai se gli succedessequalcosa» aveva detto Harold.

Ma a volte accettava di lasciare Jacob in compagnia di uno dei soldati nella stanza accanto,abbastanza a lungo perché Bellamy potesse fargli qualche domanda.

«Come si sente?» chiese Bellamy, il taccuino pronto.«Sono vivo, suppongo.» Harold scosse la sigaretta, facendo cadere la cenere nel piccolo

portacenere di metallo. «Del resto, chi non è vivo al giorno d’oggi?» Tirò una boccata. «Elvis è giàtornato?»

«Mi informerò.»Il vecchio ridacchiò.Bellamy si appoggiò all’indietro contro lo schienale, spostò il peso del corpo e guardò incuriosito

il vecchio uomo del Sud. «Allora, come si sente?»«Lei ha mai giocato a lanciare ferri di cavallo, Bellamy?»«No. Solo a bocce.»«E cosa sarebbero?»«La versione italiana del gioco.»Harold annuì. «Dovremmo sfidarci ai ferri di cavallo, un giorno o l’altro. Invece che stare qui.»

Aprì le braccia per indicare la stanzetta soffocante in cui erano seduti.«Chissà.» Bellamy sorrise. «Come si sente?»«Me l’ha già chiesto.»

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«Non mi ha risposto.»«Già.» Harold si guardò di nuovo attorno.Bellamy chiuse il taccuino e lo appoggiò sul tavolo tra sé e il vecchio. Posò la penna sopra il

taccuino e batté una mano su entrambi ostentatamente, come per dire: «Ci siamo solo io e lei qui,Harold, glielo prometto. Niente registratori né telecamere né microfoni segreti. Solo un soldato fuoridalla porta che non può sentirla e non sarebbe interessato a quello che mi dice anche se potesse. Stalì solo su ordine del colonnello Willis».

Harold finì la ciotola di arachidi in silenzio, poi spense la sigaretta. Bellamy era seduto di frontea lui, in attesa. Il vecchio ne accese un’altra e inspirò una lunga boccata drammatica. Tenne il fumonei polmoni finché non riuscì più a trattenerlo. Poi lo esalò con un colpo di tosse, un colpo di tosseche ne innescò una serie finché non si trovò ad ansimare, la fronte imperlata di sudore.

Quando la tosse passò e Harold si fu ricomposto, Finalmente Bellamy parlò. «Come si sente?»«È solo che mi succede sempre più spesso.»«Ma non ci permette di farle degli esami.»«No, grazie, Mister Agente. Sono vecchio, solo questo non va in me. Ma sono troppo bastardo

perché mi venga un aneurisma come a quel bambino. E non sono tanto stupido da credere aquell’epidemia di cui i suoi soldati bisbigliano tra loro.»

«È un uomo sveglio, lei.»Harold tirò un’altra boccata.«Ho i miei sospetti sulla causa della sua tosse» disse Bellamy.Harold soffiò una lunga, regolare linea di fumo. «Anche mia moglie.»Spense la sigaretta e allontanò la ciotola di gusci. Unì le mani sul tavolo e le fissò, notando quanto

fossero vecchie e grinzose. Più sottili e fragili di quanto le avesse mai viste. «Possiamo parlare,Martin Bellamy?»

L’agente Bellamy si mosse sulla sedia. Raddrizzò la schiena, come se si preparasse a una grandeprova. «Cosa vuole sapere? Faccia le domande e io risponderò come meglio posso. Non le promettoaltro.»

«Mi pare giusto, Mister Agente. Domanda numero uno. I Redivivi sono davvero persone?»Bellamy fece una pausa. La sua attenzione parve spostarsi, come se gli fosse passata davanti agli

occhi qualche immagine. Poi rispose, con tutta la sicurezza che riuscì a mostrare. «Lo sembrano.Mangiano... e mangiano tanto. Dormono... sporadicamente, ma lo fanno. Camminano. Parlano. Hannoricordi. Tutto quello che fanno le persone, lo fanno anche loro.»

«In modo strano, però.»«Sì. Sono un po’ strani.»Harold fece una risata. «Un po’» ripeté, muovendo la testa su e giù. «E da quando è diventato solo

strano tornare dall’aldilà, Mister Agente?»«Da qualche mese, ormai» rispose Bellamy con calma.«Domanda numero due... o sono tre?»«Tre, credo.»Harold fece una risatina asciutta. «È attento, lei. Una buona cosa.»«Ci provo.»«Allora, domanda numero tre... Le persone, a memoria d’uomo, non hanno mai avuto l’abitudine

di resuscitare. Dato che questi individui ci riescono, è ancora possibile chiamarli persone?»

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«Possiamo arrivare al punto?» tagliò corto Bellamy.«Gli Yankee...» brontolò Harold. Si agitò sulla sedia. La sua gamba si contrasse. Tutto il suo

corpo sembrava percorso da una strana energia.«Siamo solo noi due, qui.» Bellamy si protese sopra la scrivania, come se volesse prendere le

vecchie mani di Harold tra le proprie. E, se fosse stato necessario, forse lo avrebbe fatto. Ma Haroldera pronto.

«Lui non dovrebbe essere qui» disse. «È morto. Mio figlio è morto. Nel 1966. Annegato in unfiume. E sa una cosa?»

«Cosa?»«Lo abbiamo seppellito, ecco cosa! Abbiamo trovato il suo corpo e, perché Dio è crudele, sono

stato io a tirarlo fuori da quel fiume con le mie stesse mani. Era freddo come il ghiaccio, anche se erapiena estate. Ho sentito dei pesci che erano più caldi di lui. Era gonfio. Di un colore tutto sbagliato.»Harold aveva un luccichio negli occhi. «Ma l’ho portato fuori dall’acqua mentre tutti intorno a mestavano lì e piangevano, e mi dicevano che non dovevo essere io a tenerlo. Tutti si offrivano ditogliermelo dalle braccia. Ma non capivano. Dovevo essere io a farlo. Io dovevo sentire quanto fossefreddo e innaturale. Io dovevo sapere, dovevo essere assolutamente sicuro, che fosse morto. E chenon sarebbe più tornato. Lo seppellimmo. Perché così si fa con le persone quando muoiono. Le siseppellisce. Si scava una fossa nella terra, si cala la bara e tutto finisce lì.»

«Lei non crede in un aldilà?»«No, no, no» disse Harold. «Non è di questo che sto parlando. Intendevo dire che è la fine di

questa vita!» Si protese sopra il tavolo e afferrò le mani di Bellamy. Le strinse con tanta disperazioneda fare male. L’agente cercò di ritrarsi quando si rese conto che il vecchio era più forte di quantosembrasse. Ma era inutile. La stretta di Harold era d’acciaio. «Quando si muore la vita finisce e nondovrebbe più ricominciare» dichiarò Harold. I suoi occhi erano enormi, intensi. «Dovrebbe finirelì!» urlò.

«Capisco» disse Bellamy con il suo preciso, rapido accento di New York. Liberò le mani daquelle di Harold. «È una situazione che confonde, una situazione dura da accettare. Lo so.»

«Era superato tutto» riprese Harold dopo un po’. «L’affetto. I ricordi. Tutto.» Fece una pausa.«Adesso mi sveglio pensando a com’era un tempo. Penso ai compleanni e ai Natali.» Grugnì eguardò Bellamy con un’improvvisa luce negli occhi. «Lei ha mai dato la caccia a una mucca, agenteBellamy?» chiese con un sorriso.

Bellamy rise. «No. Non posso dire di averlo fatto.»«Ci fu questo Natale melmoso, quando Jacob aveva sei anni. Piovve per i tre giorni precedenti. Il

mattino di Natale le strade erano talmente brutte che nessuno poteva uscire e andare a trovare iparenti, come aveva programmato, così tutti restarono in casa e si fecero gli auguri al telefono.» Siera appoggiato all’indietro e gesticolava nel parlare. «C’era una fattoria, allora, vicino a dove abito.Apparteneva al vecchio Robinson. Comprai la sua terra dal figlio quando il vecchio morì, ma a queltempo, quel Natale, lui aveva ancora il suo pascolo là. Non che avesse tante mucche. Si contavanosulle dita delle mani. Una volta ogni due anni, o giù di lì, ne portava una al macello. Ma, per lamaggior parte, le teneva. Senza un motivo particolare, direi. Suo padre aveva sempre avuto lemucche, a quanto ne so, e, onestamente, credo non concepisse un altro tipo di vita.»

Bellamy annuì. Non sapeva dove lo avrebbe portato quella storia, ma era incuriosito.«Quindi, arrivò questo Natale melmoso» riprese Harold. «La pioggia cadeva come se Dio fosse in

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collera col mondo. Veniva giù a catinelle. E proprio nel momento più brutto, bussano alla porta e chiè? Niente meno che il vecchio Robinson. Era un gran bastardo, quell’uomo. Pelato come un neonato econ la stazza di un boscaiolo. Il petto come un fusto di petrolio. Se ne stava lì sulla porta tuttocoperto di fango. “Cos’è successo?” gli chiedo. “Mi sono scappate le mucche” dice lui, e indicaverso lo steccato. Io guardo, e vedo dove le mucche in fuga lo hanno divelto.» Sorrise. «Prima che iopotessi dire qualcosa, prima che potessi offrirmi di aiutarlo, qualcosa mi sfrecciò accanto.Attraversò il portico e uscì sotto quella dannata pioggia, nel fango.» Il sorriso di Harold si allargò.

«Jacob?» chiese Bellamy.«Stavo per chiamarlo. Per urlargli di rientrare in casa. Ma poi pensai, che importa? E un istante

dopo Lucille mi passava accanto veloce quanto Jacob, con addosso uno dei suoi vestiti più belli.Non aveva fatto tre metri che era già coperta di fango... E tutti, compreso il vecchio Robinson,scoppiammo a ridere.» Le mani di Harold si erano finalmente fermate. «Forse eravamo stanchi direstare chiusi in casa» concluse.

«E poi?» chiese Bellamy.«Poi cosa?»«Riportaste indietro le mucche?»Harold ridacchiò. «Ovviamente.» Il sorriso svanì e la sua voce tornò affranta, seria, combattuta.

«Un brutto giorno questa vita finì. E, col tempo, il dolore si attenuò. Ma ora... ora sono sull’orlo delbaratro.» Harold si fissò le mani. Quando tornò a parlare, c’era una traccia di isterismo nella suavoce. «Cosa devo fare? Il cervello mi dice che non è mio figlio. La mia mente dice che Jacob èmorto. Annegato in quel dannato fiume in una soleggiata giornata di agosto del 1966.» Deglutì. «Maquando parla, le orecchie mi dicono che è mio, proprio come lo era mezzo secolo fa.» Harold pestòun pugno sul tavolo. «E come la metto con questo? Certe notti, quando i corridoi sono bui esilenziosi, quando tutti sono a letto, a volte lui si alza e si infila nella branda con me... come inpassato, quando faceva un brutto sogno. Peggio ancora, a volte sembra che lo faccia solo perché glimanco. Si infila sotto le coperte, mi si rannicchia accanto e... dannazione a me... io non posso fare ameno di cingerlo con un braccio come facevo una volta. E sa una cosa, Bellamy?»

«Cosa, Harold?»«Mi sento meglio di quanto non mi sentissi da anni. Mi sento completo. Appagato. Come se tutto

nella mia vita fosse come è giusto che sia.» Harold tossì. «Cosa faccio?»«Certe persone si aggrappano a questa sensazione» disse Bellamy.Harold esitò, sinceramente sorpreso da quella risposta. «Quel bambino mi sta cambiando» disse

dopo un attimo. «Dannazione, mi sta cambiando.»ina Bianca

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Bobby Wiles

Bobby era sempre stato bravo a intrufolarsi dove non sarebbe dovuto andare. Suo padre avevapronosticato che da grande avrebbe fatto il mago, tanto era bravo a sparire quando voleva.Adesso il bambino era nascosto nell’ufficio del colonnello, dentro lo sfiato dell’aria, e spiavaWillis attraverso le feritoie.

Non c’era mai niente da fare lì. Niente, se non stare seduti ad aspettare senza poter andare danessuna parte. Ma nascondersi rendeva le cose più interessanti. La scuola aveva tanti luoghi daesplorare. Bobby aveva già trovato il modo di intrufolarsi in quella che un tempo era stata lamensa. Aveva sperato di trovare un coltello con cui giocare, ma li avevano tolti tutti. Si erainfilato anche nel locale caldaie attraverso il condotto dell’aria condizionata che arrivavadall’esterno dell’edificio. Tutto là dentro era stato arrugginito, duro e divertente.

Il colonnello era seduto alla sua scrivania e fissava una batteria di monitor. Era stanco di staread Arcadia. Era stanco dei Redivivi. Stanco di quella situazione che stava contagiando tutto ilmondo. Dell’isterismo, delle sommosse, delle proteste.

La gente aveva già abbastanza problemi ad arrivare alla fine della giornata quando il mondogirava normalmente e i morti restavano sepolti nelle loro tombe.

La questione dei Redivivi, il colonnello lo sapeva, era una potenziale polveriera. Così luifaceva quello che gli comandavano di fare perché era il solo modo di aiutare la gente, dimantenere l’ordine e la fiducia nell’ordine stabilito delle cose.

A differenza di tante altre persone, il colonnello non aveva paura dei Redivivi. Piuttosto,temeva gli altri e come avrebbero potuto reagire vedendo i cari estinti che erano di nuovo traloro, e respiravano, e chiedevano di riprendere il proprio posto.

Willis era stato fortunato. Quando suo padre Redivivo era stato trovato, il colonnello era statoinformato e aveva avuto la possibilità di scegliere se vederlo o no. Aveva deciso di non farlo, masolo perché era meglio per tutti. Non sarebbe stato un bene se lui avesse perso l’obiettività, sefosse stato sviato dai ricordi e dalla falsa speranza di un futuro insieme a una persona il cuifuturo era finito anni prima.

Non era così che doveva andare il mondo, e la gente presto se ne sarebbe resa conto. Fino aquel momento, ci volevano uomini come lui per reggere le redini come meglio potevano.

Perciò, aveva informato il Bureau che non intendeva avere contatti con l’uomo. Ma si eraassicurato che fosse trasferito in uno dei centri migliori. Questo almeno se lo era concesso.Quell’individuo avrebbe potuto essere suo padre, dopotutto.

Su tutti i monitor che il colonnello aveva davanti c’era la medesima immagine: un’anziana donnanera dalla corporatura robusta, seduta a una scrivania di fronte a un agente dalla testa squadratadi nome Jenkins. Bobby era stato interrogato una volta da Jenkins. Ma con il colonnello eraun’altra cosa.

Bobby respirava lentamente, facendo meno rumore possibile mentre spostava il peso da unfianco all’altro. Le pareti dello sfiato erano sottili, sudice.

Il colonnello beveva caffè dalla sua tazza e guardava Jenkins e l’anziana donna di colore

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parlare. C’era un brusio di voci, ma Bobby era troppo lontano per seguire tutta la conversazione.Udì la donna pronunciare ripetutamente il nome Charles, e questo sembrava irritare Jenkins.

Probabilmente era suo marito, pensò Bobby.Il colonnello continuava a guardare i monitor. Occasionalmente cambiava uno di essi

sull’immagine di un uomo dalla pelle scura con un abito di buon taglio. L’uomo stava lavorandoalla sua scrivania. Il colonnello lo fissava per un po’, poi tornava a guardare il monitor con lavecchia.

A un tratto l’agente Jenkins si alzò e bussò alla porta della stanzetta degli interrogatori. Arrivòun soldato e gentilmente aiutò la donna a uscire. Jenkins guardò nella videocamera, come sesapesse che il colonnello lo stava osservando, e scosse la testa per mostrare la sua frustrazione.«Niente» lo sentì dire Bobby.

Il colonnello non parlò. Si limitò a schiacciare un bottone e all’improvviso su tutti i monitorapparve l’immagine dell’agente dalla pelle scura con il bell’abito che lavorava alla suascrivania.

Il colonnello lo osservò in silenzio con un’espressione molto grave, finché Bobby, annoiato,non si addormentò.

Fu svegliato da soldati che lo tiravano fuori di peso dallo sfiato, urlando domande emalmenandolo. L’ultima immagine che vide del colonnello fu un dito puntato verso un giovanemilitare.

«Vieni, bambino» disse il soldato.«Mi spiace» si scusò Bobby. «Non lo farò più.»«Su, vieni» insistette il soldato. Era giovane, biondo e con il viso segnato dall’acne. A dispetto

dell’ovvia rabbia del colonnello, sogghignava mentre lo portava via dalla stanza. «Mi ricordi miofratello» sussurrò, quando furono fuori dall’ufficio.

«Come si chiama?» chiese Bobby dopo un po’. La curiosità era sempre stata il suo puntodebole.

«Si chiamava Randy» rispose il giovane soldato. E poi: «Non ti preoccupare. Mi prenderò curaio di te».

E Bobby fu meno spaventato di quanto avrebbe dovuto essere.

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12

In un’altra vita, Lucille sarebbe stata una cuoca professionista. Sarebbe andata a lavorare tutti igiorni con il sorriso sulla faccia. Sarebbe tornata a casa la sera impregnata di odori di grasso, speziee condimenti. Le avrebbero fatto male i piedi. Avrebbe avuto le gambe stanche. Ma sarebbe statafelice.

Adesso era in piedi in una cucina ingombra di pentole, ma immacolata, con la seconda padellatadi pollo fritto che sibilava come un oceano contro gli scogli. In salotto, i Wilson stavano parlando eridendo. Evitavano di accendere il televisore mentre pranzavano. Sedevano in cerchio sul pavimento(anche se Lucille proprio non aveva idea del perché se ne stessero per terra quando c’era un ottimotavolo da pranzo a meno di tre metri da loro), con i piatti in grembo, e si ficcavano in boccaforchettate cariche di riso con sugo di carne, mais, fagiolini, pollo fritto e gallette. Ogni tanto sisentiva risuonare una risata, seguita dal lungo silenzio del masticare.

Lucille continuò a friggere finché l’intera famiglia non fu sazia e solo qualche avanzo di pollo restòintatto su un piatto accanto ai fornelli. Lei mise il piatto nel forno, nel caso a qualcuno venisseappetito più tardi, poi fece l’inventario delle sue provviste.

Cominciavano a scarseggiare, e questo le faceva piacere.«Posso fare qualcosa?» chiese Jim Wilson, arrivando dal salotto. Al piano superiore, sua moglie

rincorreva i loro figli, ridendo.«No, grazie» rispose Lucille, con la testa infilata in uno degli armadietti della cucina.

Scribacchiava degli appunti alla cieca sul blocco che usava per la lista della spesa. «Ho tutto sottocontrollo.»

Jim guardò la pila di piatti accanto al lavandino e si arrotolò le maniche fino al gomito.«E adesso, che fai?» chiese Lucille, uscendo finalmente con la testa dall’armadietto.«Ti aiuto.»«Lascia quelle stoviglie dove stanno! È per questo che ci sono i bambini.» Gli scacciò la mano

come se fosse una mosca.«Stanno giocando» fece notare Jim.«Be’, non possono giocare tutto il giorno, no? Devi insegnare loro a essere responsabili.»«Sissignora» disse Jim.Lucille si aggirava per la cucina, schivando l’uomo che si era ancorato al lavandino. A dispetto

del fatto che aveva convenuto con lei sulla corretta educazione dei figli, si era messo a lavare i piatti,li sciacquava e li allineava sullo scolapiatti, uno dopo l’altro.

Uno alla volta.Lava. Sciacqua. Scolapiatti.«Caro» iniziò Lucille. «Perché non li metti nel lavandino tutti insieme? Non ho mai visto nessuno

lavare i piatti a uno a uno così.»Jim non disse nulla. Continuò a fare a modo suo.Uno alla volta.Lava. Sciacqua. Scolapiatti.

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«E va bene, allora» sospirò Lucille.Cercò di non attribuire le stranezze di Jim a ciò che lo aveva riportato sulla terra dall’aldilà.

Anche se erano cugini (per quanto ne sapeva lei), non aveva mai passato molto tempo con Jim e lasua famiglia. Questo era stato un grande rammarico per Lucille.

Lo ricordava come un gran lavoratore, cosa che tutta Arcadia aveva pensato di lui finché Jim e lasua famiglia non erano stati assassinati.

Era stata una cosa orribile, quella strage. A volte Lucille riusciva quasi a scordare che fossesuccessa. Quasi. Altre volte non vedeva altro, quando li guardava. Era per quel motivo che la cittàaveva reagito in quel modo al loro ritorno. A nessuno piaceva ricordare in cosa avesse fallito senzaavere la possibilità di rimediare. E questo rappresentavano i Wilson per Arcadia. Un fallimento.

Era successo nell’inverno del ‘63, se la memoria non la ingannava. Lucille ricordava ancora cosastava facendo quando aveva appreso la notizia, come spesso accade con gli eventi tragici. Era comela scena di un film.

Era in cucina a trafficare. Fuori faceva un freddo cane. Lei aveva guardato dalla finestra e avevavisto la quercia (nuda come il giorno in cui era nata) rabbrividire sotto una raffica di vento.«Ossignore» aveva detto.

Harold era fuori. Con quel freddo, col buio, era uscito a fare la spesa di sera. Cosa che non avevaalcun senso, aveva pensato Lucille. Ed era stato allora che aveva visto i fari della macchina di luisobbalzare verso casa lungo la stradina sterrata.

«È meglio che tu ti sieda» le aveva detto, appena entrato.«Cosa c’è?» Lucille aveva avuto un tuffo al cuore. La tragedia era lì, nella voce di suo marito.«Puoi sederti per favore!» aveva abbaiato Harold. Continuava a strofinarsi la bocca. Corrugava le

labbra, formando piccoli cerchi a misura di sigaretta. Si sedeva al tavolo della cucina. Poi si alzava.Si risedeva.

«Hanno sparato» aveva detto finalmente, con un filo di voce. «A tutti. Li hanno uccisi. Jim è statotrovato morto in corridoio. A pochi metri dallo schioppo, come se stesse correndo a prenderlo. Nonera carico, però, a quanto ho sentito, quindi dubito che sarebbe riuscito a usarlo. Non gli piaceval’idea di tenere un’arma carica in casa, con i bambini in giro.» Harold si era asciugato un occhio.«Hannah... l’hanno trovata sotto il letto. Si suppone sia stata l’ultima.»

«Signore benedetto» aveva sussurrato Lucille, fissandosi le mani ancora insaponate. «Signorebenedetto, Signore benedetto.»

Harold aveva approvato con un grugnito.«Saremmo dovuti andare a trovarli più spesso» aveva detto Lucille, piangendo.«Cosa?»«Saremmo dovuto andare a trovarli più spesso. Avremmo dovuto passare più tempo con loro.

Erano di famiglia. Ti ho detto che Jim e io eravamo imparentati. Lontani cugini.»Harold non era mai stato sicuro che Lucille e Jim avessero avuto davvero una prozia in comune.

Ma in fondo non aveva importanza. Se lei ci credeva, allora era vero, e questo rendeva ancora piùdoloroso quello che era successo.

«Chi è stato?» aveva chiesto Lucille.Harold si era limitato a scuotere la testa e aveva cercato di non piangere. «Nessuno lo sa.»Sarebbero successe molte cose ad Arcadia, non solo quella notte, ma per anni a venire. La morte

dei Wilson, già tragica presa di per sé, avrebbe avuto un influsso malefico su Arcadia e sulla

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concezione che la città aveva di se stessa.Fu dopo la morte dei Wilson che gli abitanti di Arcadia cominciarono ad accorgersi dei piccoli

furti che avvenivano di tanto in tanto. Oppure notarono che il tale o il tal’altro avevano problemiconiugali, magari una relazione.

Dopo la tragedia dei Wilson si diffuse un generale senso di violenza ad Arcadia. Cresceva comemuffa, allargandosi ogni anno di più.

Quando Jim Wilson ebbe finito di lavare i piatti in quel suo strano modo, Lucille avevacompletato la lista della spesa. Salì di sopra, si rinfrescò al lavandino, si cambiò e prese la borsetta.Sulla porta di casa si fermò. Quando fu certa di essere pronta, con le chiavi del pickup in mano e ilvecchio Ford blu di Harold davanti a sé, inspirò a fondo e pensò a quanto detestasse guidare. Queldannato pickup era un animale dispettoso. Partiva solo quando decideva di farlo. Gli fischiavano ifreni. Quel coso era vivo, aveva detto Lucille ad Harold più di una volta. Vivo e pieno di disprezzoper le donne... Magari anche per l’umanità in genere, proprio come il suo proprietario.

«Mi dispiace per il disturbo che ti diamo» disse Jim Wilson, facendo trasalire Lucille. Non s’eraancora abituata al passo silenzioso e felpato di lui.

Lucille aprì la borsetta. La lista c’era. I soldi c’erano. La foto di Jacob c’era. Ma lei continuò afrugare tra le proprie cose e parlò all’intera famiglia Wilson senza girarsi. Erano lì, in piedi alle suespalle tutti insieme, come in un biglietto d’auguri natalizio. Li sentiva.

«Li conosco, quelli della vostra famiglia» disse. «Siete tutti uguali. Sempre a scusarvi senza unmotivo. Io non voglio sentire scuse!» Lucille chiuse la borsetta, ma si sentiva ancora agitata.

Era come se stesse per scoppiare un temporale.«Va bene» disse Jim. «Cerco solo di non essere di peso. E voglio che tu capisca quanto

apprezziamo il tuo aiuto, tutto qua. Voglio che tu sappia quanto ti siamo grati per quello che staifacendo per noi.»

Lucille si girò sogghignando. «Chiudi a chiave, quando sarò uscita. Di’ a Connie che parleremo almio ritorno. Ho la ricetta di una torta che vorrei darle. Apparteneva alla prozia Gertrude... credo.» Sifermò a riflettere. Poi: «Tieni quei tuoi angioletti di sopra. Non dovrebbe venire nessuno, ma...».

«Resteremo di sopra.»«E non dimenticarti...»«C’è del cibo in forno» la interruppe Jim. Le fece un saluto militare.«Okay, okay» disse Lucille, e marciò fino al vecchio Ford blu di Harold, evitando di voltarsi per

non far capire quanta paura le fosse venuta tutto a un tratto.

L’emporio era uno degli ultimi baluardi della vecchia Arcadia. Era sopravvissuto al piano regolatoredel 1974, l’ultima volta che fondi di una certa consistenza erano arrivati in città. Il vecchio edificiodi mattoni si trovava ai limiti della città, dove l’abitato lasciava il posto a una strada a doppiacorsia, a campi, alberi e rare case isolate. Sorgeva sulla Main Street, tozzo e imponente, propriocome era stato ai tempi in cui era il municipio.

In effetti, bastava scostare gli striscioni pubblicitari strategicamente posizionati e si vedevanoancora le parole City Hall, sbiadite e consunte dal tempo, in rilievo contro le vecchie pietre. In unabuona giornata, prima che i militari allestissero un campo di concentramento in città, nell’emporioentravano sì e no trenta clienti. E anche questa era una stima ottimistica, e comprendeva gli anzianiche a volte bighellonavano nel negozio e non facevano altro che starsene seduti a chiacchierare sulle

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sedie a dondolo davanti all’entrata.Un soldato le offrì il braccio quando Lucille cominciò a salire i gradini. La chiamò signora e fu

gentile e paziente, anche se altri giovanotti le passavano accanto di fretta come se dovesseroaccaparrarsi i viveri prima che finissero.

All’entrata, sui dondoli, alcuni uomini stavano confabulando. Erano Fred Green, Marvin Parker,John Watkins e alcuni altri. In quelle ultime due settimane lei li aveva visti dimostrare (per così dire)nel giardino di Marvin Parker. Era una ben misera protesta, a parere di Lucille. Una mezza dozzina divecchi, e ancora non erano riusciti a trovare uno slogan decente. Un giorno, mentre andava a trovareHarold e Jacob, li aveva sentiti urlare: «Arcadia per i viventi! Non per i perdenti!».

Lei non aveva idea di cosa intendessero con quel perdenti, e supponeva non lo sapessero neancheloro. Probabilmente l’avevano detto perché faceva rima. Evidentemente, se si voleva protestare,bisognava fare rima.

Mentre il giovane soldato la scortava verso l’ingresso, Lucille si fermò davanti agli uomini.«Dovreste vergognarvi di voi stessi» disse. Batté sulla mano del soldato per segnalargli che era ingrado di continuare da sola. «È una cosa infame» aggiunse.

Gli uomini borbottarono qualcosa tra loro, poi Fred Green (quel dannato istigatore, Fred Green!)parlò. «Siamo in un paese libero.»

Lucille fece schioccare la lingua. «E questo cosa c’entra?»«Ce ne stiamo seduti qui a pensare ai fatti nostri.»«Non dovreste stare su quel prato, a urlare i vostri slogan idioti?»«Siamo in pausa» disse Fred.Lucille stentava a interpretare il tono di Fred. Non riusciva a capire se fosse stata una battuta

sarcastica o se davvero lui e i suoi amici fossero in pausa. Certamente si erano calati nella parte.Sembravano mezzi bruciacchiati dal sole, accaldati ed esausti. «Suppongo stiate facendo un sit-in,allora? Come quelli che facevano quando le persone di colore volevano la parità di diritti?»

Gli uomini si guardarono, avvertendo la trappola ma senza ancora capire dove si trovasse. «Cosaintendi dire?» chiese Fred cauto.

«Voglio solo sapere quali sono le vostre richieste, tutto qua. In tutti i sit-in ci sono delle richieste!Bisogna chiedere qualcosa quando si organizza una protesta.» Un soldato la urtò senza volere.Lucille accettò le sue scuse, poi riprese. «Siete riusciti a creare scompiglio» disse a Fred. «Questo èchiaro. Ma ora? Qual è la vostra piattaforma? Per cosa vi battete?»

Gli occhi di Fred brillavano. Si sedette più eretto sulla sedia e tirò un respiro drammatico. Glialtri seguirono il suo esempio: rimasero seduti immobili come lapidi. «Noi siamo dalla parte deivivi» dichiarò Fred in tono piatto.

Era lo slogan del True Living Movement, quegli idioti che Lucille e Harold avevano visto intelevisione qualche tempo prima. Quelli che, dall’avvento dei Redivivi, avevano smesso diminacciare una guerra razziale. E ora eccolo lì, Fred Green, che li citava.

Era proprio vero, pensò Lucille, la madre degli imbecilli era sempre incinta.Gli altri uomini aspirarono il fiato così come aveva fatto Fred Green, e nel farlo parvero più

grassi. Poi ripeterono tutti: «Noi stiamo dalla parte dei vivi».«Non mi ero resa conto che i vivi avessero bisogno che qualcuno stesse dalla loro parte»

commentò Lucille. «Comunque, provate a urlarlo con un ritmo cantilenante, invece che strillarequell’idiozia di Arcadia per i viventi, non per i perdenti . Perdenti in cosa? Una partita di football?»

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Fece un gesto sprezzante con la mano.Fred la guardava. Le rotelle nella sua testa giravano. «Come sta tuo figlio?»«Bene.»«È ancora alla scuola, allora?»«In prigione, intendi? Sì» rispose Lucille.«E Harold? Ho saputo che sta alla scuola anche lui.»«La prigione?» ripeté lei. «Sì, è là.»Si sistemò la borsa sulla spalla, e in qualche modo riuscì a sistemare anche i pensieri.«Cosa devi comprare oggi?» chiese Fred. Gli uomini attorno a lui annuirono, approvando la

domanda.L’emporio era un buon posto per fare la spesa solo se non si avevano troppe pretese. Nelle poche

corsie si trovavano cibi in scatola, tovagliolini, carta igienica e una limitata scelta di detersivi.Lungo le pareti, accanto alle finestre, c’erano articoli di ferramenta appesi a ganci e dondolanti daitravi. Il proprietario, un uomo obeso chiamato Patata per un motivo che Lucille non aveva maicapito, cercava di stivare il maggior numero di articoli in uno spazio limitato.

La maggior parte delle volte non ci riusciva, ma era una buona cosa che ci provasse, ritenevaLucille. L’emporio non era il luogo migliore per trovare quello che si voleva, ma di solito ci sitrovava quello di cui si aveva bisogno.

«Compro quello che mi serve» ribatté. «Basta, come spiegazione?»Fred sogghignò. «Dai, Lucille.» Si appoggiò all’indietro contro lo schienale. «Era solo una

domanda amichevole. Nessun secondo fine.»«Sul serio?»«Sul serio.» Fred puntò il gomito sul bracciolo della sedia a dondolo e appoggiò il mento sul

pugno. «Ma perché una domanda tanto semplice dovrebbe innervosire una donna come te?» Fredrise. «Non starai mica nascondendo qualcuno in casa tua, vero, Lucille? Perché i Wilson hannolasciato la chiesa da un bel pezzo, ormai. A quanto ne so, quando i soldati sono venuti a prenderli, ilpastore li aveva già lasciati bradi.»

«Bradi?» Lucille sbuffò. «Sono persone, mica cavalli!»«Persone?» Fred strizzò le palpebre come se non riuscisse a mettere a fuoco Lucille. «No» disse

alla fine. «E mi spiace che tu lo creda. Erano persone. Una volta. Ma è stato molto tempo fa.» Scossela testa. «No, non sono più persone.»

«Intendi dire, da quando sono stati assassinati?»«Suppongo che i soldati sarebbero ben contenti di ricevere una soffiata su dove si nascondono i

Wilson adesso.»«Suppongo di sì» convenne Lucille, girandosi verso l’entrata dell’emporio. «Ma io non ne so

niente.» Stava per andarsene, per lasciare Fred Green e i suoi modi odiosi, ma esitò. «Cos’èsuccesso?» chiese.

Fred guardò gli altri uomini. «In che senso? Cos’è successo a chi?»«A te, Fred. Cosa ti è successo dopo che è morta Mary? Come hai fatto a diventare quello che sei?

Tu e lei venivate da noi tutte le domeniche. Aiutasti Harold a trovare Jacob quel giorno, santo cielo!Quando i Wilson morirono, tu e Mary partecipaste al loro funerale come tutta la città. Poi, quandoMary se ne andò, te ne andasti anche tu. Cosa ti successe? Perché provi tanto risentimento verso diloro? Contro tutti loro? Chi incolpi? Dio? Te stesso?»

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Quando Fred si rifiutò di risponderle, lei gli passò accanto ed entrò nell’emporio, inoltrandosi trale sue anguste corsie e lasciando gli uomini a spettegolare tra loro o ad architettare piani. Fred Greenla seguì con lo sguardo. Poi si alzò, lentamente, e si avviò verso la propria macchina. Avevaqualcosa di molto importante da fare.

Mentre tornava a casa, Lucille pensò ai tanti modi in cui le persone rimuovevano la questione deiRedivivi. Ringraziò Dio di averle dato la grazia e la pazienza di cui aveva bisogno per affrontarequella situazione. Lo ringraziò per aver indirizzato la piccola famiglia Rediviva alla sua porta nellaloro ora del bisogno (che era anche l’ora del bisogno di lei) perché adesso la sua casa non era piùvuota e il cuore non le faceva più tanto male quando rientrava sul vecchio pickup di Harold con ilsedile del passeggero pieno di sacchetti della spesa.

Il pickup si lasciò l’abitato alle spalle e si immise sulla strada a due corsie che passava tra campie alberi. Una volta, lei e Harold avevano parlato della possibilità di trasferirsi in centro, mal’avevano scartata poco prima della nascita di Jacob. Per qualche motivo lei era stata innamoratadell’idea di loro tre separati dal mondo, nascosti dalla foresta e dai campi.

Quando arrivò a casa, vide chiaramente i solchi delle jeep scavati nel prato. Le impronte degliscarponi militari erano ancora chiare come il giorno. La porta d’ingresso pendeva di sghimbescio daicardini e le tracce di fango sul portico portavano in casa.

Lucille fermò il vecchio pickup sotto la quercia e rimase seduta al volante, con il motore chegirava a vuoto, l’abitacolo pieno di cibo e le lacrime agli occhi.

