Simak Clifford D. - Racconti - Volume 1

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Clifford D. Simak

RACCONTI

Volume 1

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Clifford D. SimakRACCONTI

Volume 1

INDICE

Riunione Su Ganimede (Reunion on Ganymede, 1938)Cortesia (Courtesy, 1952) L'Osservatore (The Observer, 1972)Sto Piangendo, Dentro (I Am Crying All Inside, 1969)Le Girandole (Masquerade, Operation Mercury, 1941)Un Richiamo Da Fuori (The Call from Beyond, 1950)Errore Materiale (Clerical Error, 1940)La Ricerca Di Foster Adams (The Quesling of Foster

Adams, 1953)Seconda Infanzia (Second Childhood, 1951)Un Medico Per L'Universo (Physician to the Universe,

1963)Il Mondo Delle Ombre (Shadow World, 1957)

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CLIFFORD SIMAK E I SUOI MONDI

Nelle pagine che seguono, Nova Sf* presenta qualcosa di assolutamente eccezionale: una doppia testimonianza com-parata sull’evoluzione dell’autore che molti considerano il più grande della science fiction, e un testo rarissimo, prati-camente introvabile fino a oggi, che viene sottoposto per la prima volta al pubblico italiano.

Si tratta dell’accostamento tra Riunione su Ganimede (Reunion on Ganymede, un’opera del 1937) e II peggiore esempio (Horrible Example, un racconto degli anni ’60): due testi fondamentali non solo nell’ambito della produzione simakiana, ma della storia letteraria della sf.

Riunione su Ganimede comparve sul numero del novem-bre 1938 di Astounding Stories, e come risulta dalla prezio-sa documentazione fotografica che completa la presentazio-ne, per la prima volta, in quell’occasione, il nome di Simak aveva l’onore di una copertina (la foto che presentiamo è oggi una rarità d’archivio) sulla rivista che da poco tempo John W. Campbell jr. aveva iniziato a condurre, rivoluzio-nando dalle fondamenta la sf mondiale, e facendola assurge-re a quel rango di dignità letteraria e di maturità che fino ad allora, nel periodo della prima giovinezza, la fantascienza non era ancora riuscita a raggiungere.

Riunione su Ganimede è il quarto romanzo breve pubbli-cato da Simak su Astounding; e il secondo pubblicato du-rante la gestione Campbell, dopo la profonda crisi attraversa-ta da un Simak giovane, agli inizi della carriera, da poco spo-sato e privo di un mercato letterario al quale destinare le sue opere. I due testi immediatamente precedenti, i celebri Rule 18 e Hunger Death, non avevano riscosso un eccezionale successo di pubblico; mentre Campbell, con la geniale intui-

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zione che l’ha sempre distinto, si era reso conto delle capaci-tà potenziali di Simak, le opere presentate non avevano scosso un pubblico abituato alla saga eroica degli Skylark di Edward «Doc» Smith, alle magiche fantasy di Abraham Merrit e di H.P. Lovecraft, alle messianiche rivelazioni scientifiche di Edmond Hamilton e dello stesso Campbell, alle brillanti ma rozze avventure spaziali di «Anthony Gil-more» lo pseudonimo che nascondeva i due scrittori che avevano dato vita alla fortunata serie di novelettes imper-niate sull’eroica figura di Hawk Carse, quel Falco Carse noto anche in Italia per una raccolta di novelle pubblicata sotto il titolo II Falco degli Spazi.

Simak costituiva un’autentica rivoluzione, nella science fiction. Era un deciso abbandono dell’epoca dei manichini senz’anima, dei freddi combattenti degli spazi (una rivolu-zione iniziata già da Williamson, sempre in anticipo sui tem-pi, con La legione dello Spazio: ma la squisita eleganza ac-cademica con la quale egli aveva combinato alle suggestioni della sf epico-avventurosa la beffarda, giocosa interpolazio-ne d’ispirazione shakespeariana di un Falstaff delle vie spa-ziali era sfuggita, forzatamente, all’attenzione del pubblico dei pulp magazines era una scelta precisa di umanità, di comprensione, di garbata ironia. Clifford Simak, in Riunio-ne su Ganimede (che precede di poco il suo primo romanzo, Cosmic Engineers) aveva deciso di seguire una strada nuo-va. Benché siano evidenti, in certe situazioni, le ancora fre-sche suggestioni del tempo, Riunione su Ganimede, Soprat-tutto a una lettura attuale, resta la conferma di un momento fondamentale nella storia della sf mondiale. Qui i canoni consueti vengono

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La prima copertina di Astounding dedicata a Simak; e, accanto, Simak con la statuetta del Premio Hugo ottenuto per «Here Gather the Stars».

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rovesciati: Simak non si occupa della guerra spaziale, ma delle sue conseguenze; non ci descrive scontri titanici di astronavi, ma ne accenna il ricordo. La gigantesca Battaglia di Ganimede è viva nel ricordo di chi vi ha partecipato: ma gli squarci suggestivi che il lettore ne intravede sono malin-conici. La guerra è finita, dice Simak: e vive solo nel ricordo dei vecchi veterani, come l’ingenuo Pa’ Parker, come il suo ex-nemico marziano. Il sistema solare è cambiato: ora è pie-no di politicanti, di commercianti, di piccoli uomini che - questo ci vuole dire Simak - sono importanti anch’essi, per-ché la pace è fatta anche delle loro beghe, delle loro manie, dei loro compromessi. In un’epoca nella quale l'epos veniva preso in tono deadly serious, Simak ha trovato il coraggio e

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la forza di fare dell’ironia: ed è riuscito a colpire i suoi ber-sagli, con ineguagliabile maestria. La figura del senatore, sia detto per inciso, è sia pure in maniera distorta una figu-ra reale: una persona che Simak conosceva bene, e con lui altri autori di fantascienza, costretti, in certi periodi della loro vita, a curare i discorsi di uomini politici per pochi cen-tesimi di compenso. Vediamo, nella descrizione, la poca fi-ducia di Simak nei politicanti: la grottesca figura del Sena-tore è una delle più pungenti caricature di quel tempo.

Come Hunger Death, Reunion on Ganimede è la raffigu-razione di un mondo concreto e reale-, '.e cui prospettive sono cambiate, ma nel quale certi valori tradizionali, positi-vi o negativi, rimangono intatti. In questo breve romanzo ve-diamo alcuni squarci già degni del Simak di City: e non a caso il primo capitolo è la base dalla quale sarà poi ricava-to lo splendido inizio di City, e la figura di Pa’ Parker è la matrice dalla quale è nato Pa’ Stevens.

Riunione su Ganimede è anche la prima, grande espres-sione dell’ansia nobile di fratellanza umana di Clifford D. Simak. Nel mondo spettro della seconda guerra mondiale era già diventato realtà; conflitto tra il mondo libero e le dittature nazifasciste era cosa imminente. Riunione su Gani-mede, coraggiosamente, prospettava una soluzione del con-flitto, prima ancora che esso scoppiasse; con una sicura premonizione della vittoria della democrazia. L’inutilità del-la guerra è assoluta, dice Simak: i soldati possono essere af-fratellati solo dal comune dolore, mentre le cause, giuste o sbagliate che siano, non hanno alcuna vera importanza di fronte all’entità del massacro. Simak, con estremo coraggio, ha portato agli estremi limiti questa conclusione: noi non sappiamo i motivi del conflitto tra la Terra e Marte, sappia-mo solo che i due pianeti hanno combattuto; i grandi piani degli strateghi sono quasi risolti in burletta, nelle patetiche rivendicazioni dei vecchi combattenti, nell’ingenua afferma-

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zione dei marziani, secondo i quali sulla carta la Terra non avrebbe mai potuto vincere. Ma la guerra rimane, nel ricor-do, solo come un assurdo spreco di mezzi, solo come una pianura gelida piena di vecchie astronavi, cadute in un olo-causto inutile. L’immagine dei due soldati marziani che si allontanano dal campo, la sera prima della battaglia, per ammirare lo spettacolo maestoso di Giove sospeso nel cielo - e uno di loro morirà, il giorno dopo - sottolinea la cieca inutilità del conflitto. Ma Simak non condanna i vecchi sol-dati: non vi è stata una vera ragione, in questo conflitto, ma loro hanno combattuto, hanno sofferto molto, e questa soffe-renza li ha affratellati. La continua, trasparente allegoria di un mondo fatto di vecchi bambini, irrazionali e generosi e petulanti come tutti i bambini, ma capaci di trovare nel ri-cordo della sofferenza comune il coraggio di superare le an-tiche ostilità, viene offerta da Simak con una semplicità esemplare: in uno stile che, pur ricco di ingenuità, è già la matrice di quello dell’autore di Orizzonte e di Horrible Example.

Riunione su Ganimede, lo ripetiamo, è uno tra i pezzi più rari che Nova abbia pubblicato: il numero della rivista nel quale è comparso appartiene a quelle rarità da collezionisti che non hanno prezzo; l’opera in se stessa rappresenta il momento cruciale dell’evoluzione della science fiction, la prima pietra di un edificio che avrebbe dato vita poi alla let-teratura più completa della nostra epoca. La traduzione in-tegrale, che ha rispettato scrupolosamente lo stile dell’epo-ca, lasciando inalterato tutto il suo sapore (e che rispetta la versione accettata da Campbell e apparsa su Astounding) potrà servire allo studioso della letteratura di sf a scoprire un tesoro di elementi, una infinità di riferimenti storici, e So-prattutto il seme di quelle opere che sarebbero seguite, negli anni successivi. Si tratta di una testimonianza fondamentale, che siamo orgogliosi di pubblicare, e si tratta anche di un

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romanzo breve tra i più godibili, di un’opera che conserva inalterato il suo valore, anche a distanza di più di trent’an-ni.

Accanto alla riproduzione della rara copertina originale di Astounding il lettore vedrà anche l’immagine di Simak trent’anni più tardi, accanto all’astronave del Premio Hugo attribuitogli per Here Gather the Stars, ed è a questo perio-do, il periodo della maturità di Simak che va da Time and Again a Why call them back from Heavens?, che appartiene Horrible Example, un’opera della piena maturità simakiana, un testo famoso e ammirato esemplare nella concezione, semplice ed essenziale nell’esecuzione, profondo nel ritratto psicologico di uno tra i personaggi più umani e commoventi che abbiamo mai incontrato-. Tobias, il vagabondo del pae-se, che in realtà è qualcosa di diverso, e il cui dramma - contrariamente alle apparenze - è un dramma profondamen-te, intimamente umano.

Questi due esempi rarissimi, insieme alla preziosa docu-mentazione fotografica, sono un altro motivo d’orgoglio di Nova: e sono un’esemplificazione del nostro modo di affron-tare la fantascienza con quel rigore e quella profonda serie-tà di analisi che essa merita, come fatto letterario, di cultu-ra, di comprensione profonda. E continueremo a presentare gli autori più grandi nel quadro globale della letteratura che essi hanno creato, negli esempi più famosi, più belli e co-munque fondamentali: nell’intento di contribuire a creare, per la sf, una mole di materiale e di studi che possano venire messi a disposizione di chi intenda affrontare la materia con serietà, e nello stesso tempo accostarsi globalmente a opere tra le più valide del nostro tempo.

u. m.

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RIUNIONE SU GANIMEDE

«Per tutti i diavoli,» gridò Pa' Parker. «Tu cerchi di guastarmi tutti i piani. Cerchi d'impedirmi di andare alla riunione.»

«Lo sai che non è vero, pa',» protestò Celia, sua figlia. «Ma lo dichiaro e lo ripeto… tu sei un pericolo pubblico. Mi farai stare in pensiero per tutti i minuti della tua assenza.»

«Hai mai sentito parlare di un soldato che va in giro senza le sue pistole?» esclamò Pa'. «Se non posso portare con me le pistole, non vado. Tutti gli altri ragazzi le avranno.»

Sua figlia si oppose.«Lo sai cos'è accaduto quando hai cercato di mostrare ad

Harry come funzionava quella vecchia pistola a raggi,» gli ricordò. «E' un miracolo che non siate morti tutti e due!»

«Non andrò a sparare, con le mie pistole,» dichiarò Pa'. «Voglio solo portarle con l'uniforme. Senza di loro, non mi sento vestito.»

Sua figlia si arrese. Sapeva che la discussione avrebbe potuto durare per tutto il giorno.

«D'accordo, pa',» disse. «Ma stai attento.»Si alzò e rientrò in casa. Pa' distese al sole le vecchie ossa.

Era piacevole starsene al sole, in un mattino di giugno, sulla panchina davanti alla casa.

Il piccolo Harry apparve sull'angolo, e si avvicinò di corsa al vecchio.

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«Che cosa fai, nonno?» chiese.«Niente,» gli disse Pa'.Il bambino si issò sulla panchina.«Raccontami della guerra,» domandò, con ansia.«Perché non continui a giocare?» chiese Pa'.«Andiamo, nonno, raccontami di quella grande battaglia

che hai combattuto!»«La battaglia di Ganimede?» domandò Pa'.Harry annuì «Uh, uh, proprio quella!»«Bene,» gli disse Pa'. «La ricordo come se fosse ieri. E

sono passati quarant'anni, quarant'anni esatti a metà del mese prossimo. I marshy stavano radunando la loro grande flotta su Ganimede, pensando di attaccarci all'improvviso, mentre noi non li stavamo aspettando…»

«Chi erano i marshy?» domandò il bambino.«I marshy?» disse Pa'. «Be', è il nome che davamo ai

marziani. Un nomignolo che li definiva.»«Li stavate combattendo?»Pa' ridacchiò.«Puoi scommetterci l'anima che lo facevamo, davvero. Li

abbiamo costretti a un assedio e poi li abbiamo sconfitti, proprio lassù, su Ganimede. Dopo quella battaglia è stata firmata la pace, e da allora non c'è più stata alcuna guerra.»

«E tu vai lassù?» domandò il bambino.«Sicuro, ci sarà una grande riunione su Ganimede. La

prima. Forse, d'ora in avanti, ne faranno una ogni anno o due.»

«E i soldati marziani che avete sconfitto ci saranno? Anche loro?»

Pa' corrugò ferocemente la fronte.«Gliel'hanno chiesto, di venire,» disse. «Non so perché, io.

Non hanno il diritto di esserci. Li abbiamo sconfitti e loro non hanno alcun diritto di esserci.»

«Harry!» chiamò la voce della madre.

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Il bambino scese con un salto dalla panchina, e corse verso la casa.

«Cosa stavi facendo?» domandò sua madre.«Il nonno mi stava parlando della guerra.»«Vieni subito qui,» gridò sua madre. «Se tuo nonno non sa

fare di meglio che starti a parlare della guerra, tu dovresti saper fare qualcosa di meglio che ascoltare. Non ti avevo detto di non chiedergli di parlare di queste cose?»

Pa' si agitò, sulla panchina.«Dannazione,» disse. «Un eroe non riceve più onori,

dannazione!»«Non deve preoccuparsi di niente,» Garth Mitchell,

rappresentante della Robots, Inc., rassicurò Pete Dale, segretario della Camera di Commercio di Ganimede. «Noi fabbrichiamo dei robot che sono dannatamente vivi. Possiamo esaudire alla perfezione ogni richiesta. Se lei vuole che fabbrichiamo una serie di belve così feroci da divorarsi l'una con l'altra appena si vedono, possiamo farlo. Le spediremo il branco di incubi più assetato di sangue che lei abbia mai potuto immaginare.»

Pete puntò una matita contro il rappresentante.«Voglio esserne certo,» disse. «Mi servirò di questa

grande battaglia delle furie che stiamo progettando come pubblicità. Voglio che tenga fede alle promesse. Vogliamo che diventi il più grande spettacolo di tutto il sistema solare. Quando lasceremo liberi nell'arena i robot, voglio essere certo che cominceranno a sbranarsi tra loro come diavoli intorno all'anima di un dannato. E non voglio che smettano finché non saranno un ammasso di ferraglie scombinate. Vogliamo offrire alla folla intervenuta alla riunione un combattimento che faccia scivolare nell'ombra la vera Battaglia di Ganimede.»

«Ascolti,» dichiarò Mitchell. «Faremo quei robot così feroci, che ciascuno arriverà a odiarsi. Vede, noi lavoriamo

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con procedimenti segreti, segreti commerciali che ci appartengono e che nessuno è mai riuscito a scoprire. Ciascuno dei robot possiede un cervello positronico, alimentato da batterie al radio, e noi sappiamo come fornire loro una personalità. Quasi tutti gli ordini che riceviamo richiedono robot gentili e amabili, o lavoratori indefessi, ma se li vuole feroci, glieli faremo feroci.»

«Bene,» disse Pete. «Ora che questo è sistemato, desidero essere sicuro che lei capisca bene quello che vogliamo. Vogliamo dei robot che rappresentino tutti i tipi di belve esistenti nell'intero sistema. Ho un elenco.»

Spiegò un foglio di carta.«Sono belve di Marte e della Terra e di Venere, e alcune

specie di Titano. Se lei riesce a trovare qualche altra specie, l'aggiunga all'elenco. Voglio che rappresentino le belve reali nel modo migliore possibile, e li voglio feroci, capisce? Feroci. Stiamo puntando, nella pubblicità, su questo combattimento, annunciandolo come il più selvaggio combattimento di animali di tutta la storia. L’idea l'abbiamo presa dalla storia antica della Terra, dai combattimenti nelle arene dei Romani, quando liberavano elefanti, leoni, tigri e uomini nell'arena, e stavano a vedere cosa si facevano e come combattevano. Solo che qui ci serviamo di robot, invece che delle vere belve, e se i suoi robot sono buoni come dice, dovrebbero costituire uno spettacolo migliore.»

Mitchell sorrise e raccolse la sua valigetta.«Non ci pensi più, signor Dale,» gli consigliò. «Li

fabbricheremo nei nostri stabilimenti di Marte, e glieli consegneremo in tempo. Ci sono ancora sei settimane, prima della riunione, e in tutto questo tempo potremo fare un lavoro fantastico.»

I due si strinsero la mano, e Mitchell se ne andò.Pete si appoggiò allo schienale della sedia, e guardò fuori,

attraverso la spessa cupola di quarzo che racchiudeva

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Satellite City, l'unico luogo abitato di Ganimede. Cioè, l'unico luogo abitato se non si considerava la prigione di Ganimede che, da un punto di vista tecnico, poteva essere inclusa tra i luoghi abitati del sistema. A parte la cupola che racchiudeva Satellite City e la cupola che racchiudeva la prigione, però, non c'era alcun segno di vita sull'intera superficie di quella luna, un globo senza vita e senza valore, solo lievemente più piccolo del pianeta Marte.

Dal punto in cui si trovava poteva vedere la cupola della prigione, che si levava sopra l'orizzonte occidentale, lontana. In quella sperduta Alcatraz dello Spazio venivano mandati solo i più feroci e pericolosi criminali del sistema solare. Era la prigione più dura dell'intero sistema: e andava orgogliosa della sua tradizione, e cioè che nessun prigioniero era fuggito, mai, da quando era stata aperta, venti anni prima. Nessuno aveva tentato. E perché avrebbe dovuto rischiare di fuggire, quando fuori della cupola erano in agguato solo la desolazione e la morte?

Gli uffici della Camera di Commercio si trovavano in cima alla cupola della città, e dal suo ufficio esterno, situato proprio sul bordo della cupola, con un'intera parete e parte del soffitto di quarzo, Pete aveva una chiara visione dei preparativi in corso per la riunione che avrebbe celebrato il quarantesimo anniversario della Battaglia di Ganimede.

In basso, lontano, ai piedi della cupola - che era ancorata magneticamente alla superficie - molti uomini e molte macchine stavano lavorando febbrilmente nell'immensa arena esterna, che sarebbe stata racchiusa in una cupola separata, che avrebbe tratto calore e atmosfera dalla grande cupola-madre.

Su una delle colline più alte, coperte di neve, a poca distanza dall'arena, si trovava un massiccio blocco di marmo, sul quale sciamavano molti scultori vestiti di pesanti tute spaziali. Quello era il Monumento alla Battaglia, che sarebbe

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stato inaugurato nel corso della cerimonia di apertura.La neve turbinava sulle colline e intorno alla cupola. Quei

fiocchi di neve portati dai deboli venti che si muovevano senza pausa, inquieti, sulla superficie del satellite dal quale l'atmosfera era quasi del tutto scomparsa, erano in realtà frammenti di ghiaccio, ossido di carbonio congelato nel tremendo gelo esterno - con temperature che raggiungevano i - 180° Fahrenheit - ghiaccio che copriva da ere immemorabili la superficie di quel mondo ostile, e che il vento sollevava e portava con sé, in un perenne turbine di ghiaccio. Era freddo, là fuori. Involontariamente, Pete rabbrividì, al pensiero. Solo lo spesso quarzo lo separava da quel gelo. Era un pensiero scomodo, a volte.

Era un luogo inospitale per la vita, ma Satellite City era uno dei più grandi centri di divertimento e di lusso dell'intero sistema. Ogni anno venivano migliaia di celebrità, e decine di migliaia di comuni turisti. L'elenco degli ospiti dei migliori alberghi pareva il registro della jet-society interplanetaria, e tutti i teatri e i caffè concerto, tutti i night club, tutti i locali di divertimento, tutte le case da gioco e tutte le taverne guadagnavano molto denaro.

E adesso, pensò Pete, Adesso c'era la riunione di Ganimede] Quella era stata un'idea intelligente. Era stato necessario muovere molti fili e bussare a molte porte, lassù, a Londra, per convincere il Congresso Solare ad approvare la risoluzione che convocava la riunione, e a stanziare i fondi necessari. Ma non era stato troppo difficile ottenerlo. Erano bastate poche frasi gonfie di presunzione e di retorica, che parlavano di cementare per tutta l'eternità l'amicizia tra Marte e la Terra. Era bastato un piccolo lavoro d'astuzia, nei luoghi giusti e con le persone giuste.

E ora, quest'anno, Satellite City li avrebbe ospitati tutti, avrebbe ottenuto una pubblicità clamorosa in tutto il sistema solare, sarebbe diventata il primo argomento di

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conversazione in ogni famiglia, su ogni pianeta.Si appoggiò allo schienale della sedia, e sollevò lo sguardo

verso il cielo. Era lo spettacolo più grandioso dell'intero sistema solare. I turisti percorrevano milioni di chilometri, per poter alzare lo sguardo e fissare quel cielo.

Giove si stagliava nell'oscurità dello spazio, un gigantesco disco rosso e arancione schiacciato ai poli, gonfio all'equatore, che galleggiava in un cielo nero e violetto. Alla destra di Giove c'era il sole, un piccolissimo globo bianco, i cui raggi che riscaldavano i pianeti interni, la cui luce che li illuminava, giungevano tremuli e raggelati da cinquecento milioni di miglia di spazio oscuro e vuoto. In quel momento non si vedevano né Io né Europa, ma sulla tenda di velluto dello spazio scintillavano i piccoli brillanti freddi delle stelle lontane.

Pete dondolò lentamente sulla sedia, fregandosi le mani, allegramente.

Ce la faremo, pensava, esultando. Quest'anno Ganimede sarà al primo posto, sono pronto a scommetterci!

II

«Ma io non voglio andare su Ganimede,» protestò il senatore Sherman Brown. «Odio i viaggi spaziali. Sto sempre male.»