«Dov’eri Tu?» chiese con voce rotta, sapendo perfettamente che, in quel momento, solo Diopoteva sentirla.

ina Bianca

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Samuel Daniels

Samuel Daniels era nato, cresciuto e aveva imparato a pregare lì, ad Arcadia. Poi era morto. Eadesso era tornato. Ma Arcadia era cambiata. Non era più quella di un tempo. Una volta era statauna cittadina in cui i viaggiatori arrivavano e ripartivano senza alcun desiderio di fermarsi, dopoaver dedicato solo qualche istante a chiedersi cosa facesse la gente in un luogo come quello. Unluogo di case basse dall’aria logora. Un luogo con un paio di stazioni di servizio e due solisemafori. Un luogo di legno, di terra e di lamiera. Un luogo in cui la gente sembrava essere natadalle foreste che si alzavano oltre i campi.

Adesso Arcadia non era più una deviazione, ma la meta, pensò Samuel, guardando attraverso larecinzione la cittadina che si sviluppava verso est. In lontananza si alzava la chiesa, silenziosa eimmobile sotto il firmamento. La strada asfaltata a due corsie che portava in centro era crepata esmangiata mentre, non molto tempo prima, era stata liscia e regolare. Ogni giorno il traffico inentrata aumentava. Quello in uscita diminuiva.

La popolazione di Arcadia non era più fatta di gente locale, pensò. Quella non era più la lorocittà. Erano diventati ospiti, turisti su una terra altrui. Portavano avanti le loro attivitàquotidiane, senza capire bene dove si trovavano. Quando potevano, si riunivano tra loro, nondiversamente da come si sussurrava facessero i Redivivi, e guardavano il mondo che li circondavacon un’espressione seria e confusa sulla faccia.

Nemmeno il pastore, a dispetto di tutta la sua fede e la sua comprensione di Dio, era immune.Samuel era andato da lui, cercando la Parola, cercando conforto e chiarimenti su ciò che stava

succedendo in questo mondo, in questa città. Ma il pastore era diverso da come Samuel loricordava. Sì, era ancora grosso e massiccio, una montagna d’uomo, ma era anche più distratto.Lui e Samuel si erano fermati sulla porta della chiesa, parlando di come i Redivivi venisseroportati ad Arcadia e alloggiati nella scuola, che stava diventando troppo piccola per contenerlitutti. E mentre i pullman passavano e si vedevano i Redivivi sbirciare dal finestrino, per capiredove fosse questo nuovo posto in cui li avevano portati, il pastore Peters aveva scrutato i lorovisi, come se cercasse qualcuno.

«Tu credi che sia viva?» aveva detto il pastore dopo un po’, senza alcun nesso con laconversazione che stava facendo con Samuel.

«Chi?»Il pastore Peters non aveva risposto, come se non fosse Samuel quello con cui stava parlando.Arcadia era proprio cambiata, pensò Samuel adesso. Era circondata da recinzioni e da mura,

separata dal mondo come un castello. C’erano soldati ovunque. Quella non era la cittadina in cuilui era cresciuto, un piccolo agglomerato di case in mezzo alla campagna, aperto in tutte ledirezioni. Questa era tutta un’altra cosa.

Allontanandosi dal perimetro, si strinse al petto la Bibbia. Arcadia, e tutto ciò che c’eraall’interno delle sue mura, era stata stravolta.

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Fu reso noto che un certo artista francese tornato dall’aldilà era stato trovato dopo settimane che lacomunità mondiale lo stava cercando. Aveva sposato la donna ultracinquantenne che gli aveva datoospitalità e si era adoperata perché il suo nome diventasse famoso.

Jean Rideau si era rifiutato di rilasciare dichiarazioni alla stampa riguardo ai motivi della propriafuga, ma questo non aveva impedito ai media di assediarlo. La casupola in cui si era nascosto, pocopiù di una baracca alla periferia di Rio, era stata circondata da giornalisti e investigatori e, in brevetempo, si era reso necessario mandare dei militari a mantenere l’ordine pubblico. Jean e sua moglieerano riusciti a restarvi per quasi una settimana, protetti dalla folla da un cordone di polizia.

Poi la folla si era fatta troppo numerosa, i poliziotti troppo pochi, ed era stato necessarioallontanare dalla città il famoso artista francese e sua moglie. Era stato allora che era iniziata lasommossa. Quel giorno erano morti tanti Redivivi quanti Veri Vivi. E tutto a causa del fascino diJean Rideau e del potenziale della sua opera postuma.

Se si doveva credere ai giornali, le vittime dei disordini alla periferia di Rio erano statecentinaia. Per la maggior parte erano morte schiacciate sotto i piedi della gente che era fuggitaquando la polizia aveva aperto il fuoco.

Le altre erano state uccise dalle pallottole dei poliziotti.E quando la sommossa era stata sedata, dopo che Jean Rideau e sua moglie erano stati allontanati

da Rio (con il governo francese che strepitava perché venissero riportati in patria), nessun viaggioera stato organizzato per loro perché, a qualche punto di quella follia, la moglie di Jean aveva presoun colpo alla testa e adesso giaceva in coma, mentre il mondo ancora pretendeva che lei e suo maritodicessero qualcosa, interpretassero qualche misterioso ruolo, rivelassero qualche segreto su quelloche accadeva dopo la morte mediante l’arte di lui.

Ma Jean non desiderava altro che stare con la donna che amava.

Il pastore e la sua fragile moglie erano seduti alle estremità opposte del divano a guardare latelevisione. Tra loro c’era spazio sufficiente a far sedere un altro adulto. Lui sorseggiava un caffè eogni tanto lo girava solo per sentire il tintinnio del cucchiaino contro la ceramica.

Sua moglie era seduta con i piccoli piedi infilati sotto di sé, le mani in grembo e la schiena eretta.Una posizione allo stesso tempo compunta e felina. Di tanto in tanto alzava una mano e si accarezzavai capelli senza sapere bene perché.

Alla televisione, una nota conduttrice di talk-show stava intervistando un religioso e unoscienziato. La specializzazione dello scienziato non era chiara, ma era diventato famoso per un libroche aveva scritto sui Redivivi nei primi tempi della loro comparsa.

«Quando finirà tutto questo?» chiese la conduttrice, anche se non era chiaro a chi fosse rivolta ladomanda. Forse per modestia, o forse semplicemente perché non conosceva la risposta (almeno,questo pensò il pastore Peters), il ministro rimase in silenzio.

«Presto» affermò lo scienziato. Il suo nome apparve in fondo allo schermo, ma il pastore Petersnon si curò di memorizzarlo. Poi l’uomo tacque, come se quell’unica parola fosse sufficiente.

«E se qualcuno avesse bisogno di una risposta più specifica?» chiese la conduttrice. Prima di

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fissare la telecamera, guardò verso il pubblico in studio, come per comunicare che era una di loro.«Una situazione come questa non può durare per sempre» rispose lo scienziato. «In parole

povere, c’è un limite al numero di persone che possono tornare dall’aldilà.»«Che stupidaggine» commentò la moglie del pastore. «Come fa quest’uomo a dire quante persone

possono resuscitare?» Le sue mani si contrassero nervosamente. «Come può fingere di saperequalcosa? Questa è opera di Dio. E Dio non ha bisogno di spiegarci le Sue azioni!»

Il pastore si limitò a restare seduto, gli occhi fissi sullo schermo. Sua moglie lo guardò, ma luirimase zitto. «È ridicolo!» insistette lei alla fine.

Alla televisione, finalmente il ministro intervenne nella conversazione, ma lo fece con cautela.«Credo sarebbe meglio se mantenessimo tutti la calma, in questo momento. Nessuno di noi devepretendere risposte. Può essere molto pericoloso.»

«Amen» disse la moglie del pastore.«Ciò che il reverendo intende è che questi eventi vanno oltre le competenze della religione.» Lo

scienziato si aggiustò la cravatta. «Forse un tempo, quando ancora credevamo a spiriti e fantasmi,sarebbe stata una questione di pertinenza della chiesa. Ma non è più il caso. Non con i Redivivi.Sono persone. Reali, tangibili. Sono esseri fisici. Non fantasmi. Possiamo toccarli. Possiamoparlare con loro. E, a loro volta, i Redivivi ci toccano, ci rispondono. » Scosse la testa e siappoggiò all’indietro con aria compiaciuta. «È una questione scientifica ora.»

La moglie del pastore si sedette più eretta alla propria estremità del divano.«Sta solo cercando di fare colpo sugli ascoltatori» disse suo marito.«Be’, ci riesce» replicò lei. «Non capisco perché lascino parlare in televisione certa gente.»«E lei, cosa ha da dire in merito, Reverendo?» domandò la conduttrice. Era tra il pubblico ora,

con un microfono in mano e un blocco di foglietti azzurri nell’altra. Si fermò accanto a un uomocorpulento, vestito come se fosse reduce da un’escursione in un territorio aspro e gelido.

«In merito...» iniziò il reverendo con calma, «direi che in nessun caso si può separare il mondofisico da quello dello spirito. Dio e il soprannaturale sono le radici dalle quali cresce il mondofisico. A dispetto di tutti i progressi della scienza, a dispetto delle sue tante discipline e delle sueteorie, delle moderne falangi della tecnologia, le domande fondamentali... come è nato l’universo,qual è lo scopo ultimo dell’umanità... restano ancora senza risposta da parte della scienza.»

«Bene, allora cosa ha da dire Dio in proposito?» urlò l’uomo corpulento, prima che dalla follapotesse partire un applauso per le parole del ministro. Passò una grossa mano carnosa intorno almicrofono e alle dita della conduttrice e abbaiò un’altra domanda. «Se dice che questi dannatiscienziati non sanno nulla, allora cosa sa lei, reverendo?»

Il pastore Peters sospirò. Si portò le dita alla tempia e cominciò a strofinarsela. «Si è incastratocon le sue stesse mani» osservò. «Tutti e due lo hanno fatto.»

«In che senso?» chiese la moglie.Non dovette attendere a lungo la risposta.In televisione, l’atmosfera si era fatta accalorata, convulsa. L’omone aveva strappato il microfono

dalle mani della conduttrice e stava urlando che sia il reverendo che il famoso scienziato nonvalevano un accidente perché non facevano che promettere risposte e non ne davano. «Alla fine deiconti, siete inutili tutti e due!» concluse l’uomo in un ringhio.

Dal pubblico si alzarono acclamazioni e applausi scroscianti, e l’uomo corpulento si lanciò inun’arringa sul fatto che nessuno, non la scienza, non le chiese, non il governo, aveva una risposta per

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spiegare il mare di Redivivi in cui tutti i Veri Vivi presto sarebbero annegati. « Ci raccomandano diaspettare con pazienza come bambini, mentre i morti viventi ci stanno trascinando alla tomba auno a uno!»

«Spegni» disse il pastore Peters.«Perché?» chiese sua moglie.«Allora lascia acceso.» Si alzò. «Io vado nel mio studio. Ho un sermone da scrivere.»«Credevo l’avessi finito.»«Ce n’è sempre un altro da scrivere.»«Potrei aiutarti.» Sua moglie spense il televisore. «Non occorre che io guardi certe cose.

Preferisco stare con te.»Il pastore prese la propria tazza e passò una mano sul tavolino per asciugare l’alone. Muoveva il

corpo enorme lentamente e con grande precisione, come faceva sempre.Anche sua moglie si alzò e finì l’ultimo sorso di caffè. «Questa trasmissione mi ha suggerito

un’idea per un sermone su come le persone non dovrebbero farsi fuorviare dai falsi profeti.»Il pastore fece un mugolio vago.«Credo che tutti debbano capire che questo non sta succedendo per caso. Devono rendersi conto

che fa parte di un piano. La gente ha bisogno di sentirsi dire che esiste un disegno superiore.»«E quando mi chiederanno quale sia questo disegno?» ribatté il pastore senza guardare la moglie.

Si avviò verso la cucina. Lei lo seguì.«Dirai loro la verità. Che non lo conosci, ma che sei certo che esiste. È questo il punto più

importante. È di questo che ha bisogno la gente.»«La gente è stanca di aspettare. È il problema di ogni prete, ministro, predicatore, sciamano,

stregone di voodoo... La gente è stanca di sentirsi dire che c’è un piano, e di non sapere quale sia.»Si girò a guardarla. Sembrava più piccola del solito, piccola e inadeguata. Sarà sempre l’immaginedell’inadeguatezza, pensò lui a un tratto. Quel pensiero lo raggelò.

Anche lei restò in silenzio. Da quando era iniziata quella storia dei Redivivi, suo marito eracambiato. Qualcosa si era messo tra loro. Qualcosa di cui lui si rifiutava di parlare. Qualcosa chenon osava dire nei sermoni.

«Devo mettermi al lavoro» disse il pastore Peters, e accennò a lasciare la cucina. Lei gli si paròdavanti, un fiore davanti a una montagna. La montagna si fermò di fronte al fiore, come aveva semprefatto.

«Mi ami ancora?» chiese la donna.Lui le prese la mano. Poi si inchinò e gliela baciò gentilmente. Le tenne il viso tra le mani e le

sfiorò le labbra con il pollice. E la baciò di nuovo, a lungo.«Certo che ti amo» assicurò dolcemente. Ed era la verità.Poi la sollevò da terra con grande gentilezza, e la scostò per passare.

Quel giorno Harold era più astioso del solito. Si moriva di caldo, per poco che valesse la morteultimamente.

Era seduto sul suo letto con le gambe attirate al petto, una sigaretta spenta tra le labbra e uno stratouniforme di sudore sulla fronte. Fuori, nel corridoio, i ventilatori ronzavano, muovendo appena l’ariasufficiente a far svolazzare un foglio di carta qua e là.

Presto Jacob sarebbe tornato dal bagno e sarebbe stato il suo turno. Bisognava presidiare i letti,

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ormai. Troppe persone nella scuola non avevano un posto in cui dormire e quando qualcuno lasciavaun letto incustodito, anche solo per un attimo, al suo ritorno scopriva che quella notte sarebbe statolui a dormire per terra sotto le stelle.

Ormai gli unici oggetti che una persona possedeva erano quelli che poteva tenersi addosso.Harold era fortunato perché aveva una moglie che veniva a trovarlo e gli portava un cambio d’abitiogni volta che ne aveva bisogno e del cibo quando aveva fame, ma non sarebbe durata. Le visite nonerano più consentite con la frequenza di una volta. «Troppa gente» sostenevano i militari.

Era vero che era difficile gestire tante persone, tra Redivivi e Veri Vivi, ma si temeva anche chenella scuola potessero infiltrarsi dei sobillatori. Era già successo nello Utah. Era scoppiata unarivolta e i prigionieri erano ancora trincerati nel deserto, con le loro armi e le loro richieste.

Il governo non aveva ancora deciso che posizione prendere, così li lasciava nel campo diconcentramento, circondati da uno spiegamento di soldati che i ribelli non avrebbero mai potutosperare di sopraffare. Era una settimana che la situazione era arrivata a quel punto morto, e solo lapresenza dei media e il ricordo dell’incidente di Rochester teneva a freno i militari.

Così, tutti i giorni, uomini armati consegnavano i viveri e i ribelli, costituiti esclusivamente daVeri Vivi, urlavano richieste di libertà e pari diritti per i Redivivi mentre uscivano con cautela dalrecinto e ritiravano il cibo. Prima di tornare a ritirarsi dietro le loro barricate.

Ma anche se ad Arcadia, in confronto a Rochester e alla morte di quei soldati tedeschi e dellafamiglia ebrea, le cose filavano lisce come l’olio, il Bureau non voleva correre rischi. Così adesso,nella scuola, il livello di sicurezza era aumentato e Lucille poteva fare visita al marito e al figlio solouna volta alla settimana. Erano troppe le persone ammassate in un ambiente inadeguato a ospitarle ecorreva voce che stessero facendo piani per creare spazio, il che poteva solo significare che moltisarebbero stati trasferiti altrove. Harold aveva un brutto presentimento al riguardo.

L’acqua cominciava a scarseggiare ad Arcadia. Tutto era razionato. E se il razionamento dellederrate alimentari era un disagio, avere poca acqua a disposizione sembrava insopportabile.

Anche se nessuno pativa la sete, si era fortunati se ci si poteva fare una doccia ogni tre o quattrogiorni. I prigionieri avevano imparato a tenere i propri vestiti il più puliti possibile.

All’inizio era parsa una cosa trascurabile, a volte persino divertente. Tutti sorridevano emangiavano coi mignoli alzati e tovaglioli di carta in grembo o infilati nei colletti delle camicie. Equando capitava di rovesciare qualcosa, si affrettavano a pulirsi con aria solenne. All’inizio, tutti ciavevano tenuto ad avere un aspetto decoroso e si erano rifiutati di lasciarsi andare.

Avevano avuto dignità, al principio. Come se quella situazione fosse provvisoria e, da un giornoall’altro, avessero potuto tornarsene a casa, sedersi sul divano e riprendere a guardare il proprioprogramma preferito in televisione.

Ma poi le settimane erano diventate un mese, e ancora nessuno era a casa sul divano a guardare latelevisione. E quando il primo mese era passato e i prigionieri avevano cominciato a capire che nonsarebbero mai tornati a casa e che la situazione sarebbe solo peggiorata, avevano cominciato acurarsi sempre meno del proprio aspetto e del giudizio altrui.

Il Bureau non riusciva più a tenere la struttura pulita. Nell’ala occidentale della scuola i gabinettisi erano rotti, ma questo non aveva impedito alle persone di continuare a usarli.

Altri non lo facevano nemmeno più. Urinavano e facevano i loro bisogni ovunque avessero un po’di privacy. Alcuni non avevano nemmeno bisogno di privacy.

Il malcontento serpeggiava. I Redivivi non sopportavano di essere trattenuti contro la loro

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volontà. Passavano le giornate a struggersi, a desiderare di tornare dai loro cari o, quanto meno, auna vita normale. E se alcuni di loro non avevano un’idea precisa su quello che volevano o su dovevolevano andare, sapevano con esattezza quello che non volevano: essere tenuti prigionieri adArcadia.

In tutto il campo, i Redivivi cominciavano a lamentarsi. A perdere la pazienza.Non era difficile prevedere quello che prima o poi sarebbe successo.

Poco prima delle cinque del mattino, tutti i giorni da settimane, una mezza dozzina di cittadini diArcadia riceveva la telefonata di Fred Green. Quando rispondevano non c’erano convenevoli,nessuna scusa per l’orario, solo la voce rauca e brusca di Fred che sbraitava: «Presentati tra un’ora!Porta cibo sufficiente per tutta la giornata. Arcadia ha bisogno di noi!».

Nei primi giorni della loro protesta, Fred e la sua squadra si erano tenuti a debita distanza daisoldati e dal cancello dal quale entravano i pullman pieni di Redivivi. Inizialmente, non avevanosaputo bene con chi dovessero prendersela: se con il governo o con i Redivivi.

Sì, i Redivivi erano esseri orribili e contro natura, ma era stato il governo a requisire Arcadia.Era stato il governo a portare lì i soldati, gli uomini in giacca e cravatta, i costruttori e tutti gli altri.

Protestare era un lavoro duro. Più duro di quanto Fred e gli altri si fossero aspettati. Avevano calidi energia e le loro gole erano quasi costantemente infiammate. Ma ogni volta che un pullman caricodi Redivivi appariva in fondo alla strada, diretto verso la scuola, ritrovavano lo slancio.Imbracciavano i cartelli, alzavano il volume delle voci stanche, agitavano i pugni.

«Andatevene!» urlavano. «Non vi vogliamo qui! Via da Arcadia!»Con il passare dei giorni, Fred e gli altri si stancarono di urlare da lontano. Presero l’abitudine di

pararsi davanti ai pullman. Stavano attenti, però. Un conto era esprimere il proprio dissenso e farsapere al mondo che c’erano ancora brave persone che non intendevano starsene sedute indifferentimentre tutto andava in malora. Un altro conto era farsi investire e diventare dei martiri.

Così aspettavano che i pullman si fermassero al cancello prima di attraversare la strada con icartelli, urlando e agitando i pugni. Una volta uno di loro arrivò al punto di raccogliere un sasso etirarlo, anche se, andava detto, era stato attento a lanciarlo dove non poteva fare male a nessuno.

Ma, ogni giorno che passava, Fred e gli altri si facevano più audaci.La settimana dopo, c’erano quattro soldati invece che uno solo al posto di guardia. Se ne stavano

con le braccia dietro la schiena e i visi severi e inespressivi. Tenevano d’occhio i dimostranti, senzafare nulla per provocarli.

Quando arrivavano i pullman con i Redivivi, i soldati uscivano dalla guardiola.Fred Green e i suoi amici rispettavano quella dimostrazione di autorità. Così urlavano i loro

slogan e le loro maledizioni senza minacciare i soldati in alcun modo. Era una beneducatadisubbidienza civile.

Erano le sei passate da poco, quel giorno che si rivelò straordinario, quando Fred Greenparcheggiò nel vialetto di Marvin. Il sole era appena sorto. «Ben arrivato» chiamò John Watkins. Eraseduto sul suo pickup con la portiera aperta e una gamba che dondolava fuori dall’abitacolo. La radioera accesa, e la musica usciva gracchiante e metallica dalle vecchie casse. Una canzone su una exmoglie da dimenticare.

«Quanti me ne sono persi?» chiese Fred, il tono aspro. Smontò dal suo pickup e afferrò il cartello.Era di cattivo umore. Aveva passato un’altra notte agitata e, come accade a certi uomini, aveva

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deciso che prendersela con il mondo intero era il modo migliore di gestire quella cosaincomprensibile che stava succedendo nel suo cuore.

«Cosa c’è che non va?» chiese John. «Ti senti bene?»«Benissimo.» Fred fece una smorfia e si asciugò la fronte, senza sapere esattamente quando aveva

cominciato a sudare. «Molti pullman questa mattina?»«Nessuno, finora.» Marvin Parker era arrivato alle spalle di Fred. Questi si girò di scatto, il volto

arrossato. «Fred, tutto bene?» chiese Marvin.«Bene» sibilò lui.«Gli ho chiesto la stessa cosa anch’io» intervenne John. «Ha una brutta cera, vero?»«Dannazione!» sbraitò Fred. «Diamoci da fare.»Uscirono in strada come tutte le mattine. Non facevano altro, ultimamente. Solo quella piccola

disubbidienza civile. I campi di Fred erano pieni di erbacce, il suo granturco cominciava a marciresugli steli. Non si recava alla segheria da settimane.

Non riusciva più a condurre una vita normale. Tutta colpa delle notti insonni, e la colpa di questeera dei Redivivi.

Alla fine arrivarono i pullman. Ogni volta che ne passava uno, Fred urlava: «Andate al diavolo,mostri!». Gli altri lo imitavano. Fred era più teso del solito, quel giorno, così anche gli altri siinnervosirono. Urlarono più forte, scrollarono i loro cartelli con più energia, e alcuni si misero acercare dei sassi da tirare.

Alla fine i soldati di turno temettero che la situazione potesse degenerare e chiamarono rinforzi.Uno dei militari intimò a Fred e agli altri di calmarsi.

«All’inferno i Redivivi!» urlò Fred per tutta risposta.Il soldato ripeté l’avvertimento con voce più severa.«Al diavolo il Bureau!» urlò Fred.«Questa è l’ultima volta che ve lo ripeto» disse il soldato, impugnando una bomboletta di spray

urticante.«Va’ al diavolo anche tu!» sbraitò Fred. Poi sputò in faccia all’uomo e la diplomazia cessò.Tutto iniziò con Marvin Parker che correva davanti a uno dei pullman in arrivo. Probabilmente era

la cosa più stupida che avesse fatto in vita sua, eppure eccolo lì, in mezzo alla strada, a urlare eagitare il cartello rifiutandosi di spostarsi. Due soldati gli saltarono addosso e lo buttarono a terra,ma lui era sorprendentemente agile per un uomo della sua età. Scattò in piedi come una molla. Ilpullman di Redivivi si fermò con uno stridio di gomme davanti alla mischia.

Fred e gli altri (erano quasi una dozzina) caricarono il pullman e cominciarono a batterci contro ipugni, urlando e imprecando. I soldati li agguantavano e li tiravano via, ma erano ancora restii adazionare gli spray urticanti. Dopotutto, Fred e i suoi compari erano inoffensivi da settimane. I soldatistavano ancora cercando di capire cosa fosse cambiato quel giorno.

Poi Marvin Parker sferrò un gancio destro alla mascella di uno dei soldati, facendolo stramazzarea terra privo di conoscenza. Marvin era un tipo smilzo, ma aveva tirato di boxe quando eraabbastanza giovane da poterselo permettere.

E a quel punto, si scatenò la zuffa.Un paio di braccia robuste afferrarono Fred per la vita e lo sollevarono da terra. Lui cercò di

liberarsi, ma l’altro era troppo forte. Fred scalciò selvaggiamente e colpì la nuca di qualcuno. Lamorsa intorno alla sua vita si spezzò e Fred cadde contro le gambe di un soldato, che gli finì addosso.

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Qualcuno stava urlando: «Fascisti!», rendendo la zuffa ancora più surreale. I Redivivi guardavanola scena dai finestrini, cercando di capire se dovessero spaventarsi o meno.

«Non preoccupatevi» disse loro l’autista del pullman. «Sono settimane che vedo questi tizi.»Aggrottò la fronte. «Sono praticamente innocui.»

Fred stava imprecando e lottando con il giovane soldato che era finito a terra con lui, quando altredue mani lo afferrarono, accompagnate dalla voce di Marvin Parker. «Andiamo, Fred! Muovi ilculo!» A dispetto del loro furore, Fred e i suoi seguaci non avevano né l’addestramento né, tantomeno, la giovinezza dei militari.

Fred si tirò in piedi barcollando e si mise a correre. Nonostante l’adrenalina, si sentiva esausto.Era troppo vecchio per certe cose. Non era stato lo scontro che si aspettava. Non avevano risoltoniente. Niente di niente.

Marvin rideva mentre scappavano. Evidentemente non condivideva lo sfinimento e la frustrazionedi Fred. Un rivoletto di sudore gli colava lungo la tempia, ma la sua lunga faccia sparuta scintillavad’eccitazione. «Wow!» ululò. «Accidenti, se è stato bello!»

Fred si guardò alle spalle per vedere se i soldati li stessero inseguendo. Non lo facevano.Avevano buttato giù un paio di dimostranti e li tenevano fermi sull’asfalto. Tutti gli altri si stavanoallontanando di corsa, alcuni con delle contusioni sulla faccia, ma tutto sommato senza aver riportatoseri danni.

Raggiunsero i pickup, ognuno si arrampicò a bordo del proprio e i motori si avviarono. Marvinsaltò su con Fred e questi partì facendo stridere le gomme.

«Avranno pensato che abbiamo imparato la lezione» disse Fred, guardando nello specchiettoretrovisore. Nessuno li stava inseguendo.

Marvin rise. «Allora non ci conoscono. Saremo di nuovo qui domani!»«Vedremo» fu tutto ciò che riuscì a dire Fred. Stava riflettendo. «Potrei avere un piano migliore»

aggiunse. «Qualcosa che potrebbe piacerti ancora di più, dato che sembri più in forma di noi.»«Wow!» ululò Marvin.«Come te la cavi a tagliare recinzioni?» chiese Fred.

Harold aveva fastidio ai piedi. Seduto sulla sua branda, si tolse scarpe e calze. C’era qualcosa chenon andava. I piedi gli prudevano e sapevano un cattivo odore, in particolar modo fra le dita. Pieded’atleta, probabilmente. Si strofinò l’alluce e grattò tra le dita finché la pelle non si arrossò.

Decisamente, una micosi.«Charles?» chiamò Patricia dalla branda accanto. Sembrava nel dormiveglia.«Sì?» rispose Harold. Si rimise i calzini, ma decise di lasciar perdere le scarpe.«Charles, sei tu?»«Sono io» rispose Harold. Si spostò sul bordo del materasso e le batté su una spalla per

svegliarla del tutto. «Alzati. Stavi sognando.»«Oh, Charles.» Una singola lacrima le colò lungo la guancia mentre si tirava su a sedere. «È stato

orribile. Orribile. Erano tutti morti.»«Su, su» la consolò Harold. Si alzò e si sedette accanto a lei. Un ragazzo dall’aria trasandata che

stava passando nel corridoio sbirciò dentro, vide la branda vuota e fece per entrare. «È il mio letto»lo prevenne Harold. «Ed è mio anche quello accanto.»

«Non può occupare due letti, mister» disse il ragazzo.

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«Infatti non li occupo» replicò Harold. «Ma questi tre letti appartengono alla mia famiglia. Questoè il mio e quello accanto di mio figlio.»

Il ragazzo osservò Harold e l’anziana donna di colore con sospetto. «E questa sarebbe suamoglie?»

«Sì.»Il ragazzo continuò a restare lì.«Charles, Charles, Charles.» Patricia batté su una coscia di Harold. «Sai quanto ti amo, vero?

Certo che lo sai. Come sta Martin?» Guardò verso il ragazzo fermo sulla porta. «Martin, caro, dovesei stato? Vieni qui, bambino mio, lascia che ti abbracci. Sei stato via troppo a lungo. Vieni a dare unbacio a tua madre.» Parlava con una voce lenta, deliberata e priva di accento, che rendeva le sueparole ancora più sconcertanti.

Harold sorrise e le prese la mano. Non sapeva quanto fosse lucida la donna in quel momento, manon aveva importanza.

«Sono qui, cara» le disse. Le baciò delicatamente la mano. Poi fissò il ragazzo. «E ora vattene.Solo perché ci hanno rinchiusi qui come animali non significa che dobbiamo comportarci come tali!»

Il ragazzo girò sui tacchi e proseguì lungo il corridoio, con la testa che sfrecciava a destra esinistra, in cerca di un altro letto di cui appropriarsi.

Harold sbuffò.«Come sono andata?» chiese Patricia con una risatina.Lui le strinse la mano. «Fantastica.»Tornò sulla propria branda, continuando a girarsi per assicurarsi che nessuno si intrufolasse

dentro e occupasse il letto di Jacob.«Non occorre che tu mi ringrazi, Charles.»Harold cercò di sorridere.«Vuoi una caramella?» A un tratto lei si batté sulle tasche del vestito. «Vedo se la trovo.»«Non preoccuparti» disse Harold. «Non ce l’hai.»«Potrei» fece lei, ma aveva l’espressione delusa. Le sue tasche erano vuote.Harold si sdraiò e si asciugò il sudore dalla faccia. Era l’agosto più afoso che ricordasse. «Non

ne hai mai.»La donna si alzò e si lasciò cadere sulla branda di lui con un gemito.«Sono di nuovo Marty, ora» disse Harold.«Su, non mettere il broncio. Ti compro le caramelle appena vado in città. Non puoi fare i capricci

così. Tuo padre e io ti abbiamo insegnato a comportarti bene. Non mi piacciono i bambini viziati.»Harold si stava abituando a questa nuova fissazione senile. Per la maggior parte del tempo era

Jacob a impersonare il ruolo di Marty. Ma ogni tanto qualcosa scattava nella mente di Patricia e,senza preavviso, Harold passava dalla parte del marito a quella del figlio. Il quale, secondo i suoicalcoli, doveva essere sui sette anni.

Non che ci fosse qualcosa di male in questo. Né c’era alternativa. Così Harold, a dispetto del suocaratteraccio, si limitò a chiudere gli occhi e lasciò che la donna lo rimproverasse dolcemente,dicendogli che doveva imparare a comportarsi da bravo bambino.

Per un po’ Harold tentò di rilassarsi, ma non riusciva a smettere di pensare a Jacob. Si eraallontanato per andare in bagno da un bel po’ e non era ancora tornato. Harold si disse che non c’eramotivo di preoccuparsi. Trovò un sacco di motivi plausibili per quell’assenza.

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Motivi come il fatto che probabilmente era passato meno tempo di quanto lui credesse. Eradifficile avere il senso dell’orario, lì dentro.

Si tirò a sedere sul letto e fissò il corridoio, intensamente, quasi potesse materializzare Jacob conlo sguardo. Ma suo figlio ancora non si vedeva.

Anche se era fuori allenamento da cinquant’anni, Harold era ancora un padre. Si angustiava comefanno tutti i genitori. Immaginò Jacob che si avviava verso il bagno (anche se in buona parte eranofuori uso, era ancora là che le persone andavano quando ne avevano bisogno) e si fermava a parlarecon qualcuno. Poi nella mente di Harold lo scenario cambiava, e Jacob veniva fermato da un soldato.Il soldato chiedeva al bambino di andare con lui. Jacob protestava e il soldato lo afferrava per la vitae se lo caricava in spalla, urlante e scalciante.

«No» sussurrò Harold tra sé. Scosse la testa e si disse che non poteva essere andata così.Si affacciò nel corridoio, guardando a destra e sinistra. C’era gente che andava e veniva. Ancora

più di ieri, pensò. Si girò a controllare che la signora Stone fosse ancora addormentata. Poi fissò ledue brande vuote.

Se si fosse allontanato, al suo ritorno avrebbe potuto trovarle occupate.Ma l’immagine di Jacob trascinato via da un soldato continuava a tormentarlo e decise che era un

rischio che valeva la pena correre.Uscì in fretta in corridoio, sperando che nessuno capisse esattamente da che stanza fosse sbucato.

Urtò alcune persone lungo il tragitto, e non poté fare a meno di meravigliarsi per la diversità deiprigionieri. Anche se erano quasi tutti americani, sembravano provenire dai luoghi più svariati. Ilmiscuglio di accenti era sorprendente.

Quando fu in prossimità del bagno, Harold incrociò un soldato. Camminava con la schiena eretta egli occhi fissi davanti a sé, come se fosse accaduto qualcosa di serio che richiedeva il suo intervento.

«Ehi!» chiamò Harold. «Ehi!»Il soldato, un ragazzo dai capelli rossi con la faccia butterata dall’acne, non lo sentì. Harold riuscì

ad allungare un braccio e a trattenerlo prima che lo superasse.«Ha bisogno di qualcosa?» chiese il soldato in tono frettoloso. Sulla sua divisa era ricamato il

nome Smith.«Salve, Smith» disse Harold, cercando di apparire allo stesso tempo cortese e preoccupato.

Meglio tenere a freno l’agitazione. «Mi scusi. Non volevo afferrarla così.»«Sono in ritardo per una riunione, signore» disse il ragazzo. «Cosa posso fare per lei?»«Sto cercando mio figlio.»«E probabilmente non è il solo» ribatté Smith senza nascondere l’impazienza. «Ne parli con la

polizia militare. La aiuteranno loro.»«Dannazione, perché non può farlo lei?» Harold raddrizzò la schiena. Smith era alto e muscoloso.

Sicuramente forte.Il soldato strizzò gli occhi, valutando il vecchio.«Ho bisogno di una mano per cercarlo» disse Harold in tono più mite. «È andato in bagno da un

bel pezzo e...»«In bagno non c’era più?»«Be’...» Harold esitò. Erano anni che non si comportava in modo tanto irrazionale, si rese conto.

«Non ci sono ancora arrivato» ammise alla fine.Smith sospirò seccato.

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«Vada pure» disse Harold. «Lo troverò da solo.»Smith non aspettò che Harold cambiasse idea. Si voltò e sfrecciò via, zigzagando rapido tra la

folla.«Bastardo di un pivellino» bofonchiò Harold tra sé. Anche se sapeva che Smith non aveva

nessuna colpa, inveire contro di lui lo faceva sentire meglio.Quando raggiunse il bagno, Jacob stava uscendo. Aveva i vestiti e i capelli un po’ in disordine, il

faccino arrossato. «Jacob, cos’è successo?»Gli occhi del bambino si fecero enormi. Cominciò a infilarsi la camicia nei pantaloni e cercò di

ravviarsi i capelli. «Niente.»Harold si accovacciò e alzò il mento del figlio con un dito, guardandolo bene in faccia.«Ti sei azzuffato» disse.«Hanno cominciato loro.»«Loro chi?»Jacob si strinse nelle spalle.«Sono ancora lì dentro?» chiese Harold, guardando verso il bagno.«No» disse Jacob. «Se ne sono andati.»Harold sospirò. «Cos’è successo?»«È perché abbiamo una stanza nostra.»Harold si guardò attorno, sperando che i bambini con cui Jacob aveva litigato fossero ancora nelle

vicinanze. Era arrabbiato, eppure una parte di lui era stranamente fiera di suo figlio. (Gli era giàsuccesso una volta, quando Jacob aveva appena compiuto i sette anni e aveva fatto a pugni colragazzo degli Adams. Harold era stato presente, allora. Era stato lui a separarli. E ancora adesso sisentiva un po’ in colpa per averlo fatto, dato che Jacob stava vincendo.)

«Ho vinto.» Jacob sorrise.Harold si girò perché il bambino non vedesse il suo sogghigno compiaciuto. «Su» gli disse.

«Vieni. Abbiamo già avuto abbastanza avventure per oggi.»Per fortuna nessuno aveva preso i loro letti quando rientrarono nell’aula di disegno. L’anziana

signora dormiva ancora.«Viene la mamma oggi?»«No» rispose Harold.«Domani?»«Probabilmente no.»«Dopodomani?»«Sì.»«Due giorni, allora?»«Sì.»«Okay.» Jacob si alzò in piedi sul suo letto, tirò fuori dalla tasca un mozzicone di matita e fece

due segni sul muro.«C’è qualcosa che vuoi farti portare?»«Intendi, da mangiare?»«Intendo in generale.»Il bambino ci pensò un attimo. «Un’altra matita. E della carta.»«Okay, mi sembra una richiesta ragionevole. Vuoi disegnare, immagino.»

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«Voglio scrivere degli indovinelli.»«Come mai?»«Quelli che sapevo li ho già raccontati a tutti.»«Ah. Bene...» Harold sospirò. «Succede anche ai migliori.»«Tu ne hai di nuovi da insegnarmi?»Harold scosse la testa. Era l’ottava volta che il bambino glielo chiedeva, ed era l’ottava che lui

gli diceva di no.«Marty?» sussurrò la vecchia signora nel sonno.«Cosa c’è che non va in lei?» chiese Jacob, guardando Patricia.«È un po’ confusa. Succede, a volte, quando si invecchia.»Jacob guardò la donna, poi il padre, quindi di nuovo la donna.«A me non accadrà» assicurò Harold.Era quello che il bambino voleva sentirsi dire. Si spostò verso il fondo del proprio letto e si

sedette con i piedi che dondolavano dal bordo, quasi a toccare il pavimento. Raddrizzò la schiena esi mise a fissare la porta, davanti alla quale c’era un viavai di gente.

In quelle ultime settimane l’agente Bellamy sembrava sempre più sopraffatto dalla situazione. Lui eHarold non tenevano più i loro colloqui nell’afa soffocante della scuola, dove non c’erano né ariacondizionata né ventilazione, ma solo il puzzo di troppe persone confinate in uno spazio tropporistretto.

Ora parlavano fuori, mentre tiravano ferri di cavallo in un cortile dove non c’erano né ariacondizionata né ventilazione, ma solo l’afa soffocante di agosto e un’umidità che era come un pugnostretto intorno ai polmoni.

Progressi.Bellamy stava cambiando. Harold lo aveva notato. Le sue guance erano ispide di una barba a

chiazze e i suoi occhi erano insolitamente stanchi e arrossati, come gli occhi di qualcuno che haappena pianto o, quanto meno, non dorme da molto tempo. Ma Harold non era il tipo che fa domandepersonali a un altro uomo.

«Come va tra lei e Jacob ultimamente?» chiese Bellamy. La domanda finì con un piccolo grugnito,nello sforzo del lancio. Il ferro di cavallo descrisse una parabola in aria, poi toccò terra con un tonfo,mancando il paletto. Nessun punto.

Non era un brutto terreno su cui giocare. Uno spiazzo aperto, sul retro della scuola, tra icamminamenti che il Bureau aveva costruito per portare dentro i nuovi arrivati.

Il campo si stava di nuovo saturando, anche se adesso non era più costituito solo dalla scuola, masi era allargato a inglobare parte della città. Proprio quando le persone cominciavano ad abituarsi alritmo di vita, proprio quando si erano ritagliate un posto per se stesse (fosse questo in una delle tendepiantate nei prati o, per i più fortunati, in una delle case di città che il Bureau aveva requisito)arrivava un’altra ondata di gente. Gli spazi si restringevano. La vita si complicava. Solo unasettimana prima, uno dei soldati si era azzuffato con un Redivivo. Nessuno era riuscito a ottenere unaspiegazione chiara sul perché della lite (una banalità, probabilmente), ma il risultato era stato un nasoinsanguinato per il soldato e un occhio nero per il Redivivo.

Alcuni erano sicuri che fosse solo l’inizio.Ma Harold e l’agente Bellamy si tenevano alla larga da certi episodi. Li vedevano accadere

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intorno a loro e cercavano di non farsi coinvolgere. Giocare con i ferri di cavallo li aiutava.Spesso, mentre i due uomini se ne stavano da soli a fare una partita, vedevano Redivivi e Veri

Vivi portati dentro in fila indiana.«Va tutto bene» rispose Harold. Aspirò una boccata di fumo, piantò i piedi e si preparò a tirare. Il

ferro di cavallo tintinnò contro il paletto.Sopra le loro teste, il sole era splendente, il cielo limpido e blu. Era una giornata talmente bella,

pensò Harold, da dargli l’illusione che lui e il giovane uomo del Bureau non fossero altro che dueamici che passavano il tempo in un pomeriggio d’estate. Poi il vento girava e il puzzo del campo liinvestiva, portando con sé il pensiero delle brutture dell’ambiente in cui vivevano, il pensiero dellebrutture del mondo.

Toccava a Bellamy. Mancò di nuovo il paletto e non fece nessun punto. Mentre si sfilava lacravatta, alcuni Redivivi vennero sospinti lungo il camminamento dall’ufficio schedatura fino alcorpo principale della scuola. «Non ci crederebbe, se le raccontassi certe cose che avvengono fuori»disse Bellamy, quando la processione fu passata.

«Faccio già fatica a credere a quello avviene qui dentro» ribatté Harold. «Per quanto riguardaquel che succede fuori, potrei crederci di più se avessimo un televisore e ci fosse consentito diguardarlo.» Tirò una boccata di fumo. «Basarsi su pettegolezzi e passaparola non è un buon modo ditenersi informati.» Lanciò il ferro di cavallo. Atterrò alla perfezione.

«Non è stata una decisione mia» disse Bellamy con quella sua rapida inflessione newyorchese. Idue uomini cominciarono a raccogliere i ferri di cavallo. Harold era in vantaggio di sette punti. «Loha ordinato il colonnello. E, francamente, non posso nemmeno dire che sia stata una decisione sua.Sono stati i pezzi grossi di Washington a volere che televisione e giornali fossero banditi dai centridi detenzione. Io non c’entro proprio niente. Non ho uno stipendio abbastanza alto per decidere certecose.»

«Bene, bene» commentò Harold. Recuperò i propri ferri di cavallo, girò sui tacchi e lanciò. Ilferro fece un atterraggio perfetto. «Suppongo che ora mi dirà che non è neanche colpa dei politici. Ètutta colpa del popolo americano. Dopotutto, sono stati loro a eleggerli. Loro che li hanno messi là aprendere certe decisioni. Lei non può farci niente, no? È solo un piccolo ingranaggio di una grossamacchina.»

«Sì» disse Bellamy vagamente. «Qualcosa del genere.» Toccava a lui e finalmente agganciò ilferro al paletto. Fece un piccolo grugnito di soddisfazione.

Harold scosse la testa. «Ci aspettano brutti momenti.»Bellamy non rispose.«E come sta il colonnello?»«Bene. Sta bene.»«Terribile quello che gli è successo. Quello che stava per succedergli, intendo.» Harold lanciò.

Un altro tiro perfetto. Altri punti.«Già.» Bellamy annuì. «Ancora non capisco come abbia fatto quel serpente a entrare in camera

sua.» Tirò e mancò il paletto, ma questa volta perché gli veniva da ridere.Continuarono a giocare in silenzio per un po’. Anche se adesso ad Arcadia c’erano più persone di

quante avrebbero dovuto esserci, più persone di quante l’agente Bellamy potesse mai sperare diinterrogare o ascoltare (ed era diventato il suo compito principale ora che il colonnello si occupavadella sicurezza e della gestione del campo), manteneva sempre gli appuntamenti con Harold. Da

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tempo aveva rinunciato a parlare con Jacob.«Mi parli della donna» disse Harold dopo un po’. Lanciò il ferro. Non un brutto tiro, ma non

perfetto.«Temo che debba essere più specifico.»«L’anziana signora.»«Continuo a non capire.» Bellamy tirò e mancò il bersaglio di chilometri. «Pare ci siano un sacco

di anziane signore a questo mondo. C’è perfino una teoria che sostiene che, col tempo, tutte le donnediventano vecchie. È davvero un pensiero rivoluzionario.»

Harold rise.Bellamy tirò, e sibilò quando il ferro cadde ancora più lontano del precedente. Poi si avviò verso

l’estremità opposta del campo senza aspettare il suo avversario. Si arrotolò le maniche. Ma ancora, adispetto del caldo e dell’umidità, riusciva a non sudare.

Dopo averlo osservato per un attimo, Harold finalmente lo seguì.«Okay» disse Bellamy. «Cosa vorrebbe sapere?»«Va bene, agente. Mi ha detto che aveva una madre, una volta. Mi parli di lei.»«Era una brava persona. Le volevo bene. Cos’altro c’è da dire?»«Mi pare abbia detto che non è tornata.»«Esatto. Mia madre è ancora morta.»Bellamy abbassò lo sguardo sulle proprie gambe. Si spazzolò un po’ di polvere dai pantaloni e

fissò i pesanti ferri di cavallo che teneva in mano. Aveva le mani sudice. Poi vide che sui pantalonidell’abito non c’era solo quella chiazza di polvere; erano tutti coperti di terra. Come aveva fatto asporcarsi senza accorgersene?

«È morta lentamente» disse dopo un po’.Harold fumava in silenzio. Un altro gruppo di Redivivi veniva sospinto lungo il camminamento

vicino a dove i due uomini giocavano. I nuovi arrivati guardarono il vecchio e l’agente.«Altre domande per me?» chiese Bellamy alla fine. Raddrizzò la schiena, ignorando la sporcizia

dell’abito. Quando tirò, gli si irrigidì il braccio. Mancò del tutto il bersaglio.

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John Hamilton

John rimase seduto ammanettato tra due soldati dalla corporatura massiccia per tutto il tempo incui i due uomini rimasero nell’ufficio a discutere.

L’agente nero con l’abito elegante (Bellamy si chiamava, ricordò John) stava concludendo ilcolloquio, quando il colonnello Willis era entrato coi due grossi soldati che avevano subitoammanettato John. Poi tutto il gruppo aveva marciato verso l’ufficio del colonnello come sequalcuno fosse stato beccato a copiare durante l’esame di matematica.

«Qual è il problema?» chiese John a uno dei soldati. Loro lo ignorarono.Bellamy uscì dall’ufficio del colonnello, camminando in fretta col petto proiettato in avanti.

«Lasciatelo andare» abbaiò ai soldati. Loro si guardarono. «Subito!» aggiunse lui.«Fate come dice» intervenne il colonnello.Quando tolsero le manette a John, Bellamy lo aiutò ad alzarsi e lo allontanò dall’ufficio di

Willis.«Ci siamo capiti, eh?» disse il colonnello, un attimo prima che girassero l’angolo.Bellamy borbottò qualcosa tra i denti.«È per qualcosa che ho fatto?» chiese John.«No. Venga con me.»Uscirono dall’edificio nella luce del sole. C’erano persone che si aggiravano freneticamente

come formiche. «Di che si tratta? Cosa ho combinato?» chiese John.In breve tempo raggiunsero un soldato alto e smilzo, con i capelli rossi e le lentiggini. «No!»

protestò il soldato con voce dura quando vide Bellamy e John avvicinarsi.«L’ultimo» disse Bellamy. «Hai la mia parola, Harris.»«Non me ne frega niente della sua parola» replicò Harris. «Non possiamo continuare così. Ci

scopriranno.»«L’hanno già fatto.»«Cosa?»«Ci hanno scoperto, ma non possono dimostrare nulla. Quindi, questo è l’ultimo.» Indicò John.«Posso chiedere di cosa state parlando?» chiese John.«Lei vada con Harris» tagliò corto Bellamy. «La porterà fuori di qui.» Si mise una mano in

tasca ed estrasse un rotolo di banconote. «È tutto quello che mi resta, comunque. Questo èl’ultimo, ci piaccia o no.»

«Merda» disse Harris. Era ovvio che non voleva farlo, ma era anche ovvio che non volevarinunciare a quel mucchio di soldi. Sbirciò John. «L’ultimo?»

«L’ultimo» confermò Bellamy, ficcando il denaro in mano a Harris. Poi diede una pacca sullaspalla di John. «Vada con lui» ripeté. «Avrei fatto di più, se avessi avuto più tempo. Per ora,posso solo farla uscire di qui. Provi il Kentucky, se può. È più sicuro di tanti altri posti.» Poi siallontanò, in una pozza di sole estivo.

«Di cosa si tratta?» chiese John a Harris.«Probabilmente le ha appena salvato la vita» disse Harris. «Il colonnello pensa che lei fosse

sul punto di essere proposto.»«Proposto da chi? Per fare cosa?»

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Harris contava il denaro che aveva in mano. «Almeno in questo modo, non sarà qui, ma saràancora vivo.»

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14

Harold era seduto sul suo letto, impegnato a guardarsi i piedi e a prendersela col mondo intero.Dannato agosto.Dannata tosse.Jacob e Patricia Stone dormivano nelle loro brande. La fronte di Jacob era lucida di sudore,

quella dell’anziana signora asciutta. Si lamentava sempre del freddo, lei, anche se l’afa eraopprimente come un asciugamano bagnato.

Dalla finestra arrivavano delle voci. Alcune appartenevano a soldati, ma la maggior parte no. Iprigionieri di quel particolare carcere erano in soprannumero rispetto alle guardie. Erano migliaia, aquel punto, pensò Harold. Difficile fare un calcolo.

Proprio sotto la finestra, due uomini si misero a parlare con voce sommessa. Harold trattenne ilfiato e pensò di alzarsi in piedi sul materasso per sentire meglio, ma non si fidava della robustezzadel letto. Così tese l’orecchio, ma riusciva a udire ben poco, a parte bisbigli e mugolii difrustrazione.

Harold si fece scorrere sul letto. Posò i piedi sul pavimento e si stirò in silenzio. Poi si alzò e siprotese verso la finestra, sperando di cogliere qualche parola di più, ma quei dannati ventilatorironzavano come sciami di api giganti nel corridoio.

Infilò nelle scarpe i piedi che gli prudevano e fece per uscire.«Cosa c’è?» chiese una voce dal buio alle sue spalle. Era Jacob.«Vado solo a fare due passi» sussurrò Harold. «Sta’ buono e dormi.»«Posso venire?»«Torno subito» assicurò Harold. «E poi, ho bisogno che tu ti prenda cura della nostra amica.»

Indicò Patricia. «Non può essere lasciata sola.»«Non lo saprà» disse Jacob.«E se si svegliasse?»«Posso venire?» ripeté il bambino.«No. Ho bisogno che tu resti qui.»«Ma perché?»Dall’esterno, arrivò un rombo di veicoli pesanti, poi un crepitio di armi.«Marty?» chiamò la vecchia signora, artigliando l’aria nel destarsi. «Marty, dove sei? Marty!»

chiamò.Jacob la guardò. Poi guardò il padre. Harold si passò una mano sulla bocca e si inumidì le labbra.

Si toccò la tasca, ma aveva finito le sigarette. «Okay» disse, tossendo un po’. «Suppongo che, datoche siamo tutti svegli, possiamo anche uscire insieme. Prendete quello che non volete che vi rubino»istruì. «Temo che questa sia stata l’ultima volta che abbiamo dormito qui. Quando torneremo, saremodei senzatetto... O meglio, dei senzaletto.»

«Oh, Charles» sospirò la vecchia signora. Si tirò a sedere sulla sua branda e infilò le braccia inuna giacca leggera.

Prima ancora che girassero l’angolo, alcune persone entrarono nell’aula ormai vuota ecominciarono a sistemarsi.

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Poter vivere nell’aula di educazione artistica senza essere ammassati insieme a tutti gli altri era lacosa migliore che Bellamy fosse riuscito a fare per Harold, Jacob e la signora Stone. Bellamy eHarold non ne avevano mai parlato, ma Harold era abbastanza sveglio da sapere chi dovesseringraziare.

Ora che stavano lasciando quella stanza, verso l’ignoto, Harold non poté fare a meno di chiedersise non stesse commettendo un tradimento di qualche tipo.

Ma era tardi per i rimpianti.

Fuori, l’aria era umida e densa. Verso est, il cielo cominciava a rischiararsi. Harold guardòl’orologio e si rese conto che era quasi mattino. Era rimasto sveglio per tutta la notte.

C’erano camion e militari che urlavano ordini. Jacob prese la mano del padre. Anche la vecchiasignora gli si avvicinò. «Cosa succede?»

«Non lo so, amore» rispose Harold. Lei lo prese a braccetto, scossa da un piccolo tremito. «Nonpreoccuparti» disse lui. «Mi prenderò cura di tutti e due.»

Quando il soldato arrivò, anche alla fioca luce dell’alba Harold capì che era giovanissimo.Diciott’anni sì e no. «Venite con me» disse il bambino-soldato.

«Perché? Cosa succede?»Harold temeva che si fosse scatenata una rivolta. In quelle ultime settimane la tensione era andata

crescendo ad Arcadia. Troppe persone trattenute contro la loro volontà in uno spazio troppo ristretto.Troppi Redivivi ansiosi di tornare alla propria vita. Troppi Veri Vivi stanchi di vedere i Redivivitrattati come cose invece che come persone. Troppi soldati intrappolati in una situazione più grandedi loro. Per Harold, era inevitabile che finisse male.

La sopportazione ha dei limiti.«Per favore» disse il soldato. «Venite con me. Trasferiamo tutti.»«Ci trasferite dove?»«Pascoli più verdi» rispose il soldato.Fu allora che, dal cancello principale della scuola, arrivarono delle urla. Harold aveva la

sensazione di conoscere quella voce. Si girò e, malgrado la distanza e la luce ancora fioca dell’alba,distinse Fred Green in piedi, faccia a faccia con una delle guardie, in atteggiamento di sfida. Stavagridando e puntava il dito come un invasato, cercando di attirare tutta l’attenzione possibile.

«Chi diavolo è quello?» disse il soldato accanto ad Harold.Lui sospirò. «Fred Green. Un agitatore.»Aveva appena fatto in tempo a pronunciare quelle parole che una specie di banda di delinquenti si

riversò fuori dalla scuola. Erano in venticinque o trenta, calcolò Harold. Correvano, spintonando viai soldati. Tossivano e strillavano. Un denso fumo bianco cominciava a uscire dal portone e da alcunefinestre.

Dalla folla che premeva per uscire dalla scuola, si alzò una voce soffocata. «Noi stiamo dallaparte dei vivi!»

«Per tutti i diavoli» esclamò Harold. Tornò a girarsi verso il cancello. I soldati si erano messi acorrere verso l’edificio, cercando di capire cosa stesse succedendo.

Fred Green era sparito.Probabile, pensò Harold, che fosse tutta opera sua.Tutto a un tratto Marvin Parker emerse dalla scuola in una nuvola di fumo. Indossava degli

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scarponi militari, una maschera anti-gas e una maglietta con la scritta VIA DA ARCADIA scritta apennarello. Si lanciò alle spalle una bomboletta verde che cadde a terra vicino al portone. Un attimodopo, la bomboletta emise uno schiocco e cominciò a esalare un pennacchio di fumo bianco. «Stiamodalla parte dei vivi!» urlò di nuovo, la voce attutita dalla maschera anti-gas.

«Cosa succede?» chiese la signora Stone.«Vieni qui» disse Harold, tirandola via dalla calca.Il giovane soldato con cui aveva parlato era già sfrecciato via verso la folla, il fucile spianato, e

urlava a tutti di scostarsi.Un paio di militari si buttò su Marvin Parker. La cortesia che normalmente avrebbero mostrato a

una persona avanti con gli anni era sparita. Lui si mise a tirare pugni, riuscì persino ad assestarneuno, ma fu tutto. Loro lo afferrarono per le gambe e lui cadde a terra di peso con un grugnito didolore.

Ma era troppo tardi per arrestare la violenza. Tutti erano esasperati. I prigionieri non ne potevanopiù di essere trattenuti lì, lontano dalle persone care. Erano stanchi di essere trattati come Redivivi enon come esseri umani.

Sassi e bottiglie di vetro cominciarono a volare. Harold vide una sedia, probabilmente presa dauna delle aule, descrivere una parabola nel cielo grigio dell’alba e colpire in pieno la testa di unsoldato. L’uomo si accasciò a terra, stringendosi l’elmetto con le mani.

«Signore benedetto!» esclamò la signora Stone.I tre cercarono di ripararsi dietro uno dei camion sul lato opposto del piazzale. Harold sentiva

urlare e imprecare alle proprie spalle mentre correvano. Aspettava gli spari, aspettava le grida didolore.

Sollevò Jacob da terra e lo tenne stretto a sé con un braccio. Con l’altro, cinse la signora Stone.La donna piangeva piano, continuando a ripetere: «Signore benedetto».

«Cosa succede?» chiese Jacob, il fiato caldo contro il collo di Harold. C’era terrore nella suavoce.

«Va tutto bene» cercò di rassicurarlo Harold. «Finirà presto. Queste persone sono solospaventate. Spaventate ed esasperate.» Cominciavano a bruciargli gli occhi e si sentiva un solleticoin gola. «Chiudi gli occhi e cerca di trattenere il fiato.»

«Perché?» chiese Jacob.«Fa’ come ti dico, figliolo» ordinò Harold, la voce piena di rabbia per mascherare la paura. Si

guardò attorno cercando un posto dove portarli, un posto più sicuro, ma temeva che uno dei soldatipotesse scambiarli per insorti. Perché quella era un’insurrezione. Mai avrebbe creduto che potessesuccedere lì ad Arcadia. Erano cose che si vedevano solo in televisione e si verificavano in cittàcongestionate dove troppe persone vivevano ai margini della società.

L’odore dei lacrimogeni si faceva più forte. Pizzicava. Harold si sentiva colare il naso e nonriusciva a trattenere la tosse.

«Papà?» disse Jacob, spaventato.«Va tutto bene» ripeté lui. «Non c’è motivo di avere paura. È tutto a posto.» Sbirciò oltre l’angolo

del camion dietro cui si erano nascosti. Un grosso pennacchio bianco come zucchero filato salivadalla scuola verso il cielo dell’alba. I rumori dei combattimenti, però, si stavano attenuando. Eranocoperti dal suono di decine di persone che tossivano. Di tanto in tanto, nella nebbia, si sentivapiangere qualcuno.

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Le persone emergevano dal nuvolone tossendo e camminando alla cieca, le braccia protese inavanti. I soldati si limitavano a restare fuori dal fumo, lasciando che fosse questo a far uscire la gentee sedare gli animi.

«È quasi finita» disse Harold. Scorse Marvin Parker. Era coricato pancia a terra. Gli avevanotolto la maschera anti-gas.

Non sembrava affatto l’uomo che Harold ricordava. Sì, era ancora alto, magro e pallido, conprofonde rughe intorno agli occhi e capelli rosso fiamma, ma sembrava incattivito. Arrivò perfino asorridere mentre gli ammanettavano i polsi dietro la schiena. «Non finisce qui!» urlò, la facciacontratta in una smorfia crudele, gli occhi che lacrimavano per i gas.

«Signore benedetto» ripeté di nuovo la signora Stone. Afferrò il braccio di Harold. «Cos’è presoalla gente?»

«Andrà tutto bene» cercò di rassicurarla Harold. «Mi occuperò io di voi due.» Frugò nellamemoria, cercando tutto quello che sapeva, o che credeva di sapere, su Marvin Parker. A parte ilfatto che in passato Marvin aveva tirato di boxe, niente spiegava quel comportamento.

«Dov’è finito Fred Green?» si chiese Harold ad alta voce, cercandolo con gli occhi.Ma non lo trovò.Quando il pastore Peters se ne stava trincerato nello studio, raramente sua moglie lo interrompeva.

Se non era lui a chiederle di aiutarlo, lei si teneva alla larga e lasciava che scrivesse da solo i suoisermoni. Ma quel giorno alla porta c’era un’anziana donna sconvolta che chiedeva di parlare con lasua guida spirituale.

La moglie del pastore fece accomodare Lucille in casa, sorreggendola per un braccio.«Grazie» disse Lucille, muovendosi più lentamente di quando avrebbe voluto. Con la mano libera

si stringeva al petto la sua consunta Bibbia di pelle. Cominciava a perdere le pagine, quella Bibbia.La costola si era rotta. La copertina era logora e macchiata. Sembrava allo stremo, proprio come lasua proprietaria.

«Ho bisogno di una benedizione, pastore» iniziò Lucille, quando fu seduta nello studio di lui e lapiccola moglie senza nome li ebbe lasciati soli.

Si tamponò la fronte con un fazzoletto e tormentò la copertina della Bibbia come per cercarviconforto. «Sono smarrita» disse. «Mi aggiro nella landa desolata di un’anima che si interroga!»

Il pastore sorrise. «Un’immagine davvero aulica» disse, sperando di non apparire condiscendente.«È solo la realtà.» Lucille si asciugò gli angoli degli occhi con il fazzoletto e tirò su col naso. Le

lacrime stavano per arrivare.«Qual è il problema, Lucille?»«Tutto!» rispose lei. Le si era inceppata la voce in gola. Se la schiarì. «Che mondo è quello in cui

possono arrivare dei soldati, portarci via da casa nostra, farci prigionieri? Hanno perfino strappatola mia porta dai cardini, pastore. Mi ci è voluta un’ora per aggiustarla. Chi può fare una cosa simile?Siamo vicini alla Fine del Mondo! Dio ci aiuti.»

«Andiamo, signora Lucille. Lei non mi è mai parsa un tipo da fine-del-mondo.»«Non lo ero, ma si guardi attorno. Guardi cosa sta succedendo. È una cosa orribile. Mi fa credere

che forse la colpa non è di Satana, non come dicono, almeno. Forse non è neanche entrato nelgiardino dell’Eden. Forse Adamo ed Eva hanno raccolto il frutto di loro iniziativa e hanno deciso diincolpare il diavolo. Non mi sarebbe mai venuta in mente una cosa simile, prima. Ma ora...»

Lasciò la frase in sospeso.

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«Posso offrirle qualcosa da bere, signora Lucille?»«Chi può bere in un momento come questo?» ribatté lei. Poi: «Forse mi farebbe bene un bicchiere

di tè».Il pastore batté le grosse mani. «Oh, così mi piace.»Quando tornò con il tè freddo, Lucille era molto più calma. Aveva finalmente posato la Bibbia su

un tavolino accanto alla sedia. Teneva le mani unite in grembo e i suoi occhi erano meno gonfi earrossati.

«Ecco» disse il pastore.«Grazie.» Lei bevve un piccolo sorso. «Come sta sua moglie? Sembra turbata.»«È solo un po’ preoccupata per la situazione.»«Ha tutti i motivi di esserlo.»«Tipo, la Fine del Mondo?» Il pastore sorrise.Lucille sospirò. «Sono rinchiusi in quel posto da settimane, ormai.»Il pastore annuì. «Le hanno permesso di andare a trovarli, no?»«Al principio, potevo andare tutti i giorni. Portavo loro cibo e vestiti puliti e mi assicuravo che

mio figlio sapesse che la sua mamma gli vuole bene e non lo ha dimenticato. Non era una situazionefacile, ma era sopportabile. Ma adesso... adesso è un incubo.»

«Ho saputo che non consentono più visite» disse il pastore Peters.«Già. Da quando hanno requisito Arcadia. Mai avrei immaginato che potessero isolare un’intera

città così. Mai in tutta la vita. Ma, solo perché io non riesco a immaginare qualcosa, non significa chenon possa succedere... ho peccato di solipsismo! La realtà è là fuori. Non devo fare altro che aprirela porta ed eccola, la realtà, tutto quello che non riesco a immaginare, davanti ai miei occhi!»

Il pastore si protese in avanti sulla sua sedia. «Parla come se fosse tutta colpa sua, signoraLucille.»

«E come potrebbe essere colpa mia? Cosa posso aver fatto? L’ho creato io il mondo com’è? Horeso io le persone piccole e timorose come sono? Le ho fatte gelose e violente e invidiose? Sonostata io?» Le tremavano di nuovo le mani. «Io?»

Il pastore Peters le prese una mano e gliela strinse. «Certo che no. Senta, quanto tempo fa haparlato con Harold e Jacob? Come stanno?»

«Come stanno? Sono prigionieri. Come possono stare?» Lucille si tamponò gli occhi e buttò aterra la Bibbia, poi si alzò e si mise a camminare avanti e indietro davanti al pastore. «Deve esserciun disegno superiore in tutto questo. Un piano di qualche tipo. Non è così, pastore?»

«Spero di sì» rispose l’uomo in tono cauto.Lei sbuffò. «Voi giovani predicatori. Nessuno vi ha insegnato a dare al vostro gregge l’illusione

che siate in possesso delle risposte?»Il pastore rise. «Ho rinunciato alle illusioni, dati i tempi.»«È solo che non so più che fare.»«Le cose cambieranno. Di questo, almeno, sono sinceramente convinto. Anche se non ho idea di

quando questo cambiamento arriverà e cosa porterà.»Lucille raccolse la Bibbia. «Allora, cosa facciamo?» chiese.«Facciamo quello che possiamo.»

Per molto tempo Lucille rimase seduta senza parlare. Si limitava a fissare la Bibbia e a riflettere su

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quello che le aveva detto il pastore. Cosa aveva voluto dire con quel facciamo quello che possiamo?Lei era sempre stata il tipo di donna che fa quello che le dicono di fare. Era stata soprattutto laBibbia a guidarla nelle varie circostanze della vita. Le aveva detto come comportarsi da bambina.Era stata il suo riferimento quando in lei era sbocciata l’adolescenza. Lucille doveva ammettere chein quel periodo aveva fatto fatica a mettere in atto la Parola di Dio e aveva ceduto a comportamentiche, se non erano esplicitamente proibiti dalla Bibbia, sicuramente non venivano incoraggiati. Maerano stati bei momenti e, tutto sommato, non avevano fatto del male a nessuno, lei compresa.

Dopo il matrimonio, la sua Bibbia era stata ancora lì a guidarla e lei l’aveva trovata sempre pienadi risposte. Risposte su cosa significava essere una buona moglie, anche se a quel riguardo avevadovuto essere selettiva. C’erano alcune regole di comportamento per le spose che non avevanoproprio senso nell’epoca moderna. Francamente, pensava Lucille, probabilmente non avevano avutosenso nemmeno nell’epoca biblica. E se si fosse comportata come facevano quelle donne dellaBibbia... ebbene, basti dire che Harold probabilmente avrebbe bevuto, fumato e mangiato fino amorire giovane e non sarebbe stato lì ad assistere al miracolo di suo figlio che tornava dall’aldilà.

Jacob. Era lui il fulcro di tutto. Lui la causa delle sue lacrime. Avevano cominciato a uccidere iRedivivi ora. Li uccidevano per sbarazzarsi di loro.

Non stava succedendo ovunque, ma succedeva.Ne parlavano in televisione da più di una settimana. Alcune nazioni (quelle note per la loro

brutalità) avevano cominciato a ucciderli a vista. A ucciderli e a bruciare i loro corpi come sefossero degli appestati.

Le notizie al riguardo erano sempre più numerose.Quel mattino Lucille era scesa e aveva trovato il televisore che sussurrava al salotto vuoto.Non capiva proprio come avesse fatto a lasciarlo acceso. Era sicura di averlo spento, la sera

prima, quando era andata a letto. Certo, poteva anche sbagliarsi. Era una donna di settantatré anni,dopotutto, e a quell’età non era escluso che si potesse essere convinti di aver fatto una cosa senzaaverla fatta.

Era ancora presto, e un uomo di colore calvo con un paio di baffi perfettamente curati borbottavaqualcosa a bassa voce. Alle spalle dell’uomo, nello studio, Lucille vedeva delle persone muoversiindaffarate. Erano tutti giovani, tutti vestiti con camicia bianca e cravatta classica. Dovevano esseregli ultimi assunti, pensò Lucille. Tutti speranzosi, un giorno, di uscire dallo sfondo e di prendere ilposto del pelato.

Alzò il volume, si sedette sul divano e ascoltò quello che l’uomo aveva da dire, anche se non leinteressava.

«Buongiorno» salutò l’uomo dallo schermo. A quanto pareva era tornato all’inizio del diabolicociclo in cui era intrappolato. «La notizia principale della giornata viene dalla Romania, dove ilgoverno ha decretato che ai Redivivi non sono concessi i diritti civili, con la motivazione che sonoesseri singolari e pertanto non possono essere tutelati come gli altri.»

Lucille sospirò. Non sapeva cos’altro fare.Il giornalista calvo sparì dallo schermo e al suo posto comparvero delle immagini che Lucille

pensò venissero dalla Romania. Un Redivivo pallido dall’aria sparuta veniva portato via di casa daun paio di soldati. I soldati erano ben rasati, magri, con i lineamenti delicati e l’andatura un po’goffa, come se fossero ancora troppo giovani per comprendere appieno la meccanica del propriocorpo.

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«Il fato dei bambini...» disse Lucille alla casa vuota. Sentì una costrizione al petto al pensiero deiWilson, di Jacob e di Harold. Le tremavano le mani e il televisore si annebbiò. Questo la confuse perun attimo, poi sentì le lacrime colarle lungo le guance e ristagnare agli angoli della sua bocca.

A un certo punto di quella vicenda, anche se non avrebbe saputo dire esattamente quando, si eragiurata che non avrebbe pianto. Era troppo vecchia per le lacrime. Arrivava un momento, nella vita,in cui tutto quello che poteva far piangere una persona avrebbe dovuto essere superato. Le sembravagiusto così. O forse aveva passato troppi anni con Harold, che non aveva mai versato una lacrimadavanti a lei. Nemmeno una.

Ma ora era troppo tardi per trattenersi. Piangeva e, per la prima volta in tanti anni, si sentiva viva.Il giornalista stava commentando le immagini dell’uomo che veniva ammanettato e fatto salire sul

retro di un grosso camion militare insieme ad altri Redivivi. «Ancora nessun commento da partedella NATO, delle Nazioni Unite o del Bureau dei Redivivi sull’iniziativa della Romania, ma anchese i commenti di altri stati sono stati telegrafici, sono divisi in parti uguali tra quelli cheapprovano l’iniziativa e quelli che ritengono che le azioni del governo rumeno violino i piùbasilari diritti umani.»

Lucille scosse la testa, asciugandosi una guancia. «Il fato dei bambini...» ripeté.Il problema non si limitava solo agli altri stati. Stava succedendo anche lì in America. Quei

dannati idioti del Movimento dei Veri Vivi avevano fatto proseliti in tutti gli Stati Uniti. Per lamaggior parte, non facevano che vociare. Ma, di tanto in tanto, si trovava un morto per strada equalche gruppo che sosteneva di stare dalla parte dei vivi rivendicava la responsabilità dell’atto.

Era successo pure ad Arcadia, anche se nessuno ne parlava. Un Redivivo sconosciuto era statotrovato cadavere in un fosso lungo la strada principale. Ucciso con un fucile 30-06.

La situazione stava precipitando. E Lucille non faceva che pensare a Jacob.Povero, povero Jacob.

Dopo che Lucille se ne fu andata e sua moglie si fu finalmente addormentata, il pastore Peters rimaseseduto da solo nello studio a leggere la lettera che aveva ricevuto dal Bureau dei Redivivi.

Nell’interesse della pubblica sicurezza, Elizabeth Pinch, come tutti gli altri Redivivi di quellazona del Mississippi, era trattenuta nella struttura di Meridian. A parte questo, la lettera forniva benpochi dettagli. Si limitava a rassicurare il pastore che i Redivivi erano trattati in modo adeguato eche i diritti umani erano rigorosamente rispettati. Il tono era formale, cortese, burocratico.