Izzy Newman per poco non soffocò, per l'esasperazione.«Mi ascolti, senatore,» supplicò. «Non continui a essere

un dannato stupido per tutta la vita, vuole? La presenteremo candidato alle elezioni presidenziali, tra due anni, e abbiamo bisogno di quei voti marziani. Ne può raccogliere a palate, andando su Ganimede a inaugurare quel monumento alla battaglia. Potrà dire delle cose gentili sui marziani, e poi, in fretta, prima che i ragazzi della Terra se la prendano con lei, potrà dire qualcosa di gentile sui terrestri. E poi potrà lodare

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il coraggio degli uomini che hanno combattuto nella battaglia, e poi, tanto per calmare i pacifisti, potrà lodare i quarant'anni di pace che abbiamo avuto. E se farà questo, tutti saranno felici e tutti penseranno che lei è dalla loro parte. Raccoglierà un sacco di voti.»

«Ma io non voglio andare,» protestò il senatore. «Non voglio. Non mi può costringere.»

Izzy spalancò le braccia.«Mi ascolti, senatore,» disse. «Io sono il suo manager, non

è vero? Le ho mai dato, finora, un consiglio sbagliato? L'ho mai spinta nella direzione sbagliata? Ho mai agito contrariamente ai suoi interessi? Non ho sempre fatto cose buone, per lei? Non l'ho presa quando era sindaco di una cittadina sperduta, e non ho fatto di lei uno dei più grandi uomini del nostro tempo?»

«Be',» disse il senatore, «Ho saputo emergere grazie ai miei meriti, se posso dirlo. E una parte del merito è anche sua. Non voglio andare su Ganimede; l'idea mi disgusta. Ma se lei crede che sia necessario…»

«Bene,» disse Izzy, fregandosi le mani. «Preparerò tutto io. Passerò ai giornalisti delle interviste. Le farò preparare un discorso dai migliori scrittori-ombra. Ricaveremo mezzo milione di voti, da questo viaggio.»

Fissò con fermezza il senatore Brown.«Ci sono solo due cose che lei deve fare,» lo avvertì.«Di che si tratta?»«Impari bene il discorso. Non voglio che lo dimentichi,

come quella volta che ha inaugurato il palazzo delle comunicazioni, sulla Luna. E lasci a casa quella maledetta macchina fotografica.»

Il senatore Brown aveva l'aria molto infelice.Ganimede stava entrando nell'ombra di Giove. Per qualche

tempo la «notte» sarebbe scesa sul satellite. Per una buona parte della notte Europa sarebbe stata alta nel cielo, ma la

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luce di Europa avrebbe soltanto reso più profonde e più scure le ombre della superficie.

'Spike' Cardy aspettava che Ganimede sprofondasse nell'ombra. Perché Spike intendeva fare una cosa che nessuno, prima di lui, aveva mai tentato. Voleva fuggire dalla prigione di Ganimede, da quell'orgogliosa Alcatraz dello Spazio, i cui custodi si vantavano del fatto che nessun uomo avesse mai lasciato il suo perimetro, vivo, prima di avere scontato la sua condanna fino in fondo.

Ma Spike se ne stava andando, e la sua condanna non era ancora scontata. Sarebbe uscito dal portello di nord-ovest, e sarebbe scomparso nella notte di Ganimede, completamente come se fosse stato cancellato dall'universo. Era tutto preparato; il piano era perfetto. C'era voluto molto tempo, e molta cura dei particolari. Spike aveva aspettato, finché era stato certo di non avere lasciato alcuno spazio agli errori.

Il piano era costato molto denaro, aveva richiesto di esercitare delle pressioni nei punti giusti, aveva richiesto un aiuto esterno che era difficile ottenere. Ma Spike Cardy era riuscito là dove gli altri avevano fallito. Perché lui non era forse il vecchio Spike Cardy, del racket delle vie spaziali? Per anni e anni aveva richiesto e ottenuto un pedaggio da tutte le linee interplanetarie, per garantire la sua ' protezione '; e i suoi uomini stavano ancora dominando le linee spaziali, raccogliendo denaro e seminando utili ammonimenti, quando qualcuno rifiutava di pagare. Spike Cardy era uno degli uomini più temuti della malavita, e ancora adesso la sua parola era legge per molti uomini.

Spike attese che la guardia oltrepassasse la sua cella. Poi rapidamente si avvicinò alla branda, vi salì e afferrò il filo quasi invisibile di plastica sottile legato a una delle griglie di ventilazione. Rapidamente, ma con cautela, tirò a sé il filo, badando a non fare rumore. All'estremità del filo, che era stato sospeso nel condotto di ventilazione, c'era una pistola a

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raggi.Come un gatto pronto a cacciare il topo, Spike si avvicinò

alla porta della cella, chiusa da pesanti sbarre. Infilò la pistola nella camicia, e si appoggiò alle sbarre. Sentì che la guardia tornava indietro, compiendo il solito, interminabile giro.

Spike si lamentò, a bassa voce, come se stesse provando un tremendo dolore. La guardia udì il suono, e accelerò il passo.

«Cosa succede, Cardy? Stai male?» domandò la guardia.Il bandito allungò una mano tremante tra le sbarre,

afferrando disperatamente la spalla della guardia. La guardia si avvicinò. La mano sinistra di Cardy si mosse con la velocità del serpente che sta per colpire, e le dita afferrarono la gola dell'uomo in una stretta ferrea. Nello stesso istante la pistola a raggi, la cui carica era stata regolata sulla minima frequenza e la fiamma ridotta al diametro di una matita, lampeggiò nello spazio tra la camicia di Cardy e il cuore della guardia. Un rapidissimo lampo di fiamma al calor bianco, azionata da una mano esperta. Solo un lieve mormorio dalla pistola termica, un gorgoglio che somigliava alla risata sommessa di un uomo. Fu tutto.

La guardia si afflosciò contro le sbarre. La stretta mortale intorno alla gola aveva strozzato sul nascere il suo grido. Chiunque avesse assistito alla scena avrebbe pensato che la guardia, in quel momento, stava parlando con il prigioniero.

Cardy lavorò con rapidità. Era tutto preparato. Sapeva bene quel che doveva fare.

La mano destra tolse il mazzo di chiavi dalla cintura dell'uomo. Le sue dita trovarono la chiave giusta, la infilarono nella serratura. La porta della cella si aprì.

Ora c'era il punto più pericoloso dell'intero piano. Ma Cardy non ebbe paura, non ebbe esitazioni.

Rapidamente, tenendo aperta la porta, trascinò nella cella

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il corpo inerte del secondino. Era un rischio che doveva correre. Sperava che nessuno guardasse in quella direzione.

Lavorando con rapidità e destrezza, sfilò i pantaloni dal cadavere, e se li infilò. Poi indossò la giacca del secondino; infine si impadronì del copricapo e della pistola termica.

Cardy uscì dalla cella, chiuse la porta massiccia, facendo girare la chiave, e avanzò lungo la passerella che attraversava il blocco delle celle. Aveva il cuore pieno d'esultanza. La parte più difficile del piano era già passata. Ma teneva le labbra strette, e gli occhi vigili erano pronti a cogliere anche il minimo indizio di pericolo; il suo corpo scattante era pronto all'azione.

Riuscì a mantenere costante la sua andatura solo con uno sforzo di volontà; qualcosa, dentro di lui, gridava di correre, di fuggire con tutte le sue forze da quell'inferno. Ma doveva camminare normalmente. Il secondino del blocco vicino lo vide, lo guardò per un momento, e poi fece dietrofront e riprese la sua marcia tra le celle.

Solo quando l'altro uomo fu scomparso alla sua vista Spike affrettò il passo. Scese la scaletta che portava sul piano del pavimento, attraversò il pavimento e uscì dalla sezione delle celle, passando per il cortile - lo chiamavano così, anche se si trattava di una semplice palestra - e dirigendosi verso il posto di guardia del portello nord.

Una luce sommessa usciva dal posto di guardia.Cardy bussò alla porta.La guardia aprì la porta.«Una tuta spaziale,» disse Cardy. «Sto uscendo.»«Dov'è il lasciapassare?» chiese la guardia.«Qui,» disse Cardy, spianando la pistola termica.La mano della guardia scese rapidissima verso la fondina,

ma l'uomo non aveva una sola possibilità di difendersi. La pistola di Spike proiettò per un istante il suo raggio, e la guardia si afflosciò al suolo.

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Senza neppure degnare di uno sguardo il cadavere, Spike staccò una tuta spaziale dal gancio magnetico, la infilò, e uscì dal portello. Quando fu a metà del condotto, chiuse dietro di sé la valvola interna, girando il volano del portello esterno. Il portello esterno si aprì, e Spike fece un passo avanti, e uscì dalla prigione.

Si allontanò velocemente, con una serie di lunghi balzi veloci, ringraziando in cuor suo la ridotta gravità del satellite di Giove. A est riusciva a vedere la cupola scintillante di Satellite City. A nord-ovest si levava l'alta muraglia scura, immersa nell'ombra, delle colline.

Spike scomparve nell'ombra, dirigendosi verso le colline.

III

Il senatore Sherman Brown era felice. E anche leggermente ubriaco.

Era riuscito a sfuggire a Izzy Newman, e adesso si trovava là, inginocchiato sul pavimento della Lanterna di Giove, uno dei più rumorosi night-club di Satellite City, prono nella posizione ideale per fotografare, con la sua perfetta macchina a colori, due vecchi veterani impegnati in una furibonda discussione sulla Battaglia di Ganimede.

Una piccola folla si era radunata, per assistere alla discussione. Si trattava di un argomento che poteva muovere l'immaginazione, e c'era sempre la possibilità che potesse concludersi in una rissa. I vecchi veterani erano imprevedibili, per questo.

Il senatore Brown appoggiò il ginocchio destro a terra, accostando il mirino della macchina fotografica all'occhio, e inquadrando bene la scena. Avrebbe scattato delle fotografie che sarebbero rimaste nel suo album. Dopotutto, lui era un

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ottimo fotografo. E la scena era perfetta.Il vecchio Pa' Parker fece tremare il tavolino, con un

pugno violento.«Vi abbiamo combattuti e vi abbiamo sconfitti,» gridò. «E

non me ne importa un accidente di come ci siamo arrivati. Se i vostri generali fossero stati così furbi, accidenti a loro, come mai saremmo riusciti a darvi una lezione simile?»

Jurg Tec, un vecchio marziano vacillante, rispose alla provocazione di Pa' battendo un pugno ancora più forte sul tavolo.

«Voi terrestri avete vinto la battaglia per pura fortuna,» gracchiò, e la sua voce era piena di onesta collera, «Voi non avevate alcun diritto di vincere. Secondo tutte le regole della scienza bellica, voi eravate sconfitti fin dall'inizio. La vostra strategia era sbagliata. Le vostre divisioni spaziali erano sbagliate, la vostra scelta del tempo era sbagliata. Alexander, quando ha fatto scendere i suoi incrociatori per attaccare la nostra base, avrebbe dovuto essere spazzato via in pochi minuti.»

«Ma nessuno l'ha spazzato via,» disse Pa'.«Pura fortuna,» gracchiò Jurg Tec. «Combattiamo la

battaglia altre mille volte, e i marziani la vinceranno sempre. Qualcosa è andato male. Qualcosa che gli storici non sanno spiegare. Prova a ripetere tutte le fasi sulla carta, e Marte vincerà sempre.»

Pa' picchiò entrambi i pugni sul tavolo. La sua barba tremava bellicosamente.

«Ma, che vi possano ammazzare tutti,» gridò, «Le battaglie non si combattono sulla carta. Si combattono con uomini e astronavi e cannoni e pistole. E sono gli uomini che contano di più. Gli uomini coraggiosi sono quelli che vincono sempre. E ricorda che le battaglie non si combattono due volte, ma una volta sola, una per tutte. Non c'è una seconda occasione, in guerra. O vinci o perdi, e non ti danno

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la rivincita.»Il marziano pareva sul punto di soffocare per la collera.

Balbettò, nel tentativo di trovare le parole adeguate per rispondere.

Pa' era raggiante, come un gatto che ha appena finito di divorare un canarino.

«E' quello che ti dicevo,» affermò. «Un buon terrestre può battere dieci marshy, a qualsiasi ora del giorno e della notte.»

Jurg Tec balbettò, livido per la collera impotente che lo divorava.

Pa' continuò a infierire.«In qualsiasi ora del giorno e della notte,» disse. «Con una

benda sugli occhi e una mano legata dietro la schiena.»Il pugno di Jurg Tec si mosse senza preavviso, e colpì Pa'

direttamente sulla barba. Pa' barcollò, e poi lanciò un grido e si buttò sul marziano. La piccola folla gridò, in segno di incoraggiamento.

Jurg Tec, ritirandosi davanti ai pugni che Pa' mulinava rabbiosamente, inciampò nel corpo del senatore Brown, inginocchiato a terra. Pa' gli balzò addosso nello stesso istante, e i tre caddero insieme, in un groviglio di pugni e di calci e di grida.

«Prendi questo,» gridò Pa'.«Ehi, attento alla mia macchina!» esclamò il senatore.Il marziano non disse niente, ma scagliò un violento

diretto che colpì l'occhio del senatore. Il colpo era destinato a Pa'.

Un tavolino si rovesciò, con uno schianto minaccioso. La piccola folla gridò, entusiasta.

Il senatore vide la sua macchina fotografica, sul pavimento, allungò la mano e la prese. Qualcuno mise il piede sulla sua mano, e il senatore lanciò un grido di dolore. Jurg Tec prese Pa' per la barba.

«Adesso basta,» disse una voce autoritaria, e due poliziotti

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apparvero, tra la piccola folla. I poliziotti afferrarono Pa' e Jurg Tec, e li rimisero in piedi. Il senatore si alzò da solo.

«Perché stavate litigando?» domandò un poliziotto alto e robusto.

«Lui è un maledetto marshy,» ansimò Pa'.«Lui ha detto che un ferry può battere dieci marziani,»

protestò Jurg Tec.Il poliziotto guardò il senatore.«E lei cos'ha da dire?» domandò.

Il senatore si trovò, improvvisamente, senza parole.«Be', niente, agente, niente di niente,» balbettò.«Immagino che lei non stesse a rotolarsi per terra con loro,

vero?» sbuffò il poliziotto, sprezzante.«Be', vede, agente, le cose sono andate così,» spiegò il

senatore. «Io cercavo di separarli. Cercavo di convincerli a smettere di lottare. E uno di loro mi ha colpito.»

Il poliziotto ridacchiò.«Un paciere, eh?» disse.Il senatore annuì, sentendosi molto ridicolo.L'agente spostò la sua attenzione su Pa' e Jurg Tec.«Ricominciamo da capo la guerra, alla vostra età?»

domandò. «Ma non riuscite proprio a dimenticarla? La guerra è finita quarant'anni fa.»

«Mi ha insultato,» gracchiò Jurg Tec.«Certo, lo so,» disse l'agente. «E lei era prontissimo a

offendersi, vero?»«Mi ascolti, agente,» disse il senatore. «Se prendo io

questi due ragazzi, e le prometto che non daranno più alcun fastidio, non potrebbe dimenticare quello che è successo?»

Il grosso poliziotto guardò il suo collega.«E lei chi è?» domandò il collega.«Be', io sono… io sono Jack Smith. Conosco questi due

ragazzi. Ero seduto e parlavo con loro, prima che questo accadesse.»

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I due poliziotti si guardarono di nuovo.Poi guardarono entrambi il senatore.«Be', penso che non ci sarebbe niente di male,» ammise il

secondo poliziotto. «Ma faccia in modo che mantengano un atteggiamento pacifico, altrimenti vi chiuderemo tutti e tre in cella, per farvi dimenticare il passato.»

Lo fissarono con aria dura e severa. Il senatore si sentì a disagio. Poi fece un passo avanti, e prese sottobraccio Pa' e Jurg Tec.

«Avanti, ragazzi, andiamo a bere qualcosa,» suggerì.«Continuo a dire,» protestò Pa', «Che un terrestre può

battere dieci marshy…»«Piano, piano,» lo avvertì il senatore. «Si calmi, amico.

Ho promesso alla polizia che vi sareste comportati da buoni amici.»

«Amico di quello?» domandò Pa'.«Perché no?» domandò il senatore. «Dopotutto, questa

riunione ha lo scopo di dimostrare la pace e l'amicizia che esistono oggi tra Marte e la Terra. Dalla polvere e dai tuoni della battaglia è sorta una comprensione nuova e più viva. Una comprensione che condurrà a una pace sincera e imperitura, e…»

«Un momento,» disse Pa'. «Che mi impicchino se non sembra che lei stia facendo un discorso.»

«Uh,» disse il senatore.«Sembra proprio che lei stia facendo un discorso,»

proseguì Pa'. «Come se lei fosse uno di quei prestigiatori politici che sono venuti qui a raccattare voti.»

«Bene,» disse il senatore. «Forse lo sono.»«Con un occhio ridotto così,» disse Pa', puntando il dito,

«Lei non è in condizione di fare nessun discorso.»Il senatore Brown si mise a tossire, perché il liquore gli era

andato di traverso. Posò il bicchiere, e continuò a tossire.«Cosa le succede?» domandò Jurg Tec.

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«Avevo dimenticato una cosa,» spiegò il senatore. «Una cosa molto importante.»

«Può aspettare,» disse Jurg Tec. «Offro io il prossimo giro.»

«Certo,» annuì Pa'. «Non c'è niente che possa impedirle di bere un altro bicchiere.»

«Vedete,» disse il senatore, «Io dovevo davvero tenere un discorso.»

I due vecchi soldati lo guardarono, increduli.«E' un fatto,» disse loro il senatore. «Ma con l'occhio

ridotto così, non posso farlo. Mi coprirei di ridicolo davanti a tutto il Sistema Solare. Eppure se non farò il discorso sarà un disastro! Ecco quello che mi è successo, a filarmela dall'albergo con la mia macchina fotografica.»

«Forse possiamo aiutarla,» suggerì Pa'. «Forse possiamo mettere a posto le cose.»

«Forse,» gracchiò il marziano.«Ascoltate, amici,» disse il senatore. «Se io partissi, a

bordo di un'astronave, per un giro panoramico del satellite, e se l'astronave si guastasse e io non potessi arrivare in tempo per tenere il discorso, nessuno me ne farebbe una colpa. Anzi, probabilmente diventerei un eroe. La gente si lascia colpire dagli uomini politici che sfidano un pericolo. Non è così?»

«E' così,» ammise Pa'.«E la faccenda dell'occhio?» domandò Jurg Tec.«Accidenti,» disse Pa'. «Potremmo dire che è accaduto

durante l'incidente. Lo renderebbe ancora più popolare.»«Voi verreste con me, amici?» domandò il senatore.«Ci può scommettere,» disse Pa'.Jurg Tec annuì.«Ci sono delle vecchie carcasse che vorrei vedere,» disse.

«Incrociatori spaziali abbattuti durante la battaglia, che sono stati abbandonati sulla superficie. Ridotti troppo male per

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essere recuperati. Il pilota, probabilmente, potrebbe scendere per farci dare un'occhiata.»

«Farà meglio a portare la sua macchina fotografica,» suggerì Pa'. «Dovrebbe prendere delle foto fantastiche, su una di quelle vecchie bagnarole.»

IV

L'ufficiale di rotta spalancò la porta della cabina di comando, la richiuse con violenza e si appoggiò a essa. Aveva l'uniforme strappata, e il sangue gli scendeva da una larga ferita alla fronte.

Il pilota sobbalzò, e si voltò.«I robot!» urlò l'ufficiale di rotta. «I robot sono liberi!»Il pilota impallidì.«Liberi?» esclamò.L'ufficiale di rotta annuì, ansimando.Nel breve silenzio udirono i rumori agghiaccianti prodotti

da zampe e artigli d'acciaio che si scontravano in tutta l'astronave.

«Hanno preso l'equipaggio,» ansimò l'ufficiale di rotta. «Li hanno fatti a pezzi, tutti, in sala macchine.»

Il pilota guardò attraverso la grande parete di plastica trasparente della cabina di comando. La superficie di Ganimede era sotto di loro. Lui aveva decelerato, usando con mano esperta i razzi in brevi vampate, per accostarsi al pianetino e raggiungere Satellite City a velocità ridotta.

«Prendi una pistola!» gridò. «Cerca di tenerli a bada! Forse possiamo farcela.»

L'ufficiale fece un balzo verso il deposito delle pistole e dei fucili termici. Ma si era mosso in ritardo.

La porta tremò e si piegò, sotto un peso tremendo. Artigli d'acciaio la spinsero e la spaccarono.

Il pilota, voltandosi, vide un'orda d'incubo di mostri furiosi

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entrare nella cabina di comando. Mostri fabbricati nelle officine marziane della Robots, Inc., e destinati a Satellite City per lo spettacolo che avrebbe costituito il clou della riunione commemorativa della Battaglia di Ganimede.

Il fucile termico proiettò il suo raggio, fondendo l'orrenda testa del primo dei mostri, ma i tentacoli di un altro si mossero rabbiosamente, con incredibile rapidità. Il pilota lanciò un grido…uno solo, soffocato brutalmente da una zampa d'acciaio.

E poi l'astronave cominciò a discendere vorticando follemente, senza controllo, verso la superficie.

«Un vecchio scafo d'incrociatore si trova proprio lassù, su quel costone roccioso,» disse il pilota al senatore. «E' in discrete condizioni, ma il muso si è conficcato profondamente nel terreno, a causa dell'impatto, ed è impossibile muoverlo.»

«Terrestre o marshy?» volle sapere Pa', diffidente.Il pilota scosse il capo.«Non ne sono sicuro,» disse. «Mi sembra terrestre.»Il senatore stava entrando nella sua tuta spaziale.«Lei ricorda il nostro contratto?» domandò al pilota.

«Deve affermare che la sua astronave è precipitata. Saprà lei come spiegare il guasto. Così non ha potuto riportarmi indietro, per fare il discorso.»

Il pilota sorrise.«Certo, senatore,» disse.Pa' si fermò, con il casco sollevato sopra la testa.«Senatore!» esclamò.Guardò il senatore.«Si può sapere chi è lei?» domandò.«Io sono il senatore Sherman Brown,» disse il senatore.

«Quello che avrebbe dovuto inaugurare il monumento alla battaglia.»

«Be', che io sia dannato!» disse Pa'.

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Jurg Tec ridacchiò.Pa' si girò verso di lui, di scatto.«Non facciamo dello spirito, marshy,» lo avvertì.«Calma, calma,» disse il senatore. «Calma, ragazzi. Basta

con le liti. Non siamo in quel bar, adesso.»Con indosso le pesanti tute spaziali, i quattro scesero

dall'astronave e salirono sulla collina, verso il costone roccioso che si stendeva quasi sulla cima.

Debolmente, attraverso il microfono esterno della tuta, Pa' udì lo scricchiolio della neve di ossido di carbonio sotto i loro piedi, e il sibilo del vento.

Giove stava tramontando, un enorme globo rosso e arancione con una grande macchia nera scavata nell'emisfero settentrionale.

Quel segmento oscuro, invisibile del grande pianeta era nascosto alla vista, e contro di esso si stagliava il quarto di luna della piccola Io, mentre appena sopra, sullo sfondo nero dello spazio pieno di stelle, galleggiava il disco brillante di Europa. Il sole era tramontato molte ore prima; ma lassù il sole era una stella lontana, ora solo il ricordo di mondi e di cieli più caldi e più ostili. C'era freddo, intorno; e il grande globo sospeso nel cielo, con le sue lune e le stelle brillanti che gli facevano corona, appariva ancora più grande e più solenne e più lontano.