Fuori dallo studio, la casa era silenziosa. Dal corridoio, arrivava soltanto il pesante, ritmatoticchettio della vecchia pendola di sua moglie. Era stata un dono di suo padre, un dono che lui leaveva fatto pochi mesi prima che il cancro se lo portasse via. Quel grande, vecchio orologio avevascandito le notti della sua infanzia. Quando loro due si erano sposati, lei era stata così disturbatadall’assenza del ticchettio che erano stati costretti a comprare un metronomo e a metterlo in camerada letto.

Il pastore uscì nel corridoio e si fermò davanti all’orologio. Era alto quasi due metri e tuttointagliato. Il pendolo era grosso come un pugno. Oscillava avanti e indietro con un ritmo talmenteregolare che si sarebbe detto che il meccanismo fosse moderno, non vecchio più di cent’anni.

Era praticamente un tesoro di famiglia. Quando il padre di sua moglie era morto, lei aveva litigatoferocemente con le sorelle e il fratello. Non per il costo del funerale, né per la divisione della casa,della terra e dei pochi risparmi, ma piuttosto per la pendola. Ancora oggi il rapporto tra i fratelli era

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teso per colpa di quell’orologio.Dov’era il loro padre ora?, si chiese il pastore Peters.Aveva notato che sua moglie aveva dedicato maggiori cure alla pendola da quando avevano

cominciato a comparire i Redivivi. Ora profumava di olio per legno e cera.Il pastore sospirò e proseguì. Entrò in salotto e per un attimo si fermò e si guardò attorno, come se

volesse memorizzare ogni minimo dettaglio della stanza.Il tavolo al centro, che avevano trovato durante il loro lungo trasferimento dal Mississippi. Il

divano che avevano scelto durante una visita parrocchiale a Wilmington, uno dei pochi acquisti sucui tutti e due erano stati d’accordo. Aveva una fantasia bianca e blu (Carolina Blue, aveva detto ilvenditore con orgoglio), e un profilo intrecciato bianco e blu lungo i cuscini. I braccioli siincurvavano verso l’esterno e i cuscini erano grandi, soffici, bene imbottiti.

Era l’esatto opposto del tavolo che sua moglie aveva scelto in Tennessee. Lui aveva detestatoquel tavolo a prima vista. Era troppo esile, il legno troppo scuro e la modanatura troppo liscia. Nonvaleva i soldi che costava, a suo parere.

Il pastore Peters camminò per il soggiorno, prendendo in mano i libri che erano impilati dove nonavrebbero dovuto stare. Lo faceva lentamente e con cura, spolverando ogni volume che esaminava.Poi lo rimetteva al suo posto nella libreria. Di tanto in tanto apriva una copertina, infilava un dito trale pagine e strofinava la carta, godendosene l’odore e la consistenza, come se temesse di non vedereun altro libro in vita sua, come se l’ineluttabile marcia del tempo avesse finalmente vinto.

Continuò a riordinare il salotto per molto tempo, senza rendersene conto. Capì che ora era soloquando fuori i grilli cominciarono a quietarsi e, da lontano, arrivò l’abbaiare di un cane che salutavail sorgere del sole.

Aveva aspettato troppo a lungo.Ma a dispetto del proprio errore, a dispetto della paura, continuò a muoversi lentamente,

silenziosamente per la casa.Prima entrò nello studio e recuperò la lettera del Bureau dei Redivivi. Poi prese il suo taccuino e,

sì, anche la Bibbia. Infilò il tutto nel tascapane che sua moglie gli aveva regalato il Natale prima.Andò a prendere la valigia che aveva lasciato dietro il tavolino del computer. L’aveva preparata

solo la sera prima, dato che sua moglie faceva il bucato tutti i giorni. Si sarebbe accorta chemancavano degli indumenti dall’armadio se avesse fatto la valigia troppo presto. E lui volevaandarsene senza fastidi e senza discussioni, da quel codardo che era.

Lasciò la casa di soppiatto e mise valigia e tascapane sul sedile posteriore dell’auto.Il sole aveva iniziato il suo percorso nel cielo. Era ancora nascosto dietro gli alberi, ma si alzava

di secondo in secondo.Rientrò in casa e si avviò lentamente verso la loro camera. Sua moglie dormiva raggomitolata al

centro del letto.Soffrirà terribilmente, pensò.Presto si sarebbe svegliata. Si alzava sempre di buon’ora. Posò un biglietto sul comodino e pensò

brevemente di baciarla.Decise di non farlo e uscì.

Lei si svegliò in una casa vuota. Nel corridoio la pendola scandiva i secondi. Il sole filtravaattraverso le veneziane. Faceva già caldo. Sarebbe stata una giornata afosa, pensò.

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Chiamò suo marito e non ebbe risposta.Doveva essersi addormentato di nuovo nello studio. Gli capitava spesso ultimamente, e questo la

preoccupava. Stava per chiamarlo ancora quando vide il biglietto sul comodino. Il suo nome erascritto con la calligrafia spigolosa di lui.

Non era tipo da lasciare biglietti.Lei non pianse quando lo lesse. Si limitò a schiarirsi la gola, come se volesse dire qualcosa ad

alta voce. Poi rimase seduta ad ascoltare il suono del proprio respiro e il battito cardiaco meccanicodella pendola. Pensò a suo padre.

I suoi occhi erano lucidi di lacrime, eppure ancora non piangeva. Le parole sembravano sfocate elontane, come avvolte da una fitta nebbia. Ma lei le lesse di nuovo.

Ti amo, le aveva scritto. E poi, sotto, aveva aggiunto: ma devo sapere.

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Jim Wilson

Jim non capiva più niente. Non l’arrivo dei soldati, non il ruolo che Fred Green aveva avuto nelloro arresto.

Jim ricordava che Fred era sempre stato un brav’uomo.Loro due non erano mai stati amici, ma soltanto perché non avevano lavorato insieme e

avevano vissuto in ambienti diversi. Non avevano avuto modo di frequentarsi, tutto qua. Cosapoteva aver causato tanto risentimento?

Jim era prigioniero, ora.I soldati erano venuti a cercarlo, avevano portato via lui e la sua famiglia sotto la minaccia

delle armi, e Fred Green si era goduto tutta la scena. Aveva parcheggiato il suo vecchio pickupdietro la camionetta dei soldati ed era rimasto seduto nell’abitacolo a guardare Jim, Connie e ibambini che venivano portati via in manette.

Cos’era successo a Fred? Quella domanda teneva sveglio Jim la notte. Se gli fosse venuto inmente di porsela prima, forse ora non sarebbero stati tutti incarcerati.

Nella scuola affollata, Jim stava in fila con la sua famiglia in attesa del pranzo che, comesempre, non avrebbe saziato la loro fame. «Cosa gli è successo?» chiese alla moglie. Era unadomanda che le aveva già fatto, ma le risposte che finora lei gli aveva dato non erano riuscite arisolvere l’enigma. Tuttavia, Jim aveva scoperto che un enigma (persino uno oscuro come FredGreen) era un buon modo per distrarre la mente da quello che stava succedendo alla sua famiglia.«Una volta non era così.»

«Chi?» chiese Connie. Pulì la bocca di Hannah, che stava perennemente masticando qualcosada quando erano stati arrestati... o confinati... o quale che fosse la parola giusta. A volte la paurasi manifestava in modi strani. «Smettila di metterti tutto in bocca come una neonata» la sgridò.

Tommy non creava problemi, grazie al cielo. Era ancora traumatizzato per come erano statiportati via dalla casa degli Hargrave. Non aveva l’energia per comportarsi male. Per la maggiorparte del tempo se ne stava seduto quieto, con gli occhi fissi nel vuoto.

«Non mi pare che un tempo fosse così» disse Jim. «Cosa è cambiato? Lui? Noi? Adesso sembrapericoloso.»

«Di chi stai parlando?» domandò Connie, frustrata.«Fred! Fred Green.»«Ho saputo che sua moglie è morta» disse Connie in tono piatto. «Pare non sia più stato lo

stesso, da allora.»Jim si concentrò e riuscì a trovare nella memoria una manciata di ricordi sulla moglie di Fred.

Era stata una cantante, e anche maledettamente brava. La ricordava alta e snella, come unbellissimo trampoliere.

Jim guardò la propria famiglia. Li osservò, e a un tratto si rese conto di ciò che significavanoper lui, di ciò che ognuno poteva significare per qualcun altro. «Suppongo possa succedere»disse. Poi si chinò e baciò sua moglie, trattenendo il fiato come se potesse trattenere anche quelmomento. Come se il bacio potesse impedire che sua moglie e i suoi figli lo facessero soffrirelasciandolo solo.

«Perché tanto ardore?» chiese Connie quando le loro labbra alla fine si staccarono. Era

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arrossita e sembrava un po’ trasognata, come quando erano giovani e baciarsi era ancora unanovità.

«Per tutto quello che non so dirti a parole.»ina Bianca

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15

Harold non arrivava al punto di dire che il giovane soldato cominciava a piacergli, ma era dispostoad ammettere che in lui c’erano delle qualità. O, se non proprio qualità, qualcosa di familiare. E in unmondo in cui i morti non restavano morti, la familiarità, sotto qualunque forma, era una benedizione.

Era lo stesso giovanotto che aveva conosciuto il mattino della rivolta, poco più di una settimanaprima, e questo aveva creato tra loro un singolare legame. Quando quel giorno si era posata lapolvere, si era scoperto che, per qualche miracolo, nessuno era rimasto gravemente ferito. Solo lividied escoriazioni su chi era stato buttato a terra dai soldati e immobilizzato. Un uomo, aveva sentitodire Harold, era stato ricoverato a causa di una reazione allergica ai lacrimogeni. Ma niente di più.

Ormai l’episodio sembrava distante, come se fosse avvenuto anni prima. Ma, come spessoaccadeva nel Sud, Harold sapeva che le ferite non si erano realmente cicatrizzate. Erano state soloattenuate dal caldo e dai perpetui sissignore e sissignora dei locali.

La popolazione era ancora molto tesa.

Harold era seduto su uno sgabello lungo la recinzione sormontata da filo spinato che era statasoprannominata la Barricata.

La Barricata si era allargata a una velocità impressionante. Ora partiva dall’estremità meridionaledi Arcadia, dove sorgeva il vecchio, decrepito Long’s Gas, Guns and Gear , e sembrava prolungarsiall’infinito, tagliando campi e inglobando case che non erano più abitazioni, ma avamposti persoldati. Circondava l’intera cittadina, comprendendo la maleodorante, danneggiata scuola, edifici,negozi, la caserma dei vigili del fuoco e l’ufficio dello sceriffo, che erano praticamente la stessacosa. La Barricata, eretta dai soldati e dalle loro armi, si era divorata tutto.

Solo le case che si trovavano fuori dall’abitato vero e proprio (di proprietà di contadini o dipersone che amavano vivere in campagna come Harold e Lucille, il predicatore e pochi altri) sierano salvate. In centro, gli edifici venivano usati come dormitori. Gli abitanti di Arcadia erano statialloggiati in albergo a Whiteville, perché i soldati potessero requisire le loro case, sistemarvi brandee renderle agibili per i Redivivi. I cittadini che erano stati espropriati avevano protestato in ognimodo, ma Arcadia non era l’unico luogo in cui questo stava succedendo, né gli Stati Uniti eranol’unica nazione.

Tutto a un tratto, c’erano troppe persone al mondo. Bisognava fare delle concessioni.Arcadia non era fatta per ospitare tanta gente. Il sollievo che era derivato dall’espansione del

campo oltre la scuola si era dissipato rapido quanto si era materializzato. Anche con l’intera cittàrequisita, non c’era pace.

Da parte sua, Harold era felice che lui e Lucille avessero preso la decisione di vivere fuori città,tanti anni prima. Non avrebbe sopportato l’idea che la sua casa venisse consegnata in mani estranee,anche se si rendeva conto che sarebbe stato giusto metterla a disposizione.

All’esterno della Barricata che circondava Arcadia correva una striscia di terreno aperto. Lì, isoldati erano posizionati a intervalli di cento metri. A volte si muovevano per pattugliare sia laBarricata che Arcadia. Quando camminavano, lo facevano in gruppo, con le armi in pugno,marciando per le stesse strade in cui un tempo avevano giocato i bambini. Venivano fermati da

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persone che chiedevano informazioni sulla situazione, non solo ad Arcadia ma nel mondo intero, evolevano sapere quando si sarebbe risolta.

Non rispondevano quasi mai a queste domande.Ma, per la maggior parte del tempo, i soldati si limitavano a stare fermi in piedi lungo la

Barricata, con i visi che parevano distaccati, o annoiati, a seconda della luce di quel particolaremomento.

Il giovane militare che aveva attratto l’interesse di Harold si chiamava Junior. Quel nome era unpiccolo mistero perché il ragazzo, da quanto aveva detto ad Harold, non aveva mai conosciuto ilpadre e quindi non occorreva che si distinguesse da lui. Il suo vero nome era Quinton, ma fin dapiccolo era stato chiamato Junior e gli sembrava un nome come qualunque altro.

Junior era volonteroso e ordinato nella persona: tutto ciò che l’esercito poteva desiderare da unarecluta. Prima di vestire l’uniforme, aveva superato l’adolescenza senza nemmeno forarsi unorecchio o farsi fare un tatuaggio. Si era arruolato per accontentare la madre. Era stata lei a dirgli chetutti gli uomini veri scelgono l’esercito. Così, quando si era diplomato a fatica, a diciassette anni emezzo, sua madre lo aveva portato nell’ufficio reclutamento e aveva firmato per lui.

I suoi test attitudinali non erano stati granché. Ma era in grado di stare in piedi a lungo, diimbracciare un fucile e sapeva ubbidire. Proprio ciò che faceva per buona parte del giorno, adessoche stava di guardia a una città satura di Redivivi. Così, si trovava sempre più spesso in compagniadi un vecchio, cinico uomo del Sud e del suo figlioletto tornato dall’aldilà. L’uomo del Sud lotollerava; era il bambino, sempre alle calcagna del padre, che Junior non sopportava.

«Per quanto tempo ancora ti terranno qui?» gli chiese Harold, dal suo sgabello di legno dietro laBarricata. Parlava alla schiena di Junior, ed era così che si svolgevano quasi tutte le loroconversazioni. Poco distante, ma a sufficienza per non sentire i discorsi, Jacob era seduto per terra eguardava il padre parlare con il soldato.

«Non lo so» rispose Junior. «Suppongo, finché terranno qui voi.»«Allora non sarà ancora a lungo.» Harold sospirò. «Certe situazioni non possono durare.

Qualcuno studierà un piano, anche solo per la grazia dei galli.»Erano giorni ormai che Harold inventava modi di dire per prendersi gioco di Junior, e più erano

bizzarri più si divertiva. Era sorprendentemente facile: gli bastava fare un riferimento a un animaleda fattoria o al tempo o a qualche pianta, e abbinarlo a parole enigmatiche. E se Junior chiedevadelucidazioni su quella strana espressione, Harold si inventava il significato lì per lì. Il problema, semai, era ricordare quali espressioni aveva già ideato e cercare di non confondersi.

«Cosa significa, signore?»«Oh, santo cielo! Non hai mai sentito dire la grazia dei galli?»Junior si girò a guardarlo. «No, signore. Mai.»«Ah, ma non posso crederci! Non ci crederei neanche se vivessi fino a farmi crescere radici di

patate dai piedi, ragazzo mio!»«Sì, signore» disse Junior.Harold spense la sigaretta sotto il tacco e ne sfilò un’altra dal pacchetto mezzo vuoto. Junior lo

guardava. «Fumi, figliolo?»«Non in servizio, signore.»«Te ne terrò una» promise Harold in un sussurro complice. Accese la sigaretta ostentatamente e

tirò una lunga boccata. A dispetto del male al petto, la fece sembrare una cosa facile.

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Junior alzò gli occhi verso il sole. Quando lo avevano assegnato nel Sud, mai si sarebbeimmaginato che facesse tanto caldo. Certo, poteva essere afoso anche a Topeka. Ma lì, in quella città,in quel posto, la calura sembrava una costante. Si boccheggiava ogni santo giorno.

«Posso chiederti una cosa?» domandò Harold.Junior detestava stare lì. Ma almeno il vecchio era divertente.«Chieda pure.»«Com’è, fuori?»«Caldo. Proprio come lì da lei.»Harold sorrise. «Non mi riferivo a questo. Qui non ci sono televisori, men che meno computer.

Com’è, fuori?»«Non è colpa nostra» si difese Junior prima ancora di essere accusato. «Ci limitiamo a seguire gli

ordini.»Stava arrivando una piccola pattuglia: due soldati della California che sembravano sempre di

servizio insieme. Arrivarono marciando, annuirono e passarono oltre senza fare caso a Junior e alvecchio.

«È strano» rispose finalmente Junior.«Cosa è strano?»«Tutto.»Harold sorrise. «Devi cercare di migliorare la tua capacità espressiva, figliolo.»«È solo... solo che tutti sono confusi.»Harold annuì.«Confusi e spaventati.»«Immagina come può essere qui dentro.»«Ma è diverso» protestò Junior. «Dentro le cose sono più controllate. Siete nutriti. Avete acqua

pulita.»«Finalmente» disse Harold.«Okay» annuì Junior. «Ammetto che ci è voluto del tempo prima che la logistica funzionasse. Ma è

sempre meglio dentro che fuori. Dopotutto, tutti quelli che vivono qui hanno scelto di starci.»«Io no.»«Lei ha scelto di stare con quello» fece notare Junior, facendo un cenno verso Jacob. Il bambino

era ancora seduto tranquillo dove non poteva sentire la conversazione, così come Harold gli avevadetto di fare. Indossava una maglietta di cotone a righe e dei jeans che Lucille gli aveva portatosettimane prima. Teneva lo sguardo fisso sul padre, staccandolo solo per guardare l’acciaioscintillante della Barricata. La seguiva con gli occhi, come se non riuscisse a capire bene perchéfosse lì e a cosa servisse.

Junior fissava Jacob. «Le hanno proposto di portarglielo via, ma lei ha scelto di stare con lui,proprio come gli altri Veri Vivi che vivono qui. È stata una decisione che avete preso voi, perciò nonavete nessun motivo di essere spaventati o nervosi o confusi. È tutto facile per voi.»

«Forse non hai visto i bagni, qui dentro.»«C’è un’intera città, qui dentro.» Il soldato riportò l’attenzione su Harold. «Cibo in abbondanza,

acqua... tutto quello che vi serve. C’è perfino un campo da baseball.»«Il campo da baseball è pieno di gente accampata. È una tendopoli.»«E poi ci sono i cessi portatili.» Indicò la fila di cubicoli bianchi e azzurri alle spalle di Harold.

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Harold sospirò.«Lei pensa che qui si stia male» disse Junior. «È niente in confronto a quello che succede in altri

posti. Un mio amico è di stanza in Corea. È nelle nazioni piccole che si sta peggio. Le nazioni grandihanno lo spazio in cui tenerli. Ma in Corea... in Corea e in Giappone... lì sì che è brutta. Non sannodove metterli. Ci sono queste navi...» aggiunse Junior a bassa voce. Allargò le braccia, come perindicare qualcosa di molto grande. «Grosse quanto petroliere. Li mettono tutti là dentro.» Distolse losguardo. «Ce ne sono troppi.»

Harold guardava la sigaretta consumarsi tra le proprie dita.«Sono troppi ed è un inferno per tutti» riprese Junior. «Nessuno riesce a stare al passo. Nessuno li

rivuole. Nessuno chiama più per avvertire che ne è stato trovato un altro. Li lasciano girare per lestrade.» Junior parlava attraverso la recinzione. A dispetto della gravità di quello che stava dicendo,sembrava indifferente. «Le chiamiamo carrette della morte. Certo, i giornalisti usano altri termini.Ma non sono altro che carrette della morte. Barconi pieni di morti.»

Junior continuava a parlare, ma Harold non lo ascoltava più. Con gli occhi della mente vedeva unbarcone nero, alla deriva su un oceano piatto e privo di riflessi. Sembrava la scena di un filmdell’orrore. A bordo, impilati uno sull’altro, ognuno più scuro e più pesante di quello che avevasotto, tutti a schiacciarsi tra loro come incudini, c’erano dei container. Ognuno di essi era pieno diRedivivi. Di tanto in tanto il barcone si muoveva, inclinato in avanti o all’indietro da un invisibilerigonfiamento dell’oceano. Ma i Redivivi restavano immobili, indifferenti. Harold ne vedevamigliaia. Decine di migliaia. Ammassati in questi scuri container da spedizione, sospinti qua e là dalmare.

Nella sua mente Harold li guardava dall’alto, da molto lontano, eppure riusciva a vedere ognisingola persona con dettagli che solo il mondo dell’immaginazione può consentire. Vedeva tuttiquelli che aveva conosciuto, su questa carretta della morte, suo figlio compreso.

Si sentì raggelare.«Dovrebbe vederli» riprese Junior.Prima che Harold potesse replicare, si scatenò la tosse. Non pensò ad altro, dopo.

All’improvviso, come l’altra volta, si trovò con il sole in faccia e la terra premuta contro la schiena.

Harold si svegliò con la stessa sensazione di lontananza e disagio che aveva provato l’ultima voltache gli era successo.

Aveva male al petto. C’era qualcosa di umido e pesante nei suoi polmoni. Cercò di inspirare, mafaceva fatica a tirare dentro aria. Jacob era lì accanto a lui. Anche Junior.

«Signor Harold?» disse Junior, inginocchiandosi.«Sto bene. Ho bisogno solo di un minuto.» Si chiedeva per quanto tempo fosse rimasto svenuto.

Abbastanza a lungo perché Junior girasse intorno alla recinzione fino a uno dei cancelli per venire adaiutarlo. Portava ancora il fucile appeso a una spalla.

«Papà?» chiese Jacob, il visetto contratto dalla preoccupazione.«Sì?» disse Harold in un sussurro roco.«Non morire, papà.»

I brutti sogni erano sempre in agguato. Lucille aveva praticamente rinunciato a dormire. Era tantotempo che non passava una notte normale che non ne sentiva quasi più la mancanza. Ricordava il

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sonno in un modo vago, remoto, come una persona ricorda il rumore della macchina su cui haviaggiato durante l’infanzia, e a volte ne sente il timbro nel mormorio di autostrade lontane.

Quando le capitava di addormentarsi, era solo per caso. Si svegliava di soprassalto in unaposizione scomoda, tutta indolenzita. Spesso aveva in grembo un libro aperto, rimasto diligentementeal proprio posto aspettando che lei si destasse. A volte tra le pagine c’erano gli occhiali che le eranocaduti dal naso mentre dormiva.

Certe notti entrava in cucina e restava in piedi ad ascoltare il vuoto che la circondava. Allora iricordi si alzavano dal buio come pennacchi di fumo. Lucille ricordava Jacob e Harold in tutta lacasa. Ricordava, soprattutto, una sera di ottobre dell’infanzia di Jacob, una sera che non aveva avutoniente di speciale ma che, proprio per questo, era diventata speciale per lei.

Quando il mondo era pieno di misteri, come accadeva adesso, i momenti normali erano quelli checontavano di più.

Lucille ricordava Harold in salotto, intento a pizzicare goffamente le corde della chitarra. Erasempre stato un pessimo musicista, ma compensava la mancanza di abilità con l’energia e lapassione, e si esercitava ogni volta che aveva un po’ di tempo.

Nella sua cameretta, Jacob stava vuotando il baule dei giochi, buttandoli senza troppa delicatezzasul pavimento di legno. Aveva la mania di spingere i mobili in giro per la stanza, anche se gli erastato ripetutamente detto di non farlo. Quando lei e Harold gli avevano domandato perché lispostasse, Jacob si era limitato a dire: «Sono i giocattoli che me lo chiedono».

Nel ricordo di Lucille, mentre Harold storpiava una canzone alla chitarra e Jacob sbatteva i suoigiochi qua e là, lei stava cucinando per una ricorrenza speciale. Un prosciutto si stava rosolando nelforno. Un pollo alle erbe di campo cuoceva sul fornello. In varie fasi di lavorazione, c’erano purè,riso bianco aromatizzato al timo, mais e peperoni rossi, fagioli bianchi, fagiolini, torta al cioccolato,torta alla crema, biscotti allo zenzero, tacchino arrosto.

«Non fare disordine in camera tua, Jacob!» chiamò Lucille. «È quasi ora di cena.»«Sissignora» rispose il bambino. Poi urlò: «Voglio costruire qualcosa!».«Cosa vuoi costruire?» gridò Lucille di rimando.Harold se ne stava seduto in salotto con la sua chitarra, impegnato a massacrare la canzone di

Hank Williams che cercava di imparare da settimane.«Non lo so» strillò Jacob.«Be’, è la prima cosa che devi decidere.»Lucille guardò dalla finestra sopra il lavandino e vide passare delle nuvole davanti a una luna

pallida e perfetta. «Puoi costruire una casa?»«Una casa?» ripeté il bambino. Si capiva che ci stava riflettendo.«Una grande casa con soffitti a volta e una dozzina di camere da letto.»«Ma siamo solo in tre. E tu e papà dormite nello stesso letto. Ci bastano due stanze.»«E se vengono a trovarci delle persone?»«Possono dormire nel mio letto.» In camera di Jacob, qualcosa cadde e si schiantò sul pavimento.«Cos’era?»«Niente.»Dal salotto arrivavano gli accordi stentati di Harold.«A me sembrava che fosse qualcosa.»«È tutto okay» assicurò Jacob.

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Lucille controllò i tegami. Stava riuscendo tutto alla perfezione. La casa era satura di profumi. Siinsinuavano nelle fessure dei muri e uscivano nel mondo.

Soddisfatta, lasciò la cucina e andò a controllare Jacob.La stanzetta era proprio come lei aveva temuto. Il letto era stato rovesciato su un lato e spinto

contro il muro, in modo che il materasso formasse una barricata e la testiera e la pediera fosseroimponenti contrafforti. Dalla barriera improvvisata partiva una scia di mattoncini per costruzionicaduti a casaccio.

Lucille si fermò sulla porta asciugandosi le mani in uno strofinaccio. Ogni tanto il bambino sisporgeva dal fortino e buttava giù un mattoncino per realizzare qualche misterioso progetto edile.

Lucille sospirò, ma non per la frustrazione.«Diventerà un architetto» annunciò, entrando in salotto e lasciandosi cadere stancamente sul

divano. Si asciugò ostentatamente la fronte con lo strofinaccio.Harold continuò a strimpellare. «Chissà» riuscì a dire, ma quel calo di concentrazione gli mandò

fuori fase le dita. Le fletté e ricominciò da capo.Lucille si stiracchiò. Si girò su un fianco, attirò le gambe al petto, appoggiò il mento sulle mani e,

un po’ assonnata, guardò il marito lottare contro la propria mancanza di attitudine musicale.Era un uomo bellissimo, pensò, più bello ancora quando non riusciva a fare qualcosa.Le sue mani, anche se non erano portate per la chitarra, erano forti e agili, le dita lisce e

curiosamente grassocce. Indossava la camicia di flanella che Lucille gli aveva comprato ai primifreddi, quell’anno. Era rossa e blu, e lui aveva protestato che era troppo aderente, ma il giorno dopose l’era messa per andare a lavorare e quando era tornato a casa le aveva detto: «Non mi ha datonessun fastidio». Era una piccola cosa, ma le piccole cose contavano.

Quella sera Harold si era messo dei jeans, sbiaditi ma puliti, che le piacevano. Lucille eracresciuta con un padre che aveva dedicato buona parte della vita a predicare sermoni a persone chenon erano interessate ad ascoltarli. Indossava degli abiti formali che lui e la sua famiglia nonpotevano permettersi, ma la madre di Lucille ci teneva che il marito facesse bella figura alle riunionidell’Esercito della Salvezza.

Così quando, da ragazza, Lucille aveva visto Harold in jeans e con una camicia macchiata, conquel suo sorriso dolce un po’ cauto, si era innamorata prima del suo guardaroba che dell’uomo che loindossava.

«Mi distrai» protestò Harold, accordando la sesta corda della chitarra.Lucille sbadigliò. Le era scesa addosso un’improvvisa stanchezza. «Scusa» disse.«Sto migliorando.»Lei fece una risatina. «Continua a esercitarti. Hai le dita grosse. Questo rende tutto più difficile.»«È questo il problema? Le dita grosse?»«Sì.» Lei aveva tanto, tanto sonno. «Ma a me piacciono le dita grosse.»Harold inarcò un sopracciglio.«Papà?» urlò Jacob dalla sua cameretta. «Di cosa sono fatti i ponti?»«Diventerà un architetto» bisbigliò Lucille.«Sono fatti di roba» urlò Harold.«Che genere di roba?»«Dipende da che genere di roba si ha.»«Oh, Harold» sospirò Lucille.

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Entrambi aspettarono la domanda successiva, ma non arrivò mai. Si udì solo un ticchettio dimattoncini che rimbalzavano sul parquet.

«Costruirà case un giorno» disse Lucille.«Potrebbe cambiare idea tra una settimana.»«Non lo farà» assicurò lei.«Come lo sai?»«Una madre sa queste cose.»Harold appoggiò la chitarra per terra. Lucille si era appisolata. Lui tirò fuori un plaid

dall’armadio dell’ingresso e la coprì. «C’è qualcosa che devo fare in cucina?» le chiese.Lucille rispose solo: «Costruirà case un giorno». E poi si addormentò... sia nel ricordo che nella

casa vuota e solitaria.

Lucille si svegliò sul divano del salotto. Era sdraiata sul fianco, con le mani infilate sotto la testa e legambe attirate al corpo. La poltrona sulla quale Harold avrebbe dovuto essere seduto a strimpellareera vuota. Tese l’orecchio per sentire Jacob giocare con i mattoncini.

Silenzio.Si tirò su a sedere, ancora stordita dal sonno. Le bruciavano gli occhi. Non ricordava di essersi

sdraiata sul divano, né di essersi addormentata. L’ultima cosa che ricordava era di essere stata inpiedi davanti al lavandino di cucina, a guardare dalla finestra.

Doveva essere molto tardi o molto presto. C’era un’aria frizzante che preannunciava l’autunno.Fuori frinivano i grilli. Uno di loro doveva aver trovato il modo di entrare in solaio e stavalanciando il suo richiamo da un angolo polveroso.

Lucille era tutta indolenzita ma, soprattutto, aveva paura.Non era stato il realismo del sogno a spaventarla, ma la rapidità in cui si era ritrovata nel proprio

vecchio corpo stanco.Nel sogno, le sue gambe erano state scattanti; ora le facevano male le ginocchia e aveva le

caviglie gonfie. Nel sogno, aveva avuto la sensazione di essere in grado di affrontare qualunque cosa.Anche se all’improvviso il sogno si fosse trasformato in un incubo, lei lo avrebbe sopportato perchéaveva la gioventù.

Adesso era di nuovo vecchia. Peggio, era una vecchia sola. La solitudine la terrorizzava. Erasempre stato così e, probabilmente, lo sarebbe stato sempre.

«Diventerà un architetto» disse alla casa vuota. E poi si mise a piangere.

Alla fine, il pianto si calmò. Si sentiva meglio, come se una valvola fosse stata aperta e un’invisibilepressione si fosse sfogata. Quando si alzò, le sue ossa artritiche protestarono. Ansimò e cadde suldivano. «Signore benedetto» esclamò.

Si alzò più facilmente, la volta dopo. Il dolore c’era ancora, ma era attenuato dal fatto che se loaspettava. Trascinò i piedi nel muoversi per casa. Entrò in cucina.

Si preparò un caffè e se lo bevve sul portico ascoltando i grilli. Presto si quietarono e la domandase fosse molto tardi o molto presto ebbe una risposta. Verso est era comparso il fioco chiaroredell’alba. «Sia lode al Signore» disse.

C’erano cose su cui doveva riflettere, piani d’azione da studiare, se davvero aveva intenzione difarlo. Ed era meglio che non pensasse a come era vuota e silenziosa quella casa se voleva

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concentrarsi. Così la televisione, a dispetto delle sue chiacchiere a vuoto, poteva essere un’alleata.«Andrà tutto bene» si disse, mentre si sedeva a scrivere su un taccuino.All’inizio registrò solo cose semplici, le cose che sapeva, quelle su cui non c’erano dubbi. Il

mondo è uno strano luogo, scrisse. Questo era in cima alla lista. Scoppiò in una risatina.Sembravano parole di Harold. «Sono sposata con te da troppo tempo» disse al marito assente. Iltelevisore le rispose farfugliando qualcosa sui pericoli di un’erezione che dura più di quattro ore.

Poi scrisse: I giusti sono stati ingiustamente imprigionati.Quindi: Mio marito e mio figlio sono prigionieri.Fissò il foglio. Sembrava tutto così semplice e chiaro. I fatti erano una buona cosa, ma i fatti

raramente indicavano la strada per la salvezza, pensò. I fatti non facevano altro che starsene seduti afissarti, a frugarti nell’anima per vedere come avrebbe reagito quando si fosse confrontata con essi.

È il caso di farlo?, scrisse. Può una vecchia cercare di salvare delle persone? Andare làprodurrà qualche risultato a parte farmi arrestare, o peggio? Mi ammazzeranno? AmmazzerannoHarold? Jacob?

«Ossignore» disse.La televisione rise di lei. Ma Lucille non desistette.Scrisse che il campo di concentramento era un orrore, una violazione di ogni diritto civile. Scrisse

che il Bureau era un tiranno malvagio, poi cancellò quella frase e scrisse, invece, che era il governoa sbagliare. La ribellione era un fatto nuovo per lei, nuovo e abbastanza caldo da ustionarla, se glieloavesse permesso. Doveva procedere con calma.

Pensò a Davide e Golia e a tutte le altre storie della Bibbia sui prescelti di Dio che combattevanocontro un oppressore potente. Pensò agli ebrei, all’Egitto e ai faraoni.

«Lascia andare il mio popolo» disse, e rise un po’ quando la televisione rispose, con una vocinainfantile: «Okay».

«È un segno» disse. «Non è così?»Scrisse ancora per molto tempo. Scrisse finché non ebbe finito il foglio e cominciò ad avere

crampi alla mano e il sole si alzò sopra l’orizzonte e il televisore passò a parlare delle notizie delgiorno.

Ascoltò il telegiornale con un orecchio solo, mentre continuava a scrivere. Non c’eranoparticolari novità. Altri Redivivi stavano tornando dall’aldilà. Nessuno sapeva come facessero operché accadesse. I centri di detenzione stavano diventando sempre più grandi. Intere città erano staterequisite, non più solo nelle aree rurali come Arcadia. I Veri Vivi erano stati usurpati, o così disseuno dei conduttori.

Lucille pensò che il giornalista stesse esagerando.Una donna di Los Angeles che lui stava intervistando pensava stesse minimizzando.Quando Lucille ebbe finito la sua lista, rimase seduta a fissarla. La maggior parte di quello che

aveva scritto non contava, decise dopo averlo riletto, ma quelle prime cose, le cose all’iniziodell’elenco, erano ancora rilevanti, anche alla luce del giorno. Bisognava intervenire.

«Signore benedetto» disse.Poi si alzò e andò in camera da letto. Non trascinava più i piedi ora. Marciava. Nella cabina

armadio, proprio in fondo, sotto una pila di scatole di vecchie scarpe che né lei né Harold usavanopiù, sotto dichiarazioni dei redditi, libri non letti, polvere, muffa e ragnatele, c’era la pistola diHarold.

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Erano cinquant’anni che Lucille non la vedeva, dalla notte in cui Harold aveva investito un canesull’autostrada. Lo avevano portato a casa e, alla fine, avevano dovuto sopprimerlo. Il ricordoemerse in un lampo e poi sparì, come se una parte di lei non volesse creare certe associazionimentali in quel momento.

La pistola era più pesante di quanto lei ricordasse. L’aveva presa in mano una sola volta in tutta lavita: il giorno in cui Harold l’aveva comprata e portata a casa. Per qualche motivo, lui era stato tantofiero di averla. Lucille, allora, aveva avuto difficoltà a capire come si potesse essere fieri di unapistola.