«E' bello come un albero di Natale,» disse Pa'.«I turisti impazziranno per questo spettacolo,» dichiarò il

pilota. «Il mio astrotaxi non ha avuto un momento di sosta, da quando è iniziata la stagione. C'è qualcosa, nel vecchio Giove, che li affascina.» «Ricordo che era così, prima della battaglia,» mormorò Jurg Tec. «Ricordo che Giove era alto nel cielo, ed era freddo, e la neve era bianca) intorno. Io e il mio amico siamo usciti dal campo, lontano dalle luci, per vedere questo spettacolo così bello.»

«Non sapevo che voi marshy riusciste mai a diventare

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amici,» disse Pa'. «Vi credevo troppo feroci per cose simili.»«Il mio amico,» disse Jurg Tec, «E' stato ucciso il giorno

dopo.»«Oh,» disse Pa'.Per un momento, camminarono in silenzio.«Mi dispiace davvero per il tuo amico,» disse poi Pa',

senza guardare il marziano. «Mi dispiace davvero.»Arrivarono sulla cima della collina.«Eccolo qui,» disse il pilota, puntando il dito.Sotto di loro si stendeva il costone roccioso, e sul costone

roccioso giaceva una enorme astronave, un poderoso incrociatore conficcato con una folle angolazione nel terreno, con la poppa piegata grottescamente, e la prua sepolta nella roccia.

«Terrestre, è vero,» disse Pa'.Scesero lentamente verso il costone e verso il vecchio

incrociatore.Sul fianco del relitto c'era un'enorme falla, uno squarcio

prodotto da un proiettile siderale lanciato tanto tempo prima, un colpo che era come l'eco lontana portata dall'abisso del tempo, l'eco di una battaglia che si era svolta lassù, quarant'anni prima, ed era stata soffocata nel silenzio della neve e nel lieve alito del vento, all'ombra dell'immenso Giove, nell'incerta quiete di molti anni di pace.

«Saliamo a bordo,» disse il senatore, rompendo il silenzio. «Voglio prendere qualche foto. Ho portato con me tutta l'attrezzatura. Raggi infrarossi, e tutto il resto. Posso fare delle foto anche nel buio più nero.»

Qualcosa si mosse all'interno del relitto, qualcosa che scintillava e riverberava nella luce sanguigna di Giove al tramonto.

Sbalorditi, i quattro indietreggiarono d'un passo.Un uomo in tuta spaziale era in piedi, all'interno del relitto,

proprio sulla soglia, e il suo corpo era per metà nell'ombra,

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per metà immerso nel chiarore sanguigno di Giove. Impugnava due pistole termiche, e le teneva puntate contro Pa' e gli altri due.

«Bene,» disse l'uomo, e la sua voce era crudele, rabbiosa, e tradiva una sfumatura di follia. Era un uomo braccato, lo si intuiva da quella voce, ed era un uomo pericoloso. «Siete sotto la mira delle mie pistole. Così, adesso, prendete le vostre e buttatele a terra.»

Non si mossero, troppo sbalorditi, non riuscendo a credere a quello che vedevano.

«Mi avete sentito?» esclamò l'uomo. «Buttate a terra le vostre pistole!»

Il pilota cercò di estrarre la sua pistola, con un movimento velocissimo che sorprese tutti.

Ma la pistola riuscì soltanto a uscire parzialmente dalla fondina, prima che una delle pistole che l'uomo braccato impugnava lasciassero partire un livido guizzo di fiamma. La carica termica colpì la tuta spaziale del pilota, la squarciò con la furia della sua tremenda energia. Il pilota si piegò in due e cadde, mulinando disperatamente le braccia, rotolò giù per il pendio, andando a fermarsi contro il fianco dell'incrociatore abbattuto. La sua tuta era rossigna, incandescente.

«Forse adesso sapete che non sto scherzando,» disse l'uomo.

Pa', con un dito, estrasse prudentemente la pistola dalla fondina e la lasciò cadere al suolo. Jurg Tec e il senatore lo imitarono.

Non aveva senso resistere; era inutile fare pazzie. Era inutile, quando un assassino vi prendeva di mira con due pistole.

L'uomo uscì cautamente dal relitto, e con un cenno ordinò agli altri di indietreggiare. Ripose nella fondina una delle sue pistole, si curvò e raccolse dal suolo le tre armi cadute.

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«Cosa significa tutto questo?» domandò il senatore.L'uomo ridacchiò.«Io sono Spike Cardy,» disse. «Forse avete sentito parlare

di me. Sono l'unico uomo che sia mai riuscito a fuggire da una prigione di Ganimede. Si diceva che nessuno avrebbe mai vinto quella fortezza. Ma io ci sono riuscito.»

«Che cosa intende fare di noi?» domandò il senatore.«Lasciarvi qui,» disse Spike. «Io prenderò la vostra

astronave, e vi lascerò qui.»«Ma questo è un omicidio,» esclamò il senatore.

«Moriremo qui. Abbiamo soltanto quattro ore di aria.»Spike ridacchiò di nuovo.«Sa cosa le dico?» fece. «E' un peccato, un vero peccato.»Jurg Tec disse:«Ma lei è riuscito a sopravvivere, qui. Sono passate tre

settimane dalla sua evasione. Non sarà rimasto nella tuta spaziale per tutto il tempo. E' impossibile che avesse tante bombole d'aria da resistere così a lungo.»

«Che cosa vuole concludere?» domandò Spike.«Bene,» disse Jurg Tec. «Soltanto questo. Perché non ci

concede una possibilità di sopravvivere? Perché non ci dice come è riuscito a cavarsela? Potremmo fare anche noi lo stesso, restare in vita fino a quando qualcuno non riuscirà a trovarci. Dopotutto, lei prenderà la nostra astronave. Ucciderci non le servirà a niente. Non abbiamo fatto niente contro di lei.»

«Be',» disse Spike, in tono ironico. «Il suo ragionamento non è del tutto sbagliato. E sono pronto a dire come me la sono cavata. Vedete, io ho degli amici. Questi amici hanno dei mezzi… notevoli. Sono stati loro a restaurare un compartimento di questa vecchia astronave, a munirlo di pareti a tenuta stagna e a installare un portello di decompressione e un generatore di atmosfera artificiale. Anzi, per essere più precisi, diciamo un condensatore di

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atmosfera. Perché su questo satellite c'è dell'aria, solo che non è abbastanza densa, e la sua composizione è un po' diversa dalla nostra. Il condensatore filtra e raccoglie l'atmosfera. Quando sono fuggito dalla prigione, sono venuto qui, e ho aspettato un'astronave che avrebbe dovuto raccogliermi. Ma l'astronave non è venuta. E' successo qualcosa, e non è venuta. Per questo prendo la vostra.»

«E dove si trova questo punto?» domandò il senatore. «Le dispiace dirci qual è la posizione esatta?»

«Be', no,» disse Spike. «Posso dirvelo senz'altro.»Ma c'era qualcosa di strano nella sua voce, c'era una strana

espressione nel suo viso, dietro l'elmetto. Pa' ebbe uno strano presentimento. Quell'uomo era eccitato; la solitudine dei giorni dell'attesa aveva influito su di lui. L'astronave non era arrivata… e lui aveva aspettato.

«Scendete nella prua dell'incrociatore,» disse Spike. «E' impossibile che non lo troviate.» Un sorriso curvò le labbra di Spike. «Solo che non vi servirà a niente,» disse. «Perché il condensatore si è guastato mezz'ora fa. E' impossibile ripararlo. Non può essere riparato, e io lo so, perché ho tentato con tutte le mie forze. Ero pronto a percorrere a piedi la distanza fino a Satellite City, con la certezza di essere di nuovo catturato, quando siete arrivati. Per questo indossavo la tuta spaziale.»

«Non c'è rimedio?» domandò il senatore.Spike scosse il capo, nel casco della tuta spaziale.«Nessuna speranza,» disse, sorridendo. «Due pezzi si sono

rotti. Ho cercato di saldarli con la mia pistola termica, ma non ci sono riuscito. Li ho rovinati del tutto.»

V

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Spike indietreggiò, dirigendosi verso la cima del colle.«State fermi,» li avvertì, continuando a tenere puntata la

pistola. «Non cercate di seguirmi. Se lo fate, finirete come il vostro compagno.»

«Ma non vorrà lasciarci qui?» disse il senatore, con voce stridula per la paura. «Moriremo, in questo modo!»

Il bandito indicò il sud-est, con la mano che impugnava la pistola.

«Satellite City è da quella parte. Potete raggiungerla, in quattro ore. Io ce l'ho fatta.»

La sua risata risuonò nei loro caschi.«Ma voi non ci riuscirete mai. Siete troppo vecchi.»Poi scomparve dietro la vetta.Pa' si mosse immediatamente. Balzò verso il corpo senza

vita del pilota. Girò il cadavere dell'uomo, e con uno strattone prese le pistola termica.

Una rapida occhiata bastò a dirgli che la pistola era intatta.«Non puoi fare questo!» gli gridò Jurg Tec.«Fuori dai piedi, marshy,» esclamò Pa'. «Devo

inseguirlo.»Pa' cominciò a salire verso la vetta.Quando fu in cima, vide la figura di Spike avanzare verso

l'astronave.«Torna indietro!» gridò Pa', agitando la pistola. «Torna

indietro, accidenti a te! Avanti, vieni a combattere!»Spike si voltò, lanciò un raggio termico a casaccio verso la

cima della collina, e poi, con lunghi balzi, fuggì verso l'astronave.

Pa' si fermò, prese accuratamente la mira e sparò. Spike sobbalzò a mezz'aria, durante uno dei suoi balzi, e cadde al suolo, allargando le braccia. Pa' vide che le pistole prese da Spike ai tre superstiti erano cadute al suolo, e riflettevano la luce sanguigna di Giove.

«Ha lasciato cadere le armi!» esclamò Pa'.

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Ma Spike era di nuovo in piedi, e stava correndo, anche se il braccio sinistro gli pendeva, inerte, lungo il fianco, sobbalzando grottescamente a ogni balzo del fuggiasco.

«E' troppo lontano,» disse Jurg Tec, che era salito accanto a Pa'.

«L'ho centrato in pieno,» disse Pa'. «Ma era troppo distante.» Spike raggiunse l'astronave, e sparì nel portello. Imprecando, Pa' scagliò una raffica di energia termica contro l'astronave, quando vide chiudersi il portello esterno. «Accidenti,» esclamò Pa'. «Ce l'ha fatta.»

I due veterani, rabbiosamente, guardarono l'astronave. «Immagino che per noi sia la fine,» disse Jurg Tec.

«No, accidenti,» dichiarò Pa'. «Arriveremo facilmente a Satellite City.» Ma non ci credeva. Sapeva che non ce l'avrebbero fatta.

Giù dal pendio sentì venire un rumore di passi, che echeggiava nel suo casco, sommesso. Si voltò, e vide che il senatore li stava raggiungendo.

«Cosa le è successo?» domandò Jurg Tec. «Sono caduto, e mi sono fatto male alla caviglia,» spiegò il senatore.

«Certo,» disse Pa'. «E' facile farsi male a una caviglia. Specialmente in un momento del genere.»

II suolo tremò, sotto i loro piedi, quando l'astronave balzò verso lo spazio, facendo tuonare gli ugelli.

Pa' continuava ostinatamente a marciare. Sentiva il sibilo della neve sulla sua tuta spaziale. Sentiva lo scricchiolio della neve sotto i piedi. Sentiva i passi pesanti dei suoi due compagni, più indietro.

Giove era ancora più basso sull'orizzonte frastagliato. Io era salita, non si stagliava più contro la fascia oscura del gigantesco pianeta, e galleggiava libera nello spazio.

Davanti, Pa' vedeva le fredde colline ostili, coperte dalla neve portata dal vento, illividite dai raggi sanguigni della luce rossigna di Giove.

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Un piede avanti, e poi un altro. Era l'unico modo. Doveva continuare ad andare avanti.

Ma sapeva che era inutile. Sapeva che sarebbe morto su Ganimede. Celia l'avrebbe aspettato, a casa. Forse in quel momento il piccolo Harry era seduto sulla panca, al sole, e forse avrebbe voluto che il nonno fosse con lui, a parlargli della guerra. Forse anche Celia non si sarebbe opposta, ora. Ma adesso lui era su Ganimede, e Celia non sapeva niente. E lui stava per morire.

Era strano, però, pensò Pa'. Quarant'anni prima lui era stato lassù, aveva combattuto nella più grande battaglia di quella guerra, e ne era uscito senza una scalfittura. E adesso lui era ritornato a morire.

Ricordava quel giorno di quarant'anni prima. Ricordava il cielo. Il cielo era stato in fiamme, allora, un'unica cortina di grandi nastri di fuoco, e di raggi che balenavano ovunque. Ricordava le astronavi silenziose, con i cannoni fuori uso, che avevano coraggiosamente assalito gli incrociatori avversari, li avevano speronati, precipitando con loro al suolo, trascinandoli alla distruzione.

«Non ce la faremo mai,» piagnucolò il senatore.Pa' si voltò verso di lui, rabbiosamente, sollevando con

gesto minaccioso il pugno coperto dal guanto d'acciaio.«La smetta di piagnucolare,» gridò. «Sembra una vacca

malata. Se le sento fare un altro lamento, la butto giù.»«Ma a che serve illuderci?» esclamò il senatore. «La

nostra aria è quasi esaurita. Non sappiamo neppure se stiamo andando nella direzione giusta.»

Pa' lo guardò con rabbia.«Avanti, mollusco che non è altro, cerchi di farsi coraggio.

Non è un grand'uomo, lei? Lo è, vero? Un senatore. Se lo ricordi. Lei deve tornare indietro. Se lei non tornasse, a chi farebbero fare tutti quei bei discorsi?»

La voce di Jurg Tec sibilò, nel casco di Pa'.

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«Ascolta!»Pa' rimase immobile, e ascoltò.Ma non c'era niente da sentire. Solo il sibilo della neve

sulla tuta spaziale.«Non sento niente,» disse Pa'.E poi lo sentì… un tuono lontano, soprannaturale, che

pareva portare con sé un'indefinibile minaccia di pericolo. Un tuono che pareva prodotto da molti piedi, da un'orda di zoccoli in marcia.

«Hai mai sentito niente di simile, ferry?» domandò il marziano.

«Non è niente,» squittì il senatore. «Non è vero niente. Cominciamo ad avere delle allucinazioni. Stiamo diventando pazzi.»

Il tuono si avvicinò sensibilmente… fu sempre più profondo, sempre più chiaro.

«Non dovrebbero esserci creature viventi su Ganimede,» disse Pa'. «Il satellite dovrebbe essere privo di vita. Ma c'è qualcosa, laggiù. Qualcosa di vivo.»

Sentì un brivido di paura. Un brivido freddo, che gli percorreva tutto il corpo.

Una lunga linea di cose avanzava dalla foschia dell'orizzonte, pareva uscire da quel chiarore sanguigno e assumere contorni indistinti… un corteo d'incubo di cose che brillavano e scintillavano sotto i raggi di Giove.

«Mio Dio,» disse Pa'. «Che cosa sono?»Si voltò, e si guardò intorno.Alla loro sinistra c'era una profonda trincea naturale, dove

l'erosione di epoche ormai dimenticate aveva scavato una depressione piccola e profonda nel fianco della collina.

«Da quella parte,» disse Pa', correndo in quella direzione.La lunga linea degli orrori indistinti si era avvicinata,

quando raggiunsero la fortezza naturale.Pa' guardò Jurg Tec.

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«Marshy,» gli disse. «Se non hai mai combattuto prima, preparati a farlo ora.»

Jurg Tec annuì, seccamente, impugnando la pistola termica.

Il senatore piagnucolava.Pa' si voltò verso di lui, e lo colpì col pugno al centro dello

scudo pettorale della tuta, mandandolo a gambe levate.Pa' lo guardò, con disprezzo.«Tiri fuori la pistola, accidenti a lei,» disse. «E finga di

essere un uomo.»L'onda dei mostri usciti come per magia dall'orizzonte

brumoso si stava avvicinando… una massa spaventosa di belve che luccicavano stranamente nella luce delle lune e del pianeta. Mandibole enormi e artigli aguzzi e zampe dai lunghi speroni e tentacoli che si agitavano selvaggiamente.

Pa' sollevò la pistola termica.«Ora,» esclamò. «Fuoco!»Dalla fortezza naturale, dalla profonda trincea scavata nel

fianco della collina, uscì un fiotto di fiamma bianca che inondò i mostri che attaccavano, e parve fonderli. Ma quelli che li seguivano avanzarono e caricarono, scavalcando i corpi fermati dal fuoco, e si avvicinarono implacabili agli uomini nascosti nell'ombra della collina.

La pistola di Pa' si stava surriscaldando. Sapeva che, tra un istante, sarebbe stato un oggetto inservibile, che avrebbe anche potuto esplodergli in mano, uccidendoli tutti e tre. Perché le pistole termiche non venivano costruite per sopportare una fiamma continua.

Eppure le cose d'incubo continuavano ad avanzare.Davanti alla trincea giaceva una catasta di corpi che

brillavano di luce rossa, come metallo incandescente, dove la pistola termica li aveva colpiti.

Pa' lasciò cadere la sua pistola, e indietreggiò verso la parete della trincea naturale.

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Jurg Tec era sempre inginocchiato, e manovrava la pistola con fiammate brevi e diritte, cercando di non farla surriscaldare.

In un recesso più piccolo era acquattato il senatore, che piagnucolava tra sé, con la pistola ancora nella fondina.

Pa' balzò verso di lui, lanciando una maledizione, gli prese la pistola e spinse il senatore da una parte.

«Lascia raffreddare la tua pistola, marshy,» gridò Pa'.Prese di mira, con grande attenzione, una cosa strisciante

che stava superando la barricata di corpi. Con calma, le sparò in mezzo agli occhi.

«Avremo bisogno della tua pistola dopo,» disse a Jurg Tec.

Una creatura oscura, con grandi scaglie intorno al muso e con un becco appuntito sotto gli occhi, attaccò, e Pa' la eliminò con un rapido colpo.

La furia dell'attacco diminuiva. L'orda dei mostri si stava assottigliando.

Pa' tenne pronta la sua pistola, e aspettò l'arrivo di altri mostri. Ma non ne arrivarono.

«Cosa sono quelle dannate cose?» domandò Pa', indicando con la pistola la catasta di corpi.

«Non lo so,» disse il marziano. «Non dovrebbero esserci degli animali, su Ganimede.»

«Si muovevano in una strana maniera,» dichiarò Pa'. «Non come animali. Come quegli oggetti che carichi girando una chiave, e poi metti sul pavimento. Come giocattoli. Come gli animali-giocattolo che ho regalato a mio nipote per Natale, un paio d'anni fa. Li caricavi, e quelli giravano in circolo sul pavimento.»

Jurg Tec uscì dalla trincea, si avvicinò alla pila di corpi.«Fa' attenzione, marshy,» lo ammonì Pa'.«Guarda qui, terry,» chiamò il marziano.Pa' si fece avanti, e guardò. E quello che vide… invece

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che carne e ossa, invece che qualsiasi struttura animale… furono delle piastre metalliche, e dei fili fusi, e altri pezzi metallici ed elettronici aggrovigliati e anneriti, di tutte le dimensioni e di tutte le forme.

«Robot,» disse. «Che io diventi un marshy se questi non sono robot. Niente altro che animali giocattolo.»

I due vecchi soldati si guardarono in faccia.«C'è mancato poco che non ci finissero qui,» disse Jurg

Tec.«Li abbiamo fatti fuori tutti, però,» esclamò Pa'.«Senti,» disse Jurg Tec. «Doveva esserci un

combattimento tra animali feroci, a Satellite City, un combattimento di robot. Non pensi che fossero questi i robot? Che si sono liberati, chissà come?»

«Già,» disse Pa'. «Forse è questa la spiegazione.»Si rialzò, dopo avere dato un'ultima occhiata ai pezzi

metallici accatastati al suolo. Guardò il cielo. Giove era scomparso quasi completamente dietro l'orizzonte.

«Sarà meglio muoverci,» decise Pa'.

VI

«Devono essere loro,» disse il pilota.Indicò con l'indice in basso, e Izzy Newman seguì la

direzione del dito.Vide due figure. Due uomini che indossavano tute

spaziali.Una era eretta, ma barcollava, camminando. Accanto a lui

zoppicava un altro uomo, che si appoggiava con il braccio alle spalle del primo, per non cadere.

«Ma sono soltanto due,» disse Izzy.«No, sono tre,» dichiarò il pilota. «Quell'uomo sta tenendo

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su il secondo, e sta trascinando il terzo per il braccio. Guardalo. Si lascia trascinare sul terreno, come un pupazzo.»

Il pilota fece scendere l'apparecchio, si posò al suolo e si avvicinò ancora.

Pa', vedendo l'apparecchio, si fermò. Lasciò andare il braccio del senatore, e posò gentilmente al suolo Jurg Tec. Poi, barcollando, cercando di respirare quel poco d'aria che gli rimaneva, aspettò.

Due uomini scesero dall'apparecchio. Pa', barcollando, andò loro incontro.

Lo aiutarono a salire, e portarono a bordo gli altri due.Pa' si tolse il casco, e respirò profondamente. Aiutò Jurg

Tec a togliersi il casco. Il senatore, vide, stava riprendendo i sensi.

«Accidenti,» disse Pa'. «Oggi ho fatto qualcosa che avevo giurato di non fare mai.»

«Che cosa?» volle sapere Jurg Tec.«Avevo giurato,» disse Pa', «Che se avessi mai avuto

l'occasione di aiutare un marshy, non avrei sollevato un dito. Sarei rimasto a guardarlo crepare.»

Jurg Tec sorrise.«Devi avere dimenticato le tue promesse,» disse.«Accidenti,» fece Pa'. «Non mi restava più forza di

volontà, ecco cos'è successo.»La riunione si stava avvicinando alla conclusione.

Incontrandosi in quell'occasione eccezionale, i veterani avevano votato all'unanimità di formare un'Associazione dei Veterani dei Due Pianeti. Rimaneva soltanto da attribuire le cariche.

Jurg Tec era sul palco degli oratori.«Signor presidente,» disse. «Non voglio fare un discorso.

Vorrei solo proporre il nome del nostro presidente. Non è necessario fare un discorso.»

Fece una pausa a effetto, e l'intero salone tacque.

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«Propongo,» disse Jurg Tec. «Di nominare nostro presidente il capitano Johnny Parker, meglio conosciuto come Pa'.»

La sala esplose in un autentico boato. Il presidente di turno batté più volte la mazza, per ristabilire l'ordine, ma i suoni che giungevano da tutta la sala soffocarono quel rumore.

«Pa' Parker!» gridavano diecimila voci, ed erano voci terrestri e voci marziane. «Vogliamo Pa'!»

Molte mani sollevarono Pa', malgrado le sue proteste, e lo trascinarono sul palco.

«Piantatela, accidenti a voi,» gridò Pa', ma gli altri non se ne diedero per inteso; continuavano a dargli vigorose pacche sulla schiena, e gli gridavano qualcosa che lui non capiva, e poi si ritirarono e lo lasciarono lassù, in piedi, da solo, accanto al tavolo della presidenza.

Davanti a lui, la sala dei congressi ondeggiava, nel trambusto generale. Delle bande stavano suonando, ma la musica era soltanto un sottofondo per la generale allegria. I giornalisti sbucavano da tutte le parti, scattando fotografie su fotografie. L'uomo che teneva il microfono chiamò con un cenno il vecchio, e Pa' si fece avanti, rendendosi conto appena di quello che stava succedendo. Si ritrovò davanti al microfono.