La canna era liscia, squadrata, di un nero bluastro che si intonava con il calcio di acciaio e legno.A dispetto del peso, Lucille se la sentiva bene in mano. Sembrava una di quelle armi che si vedono alcinema.

Lucille pensò a tutti i polizieschi che aveva visto e a tutte le cose che le pistole avevano fatto inquei film. Uccidere, provocare esplosioni, minacciare, uccidere, salvare, dare sicurezza, uccidere.

Era fredda. Dura. Implacabile. Come la morte.A questo si era arrivati?, pensò.

Fred Green ormai non aveva altro che il Movimento dei Veri Vivi.I suoi campi erano incolti. La casa non era più stata pulita. Non andava a cercare lavoro alla

segheria da settimane.Marvin Parker non aveva ottenuto la libertà provvisoria su cauzione, dopo gli scontri alla scuola.

Aveva una spalla lussata e una costola incrinata e, anche se entrambi erano stati consapevoli deirischi, Fred si sentiva un po’ in colpa. Col senno di poi, era stata un’idea stupida. Ma allora, avevadetto a Marvin: «Daremo loro una lezione. Li costringeremo a trasferire tutti i Redivivi altrove. Licostringeremo a requisire la città di qualcun altro». E Marvin aveva approvato incondizionatamente.Ma adesso Marvin era ferito e si trovava dietro le sbarre, e questo era un peso sulla coscienza diFred.

Eppure, nonostante tutto, Fred sentiva che forse quello che era successo non era abbastanza.Forse tutti e due avevano pensato troppo in piccolo. C’era ancora molto da fare.Altri uomini erano venuti a cercare Fred dopo la notte della rivolta. Uomini del luogo che

capivano cosa Fred e Marvin avessero tentato di ottenere e che erano disposti ad aiutarli. Non eranotanti, e per la maggior parte erano bravi solo a parlare, ma ce n’erano due o tre che, Fred ne erasicuro, avrebbero fatto quello che bisognava fare, quando fosse arrivato il momento.

E il momento non era lontano. L’intera città era stata requisita. Tutti gli abitanti erano staticostretti a lasciare le loro case o a convivere con i Redivivi. Dannazione, nemmeno la casa diMarvin Parker era stata risparmiata! Era stata occupata dal Bureau e da quei maledetti Redivivi.

Qualcuno doveva mettere fine a tutto ciò. Qualcuno doveva prendere una posizione, per il bene diArcadia, per il bene dei vivi. Se tutta la popolazione di Arcadia si fosse ribellata, se si fosse unitacontro i Redivivi come avrebbe dovuto fare sin dal principio, la situazione non sarebbe arrivata aquel punto. Era ciò che aveva detto Marvin a proposito del vulcano comparso nel giardino di quelladonna. Troppe persone erano rimaste passive a guardare. Fred non poteva permettere che accadesse.Toccava a lui muoversi.

Più tardi, quella sera, dopo aver studiato un piano d’azione, Fred Green andò a letto e, per la prima

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volta dopo mesi, sognò. Quando si svegliò, era ancora notte fonda e aveva la voce rauca, la golaindolenzita. Non capiva perché. Ricordava pochi dettagli del sogno, soltanto di essersi trovato dasolo in una casa buia. Ricordava della musica, una voce femminile che cantava.

Fred allungò una mano verso la parte vuota del letto, la metà in cui nessuno dormiva. «Mary?»chiamò.

La casa non rispose.Si alzò e andò in bagno. Accese la luce e rimase a fissare le piastrelle su cui un tempo Mary

aveva pianto per la perdita del loro figlio, chiedendosi cosa avrebbe pensato di lui se fosse stata lìora.

Alla fine, spense la luce e uscì dal bagno. Si avviò verso quello che, nel corso degli anni, avevapreso a chiamare il suo laboratorio. Era un grande locale che sapeva di muffa e di polvere,ingombro di attrezzi, lavori in legno lasciati a metà, progetti non finiti. Si fermò sulla porta, a fissaretutte le cose che aveva iniziato e mai completato: una scacchiera di sequoia (non sapeva giocare, magli piaceva la complessità delle pedine), un podio realizzato in rovere stagionato (non aveva maifatto un discorso in vita sua, ma ammirava l’imponenza di un oratore su un podio ben fatto), unpiccolo, appena abbozzato, cavallo a dondolo...

Non riusciva a ricordare perché lo avesse iniziato, né perché lo avesse lasciato a metà. Ma eccololì, in un angolo del laboratorio, dietro pile di scatoloni e trapunte riposte per l’estate.

Perché aveva cominciato a realizzare un oggetto così stupido?Scostò gli scatoloni impolverati finché non raggiunse il cavallo a dondolo. Passò una mano sopra

il legno ruvido. Non era stato ancora scartavetrato, eppure era piacevole al tatto. Anni di abbandonone avevano smussato gli spigoli.

Anche se non era il suo progetto più riuscito, Fred non lo trovava brutto. Dilettantesco, forse. Labocca era sbagliata, o forse sbagliata era la dimensione dei denti, ma le orecchie dell’animale glipiacevano. A un tratto ricordò con quanta cura le aveva realizzate. Era stato difficile ottenere quellalinea, aveva avuto crampi alle mani per giorni. Ma, guardandole adesso, gli parve che lo sforzo fossevalso la pena.

Fu proprio dietro le orecchie, dove partiva la criniera, dove solo il cavaliere (piccolo comenecessariamente doveva essere per montare in sella all’animale) poteva vederle, che Fred notò lelettere intagliate nel legno.

H-E-A-T-H-E-R.Non era il nome che lui e Mary avevano scelto per la loro bambina?«Mary!» chiamò Fred un’ultima volta.Quando nessuno rispose, fu come se l’universo avesse, in modo definitivo, avallato tutto quello

che lui aveva progettato di fare. Lui aveva dato all’universo una possibilità di fargli cambiare idea, ein cambio l’universo gli aveva dato solo il silenzio e una casa vuota.

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Nathaniel Schumacher

Erano passati due mesi da quando era tornato e la sua famiglia lo amava come nei lunghi, fulgidigiorni della sua vita. Sua moglie, anche se adesso era più vecchia, lo aveva accolto buttandogli lebraccia al collo e piangendo di gioia. I suoi figli, che non erano più bambini, si erano strettiintorno a lui. Si erano sempre disputati l’attenzione dei genitori, e il loro atteggiamento non eracambiato nei vent’anni che erano intercorsi fra quando il loro padre era morto e quando eradiventato uno dei Redivivi.

Bill, il maggiore, anche se ora aveva una famiglia sua, seguiva ancora il padre come un’ombrae bisticciava con sua sorella Helen come aveva fatto per tutta l’infanzia.

Entrambi erano tornati a casa, come se sentissero che quel momento era fragile e fuggevole, epassavano le giornate orbitando intorno a lui come satelliti. Erano attratti dalla sua forza digravità. A volte restavano svegli fino a tardi, spiegandogli tutto quello che era successo daquando lui se n’era andato. Lui sorrideva sentendoli raccontare, e se ogni tanto c’erano dellediscussioni, anche queste erano pacate. E rassicuravano i ragazzi sul fatto che lui era proprioquello che sembrava essere.

Era il loro padre, ed era un Redivivo.E poi, un giorno, lui se ne andò di nuovo.Nessuno avrebbe saputo dire quando sparì, solo che a un certo punto non c’era più. Lo

cercarono, ma con grande incertezza. Il suo ritorno dall’aldilà era stato sin dall’inizio un eventomisterioso e inaspettato, quindi perché la sua scomparsa avrebbe dovuto essere diversa?

Per un po’ furono smarriti. Piansero, si agitarono. Bill ed Helen litigarono tra loro,accusandosi a vicenda di aver fatto qualcosa che lo aveva mandato via, finché la madre non fucostretta a intervenire. Allora si scusarono senza molta convinzione e brontolarono tra loro suquello che bisognava fare. Andarono a denunciare la sua scomparsa alle autorità. Si rivolseroperfino ai soldati del Bureau per informarli che il padre non si trovava più. «È sparito così»dissero.

I soldati si limitarono a prendere un appunto e non parvero sorpresi.Alla fine non ci fu niente da fare. Semplicemente, lui non era più lì. Pensarono di andare sulla

sua tomba, di far aprire la bara, solo per assicurarsi che tutto era tornato come doveva essere eche lui non era da qualche altra parte del mondo senza di loro.

Ma la madre non approvò. Si limitò a dire: «Abbiamo avuto il nostro tempo».

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16

Era più magra. A parte questo, non era cambiata. «Come stai?» le chiese. Lei gli accarezzò la mano esi strinse contro la sua spalla.

«Sto bene.»«Hai mangiato? Ti danno da mangiare, intendo?»Lei annuì e gli passò piano le unghie sull’avambraccio. «Mi sei mancato.»Il centro detenzione di Meridian, Mississippi, consentiva dei contatti tra i Veri Vivi e i Redivivi.

La situazione, lì, era un po’ migliore che ad Arcadia. I vivi e i Redivivi si incontravano in un patiocintato tra l’edificio principale e il cordone di sicurezza dove controllavano che i vivi non avesseroarmi o, in genere, cattive intenzioni.

«Mi sei mancata anche tu» disse lui alla fine.«Ti ho cercato.»«Mi hanno mandato una lettera.»«Che genere di lettera?»«Diceva solo che chiedevi di me.»Lei annuì.«È stato prima che cominciassero a rinchiudere tutti» disse lui.«Come sta tua madre?»«Morta» rispose lui, in tono più asciutto di quanto avesse inteso. «O forse no. È difficile saperlo,

di questi tempi.»Lei gli stava ancora strofinando la mano con il lento, ipnotico gesto di un amore familiare. Seduto

accanto a lei, inspirando il suo profumo, toccando la sua mano, sentendo il suono della vita entrare euscire dai suoi polmoni, il pastore Robert Peters scordò tutti gli anni passati, tutti gli errori, ifallimenti, le sofferenze. Tutta la solitudine.

Lei si protese in avanti. «Possiamo andarcene» disse a bassa voce.«No, non possiamo.»«Sì che possiamo. Partiremo insieme come facemmo l’ultima volta.»Lui le batté sulla mano con una tenerezza quasi paterna. «Fu un errore. Avremmo dovuto

aspettare.»«Aspettare cosa?»«Non lo so. Avremmo dovuto semplicemente aspettare. A volte il tempo sistema le cose. L’ho

imparato per esperienza. Sono un uomo più vecchio ora.» Rifletté per un attimo, poi si corresse.«Be’, forse sarebbe meglio dire più maturo. E se c’è una cosa che ho imparato è che nulla èinsopportabile con il tempo.»

Ma non era questa la sua più grande bugia? Non era stato proprio il fatto che ancora nonsopportava di non vivere con lei tutti i giorni a portarlo lì? Non l’aveva mai dimenticata, mai si eraperdonato per quello che le aveva fatto. Si era sposato, aveva dedicato la vita a Dio, aveva fatto tuttociò che una persona normale fa, e ancora non l’aveva dimenticata. L’aveva amata più di quanto nonamasse suo padre, più di quanto non amasse sua madre, più di quanto non amasse Dio. Eppurel’aveva lasciata. Così lei era partita. Lo aveva preceduto e aveva fatto quello che aveva promesso di

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fare. Era andata da sola e si era fatta ammazzare.Ogni giorno, lui ci pensava.Il matrimonio con sua moglie era stato un compromesso dell’anima. Gli era parsa la cosa più

logica. Così l’aveva fatta, con tutto l’entusiasmo e la razionalità di chi compra una casa nuova o apreun fondo pensionistico. E il fatto che, in seguito, lui e sua moglie avevano scoperto che i figli nonavrebbero fatto parte della loro vita, anche questo era parso appropriato.

La verità era che lui non aveva mai pensato di avere dei figli con lei. La verità era che, per quantocredesse nell’istituzione del matrimonio, per quanti sermoni avesse predicato sull’argomento nelcorso degli anni, per quante volte avesse detto alle coppie imbronciate nel suo studio: «Dio e ildivorzio non vanno d’accordo», per quante volte avesse fatto tutte quelle cose... aveva semprecercato una via d’uscita.

Gli si era presentata quando i morti avevano cominciato a tornare dall’aldilà.Adesso era con lei e, anche se non era tutto perfetto, lui si sentiva meglio di quanto non stesse da

anni. Le teneva la mano. La sentiva. Poteva toccarla. Annusava il suo odore familiare... un odore chenon era cambiato in tutti quegli anni. Sì, era destino che fosse così.

Qua e là, le guardie stavano separando i morti dai vivi. L’orario delle visite era finito.«Non possono tenerti qui così. Non è umano.» Le strinse la mano.«È tutto okay.»«No. Non lo è.»La cinse con un braccio, inspirò a fondo e il profumo di lei lo riempì. «Vengono a trovarti?»«No.»«Mi spiace.»«Non importa.»«Ti vogliono bene.»«Lo so.»«Sei sempre la loro figlia. Loro lo sanno. Devono pur saperlo.»Lei annuì.Le guardie cominciarono a fare la loro ronda. Quando occorreva, separavano le persone. «È ora

di andare» si limitavano a dire.«Ti porto via di qua» promise lui.«Okay» annuì lei. «Ma se non lo farai, capirò.»Poi arrivarono le guardie a mettere fine alla visita.

Fu una notte agitata quella, per il pastore. Lo stesso sogno si ripeté più e più volte.Aveva sedici anni e se ne stava seduto da solo in camera sua. In un’altra stanza, suo padre e sua

madre dormivano. Il silenzio della casa era pesante. L’eco della loro lite era ancora appeso allegrondaie come una neve scura.

Lui si alzò e si vestì in silenzio, furtivamente. Camminò a piedi nudi sul pavimento di legno. Eraestate e nella notte umida si alzava il canto dei grilli.

Si era aspettato una partenza melodrammatica. Si era aspettato che suo padre o sua madre sisvegliassero mentre lui usciva di casa e che ci fosse un confronto, ma nessuno lo sentì. Forse avevaletto troppi cattivi romanzi o visto troppi film. Nei film, una fuga da casa era sempre una scenamadre. Qualcuno urlava. A volte si verificava uno scoppio di violenza. C’era sempre qualche

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terribile frase d’addio (spero di non vederti mai più!), che alla fine segnava il fato delle personecoinvolte.

Invece, nella vita reale, lui se ne era andato mentre tutti dormivano, e loro si sarebbero svegliatisolo il mattino dopo e si sarebbero accorti che non c’era più. Avrebbero capito dove era andato eperché. Non lo avrebbero cercato perché suo padre non era fatto così. L’amore di suo padre era unaporta aperta. Non si sarebbe mai chiusa, né per tenerti fuori né per tenerti dentro.

Ci mise quasi un’ora di cammino prima di incontrarla. Il chiaro di luna rendeva il viso di leipallido e spettrale. Era sempre stata una ragazza magrissima, ma in quel momento, con quella luce,sembrava in punto di morte.

«Spero che lui crepi» disse lei.Il pastore (che non era ancora un pastore allora, ma solo un ragazzo) la fissò. Lei aveva gli occhi

gonfi e una riga scura di sangue riempiva l’incavo tra il suo labbro e il naso. Era difficile capirequale dei due stesse sanguinando.

Lei aveva vissuto la partenza drammatica che Robert aveva immaginato per se stesso.«Non dire certe cose» la rimproverò.«Maledetto! Spero che finisca sotto un fottuto autobus! Spero che un cane gli azzanni la gola!

Spero che si prenda una malattia che lo faccia morire lentamente.» Parlava tra i denti stretti e le suemani erano pugni che oscillavano all’estremità delle sue braccia.

«Lizzy» disse lui.Lei urlò. Di rabbia, dolore e paura.«Liz, per favore!»Altre grida.Altre delle cose che Robert Peters, in tutti gli anni in cui aveva pensato a Elizabeth Pinch, aveva

dimenticato.

Il pastore Peters si svegliò con il rumore di un camion che passava sulla statale. Il motel aveva paretisottili e c’erano sempre camion che andavano avanti e indietro tra la città e il centro detenzione.Grossi camion scuri che sembravano giganteschi scarafaggi preistorici. A volte erano tanto pieni chec’erano soldati appesi alle fiancate.

Il pastore si chiedeva se avessero fatto tutto il tragitto così, appesi fuori. Era un modo pericolosodi viaggiare. D’altronde, con gli scherzi che faceva la Morte ultimamente, forse era meno pericolosodi quanto sarebbe stato un tempo.

Mentre tornava dal centro detenzione, il giorno prima, aveva sentito dire alla radio che un gruppodi Redivivi era stato ucciso poco fuori Atlanta. Si nascondevano in una casetta di una piccola città(tutte le cose più brutte sembravano succedere prima nelle città piccole) quando un gruppo disostenitori del Movimento dei Veri Vivi li aveva scoperti e aveva chiesto che i Redivivi siarrendessero e se ne andassero pacificamente.

Erano rimasti coinvolti anche dei simpatizzanti, sorpresi a nascondere i Redivivi. L’Incidente diRochester sembrava lontano, ormai.

Quando i fanatici Veri Vivi si erano presentati alla porta, la situazione era degenerata. Alla fine,la casa aveva preso fuoco e tutti quelli che c’erano dentro, vivi e Redivivi, erano morti.

La radio aveva detto che erano stati effettuati degli arresti, ma non erano ancora stati resi noti icapi d’accusa.

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Il pastore Peters rimase per molto tempo alla finestra del motel, guardando quello che succedevaintorno a lui e pensando a Elizabeth. La chiamava Elizabeth nella sua mente.

Liz era come l’aveva chiamata un tempo.L’indomani sarebbe andato di nuovo a trovarla, ammesso che i soldati non creassero difficoltà.

Avrebbe parlato con chi di dovere per farla rilasciare sotto la sua custodia. Sapeva far pesare lapropria autorità spirituale quando occorreva. Tutti gli uomini di chiesa sono addestrati a suscitaresensi di colpa.

Sarebbe stato difficile, ma avrebbe funzionato. L’avrebbe riavuta, finalmente.Se Dio gli avesse dato la grazia, avrebbe funzionato. Il pastore Robert Peters non doveva fare

altro che impegnarsi.

«Se Dio ci dà la grazia, funzionerà» disse Robert. «Non dobbiamo fare altro che impegnarci.»Lei rise. «Quando sei diventato tanto religioso, Bertie?»Lui le strinse la mano. Nessuno lo chiamava più così da anni. Nessuno lo aveva mai chiamato

Bertie se non lei.Aveva posato di nuovo la testa sulla sua spalla, come se fossero ancora seduti sotto la vecchia

quercia nella fattoria del padre di lei, e non nell’area visite del centro detenzione di Meridian. Lui leaccarezzò i capelli. Si era dimenticato della loro sfumatura color miele e di come gli scivolassero trale dita come acqua. Ogni giorno con lei era una scoperta. «Hanno solo bisogno di essere convintiancora un po’» le disse.

«Farai del tuo meglio.»«Lo farò.»«Funzionerà» disse lei.Lui le baciò la fronte, cosa che gli procurò delle occhiate di disapprovazione da parte di alcuni

presenti. Dopotutto, lei aveva solo sedici anni. Aveva sedici anni ed era piccola per la sua età. E luiera talmente grosso e tanto più vecchio di sedici anni. Anche se lei era una Rediviva, era ancora unabambina.

«Quando sei diventata così paziente?» le chiese.«Cosa intendi?»«Non hai più quel caratterino focoso.»Lei si strinse nelle spalle. «A che scopo? Puoi infuriarti contro il mondo, ma il mondo non

cambia.»Lui la guardò con gli occhi enormi. «È un’osservazione acuta.»Lei rise.«Cosa c’è di tanto divertente?»«Tu! Sei così serio!»«Per forza. Sono invecchiato.»Lei rimise la testa sulla sua spalla. «Dove andremo? Una volta che sarò uscita di qui, intendo.»«Sono invecchiato» ripeté lui.«Potremmo andare a New York» disse lei. «Broadway! Ho sempre desiderato vedere

Broadway.»Lui annuì e abbassò lo sguardo sulla giovane mano che teneva nella propria. Il tempo aveva

lasciato intatta quella mano. Era ancora piccola e liscia come un tempo.

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La cosa non avrebbe dovuto sorprendere Robert Peters. Dopotutto, quello erano sempre stati, iRedivivi: una negazione delle leggi di natura. E allora perché la mano di lei, liscia e pulita com’era,lo turbava tanto?

«Tu mi trovi vecchio?» le chiese.«Oppure potremmo andare a New Orleans.» Lei si raddrizzò eccitata. «Oh, sì! New Orleans!»«Chissà» disse lui.Lei si alzò e abbassò lo sguardo su di lui, gli occhi scintillanti di felicità. «Te lo immagini? Io e te

in Bourbon Street. Musica jazz nell’aria. E il cibo! Non oso neanche pensare al cibo!»«Sarebbe bello» disse lui.Lei gli prese le mani e attirò l’omone in piedi. «Balla con me.»Lui la accontentò, a dispetto delle occhiate e dei commenti che attiravano. Girarono lentamente.

La testa di lei gli arrivava appena al petto. Era così piccola... piccola quasi come sua moglie.«Andrà tutto bene» disse lei, la testa sul petto ampio di lui.«Ma se si rifiutassero di farti uscire?»«Andrà tutto bene» ripeté lei.Oscillavano in silenzio. I soldati li guardavano. Così sarà d’ora in poi, pensò il pastore Peters.«Ricordi che ti lasciai?» le chiese.«Sento battere il tuo cuore» disse lei per tutta risposta.«Okay» annuì lui. Poi, dopo un attimo: «Okay».Non era la conversazione che aveva immaginato di avere con lei. La Elizabeth Pinch dei suoi

ricordi, quella che aveva aleggiato sopra l’altare del suo matrimonio per tutti quegli anni, non eratipo da evitare i discorsi. No. Era una combattente, anche in luoghi e momenti che non giustificavanoné ammettevano liti. Imprecava, alzava la voce, tirava oggetti. Era come suo padre: una creaturadella rabbia. Ed era per questo che lui l’aveva amata tanto.

«Ti porterò fuori di qui, in qualche modo» disse il pastore Peters. Ma, nella sua mente, l’avevagià lasciata a ballare da sola in quella prigione.

Robert Peters sapeva cosa avrebbe fatto: si sarebbe congedato da lei e non sarebbe più tornato,così come aveva fatto in passato.

Quella non era la sua Elizabeth. Ecco perché questa volta sarebbe stato più facile.Ma anche se fosse stata lei, anche se fosse stata la sua Liz, non sarebbe cambiato nulla. Lui

l’aveva lasciata in passato perché aveva saputo, aveva sempre saputo, che lei avrebbe finito perlasciare lui, prima o poi. Si sarebbe stancata di lui, della sua religione, della sua grossa corporaturalenta, della sua eccessiva normalità.

Liz era stata il genere di persona che balla senza musica, lui era il genere di persona che ballasolo quando è costretta a farlo. Tanti anni prima, se lui non l’avesse lasciata e non fosse tornato acasa, lei lo avrebbe abbandonato e se ne sarebbe andata a New Orleans, proprio come lo spettro diLiz voleva fare adesso.

Questo, di Liz, era rimasto nella ragazza Rediviva... giusto quanto bastava per ricordare a Roberttutto quello che era grandioso e terribile di se stesso. Era sufficiente a fargli vedere la verità: che perquanto l’avesse amata, per quanto l’avesse desiderata, la loro storia non avrebbe funzionato.

E anche se in passato fosse rimasto con lei, se fosse partito con lei e, forse, fosse riuscito aevitare che morisse, non sarebbe cambiato nulla. Ciò che lui amava in Liz sarebbe mortogradualmente se lei fosse rimasta con lui, e, col passare del tempo, lei non ci sarebbe stata più.

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Forse non fisicamente, ma tutto ciò che lui amava di lei sarebbe sparito.Ed entrambi ne avrebbero sofferto.Così, nel centro detenzione di Meridian, il pastore Robert Peters ballò con la ragazza sedicenne

che un tempo aveva amato e mentì, dicendole che l’avrebbe portata via di lì.E lei gli mentì dicendogli che lo avrebbe aspettato e che non lo avrebbe mai lasciato.Ballarono insieme quell’ultima volta e si dissero tutte queste cose.E lo stesso succedeva nel resto del mondo.

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Connie Wilson

La tragedia era imminente. Lei lo sentiva. Era inevitabile, come quando la terra è secca e spoglia,gli alberi grigi e fragili, l’erba marrone e bruciata: qualcosa sta per succedere. Tutti, ad Arcadia,lo avvertivano, anche se nessuno sapeva definire bene quella sensazione. Lei cercava di ignorarele proprie paure, tentava di seppellirle sotto le cure quotidiane che dedicava al marito e ai figli,ma era preoccupata per la signora Lucille. Avevano incontrato suo marito Harold una volta solada quando erano arrivati e lei si era ripromessa di stare con lui e Jacob, di tenerli d’occhio, peramore di Lucille.

Ma poi le cose erano sfuggite di mano e ora lei non sapeva dove fossero quei due.«Andrà tutto bene» ripeteva spesso.I Redivivi erano ancora prigionieri del campo di concentramento, del Bureau e di un mondo

impazzito. E anche i Veri Vivi di Arcadia erano vittime. Erano stati privati della loro città.«Niente andrà bene» disse Connie, guardandosi attorno.Poi prese tra le braccia i figli, ma la paura continuava ad artigliarle le spalle.ina Bianca

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17

Sotto il cocente sole estivo di Arcadia, Harold e Bellamy stavano facendo il loro ultimo colloquio.Ad Harold non dispiaceva che fosse l’ultimo. Il newyorchese stava diventando bravo a tirare i ferridi cavallo. Troppo bravo.

Bellamy era stato trasferito, alla fine, a dispetto delle sue proteste. Lo aveva deciso il colonnello,con la motivazione che il campo di Arcadia era troppo congestionato perché Bellamy potesse tenere isuoi colloqui con la calma necessaria. C’erano altri lavori per gli agenti del Bureau, lavori molto piùurgenti, ma non erano cose che Bellamy avrebbe accettato di fare, perciò il colonnello lo stavaallontanando.

Bellamy cercava di non pensarci. Soprattutto, cercava di non pensare a cosa questo potessesignificare per sua madre. Lanciò il ferro di cavallo e sperò.

Klink.«Suppongo lei sappia che me ne vado» disse Bellamy con il suo modo di fare pacato e diretto.«L’ho sentito dire.» Harold annuì. «O piuttosto, l’avevo immaginato.» Tirò.Klink.Nessuno dei due teneva più il punteggio.Giocavano ancora nella piccola striscia di prato al centro del complesso scolastico, come se non

ci fossero altri posti da scegliere. Si erano affezionati a quel luogo. Era più tranquillo ora chel’intera città era disponibile per i prigionieri. La gente era migrata fuori dalla scuola e dalle pochestrutture provvisorie che il Bureau aveva allestito all’inizio. Ora tutta la città di Arcadia era piena.Gli edifici rimasti vuoti in seguito al graduale esproprio della città erano stati trasformati indormitori. Perfino le strade, e non erano molte ad Arcadia, erano diventate luoghi in cui il Bureaupoteva piantare tende o allestire centri per la distribuzione di generi di prima necessità. Lo scempiodi Arcadia era completo.

Bellamy sorrise. «Certo che l’aveva immaginato.» Si guardò attorno. Sopra la loro testa, il cieloera di un blu vivo, quasi metallico, attraversato qua e là da nubi bianche che non portavano pioggia.Il vento soffiava, agitando in lontananza gli alberi della foresta. Spostava il calore e l’umidità ebatteva contro gli edifici.

Quando una folata investì Harold e Bellamy, fu solo un’esalazione. Odorava di sudore e di urina edi persone tenute troppo a lungo in condizioni precarie. Tutto ad Arcadia aveva quel puzzo. Siattaccava a ogni cosa. Al punto che tutti, compreso l’agente Bellamy, non lo notavano quasi più.

«Ha intenzione di chiedermelo o no?» disse Harold. Lui e Bellamy camminavano affiancatinell’afa e nel tanfo per andare a recuperare i loro ferri di cavallo. Jacob non era lontano; stavanell’atrio della scuola con la signora Stone, una persona che sempre più spesso era nella mente diHarold. «E prima che perdiamo tempo in giochetti, e non mi riferisco ai ferri di cavallo, veniamosubito al punto, se non le spiace. Sappiamo tutti e due chi è quella donna.»

«Quando lo ha capito?»«Non molto tempo dopo che è arrivata. Non ho mai pensato che fosse una coincidenza se era finita

in camera con noi.»«Sono meno furbo di quanto pensassi, eh?»

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«Niente affatto. La sua capacità di giudizio era un po’ annebbiata. Non gliene faccio una colpa.»Tirarono a turno. Klink. Klink. La brezza tornò ad alzarsi e, per un attimo, profumò di pulito, come

se portasse una ventata di cambiamento. Poi si posò e l’aria fu di nuovo pesante.«Come sta?» chiese l’agente Bellamy.Klink«Sta bene. Lo sa anche lei.»«Chiede di me?»«Continuamente.»Klink.Bellamy rifletté per un attimo, ma Harold non aveva finito. «Non la riconoscerebbe neanche se si

sedesse di fronte a lei e la baciasse sulla fronte, Bellamy. Per metà del tempo pensa che io sia lei. Ilresto del tempo pensa che io sia suo padre.»

«Mi spiace» disse Bellamy.«Per cosa?»«Per averla coinvolta in tutto questo.»Harold raddrizzò la schiena, piantò i piedi e prese la mira. Tirò un bel colpo e mancò il paletto.

Sorrise. «Io avrei fatto la stessa cosa. Anzi...» precisò, «intendo farla».«Pan per focaccia, suppongo.»«Niente per niente suona meglio.»«Come preferisce.»«Come sta Lucille?»Bellamy sospirò e si grattò il cocuzzolo della testa. «Bene, per quanto ne so. Esce poco di casa,

ma non c’è molto che faccia venir voglia di uscire, in questa città.»«Ci hanno combinato un bello scherzo» disse Harold.Bellamy tirò. Il ferro di cavallo atterrò alla perfezione.«Ha cominciato a girare armata.»«Cosa?» L’immagine della sua vecchia pistola gli passò davanti agli occhi, seguita dal ricordo

della notte prima della morte di Jacob, del cane che era stato costretto a sopprimere.«È ciò che mi dicono, almeno. L’hanno fermata a un posto di blocco sulla statale. Ce l’aveva sul

sedile del pickup. Quando le hanno chiesto spiegazioni, ha fatto un discorsetto sul dirittoall’autodifesa. Poi ha minacciato di aprire il fuoco. Dubito che parlasse sul serio, però.»

Mentre Bellamy andava all’estremità opposta del campo, alzando la polvere con i piedi, Harold siraddrizzò, guardò il cielo e si asciugò il sudore dalla fronte. «Non sembra la donna che ho sposato»disse. «La donna che ho sposato, prima avrebbe sparato e poi fatto il suo discorsetto.»

«Io l’avevo sempre considerata un tipo che si affida nelle mani del Signore» disse Bellamy.«Questo è venuto dopo» spiegò Harold. «Da ragazza era una scatenata. Se le raccontassi certe

cose che abbiamo combinato da giovani, non ci crederebbe.»«Niente che sia rimasto sulla vostra fedina. Ho fatto dei controlli su entrambi.»«Solo perché non si viene beccati non vuol dire che non si sia infranta la legge.»Bellamy sorrise.Klink.«Mi aveva già chiesto di mia madre» iniziò Bellamy.«Sì.»

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«Morì per una polmonite. Ma questo fu solo alla fine. Fu la demenza a portarmela via, poco pervolta.»

«Ed è tornata nelle stesse condizioni.»Bellamy annuì.«E ora lei la sta lasciando.»«Non è mia madre.» Bellamy scosse la testa. «È una fotocopia, niente di più. Lo sa meglio di me.»«Ah» disse Harold con freddezza. «Si riferisce al bambino.»«Lei e io abbiamo qualcosa in comune» disse Bellamy. «Sappiamo che i morti sono morti e che

tutto finisce lì.»«Allora perché l’ha portata da me? Perché darsi tanto disturbo?»«Per lo stesso motivo per cui lei sta qui con suo figlio.»L’aria rimase afosa e il cielo di un blu duro e impenetrabile per il resto della giornata. I due

uomini continuarono così, partita dopo partita, senza tenere il punteggio. Si limitavano a orbitarel’uno intorno all’altro, in una città che non era più quella di un tempo, in un mondo che non era piùquello di un tempo.

Quando la sera scese, trovò Lucille china sulla scrivania e casa Hargrave satura di odore dilubrificante per armi. In tutta la casa riecheggiava il grattare di una spazzola di ferro su una superficied’acciaio.

Oltre alla pistola, Lucille aveva trovato un piccolo kit da pulizia che era stato usato solooccasionalmente nel corso degli anni. Conteneva anche un libretto di istruzioni. Il difficile era statosmontare la pistola.

La disturbava dover guardare nella canna mentre inseriva lo scovolino e lo girava per pulirel’interno, ma c’erano delle molle a cui doveva stare attenta e pezzettini di ferramenta che non potevaperdere. Per tutto il tempo cercò di rammentarsi che la pistola non era carica e che lei non correva ilrischio di spararsi addosso come una scema.

Aveva tolto le pallottole, che ora stavano allineate sul lato opposto della scrivania. Aveva pulitoanche quelle, usando solo lo spazzolino di metallo ed evitando il solvente perché temeva qualchemisteriosa reazione chimica con la polvere da sparo.

Forse esagerava con la cautela, ma si sentiva più tranquilla così.Mentre estraeva le pallottole, le era parso armonioso il rumore che facevano, cadendo dal sottile

caricatore d’acciaio una dopo l’altra.Clic.Clic.Clic.Clic.Clic.Clic.Clic.Teneva in mano sette vite. Le era passata davanti agli occhi l’immagine di se stessa, di Harold,

Jacob e della famiglia Wilson, tutti morti. Sette morti.Si era fatta rotolare i piccoli, pesanti proiettili nel palmo. Aveva stretto la mano a pugno e si era

concentrata sulla sensazione che le davano: le lisce punte stondate si conficcavano nel suo palmo. Li

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aveva stretti tanto forte che, per un attimo, aveva temuto di farsi male. Poi li aveva allineati lungo lascrivania con cura e delicatezza, come se fossero piccoli misteri.

Ora si posò la pistola in grembo e lesse le istruzioni.Sul foglio era stampato un disegno della parte superiore dell’arma che scorreva all’indietro per

rivelare l’interno della canna. Prese in mano la pistola e la esaminò. Mise le dita sul retro della parteche scorreva, come mostrava la figura, e premette. Non successe nulla. Premette con più forza.Ancora niente. Esaminò meglio la figura. Le sembrava di fare tutto bene.

Fece un ultimo tentativo, premendo tanto forte che vide sporgere le vene delle mani. Strinse identi, emise un piccolo gemito e, con uno scatto, il cursore cedette e una pallottola saltò fuori dallapistola rimbalzando sul pavimento.

«Ossignore!» esclamò lei, con le mani che cominciavano a tremare. Per molto tempo lasciò lapallottola per terra e si limitò a fissarla, pensando a cosa sarebbe potuto succedere. «Devo esserepreparata per questo» si disse.

Poi raccolse la pallottola, la posò sulla scrivania e si mise a pulire l’arma.

Quando arrivò il momento di andare, Lucille uscì dalla porta anteriore e si fermò accanto al vecchiopickup di Harold. Si girò e rimase in silenzio per molto tempo, fissando la casa in cui si era sposata,aveva amato, aveva cresciuto un figlio e bisticciato con il marito. Un marito che forse non era maistato sprezzante e brontolone quanto lei aveva sempre pensato, un marito che la amava, e lo faceva dapiù di sessant’anni.

Lucille respirò la casa e trattenne nei polmoni la sua immagine e tutto ciò che significava per leifinché non le parve di svenire. Poi la tenne ancora un po’, aggrappandosi a quel momento, a questaimmagine, a questa vita, a questo singolo respiro, anche se sapeva che sarebbe stata costretta alasciarlo andare.