Non riusciva a vedere molto bene la folla. C'era qualcosa nei suoi occhi. Un po' annebbiati. Strana maniera di comportarsi, per i suoi occhi. Non avevano mai fatto così. E il cuore stava battendo più forte. Troppe emozioni. Facevano male al cuore.

«Discorso!» gridarono diecimila voci. «Discorso! Discorso!»

Erano così ingenui, così semplici, quei vecchi soldati. Pareva di essere ritornati ai tempi della caserma, ai tempi dei corsi di addestramento. Cosa volevano?

Volevano che lui facesse un discorso! Volevano che il

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vecchio Pa' Parker parlasse al microfono, per sentire quello che lui aveva da dire. Non aveva mai fatto un discorso in vita sua, prima di quel momento. Non sapeva come si faceva un discorso, ed era spaventato.

Pa' si chiese, confusamente, quello che avrebbe pensato Celia di tutto ciò che era successo. Era furibonda, probabilmente. E il piccolo Harry? Ma Harry avrebbe pensato che suo nonno era un eroe. E anche gli amici, alla birreria del Bianco. Sì, gli amici lo avrebbero considerato un eroe.

«Discorso,» tuonò la sala dei congressi, nella semplice maniera nella quale si manifestano i sentimenti di tutte le folle.

Tra quella nebbia di visi, Pa' riuscì a scorgere un volto… un volto che vedeva bene, chiaramente, come se fosse impresso nei suoi occhi. Jurg Tec, che gli sorrideva, gli sorrideva in quella strana maniera nella quale i marziani sorridono. Jurg Tec, il suo amico. Un maledetto marshy. Un marshy che aveva combattuto con lui, fianco a fianco, sulla superficie di Ganimede. Un marshy che aveva resistito insieme a lui all'orda dei mostri di metallo. Un marshy che aveva percorso insieme a lui quelle lunghe miglia amare e disperate.

C'era una parola, per definire tutto questo. Pa' sapeva che c'era una parola. Frugò disperatamente nel suo vecchio cervello, cercando quella sola parola che avrebbe detto tutta la storia.

E poi la trovò. Era una parola strana. Pa' la mormorò. Non aveva il suono giusto. Non era il tipo di parola che lui pronunciava. Nessuno se la sarebbe aspettata, dal vecchio Pa' Parker; era una parola che sarebbe stata meglio nella bocca del senatore Sherman Brown.

Forse avrebbero riso di lui, se la diceva. Forse lo avrebbero creduto solo un dannato, vecchio stupido.

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Si avvicinò al microfono e il tumulto si quietò. Tutti aspettavano.

«Compagni…» iniziò Pa', e si fermò.Era quella la parola. Adesso erano compagni. Marshy e

ferry. Avevano combattuto con odio feroce, ciascuno per la causa che riteneva giusta. Forse era stato necessario combattere. Forse la guerra era stata necessaria. C'era stato bisogno di quella guerra, forse. Ma era accaduto quarant'anni prima e tutta la violenza di quella guerra adesso era solo un sospiro nel vento… un ricordo vago e antico che spirava da un campo di battaglia dove l'odio e la violenza si erano consumati in una sola, livida, forse inutile vampata di energia.

Ma loro stavano aspettando. E non avevano riso.

CLIFFORD D. SIMAK

Reunion on Ganymede, di Clifford D. Simak. © 1938 by Street & Smith Publications, Inc., da Astounding Science Fiction. Traduzione di Ugo Malaguti. Reprinted by authorization of the Conde-Nast Publications, Inc., New York, and their agents, Panorama Literary Agency, Vienna.

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UNA STORIA DI UMILTA'

Abbiamo parlato ampiamente di Clifford D. Simak, in più occasioni (la più recente delle quali è stata offerta dal pre-cedente volume di Nova); con Cortesia intendiamo comple-tare il trittico simakiano iniziato con Riunione su Ganimede e proseguito con II peggiore esempio: e pensiamo che Cour-tesy, un lungo racconto che risale a quello che è stato il pe-riodo migliore di Simak (il periodo di City, Time and again, Time is the simplest thing, The ring around the Sun) e che molti considerano l’opera più amara e poetica del grande scrittore del Wisconsin, offre motivi d’interesse tali da giu-stificare le sue posizioni di preminenza nell’opera simakia-na.

In Courtesy troviamo una triplice tematica, che si svilup-pa attraverso una lunga teoria di visioni di poetica lucidità. Abbiamo la suggestione degli alieni di Simak, qui addirittu-ra identificati con un potere apparentemente trascendente; abbiamo una lunga e drammatica caratterizzazione umana; abbiamo, più di ogni altra cosa, un esempio della tematica mistico-religiosa onnipresente nell’opera simakiana, e per la quale si sono chiamati in causa, in varie circostanze, Theillard de Cardin e il panteismo, Gandhi e Martin Luther King, senza mai centrare perfettamente l’obiettivo, essendo il misticismo simakiano una lenta e costante evoluzione che da una base illuministica ha lentamente portato alla tra-scendenza, fino all’ultimo, disperato appello di una tra le opere più grandi della fantascienza — Infinito — che è stato anche l’ultimo grande capitolo, almeno fino a oggi, della produzione simakiana.

Qui siamo ancora nel più grande periodo della produzio-ne di Simak, e siamo a un racconto che si muove su diversi piani, assumendo, di volta in volta, le cadenze d’un dramma,

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e rivelandosi infine un lungo, appassionato ’dialogo' filoso-fico e una profonda lezione di umiltà.

Si tratta di un racconto che sfugge alle convenzioni e ai li-miti nei quali taluni hanno voluto inquadrare la science fic-tion: in un volume che ospita testi dell’importanza e della bellezza di Ginevra per tutti, Piccolo androide orfano, Il cu-stode della Luna, Tempesta su Giove, Fantasma Automatico, e che offre un brillante esempio di humor con Eric Frank Russell, James E. Gunn, Henry Kuttner e Walter Miller jr., di satira graffiante con Jack Williamson, e di gelido, affasci-nante realismo fantastico (l’apparente contraddizione di ter-mini può ben essere usata per definire l’opera di Blish), Cortesia rappresenta l’elemento più squisitamente umano e perciò ancor più drammatico; rappresenta una ricerca di soluzioni e di motivi che l’apparente peregrinare senza per-chè degli esploratori terrestri («Noi siamo odiati; tutti ci odiano, su tutti i pianeti,» questo l’amaro assunto della con-quista delle stelle) allontanano da quella dimensione com-prensibile, tranquilla e reale che solo convenzionalmente si può chiamare 'miracolo’: ma che ’miracolo’ forse non è.

Sappiamo che, come è avvenuto ovunque, anche in Italia questo lungo racconto di Clifford Simak sarà oggetto di lun-ghe discussioni, di studi e di appassionate letture; e possia-mo facilmente prevedere che il racconto presentato da Nova in questo volume diventerà in Italia, nel campo delle opere più brevi di Simak, quello che tra i romanzi è diventato City: qualcosa di più di un semplice lavoro letterario, ma un au-tentico, completo manifesto della tematica simakiana. ***

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Illustrazione: particolare di tavola di Virgil Finlay, da Fantastic

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CORTESIA

Il siero non serviva a niente. Erano le etichette a dirlo.Il dottor James H. Morgan si tolse gli occhiali e li ripulì

accuratamente, con lo stomaco stretto da una morsa di freddo terrore. Infilò nuovamente gli occhiali, li spostò sul naso con il dito grosso e sudato, per metterli nella posizione migliore. E poi guardò di nuovo. Aveva visto giusto anche la prima volta. La data di consegna del siero era almeno di dieci anni troppo vecchia.

Si girò lentamente, fece qualche passo, pesantemente, ver-so l’apertura della tenda, fermandosi davanti a essa; il suo corpo massiccio era incorniciato dall’apertura triangolare e le sue mani robuste afferrarono le funi, da entrambi i lati.

Fuori, le fantastiche brughiere di licheni si stendevano a perdita d’occhio, fino agli orizzonti grigi e squallidi. Il sole al tramonto era una luce torva e sanguigna a occidente, e a oriente, pensò il dottore, la notte cominciava già a calare il suo nero mantello, con quel velo di lucore purpureo che pa-reva calare come un sipario sulle brughiere e si distendeva veloce, come una massa di fumo insinuante.

Un vento freddo soffiava da oriente, già sfiorato dal gelo della notte, e agitava la tenda e le funi che il dottore teneva tra le dita.

« Ah, sì, » disse il dottor Morgan. « Le brughiere felici di Landro. »

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Un luogo solitario, si disse. Non era solitario soltanto per il suo squallore, per il suo aspetto selvaggio e alieno, ma la solitudine impregnava l’aria e il suolo, una solitudine che avrebbe fatto impazzire un uomo, se fosse rimasto solo con il vento, il sole rosso, la notte di porpora e i licheni e il silen-zio.

Come un grande cimitero, pensò, un luogo vuoto di morte. Eppure mancava dell’intima associazione del cimitero, della serena, triste dolcezza e dell’inevitabilità di un grande sepol-cro. Perchè un cimitero era il custode sacro dei silenzi di co-loro che un tempo avevano vissuto, e quel luogo era vuoto, un’immensa distesa di vuoto senza ricordi, senza passato.

Ma non per molto, pensò il dottor Morgan. Ormai non lo sarebbe stato per molto.

In piedi, immobile, guardò il fianco brullo della collina che dominava l’accampamento, e decise che sarebbe stato un luogo perfetto, per un buon cimitero.

Tutti i posti avevano lo stesso aspetto. Ovunque si girava lo sguardo, il paesaggio era sempre uguale. Era questo il guaio. Era impossibile distinguere un punto da un altro. Non c’erano alberi e non c’erano arbusti, solo i licheni squallidi e spogli e quelle strane macchie brulle che spuntavano qua e là, come una strana peluria sulla pelle nuda del pianeta, come pezze di un abito lacero indossato da un mendicante.

Benny Falkner si fermò sul sentiero, quando giunse sulla cima, e rimase immobile, paralizzato dalla paura che cresce-va dentro di lui. Paura della notte incombente e del suo gelo pungente, paura delle alture silenziose e di quelle chiazze brulle immerse nell’ombra, e a tutto questo si aggiungeva la paura più remota, eppure più terribile, dei piccoli nativi che in quello stesso momento avrebbero potuto essere nascosti dietro la cima della collina.

Alzò il braccio e si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte con una manica. Non avrebbe dovuto sudare, si disse,

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perchè faceva freddo, ora, e a ogni istante il freddo si faceva sempre più intenso, sempre più pungente. Tra un’ora, due al massimo, il freddo sarebbe stato così intenso da congelare un uomo che si fosse trovato all’aperto, senza protezione.

Cercò di combattere il terrore che lo soffocava, e gli face-va battere i denti, e per un istante rimase immobile, per con-vincersi di non essere vittima della paura.

Si era diretto a oriente, e questo significava che per rag-giungere di nuovo l’accampamento doveva dirigersi a occi-dente. Benché lui non potesse essere sicuro di essere andato a oriente per tutta la durata del cammino... avrebbe potuto spostarsi verso nord, e magari anche verso sud. Ma la devia-zione non poteva essere stata sufficiente, ne era certo, a sviarlo a tal punto da non essere più in grado di ritrovare l’accampamento, ritornando in linea diretta verso occidente.

Tra poco avrebbe visto il fumo dell’accampamento dei ter-restri. Qualsiasi collina, anche la prossima, qualsiasi altura successiva lungo il sentiero sinuoso, si era detto per rassicu-rarsi, lo avrebbe portato proprio sopra l’accampamento. Sa-rebbe salito ancora e là, sotto di lui, avrebbe visto l’accampa-mento, disseminato davanti ai suoi occhi, con il semicerchio di tende bianche che brillavano nella penombra del crepusco-lo, e con il sottile filo di fumo che si alzava dalla tenda più grande, quella del cuoco, dove « Orecchie di Pipistrello » Brady stava certamente ruggendo una delle sue canzonacce oscene.

Ma era stato un’ora fa, questo, quando il sole era stato più alto sull’orizzonte di almeno due palmi. Ricordava, ora, in piedi sulla cima della collinetta, che era stato un po’ nervoso, ma non apprensivo, non del tutto. Era stato impensabile, al-lora, che un uomo potesse perdersi allontanandosi dall’ac-campamento di un’ora appena di viaggio.

Ma ora il sole era tramontato e il freddo stava scivolando sull’immensa brughiera, e il vento spirava cantando una can-

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zone di solitudine che lui non aveva notato, quando la luce era stata buona.

Ancora un’altra collina, decise. Un’altra collina, e se non fosse stata quella buona, avrebbe rinunciato fino al mattino. Avrebbe trovato un riparo, da qualche parte, una parete roc-ciosa, qualcosa che gli potesse offrire protezione e riflettere il calore di un fuoco d’accampamento... se fosse riuscito a trovare qualcosa per accendere e alimentare un fuoco.

Rimase immobile e ascoltò il suono lamentoso del vento attraverso la brughiera, sotto di lui e dietro di lui, e gli parve di udire un pianto sommesso in quel suono, o forse era come un uggiolio... un uggiolio, come se il vento fosse stato ansio-so, come se avesse fiutato la sua pista, seguendo la sua trac-cia.

Poi udì l’altro suono, il suono morbido, ovattato che saliva per la collina, verso di lui.

Ira Warren sedeva dietro la sua scrivania e guardava con aria accusatrice le carte accumulate davanti a lui. Lavoro, documenti, rapporti. Riluttante, prese alcuni fogli dalla pila, e li dispose davanti a sè.

Quello stupido di Falkner, pensò. Gliel’ho detto e ripetuto, a tutti, tanto da seccarmi la lingua, gliel’ho detto e ripetuto che devono restare assieme, che nessuno deve andare in giro da solo, a vagabondare chissà dove.

Un branco di bambini, si disse con rabbia. Solo un branco di stupidi bambini ansiosi, appena usciti dalla scuola, freschi ancora del latte materno, tutti pieni di erudizione, pieni come tacchini, ma senza una briciola di senso comune. E nessuno di loro lo ascoltava. Era questa la cosa peggiore: nessuno di loro lo ascoltava.

Qualcuno picchiò contro l’apertura della tenda.« Avanti, » chiamò Warren.Il dottor Morgan entrò.« Buonasera, comandante, » disse.

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« Be’, » disse Warren, nervoso. « Che c’è? »« Be’, vede, » disse il dottor Morgan, e Warren si accorse

che sudava un poco. « Si tratta del siero. »« Il siero? »« Il siero, » disse il dottor Warren, « Non serve a niente. »

« Che cosa intende dire? » domandò Warren. « Ho molti guai da affrontare, dottore. Non posso giocare agli enigmi con lei, a proposito del suo siero. »

« E’ troppo vecchio, » disse Morgan. « Almeno di dieci anni. Non si può usare del siero invecchiato. Vede, potreb-be...»

« La smetta di blaterare, » ordinò Warren, seccamente. « Il siero è troppo vecchio, dice lei. Quando lo ha scoperto? » « Proprio adesso. »

« Intende dire in questo momento? »Morgan annuì, con aria infelice.Warren mise da una parte i documenti, con estrema cura e

deliberatamente. Posò le mani sul piano della scrivania, da-vanti a sè, e unì le punte delle dita.

« Mi dica, dottore, » disse Warren, parlando cautamente, come se stesse cercando nella mente le parole esatte da usa-re. « Da quanto tempo questa spedizione si trova su Landro? »

« Bene... » disse Morgan. « Già da un pezzo, direi. » Ri-fletté per un momento. « Sei settimane, per l’esattezza. »

« E il siero è rimasto qui per tutto il tempo? »« Be’, naturalmente, » disse Morgan. « E’ stato scaricato

dall’astronave insieme a tutte le altre cose. »« Non è stato lasciato da qualche parte, e lei lo ha appena

ritrovato? E’ stato portato immediatamente nella sua tenda? » « Naturalmente, » disse Morgan. « E’ stata la primissima cosa. Insisto sempre perchè sia applicata questa procedura. » « In ogni momento, nelle sei settimane trascorse, in ogni mo-mento di ogni giorno di queste sei settimane, lei avrebbe po-

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tuto esaminare il siero e scoprire che non serviva a niente? E’ esatto, dottore? »

« Penso di sì, » ammise Morgan. « E’ solo che io... »« Che non ne ha avuto il tempo, » suggerì Warren, dolce-

mente.« Be’, non questo, » disse Morgan.« Lei era, forse, troppo pressato da altri interessi? »« Be’, non esattamente. »« Lei si rendeva conto del fatto che, fino a una settimana

fa, avremmo potuto metterci in contatto con l’astronave, via radio, e che l’astronave avrebbe potuto invertire la rotta e ri-tornare a prenderci. E lo avrebbe fatto, se avessimo comuni-cato la notizia del siero. »

« Lo so... »« E lei sa che adesso l’astronave si trova al di là della por-

tata delle comunicazioni radio. Non possiamo avvertirla. Non possiamo richiamarla. Non avremo più alcun contatto con la razza umana per due anni. »

« Io, » disse Morgan, debolmente. « io... »« E’ stato bello conoscerla, » gli disse Warren. « Secondo

lei, quanto tempo dovrà ancora passare prima che siamo morti tutti? »

« Ci vorrà un’altra settimana, più o meno, prima che il vi-rus possa attaccarci, » disse Morgan. « In alcuni soggetti più resistenti il virus potrà impiegare anche sei settimane, prima di uccidere. »

« Due mesi, » disse Warren. « Tre, al massimo. Le sembra un calcolo giusto, dottor Morgan? »

« Sì, » disse Morgan.« C’è qualcosa che desidero sapere da lei, » disse Warren.

« Di che si tratta? » domandò Morgan.« Quando le capita di avere un momento libero, quando ne

avrà il tempo e non le arrecherà troppo scomodo, gradirei molto sapere come ci si sente a uccidere venticinque uomini,

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venticinque compagni. »« Io, » disse Morgan. « Io... »« E anche lei, naturalmente, » disse Warren. « Così fanno

ventisei. »“Orecchie di Pipistrello” Brady era una macchietta. Da più

di trent’anni, ormai, partiva per lunghe spedizioni planetarie con il comandante Ira Warren, benché, all’inizio, War- ren non fosse stato ancora un comandante, ma un cadetto. Ora erano ancora insieme, una coppia di esperti esploratori di pianeti. Benché nessuno, all’esterno, avrebbe scoperto che si trattava di una coppia, perchè Warren comandava le spedi-zioni e « Pipistrello » faceva il cuoco.

Warren prese una bottiglia, la posò sulla scrivania, e man-dò a chiamare « Pipistrello ».

Warren lo sentì arrivare con un certo anticipo sul suo in-gresso nella tenda. Aveva bevuto un bicchierino o due di troppo, e stava cantando a squarciagola, elencando le più enormi oscenità possibili.

Il cuoco entrò dall’apertura della tenda camminando rigido ed eretto, in linea retta, come se stesse seguendo una linea obbligata. Vide la bottiglia sul tavolo e la prese, senza de-gnare di un’occhiata i bicchieri disposti accanto a essa. Ab-bassò il livello del liquore di tre dita buone, e posò di nuovo la bottiglia. Poi prese la sedia che era stata sistemata davanti alla scrivania per lui.

« Che succede, adesso? » domandò. « Tu non mi mandi mai a chiamare, a meno che non ci sia qualche guaio. »

« Che cosa hai bevuto? » domandò Warren.« Orecchie di Pipistrello » fece un singhiozzo.« Qualcosina che ho inventato io. » Guardò il comandante

con aria di sfida. « Sarebbe bello poter portare qualcosina di pronto, ma adesso ci dicono che non possiamo. Quel poco che c’è, tu lo tieni sotto chiave. Quando un uomo ha sete, il bisogno gli aguzza l’inge... l’inge... l’inge... »

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« Ingegno, » disse Warren.« Ecco, proprio la parola giusta, » disse Orecchie di Pipi-

strello. « Proprio quella. »« Siamo in un pasticcio, Pipistrello, » disse Warren.« Ci siamo sempre, » disse Orecchie di Pipistrello. « Non

è più come ai vecchi tempi, Ira. Allora gli uomini erano uo-mini davvero. Ma adesso... »

« So quello che vuoi dire, » disse Warren.« Ragazzini, » disse Orecchie di Pipistrello, sputando a

terra in segno di disprezzo. « Nemmeno con i pannolini asciutti. Devi fargli da balia e... »

« Non è questo il pasticcio, » disse Warren. « Si tratta di qualcosa di grosso. Se non riusciamo a trovare il modo di uscirne, saremo tutti morti prima che siano passati due mesi. »

« Indigeni? » domandò Orecchie di Pipistrello.« Non gli indigeni, » disse Warren. « Benché sia molto

probabile che vogliano farci la festa, se solo ne avessero la possibilità. »

« Brutti clienti, » disse Orecchie di Pipistrello. « Uno di loro si è infilato nella mia tenda, e io l’ho cacciato a calci dall’accampamento, senza troppe cerimonie. Ha sbraitato un bel pezzo contro di me. La cosa non gli era piaciuta per nien-te. » « Non dovresti prenderli a calci, Pipistrello. »

« Be’, Ira, non l’ho preso davvero a calci. Questo era solo un modo di dire. Nossignore, non l’ho preso a calci. Gli ho tirato contro la scopa. Ho sempre saputo usare meglio la sco-pa dei miei piedi. Arrivo più lontano e... »

Allungò la mano e prese la bottiglia, abbassandone il livel-lo di un altro paio di dita.

« E questa crisi, Ira? »« Si tratta del siero, » gli disse Warren. « Morgan ha atteso

che l’astronave si allontanasse troppo, per poter stabilire un contatto, prima di controllarne l’efficacia. E non serve a

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niente... è troppo vecchio di almeno dieci anni. »Orecchie di Pipistrello parve stordito.« Così non potremo fare le iniezioni di vaccino, » disse

Warren. « E questo significa che moriremo tutti. Qui c’è quel virus mortale, il... il... non ricordo il nome. Ma fa lo stesso, lo sai anche tu. »

« Certo, » disse Orecchie di Pipistrello. « Certo che lo so anch’io. »

« Strano, » disse Warren. « Ti aspetteresti di trovare una cosa simile su uno dei pianeti tropicali, quelli coperti da giungle e paludi. Ma, no, devi trovarlo qui. Qualcosa che ri-guarda gli indigeni. Sono umanoidi. Sono fatti della nostra stessa sostanza. Così il virus ha sviluppato la capacità di at-taccare un sistema umanoide. E per lui, noi siamo materiale nuovo e appetibile. »

« Adesso non sembra dare alcun fastidio agli indigeni, » disse Orecchie di Pipistrello.

« No, » disse Warren. « Apparentemente, sono immuni. Le soluzioni possono essere due: hanno trovato una cura, o hanno sviluppato un’immunità naturale. »

« Se hanno trovato una cura, » disse Orecchie di Pipistrel-lo, « Noi possiamo tirargliela fuori. »

« E se non l’hanno trovata, » disse Warren, « Se la risposta è l’adattamento... allora siamo già morti. »

« Sarà meglio cominciare a lavorare su di loro, » disse Orecchie di Pipistrello. « Ci odiano e vorrebbero vederci cre-pare, ma troveremo il modo di tirare fuori la verità. »

« Tutto ci odia, sempre, » disse Warren. « Perchè, Pipi-strello? Noi facciamo del nostro meglio, e loro ci odiano sempre. Su ogni pianeta sul quale l’Uomo ha messo piede. Cerchiamo di fare in modo che ci apprezzino, facciamo tutto quel che possiamo per loro. Ma si offendono se li aiutiamo. O respingono la nostra amicizia. O ci scambiano per un branco di sfruttatori... così che, alla fine, noi perdiamo la pa-

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zienza e tiriamo contro di loro una scopa. »« E allora, » disse Orecchie di Pipistrello, con aria pia, « Il

grasso è sul fuoco. »« Mi preoccupo degli uomini, » disse Warren. « Quando

sapranno questo affare del siero... »« Non possiamo dire una cosa simile, » protestò Orecchie

di Pipistrello. « Non devono sapere niente. Lo scopriranno, dopo un poco, naturalmente, ma non subito. »

« Morgan è l’unico a saperlo, » disse Warren, « E Morgan chiacchiera. Non possiamo farlo tacere. Domattina tutto l’ac-campamento sarà al corrente. »

Orecchie di Pipistrello si alzò, pesantemente. Allungò la mano per prendere la bottiglia posata sulla scrivania.

« Passerò da Morgan, tornando indietro, » disse. « Farò in modo che non parli. » Bevve un lungo sorso, e posò la botti-glia. « Gli dipingerò il quadro di quanto gli accadrà se non tiene chiusa la bocca, » disse.

Warren restò seduto, appoggiandosi allo schienale della sedia, seguendo con lo sguardo la schiena di Brady che si al-lontanava. Sempre pronto nel momento del bisogno, pensò. Un uomo del quale lui si poteva fidare.

Orecchie di Pipistrello tornò indietro dopo tre minuti. Si fermò sulla soglia della tenda, e non mostrava più alcun se-gno di ubriachezza; il suo viso era solenne, gli occhi spalan-cati per il ricordo di quanto aveva visto.

« Si è ammazzato, » disse.Era la solenne verità.Il dottor James H. Morgan giaceva morto nella sua tenda,

con la gola squarciata con una precisione professionale che solo un chirurgo avrebbe potuto avere.

Verso mezzanotte la squadra di ricerca riportò al campo Falkner.

Warren lo guardò, stancamente. Il ragazzo era spaventato. Era tutto ammaccato, per avere girato troppo al buio, nella

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brughiera, ed era pallido come un cencio lavato.« Ha visto la nostra luce, signore, » disse Peabody. « E ha

gridato. L’abbiamo trovato così. »« Grazie, Peabody, » disse Warren. « Ci vediamo domatti-

na. Voglio parlare a Falkner. »« Sì, signore, » disse Peabody. « Sono felice di averlo tro-

vato, signore. »Vorrei averne di più, di uomini così, pensò Warren. Orec-

chie di Pipistrello, il vecchio esploratore planetario; Peabo-dy, un vecchio soldato, e Gilmir, l’ufficiale dalle tempie gri-gie e dall’aria severa. Sono questi gli uomini sui quali posso contare. Gli altri sono bambocci.

Falkner cercò di restare sull’attenti.« Vede, signore, » disse a Warren, « E’ andata così: mi era

parso di aver visto un germoglio... »Warren lo interruppe.« Lei sa, naturalmente, signor Falkner, che la prima regola

della spedizione è quella di non allontanarsi mai da soli; in nessuna circostanza qualcuno deve uscire da solo dall’ac-campamento. »

« Sì, signore, » disse Falkner. « Questo lo so... »« Lei si rende conto, » disse Warren, « Di essere vivo solo

per un incredibile gioco del destino. Avrebbe dovuto morire assiderato prima dell’alba, se non fossero arrivati prima gli indigeni a finirla. »

« Ho visto un indigeno, signore. Non mi ha dato fastidio. » « Allora la sua fortuna è doppia, » disse Warren. « Non acca-de spesso che un indigeno non abbia tempo da perdere per tagliare la gola a un essere umano. Nelle cinque spedizioni che sono giunte quassù prima di noi, gli indigeni hanno ucci-so diciotto uomini. Quei coltelli di pietra che hanno, le posso assicurare, fanno dei tagli molto profondi. »

Warren aprì un voluminoso quaderno, e, con estrema len-tezza, fece un’annotazione.

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« Signor Falkner, » disse. « Lei sarà confinato nell’accam-pamento per un periodo di due settimane, per avere infranto i regolamenti. Inoltre, durante questo periodo, lei sarà a dispo-sizione del signor Brady. »

« Il signor Brady, signore? il cuoco? »« Precisamente, » disse Warren. « Probabilmente lui le

chiederà di portare combustibile per il fuoco e di aiutarlo a preparare i pasti e a sbarazzarsi dei rifiuti e altri piccoli inca-richi del genere. »

« Ma io sono stato mandato in questa spedizione per com-piere delle osservazioni geologiche, non per aiutare il cuoco. » « E’ tutto vero, » ammise Warren. « Molto vero. Ma, allo stesso modo, lei è stato mandato in questa spedizione sotto precisi regolamenti. Lei ha considerato opportuno infrangere questi regolamenti, e io vedo opportuno, come risultato, di sottoporla a un procedimento disciplinare. Questo è tutto, si-gnor Falkner. »

Falkner si voltò, rigidamente, e si mosse verso l’apertura della tenda.

« Fra parentesi, » disse Warren. « Avevo dimenticato di dirle che sono lieto del suo ritorno. »

Falkner non rispose.Warren si irrigidì, per un momento, poi si calmò. Dopotut-

to, pensò, che importanza aveva? Tra qualche settimana niente avrebbe avuto importanza per lui e per Falkner, e per tutti gli altri.

Il cappellano fu il primo a presentarsi, al mattino. Warren era seduto sul bordo della branda, e si infilava i pantaloni, quando l’uomo entrò. Era freddo, e Warren stava tremando, malgrado il borbottio della stufetta da campo accesa accanto alla scrivania.

Il cappellano fu molto preciso e sbrigativo sul motivo del-la visita.

« Pensavo che fosse opportuno parlarle, » disse, « Sul

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modo di organizzare il servizio per il nostro caro amico scomparso. » « Quale caro amico scomparso? » domandò Warren, rabbrividendo e infilandosi una scarpa.

« Be’, il dottor Morgan, naturalmente. »« Capisco, » disse Warren. « Sì, suppongo che dovremo

seppellirlo. »Il cappellano s’irrigidì, quasi impercettibilmente.« Mi chiedevo se il dottore avesse delle convinzioni reli-

giose, qualche preferenza. »« Ne dubito davvero, » disse Warren. « Se fossi in lei, ri-

durrei la cerimonia al minimo indispensabile. Una cosa sem-plice. »

« E’ quello che pensavo anch’io, » disse il cappellano. « Poche parole, magari, e una semplice preghiera. »

« Sì, » disse Warren. « Una preghiera, mi raccomando. Avremo bisogno di molte preghiere. »

« Le chiedo scusa, signore?... »« Oh, » gli disse Warren. « Non faccia caso a quello che

dico. E’ molto presto, ecco tutto. »« Capisco, » disse il cappellano. « Mi chiedevo, signore,

se lei avesse qualche idea sul motivo per cui ha fatto questo. » « Chi, e che cosa? »

« Il motivo che ha indotto il dottore a suicidarsi. »« Oh, quello, » disse Warren. « Solo un carattere instabile,

immagino. »Si allacciò le scarpe, e si alzò.« Signor Barnes, » disse. « Lei è un uomo di Dio, e da

quanto ho potuto capire, uno dei migliori. Forse lei ha la ri-sposta a un problema che mi affligge. »

« Be’, » disse il signor Barnes, « Be’, io... »« Che cosa farebbe, » domandò Warren, « Se improvvisa-

mente scoprisse che le restano solo due mesi di vita? »« Be’, » disse il signor Barnes, « Penso che continuerei a

vivere più o meno come ho sempre vissuto. Magari facendo

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più attenzione alle condizioni della mia anima. »« Questa, » disse Warren, « E’ una risposta pratica. E, im-

magino, la più ragionevole che si possa dare. »Il cappellano lo guardò, con aria curiosa.« Non vorrà dire, signore... »« Si sieda, Barnes, » disse Warren. « Ho bisogno di lei,

ora. Per dirle la verità vera, non sono mai stato troppo con-vinto della faccenda di avere un prete nella spedizione. Per me è sempre stato un regolamento stupido. Ma immagino che venga sempre il momento in cui c’è bisogno di un uomo come lei. » Il cappellano sedette.

« Signor Barnes, » disse Warren. « Non le ho posto una domanda ipotetica. A meno che Dio non faccia qualche mi-racolo, saremo tutti morti tra altri due mesi. »

« Lei sta scherzando, signore. »« Niente affatto, » disse Warren. « Il siero è inservibile.

Morgan ha aspettato, per controllare, che fosse troppo tardi per avvertire l’astronave. Per questo si è suicidato. »

Osservò il cappellano attentamente, e il cappellano non mostrò alcun segno di paura.

« Avevo pensato, » disse Warren, « Di non dirle niente. Non dirò niente agli altri... almeno per qualche tempo. »

« Ci vuole un po’ di tempo, » disse il signor Barnes, « Per accettare una notizia di questa portata. Lo trovo difficile an-ch’io. Forse dovrebbe dirlo agli altri, dovrebbe dare loro la possibilità... »

« No, » disse Warren.Il cappellano lo fissò.« Che cosa spera, Warren? Cosa si aspetta che accada? » «

Un miracolo, » disse Warren.« Un miracolo? »« Certo, » disse Warren. « Lei crede nei miracoli. Deve

credere. »« Non lo so, » disse il signor Barnes. « Ci sono certi mira-

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coli, naturalmente... potremo chiamarli miracoli allegorici, e a volte gli uomini leggono in essi più di quanto non vi fosse da leggere, nelle intenzioni. »

« Io sono molto più pratico, » disse Warren, seccamente. « C’è il miracolo dato dal fatto che gli indigeni di questo pia-neta sono umanoidi come noi, e non hanno bisogno di inie-zioni di vaccino. C’è un miracolo potenziale nel fatto che solo i primi esseri umani atterrati sul pianeta hanno tentato di vivere su Landro senza l’aiuto delle iniezioni di vaccino. »

« Dato che lei ne parla, » disse il cappellano, « C’è anche il miracolo della nostra presenza qui. »

Warren battè le palpebre.« E’ giusto, » disse. « Mi dica, perchè pensa che noi siamo

qui? Forse si tratta di un destino divino. O l’irrevocabile ese-cuzione dei voleri delle forze misteriose che muovono l’Uo-mo lungo la sua strada. »

« Noi siamo qui, » disse Barnes, « Per portare avanti un la-voro di esplorazione che è stato eseguito, fino a ora, da altre squadre d’esplorazione che ci hanno preceduti. »

« E che sarà continuato, » disse Warren, « Dalle squadre di esplorazione che verranno dopo di noi. »

« Lei dimentica, » disse il cappellano, « Che moriremo tut-ti. Saranno molto cauti, prima di mandare un’altra spedizione a sostituire una che è stata spazzata via completamente. » « E lei, » disse Warren, « Dimentica il miracolo. »

Il rapporto era stato scritto dallo psicologo che aveva ac-compagnato la terza spedizione su Landro. Warren era riu-scito, dopo avere frugato per molto tempo tra le montagne di esemplari in quadruplice copia, a trovarne una copia.

« Scemenze! » disse, e colpì l’incartamento col pugno.« Avrei potuto dirtelo io, » fece Orecchie di Pipistrello, «

Prima che lo leggessi. Non c’è nulla che uno di quei caccia-tori di nuvole possa insegnare a un veterano come me su questi a... abo... abori... »

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« Aborigeni, » disse Warren.« Ecco la parola, » disse Orecchie di Pipistrello. « Proprio

la parola che cercavo. »« Qui dice, » dichiarò Warren, « Che gli indigeni di Lan-

dro possiedono un acuto senso della dignità, in equilibrio as-sai delicato... sono le esatte parole che usa... e un preciso co-dice d’onore, quando trattano tra di loro. » Orecchie di Pipi-strello sbuffò, e allungò la mano verso la bottiglia. Bevve un sorso, e scosse la bottiglia, guardando con aria insoddisfatta il liquido che era rimasto sul fondo.

« Sei sicuro, » disse, « Di avere soltanto questo? »« Dovresti saperlo, » esclamò Warren.« Consolante, » disse Orecchie di Pipistrello, scuotendo il

capo. « Molto consolante. »« Dice anche, » proseguì Warren, « Che gli indigeni pos-

siedono un sistema che potremmo definire di protocollo, an-che se su una base alquanto primitiva. »

« Non so niente di questa faccenda del protocomesichia-ma,» disse Orecchie di Pipistrello. « Ma quella parte che ri-guarda il codice d’onore mi colpisce. Be’, quegli sporchi av-voltoi ruberebbero un centesimo posato sull’occhio di un morto. Io tengo sempre la scopa pronta, e quando uno di loro si fa vedere... » « Il rapporto, » disse Warren, « Affronta la faccenda in maniera molto esauriente. La spiega. »

« Non ho bisogno di spiegazioni, » insistè Orecchie di Pi-pistrello. « Loro vogliono semplicemente quello che tu hai, così si infilano di soppiatto in casa tua e te lo prendono. »

« Dice, qui, che è come rubare a un ricco, » spiegò War-ren. « Come quando un bambino vede un campo nel quale c’è un milione di cocomeri. Il bambino non riesce a trovare niente di male nel prendere un cocomero da un intero milio-ne. »

« Noi non abbiamo un milione di cocomeri, » disse Orec-chie di Pipistrello.

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« E’ solo un’analogia, » disse Warren. « La roba che ab-biamo qui deve sembrare ancor più di un milione di cocome-ri ai nostri piccoli amici. »

« E’ lo stesso, » protestò Orecchie di Pipistrello. « Faranno meglio a stare alla larga dalla mia tenda... »

« Piantala, » disse Warren, con rabbia. « Io ti faccio venire qui per parlare con te, e tu riesci soltanto a bere il mio liquo-re e a lamentarti per la tua tenda. »

« Va bene, » disse Orecchie di Pipistrello. « Va bene. Che cosa vuoi sapere? »

« Che cosa stiamo facendo, per stabilire contatti con gli in-digeni? »

« Non possiamo stabilire un contatto, » disse Orecchie di Pipistrello, « Se non riusciamo a trovarli. Erano qui intorno, più fitti dei pidocchi, prima che ne avessimo bisogno. Ades-so che ne abbiamo bisogno, non riesci a trovarne neppure un pelo. »

« Come se sapessero che abbiamo bisogno di loro, » disse Warren.

« Come possono saperlo? » domandò l’altro.« Non posso dirtelo, » fece Warren. « Era solo un’idea. »« Se riesci a trovarli, » domandò il cuoco, « Come li farai

parlare? »« Cercherò di corromperli, » disse Warren. « Di comprarli.

Offrirò tutto quello che abbiamo. »Orecchie di Pipistrello scosse il capo.« Non funzionerà. Perchè sanno che devono solo aspettare.

Se riescono ad aspettare abbastanza, quello che abbiamo sarà tutto loro, senza bisogno di chiedercelo. Io avrei un sistema migliore. »

« Neppure il tuo sistema funzionerebbe. »« Comunque, stai perdendo il tempo, » gli disse il cuoco. «

Loro non hanno nessuna cura. E’ solo un ada... ada... ada... »« Adattamento. » « Certo, » disse Orecchie di Pipistrello.

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« E’ quello che volevo dire. »Prese la bottiglia, la scosse, la misurò con il pollice e poi,

con un gesto improvviso, la finì.Si alzò in piedi.« Ho qualcosa da preparare, » disse. « Tu resta qui, e cerca

di risolvere il problema. »Warren rimase seduto in silenzio nella tenda, ascoltando i

passi del cuoco che si allontanavano, nell’accampamento.Non c’era speranza, naturalmente. Doveva averlo saputo

fin dall’inizio, lo capiva adesso, eppure aveva rimandato l’accettazione di questa verità. L’aveva rimandata, parlando di miracoli e accarezzando la speranza che gli indigeni cono-scessero una cura e una risposta... e la risposta degli indigeni, la cura degli indigeni, lo capiva adesso, era ancor più fanta-stica della speranza di un miracolo. Perchè come ci si poteva aspettare che quel piccolo popolo dagli occhi di civetta sa-pesse qualcosa di medicina, quando non sapeva nulla di ab-bigliamento e di stoffe, quando quegli indigeni portavano soltanto dei rozzi coltelli di pietra, quando i loro fuochi da campo erano sempre una laboriosa conquista, raggiunta con l’uso faticoso della pietra focaia?

Sarebbero morti, tutti e venticinque, e nei giorni futuri i piccoli indigeni dagli occhi di civetta sarebbero venuti mar-ciando orgogliosamente, non più in maniera furtiva, e avreb-bero spolpato l’accampamento, fino all’ultimo osso.

Collins fu il primo ad andarsene. Morì tra atroci sofferen-ze, come tutti gli uomini colpiti dal particolare virus di Lan-dro. Prima della sua morte, Peacock si era messo a letto con il sordo mal di testa che annunciava l’inizio della malattia. In seguito, gli uomini caddero come birilli. Urlarono e si la-mentarono, nel delirio, giacquero come morti per giorni e giorni prima di morire davvero, mentre una spaventosa feb-bre li ardeva e li divorava, come un vorace animale giunto si-lenziosamente dalle brughiere.

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C’era ben poco da fare. Si poteva cercare di farli stare co-modi, di lavarli e di lavare e cambiare gli abiti e le coperte del letto, nutrirli con il brodo caldo che Orecchie di Pipistrel-lo preparava in grandi pentole, nella sua cucina, assicurarsi che ci fosse sempre dell’acqua fresca per le gole arse dalla febbre.

All’inizio le tombe furono profonde, e delle croci di legno furono piantate su di esse, con il nome e altre informazioni dipinte sulla croce. Poi le tombe furono soltanto delle fosse poco profonde, perchè c’erano sempre meno braccia per sca-varle, e meno forza in quelle braccia.

Per Warren fu un incubo sospeso nell’etemità... un inces-sante giro di visite per assistere i suoi uomini malati, per aiu-tare a scavare le fosse, per scrivere sul giornale della spedi-zione i nomi dei morti. Il sonno veniva in brevi folate, quan-do lui riusciva a catturarlo o quando era esausto a tal punto da barcollare, da non riuscire più a tenere gli occhi aperti. Il cibo era una cosa che Orecchie di Pipistrello portava e dispo-neva davanti a lui, e che lui inghiottiva senza sapere cosa fosse, senza sentirne neppure il sapore.

Il tempo era una cosa dimenticata, e lui perse ogni traccia dei giorni che passavano. Chiese quale giorno fosse, e nessu-no parve saperlo, e nessuno parve considerare la cosa impor-tante. Il sole si alzava e il sole tramontava, le brughiere si stendevano immutabili fino agli orizzonti grigi, mentre dagli orizzonti soffiava il vento di solitudine.

Vagamente, si rese conto che c’erano sempre meno uomi-ni a lavorare, accanto a lui, e che c’erano sempre meno uo-mini malati distesi sulle brande. E un giorno sedette, nella sua tenda, e guardò, dall’altra parte della scrivania, un altro volto scavato e stanco, e capì che la fine era vicina.

« E’ una cosa crudele, signore, » disse il volto scavato.« Sì, signor Barnes, » disse Warren. « Quanti ne rimango-

no? »

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« Tre, » disse il cappellano. « E due sono quasi alla fine. Il giovane Falkner sembra migliorato, però. »

« Qualcuno è rimasto in piedi? »« Orecchie di Pipistrello, signore. Soltanto lei e io e Orec-

chie di Pipistrello. »« Perchè non lo prendiamo anche noi, Barnes? Perchè sia-

mo ancora qui? »« Nessuno lo sa, » disse il cappellano. « Ho la sensazione

che non riusciremo a sfuggirgli. »« Lo so, » disse Warren. « Anch’io ho quella sensazione. »

Orecchie di Pipistrello entrò nella tenda, e posò un secchio sul tavolo. Ne estrasse una scodella, che traboccava e la por-se a Warren.

« Che cos’è, Orecchie di Pipistrello? » domandò Warren. « Qualcosa che ho preparato, » disse Orecchie di Pipistrello, « Qualcosa di cui hai bisogno. »

Warren sollevò la scodella e la vuotò d’un fiato. Il liquido scese come un rivoletto di fuoco fin nello stomaco, gli incen-diò la gola ed esplose nella testa.

« Patate, » disse Orecchie di Pipistrello. « Le patate produ-cono della roba molto potente. Sono stati gli irlandesi a sco-prirlo, tanti e tanti anni fa. »

Prese la scodella dalle mani di Warren, tornò a immergerla nel secchio, e la porse a Barnes.

Il cappellano esitò.Orecchie di Pipistrello gli gridò:« Beva, amico. Le darà un pò di calore. »Il prete bevve, tossì, posò di nuovo la scodella sul tavolo,

vuota.« Sono tornati, » disse il cuoco.« Chi è tornato? » domandò Warren.« Gli indigeni, » disse Orecchie di Pipistrello. « Tutt’intor-

no a noi, in attesa della fine. »Ignorò sdegnosamente la scodella, sollevò il secchio con

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entrambe le mani, e lo portò alle labbra. Un po’ del liquore gli cadde dalla bocca, e gli macchiò di scuro la camicia.

Posò di nuovo il secchio sul tavolo, si asciugò la bocca con la mano pelosa.

« Potrebbero almeno avere la decenza di tenersi alla larga, » disse. « Di non farsi vedere, fino a quando tutto non sarà finito. Ne ho sorpreso uno che usciva di soppiatto dalla tenda di Falkner. Un vecchio gufo grigio. Ho cercato di prenderlo, ma mi è sfuggito. »

« La tenda di Falkner? »« Certo. Peggio di un avvoltoio. Frugare e curiosare prima

che un uomo sia morto. Neanche la decenza di aspettare che non ci sia più. Non ha preso niente, però, almeno mi sembra. Falkner dormiva. Non l’ha nemmeno svegliato. »

« Dormiva? Ne sei certo? »« Certissimo, » disse Orecchie di Pipistrello. « Respirava

in maniera naturale. Ho intenzione di tirar fuori il mio fucile e di fare un po’ di tiro al bersaglio, così, per provare. Inse-gnerò a quelli lassù... »

« Signor Brady, » domandò Barnes, « Lei è certo che Fal-kner stesse respirando in maniera naturale? Non era in coma? Non era morto? »

« Sono in grado di capire quando un uomo è morto, » gri-dò Orecchie di Pipistrello.

Jones e Webster morirono durante la notte. Warren trovò Orecchie di Pipistrello al mattino, disteso al suolo accanto alla stufa spenta, con il secchio di liquore, vuoto, accanto a lui. Dapprima pensò che il cuoco fosse soltanto ubriaco, e poi riconobbe i segni sul suo corpo. Lo trascinò fino alla branda, lo distese sopra di essa, e poi uscì a cercare il cappel-lano.

Lo trovò nel cimitero, con un badile in mano, e con le mani rosse per le piccole ferite e le scorticature.

« Non sarà profonda, » disse il signor Barnes, « Ma li co-

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prirà. Non posso fare di meglio. »« Orecchie di Pipistrello l’ha preso, » gli disse Warren.Il cappellano si appoggiò al manico del badile, ansimando

per la fatica.« Strano, » disse. « E’ strano pensare a lui. Orecchie di Pi-

pistrello. Così robusto, così vivo. Era una torre di forza.»Warren allungò la mano verso il badile.« Finisco io, » disse, « Se lei andrà a prepararli. Io non

posso... non ho il coraggio di toccarli. »Il cappellano gli diede il badile.« E’ strano, » disse, « Il caso del giovane Falkner. »« Ieri ha detto che stava un po’ meglio. Era un’idea? »Barnes scosse il capo.« Sono andato a vederlo. E’ sveglio e lucido e la febbre è

scomparsa. »Si guardarono in viso, per un lungo momento, e ciascuno

cercava di nascondere la speranza che voleva trasparire dal suo volto.