Il soldato di turno, quella sera, era un timido ragazzo del Kansas. Si chiamava Junior e ultimamentenon gli dispiaceva più tanto fare la guardia alla città grazie al bizzarro, buffo vecchio con cui avevafatto amicizia.

Junior, come tutti i protagonisti delle tragedie, aveva un brutto presentimento. Aveva passato laserata a controllare sul telefonino se ci fossero nuovi messaggi, ossessionato dalla sensazione didover dire qualcosa di importante a qualcuno.

Dall’interno della garitta, si schiarì la gola quando sentì il rombo di un vecchio Ford inlontananza. Gli pareva strano, a volte, il modo repentino in cui terminava la recinzione checircondava la città. Era come se tutto quello che accadeva dentro la Barricata, dentro la città cintata,fosse destinato a finire all’improvviso.

Il motore scoppiettava, sbuffava, e i fari sbandavano un po’ come se chiunque fosse al volanteavesse dei problemi a tenere la strada. Pensò che fosse un teenager uscito a gozzovigliare; ricordavadi aver preso di nascosto il vecchio pickup di sua madre una notte d’autunno, quando aveva avutol’età in cui si fanno certe ragazzate.

Il Kansas e la North Carolina non erano poi tanto diversi, pensò Junior. Questa parte della NorthCarolina, almeno. Pianura. Fattorie. Gente normale, grandi lavoratori. Se non fosse stato per quelladannata umidità che aleggiava nell’aria come uno spettro, allora forse, solo forse, avrebbe potutopensare di sistemarsi lì. Non c’erano quasi mai tornado e le persone, grazie alla leggendaria

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ospitalità del Sud, erano amichevoli.Il cigolio dei freni riportò l’attenzione di Junior al presente. Il motore del pickup blu scoppiettò

per un attimo, poi si spense. I fari rimasero accesi. Accecavano. Junior ricordò una lezione che avevaseguito durante il corso d’addestramento. I fari servivano per abbagliare, affinché la persona sulveicolo potesse smontare, muoversi e sparare senza essere vista.

A Junior non piacevano le armi, ed era un bene perché aveva una pessima mira. Proprio in quelmomento gli abbaglianti si spensero e lui riuscì a scorgere, finalmente, la donna ultrasettantenneseduta al volante. La sua faccia era contratta dalla rabbia, e lui fu colpito dal pensiero che in quelmomento non avrebbero dovuto esserci armi di alcun tipo in giro. Ma lui era un soldato, perciò avevail suo fucile. E quando Lucille alla fine smontò dal veicolo, Junior poté vedere che anche lei eraarmata.

«Signora!» urlò, uscendo in fretta dalla garitta improvvisata. «Signora, deve mettere giù l’arma!»Gli tremava la voce, ma la sua voce era sempre tremula.

«Tu non c’entri, bambino» disse Lucille. Girò intorno al pickup e si fermò davanti al cofano. Leluci di posizione erano ancora accese alle sue spalle. Indossava un vecchio vestito di cotone blu chele scendeva, liscio e senza fronzoli, quasi fino alle caviglie. Era il vestito che si metteva per gliappuntamenti dal dottore, quando voleva far capire al medico, da subito, che non intendeva accettarenessuna notizia spiacevole.

Una fila di Redivivi scese dal cassone del pickup e dal suo abitacolo. Erano in tanti da ricordarea Junior un numero del circo che arrivava nella sua città natale ogni autunno.

I Redivivi si affollarono alle spalle di Lucille, formando un piccolo gruppo silenzioso. «È unaquestione di decenza» dichiarò Lucille, senza necessariamente parlare con il giovane soldato. «Soloelementare umana decenza.»

«Signore!» gridò Junior, non sapendo bene chi stesse chiamando. Sapeva solo che, qualunque cosastesse accadendo, non voleva essere coinvolto. «Signore! C’è un problema qui! Signore!»

Si udì un clomp, clomp, clomp di scarponi che si avvicinavano di corsa.«Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» recitò Lucille.«Signora» chiamò Junior. «Deve posare quell’arma, signora!»«Non sono qui per crearti problemi, bambino» disse Lucille. Era attenta a tenere la pistola puntata

a terra.«Sissignora» disse lui. «Ma deve posare quell’arma prima che possiamo parlare di quello che è

venuta a discutere.» Le altre sentinelle notturne erano tutte lì, ora, con le armi in pugno, anche sequalcosa, magari una vecchia lezione di buone maniere, li tratteneva dal puntare i fucili controLucille.

«Cosa diavolo succede, Junior?» bisbigliò uno dei soldati.«Che sia dannato se lo so» sibilò lui di rimando. «Si è presentata qui con loro... tutto un gruppo di

Redivivi... e quel cavolo di pistola. Prima c’erano solo lei e quelli sul pickup, ma poi...»Come tutti potevano vedere chiaramente, ne erano arrivati degli altri. Molti altri. Anche se i

soldati non avrebbero saputo dire esattamente quanti, capivano di essere in minoranza. Di questoerano sicuri.

«Sono venuta a liberare tutti quelli che sono rinchiusi qui» urlò Lucille. «Non ho niente contro divoi, ragazzi. So che state solo eseguendo gli ordini. È quello che siete addestrati a fare. Vi capisco.Ma non posso fare a meno di rammentarvi che avete la responsabilità morale di comportarvi bene, di

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essere individui giusti e corretti, anche se dovete ubbidire agli ordini.»Avrebbe voluto camminare su e giù, come a volte faceva il pastore quando aveva bisogno di

raccogliere le idee. Aveva avuto tutto chiaro in testa mentre guidava, ma ora, lì in piedi, nel momentodell’azione, con tutti quei fucili spianati, era spaventata.

Non era il momento di spaventarsi.«Non dovrei nemmeno parlare con voi» gridò Lucille. «Non siete la causa, nessuno di voi lo è.

Siete i sintomi. Io devo arrivare alla causa. Voglio vedere il colonnello Willis.»«Signora» disse Junior. «La prego, non faccia sciocchezze. Se vuole parlare con il colonnello, la

porteremo da lui. Ma prima deve posare quell’arma.» Il soldato accanto a lui bisbigliò qualcosa.«Metta giù la pistola e consegni i Redivivi per la schedatura.»

«Non farò niente del genere!» abbaiò lei, aumentando la stretta al calcio. «Schedatura» ringhiò. Isoldati esitavano ancora a puntarle contro i fucili, così miravano verso quelli che erano venuti conlei. I Redivivi affollati alle spalle e intorno a Lucille non facevano mosse brusche. Se ne stavanofermi e lasciavano che fossero Lucille e la sua pistola a parlare per loro. «Voglio vedere ilcolonnello» ripeté lei.

A dispetto del fatto che a un tratto si sentiva in colpa per quello che stava facendo, non si sarebbelasciata dissuadere. Satana era un tentatore sagace, lo sapeva, abilissimo nel convincere a fare quellepiccole concessioni che, col tempo, portavano a peccati seri. E lei era stanca di stare con le mani inmano.

«Colonnello Willis!» chiamò a gran voce. «Voglio vedere il colonnello Willis!»Junior non era fatto per quel genere di tensioni. «Chiama qualcuno» disse a bassa voce al soldato

accanto a lui.«Perché? È solo una vecchia. Non farà niente.»Lucille li sentì e, per dimostrare che l’avevano sottovalutata, alzò la pistola e sparò un colpo in

aria. Tutti trasalirono. «Voglio vederlo subito» insistette. Le ronzavano un po’ le orecchie.«Chiamate qualcuno!» disse Junior.«Chiamate qualcuno» disse il soldato accanto a lui.«Chiamate qualcuno» disse quello che veniva dopo.E così via lungo la fila.

Qualcuno finalmente arrivò e, come aveva previsto Lucille, non era il colonnello Willis ma l’agenteMartin Bellamy. Uscì dal cancello con un’andatura tra la marcia e la corsa. Come al solito,indossava una giacca formale, ma era senza cravatta. Sicuro segno, pensò Lucille, che la situazionesarebbe precipitata.

«Bella serata per fare un giro in macchina» disse Bellamy, passando davanti ai soldati, in parteper tenere l’attenzione concentrata su di sé e in parte per mettersi tra l’anziana donna e il maggiornumero possibile di fucili. «Cosa succede, signora Lucille?»

«Non ho chiesto di lei, agente Martin Bellamy.»«No, signora, me ne rendo conto. Ma sono venuti a chiamarmi e sono qui lo stesso. Di cosa si

tratta?»«Sa perfettamente di cosa si tratta. Lo sa come chiunque altro.» La mano che reggeva la pistola

tremava. «Sono furiosa» spiegò in tono piatto. «E non intendo più tollerare questa situazione.»«Sì, signora» disse Bellamy. «Ha diritto di essere furiosa. Se c’è qualcuno che ne ha diritto,

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questa è lei.»«Non faccia così, agente Martin Bellamy. Non cerchi di ridurre tutto a me, perché non è così.

Voglio parlare con il colonnello Willis. Vada a chiamarlo. O mandi qualcuno a informarlo. Decidalei come fare.»

«Sono sicuro che stia per arrivare» disse Bellamy. «E, francamente, è quello che temo.»«Be’, io non ho paura» disse Lucille.«Quella pistola non può che peggiorare le cose.»«Pistola? Pensa che io non abbia paura perché ho una pistola?» Lucille sospirò. «La pistola non

c’entra. Non ho paura perché ho scelto la mia strada.» Si eresse, come un fiore che cresce da unsuolo arido. «Troppe persone a questo mondo hanno delle paure, io compresa. Sono terrorizzata daalcune delle cose che vedo alla televisione. Anche prima che tutto questo cominciasse, anche dopoche sarà tutto finito, avrò paura di tante cose. Ma non ho paura di questo. Non ho paura di quello chesta succedendo qui ora. Mi sento tranquilla perché è una cosa giusta. Le persone buone devonosmetterla di aver paura di fare le cose giuste.»

«Ma ci saranno delle conseguenze» disse Bellamy, cercando di non farla suonare una minaccia.«È così che va il mondo. Per ogni azione, c’è una conseguenza, e non sempre è quella cheprevediamo. A volte sono cose che non riusciamo neanche a immaginare. Comunque vada questasera, e io spero, più di quanto lei immagini, che tutto si concluda pacificamente, ci saranno delleconseguenze reali.»

Fece un piccolo passo verso Lucille. Sopra di lui, come se non ci fosse niente di sbagliato nelmondo, le stelle luccicavano e le nuvole si spostavano nei loro silenziosi, complessi arabeschi.

Bellamy piantò i piedi e continuò.«So cosa sta cercando di fare. Vuole dimostrare qualcosa. Non le piace questa situazione, e posso

capirla. Neanche a me piace. Lei pensa che avrei requisito un’intera città e l’avrei stivata di personecome fossero merci se fossi stato io a decidere?»

«Per questo non voglio parlare con lei, agente Martin Bellamy. Lei non decide più niente. Qui nonsi tratta di lei. Si tratta del colonnello Willis.»

«Sì, signora» annuì Bellamy. «Ma neanche il colonnello Willis decide. Sta facendo solo quelloche gli è stato ordinato. Lavora sotto qualcun altro, proprio come questi giovani soldati.»

«La smetta» disse Lucille.«Deve rivolgersi a qualcuno che sta sopra di lui se vuole soddisfazione, signora Lucille. Deve

salire lungo la catena di comando.»«Non mi tratti come una stupida, agente Martin Bellamy.»«Sopra il colonnello c’è un generale, o un altro ufficiale di grado più alto. Non conosco bene la

gerarchia. Non sono mai stato nell’esercito, quindi le mie conoscenze derivano dalla televisione. Maso che i militari ubbidiscono agli ordini. L’esercito è soltanto una grande piramide che, in cima, ha ilpresidente e, signora Lucille, lei si renderà conto che neanche il presidente ha un’autorità assoluta.Deve rispondere agli elettori, ai lobbisti, e così via. Non c’è fine alla catena.»

Fece un altro passo avanti. Era quasi arrivato a poterla toccare. Ancora pochi metri.«Si fermi lì» ordinò Lucille.«Il colonnello Willis è l’uomo a cui avrei affidato la responsabilità di tutto questo?» chiese

Bellamy, facendo un cenno della mano verso la buia, sonnolenta città che non era più una città ma ungrande, congestionato gulag. «No, signora, non gli avrei mai dato la responsabilità di una cosa tanto

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importante, una cosa talmente delicata. Perché questa è sicuramente una situazione delicata.»Un altro passo avanti.«Martin Bellamy.»«Ma eccoci qui... Lei, io, il colonnello Willis, Harold, Jacob.»Risuonò uno sparo.Poi un altro, in aria. Partito dalla pesante pistola scura che stava in mano a Lucille. Lei abbassò

l’arma e la puntò verso Bellamy. «Non ho niente contro di lei, agente Martin Bellamy. Lo sa. Ma nonmi lascerò distrarre. Voglio mio figlio.»

«No, signora» disse una voce alle spalle dell’agente Bellamy, che si stava ritirando, passo dopopasso. Era il colonnello. Accanto a lui c’erano Harold e Jacob. «Nessuno vuole distrarla» assicuròWillis. «Cerchiamo di trovare una soluzione, piuttosto.»

La vista di Harold e Jacob accanto al colonnello colse Lucille alla sprovvista... anche se, adessoche ci pensava, era proprio quello che avrebbe dovuto aspettarsi. Immediatamente rivolse la pistolaverso il colonnello. I soldati si irrigidirono, ma il colonnello fece cenno di mantenere la calma.

Jacob aveva gli occhi sgranati. Non aveva mai visto sua madre armata.«Lucille» chiamò Harold.«Non parlarmi con quel tono, Harold Hargrave.»«Cosa diavolo stai facendo, donna?»«Faccio quello che bisogna fare. Tutto qua.»«Lucille!»«Zitto! Faccio quello che faresti tu se i ruoli fossero invertiti. Ti sfido a dirmi che non è così.»Harold guardò la pistola di Lucille. «Può darsi» ammise. «Ma questo significa solo che ora io

devo fare quello che faresti tu se, come hai detto, i ruoli fossero invertiti. Metti subito giù quellapistola stramaledetta da Dio!»

«Non dire cose blasfeme!»«Dia ascolto a suo marito, signora Hargrave» intervenne il colonnello Willis. Anche se era sotto

tiro, aveva l’aria distinta e rilassata. «Non finirà bene, altrimenti.»«Stia zitto!» abbaiò Lucille.«Fa’ come dice lui, Lucille» insistette Harold. «Guarda tutti questi soldati con i fucili.»Erano almeno in venti e sembravano molto tesi. Soldati e armi, una combinazione letale. E

dall’altra parte c’era lei: una donna anziana che cercava di non apparire troppo spaventata, in mezzoa una strada, con addosso un vestito vecchio.

Poi le venne in mente che non era sola. Voltò la testa e si guardò alle spalle. I Redivivisembravano essersi moltiplicati. In piedi uno accanto all’altro, la guardavano e aspettavano che leidecidesse del loro fato.

Questo non lo aveva previsto. Affatto. Aveva pensato solo di guidare fino ai cancelli, presentarele proprie rimostranze al colonnello e far rilasciare i prigionieri.

Ma mentre veniva lì in macchina li aveva visti qua e là ai margini della cittadina. A volteseminascosti, con l’aria cupa e spaventata. Altre volte, tutti ammassati, a fissarla. Forse non avevanopiù paura del Bureau. Forse si erano rassegnati all’idea di essere catturati. O, forse, erano statimandati da Dio.

Lei si era fermata e aveva chiesto loro di aiutarla. E loro erano saliti sul pickup, uno dopo l’altro.Ma quando era arrivata non erano tanti, solo quelli che il veicolo poteva contenere. Ora, sembravano

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dozzine. Era come se ci fosse stata una chiamata, un segreto, silenzioso passaparola, e tutti avesserorisposto.

Dovevano essere nascosti, pensò lei. O forse era davvero un miracolo.«Lucille.»Era Harold.Lei distolse il pensiero dai miracoli e guardò il marito.«Ti ricordi quella volta nel... be’, era il giorno prima del compleanno di Jacob, il giorno prima

che lui se ne andasse. Ricordi che tornavamo in macchina da Charlotte? Era notte e stava diluviando,tanto forte che parlammo della possibilità di accostare e di aspettare che il temporale passasse. Te loricordi?»

«Sì» rispose Lucille. «Ricordo.»«Quel dannato cane sfrecciò davanti al pickup» riprese Harold. «Te lo ricordi? Non ebbi neanche

il tempo di sterzare. Solo bam! Un rumore di lamiera che sbatteva contro quel dannato cane.»«Cosa c’entra adesso?» chiese Lucille.«Ancora prima che io avessi fatto due più due e avessi capito cos’era successo, tu scoppiasti a

piangere. Singhiozzavi come se io avessi investito un bambino, dicendo: “Signore, Signore, Signore”,all’infinito. Mi facesti prendere un colpo. Pensavo di aver davvero messo sotto il figlio di qualcuno,anche se non aveva senso che un bambino fosse fuori con un tempo del genere, a quell’ora dellanotte. Non facevo che vedere Jacob riverso su quella strada, morto e schiacciato.»

«Zitto» disse Lucille, la voce tremula.«E invece eccolo lì... quel dannato cane. Un meticcio. Probabilmente all’inseguimento di qualche

traccia e confuso dalla pioggia. Uscii sotto quel maledetto diluvio e lo trovai, tutto ammaccato. Locaricai sul pickup e ce lo portammo via.»

«Harold.»«Lo portammo a casa e lì, alla luce, ecco... fu tutto chiaro. Era già morto. Solo che il corpo non se

ne era ancora reso conto. Così io andai in camera e presi quella pistola, la stessa dannata pistola chetu impugni adesso. Ti dissi di restare in casa, ma tu non mi desti retta, Dio solo sa perché.» Haroldfece una pausa e deglutì qualcosa che gli si era conficcato in gola. «L’ultima volta che usai quellapistola...» disse. «Tu ricordi cosa successe quando la usai, Lucille, so che lo ricordi.» Harold guardòi soldati, i soldati e i loro fucili.

Sollevò da terra Jacob e rimase lì, con il bambino in braccio. La pistola assunse un nuovo pesonella mano di Lucille. Un tremito le partì dalla spalla e scese verso il gomito, proseguendo fino alpolso e alla mano. Così, non avendo scelta, abbassò l’arma.

«Molto bene» approvò il colonnello Willis. «Molto, molto bene.»«Dobbiamo parlare» disse Lucille. Tutto a un tratto si sentiva molto stanca.«Possiamo parlare di tutto quello che vuole.»«Le cose devono cambiare. Non possono continuare così. Escluso.» Anche se aveva abbassato

l’arma, ce l’aveva ancora stretta in pugno.«Non ha tutti i torti» convenne il colonnello Willis. Guardò verso un gruppo di soldati, tra cui

c’era il ragazzo di Topeka, e fece un cenno in direzione di Lucille. Poi si girò verso di lei «Non staròqui a fingere che tutto sia perfetto. È una situazione a dir poco... disarmonica.»

«Disarmonica» fece eco Lucille. Le era sempre piaciuta quella parola: armonia. Si guardò allespalle. Erano ancora tutti lì, i Redivivi. Continuavano a fissarla. Lei, l’unica barriera che li separava

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dai soldati.«Cosa ne sarà di loro?» chiese Lucille, voltandosi appena in tempo per vedere che Junior si era

avvicinato. Ancora un paio di passi e avrebbe potuto strapparle di mano la pistola. Il soldato siimmobilizzò. Detestava la violenza, quel ragazzo. Non desiderava altro che tornare a casa sano esalvo, proprio come tutti.

«Perché un gesto simile, signora Hargrave?» chiese il colonnello Willis. Aveva alle spalle la lucedei fari del cancello sud.

«Ho chiesto cosa ne sarà di loro.» Le dita di Lucille si strinsero intorno alla pistola. «Immaginoche l’abdicazione...»

«Oh, diavolo» esclamò Harold. Posò Jacob a terra e lo prese per mano.La voce di Lucille era dura e controllata. «Che ne sarà di loro?» Indicò i Redivivi.Junior non aveva mai sentito la parola abdicazione in vita sua. Ma aveva la sensazione che fosse

il preliminare a qualcosa di poco buono, quindi si allontanò di un passo dalla vecchia armata. «Nonmuoverti!» abbaiò il colonnello Willis.

Junior si fermò subito.«Non mi ha risposto» disse Lucille, enunciando alla perfezione le parole. Fece un piccolo passo

verso sinistra, per vedere meglio alle spalle del giovane soldato che era stato mandato a disarmarla.«Saranno schedati» disse il colonnello Willis. Raddrizzò le spalle e unì le mani dietro la schiena

in una posa marziale.«Inaccettabile» ribatté Lucille. La sua voce si era fatta tagliente.«Diavolo» imprecò Harold tra i denti. Jacob alzò il viso verso di lui; era spaventato. Capiva

quello che capiva suo padre. Harold cercò gli occhi di Bellamy. L’agente doveva sapere che Lucilleaveva oltrepassato il punto in cui sarebbe stato possibile calmarla.

Ma l’agente Bellamy era concentrato su quello che stava accadendo, come tutti gli altri.«Abominevole» dichiarò Lucille. «Irresolubile.»Harold tremò. La peggiore lite che lui e Lucille avessero mai avuto era scoppiata non molto tempo

dopo la parola irresolubile. Era il suo grido di guerra. Harold fece un passo indietro verso ilcancello aperto, lontano da dove potevano volare le pallottole se la situazione fosse degenerata...cosa che, ne era certo, stava per succedere.

«Ce ne andiamo.» Lucille aveva la voce ferma e letale. «La mia famiglia e i Wilson vengono connoi.»

Il colonnello Willis non cambiò espressione. Aveva il viso duro e severo. «Non è possibile.»«Voglio i Wilson» disse Lucille. «Li rivoglio con me.»«Signora Hargrave.»«Comprendo che lei abbia delle apparenze da salvare. I suoi uomini devono rispettarla e il fatto

che una settantatreenne arrivi qui con una piccola pistola e la sua marmaglia e se ne vada dopo averliberato dei prigionieri... ebbene, non occorre essere strateghi militari per capire che lei non vuoleapparire sotto questa luce.»

«Signora Hargrave» ripeté il colonnello.«Non chiedo niente di più di ciò che mi è dovuto, niente di meno di quello che è mio... la mia

famiglia e quelli che sono sotto la mia protezione. Devo fare il lavoro di Dio.»«Il lavoro di Dio?»Harold attirò a sé Jacob. Sembrava che tutti i prigionieri della città di Arcadia si fossero riuniti

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lungo la recinzione. Harold scrutò tra la folla, sperando di scorgere i Wilson. Sarebbe toccato a luiprendersi cura di loro una volta che le cose si sarebbero messe al peggio.

«Il lavoro di Dio» ribadì Lucille. «Non il Dio dell’Antico Testamento che divise il mare perMosè e annientò le armate del faraone. No, non più quel Dio. Forse lo abbiamo cacciato noi, quelDio.»

Junior fece un altro passo indietro.«Resta dove sei, soldato!» sbraitò il colonnello Willis.«Harold, porta al sicuro Jacob» istruì Lucille. Poi, al colonnello Willis: «Basta così. Dobbiamo

smetterla di aspettare che sia qualcun altro a risolvere una situazione da cui dobbiamo tirarci fuori dasoli».

«Non muoverti di un passo, soldato!» urlò il colonnello Willis. «Togli quella pistola dalla manodella signora Hargrave, così possiamo andarcene tutti a letto.»

Junior stava ancora tremando. Guardava Lucille dritto negli occhi, chiedendole cosa dovesse fare.«Scappa, bambino» ripeté lei con una voce che normalmente riservava a Jacob.«Soldato!»Lui allungò una mano verso la pistola.Fu allora che Lucille gli sparò.

Il piccolo esercito di Redivivi di Lucille non si spaventò per lo sparo, e questo stupì i soldati. Forsenon avevano paura perché erano già morti una volta e avevano dimostrato che, tutto sommato, lamorte non era definitiva.

Questa era una possibilità. Ma non probabile.Erano sempre persone, dopotutto.Quando Junior si accasciò a terra, portandosi le mani alla gamba e urlando di dolore, Lucille non

si precipitò a soccorrerlo come avrebbe fatto in passato. Al contrario, scavalcò il corpo e cominciòad avanzare verso il colonnello. Willis urlò ai suoi uomini di aprire il fuoco. Portò la mano allapistola che aveva al fianco ma, come Junior, era riluttante a puntarla contro l’anziana signora. Lei nonera come i Redivivi. Era viva.

Così furono i soldati ad aprire il fuoco. Alcune pallottole colpirono dei corpi, ma la maggior partefurono esplose in aria o contro la terra calda dell’estate. Lucille marciò verso il colonnello Willis, lapistola spianata.

Prima che Junior fosse colpito, Harold aveva preso in braccio Jacob e si era allontanato di corsa.Bellamy li inseguì. Non ci mise molto a raggiungerli e, senza chiedere il permesso, tolse Jacob dallebraccia del padre.

«Andiamo dalla mamma» disse Harold.«Sì, signore» annuì Jacob.«Non stavo parlando con te, figliolo.»«Sì, signore» disse Bellamy.E i tre si misero a correre nella città cintata.

I Redivivi non erano armati, ma erano tanti. Ce n’erano migliaia, ora, fuori dalla recinzione sud.Erano troppi per poterli contare.

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Al confronto i soldati sembravano pochi.I Redivivi caricarono, in silenzio, come se stessero recitando la scena di un film. E i soldati

capirono che alla fine le loro armi avrebbero contato ben poco contro quella marea. Così, lasparatoria non durò a lungo. I Redivivi circondarono il gruppetto di soldati, inglobandoli.

L’esercito di Lucille avanzò, oltrepassando rapidamente il punto in cui lei stava in piedi con lapistola puntata contro il colonnello. Si udirono delle urla, rumori di colluttazioni. Era una cacofonia.

Vennero infrante delle finestre. Nei giardini e sulle porte delle case scoppiarono tafferugli. Isoldati combattevano a piccoli gruppi. A volte conquistavano qualche piccolo vantaggio perché iRedivivi non erano militari, ma persone comuni, e per questo avevano paura come capita allepersone comuni di fronte a uomini armati.

Ma la passione per vita li motivava. Avanzavano.«Avrebbe potuto uccidere quel ragazzo» disse il colonnello Willis, guardando Junior. Il soldato

aveva smesso di urlare, rassegnato al fatto che era ferito ma ancora vivo e, in fondo, non grave. Silimitava a gemere e a stringersi la gamba.

«Se la caverà» ribatté Lucille. «Mio padre mi ha insegnato a sparare prima ancora di insegnarmi acamminare. So colpire dove miro.»

«Non otterrà il suo scopo.»«A me sembra di averlo già ottenuto.»«Manderanno qui altri soldati.»«Questo non cambierà il fatto che oggi è stato compiuto un passo nella direzione giusta.»

Finalmente Lucille abbassò la pistola. «Verranno a cercarla» gli disse. «Sanno cosa ha fatto.Verranno a cercarla.»

Il colonnello Willis si pulì le mani. Poi girò sui tacchi e si allontanò, senza aggiungere nulla. Siavviò verso la città dove i suoi uomini erano sparpagliati. Qua e là, sparavano. Stavano ancoratentando di riprendere il controllo della situazione, anche se sapevano che era un’impresa disperata.Non sarebbero riusciti ad arginare i Redivivi ancora a lungo.

Il colonnello Willis non disse nulla.Poco dopo arrivarono i Wilson. Camminavano come una famiglia dovrebbe fare: Jim e Connie ai

lati e i loro bellissimi bambini nel mezzo, protetti dal mondo. Jim le fece un cenno di saluto. «Speroche tu non abbia fatto tutto questo per noi.»

Lucille lo abbracciò forte. Aveva un odore stantio, come se avesse bisogno di fare una doccia. Leitrovò appropriato quell’odore. Giustificava le sue azioni. Jim e la sua famiglia erano stati davverotrattati indegnamente. «Era la cosa giusta» disse tra sé.

Jim Wilson stava per chiederle che cosa intendesse. E lei si sarebbe schermita con un gesto dellamano e avrebbe scherzato su tutti i piatti che lui avrebbe dovuto lavare quando sarebbero tornati acasa. Forse gli avrebbe perfino fatto un bel predicozzo su come si educano i figli... scherzosamente,certo, senza criticare sul serio.

Ma un colpo esplose in lontananza e Jim Wilson fu scosso da un improvviso brivido.Poi cadde a terra, morto.

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Chris Davis

Lo trovarono nel suo ufficio, intento a fissare in silenzio una batteria di monitor. Non scappò,come Chris si sarebbe aspettato. Si limitò a raddrizzare la schiena quando loro entrarono, asquadrarli dall’alto in basso e a dire: «Ho fatto la mia parte, niente di più». Chris non avrebbesaputo dire se stesse chiedendo perdono o se si stesse giustificando. Il colonnello non sembravatipo da domandare scusa.

«Non so cosa siate, così come non lo sapete voi» disse il colonnello. «Forse siete come quelli diRochester, pronti a combattere finché non morirete una seconda volta. Ma io non credo.» Scossela testa. «Siete qualcosa di diverso. Questa storia non durerà. Non può.» Poi: «Io ho fatto la miaparte. Niente di più».

Per un attimo Chris pensò che il colonnello Willis si sarebbe tolto la vita. Sembrava ilmomento adatto a un gesto estremo. Ma quando lo presero, scoprirono che la pistola appoggiatasulla scrivania era scarica e inoffensiva. Sulla batteria di monitor, dove per tante settimane avevaspiato la vita, e a volte la morte, dei Redivivi, c’era soltanto l’immagine di un’anziana donna dicolore seduta da sola sulla sua branda.

Il colonnello ansimò quando lo sollevarono di peso e cominciarono a trascinarlo per i corridoidella scuola.

Quando aprirono la porta della stanzetta, il bambino che c’era dentro, vestito con indumentisporchi e stazzonati, si protesse gli occhi dalla luce con una mano tremante. «Ho fame» dissedebolmente.

Due di loro aiutarono il bambino a uscire. Lo presero in braccio e lo portarono fuori dalla suaprigione. Poi misero il colonnello Willis nella stanzetta in cui il bambino era stato tenuto pergiorni. Un attimo prima che chiudessero la porta, Chris vide il colonnello guardare il gruppo diRedivivi. I suoi occhi erano enormi, straniti, come se temesse che i Redivivi davanti a luipotessero moltiplicarsi fino a coprire il mondo intero, fino a riempire tutti i suoi spazi vuoti, persempre radicati su questo pianeta, a questa vita, anche dopo la morte.

«Okay allora» Chris sentì dire al colonnello, anche se non era chiaro con chi stesse parlando.Poi loro chiusero la porta e girarono la chiave nella serratura.

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«Ho bisogno di fermarmi» sbuffò Harold. Si sentiva bruciare i polmoni.Anche se l’istinto urlava a Bellamy di proseguire (sua madre era lì, da qualche parte, in mezzo a

quella follia umana), non protestò. Gli bastava guardare la faccia di Harold per capire che non avevascelta. Posò a terra Jacob. Il bambino corse dal padre. «Stai bene?»

Fra un colpo di tosse e l’altro, Harold lottava per tirare il fiato.«Si sieda» istruì Bellamy, cingendo il vecchio con un braccio. Erano in prossimità di una casetta

sulla Third Street. Quella zona della città era tranquilla, dato che quasi tutti ora si trovavano alcancello, il fulcro dell’azione. Probabile anche, supponeva Bellamy, che chi era in grado di fuggireda Arcadia lo stesse facendo. Con il tempo si svuoterà, pensò.

La casa apparteneva ai Daniels, se Bellamy ricordava bene. Si era sforzato di memorizzare piùparticolari che poteva sulla città, non perché si aspettasse che potesse succedere una cosa simile, maperché sua madre gli aveva insegnato a curare i dettagli.

In lontananza, crepitò uno sparo.«Grazie di avermi aiutato a portarlo via» ansimò Harold. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani.

«Io non sarei stato abbastanza veloce.»«Non avremmo dovuto lasciare Lucille» ribatté Bellamy.«Che alternativa avevamo? Restare e rischiare che Jacob fosse colpito da una pallottola?» Harold

gemette e si schiarì la voce.Bellamy annuì. «È vero. Finirà presto, comunque.» Posò una mano sulla spalla di Harold.«Papà sta bene?» chiese Jacob, asciugando la fronte di Harold, che continuava a tossire e ad

ansimare.«Non preoccuparti per lui» disse Bellamy. «È uno degli uomini più maligni che abbia conosciuto

in vita mia. Non sai che i cattivi vivono per sempre?»Bellamy e Jacob portarono Harold su per i gradini del portico dei Daniels. La casa era ubicata

sotto un lampione stradale rotto accanto a un terreno abbandonato. Aveva un aspetto derelitto.Harold tossì finché le sue mani non si strinsero a pugno.Jacob gli massaggiava la schiena.Bellamy era in piedi con gli occhi fissi verso il centro della cittadina, verso la scuola.«Vada da lei» disse Harold. «Nessuno ci darà fastidio qui. Le uniche persone armate erano i

soldati e... be’, sono in netta minoranza.» Sottolineò quelle parole schiarendosi la gola.Bellamy continuava a fissare in direzione della scuola.«Nessuno farà caso a un vecchio e a un bambino, adesso. Non abbiamo bisogno della sua

protezione.» Allungò un braccio e lo passò sulle spalle di Jacob. «Non è così, figliolo? Midifenderai tu, vero?»

«Sì, signore» annuì Jacob solenne.«Sa dove abitiamo» disse Harold. «Tra un po’ torneremo indietro a cercare Lucille. Sembra tutto

tranquillo, là, ora. Le scaramucce si sono spostate all’interno del recinto, ma immagino che miamoglie sia rimasta al cancello. Ad aspettarci.»

Bellamy voltò la testa di scatto. Strizzò gli occhi in direzione del cancello sud.

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«Non si preoccupi per Lucille. È una donna tosta.» Harold rise, ma la risata uscì pesante e caricadi tensione.

«L’abbiamo abbandonata» ripeté Bellamy.«Non l’abbiamo abbandonata. Abbiamo portato in salvo Jacob. E se non lo avessimo fatto, ci

avrebbe sparato lei. Posso garantirglielo.» Strinse a sé Jacob.In lontananza si levarono delle urla, poi ci fu solo silenzio.Bellamy si strofinò la fronte. Fu allora che Harold notò che, per la prima volta da quando lo

conosceva, l’agente stava sudando. «Sua madre sta bene» disse Harold.«Lo so.»«È viva» assicurò Harold.Bellamy ridacchiò. «È sempre questo il punto interrogativo, vero?»Harold allungò un braccio e strinse la mano dell’agente Bellamy. «Grazie di tutto» disse, tossendo

un poco.Bellamy sogghignò. «Cosa mi combina, Harold? Si sta rammollendo?»«Bastava dire prego, Mister Agente.»«Oh, no.» Bellamy scosse la testa. «Se mi sta diventando tutto dolce e tenerone, voglio scattare

una foto. Dove ho messo il cellulare?»«Lei è proprio uno scemo» ribatté Harold, trattenendo una risata.«Prego» disse Bellamy vivacemente.E con questo i due uomini si separarono.

Harold stava seduto con gli occhi chiusi e si concentrava sulla respirazione per calmare quelladannata tosse che non gli dava tregua. Doveva decidere cosa fare. Aveva la sensazione che stesse persuccedere qualcosa. Qualcosa di orribile.

Tutte le sue chiacchiere sul fatto che Lucille stava bene erano solo questo: chiacchiere. Avevabisogno di accertarsene con i propri occhi. Si sentiva più in colpa di Bellamy per averla lasciata là.Era suo marito, dopotutto. Ma lo aveva fatto per la sicurezza di Jacob. Era stata la stessa Lucille aordinarglielo. Era la decisione più sensata. Con tutte quelle armi, quella folla e quella tensione, eraimpossibile prevedere cosa sarebbe successo. Non c’era un posto sicuro in cui tenere in braccio unfiglio.