« Lei pensa... »« No, » disse Barnes.Ma Falkner continuò a migliorare. Tre giorni più tardi riu-

scì a mettersi a sedere da solo. Sei giorni più tardi era in pie-di, con gli altri due, accanto alla tomba nella quale avevano sepolto Orecchie di Pipistrello.

Ed erano rimasti in tre. Tre, su ventisei.Il cappellano chiuse il suo libro e se lo infilò in tasca.

Warren prese il badile, e coprì di terriccio la fossa. Gli altri due lo seguirono con lo sguardo, in silenzio, mentre la fossa si colmava, lentamente, deliberatamente, perchè Warren prendeva tempo, perchè non c’era nessun altro compito a spingerlo, a fargli fretta... la tomba fu colma, e poi livellata con gentili colpi di badile.

E poi i tre discesero insieme il pendio, non tenendosi sot-tobraccio, ma tanto vicini da potersi tenere sottobraccio... ri-

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tornarono, insieme, verso le bianche tende dell’accampamen-to.

E rimasero ancora in silenzio.Era come se essi capissero, in quel momento, il valore de-

finitivo e simbolico del silenzio calato sulla terra e sulla bru-ghiera e sull’accampamento, e sui tre che erano rimasti dei ventisei della spedizione.

Falkner disse:« Non c’è niente di strano, in me. Non c’è niente di diver-

so da chiunque altro. »« Deve esserci, » insistè Warren. « Lei è sopravvissuto al

virus. L’ha colpito e lei ne è uscito vivo. Deve esserci un motivo. »

« Voi due, » disse Falkner, « Non l’avete mai preso. An-che per questo dev’esserci un motivo. »

« Non possiamo esserne sicuri, » disse il cappellano Bar-nes, parlando piano.

Warren sfogliò, con rabbia, i suoi appunti.« Abbiamo esaminato tutto, » disse. « Abbiamo esaminato

tutto quello che lei sa, tutto quello che lei ha potuto e saputo ricordare .. a meno che non ci nasconda qualcosa ancora. »

« Perchè dovrei nascondere qualcosa? » domandò Falkner.« Tutta la storia dell’infanzia, » disse Warren. « Le solite

cose. Morbillo, tosse cattiva in forma leggera, raffreddori... paura del buio. Normali abitudini di alimentazione, normale accettazione della scuola e degli obblighi sociali. Un caso come potrebbero essercene migliaia. Ma deve esserci una ri-sposta. Qualcosa che lei ha fatto... »

« Oppure, » disse Barnes, « Anche qualcosa che ha pensa-to. »

« Uh? » domandò Warren.« Quelli che potrebbero darci la risposta sono sulla collina,

» disse Barnes. « Lei e io, Warren, stiamo incespicando lun-go un sentiero che non siamo attrezzati a percorrere. Un me-

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dico, uno psicologo, anche uno specialista di psicologia alie-na, uno statistico... ciascuno di loro avrebbe il suo contributo da offrire. Ma sono morti. Lei e io stiamo cercando di fare una cosa per la quale non siamo attrezzati. Potremmo avere la risposta proprio sotto il nostro naso, e non saremmo capaci di riconoscerla. »

« Lo so, » disse Warren. « Lo so. Possiamo solo cercare di fare del nostro meglio. »

« Vi ho detto tutto quello che potevo, » disse Falkner, teso. « Tutto quello che so. Vi ho detto cose che non avrei detto a nessuno, in nessun’altra circostanza. »

« Lo sappiamo, ragazzo, » disse Barnes, in tono gentile. « Lo sappiamo che ci ha detto tutto. »

« Da qualche parte, » insistè Warren. « In qualche punto della vita di Benjamin Falkner, dev’esserci una risposta... una risposta alla cosa che l’Uomo deve sapere. Qualcosa che lui ha dimenticato. Qualcosa che non ci ha detto, non renden-dosene conto. O, molto più probabilmente, qualcosa che lui ci ha detto, e che noi non abbiamo saputo riconoscere. »

« O, » disse Barnes, « Qualcosa che nessuno, all’infuori di uno specialista, potrebbe riconoscere. Qualche strana ’ diffe-renza ’ nel corpo o nella mente. Qualche sottile mutazione che nessuno potrebbe sospettare. O perfino... Warren, lei ri-corda di avermi parlato di un miracolo. »

« Sono stanco, » disse Falkner. « Sono tre giorni, ormai, che mi avete esaminato, passato al setaccio, soppesato, inter-rogato, sezionato ogni pensiero... »

« Rivediamo di nuovo l’ultima parte, » disse Warren, stan-camente. « Quando lei si era perduto. »

« Ne abbiamo già parlato, » disse Falkner, « Almeno cento volte. »

« Un’altra volta, » disse Warren. « Un’altra volta soltanto. Lei era in piedi, lassù, sul sentiero, ha detto, quando ha senti-to quei passi salire verso di lei. »

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« Non erano dei passi, » disse Falkner. « All’inizio non ho capito che si trattava di passi. Era soltanto un suono. »

« E l’ha spaventata? »« Mi ha terrorizzato. »« Perchè? »« Be’, il buio, il fatto di essermi perduto, e... »« Stava pensando agli indigeni? »« Be’, sì, di quando in quando. »« Più che di quando in quando? »« Più che di quando in quando, » ammise Falkner. « Forse

ci pensavo sempre. Dal momento in cui mi sono reso conto di essere perduto, forse. In fondo alla mente. »

« Finalmente, si è reso conto che si trattava di passi? »« No. Non ho capito di che si trattava, finché non ho visto

l’indigeno. »« Un solo indigeno? »« Uno solo. Vecchio. Il pelo era tutto grigio, e aveva una

cicatrice sul viso. Si vedeva la linea bianca, contorta. »« E’ sicuro della cicatrice? »« Sì. »« E’ sicuro che fosse vecchio? »« Sembrava vecchio. Era tutto grigio. Camminava lenta-

mente, e zoppicava un poco. »« E lei non ha avuto paura? »« Sì, naturalmente ho avuto paura. Ma non la paura che mi

sarei aspettato di avere. »« Lo avrebbe ucciso, se ne avesse avuto la possibilità? » «

No, non lo avrei ucciso. »« Nemmeno per salvarsi la vita? »« Oh, certo. Ma non ho pensato a questo. Soltanto... be’,

non volevo scontrarmi con lui; ecco tutto. »« L’ha visto bene? »« Sì, molto bene. Mi è passato davanti, non più distante di

quanto ora non sia lei, signore. »

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« Lo riconoscerebbe, se lo rivedesse? »« L’ho riconosciuto... »Falkner si fermò, sbalordito.« Un momento, » disse. « Un momento! »Sollevò la mano, e premette con forza la fronte. I suoi oc-

chi, d’un tratto, assunsero un’espressione attonita, colpita.« L’ho rivisto, » disse. « L’ho riconosciuto. So che era lo

stesso. »Warren lo interruppe, rabbiosamente.« Perchè non ci ha detto... »Ma Barnes prevenne la sua obiezione.« Lei l’ha rivisto. Quando? »« Nella mia tenda. Quando ero malato. Ho aperto gli occhi

e lui c’era, proprio davanti a me. »« Stava in piedi davanti a lei? Senza fare niente? »« Era in piedi e mi guardava. Come se avesse voluto in-

ghiottirmi con quei suoi grandi occhi gialli. Poi lui... lui... » Aspettarono che il ricordo si facesse strada nella mente del giovane Falkner.

« Stavo male, » disse Falkner. « Ero fuori di me, forse. Non capivo molto. Non posso essere sicuro di quanto è acca-duto. Ma mi è sembrato che tendesse le braccia e mi toccas-se, una zampa su una tempia, una zampa sull’altra. »

« L’ha toccata? Veramente, fisicamente toccata? »« Con dolcezza, » disse Falkner. « Con infinita dolcezza.

Solo per un istante. Poi mi sono addormentato. »« Siamo andati troppo avanti, » disse Warren, impaziente.

« Ritorniamo sul sentiero. Lei ha visto l’indigeno... »« L’abbiamo già ripetuto tante volte, » disse Falkner, stan-

camente.« Proviamo per l’ultima volta, » disse Warren. « Lei ha vi-

sto passare l’indigeno vicinissimo a lei, quando l’ha sorpas-sato. Intende dire che l’indigeno è uscito dal sentiero e le ha girato intorno... »

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« No, » disse Falkner. « Non voglio dire niente di simile. Sono stato io a uscire dal sentiero. »

Bisogna mantenere la dignità umana, diceva il manuale. Sopra ogni altra cosa, la dignità umana e il prestigio umano devono essere tenuti alti. Gentilezza, sì. E collaborazione. E anche fratellanza. Ma la dignità era al di sopra di tutto que-sto.

E troppo spesso la dignità umana era anche l’arroganza umana.

La dignità umana non ti permetteva di uscire da un sentie-ro. Era l’altra creatura che doveva uscirne, e girare intorno a te. Implicitamente, la dignità umana assegnava automatica-mente una posizione d’inferiorità a tutte le altre forme di vita.

« Signor Barnes, » disse Warren. « E’ stata l’imposizione delle mani. »

L’uomo sulla branda girò il capo, sul guanciale, e guardò Warren, come se fosse stato sorpreso di vederlo là. Le labbra sottili si mossero a fatica, in quel viso pallido, e le parole uscirono con estrema lentezza, deboli, quasi inaudibili.

« Sì, Warren, è stata l’imposizione delle mani. Un potere che queste creature possiedono. Una specie di potere simile a quello di Cristo, che queste creature possiedono e che nessun essere umano ha. »

« Ma quello era un potere divino. »« No, Warren, » disse il cappellano, « Non necessariamen-

te. Non doveva essere divino per forza. Potrebbe trattarsi di un potere molto reale, molto umano, che si accompagna alla perfezione mentale o spirituale. »

Warren si curvò in avanti. Era seduto su uno sgabello, ac-canto alla branda, e respirava lentamente.

« Non ci credo, » disse. « Non posso. Quelle creature dagli occhi di civetta non possono... »

Sollevò lo sguardo, e guardò il cappellano. Il viso di Bar-

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nes si era arrossato, per una vampata improvvisa di febbre, e il suo respiro era irregolare e affannoso. Aveva gli occhi chiusi, e pareva già morto.

C’era stato quel rapporto scritto dallo psicologo della terza spedizione. Aveva parlato di dignità e di un preciso codice d’onore e di una forma abbastanza primitiva di protocollo. E questo, naturalmente, era appropriato; faceva parte dei pezzi del rompicapo.

Ma l’Uomo, intento a pensare alla propria dignità e al pro-prio prestigio, non aveva mai accordato a nessun’altra crea-tura una forma di dignità. Era stato disposto a essere gentile, se la sua gentilezza fosse stata apprezzata nelle maniere do-vute. Era stato pronto ad aiutare, se il suo aiuto fosse stato considerato un’attestazione della sua superiorità. E lassù, su Landra, non si era neppure disturbato molto a essere gentile o servizievole, non aveva mai neppure sognato per un mo-mento che i piccoli indigeni dagli occhi di civetta fossero stati qualcosa di più di creature dell’età della pietra, una noia e un fastidio, da non prendere mai troppo sul serio, anche quando si rivelavano, a volte, una velata minaccia.

Fino a che, un giorno un ragazzo spaventato era uscito dal sentiero per lasciar passare un indigeno.

« Cortesia, » disse Warren. « Ecco la risposta: cortesia, e l’imposizione delle mani. »

Si alzò dallo sgabello e uscì dalla tenda, e incontrò Falkner che stava arrivando.

« Come sta? » domandò Falkner.Warren scosse il capo.« Come gli altri. E’ arrivato tardi, ma è lo stesso. »« Due soli, » disse Falkner. « Restiamo solo in due, su

ventisei. »« Non due, » gli disse Warren. « Solo uno. Soltanto lei. »

« Ma, signore, lei è... »Warren scosse il capo.

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« Ho mal di testa, » disse. « Comincio a sudare un poco. Le gambe mi tremano. »

« Forse... »« L’ho visto troppe volte, » disse Warren, « Per cercare di

illudermi, adesso. »Tese la mano, afferrò una fune della tenda, e si appoggiò,

raddrizzando le spalle.« Non ho avuto una sola possibilità, » disse. « Io non sono

uscito da nessun sentiero. »

Courtesy, di Clifford D. Simak, © 1952 by Street & Smith Publications, da Astounding Science Fiction - now Analog.

Traduzione di Ugo Malaguti. Reprinted by authorization of the author’s agents, the Conde-Nast Publishing Co., New

York, and Kurt Luif, Vienna.

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L’ESTERNODELLO SPAZIO INTERNO

Che straordinario gioiello il racconto di Simak che a que-sto punto state per leggere! Apparso nel 1972, fa parte delle opere scritte dall’Autore nel perìodo di eccezionale creativi-tà che vede la comparsa di alcune tra le sue opere fonda-mentali, come La bambola del destino, I giorni del silenzio e La scelta degli dei.

Nel perìodo durante il quale ancora si discettava di spazio interno e di spazio esterno, durante il quale la presunzione di innovatori non sempre all’altezza della situazione cercava di cancellare o ridimensionare il lavoro di autentici maestri di stile e di concetti come lo erano stati i grandi creatori di universi della prima fantascienza, Simak, con la perenne aria di scusa che lo contraddistingueva, senza pretendere di atteggiarsi a maestro - quando invece lo era - stava pren-dendo per mano la science fiction e la rivoltava come un guanto. Lo aveva fatto già con lo straordinario Infinito: la sua ricerca dell’interiorità dell’intelligenza che nasce e si confronta con la realtà dell' habitat esterno, fino a ritrovare la sua dimensione e la sua libertà, è una costante che ritro-viamo già nei massimi capolavori dei primi anni '50, quali Oltre l’invisibile e City (che nella loro recente e definitiva edizione Perseo stanno conoscendo un consenso senza pre-cedenti di pubblico e critica, sia detto per inciso), ma che alla svolta degli anni '70 l’Autore porta a profondità notevo-lissime e a una qualità eccezionale.

La storia così semplice, anch’essa in pura soggettiva, del-l'Osservatore che acquista coscienza di sé su di un lontano pianeta di una sconosciuta stella, è quasi la sintesi del cam-mino di ricerca simakiano di quegli anni. Qui superiamo a livello concettuale, ma con un profondo, vivissimo coinvolgi-mento emotivo, gli squilibri tra spazi interni e spazi esterni

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che sono stati il grande equivoco di ogni tentativo di rinno-vamento letterario di quegli anni. Non è l’uno che domina l’altro, o viceversa, ci dice Simak: è l’accettazione recipro-ca, è la libertà del primo che trova un'armonia con la realtà incontestabile dell’altro, ciò che conta. E in questo raccon-to, nella sua armoniosa semplicità, abbiamo un modello di rara bellezza e di unica efficacia. In una parola, abbiamo un’altra tappa del lucido e coerente discorso simakiano.

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L’OSSERVATORE

Esisteva. Sia che si fosse risvegliato da un lungo sonno, o che fosse stato acceso, o che quello fosse il primo istante del-la sua creazione, non aveva modo per determinarlo. Non c’e-ra alcun ricordo di un altro tempo, né di un altro luogo.

Le parole venivano a galla per esprimere ciò che lui vole-va esprimere. Parole che uscivano dal nulla, simboli del tutto inattesi... risvegliate o riaccese o appena create, come era stato per lui.

Era in un luogo rosso e giallo. La terra era rossa. Il cielo era giallo. Un chiarore gravava sopra la terra rossa, nel cielo giallo. Un liquido gorgogliava scendendo lungo un canale scavato nella terra.

Passò ancora un po’ di tempo ed egli ne seppe di più, ebbe una comprensione migliore. Seppe che il chiarore era un sole. Seppe che il liquido che correva era un torrente. Il li-quido era un composto, ma non era fatto di acqua. Forme vi-venti spuntavano dal suolo rosso. I loro tronchi erano verdi. In cima portavano dei frutti purpurei.

Adesso aveva dei nomi, dei simboli d’identificazione di cui poteva servirsi... vita, liquido, terra, cielo, rosso, giallo, porpora, verde, sole, chiarore, acqua. A ogni istante che pas-sava lui trovava nuove parole, nuovi nomi, nuovi termini. E poteva vedere, anche se "vedere” forse non era il termine più appropriato, perché non aveva occhi. Né gambe. Né braccia.

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Né corpo.Non aveva occhi e non gli sembrava neppure di avere un

corpo. Non aveva alcun senso della propria posizione... in piedi o sdraiato o seduto. Poteva guardare dove voleva senza voltare la testa, perché non aveva testa. Anche se, e questo era strano, gli sembrava di occupare una specifica posizione in relazione al paesaggio.

Guardò in alto, direttamente nel cielo, guardò il chiarore del sole e poté fissarlo malgrado la luce fosse così intensa, perché stava guardando senza servirsi degli occhi, senza quelle fragili strutture organiche che sarebbero state danneg-giate gravemente dalla luce.

Il sole era una stella di tipo B8, con una massa cinque vol-te superiore a quella del Sole, e si trovava a una distanza di 3,76 A. U. da quel pianeta.

Sole, con la maiuscola? A. U? Cinque? 3,76? Pianeta?In un certo momento del passato... un passato di cui non

sapeva né il quando, né il dove, né il come... lui aveva cono-sciuto quei termini, un sole scritto con la lettera maiuscola, l’acqua che scorreva in un torrente, il concetto di corpo e oc-chi. Ma davvero li aveva conosciuti? Era mai esistito un pas-sato nel quale lui aveva potuto conoscerli? O si trattava sem-plicemente di termini che gli erano stati forniti da una fonte diversa, per essere utilizzati al momento del bisogno, come strumenti... ecco un altro termine nuovo... da usare per inter-pretare quel posto nel quale ora si trovava? Interpretarlo per chi? Per sé? Era una cosa ridicola, perché lui non aveva biso-gno di sapere, e neppure se ne curava.

Sapere... come faceva a sapere? Come poteva sapere che il sole era una stella di tipo B 8, e che cos’era una stella di tipo B 8? Come poteva conoscerne la distanza, il diametro e la massa, semplicemente guardandola? Come faceva a ricono-scere una stella, se non ne aveva mai visto una prima di quel momento?

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Poi, nel momento in cui questo concetto si formava, seppe di avere già visto altre stelle. Perché lui aveva conosciuto di-versi soli, una lunga catena di soli attraverso la galassia, e aveva guardato ciascuno di essi e ne aveva conosciuto la classificazione spettrale, la distanza e il diametro, la massa, perfino la composizione, l’età e la probabile durata residua della vita, se era stabile o variabile, quali erano le linee dello spettro, e molti altri piccoli particolari che potevano distin-guerlo da ogni altra stella. Giganti rosse, supergiganti, nane bianche, e perfino una nana nera. Ma soprattutto i principali sistemi stellari che possedevano pianeti, perché si era ferma-to poche volte in prossimità di stelle prive di un sistema pla-netario.

Forse non esisteva chi avesse visto più stelle di lui. O che avesse conosciuto più cose sui soli.

E lo scopo di tutto questo? Cercò di pensare allo scopo, ma apparentemente non c’era. Lo scopo gli sfuggiva comple-tamente. Se in effetti esisteva uno scopo.

Smise di guardare il sole e osservò tutto il resto, e tutto nello stesso momento, di tutta la superficie del pianeta visibi-le... come se, pensò, avesse degli occhi disposti tutt’intorno alla sua inesistente testa. Perché mai, si chiese, continuava a indugiare su quell’idea di una testa e di occhi? Era possibile che, in qualche momento del passato, lui fosse stato dotato di occhi e testa? O l’idea di testa e occhi era un residuo atavico, forse un ricordo ancestrale che si rifiutava di scomparire, che per qualche oscuro motivo resisteva e ritornava a presentarsi alla minima occasione?

Cercò di riflettere, di tornare indietro e afferrare l’idea e stanarla dal nascondiglio oscuro nel quale si era rifugiata. E non ci riuscì.

Si concentrò sulla superficie. Era situata... se la parola giu-sta era "situata”... su una ripida collina dalle aguzze sporgen-ze di roccia. La collina nascondeva la vista di una parte della

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superficie, ma il resto si stendeva spoglio davanti a lui fino all’orizzonte.

Il resto della superficie era piatto, tranne che in un punto, molto lontano, dove si ergeva quella che sembrava una altura circolare. La cima dell’altura era irregolare e tronca e i fian-chi erano smussati e dava l’impressione di essere un cratere molto antico.

Ma tutto il resto era pianeggiante e solcato da una miriade dj piccoli corsi d’acqua o di qualcosa che era liquido pur non essendo acqua. La vegetazione sparsa cresceva con i suoi tronchi di un verde scuro sormontati da frutti purpurei, e adesso era evidente che c’erano vari tipi di vegetazione. La vegetazione dai frutti purpurei gli era sembrata dapprima l’u-nica forma esistente perché era la più abbondante, e sicura-mente la più spettacolare.

Il suolo sembrava poco più che sabbia. Allungò una mano... no, non era una mano, perché lui non possedeva mani... ma pensò all’azione che stava compiendo come ad al-lungare una mano. Allungò una mano e affondò le dita nel suolo e i dati relativi al suolo gli apparvero subito evidenti. Sabbia. Sabbia quasi pura. Silicio, tracce di ferro e di allumi-nio, tracce di ossigeno, idrogeno, potassio e magnesio. Aci-dità quasi assente. C’erano anche delle cifre, delle percentua-li, ma non prestò loro alcuna attenzione. Erano semplicemen-te lì, a disposizione.

L’atmosfera era mortale. Mortale per che cosa? Le radia-zioni emesse da una stella di tipo B erano letali, e anche in questo caso, letali per che cosa?

Che cosa devo ancora sapere, si chiese. E così facendo, si accorse di un’altra parola che non aveva ancora usato. Io. Me. Me stesso. Un’entità. Un individuo. Una singola cosa, ben identificata, diversa e divisa da tutte le altre. Una perso-nalità.

Che cosa sono, io? si chiese. Dove sono, io? E perché?

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Perché devo continuare a raccogliere tutti questi dati? Cosa m’importa del suolo, o delle radiazioni, o dell’atmosfera? Perché dovrei conoscere con tanta certezza di quale tipo è la stella che si trova sopra di me? Io non ho un corpo che possa essere esposto agli effetti di tutte queste cose. Apparente-mente, non ho alcuna forma. Sono solamente un essere. Un’entità incorporea. Un nebuloso ”Io”.

Per qualche tempo desistette, rimanendo immobile, senza fare niente, senza raccogliere nuovi dati, restando a guardare il rosso e il giallo del pianeta, la porpora dei fiori e dei frutti.

Poi, dopo un certo tempo, riprese a lavorare. Toccò le sporgenze rocciose della collina, trovò i gradini piani che si trovavano tra i vari strati, filtrò nella roccia, seguendone le sfaldature.

Calcare. Massiccio, duro calcare. Depositatosi migliaia di anni prima sul fondo dei mari.

Si arrestò per un momento, vagamente turbato, poi rico-nobbe la causa del suo turbamento. I fossili!

Perché i fossili avrebbero dovuto turbarlo, si chiese, e poi capì provando qualcosa di simile all’eccitazione, o di quel sentimento che gli era possibile provare in quelle condizioni, che quelli non erano fossili di piante, delle primordiali ante-nate delle piante purpuree che ora crescevano sulla superfi-cie, bensì di animali... forme di vita bene organizzate, dalla struttura sofisticata, molto in alto nella scala evolutiva.