Se la situazione fosse stata invertita, e fosse stato lui in piedi davanti al cancello e Lucille allespalle dei soldati nel campo di concentramento, Harold avrebbe voluto che lei prendesse il bambinoe scappasse.

«Papà?»«Sì, Jacob? Cosa c’è?» Harold aveva una voglia disperata di fumare, ma le sue tasche erano

vuote. Si mise le mani tra le ginocchia e guardò fuori. Arcadia si era fatta mortalmente silenziosa.«Tu mi vuoi bene, vero?»Harold trasalì. «Che domande sciocche fai, figliolo?»Jacob si attirò le ginocchia al petto, se le abbracciò e non disse nulla.

Si incamminarono per la città con cautela, tornando indietro lentamente verso il cancello. Di tanto intanto incrociavano altri Redivivi. C’erano ancora tante persone in città, anche se molti erano fuggitiper i campi.

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Harold cercava di muoversi con calma, per non far entrare nel panico i polmoni. Di tanto in tanto,parlava di quello che gli passava per la mente. Più di ogni altra cosa, parlava di Arcadia. Di com’erastata ai vecchi tempi, quando Jacob era vivo. Gli sembrava importante in quel momento sottolinearequanto fossero cambiate le cose nel corso degli anni.

L’appezzamento vuoto accanto alla casa dei Daniels, per esempio, non era stato sempre vuoto. Aitempi in cui Jacob era vivo, c’era stata una gelateria. Era rimasta in attività fino agli anni Settantaprima di fallire al tempo della crisi del petrolio.

«Fammi un indovinello» disse a un tratto Harold, stringendo la mano di Jacob nella propria.«Li conosci già tutti.»«Come lo sai?»«Sei stato tu a insegnarmeli.»Harold non aveva più il fiato corto, cominciava a sentirsi meglio. «Sono sicuro che ne conosci di

nuovi.»Jacob scosse la testa.«Non ne hai sentito qualcuno alla televisione?»Altra scrollata di testa.«E i bambini con cui giocavi quando stavamo nell’aula di educazione artistica con la signora

Stone? Tutti i bambini amano gli indovinelli. Devono avertene raccontato qualcuno prima che lascuola diventasse troppo affollata... e prima che tu li picchiassi.» Gli strizzò un occhio.

«Nessuno mi ha insegnato indovinelli nuovi» disse Jacob con voce piatta. «Neanche tu.»Harold lasciò la mano di Jacob e i due continuarono a camminare con le braccia che oscillavano.

«Okay, allora. Suppongo che dovremo inventarcene uno.»Jacob sorrise.«Cosa deve riguardare il nostro indovinello?»«Animali. Mi piacciono quelli sugli animali.»«Qualche animale in particolare?»Jacob ci pensò un attimo. «Un uccello.»Harold annuì. «Bene, bene. Si possono fare un sacco di battute sugli uccelli. Sugli uccelli maschi

in particolare... ma queste non dirle alla mamma.»Jacob rise.«Oh, me ne è venuto in mente uno. Cosa disse la manopola alla mano?»«Cosa?»«Ti agguanterò.»

Quando arrivarono nei pressi del cancello sud, padre e figlio avevano ideato il loro indovinello. Eparlavano della tecnica migliore per raccontarli.

«Allora, qual è il segreto?» chiese Jacob.«L’atteggiamento.»«In che senso, l’atteggiamento?»«Fai la domanda come se sapessi la risposta.»«Perché?»«Perché se sembra che tu te lo stia inventando lì per lì, allora nessuno vorrà sentirlo. Le persone

trovano un indovinello molto più divertente se pensano che sia già stato raccontato ad altri. Vogliono

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sentirsi parte di una catena» spiegò Harold. «Quando le persone ascoltano un indovinello, voglionoavere la sensazione di essere introdotte in qualcosa più grande di loro. Vogliono avere la possibilitàdi farlo proprio e di raccontarlo agli amici perché lo raccontino ai loro amici.»

«Sì, signore» disse Jacob felice.«E se è davvero buono?»«Se è davvero buono, continuerà a circolare.»«Esatto» annuì Harold. «Le cose buone non muoiono mai.» Poi, tutto a un tratto, senza neanche

avere il tempo per un ultimo indovinello, si trovarono al cancello sud. Era come se avesseropasseggiato senza una meta, solo un padre e un figlio che trascorrevano un po’ di tempo insieme, enon stessero tornando dove tutto era iniziato, dove si trovava Lucille, dove era riverso il corpo diJim Wilson.

Harold si fece strada tra la folla di Redivivi che circondavano Jim Wilson, con Jacob alle calcagna.Jim sembrava in pace nella morte.Lucille era inginocchiata accanto a lui, e piangeva. Gli avevano infilato una giacca sotto la testa e

ne avevano allargato un’altra sul suo petto. Lucille gli teneva una mano. Sua moglie, Connie, l’altra.Qualcuno, grazie al cielo, teneva in disparte i bambini.

Qua e là, gruppetti di soldati stavano seduti insieme, disarmati e circondati da Redivivi.Alcuni erano stati immobilizzati con lacci improvvisati. Altri, quelli che riconoscevano una causa

persa quando la vedevano, erano liberi e si guardavano attorno in silenzio, senza porre ulterioreresistenza.

«Lucille?» chiamò Harold, accovacciandosi accanto alla moglie con un grugnito di dolore.«Era mio cugino» disse lei. «È tutta colpa mia.»Per qualche motivo, Harold non vide il sangue finché non si inginocchiò nella pozza.«Harold Hargrave» disse Lucille con un filo di voce. «Dov’è il mio bambino?»«È qui» rispose lui.Jacob arrivò alle spalle di Lucille e la cinse con le braccia. «Sono qui, mamma.»«Bene» disse Lucille, ma Harold non era sicuro che avesse realmente registrato la presenza del

bambino. Poi lei afferrò Jacob e lo attirò a sé. «Ho fatto una cosa tremenda» disse, stringendoloforte. «Dio mi perdoni.»

«Com’è successo?» chiese Harold.«C’era qualcuno dietro di noi» spiegò Connie Wilson, asciugandosi le lacrime dalla faccia.Harold si alzò lentamente. Si sentiva le gambe appesantite dai dolori. «È stato uno dei soldati?

Quel dannato colonnello?»«No» rispose Connie con calma. «Se n’era già andato. Non è stato lui.»«In quale direzione era rivolto Jim? Verso la città o da quella parte?» Indicò la strada che usciva

da Arcadia. «Verso la città» rispose Connie.Harold si girò nella direzione opposta. Vide solo la lunga strada buia che usciva da Arcadia, tra i

campi di granturco. A delineare i campi c’erano imponenti pini scuri che si alzavano nella nottestellata.

«Che tu sia maledetto» disse Harold.«Cosa c’è?» chiese Connie, sentendo una nota strana nella voce di lui.«Dannato figlio di puttana» sibilò Harold, le mani strette a pugno.

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«Cosa c’è?» ripeté Connie. A un tratto, aveva paura che sparassero anche a lei. Si girò verso ilbosco, ma vide solo alberi e buio.

«Prendi i bambini» disse Harold. Guardò il suo vecchio pickup. «Mettete Jim nel cassone. Anchetu, Connie. Sali, sdraiati e non tirarti su finché non te lo dico io!»

«Cosa c’è che non va, papà?» chiese Jacob.«Non preoccuparti» disse Harold. Poi, a Lucille: «Dov’è la pistola?».«Qui.» Lei gliela passò con una smorfia di disgusto. «Buttala via.»Harold si infilò la pistola nella cintura e girò intorno al pickup verso il lato del conducente.

«Papà, cosa c’è?» insistette Jacob. Era ancora aggrappato a sua madre. Lei gli accarezzava la mano,adesso, come se avesse finalmente capito che lui era lì.

«Sta’ zitto» disse Harold severo. «Vieni qui e salta in macchina. Rannicchiati sul sedile e tieni latesta bassa.»

«E la mamma?»«Jacob, figliolo, fa’ come ti dico!» abbaiò Harold. «Dobbiamo andarcene da qui. Dobbiamo

tornare a casa dove Connie e i bambini saranno al sicuro.»Jacob si sdraiò sul sedile del pickup e Harold, per fargli capire che era per il suo bene, allungò un

braccio e lo accarezzò sulla testa. Non si scusò, perché sapeva che non aveva sbagliato ad alzare lavoce con il bambino in quelle circostanze, e Harold aveva sempre ritenuto che una persona nondovesse scusarsi se non aveva fatto niente di male. Ma nessuna convinzione gli impediva diaccarezzare affettuosamente il figlio sulla testa.

Quando il bambino fu sistemato, Harold smontò per aiutare gli altri a trasportare il corpo di JimWilson. Lucille li guardò sollevare l’uomo e a un tratto le venne in mente una citazione dallescritture.

«Il mio Dio ha mandato il Suo angelo che ha chiuso le bocche dei leoni, ed essi non mi hannofatto alcun male, perché sono stato trovato innocente davanti a Lui.»

Harold non protestò. Sembravano parole appropriate.«Fate attenzione» disse Harold mentre trasportavano il corpo, senza rivolgersi a nessuno in

particolare.«Mi pento» disse Lucille, ancora inginocchiata. «Mi pento» ripeté. «È tutta colpa mia.»

Quando il corpo fu sistemato sul cassone del pickup, Harold disse a Connie di coricarsi accanto almarito. «Fa’ salire i bambini davanti» ordinò. Poi si scusò, anche se non avrebbe saputo dire perché.

«Cosa succede?» chiese Connie. «Non ci capisco niente. Dove stiamo andando?»«Preferisco che i bambini stiano nell’abitacolo» replicò Harold.Connie seguì le istruzioni. I bambini si strinsero sui sedili insieme a Lucille, a Jacob e ad Harold.

Harold disse a tutti e tre i bambini di tenere la testa bassa. Loro ubbidirono, piagnucolando un po’quando il pickup si accese con un rombo per lasciare la città.

Lucille si limitava a guardare in lontananza, la mente altrove.Nel cassone del pickup, Connie era sdraiata accanto al corpo di Jim, proprio come aveva fatto

tutte le notti del loro matrimonio. Gli teneva la mano. Stare vicina a un morto non sembravaimpressionarla né crearle disagio, o forse semplicemente non voleva lasciare il marito.

Mentre guidava, Harold scrutava il buio ai margini dei coni di luce dei fari, cercando la canna di un

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fucile pronta a fare fuoco e a mandarlo al creatore.Quando la città sparì nell’oscurità alle loro spalle e furono vicini a casa, lui posò una mano su

quella di Lucille.«Perché stiamo tornando a casa?» domandò Jacob.«Quando ti trovavi in Cina, che cosa desideravi?»«Volevo solamente andare a casa» rispose Jacob.«È ciò che desiderano tutti, anche se sanno che l’inferno potrebbe aspettarli là.»

Quando lasciarono la statale per immettersi nella stradina sterrata che portava a casa, Harold dissealla moglie: «Per prima cosa bisogna portare dentro Connie e i bambini. Niente domande. Nonpreoccuparti per Jim. Porta solo dentro gli altri. Mi hai sentito?».

«Sì» rispose Lucille.«Una volta in casa, salite al piano superiore. Non fermarti a prendere nulla.»Harold frenò all’imbocco della stradina e accese gli abbaglianti. Alla luce cruda dei fari, la casa

sembrava vuota e abbandonata come Harold non ricordava di averla mai vista.Premette sull’acceleratore e ripartì. Prese velocità lungo il vialetto, fece inversione nel cortile e

accostò al portico in retromarcia come se dovesse scaricare un albero di Natale o un carico di legnaper il camino, non il corpo di Jim Wilson.

Era ossessionato dall’idea di essere seguito, e questo gli faceva fare tutto in fretta. Quando tesel’orecchio, sentì un rombo basso di motori. A giudicare dal suono, dovevano essere all’estremitàopposta del vialetto.

Aprì la portiera del pickup e scese. «Entrate in casa» ordinò. Tirò giù i bambini dall’abitacolo, lilasciò cadere in piedi come puledrini, e li sospinse verso il portico. «Entrate, su. Presto!»

«È stato divertente» disse Jacob.«Dentro» istruì Harold.A un tratto dei bagliori di fari rimbalzarono sul vialetto. Harold si schermò gli occhi ed estrasse

la pistola dalla cintura.Jacob, Lucille e i Wilson stavano entrando precipitosamente in casa quando il primo pickup si

fermò slittando in cortile, proprio sotto la vecchia quercia. I tre che lo seguivano parcheggiarono unodietro l’altro, tutti con gli abbaglianti accesi.

Ma Harold sapeva già chi erano.Si girò e salì sul portico mentre le portiere dei pickup si aprivano e i conducenti scendevano.

«Harold!» chiamò una voce da dietro la barriera di luci. «Vieni subito qui, Harold!»«Spegni quei dannati fari, Fred!» urlò Harold di rimando. «E di’ ai tuoi amici di fare lo stesso.»

Si parò davanti al portoncino e tolse la sicura alla pistola. Dalla casa giunse un rumore di passirapidi che salivano le scale. Stavano seguendo le sue istruzioni. «Sento che Clarence non ha ancorafatto sistemare quella marmitta.»

«Non è un problema tuo» replicò Fred Green. Ma spense i fari. Poco dopo, gli altri lo imitarono.«Suppongo che tu abbia ancora quel fucile, con te» disse Harold.Fred si mise davanti al proprio pickup. Quando gli occhi di Harold si furono abituati all’oscurità,

vide che Fred imbracciava il fucile.«Non volevo farlo» disse Fred. «Devi saperlo, Harold.»«Balle» sbottò Harold. «Ti si è presentata l’opportunità di fare quello che hai sempre voluto fare,

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e l’hai colta. Sei sempre stato una testa calda, Fred, e con il mondo messo com’è adesso, finalmentehai potuto sfogarti.»

Harold fece un passo indietro verso il portoncino e alzò la pistola. Gli uomini anziani che eranoarrivati con Fred puntarono schioppi e fucili, ma Fred no.

«Harold» disse l’uomo, scuotendo la testa. «Falli uscire e mettiamo fine a tutto questo.»«Uccidendoli?»«Harold!»«Perché è tanto importante che restino morti?» Harold fece un altro passo indietro. Detestava

lasciare il cadavere di Jim nel cassone del pickup, ma non aveva scelta. «Come hai fatto a diventarecosì, Fred?» chiese. «Credevo di conoscerti.» Harold era quasi dentro casa.

«È solo che non è giusto! Niente di tutto questo è giusto.»Harold entrò e sbatté la porta. Per un attimo ci fu solo silenzio. Poi la quercia frusciò sotto un

improvviso colpo di vento arrivato da sud come un brutto presagio.«Prendete le taniche di benzina» ordinò Fred Green.

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Patricia Bellamy

Trovò sua madre da sola nell’aula, seduta in fondo alla sua branda. Aspettava con le mani ingrembo e gli occhi che fissavano nel vuoto e non vedevano nulla. Quando lo scorse sulla porta, loguardò come se lo avesse riconosciuto. «Oh, Charles» disse.

«Sì» rispose lui. «Sono qui.»Lei sorrise, un sorriso più vitale e luminoso di quelli che faceva nei ricordi che Bellamy aveva

di lei. «Ero tanto preoccupata. Pensavo che ti fossi scordato di me. Dobbiamo andare alricevimento. Non sopporto di arrivare in ritardo. È una scortesia. Una vera mancanza diriguardo.»

«Sì.» Bellamy si sedette sulla branda accanto a lei. Le prese le mani. Lei sorrise di nuovo eposò la testa sulla sua spalla. «Mi sei mancato» disse.

«Mi sei mancata anche tu.»«Pensavo che ti fossi dimenticato di me. Che sciocca sono.»«Sì.»«Ma sapevo che saresti tornato.»«Certo che lo sapevi» disse Bellamy, gli occhi lucidi di lacrime. «Sai che non posso stare

lontano da te.»«Oh, Charles» disse la vecchia signora. «Sono così orgogliosa di lui.»«Lo so» annuì Bellamy.«Per questo non possiamo arrivare in ritardo. È la sua grande serata. La sera in cui diventerà

un importante uomo del governo... il nostro figliolo. Deve sapere che siamo orgogliosi di lui. Devesapere che lo amiamo e che gli saremo sempre accanto.»

«Sono sicuro che lo sappia» disse Bellamy. Le parole gli si erano inceppate in gola.Rimasero seduti così per molto tempo. Ogni tanto dall’esterno arrivava un rumore di tafferugli,

piccole scaramucce combattute qua e là... com’è nella natura delle cose. Alcuni soldati restavanofedeli al colonnello Willis, o quanto meno fedeli a ciò che lui rappresentava. Non concepivanol’idea che tutto quello che lui aveva detto e fatto, tutte le sue opinioni sui Redivivi, potesseroessere sbagliati. Così resistettero più a lungo degli altri, ma gli scontri stavano scemando e prestosarebbero finiti. Presto ci sarebbero stati solo Martin Bellamy e sua madre, che cercavano divivere il loro rapporto ancora una volta, finché la morte, o qualunque cosa portasse via i Redivivicome sussurri nella notte, non sarebbe venuta a prendere lei, o lui.

Lui non avrebbe ripetuto i propri errori.«Oh, Marty» disse allora sua madre. «Ti voglio tanto bene, figliolo.» Cominciò a frugarsi in

tasca, come aveva fatto quando cercava una caramella per il suo bambino.Martin Bellamy strinse la mano della madre. «Ti voglio bene anch’io. Non me ne dimenticherò

più.»

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«Non penserai che io sia tanto stupido da entrare, vero?» urlò Fred. La sua voce attraversava ilportoncino e le sottili pareti della casa come lo squillo del campanello.

«Ci avevo sperato» replicò Harold. Aveva appena finito di trascinare il divano contro la porta.«Su, Harold. Non fare così. Io e i ragazzi vi bruceremo vivi se ci costringi a farlo.»«Potete provarci» ribatté Harold, spegnendo tutte le luci. «Ma dovreste avvicinarvi alla casa. E

non sono sicuro che vogliate farlo, con questa pistola che ho in mano e tutto il resto.»Quando tutte le luci furono spente e tutte le finestre sbarrate, Harold si sistemò al riparo del

divano davanti alla porta. Sentì che erano già dietro casa. Stavano gettando benzina contro i muri.Pensò di andare sul retro, magari di sparare un colpo in aria, ma se le cose fossero andate male comeprevedeva, si sarebbe odiato per aver sprecato un proiettile.

«Io non voglio farlo, Harold.»Harold non poté fare a meno di sentire una nota di sincerità nella voce di Fred, ma non era sicuro

di potersi fidare. Guardò in direzione delle scale. Qualcuno si muoveva al piano superiore. «Statelontani da quelle dannate finestre!» urlò. Lucille scese le scale acquattata in una posizione goffa,leggermente artritica. «Torna su, dannazione» abbaiò Harold.

«Devo fare qualcosa» ribatté Lucille. «È tutta colpa mia. Solo colpa mia!»«Santo cielo, donna!» sbuffò Harold. «Quella tua Bibbia non dice che l’egoismo è un peccato?

Smettila di essere egoista e condividi un po’ della colpa. Pensa a come sarebbe stato il nostromatrimonio se tu fossi stata disposta ad accollarti tutte le colpe come fai adesso! Mi sarei annoiato amorte!» Gonfiò il petto. «E ora, torna su!»

«Perché? Perché sono una donna?»«No. Perché lo dico io!»Malgrado tutto, Lucille rise.«Questo vale anche per me» disse Connie, scendendo le scale.«Oh, diavolo» gemette Harold.«Cosa ci fai qua sotto, Connie?» chiese Lucille. «Torna su!»«Vedi cosa si prova?» disse Harold a Lucille.«Cosa facciamo?» chiese Lucille.«Penso a tutto io» rispose Harold. «Non preoccuparti.»Connie entrò in cucina camminando acquattata e tenendosi il più possibile lontano dalle finestre.

Prese dal ceppo il più grosso coltello che trovò.«Cos’è questa mania che le donne hanno per i coltelli?» brontolò Harold. «Ricordate quella

Bobbitt? Quella che ha evirato il marito?» Scosse la testa. Poi, a voce più alta: «Smettiamola conquesta assurdità, Fred!».

«Non finirà bene» disse Lucille.«È quello che stavo per dire io!» urlò Fred di rimando. A giudicare dalla sua voce, era quasi sul

portico. «Harold» chiamò. «Harold, vieni alla finestra!»Harold si alzò con un gemito.«Per favore, Harold» pregò Lucille, allungando un braccio per trattenerlo.

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«È tutto okay.»«Parliamone» disse Fred Green. Era in piedi sul portico, davanti alla finestra. Harold avrebbe

potuto sparargli alla pancia se avesse voluto. E, al pensiero del corpo di Jim Wilson nel cassone,sentiva un forte, innegabile impulso di premere il grilletto. Ma Fred era venuto lì disarmato, esembrava sinceramente sconvolto. «Harold» chiamò. «Mi spiace davvero.»

«Voglio crederti, Fred.»«Dici sul serio?»«Sì.»«Allora capirai che non voglio spargere altro sangue.»«Non sangue di Veri Vivi, suppongo.»«Esatto» confermò Fred.«Tu vuoi solo che io ti consegni questa famiglia, questi bambini.»«È così, ma devi capire che non siamo venuti per uccidere. Non è per questo.»«E allora, qual è il vostro scopo?»«Una resa dei conti.»«Resa dei conti?»«Stiamo riportando le cose a come devono essere.»«E come devono essere? Da quando è giusto ammazzare il prossimo? Non ti basta che i Wilson

siano già stati uccisi una volta? Adesso devono morire di nuovo?»«Non li abbiamo uccisi noi!» urlò Fred.«Noi chi?»«Io non so chi sia stato» riprese Fred. «Un estraneo. Un pazzo che passava per la città. Si sono

trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tutto qua. Non siamo stati noi. Non è stato qualcunodi Arcadia. Non ammazziamo la gente, qui!»

«Non ho mai detto che sei stato tu» fece notare Harold.«Ma qualcuno è stato» ribatté Fred. «E questa città non è più stata la stessa, dopo.» Una pausa. «I

Redivivi non appartengono a questo mondo. E se dovremo sradicarli una famiglia alla volta, allora èciò che faremo.»

Né Harold né Fred avevano bisogno di guardare il corpo di Jim Wilson. Per il semplice fatto cheera lì, e che era morto, Jim Wilson la diceva lunga sulla situazione di Arcadia. «Ti ricordicom’eravamo prima che succedesse?» chiese Harold alla fine. «Ti ricordi della festa di compleannodi Jacob? Il sole, tutti che chiacchieravano, sorridevano, mangiavano. Mary doveva cantare quellasera.» Sospirò. «Poi... be’, poi cambiò tutto, suppongo. Tutti noi cambiammo.»

«È proprio di questo che sto parlando!» disse Fred. «Certe cose dovrebbero accadere nellemetropoli. Scippi, stupri, sparatorie, persone che muoiono prima che sia la loro ora. Non succedonoqui ad Arcadia.»

«E invece successe» ribatté Harold. «Successe ai Wilson, a Mary. Poi, suppongo, successe a noi.Il mondo ci trovò, Fred. Trovò Arcadia. Vedere Jim e Connie morti una seconda volta non ciriporterà indietro.»

Ci fu un silenzio, allora, un silenzio carico di possibilità. Poi Fred Green scosse la testa, come sestesse negando qualche ragionamento mentale.

«Dobbiamo mettere fine a questa spirale di violenza» riprese Harold dopo un attimo. «Non hannofatto niente di male, i Wilson. Jim era nato e cresciuto qui. E anche Connie. I suoi venivano dalla

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contea di Bladen, poco lontano da dove viveva la famiglia di Lucille. Non è mica una dannata yankeeo roba del genere. Dio sa che se fosse stata una newyorchese, le avrei sparato io stesso!»

In qualche modo i due uomini riuscirono a ridere.Fred si girò a guardare il corpo di Jim. «Potrei bruciare all’inferno per questo» riprese. «Lo so.

Ma doveva essere fatto. La prima volta, sono stato alle regole. Ho detto ai soldati che i Wilsonvivevano qui, e loro sono venuti e li hanno portati via pacificamente. Era finita. Ero disposto achiudere la storia. E invece...»

«Jim voleva solo vivere. Vivere e proteggere la sua famiglia, come chiunque altro al mondo.»Fred annuì.«Ora li stiamo proteggendo Lucille, Jacob e io.»«Fa’ che non succeda, Harold» disse Fred. «Ti imploro.»«Suppongo di non avere scelta» replicò Harold. Poi, anche lui, guardò il corpo di Jim. «Ti

immagini quante spiegazioni dovrei dare se a un tratto lui si tirasse su a sedere e mi chiedesse perchédiavolo li ho consegnati a te? Immagino che se ci fosse Lucille sdraiata lì...» Guardò la moglie. «No»disse, scuotendo la testa. Usò la pistola per indicare a Fred di lasciare il portico. «Quali che siano letue intenzioni, Fred, procediamo.»

Fred alzò le mani e lentamente scese dai gradini del portico. «Hai un estintore?»«Sì.»«Non ti sparerò se tu non sparerai a me o ai miei uomini» disse Fred. «Puoi mandare fuori i

Wilson e mettere fine a tutto in qualunque momento. La decisione è tua. Te lo giuro, faremo ilpossibile per salvare la casa. Basta che tu li faccia uscire e sospendiamo tutto.»

Poi si allontanò dal portico. Harold chiamò i bambini per farli scendere. Nello stesso istante,fuori, Fred Green urlava qualcosa. Dal retro della casa arrivò il fruscio di una combustione, seguitoda uno scoppiettio.

«Come siamo arrivati a questo punto?» disse Harold, senza sapere a chi lo stesse chiedendo.Era come se la stanza gli girasse attorno. Niente aveva senso. Cercò Connie con gli occhi.

«Connie?» chiamò.«Sì?» rispose lei. Aveva i bambini in braccio.Harold esitò. Aveva la testa piena di domande.«Harold...» lo interruppe Lucille. Due persone non possono vivere insieme tutta una vita e non

capire cosa passa nella mente dell’altro. Lucille sapeva perfettamente cosa stava per dire Harold.Sentiva che non era giusto da parte di lui chiederlo, ma non se la sentì di fermarlo. Desideravasaperlo quanto chiunque altro.

«Come successe?» domandò Harold.«Cosa?» chiese Connie confusa.«Tanti anni fa.» Harold fissava il pavimento nel parlare. «Questa città... Non fu più la stessa dopo

quella strage. E guarda a che punto siamo arrivati ora. Tutti questi anni passati a non sapere, a farsidomande, ad avere paura che fosse stato uno della nostra città... uno dei nostri vicini.» Scosse latesta. «Non posso fare a meno di pensare che se si fosse scoperto cosa successe esattamente quellanotte, forse tutto sarebbe stato diverso.» Finalmente guardò Connie negli occhi. «Chi fu?»

Per molto tempo Connie non rispose. Guardò i figli, che erano spaventati e incerti. Se li strinse alseno e coprì le loro orecchie. «Io...» iniziò. «Non so chi fu.» Deglutì forte, come se le si fosse

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conficcato qualcosa in gola.Harold, Lucille e Jacob non dissero nulla.«Davvero, non riesco a ricordare» riprese Connie. La sua voce suonava lontana. «Era tardi. Mi

svegliai di soprassalto, con la sensazione di aver sentito qualcosa. Sai come succede a volte, quandonon si capisce se quello che si è sentito fa parte del sogno o del mondo reale.»

Lucille annuì, ma non si azzardò a parlare.«Stavo cercando di riaddormentarmi quando udii dei passi in cucina.» Guardò Harold e Lucille.

Sorrise. «Un genitore conosce il rumore dei passi dei suoi figli.» Il sorriso svanì. «Sapevo che nonerano loro. Fu allora che mi spaventai. Svegliai Jim. Era stordito dal sonno, all’inizio, ma poi li sentìanche lui. Cercò un corpo contundente, ma trovò solo la mia vecchia chitarra accanto al letto. Pensòdi prenderla, ma io avevo paura che me la spaccasse. Me l’aveva regalata mio padre poco prima delmio matrimonio. Era assurdo pensare di potersi difendere con una chitarra, ma Jim era fatto così.»Connie si asciugò una lacrima all’angolo di un occhio. Poi riprese a parlare. «Mi precipitai nellastanza dei bambini e Jim corse in cucina. Urlò all’intruso di uscire di casa. Si azzuffarono. Sembravache buttassero giù la cucina. Poi ci fu lo sparo. Quindi solo silenzio. Fu il silenzio più lungo dellamia vita. Continuai ad aspettare che Jim dicesse qualcosa. Che urlasse, mi chiamasse, qualunquecosa. Ma lui non lo fece. Io sentii l’intruso muoversi per casa, come se cercasse qualcosa. Soldi,oggetti di valore, probabilmente. Poi sentii i passi venire verso la stanza dei bambini. Presi i mieifigli e ci nascondemmo sotto il letto. Chiunque fosse, vidi solo che portava un vecchio paio discarponi da lavoro. Erano macchiati di vernice.» Connie fece una pausa e rifletté, sospirando.«Ricordo che c’erano degli imbianchini in città in quel periodo. Lavoravano alla fattoria deiJohnson. Io non avevo avuto a che fare con loro, ma Jim aveva aiutato a dipingere... ci faceva semprecomodo qualche dollaro extra. Un giorno avevo portato il pranzo a Jim e avevo notato un uomo condegli scarponi simili a quelli che vidi nella stanza dei bambini quella notte. Non ricordo molto deltizio che li indossava. Capelli rossi, pallido. Un estraneo. Uno che pensavo non avrei più rivisto.»Rifletté per un attimo. Poi: «Era un brutto ceffo» disse. Scosse la testa. «O forse ho questaimpressione perché voglio crederci. La verità è che non so chi ci sparò. Non avevamo fatto nienteper meritarci quello che successe. Del resto, non riesco a immaginare una famiglia che meriti diessere trucidata.» Finalmente, tolse le mani dalle orecchie dei figli. La sua voce non tremava più. «Ilmondo è crudele a volte. Basta guardare il telegiornale un giorno qualsiasi della settimana percapirlo. Ma la mia famiglia... noi ci siamo amati fino all’ultimo istante. È questo che conta.»

Lucille stava piangendo. Si protese e prese Jacob tra le braccia, lo baciò e gli sussurrò che glivoleva bene.

Harold abbracciò entrambi. Poi, a Connie, disse: «Mi prenderò cura io di voi. Te lo prometto».«Cosa farai?» chiese Jacob.«Faremo quello che occorre fare, figliolo.»«Li manderai fuori, papà?»«No» rispose Lucille.«Faremo quello che occorre fare» ripeté Harold.

Il fuoco divampò più in fretta di quanto Harold avesse previsto.Forse perché era una casa vecchia ed esisteva da quando lui era in vita, aveva immaginato che

fosse indistruttibile o, quanto meno, che sarebbe stato difficile cancellarla da questo mondo. Ma

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l’incendio dimostrò che era soltanto una casa, niente più che un’accozzaglia di legno e di ricordi.Entrambi, facilmente annientabili.

Così, quando il fuoco risalì lungo il muro posteriore, il fumo lo precedette a ondate, spingendo gliHargrave e i Wilson verso la porta d’ingresso, verso Fred Green e il suo fucile.

«Avrei dovuto essere più furbo» disse Harold, tossendo. Pregava che non fosse uno di quegliattacchi di tosse che si concludevano con uno svenimento. «Avrei dovuto prendere tempo e cercarealtre pallottole.»

«Signore, Signore, Signore» sussurrava Lucille. Si torceva le mani e contava mentalmente tutti imotivi per cui era colpa sua. Vide Jim Wilson. Era alto e bello e vivo, con una moglie e duefiglioletti che gli si buttavano addosso, lo abbracciavano, si aggrappavano a lui. Poi lo vide abbattutoda una pallottola su una strada di Arcadia, sanguinante, rigido, morto.

«Papà?» chiamò Jacob.«Andrà tutto bene» assicurò Harold.«Questo è sbagliato» disse Lucille.Connie si stringeva i figli al petto. Aveva ancora nella mano destra il coltello da macellaio. «Cosa

abbiamo fatto di male?»«È tutto sbagliato» disse Lucille.I bambini stavano piangendo.Harold estrasse il caricatore dalla pistola, si assicurò che le quattro pallottole fossero ancora lì,

poi lo rimise a posto. «Vieni qui, Jacob» chiamò.Jacob arrivò, tossendo per il fumo. Harold lo prese per un braccio e cominciò a tirare via il

divano dalla porta. Lucille lo guardò per un attimo poi, senza fare domande, lo aiutò, contando sulfatto che avesse un piano, fidandosi di lui come si fidava dei piani divini.

«Cosa facciamo?» chiese Jacob al padre.«Usciamo di qui» rispose Harold.«E loro?»«Fa’ come ti dico, figliolo. Non ti lascerò morire.»«Ma... e loro?» insistette il bambino.«Ho pallottole a sufficienza.»

Gli spari risuonarono chiari e regolari nella buia campagna senza luna. Tre colpi.Poi il portoncino si aprì e la pistola volò in aria. Cadde nel cassone del pickup accanto al corpo

di Jim. «Va bene!» urlò Harold, uscendo con le mani in alto. Lucille lo seguiva, proteggendo Jacobcon il proprio corpo. «Hai vinto, dannazione!» urlò Harold. Aveva il viso cupo, grave. «Almeno nonti ho dato la soddisfazione. Ho evitato a quei poveretti di morire per mano tua, bastardo.»

Tossì.«Signore, Signore, Signore» ripeté Lucille in un sussurro.«Devo vedere con i miei occhi» disse Fred Green. «I ragazzi sono ancora sul retro, per

assicurarsi che tu non ci stia giocando qualche scherzo, Harold.»Harold scese i gradini del portico, reggendosi al pickup. «E la mia casa?»«La salveremo. Devo solo assicurarmi che tu abbia fatto quello che hai detto.»Harold stava tossendo di nuovo. Un lungo, violento assalto che lo piegò a metà e lo fece cadere in

ginocchio accanto al veicolo. Lucille gli prese la mano, accovacciandosi accanto a lui. «Cos’hai

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fatto, Fred Green?» chiese. Il suo viso rifletteva il chiarore del fuoco.«Mi spiace, Lucille» disse lui.«La mia casa sta bruciando!» ansimò Harold.«E intendo occuparmene» assicurò Fred. Si staccò dal proprio pickup per avvicinarsi ad Harold,

il fucile basso contro il fianco, ma puntato verso la porta nel caso i morti non fossero veramentemorti.

Harold tossì finché non vide dei puntini di luce lampeggiare davanti ai suoi occhi. Lucille glideterse il viso. «Dannazione a te, Fred Green! Fa’ qualcosa» urlò.

«Almeno allontana il mio dannato pickup dalla casa» riuscì a dire Harold. «Se succede qualcosaal corpo di Jim, vi ucciderò dal primo all’ultimo!» Jacob si inginocchiò e prese la mano del padre, inparte per aiutarlo con la tosse, in parte per assicurarsi che i suoi genitori si trovassero tra lui e ilfucile di Fred Green.

Fred passò accanto ad Harold, Lucille e Jacob. Salì le scale verso la porta aperta. Il fumo uscivain densi pennacchi bianchi. Da dove stava, poteva vedere il chiarore rossastro del fuoco cheavanzava dal retro della casa. Esitò a entrare quando non vide i corpi dei Wilson. «Dove sono?»

«In paradiso, spero» rispose Harold. Rise, solo un poco. La tosse era passata, ma si sentivaancora la testa leggera. I puntini luminosi si ostinavano a restare davanti ai suoi occhi, per quanto luicercasse di cacciarli come mosche. Strinse la mano di Lucille. «Andrà tutto bene. Resta soloattaccata a Jacob.»

«Non fare giochetti con me, Harold» sbraitò Fred, ancora sul portico. «Lascerò bruciare tutto seoccorre.» Sbirciò dentro, l’orecchio teso a cogliere colpi di tosse o gemiti o pianti, ma sentì solo ilcrepitio del fuoco. «Se li hai mandati fuori da dietro, i ragazzi li prenderanno. E se escono daldavanti, ci sono io. E c’è il fuoco.» Si ritrasse dal calore crescente. «Hai l’assicurazione, Harold. Tiprenderai un bell’assegno. Mi spiace.»