Erano stati così rari i pianeti che avevano ospitato la vita, tra quelli che aveva conosciuto, e anche quei pochi avevano ospitato solo le più elementari forme di vita vegetale, o qual-che altra forma di vita che si trovava al confine, cose che erano un po’ al di sopra del regno vegetale, ma non apparte-nevano ancora al regno animale. Avrei dovuto saperlo, si disse. Quelle piante purpuree avrebbero dovuto avvertirmi. Perché si tratta di vegetali altamente organizzati; non sono semplici, rudimentali piante. Su questo pianeta, malgrado la

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sua atmosfera mortale e le radiazioni letali e quel suo liquido che non è acqua, le forze dell’evoluzione avevano lavorato efficacemente e con grandi ambizioni.

Isolò un particolare fossile. Non era grande. Una protezio-ne chitinosa, apparentemente, però aveva una specie di sche-letro. Aveva una testa, un corpo, delle zampe. Aveva una coda piatta per nuotare nella pozione venefica che doveva essere stato l’oceano. Aveva delle mandibole, per prendere e trattenere. Aveva degli occhi, sicuramente molti, molti di più di quelli che gli erano stati necessari. C’erano deboli tracce di un canale alimentare, dei frammenti di nervi qua e là che erano rimasti in uno stato di conservazione tale da permette-re di riconoscerli... forse non i nervi, ma i canali nei quali quei nervi erano stati ospitati.

E pensò a quel tempo vago e indistinto nel quale, da uomo...

Uomo? Prima un ”Io”. E adesso un "Uomo”.Due identità... o piuttosto, due termini per identificarsi.

Non più una cosa, un’entità, ma un ”Io” e un "uomo”.Si protendeva sottile e allargandosi in tutte le aperture an-

guste del calcare, e riconosceva i fossili, e rifletteva su quello che stava emergendo dentro di lui. Soprattutto pensava a quel fossile particolare e a quella volta lontana e nebulosa, quando aveva trovato il primo fossile, la prima volta che lui aveva saputo dell’esistenza di qualcosa che si chiamava fos-sile. Ricordava come l’aveva trovato e ne ricordava anche il nome. Si chiamava trilobite. Qualcuno gli aveva detto quel nome, ma non riusciva a ricordare chi fosse stato. Era un po-sto così indistinto nel tempo, così lontano nello spazio, che riusciva a ricordarne solo un fossile che si chiamava trilobite.

Ma c’era stato un altro tempo e un altro luogo e lui non era nuovo... non era stato acceso in quel primo istante di cono-scenza, e non era stato prodotto, e non era nato. Aveva una storia. C’erano stati altri periodi di conoscenza e lui aveva

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avuto un’identità in quegli altri periodi. Non era nuovo, pen-sò, ma vecchio. Una creatura con un passato.

Il pensiero degli occhi, del corpo, delle braccia e delle gambe... potevano essere, tutti quanti, dei ricordi provenienti da quell'altra, o da quelle altre, volte? C’era stato un tempo nel quale lui aveva posseduto una testa e degli occhi, un cor-po?

O forse si sbagliava? Tutte queste cose potevano essere, forse, dei falsi ricordi, nati durante qualche evento che lui non ricordava, ed erano da attribuirsi a qualche altra creatu-ra? Erano forse i ricordi di un’altra creatura, che lui credeva erroneamente suoi? E se anche quei ricordi fossero stati i suoi, cosa gli era accaduto dopo... quali cambiamenti erano stati fatti?

Dimenticò il calcare e i fossili. Si stendeva attraverso le fessure della roccia e rimaneva immobile e inerte, sperando che da quell'immobilità e da quell’inerzia potesse giungergli una risposta. E arrivò una risposta parziale, esasperante, irri-tante, vaga e torturante. Non un solo posto, ma molti; non una sola volta, ma molte. Non un solo tempo, ma tanti altri momenti nel tempo. Non su un solo pianeta, ma su molti pia-neti separati da molti anni-luce.

E se è vero tutto questo, pensò, dev’esserci un motivo, de-v’esserci uno scopo. Altrimenti, perché tutti quei pianeti e i dati raccolti su quei pianeti? E questo era un altro pensiero nuovo, originale... i dati raccolti sui pianeti. Perché aveva raccolto quei dati? A quale scopo? Certo non per sé, perché lui non aveva alcun bisogno di quei dati, non sapeva come usarli. Forse... forse lui era solo quello che doveva raccoglie-re i dati, una specie di mietitore, che doveva immagazzinare e comunicare quello che aveva raccolto?

E se non lo faceva per sé, per chi altri? Aspettò che la ri-sposta si formasse e salisse là dove lui poteva comprenderla, aspettò che la memoria funzionasse, e dopo qualche tempo si

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accorse che era riuscito a risalire fin dove gli era possibile, e non poteva andare oltre.

Lentamente, si ritirò dalla roccia, e fu di nuovo sul fianco della collina, sopra la terra rossa, sotto il cielo giallo.

Una porzione della superficie, vicino a lui, si mosse, e il movimento gli mostrò che non si trattava di una porzione del terreno, ma di una creatura il cui corpo aveva una colorazio-ne che le permetteva di mimetizzarsi col suolo del pianeta. Si muoveva velocemente, come l’ombra di una nuvola spinta da un vento forte. Si muoveva a scatti brevi e veloci, e quan-do si fermava, diventava una parte del terreno, si confondeva con esso.

Lo stava osservando, notò, lo stava esaminando, anche se non riusciva a immaginare che cosa si potesse vedere di lui. Forse la creatura era sensitiva, forse sovvertiva la presenza di un’altra personalità, di un’altra cosa che divideva con lei quella qualità strana e indefinibile che era la vita. Un campo di energia, si domandò... era forse questa la sua natura, un’intelligenza disincarnata trasportata all’interno di un cam-po di energia?

Restò immobile, in modo che la creatura potesse esami-narlo bene. La vide muoversi, con quegli scatti brevi e fluidi, e girargli attorno. Si lasciava dietro una specie di scia nel ter-reno sabbioso, e a ogni scatto sollevava un po’ di sabbia. Si avvicinò.

E lui poté prenderla. La fece restare immobile, bloccata, come se l’avesse stretta con diverse mani. La esaminò, non troppo accuratamente, né analiticamente, ma solo quel tanto che bastava a capire la sua natura. Era di protoplasma e pro-tetta solidamente dalle radiazioni, forse addirittura in grado... anche se non poteva esserne certo... di trarre vantaggio dal-l’energia contenuta nelle radiazioni. Un organismo che non avrebbe potuto esistere, quasi sicuramente, senza le radiazio-ni, che ne aveva bisogno come altre creature avevano biso-

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gno del calore, o del cibo, o dell’ossigeno. Intelligente e pie-na di una moltitudine di emozioni... forse non era quel tipo d’intelligenza capace di costruire una civiltà complessa, ma solo di raggiungere un elevato livello d’intelligenza animale. Forse si stava ancora evolvendo. Ancora qualche milione di anni e avrebbe saputo creare una civiltà.

La lasciò libera. Fuggì via, rapidamente, allontanandosi da lui. La perse di vista, ma riuscì ancora a seguirne i movimen-ti per qualche tempo grazie alla scia che lasciava nella sabbia e alle nuvolette di terra che sollevava.

C’era molto lavoro da fare. Un profilo dell’atmosfera, un’analisi del suolo e dei microrganismi che poteva contene-re, e doveva determinare la composizione del liquido che scorreva nel torrente, compiere uno studio accurato delle piante, una ricognizione geologica, la misurazione dei campi magnetici e dell’intensità delle radiazioni. Ma prima di tutto doveva eseguire una ricognizione generale del pianeta, per stabilirne le caratteristiche e isolare le aree che potevano ri-vestire un interesse economico.

Ed ecco un’altra parola che non aveva ricordato prima. Economico.

Cercò dentro se stesso, dentro la teorica intelligenza rac-chiusa nell’ipotetico campo di energia, la spiegazione dello scopo che quella parola faceva intuire. Quando trovò la spie-gazione, vide che era netta e chiara... la sola cosa, tra quelle che aveva cercato, che appariva davvero netta e chiara. Che cosa c’era su quel pianeta che poteva essere usato, e quale sarebbe stato il costo necessario per ottenerlo? Una caccia al tesoro, pensò. Ecco qual era il suo scopo. Appariva immedia-tamente chiaro che lui, personalmente, non aveva un interes-se diretto per dei tesori, quali che fossero. Non gli servivano a nulla. Di conseguenza, doveva esistere qualcun altro che poteva utilizzarli. Anche se si accorse che, alla parola "teso-ro”, lui stesso era percorso da un piacevole brivido di eccita-

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zione.Cosa poteva esserci di buono per lui, si chiese, in questa

ricerca di un tesoro? Qual era stato il suo guadagno nella ri-cerca e nel ritrovamento di tutti quegli altri tesori su tutti quegli altri pianeti... anche se, ora che ci pensava, non c’era-no stati dei tesori su tutti gli altri mondi, e su alcuni dei pia-neti sui quali i tesori esistevano la scoperta non aveva avuto alcun senso, visto che le condizioni planetarie erano state così proibitive da rendere impossibile l’uso di quei tesori. Molti dei pianeti che aveva esplorato, ricordò, forse troppi, erano stati così ostili che solo un essere quale lui era poteva avvicinarsi a essi.

C’era stato qualche tentativo, adesso lo ricordava, di ri-chiamarlo da alcuni dei pianeti, quando era apparso evidente che non avevano alcun interesse economico e che un’esplo-razione più approfondita sarebbe stata una perdita di tempo. Lui era riuscito a resistere a quei tentativi; aveva ignorato completamente gli ordini di ritornare... in qualunque posto lui dovesse ritornare. Perché, secondo la sua etica semplice e diretta, quando c’era un lavoro da svolgere lui lo portava a termine e non si fermava finché non aveva fatto tutto ciò che doveva. E una volta iniziato qualcosa, lui era incapace d’in-terromperlo prima di avere terminato. Faceva parte di lui, quella testardaggine incrollabile; era una caratteristica neces-saria per il lavoro che doveva svolgere.

E se a loro serviva uno come lui, non potevano pretendere di cambiarlo a seconda del loro capriccio. Lui era così, o non lo era affatto. Lui svolgeva il lavoro, o non lo svolgeva. Era fatto così. Aveva un interesse preciso per ognuno dei proble-mi che gli si presentavano, e non mollava la presa finché il problema non era stato completamente esaminato e risolto. Loro dovevano assecondare questa sua caratteristica, e ormai lo sapevano; non si prendevano più il disturbo di tentare di richiamarlo dalla ricerca su di un pianeta chiaramente impro-

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duttivo.Loro? si domandò, ed ebbe un confuso ricordo di altre

creature simili a ciò che era stato. Lo avevano indottrinato, avevano fatto di lui quello che era, e lo avevano usato, come usavano i pianeti preziosi che lui aveva trovato, ma il fatto di essere usato non gli dava fastidio, perché era un modo di vi-vere ed era l’unico modo di vivere che lui aveva. L’alternati-va era tra questa vita e nessuna vita. Cercò di ricordare certe circostanze, ma qualcosa gli bloccò immediatamente i ricor-di. Era esattamente come se lui non potesse ricordare ogni cosa, nello stesso tempo, ma gli fossero permessi soltanto dei frammenti di memoria, come era stato per i pianeti che aveva visitato. Pensò subito che questo era un grosso errore, perché le esperienze che aveva accumulato sugli altri pianeti sareb-bero state un prezioso bagaglio di conoscenza, una serie di linee direttrici per facilitargli le ricerche successive e impe-dirgli di perdere tempo a risolvere problemi che aveva già af-frontato... come il mondo sul quale adesso si trovava. Ma per qualche motivo oscuro, loro non gli permettevano questa memoria globale, ma facevano del loro meglio... pur in ma-niera imperfetta... per spazzare via dalla sua memoria tutte le esperienze precedenti, prima di mandarlo in un nuovo piane-ta. Era per mantenerlo libero e con la mente sgombra da tutto ciò che avrebbe potuto confonderlo, dicevano; per protegger-lo dalla confusione; per mandare una mente nuova e libera, senza alcun ingombro superfluo, su ciascuno dei nuovi pia-neti. Era per questo motivo, capì, che arrivava sempre su un nuovo pianeta cercando dentro di sé dei ricordi e uno scopo, con la sensazione di essere nato proprio su quel particolare mondo, senza alcun ricordo degli altri.

Questo non gli dispiaceva. Era comunque un modo di vi-vere, era pur sempre una vita, e vedeva tantissimi posti... di-versissimi tra loro... e poteva visitarli, malgrado le condizio-ni più aliene e terribili, in perfetta e assoluta sicurezza. Per-

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ché non esisteva nulla capace di toccarlo... né zanne, né arti-gli, né tanto meno veleni, per quanto letale potesse essere l’atmosfera, per quanto terribili potessero essere le radiazio-ni, non esisteva nulla che potesse toccarlo. Perché in lui non c’era niente che potesse essere toccato. Lui camminava... no, non camminava, si muoveva... con la massima disinvoltura attraverso tutti gli inferni che la galassia poteva creargli in-torno.

Un secondo sole stava sorgendo, un’enorme stella gonfia e rossa come un mattone, che saliva dall’orizzonte, mentre il primo sole cominciava appena a declinare a occidente... per propria comodità, immaginò che l’enorme stella color matto-ne stesse sorgendo a oriente.

K 2, la determinò, trenta volte circa il diametro del Sole, con una temperatura di superficie forse non superiore ai 4.000°. Un sistema binario, o forse ancora più complesso; potevano esserci degli altri soli che lui doveva ancora vede-re. Cercò di calcolare la distanza, ma non gli sarebbe stato possibile farlo con una certa esattezza fino a quando la gi-gante rossa non fosse stata più alta sull’orizzonte, finché al-meno non fosse salita sopra l’orizzonte, sopra il quale ora se ne vedeva solo una rossa e minacciosa metà.

Ma il secondo sole poteva attendere, tutto il resto poteva attendere. C’era una cosa che lui doveva vedere. Non se ne era reso conto fino a quel momento, ma adesso capiva che c’era una cosa nel paesaggio che lo aveva attirato fin dal pri-mo istante, gli aveva prodotto un vago senso di confusione e d’incertezza. Il cratere non quadrava. L’aspetto era sicura-mente quello di un cratere, ma non aveva alcun diritto di tro-varsi là. Non poteva essere vulcanico, perché sorgeva nel bel mezzo di una pianura sabbiosa, e le rupi calcaree che sporge-vano dalla collina erano rocce sedimentarie. Non c’era alcu-na traccia di rocce ignee, di antiche colate di lava. E le stesse obiezioni sarebbero state valide anche nel caso in cui il crate-

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re fosse stato prodotto da un impatto meteorico, perché un meteorite capace di creare un cratere di quelle dimensioni avrebbe trasformato tonnellate e tonnellate di materiale in una massa fusa e avrebbe prodotto una coltre di magma, del-la quale non c’era alcuna traccia.

Cominciò a scivolare lentamente in direzione del cratere. Sotto di lui, il terreno restava immutato... il suolo rosso, i frutti purpurei e ben poco d’altro.

Si fermò a riposare... se così poteva chiamare quello che fece... sul bordo del cratere, e per un momento non riuscì a capire ciò che vide.

Una sostanza lucida e splendente si stendeva tutt’intorno al bordo e scendeva obliquamente fino al centro, per formare quello che sembrava uno specchio concavo. Ma non poteva trattarsi di uno specchio, perché non era in grado di riflettere.

Poi, del tutto improvvisamente, un’immagine si formò su di esso, e se lui fosse stato capace di trattenere il respiro, lo avrebbe fatto.

Due creature, una grande, l’altra più piccola, erano ritte su di un costone, sopra una profonda spaccatura nel terreno, e sopra di loro sorgeva una sorta di scoglio striato di arenaria. La creatura più piccola stava scavando nello scoglio serven-dosi di un attrezzo manuale... stretto da quella che doveva essere una mano, che era attaccata a un braccio, e il braccio era attaccato a un corpo, un corpo che aveva una testa e due occhi.

Sono io, pensò... la creatura più piccola, sono io.Provò un senso di debolezza e smarrimento e l’immagine

nello specchio parve attirarlo, per portarlo giù e fondersi con lei. I cancelli della memoria si aprirono e i vecchi dati proibi-ti si riversarono come una cascata su di lui... i termini e le re-lazioni... e lui gridò per difendersi da quella valanga e cercò di respingerla, ma non ne era capace. Era come se qualcuno lo stesse tenendo fermo, impotente e immobile, per impedir-

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gli di sfuggire a quella massa turbinosa, e, tenendogli la boc-ca vicino all’orecchio, gli stesse dicendo delle cose che lui non desiderava affatto conoscere.

Umani, padre, figlio, una strada scavata per far passare la ferrovia, la Terra, la scoperta di quella prima trilobite. Spie-tate, irrefrenabili, le informazioni si riversarono su di lui, nel campo di energia intellettuale che lui era diventato, nel quale si era evoluto, o che altri avevano creato per trasformarlo, quel campo che era stato un conforto e un rifugio per lui fino a quel preciso momento.

Suo padre indossava una vecchia maglietta, con dei buchi sui gomiti, e un vecchio paio di pantaloni neri che gli balla-vano un po’. Fumava una vecchia pipa dal fornello annerito e il cannello consumato, e osservava con visibile affetto pa-terno il ragazzo, che stava lavorando meticolosamente, sca-vando la sottile lastra di pietra che portava impressa l’imma-gine di un’antica forma di vita.

Poi l’immagine oscillò e si spense e lui rimase seduto (?) sul bordo del cratere, con lo specchio opaco che scendeva verso il centro, e non mostrava altro che i riflessi rossi e az-zurri dei soli.

Ora sapeva, pensò. Sapeva, non che cosa era, ma che cosa era stato un tempo... una creatura che camminava su due gambe, che possedeva un corpo e due braccia, una testa e due occhi e una bocca capace di gridare di gioia per il ritro-vamento di una trilobite. Una creatura che camminava fiera e con malriposta fiducia, perché non possedeva alcuna immu-nità per difendersi dal proprio ambiente, come invece lui adesso aveva.

Come aveva potuto evolversi, da quella debole creatura vulnerabile a ciò che era adesso?

Poteva essere stata la morte, si chiese, e provò terrore nel momento in cui quel nuovo concetto, la morte, si formava. La morte, la fine, e non c’era fine, non ci sarebbe mai stata;

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una cosa che era un intelletto prigioniero di un campo di energia poteva esistere per sempre. Ma in qualche svolta re-mota del passato, in qualche oscuro anfratto lungo la linea evolutiva, o lungo gli elaborati prodigi dell’ingegneria e del-la tecnica, era possibile che in quella sua nuova esistenza la morte avesse avuto in qualche modo un ruolo importante? Un uomo era costretto forse a morire, per diventare ciò che adesso lui era?

Restò seduto sul bordo del cratere e percepì la superficie del pianeta che lo circondava... il rosso della terra, il giallo del cielo, il verde e la porpora dei fiori, il gorgogliare del li-quido che scorreva nei propri alvei, il rosso e l’azzurro dei soli e le ombre che essi proiettavano, la cosa veloce che sol-levava spruzzi di sabbia, il calcare e i fossili.

E c’era anche qualcosa d’altro e nel percepire quell’altra cosa provò un terrore e un panico che mai aveva conosciuto prima. Non aveva mai avuto bisogno di conoscere la paura, perché era stato immune e protetto, intoccabile, al sicuro, e forse lo sarebbe stato anche nel cuore ardente di un sole. Non c’era mai stato nulla che potesse toccarlo e fargli del male, in nessun modo qualcuno o qualcosa avrebbe potuto arrivare a lui.

Ma questo non valeva più, perché ora poteva essere tocca-to. Qualcosa aveva strappato da lui un antico ricordo e glielo aveva fatto vedere. Qui, su questo pianeta, esisteva un fattore che poteva arrivare a lui, che poteva entrare in lui e strappar-gli qualcosa della cui esistenza lui non aveva neppure un lon-tano sospetto.

Gridò una domanda e molte eco fantasma si inseguirono sopra la terra, e ritornarono a schernirlo. Chi sei? Chi sei? Chi sei? Deboli e remote e sempre più lontane, le eco gli da-vano l’unica risposta.

Qualunque cosa fosse, dovunque fosse, poteva permettersi di non rispondergli, pensò. Non aveva alcun bisogno di ri-

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spondergli. Poteva starsene in attesa, compiaciuta e muta, a sentirlo urlare la domanda, aspettando di strappargli altri ri-cordi, ricordi che avrebbe potuto usare per qualche suo stra-no scopo, o semplicemente mostrargli tanto per divertirsi.

Non era più al sicuro. Era vulnerabile. Nudo, di fronte alla cosa che si serviva di uno specchio per convincerlo di essere ritornato vulnerabile e fragile.

Gridò di nuovo e questa volta il suo grido era diretto agli altri della sua razza che lo avevano mandato lassù.

Portatemi indietro! Sono nudo! Salvatemi!Silenzio.Ho lavorato per voi... ho scavato per voi tutti quei dati...

ho svolto il mio lavoro... adesso mi siete debitori di qualco-sa!

Silenzio.Vi prego!Silenzio.Silenzio... e qualcosa di più del silenzio. Non soltanto il si-

lenzio, ma un’assenza, un non essere là, un vuoto.La verità esplose come un fiore di fuoco nella sua perce-

zione, vivida e netta e chiara e ineluttabile. Lui era stato ab-bandonato, tutti i legami erano stati tagliati... nelle profondità più tenebrose degli spazi siderali più oscuri, lui era stato get-tato alla deriva. Se ne erano lavati le mani di lui e adesso lui non solo era nudo, ma solo.

Sapevano ciò che era accaduto. Sapevano sempre, in qual-siasi momento, tutto quello che gli accadeva, lo seguivano costantemente e apprendevano tutto ciò che lui apprendeva nello stesso momento in cui ciò avveniva. E loro si erano ac-corti del pericolo, lo avevano intuito, forse ancor prima di lui, forse ancor prima che lui avesse captato quell’elemento stridente, la presenza di quel cratere, con il pericolo che esso indicava. Avevano riconosciuto il pericolo, che minacciava non solo lui, ma anche, e soprattutto, loro. Se qualcosa riu-

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sciva ad arrivare fino a lui, a raggiungerlo malgrado le dife-se, la stessa cosa poteva risalire attraverso il legame che lo teneva unito al luogo dal quale era venuto, poteva risalire fino a loro. Così il legame era stato tagliato, reciso di netto, in modo tale che mai avrebbe potuto essere ristabilito. Loro non volevano correre alcun rischio. Era un concetto che ave-vano sottolineato con grande enfasi, fin dall’inizio, che ave-vano ripetuto e ribadito al di là di ogni dubbio. Tu non solo non devi farti riconoscere, ma nulla deve neppure sospettare della tua esistenza. Non devi fare niente che possa farti indi-viduare e riconoscere. Non devi mai offrire anche la più re-mota possibilità di risalire fino a noi.

Freddi, astuti, indifferenti. E spaventati. Molto più spaven-tati, forse, di quanto lo fosse lui. Perché adesso sapevano che esisteva qualcosa, nella galassia, capace di percepire la pre-senza dell’osservatore disincarnato che era stato mandato a esplorare. Non avrebbero mai più potuto inviarne un altro, se anche ne avessero avuto un altro, perché il vecchio terrore sarebbe stato là fuori a scoraggiarli. E forse un terrore ancora più grande... basato su un sospetto subdolo e irrefrenabile, il sospetto che il legame fosse stato tagliato con un istante di ritardo, che il fattore che aveva individuato il loro osservato-re fosse già riuscito a seguire la traccia e a risalire fino a loro.