«Spiace anche a me.» Harold si alzò.Con una rapidità che sorprese perfino lui, Harold si lanciò su per la scaletta del portico mentre

Fred Green se ne stava fermo a guardare dentro la casa che stava bruciando. Fred riuscì appena asentire i passi di Harold sui gradini, sopra il rumore dell’incendio, e quando alla fine si accorsedella sua presenza, il coltello da macellaio gli stava già perforando il rene destro.

La testa di Harold era all’altezza della vita di Fred quando il coltello affondò. L’uomo si irrigidì peril dolore e il suo dito si contrasse sul grilletto. Il calcio del fucile rinculò, spaccando in due il settonasale di Harold.

Quanto meno, Fred non era più nelle condizioni di uccidere i Wilson.«Venite fuori!» Harold tossì. «Presto!» Il fucile stava per terra sul portico, ma nessuno dei due

uomini aveva la mente abbastanza lucida da afferrarlo. «Lucille?» chiamò Harold. «Aiutali!» Ansimòper mettere aria nei polmoni. «Aiutali...»

Lei non gli rispose.Connie e i bambini, appena in grado di sentire Harold sopra il rumore dell’incendio, uscirono

chini sotto la coperta che erano riusciti a inzuppare quando la casa aveva cominciato a bruciare. Nonappena furono all’aria pura, i bambini si misero a tossire, ma Connie li sospinse oltre il punto in cuiFred Green si stava torcendo, con il coltello conficcato nella schiena.

«Salite sul pickup!» urlò Harold. «Quegli altri imbecilli arriveranno da un momento all’altro.»

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La famigliola scese di corsa dal portico e girò verso il lato del conducente del veicolo. Conniecontrollò che le chiavi fossero ancora nel cruscotto. C’erano.

Fu una fortuna che si trovasse lì quando partì la prima raffica di schioppo. Il vecchio pickup sirivelò un’ottima barriera contro i pallini. Era un Ford del ‘72, dopotutto, prodotto nell’epoca d’oroin cui la fibra di vetro non era ancora ritenuta degna di trasportare un uomo e la sua famiglia da unpunto all’altro dell’universo. Ed era per questo che Harold si era tenuto stretto il vecchio pickup pertanti anni, perché non ne facevano più di macchine che resistevano ai pallini da caccia.

A differenza di Connie e dei suoi figli, gli Hargrave si trovavano sul lato pericoloso del pickup.Lucille si era buttata a terra e proteggeva Jacob con il proprio corpo nel chiarore tremolante e

sempre più intenso dell’incendio. Jacob aveva le mani premute sulle orecchie.«Smettetela di sparare, dannazione!» urlò Harold. Dava la schiena agli uomini armati, perciò

sapeva che c’erano buone probabilità che non lo sentissero. Ma, anche se lo avessero fatto, c’eranobuone probabilità che non gli avrebbero dato retta.

«Dio ci aiuti» disse, per la prima volta in cinquant’anni.Trovò il fucile di Fred. Non era ancora riuscito a tirarsi in piedi, ma questo non significava che

non potesse attirare l’attenzione. Si sedette con le gambe allargate davanti a sé. Aveva la testa chepulsava e il naso sanguinante, ma riuscì a tirare indietro l’otturatore, caricò il 30-06 e sparò un colpoin aria. Tutto si fermò.

Al chiarore della casa che bruciava, con Fred Green accanto a lui sul portico che si premeva lacamicia contro la ferita, Harold tentò di prendere in mano la situazione.

«Mi pare che basti così» disse, quando le sue orecchie smisero di ronzare per lo sparo.«Fred? Fred, stai bene?» urlò uno degli uomini. Dalla voce, sembrava Clarence Brown.«No, non sto bene!» urlò Fred. «Mi hanno pugnalato!»«Se l’è voluta lui» ribatté Harold. Il sangue che colava dal naso gli copriva la bocca, ma non

poteva pulirsela perché aveva bisogno di avere le mani il più possibile asciutte per maneggiare ilfucile, e le aveva già sporche del sangue di Fred Green. «E adesso, perché non ve ne tornate tutti acasa?»

«Fred?» urlò Clarence. Era difficile sentire sopra il boato dell’incendio. Il fumo usciva da ognicrepa e da ogni spiffero della casa, alzandosi verso la luna in un grosso pennacchio scuro. «Diccicosa dobbiamo fare, Fred!»

«Connie?» chiamò Harold.«Sì?» La voce soffocata arrivava dall’abitacolo del furgone. Era come se la donna stesse

parlando con la bocca premuta contro i sedili.«Metti in moto e allontanati!» istruì Harold. Aveva parlato senza staccare gli occhi dagli uomini

armati.Un istante dopo, il motore si avviò rombando. «E voi?» chiamò Connie.«Non ci succederà niente.»Connie Wilson prese i figli e il cadavere del marito e sparì rombando nella notte, senza

aggiungere altro, senza neanche voltarsi un’ultima volta.«Bene» disse Harold piano. «Bene.» Aveva voluto aggiungere che si prendesse cura di Jim, ma

gli era parso superfluo. Inoltre, il naso gli faceva un male d’inferno e il calore della casa che ardevastava diventando insopportabile. Così si limitò a sbuffare e a pulirsi il sangue dalla bocca col dorsodella mano.

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Clarence e gli altri guardarono il pickup allontanarsi ma tennero i fucili puntati su Harold. Se Fredavesse dato loro istruzioni diverse, le avrebbero seguite, ma il loro capo rimase in silenzio mentre sialzava faticosamente in piedi.

Anche Harold si tirò su e puntò il fucile verso di lui.«Dannazione a te, Harold» esclamò Fred. Fece una mossa verso il fucile.«Vorrei proprio che tu ci provassi» disse Harold, puntandogli la canna alla gola. «Lucille?»

chiamò. «Jacob?» Tutti e due erano sdraiati immobili, come un mucchio di vestiti buttati per terra.Lucille stava ancora coprendo il bambino con il proprio corpo.

Harold aveva qualcos’altro da aggiungere, qualche parola di buonsenso, anche se era troppo tardiper il buonsenso, ma i suoi polmoni si rifiutavano di collaborare. Erano troppo pieni di quella tosseaffilata come un rasoio che cercava di impossessarsi di lui da qualche minuto. Era come una grossabolla scura che cresceva nel suo petto.

«Questa casa ti crollerà addosso» disse Fred.Il calore delle fiamme era insopportabile. Harold sapeva che presto avrebbe dovuto spostarsi se

voleva salvarsi, ma c’era quella dannata tosse dentro di lui, una tosse che aspettava solo di uscirecon un ruggito e ridurlo in stato di incoscienza, raggomitolato a terra.

E che ne sarebbe stato di Jacob allora?«Lucille?» chiamò di nuovo Harold. E, di nuovo, lei non gli rispose. Se solo avesse potuto sentire

la sua voce, pensò Harold, forse avrebbe potuto credere che sarebbe andato tutto bene. «Vattene»disse, pungolando Fred con la canna del fucile.

Fred Green colse l’antifona e si allontanò arretrando, lentamente.Harold sentiva male dappertutto quando cercò di tirarsi in piedi. «Gesù» gemette.«Ti tengo io» disse Jacob. All’improvviso era lì, era tornato da lui. Aiutò il padre ad alzarsi.«Dov’è la mamma?» bisbigliò Harold. «Sta bene?»«No» rispose Jacob.Per prudenza, Harold continuò a puntare il fucile verso Fred e tenne Jacob dietro di sé, nel caso

che Clarence e gli altri, che s’erano fermati accanto ai loro pickup, decidessero di fare qualche gestoinconsulto.

«Lucille?» chiamò Harold.Jacob, Harold e Fred Green zoppicarono giù dal portico tutti insieme. Fred camminava con le

mani sul ventre. Harold zampettava lateralmente, come un granchio, con Jacob nella sua ombra.«Okay» disse Harold quando furono lontani a sufficienza dalla casa. Poi abbassò il fucile.

«Suppongo che abbiamo finito, qui.» Fu allora che il fucile cadde, non perché Harold lo avessemollato, ma perché la tosse, quella dannata valanga di sassi che aveva dentro, finalmente si scatenò.Le lame di rasoio gli straziarono i polmoni. I punti di luce riapparvero davanti ai suoi occhi. La terrasi sollevò e gli sbatté in faccia. C’erano lampi ovunque, lampi e il tuono della tosse che losquassava. Non aveva nemmeno la forza di imprecare. E, fra tutte le cose che poteva fare, imprecareera quella che probabilmente lo avrebbe fatto sentire meglio.

Fred raccolse il fucile. Si assicurò che ci fosse un colpo in canna.«Suppongo che quello che succederà ora sia colpa tua» disse.«Lascia che il bambino resti un miracolo» riuscì ad ansimare Harold.La morte era lì. E Harold Hargrave era pronto ad accoglierla.«Non so perché lei non sia tornata» disse allora Jacob, e sia Harold che Fred Green batterono gli

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occhi, come se fosse la prima volta che lo vedevano. «Sua moglie» spiegò Jacob a Fred. «Me laricordo. Era bella e cantava tanto bene.» Il bimbo di otto anni arrossì sotto la zazzera castana. «Mipiaceva» disse. «Mi piaceva anche lei, signor Green. Mi avevate regalato un fucilino ad ariacompressa e sua moglie aveva promesso di cantare per me la sera del mio compleanno.» Il chiaroredell’incendio si rifletteva sul suo faccino. Gli occhi sembravano sfavillare. «Non so perché non siatornata come me» ripeté Jacob. «A volte le persone se ne vanno e non ritornano.»

Fred tirò un respiro; lo trattenne nei polmoni e tutto il suo corpo si contrasse, come se quell’unicorespiro potesse farlo esplodere, come se fosse l’ultimo e contenesse in sé tutto. Poi emise un suonostrangolato, umido. Abbassò il fucile con un sospiro e pianse, lì, davanti al bambino che, per qualchemiracolo, era tornato dall’aldilà senza portare con sé sua moglie.

Cadde in ginocchio in un mucchio sgraziato, contorto. «Vattene. Via... via! Lasciami in pace,Jacob.»

Poi ci fu solo il boato della casa divorata dal fuoco. Ci fu solo il suono del pianto di Fred. Ci fu ilsibilo del respiro di Harold sotto il pennacchio di cenere e fumo che si era fatto talmente grosso dasembrare un lungo braccio scuro che si protendeva, come un genitore si protende verso un bambino,un marito verso una moglie.

Lei fissava il cielo. La luna era in un angolo del suo occhio, come se la stesse lasciando, o forse lastesse guidando. Era impossibile saperlo.

Harold si inginocchiò accanto a lei. Era grato che il terreno fosse soffice e che il sangue nonapparisse rosso come lui sapeva che era. Alla luce tremolante dell’incendio, il sangue era soltantouna macchia scura che avrebbe potuto essere tutto tranne quello che era.

Lei respirava, ma a mala pena.«Lucille?» bisbigliò Harold, avvicinandole la bocca all’orecchio.«Jacob» chiamò lei.«È qui» rispose Harold.Lei annuì. I suoi occhi si chiusero.«Non è possibile» disse Harold. Si strofinò la faccia. Non voleva farsi vedere così, tutto coperto

di sangue, fuliggine e sporcizia.«Mamma?» chiamò Jacob.Gli occhi di lei si aprirono.«Sì, caro?» bisbigliò Lucille. C’era un lieve sibilo nei suoi polmoni.«È tutto okay» disse Jacob. Si chinò a baciarla su una guancia. Poi si coricò accanto a lei e

strofinò la testa contro la sua spalla, come se non stesse morendo, ma solo facendo un sonnellinosotto le stelle.

Lucille sorrise. «È tutto okay» disse.Harold si asciugò gli occhi. «Accidenti a te, donna. Te l’avevo detto che le persone non meritano

niente.»Lei stava ancora sorridendo.Le parole furono talmente basse che Harold dovette sforzarsi per sentirle. «Sei un pessimista»

disse lei.«Sono realista.»«Sei un misantropo.»

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«Tu una Battista.»Lucille rise. E quel momento si protrasse il più possibile, con loro tre uniti, abbracciati, proprio

come lo erano stati tanti anni prima. Harold le strinse la mano.«Ti voglio bene, mamma» disse Jacob.Lucille sentì suo figlio. Poi se ne andò.ina Bianca

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Jacob Hargrave

Negli istanti successivi alla morte di sua madre, non fu sicuro di avere detto la cosa giusta.Sperava di averlo fatto. O almeno, sperava di avere detto abbastanza. Sua madre sapeva semprecosa dire. Le parole erano la sua personale magia... le parole e i sogni.

Al chiarore della casa che bruciava, inginocchiato accanto a Lucille, Jacob ripensò a com’erastata la loro vita prima del giorno in cui lui scendesse al fiume. Ricordò i momenti che avevapassato con sua madre, quando Harold viaggiava per lavoro per giorni di fila, lasciandoli insiemeda soli.

Lei era sempre un po’ triste quando il marito era via, Jacob lo sapeva, ma una parte di lui nonpoteva evitare di godersi quei momenti in cui l’aveva tutta per sé. Tutte le mattine si sedevano unodi fronte all’altro al tavolo della colazione, a parlare di sogni, di presagi e dei programmi per lagiornata. Mentre Jacob era il tipo che si sveglia il mattino incapace di ricordare quello che hasognato durante la notte, sua madre ricordava tutto nei minimi dettagli. Erano sempre magici, isuoi sogni: montagne innaturalmente alte, animali che parlavano, lune di un colore strano.

Ogni sogno aveva un significato per lei. Sognare le montagne era un presagio di avversità. Glianimali che parlavano erano vecchi amici che presto sarebbero tornati. Il colore della luna unsegno premonitore per la giornata a venire.

Jacob amava sentirle spiegare quelle cose mirabili. Ricordava un mattino, in particolare,durante una di quelle settimane in cui suo padre era via. Il vento agitava la quercia davanti acasa e il sole faceva capolino tra le foglie. Loro due preparavano la colazione insieme. Luicontrollava la pancetta e la salsiccia che sfrigolavano sul fornello mentre lei cuoceva le uova e lecrespelle. E intanto, gli raccontava un sogno.

Era scesa al fiume, da sola, senza sapere perché. Quando si era trovata sulla riva, l’acqua erapiatta come vetro. «Screziata di quell’azzurro impossibile che si vede solo nei dipinti a oliodimenticati troppo a lungo in una soffitta umida» spiegò. Fece una pausa e lo guardò. Si eranoseduti a tavola, ora, e stavano cominciando a mangiare. «Capisci cosa intendo, Jacob?»

Lui annuì, anche se non capiva bene.«Un azzurro che era più una sensazione che un colore» riprese lei. «E mentre me ne stavo lì in

piedi, sentii una musica arrivare dal fiume, più a valle.»«Che genere di musica?» volle sapere Jacob. Era così concentrato sulla storia della madre che

aveva appena toccato cibo.Lucille rifletté per un attimo. «È difficile descriverla. Una specie di opera lirica. Come una

voce che canta in lontananza su un campo aperto.» Abbassò le palpebre, trattenne il fiato e parverisentire il meraviglioso suono nella sua mente. Dopo un attimo aprì gli occhi. Sembrava felice,assorta. «Era semplicemente musica» disse. «Musica pura.»

Jacob annuì. Si mosse sulla sedia e si grattò un orecchio. «E poi cosa successe?»«Seguii il fiume per quelle che mi parvero miglia» riprese Lucille. «Le sponde erano piene di

orchidee. Magnifiche, delicate orchidee... piante che non potrebbero mai crescere qui. Fioriancora più belli di quelli che si vedono sui libri.»

Jacob appoggiò la forchetta e respinse il piatto. Incrociò le braccia sul tavolo della cucina e viposò il mento. Gli cadde il ciuffo sugli occhi. Lucille allungò una mano, sorridendo, e glielo

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scostò dalla fronte. «Devo proprio tagliarti i capelli» disse.«Cosa trovasti, mamma?» chiese Jacob.Lucille continuò a raccontare. «Il sole stava tramontando e, anche se avevo camminato per

miglia, non mi ero avvicinata di un solo passo alla musica. Fu quando il sole cominciò a scenderesotto l’orizzonte che mi resi conto che il suono non veniva dal fiume più a valle, ma dal centro delcorso d’acqua. Mi stava chiamando come il canto delle sirene. Ma io non avevo paura» disseLucille. «E sai perché?»

«Perché?» chiese Jacob, pendendo dalle sue labbra.«Perché, dietro di me, in direzione della foresta e di tutte quelle orchidee che fiorivano sulla

riva, sentivo te e il tuo papà che giocavate e ridevate.»Gli occhi di Jacob si fecero enormi a sentir nominare lui e suo padre.«La musica si fece più forte. O forse non proprio più forte, ma più avvolgente. Come un bel

bagno caldo dopo che si è lavorato tutto il giorno in giardino. Come un morbido letto tiepido. Nondesideravo altro che andare verso la musica.»

«Papà e io stavamo ancora giocando?»«Sì» sospirò Lucille. «E anche voi due parlavate più forte. Come se foste in competizione con il

fiume, come se cercaste di attirare la mia attenzione, di chiamarmi indietro.» Si strinse nellespalle. «Lo ammetto... ci fu un momento in cui non sapevo dove andare.»

«E cosa decidesti? Come capisti?»Lucille si protese sopra il tavolo e accarezzò la mano di Jacob. «Seguii semplicemente il mio

cuore. Mi girai e tornai verso di te e il tuo papà. E allora, tutto a un tratto, la musica che venivadal fiume non mi parve più tanto dolce. Nulla è dolce quanto il suono di mio marito e di mio figlioche ridono.»

Jacob arrossì. «Wow!» esclamò. L’incanto del racconto di sua madre finalmente si ruppe. «Faidei sogni bellissimi» le disse.

Finirono la colazione in silenzio, con Jacob che di tanto in tanto guardava sopra il tavolo,meravigliato, la donna magica e misteriosa che era sua madre.

Mentre era in ginocchio accanto a Lucille negli istanti finali della sua vita, Jacob si chiese cosapensasse lei di tutto quello che stava succedendo nel mondo. Quello che aveva portato entrambi aquel momento, il momento in cui lei stava morendo distesa nel chiarore della loro casa chebruciava, su quella stessa terra dove aveva cresciuto il figlio e aveva amato il marito. Volevaspiegarle perché le cose fossero andate in quel modo, come aveva fatto a tornare da lei dopoessere stato via per tanto tempo. Voleva fare per lei quello che lei aveva fatto per lui nelle dolcimattine in cui erano stati soli: voleva spiegarle tutte quelle cose meravigliose.

Ma il tempo che restava loro era breve, come lo è sempre la vita, e lui non aveva risposte dadarle. Sapeva che il mondo intero aveva paura, che tutti si chiedevano come avessero fatto i mortia tornare, sapeva quanto questo li confondesse. Gli venne in mente che l’agente Bellamy gli avevachiesto se ricordasse qualcosa prima del suo risveglio in Cina. Se ricordasse qualcosa diquell’intervallo fra le sue due vite.

La verità era che Jacob non ricordava altro che un suono dolce e lontano, simile a musica.Niente di più. Era un ricordo talmente esile che non era nemmeno sicuro fosse reale.

Aveva sentito la musica in ogni istante della sua vita, da quando era tornato. Era un sussurro

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che sembrava chiamarlo. E non si era forse fatto un po’ più forte ultimamente? Come se lo stesseattirando a sé. Si chiedeva se si trattasse della stessa musica del sogno di sua madre. Si chiedevase lei sentisse quella musica adesso, mentre stava morendo, se sentisse quell’indefinibile, fragilemelodia che a volte sembrava il suono di una famiglia che ride.

Tutto ciò che Jacob sapeva con certezza era che in quel preciso momento lui era vivo, e chestava con sua madre e che, più di ogni altra cosa, non voleva che lei avesse paura quando i suoiocchi si sarebbero chiusi, quando il loro tempo insieme sarebbe arrivato davvero alla fine.

«Sono vivo per ora» stava per dire mentre lei giaceva morente, ma capì che Lucille non eraaffatto spaventata. Alla fine, non le disse altro che: «Ti voglio bene, mamma». Ed era l’unica cosache contava.

Poi pianse insieme a suo padre.ina Bianca

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Epilogo

Il vecchio pickup sgroppava sulla strada. Il motore tossiva. I freni cigolavano. A ogni svolta, ilveicolo vibrava. Tuttavia, continuava ad andare.

«Ancora qualche miglio» pregò Harold, lottando contro il volante per affrontare una curva.Jacob guardava in silenzio dal finestrino.«Sono contento di essere uscito da quella chiesa» disse Harold. «Ancora un po’ di tempo là

dentro e avrei potuto convertirmi... o mettermi a sparare.» Ridacchiò tra sé. «O forse una cosaavrebbe portato all’altra.»

Il bambino continuava a tacere.Erano quasi arrivati a casa. Il pickup avanzava faticosamente e ogni tanto sputacchiava un fumo

azzurrino. Harold avrebbe voluto attribuire le cattive condizioni del veicolo alle pallottole che loavevano colpito, ma sapeva che non era così. Il pickup era vecchio e stava per tirare gli ultimi.Semplicemente, troppe miglia. Si chiedeva come avesse fatto Lucille a guidarlo in tutti i mesi dellasua prigionia, come avesse fatto Connie ad allontanarsi quella notte. Si sarebbe scusato con lei seavesse potuto. Ma Connie e i bambini erano spariti. Nessuno li aveva più visti dalla notte in cui eramorta Lucille. Il pickup di Harold era stato trovato lungo l’autostrada il giorno dopo, appoggiato inun fosso con una strana angolazione, come se si stesse riposando, come se non ci fosse stato nessunoal volante.

Sembrava che la famiglia Wilson fosse sparita dalla faccia della terra, un evento piuttosto comuneultimamente.

«Diventerà bellissima» disse Harold quando finalmente svoltarono nella stradina sterrata. Doveun tempo c’era stata la casa, ora si alzava una scheletrica struttura di legno. Le fondamenta si eranorivelate robuste. Quando era arrivato il rimborso dell’assicurazione, e Harold aveva ingaggiatol’impresa di costruzioni, erano riusciti a conservare quasi integralmente le fondamenta. «Saràcom’era una volta» assicurò Harold. Parcheggiò il pickup e spense il motore. Il vecchio Ford emiseun sospiro.

Jacob non disse nulla mentre lui e suo padre risalivano a piedi per la stradina polverosa. Eraottobre ormai. L’afa e l’umidità erano un ricordo. Da quando era morta Lucille, suo padre era moltovecchio e molto stanco, pensò Jacob, anche si sforzava di non sembrarlo.

Lucille era sepolta sotto la quercia, di fronte al vecchio portico. Harold avrebbe volutoseppellirla nel camposanto della chiesa, ma aveva bisogno di starle vicino. Sperava che lei loperdonasse per questo.

Il bambino e suo padre si fermarono sulla tomba. Harold si accovacciò e passò le dita sulla terra.Poi borbottò qualcosa tra sé e si allontanò.

Jacob si fermò lì.La casa stava venendo meglio di quanto Harold volesse ammettere. Anche se era ancora poco più

di uno scheletro, si potevano già vedere la cucina, il salotto, la camera da letto in cima alle scale. Illegno sarebbe stato nuovo, ma le fondamenta erano quelle di sempre.

Lasciò il bambino in piedi accanto alla tomba di Lucille e proseguì verso la pila di detriti sulretro della casa. I detriti e le fondamenta di pietra erano tutto ciò che l’incendio aveva lasciato. Gli

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operai che stavano costruendo la nuova casa si erano offerti di portare via le macerie, ma Harold liaveva fermati. Quasi ogni giorno veniva lì e setacciava la cenere e i frantumi. Non sapeva cosastesse cercando, ma lo avrebbe capito appena l’avesse trovato. Erano passati quasi due mesi, e nonaveva ancora trovato niente. Ma almeno aveva smesso di fumare.

Un’ora dopo, le sue ricerche non avevano ancora dato frutto. Jacob era sempre sulla tomba diLucille, seduto sull’erba con le gambe attirate al petto e il mento tra le ginocchia. Non si mossequando l’agente Bellamy arrivò in macchina. Né rispose quando l’uomo gli passò accanto e gli disseciao, superandolo senza fermarsi. Bellamy sapeva che il bambino non avrebbe risposto. Era statocosì ogni volta che era venuto a trovare Harold.

«Ha trovato quello che sta cercando?» chiese.Harold si tirò in piedi. Scosse la testa.«Vuole una mano?»«Vorrei solo sapere cosa sto cercando» brontolò Harold.«Conosco la sensazione» disse Bellamy. «Per me, sono le foto. Foto della mia infanzia.»Harold grugnì.«Non hanno ancora capito cosa stia succedendo, o perché.»«Certo che no» disse Harold. Alzò gli occhi verso il cielo. Blu. Aperto. Fresco.Si pulì le mani sudice nei pantaloni.«Ho saputo che si è trattato di polmonite» disse Harold.«È così» confermò Bellamy. «Proprio come la prima volta. Se ne è andata in pace, alla fine.

Come l’altra volta.»«È lo stesso per tutti?»«No.» Bellamy si aggiustò la cravatta. Harold era lieto di vedere che l’agente era tornato a

vestirsi con proprietà. Ancora non aveva capito come avesse fatto quell’uomo a passare l’estate ingiacca e cravatta e ad avere un aspetto impeccabile, ma verso la fine Bellamy era parso trasandato.

Ora la sua cravatta era di nuovo stretta intorno al colletto. L’abito ben stirato e immacolato. Tuttostava tornando alla normalità.

«È stato okay, questa volta» disse Bellamy.«Hmph» grugnì Harold.«Come vanno le cose in chiesa?» Bellamy camminava intorno ai detriti.«Abbastanza bene» rispose Harold. Tornò ad accoccolarsi e si rimise a setacciare la cenere.«Ho saputo che il pastore è tornato.»«Già. Lui e sua moglie parlano di adottare dei bambini. Finalmente avranno una vera famiglia.»

Gli facevano male le gambe. Smise di stare accovacciato e si inginocchiò, sporcandosi i pantalonicome aveva fatto il giorno prima e quello prima e quello prima ancora.

Bellamy guardò Jacob, ancora seduto accanto alla tomba della madre. «Mi spiace» disse.«Non è stata colpa sua.»«Questo non significa che non debba dispiacermi.»«In tal caso, suppongo di poter dire che spiace anche a me.»«Le spiace per cosa?»«Per tutto.»Bellamy annuì. «Lui se ne andrà presto.»

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«Lo so.»«Diventano distaccati. Almeno, è ciò che ha osservato il Bureau. Non sempre accade. A volte

spariscono così, all’improvviso, ma di solito si chiudono in se stessi, diventano silenziosi, nei giorniprima di svanire.»

«È quello che hanno detto alla televisione.»Harold aveva le braccia affondate fino ai gomiti nei detriti. Erano nere di fuliggine. «Se può

esserle di consolazione, di solito li si trova nelle loro tombe» iniziò Bellamy. «Tornano là...qualunque cosa significhi.» Harold non rispose. Le sue mani si muovevano come avessero unavolontà propria. Era come se si stessero avvicinando alla cosa che lui stava cercandodisperatamente. Si era graffiato le dita con chiodi e schegge di legno, ma ancora non si fermava.

Bellamy lo guardava scavare.Continuò così per quello che parve molto tempo.Alla fine, Bellamy si tolse la giacca, si inginocchiò nella cenere e affondò le mani. I due uomini

non dissero nulla. Continuarono a scavare cercando una cosa ignota.

Quando Harold la trovò, capì immediatamente perché la stava cercando. Era una piccola cassetta dimetallo, annerita dalle fiamme e dalla fuliggine. Cominciarono a tremargli le mani.

A occidente, il sole stava tramontando. Si stava facendo fresco. L’inverno sarebbe arrivato presto,quest’anno.

Harold aprì la cassetta e prese la lettera di Lucille. Una piccola croce d’argento cadde nellacenere. Harold sospirò e cercò di controllare il tremito delle dita. La lettera era un po’ bruciacchiata,ma quasi tutte le parole tracciate dall’elegante, slanciata calligrafia di Lucille erano ancora leggibili.

... mondo nella follia? Come ci si aspetta che reagisca una madre? Come può affrontare la cosaun padre? So che a te sembra troppo, Harold. Ci sono volte in cui penso sia troppo anche per me.E allora vorrei cacciarlo, vorrei che se ne tornasse in quel fiume in cui annegò il nostro bambino.

Nei primi anni dopo la morte di Jacob, temevo che avrei dimenticato tutto. E poi sperai di poterdimenticare tutto. Dio mi perdoni, ma entrambe le cose sembravano meglio della solitudine. Soche Lui ha un piano. Ha sempre un piano. E so che questo piano è troppo grande per me. So che ètroppo grande per te, Harold.

È peggio, per te. Lo so. Questa croce... la lasci dappertutto. Oggi l’ho trovata sul porticoaccanto alla tua poltrona. Probabilmente ti sei addormentato tenendola in mano, come fai sempre.Probabilmente non ti sei neanche accorto di averla persa. Credo che tu ne abbia paura. Non deviaverne. Non è stata colpa tua, Harold.

Quale che sia il motivo per cui questa croce ti sconvolge, non è stata colpa tua. Da quandoJacob salì alla Gloria del Signore, tu hai portato questa croce, nello stesso modo in cui Gesùportava la Sua. Ma persino Lui è stato sollevato dalla Sua croce.

Lascialo andare, Harold. Lascia andare Jacob.Non è nostro figlio. Lo so. Nostro figlio morì in quel fiume, cercando piccoli tesori come questa

croce. Morì facendo un gioco che gli aveva insegnato suo padre, e tu non riesci a perdonartelo.Ricordo quanto era felice quando tu e lui scendeste al fiume e tornaste con questa. Era un oggettomagico. Ti sedesti sul portico con lui e gli dicesti che il mondo era pieno di cose segrete comequesta piccola croce. Gli dicesti che tutto quello che un’anima doveva fare era cercarle.

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Non avevi ancora trent’anni allora, Harold. Lui era il tuo primo figlio. Non potevi sapere che tiavrebbe creduto. Non potevi sapere che sarebbe tornato là da solo e sarebbe annegato.

Non so come questo bambino, questo secondo Jacob, possa essere in vita. Ma onestamente nonmi importa. Ci ha dato qualcosa che non avremmo mai pensato di poter riavere: una possibilità diricordare cos’è l’amore. Una possibilità di scoprire se siamo ancora le persone che eravamoquando eravamo due giovani genitori e pregavamo che niente di brutto potesse succedere a nostrofiglio. Una possibilità di amare senza paura. Una possibilità di perdonarci.

Lascialo andare, Harold.Amalo. Poi lascialo andare.

Tutto era offuscato. Harold strinse la piccola croce d’argento nel pugno e rise.«Sta bene?» chiese Bellamy.Harold rispose solo con un’altra risata. Stropicciò la lettera e se la strinse al petto. Quando si girò

a guardare verso la tomba di Lucille, Jacob non c’era più. Non era accanto allo scheletro della casa.Né vicino al pickup.

Harold si asciugò gli occhi e si voltò verso sud, in direzione della foresta che portava al fiume.Forse fu solo un caso, o forse era così che dovevano andare le cose. Comunque fosse, per un istante,intravide il bambino nei raggi abbaglianti del sole che tramontava.

Mesi prima, quando i Redivivi avevano cominciato a essere confinati nelle loro case, Haroldaveva detto alla moglie che quella situazione avrebbe portato tanto dolore. Aveva avuto ragione.Sapeva che anche perdere Jacob una seconda volta sarebbe stato doloroso. Per tutto quel tempo,Lucille non aveva mai creduto che Jacob fosse suo figlio. E, per tutto quel tempo, Harold era statocerto che lo fosse. Forse era normale. Alcune persone chiudono le porte del loro cuore quandoperdono qualcuno. Altre tengono porte e finestre aperte, lasciando che i ricordi e l’amore vi passinoliberamente. E forse era così che doveva essere, pensò Harold.

Stava succedendo lo stesso in tutto il mondo.ina Bianca

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Nota Dell’autore

Dodici anni dopo la morte di mia madre, riesco a mala pena a ricordare il suono della sua voce. Seianni dopo che è mancato mio padre, le uniche immagini di lui sono quelle dei mesi che hanno portatoal suo ultimo respiro. Ricordi che vorrei poter dimenticare.

Sono queste le regole della memoria, quando si perde qualcuno. Certe parti restano, mentre altrecol tempo spariscono completamente.

Ma la narrativa è un’altra cosa.Nel luglio del 2010, un paio di settimane dopo l’anniversario della morte di mia madre, la sognai.

Fu un sogno semplice: tornavo a casa dal lavoro e lei era lì, al tavolo della cucina, ad aspettarmi. Pertutta la durata del sogno, non facemmo altro che parlare. Le raccontai del master all’università e dicosa mi era capitato da quando lei era mancata. Mi chiese perché non mi fossi ancora sistemato e nonmi fossi fatto una famiglia. Anche dopo la morte, mia madre cercava di accasarmi.

Condividemmo un momento che, per me, è possibile solo nel mondo dei sogni: una conversazionetra madre e figlio.

Quel sogno restò con me per mesi. Certe notti, mentre mi addormentavo, speravo di ricrearlo. Manon ci riuscii mai. Non molto tempo dopo, misi alle strette un amico a pranzo e gli raccontai il miodisagio emotivo. La conversazione fu come spesso accade tra amici: tortuosa, a volte scherzosa, ma,in definitiva, ristoratrice. Verso la fine del pranzo, in una pausa, il mio amico chiese: «Ti immaginise tornasse davvero, anche solo per una sera? E se non si trattasse solo di lei? Se accadesse ad altrepersone?».

The Returned nacque quel giorno.Quello che The Returned diventò per me è difficile da spiegare. Ogni giorno in cui lavoravo al

manoscritto, lottavo per risolvere delle questioni. Questioni di fisica generale, questioni di minutidettagli e di esiti finali. Mi dibattevo anche con le questioni più basilari. Da dove arrivano iRedivivi? Cosa sono? Sono reali? Ad alcune di queste domande era facile rispondere, ma altre eranoelusive in un modo paralizzante, e arrivai al punto di essere tentato di rinunciare e di smettere discrivere.

Ma quello che mi spinse a continuare fu il personaggio dell’agente Bellamy. Cominciai a vedermiin lui. Il racconto della morte di sua madre (l’ictus, la malattia che seguì) è il racconto della morte dimia madre. Il suo costante desiderio di distanziarsi da lei è il mio tentativo di sfuggire ad alcuni deiricordi più dolorosi degli ultimi giorni della sua vita. E, infine, la sua riconciliazione è diventata lamia riconciliazione.

The Returned diventò più di un semplice manoscritto; era anche un’opportunità. Un’opportunità,per me, di sedermi di nuovo a parlare con mia madre. Un’opportunità di vederla sorridere, di sentirela sua voce, una possibilità di stare con lei in quegli ultimi giorni della sua vita, piuttosto chenascondermi come feci nel mondo reale.

Alla fine mi resi conto di cosa volevo che questo romanzo fosse... di cosa poteva essere. Volevoche The Returned fosse un’opportunità per i miei lettori di provare quello che avevo provato io inquel sogno del 2010, di trovare le loro stesse storie qui. Volevo che fosse un luogo in cui, attraversometodi e magie ignoti perfino a me, le dure, spietate regole della vita e della morte non esistono più ele persone possono stare ancora una volta con i loro cari. Un luogo in cui un genitore può di nuovo

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abbracciare il figlio. Un luogo dove due innamorati possono ritrovarsi dopo essersi persi. Un luogodove un bambino può, finalmente, dire addio alla madre.

Un buon amico una volta descrisse The Returned come un tempo fuori sincronia. Credo siacalzante. La mia speranza è che il lettore entri in questo mondo e trovi le parole non dette e leemozioni non risolte della sua vita raccontate in queste pagine. Forse, perfino, trovi i suoi stessidebiti perdonati. I suoi fardelli, finalmente, alleggeriti.