Un terrore cieco e totale. Paura per i loro corpi e per i loro profitti...

Non per i loro corpi, disse una voce dentro di lui. Non per i loro corpi biologici. Non esiste più nessuno della tua specie che possieda un corpo biologico...

E allora, perché? domandò lui.Un’estensione dei loro corpi, che continua a eseguire un

lavoro che quelli dotati di corpo gli avevano affidato in un tempo lontano nel quale i corpi ancora esistevano. Che ha continuato a svolgere questo lavoro ciecamente, senza pen-

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sarci, da allora, ma ormai senza una ragione, solo con il ri-cordo di una ragione...

Chi sei? domandò lui. Come puoi conoscere tutto ciò? Che ne farai di me?

In un modo molto, molto diverso, disse, io sono uno come te. Tu puoi essere come me. Ora hai trovato la tua libertà.

Io non ho niente, disse lui.Tu hai te stesso, rispose. Questo non basta?Ma essere se stessi è sufficiente? chiese ancora.E non ebbe bisogno di alcuna risposta.Perché essere se stesso era la base di tutta la vita, di ogni

essere senziente. Le istituzioni, le civiltà, i sistemi economi-ci, non erano altro che strutture per migliorare il proprio es-sere. Ed essere se stesso era tutto ciò che possedeva, ora, e apparteneva solo a lui. Non c’era altro di cui potesse avere bisogno.

Grazie, signore, disse lui, l’ultimo umano dell’universo.

CLIFFORD D. SIMAK

The Observer, di Clifford D. Simak, Copyright © 1972 by the Author, da Analog. Traduzione di Ugo Malaguti.

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CREPUSCOLO DI UN MONDO

Anche in questo numero presentiamo un gioiello di quel grande scrittore e poeta che fu Clifford D. Simak, cantore delle cose semplici, ma anche amaro spettatore dei limiti e delle angosce umane. Lo splendido racconto che state per leggere appartiene all’epoca più violenta dello sperimentali-smo del new wave, ed esce dalle pagine di una Galaxy fine anni ’60 che proprio al new wave si era rivolta per ritrovare la grinta e il successo degli anni migliori. Eppure Simak, considerato ingiustamente da alcuni scrittore classico, pro-prio nella fase di più grande rinnovamento di questa lettera-tura trovò la sua migliore collocazione: tanto che lo ritro-viamo tra gli artefici delle fortune degli Ace Science Fiction Special di Terry Carr, e tra gli autori più applauditi della Galaxy rivoluzionaria del periodo.

Anche in questa storia, il punto di vista è quello dei robot: sempre più veri e umanizzati, sempre più partecipi delle mi-serie e delle grandezze umane, qui li vediamo servitori degli uomini nel senso più ampio e più nobile della parola. Non vogliamo sciupare l’effetto creato dal grande autore del Wi-sconsin, ma qui Simak scrive una delle sue pagine allo stes-so tempo più dolci e più amare, impiegando una tecnica di scrittura - arte nella quale era indiscusso maestro - più frammentata e complessa del solito, portandoci per mano, attraverso le riflessioni di un robot, a percepire una realtà più vasta, più amara e più vera di tante turbinose utopie create a quel tempo dagli autori più «in».

Qui Simak, come in Why call them back from Heaven, ci induce a esplorare quello che al tempo fu definito lo «spazio interno» in maniera più completa e drastica di quanto i tor-menti di Ballard e le paure di Moorcock avessero mai fatto. Perché in quella parte del genere umano della quale si parla per commuoversi, un po’ ipocritamente, e che ben poco si fa

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per aiutare, ci sono le ombre e le malizie, le arroganze e le disperazioni, che porteranno forse in futuro alla soluzione prospettata dall’autore... più tragica e vera, purtroppo, di qualsiasi olocausto planetario e di qualsiasi guerra finale.

Il nostro invito ai lettori di oggi, spesso più «freschi» e at-tenti di quelli di ieri, è quello di leggere Simak senza pre-concetti e senza preclusioni, dimenticando quanto una criti-ca superficiale e impreparata scrisse di lui in un periodo nel quale altri nomi e altri orizzonti parevano destinati a durare assai più di quanto non siano riusciti a resistere in realtà. Simak è certo un poeta, un amaro poeta, un prosatore di al-tissima qualità, uno dei più grandi scrittori americani con-temporanei, ma è anche in ogni epoca uno scrittore moder-no, rivoluzionario, graffiante. Oltre l’invisibile è la radice dalla quale si svilupparono gli incubi di Dick e i dubbi dei nuovi cibernetici; Infinito fu il gradino dal quale prese lo slancio la fantascienza della «ricerca di Dio» attraverso la Sua morte; non si contano i momenti di autentica, completa rottura con la tradizione e gli schemi di questo scrittore, il più grande prodotto dalla fantascienza fino a oggi.

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STO PIANGENDO, DENTRO

Io faccio il mio lavoro, che è quello di zappare il campo di grano. Ma sono turbato da quello che ho sentito dire la notte scorsa da quel Gambastorta. Io e diversa altra gente l’abbia-mo sentito. Ma nessuna delle persone gliel'ha sentito dire. Lui badava bene a quello che ci diceva, là dove le persone potevano ascoltare. Lui non vuole urtare i loro sentimenti.

Gambastorta trasporta le persone. Su e giù per il territorio. Mai troppo lontano, però. Viene di frequente a parlare con noi. Anche se non capisco perché ci deve sempre dire la stes-sa cosa. Basta dirla una volta sola, una cosa...

Lui è Gambastorta perché quando cammina un piede va di sghimbescio, e non permette a nessuno di metterglielo a po-sto. Lo fa zoppicare ma non vuole che nessuno glielo siste-mi. È umiltà, la sua. Finché zoppica e mette il piede storto lui è umile e gli piace di essere umile. La ritiene una virtù. Crede che sia molto appropriata, per lui.

Smith, che fa il fabbro, si spazientisce con lui. Dice che gli potrebbe sistemare il piede. Non bene come un meccanico, però meglio che lasciarlo così com’è. C’è un meccanico non troppo lontano. Anche con lui perdono la pazienza. Dicono che dovrebbe pensarci lui.

Smith si è offerto di sistemare il piede per puro spirito ca-ritatevole. Lui ne ha molti altri, di lavori da fare. Non ha bi-sogno di cercarne altri, come fanno certi poveri. Per tutto il

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giorno se ne sta a picchiare sul metallo, facendone lastre, che poi manda ai meccanici che se ne servono per le riparazioni. Bisogna fare molta attenzione a conservarsi in perfetta ma-nutenzione. Dobbiamo fare tutto da noi. Non è rimasta nes-suna persona che sappia come farlo. Di persone ne sono ri-maste, certo, ma sono troppo raffinate ed eleganti per questo genere di faccende. Tutte le persone rimaste sono troppo ele-ganti. Non lavorano mai, per nessuna ragione.

Io sto zappando il campo di grano e uno della gente di casa viene a dirmi che ci sono dei serpenti. La gente di casa non lavora mai fuori, all’aperto. Si rivolge sempre a noi. Ho chiesto se si trattava di serpenti veri o di serpenti di liquore e lui ha risposto serpenti veri.

Così ho appoggiato la zappa a un tronco d’albero e mi sono avviato su per la collina, verso la casa.

Il Nonno è sull’amaca, sul prato davanti alla casa. L’ama-ca è sospesa tra due alberi. Lo zio John se ne sta seduto sul-l’erba, appoggiato a un albero. Papà è seduto sull’erba, ap-poggiato a un altro albero.

Sam, mi dice Pa, c’è un serpente sul retro.Così io giro attorno alla casa e vedo un serpente a sonagli

e lo raccolgo e lui mi soffia contro e sembra molto arrabbiato e mi si attorciglia addosso e cerca di mordermi. Io cerco un po’ intorno e trovo un altro serpente a sonagli e un mocassi-no e un paio di bisce. Le bisce non sono granché, come ser-penti, ma prendo su anche loro. Cerco ancora un po’ intorno ma non ci sono altri serpenti.

Così scendo attraverso il campo di grano e guado il torren-te e mi addentro nella palude. Quando sono abbastanza lon-tano, libero i serpenti. Ce ne metteranno del tempo a tornare. Forse se ne rimarranno lì.

Poi ritorno a zappare. È importante tenere in ordine il campo. Il grano deve crescere bene. Devo togliere le erbac-ce. Devo portare l’acqua quando è necessario. Il terreno è

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buono, soffice e ben concimato, e anche a questo devo pen-sarci io. Devo anche spaventare i corvi, quando arriva la se-mina. E quando il grano comincia a crescere, devo tener lon-tano i procioni e i cervi. È un lavoro che non finisce mai, che tiene molto occupato, per fortuna. Ed è anche importante. George usa il grano per distillare il liquore. Altri campi di grano sono destinati a preparare il cibo. Ma il mio serve a fare il liquore. Io e George siamo soci. Produciamo un liquo-re molto buono. Il Nonno e Papà e lo Zio John ne consuma-no molto e sono molto contenti. Quello che rimane può an-dare ai ragazzi. Ma non alle ragazze. Le ragazze non usano il liquore.

Io non capisco l’uso del cibo e del liquore. Papà dice che hanno un buon sapore. Mi domando che cosa sia sapore. So che il liquore fa vedere i serpenti allo zio John. Neanche que-sto riesco a capirlo.

Sto zappando il campo di grano quando sento un rumore dietro di me. Guardo e vedo Joshua. Sta leggendo la Bibbia. Lui legge sempre la Bibbia. Non fa altro, oltre a calpestare il mio campo di grano. Gli grido di non calpestarlo e corro ver-so di lui. Lo colpisco con la zappa. Lui se ne va di corsa. Sa benissimo perché l’ho colpito. L’ho fatto altre volte. Dovreb-be saperlo che non deve calpestare il campo. Si mette sotto un albero e legge. In piedi all’ombra. Ed è tutta una finzione. Soltanto le persone hanno bisogno di mettersi all’ombra. No-ialtri gente no.

Per colpire lui, ho rotto la zappa. Vado da Smith per far-mela riparare. Smith è contento di vedermi. Siamo sempre contenti di vederci. Smith e io siamo amici. Lui lascia perde-re tutto il resto per sistemarmi la zappa. Lo sa quanto è im-portante il grano. E poi vuole farmi un favore.

Ci mettiamo a parlare di Gambastorta. Siamo d’accordo che è sbagliato come lui parla. Quelle che dice sono eresie. (È stato Smith a dirmi la parola. Joshua, una volta passata

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l’arrabbiatura perché l’ho preso a zappate, mi dirà come si scrive). Siamo d’accordo, Smith e io, la gente è troppo su per lavorare, non è come dice Gambastorta. Siamo d’accordo che bisogna fare qualcosa per lui. Non sappiamo che cosa. Ci diciamo che dovremo pensarci.

George passa di lì. Dice che ha bisogno di me. Le persone sul prato vogliono bere. Così vado con lui mentre Smith ri-para la zappa. George ha un liquore molto gradito, e ne ha una buona provvista. Cerca perfino d’invecchiarlo, ma non ci riesce. La gente lo consuma troppo in fretta. Lo tiene in otri da quattro e da cinque galloni. Ne prendiamo due ciascuno e andiamo alla casa.

Ci fermiamo all’amaca dove ci sono sempre i tre. Ci dico-no di lasciare un otre lì e portare in casa gli altri tre e ritorna-re coi bicchieri. Lo facciamo. Versiamo il liquore nei bic-chieri per il Nonno e Papà. Lo zio John dice che lui non ha mai avuto bisogno di bicchieri, e perciò basta lasciare l’otre accanto a lui. Lo facciamo, dopo aver tolto il tappo. Lo zio John si fruga in tasca e tira fuori un tubicino di gomma. Ne mette un capo nell’otre, l’altro capo in bocca. Resta appog-giato all’albero e comincia a succhiare.

Formano un quadro molto elegante. Il Nonno sembra tran-quillo. Dondola nell'amaca con un grosso bicchiere di liquo-re in equilibrio sul petto. Noi siamo felici di vederli felici. Ritorniamo al lavoro. Smith ha riparato la zappa e l’ha anche arrotata. Sembra perfetta. Lo ringrazio.

Dice che è ancora confuso per Gambastorta. Gambastorta dice che ha letto quello che ha detto. Nei vecchi documenti. Ha trovato i documenti in una vecchia città, lontano. Smith mi chiede se so di quale città si tratta. Io dico di no. Siamo più confusi che mai. E a proposito, non so cosa sia un docu-mento. Però suona importante.

Sto zappando il campo di grano quando passa il Predicato-re e si ferma. Joshua è andato da qualche parte. Gli dico che

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avrebbe dovuto arrivare prima, quando Joshua era in piedi sotto l’albero e leggeva la Bibbia. Lui dice che Joshua la Bibbia la legge soltanto, e lui la interpreta. Io gli chiedo cosa vuol dire interpreta. Lui me lo dice.

Io gli chiedo come si scrive. Lui me lo dice. Sa che tento di scrivere. È molto servizievole. Ma anche pomposo.

Viene la notte e la luna tarda ad alzarsi. Non posso più zappare perché non si vede più bene. Così appoggio la zappa all’albero. Vado alla distilleria per aiutare George a prepara-re il liquore. George è contento dell’aiuto. È rimasto indietro nella produzione.

Gli domando perché Gambastorta dice la stessa cosa tante volte. Lui dice che è una ripetizione. Gli chiedo cos’è una ri-petizione. Non ne è sicuro. Dice che secondo lui se si dice la stessa cosa abbastanza spesso poi la gente ci crede. Dice che usava così tra le persone, ai vecchi tempi. Far credere alle al-tre persone cose che non sono vere.

Gli domando che cosa ne sa lui dei vecchi tempi. Lui dice non molto. Dice che dovrebbe ricordare, ma non ricorda. An-ch’io dovrei ricordare, e non ci riesco. È passato troppo tem-po. Sono accadute troppe cose da allora. E non è importante, tranne per le cose che dice Gambastorta.

George ha acceso un bel fuoco sotto il distillatore e il fuo-co risplende su di noi. Restiamo vicini e guardiamo. Fa senti-re felici dentro. Il gufo sta parlando, lontano, nella palude. Non so perché il fuoco faccia stare così bene. Non ho biso-gno di calore. Non so nemmeno perché il gufo faccia sentire così soli. Io non sono solo. Ho George proprio qui accanto a me. Ci sono tante cose che non so. Che cos’è una città e co-s’è un documento. Che cos’è un sapore. Com’erano i vecchi tempi. Essere felice però è un’altra cosa. Non c’è bisogno di capire per essere felice.

Della gente arriva di corsa dalla casa. Dicono che lo Zio John sta male. Dicono che ha bisogno di un dottore. Dicono

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che non vede più i serpenti. Adesso vede degli alligatori az-zurri. Con delle macchie rosa. Lo Zio John deve stare terri-bilmente male. Non c’è nessun alligatore. Che abbia il corpo coperto di macchie rosa.

George dice che lui va in casa ad aiutare, e io vado di cor-sa a chiamare Doc. George e la gente di casa se ne vanno, in grande fretta. Io vado a cercare Doc, anch’io in grande fretta.

Finalmente trovo Doc nella palude. Ha una lanterna e sta scavando delle radici. Scava sempre delle radici. È un feno-meno a trovare radici e cortecce. Con quelle prepara degli in-trugli per riparare le persone. È il meccanico delle persone, lui.

Se ne sta in mezzo al fango, immerso fino al ginocchio. È coperto di fango. È molto sporco. Ma ci rimane male, quan-do sente che lo Zio John sta male. Non gli piace l’alligatore azzurro. Dice che dopo l’alligatore azzurro ci sarà un elefan-te viola e che quello è il peggiore di tutti.

Corriamo entrambi. Io tengo la lanterna mentre Doc si ri-pulisce in uno specchio d’acqua, dove sguazzano gli alligato-ri. Non è bene che la gente lo veda così sporco. Poi andiamo alla baracca dove Doc conserva le radici e le cortecce. Ne prende un certo numero e corriamo verso la casa. Adesso la luna è spuntata, ma teniamo accesa la lanterna. Aiuta molto la luce della luna.

Arriviamo ai piedi della collina sulla cui cima c’è la casa. È tutto prato tra i piedi della collina e la casa. Tutto prato a eccezione degli alberi che reggono l’amaca. L’amaca c’è an-cora, ma è vuota. Dondola avanti e indietro nel vento. La casa si erge alta e bianca. Le finestre sono illuminate.

Il Nonno è seduto sul grande portico lungo che sorge da-vanti alla casa, con le colonne bianche che reggono il tetto. Siede su una poltrona a dondolo. La fa dondolare avanti e in-dietro. C’è un’altra poltrona a dondolo accanto alla sua. Ma lui è solo. Non vedo nessun altro. Dentro la casa le persone

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donne gridano. Attraverso la grande finestra posso vedere dentro. L’oggetto grande che la gente di casa chiama cande-labro è appeso al soffitto. È fatto di vetro. Regge molte can-dele. Tutte le candele sono accese. Il vetro appare bello nella luce. I mobili della stanza riflettono la luce. Tutto è lindo e lustro e pulito. La gente di casa lavora sodo per mantenere tutto lindo e lustro e pulito. È un grande orgoglio.

Saliamo di corsa i gradini del portico.Il Nonno dice, arrivate troppo tardi. Mio figlio John è mor-

to.Io non capisco questo fatto della morte. Quando una per-

sona è morta la si mette sottoterra. Poi si pronunciano molte parole su quel posto. Poi si mette una grande pietra sopra le loro teste. Dietro la casa c’è un posto speciale per i morti. Tante grandi pietre si trovano lì. Alcune nuove. Altre vec-chie. Altre ancora così vecchie che non si riescono a leggere le lettere che dicono chi si trova sotto di esse.

Doc entra in casa di corsa. Per essere sicuro che il Nonno abbia detto giusto, forse. Io resto sul portico, senza sapere che fare. Mi sento terribilmente triste. Non so perché. So di sapere che morire è male. O forse sono triste perché il Nonno sembra così triste.

Il Nonno mi dice, Sam, siediti e parliamo.Io non mi siedo, gli dico io. La gente sta sempre in piedi.È stato oltraggioso per lui chiedermelo. Lui conosce l’u-

sanza. Sa bene quanto lo so io che la gente non si siede mai con le persone.

All’inferno le usanze, dice lui, dimentica il tuo cocciuto orgoglio. Sedersi non è un male. Io sto sempre seduto. Piega-ti e siedi.

Su quella sedia, dice lui, indicando la poltrona accanto alla sua.

Io guardo la sedia. Mi domando se mi sosterrà. È fatta per le persone. La gente pesa molto di più delle persone. Non

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voglio rompere una sedia con il mio peso. Ci vuole molto tempo per farne una.

I falegnami sono gente che lavora molto, eppure ci vuole molto tempo a un falegname per fabbricare una sedia.

E poi mi dico che non è affar mio. Riguarda il Nonno. È lui a dirmi di fare questo.

Così mi giro e mi abbasso fino a toccare la sedia e mi pie-go e allora siedo. La poltrona a dondolo cigola, ma resiste. Così mi sistemo meglio. Ci si sente bene a stare seduto. Mi dondolo un poco. Ci si sente bene a dondolarsi. Il Nonno e io ce ne stiamo seduti, guardando fuori, verso il prato. Il prato è davvero bello. Il chiaro di luna lo illumina. Prima il prato e poi alcuni alberi e dopo gli alberi i campi di grano e ancora altri campi. Lontano il gufo parla nella palude.

Il procione grida. La volpe chiama, molto più in lontanan-za.

È un maledetto schifo, dice il Nonno, che un uomo possa passare la vita senza far niente, e poi morire per aver bevuto del liquore.

È sicuro che sia stato il liquore, chiedo io. Mi addolora sentire che il Nonno dà la colpa al liquore. George e io distil-liamo solo del liquore purissimo.

Il Nonno dice, non può essere stato nient’altro. Solo il li-quore fa vedere un alligatore azzurro a macchie rosa.

Niente elefanti viola, dice il Nonno.Mi domando cosa possa essere l'elefante. È un’altra cosa

che non so.Sam, dice il Nonno, siamo dei disgraziati. Non abbiamo

mai avuto una sola possibilità. Né voi, né noi. Non ce n’è uno solo buono tra tutti noi. Noi persone ce ne stiamo seduti per tutto il giorno senza fare mai niente. Qualche volta un po’ di caccia, forse. Qualche volta un po’ di pesca. Giochia-mo a carte. Beviamo liquore. E quando mi sento davvero pieno di energia, arrivo anche a lanciare qualche ferro di ca-

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vallo. Dovremmo essere fuori, per fare qualcosa di buono e di grande. Ma non facciamo mai niente. Mentre viviamo, non valiamo nulla. Quando moriamo, non valiamo nulla. Non serviamo a niente. Proprio a niente.

Lui continua a dondolarsi, amareggiato. Non mi piace il modo come parla. Si sente male, certo, ma questo non giusti-fica il modo come parla. Le persone eleganti come lui non dovrebbero mai parlare così. Standosene per tutto il giorno disteso sull'amaca, non dovrebbe mai parlare così. Tenendo in equilibrio il bicchiere di liquore sul petto, non dovrebbe mai parlare così. Mi sento a disagio. Vorrei andare via, ma non è cortese andare via.

Giù, ai piedi della collina, dove comincia il prato, vedo molta gente. In piedi, che guardano la casa. Ben presto co-minciano lentamente a salire attraversando il prato e si avvi-cinano alla casa. Non dicono niente, se ne stanno lì. Mostra-no il loro rispetto. Fanno sapere alle persone che partecipano al loro dolore.

Non siamo stati mai altro che rifiuti, dice il Nonno. Ora lo vedo bene. L’ho capito da molto, moltissimo tempo, ma non ho mai avuto il coraggio di ammetterlo. Ora lo posso dire. Viviamo in una palude, dentro case che cadono a pezzi. E cadono a pezzi perché non abbiamo alcuna iniziativa per ri-pararle. Un po’ di caccia e pesca. Qualche trappola qua e là. Un po’ di agricoltura. Ce ne stiamo seduti a far niente perché non sappiamo fare niente.

Nonno, dico io. Voglio che la smetta. Non voglio ascolta-re. Non voglio che lui continui a dire quello che ha detto Gambastorta.

Ma lui non mi presta attenzione. Continua a parlare.Un tempo, tanto, tanto tempo fa, dice, hanno scoperto il

modo di viaggiare attraverso lo spazio molto, molto veloce-mente. Più veloci della luce. Molto più veloci della luce. Hanno trovato degli altri mondi. Migliori della Terra. Mondi

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molto migliori di questo. Le astronavi sono partite a miglia-ia. Ci voleva così poco tempo per arrivare lassù. E così se ne sono andati tutti. Tutti all'infuori di noi. Persone come noi, in tutto il mondo, sono state lasciate qui. Quelli intelligenti sono partiti. Quelli ricchi sono partiti. I bravi lavoratori sono partiti. Noi siamo rimasti qui. Non valeva la pena di portarci con loro. Nessuno ci voleva su questo mondo. Nessuno ave-va bisogno di noi sugli altri mondi. Così ci hanno lasciati qui, i malati, i deboli, i poveri, i vagabondi, gli storpi, gli stu-pidi. In tutto il mondo costoro sono stati lasciati indietro. Così quando se ne sono andati tutti, ci siamo spostati dalle nostre catapecchie alle case principesche nelle quali avevano vissuto i ricchi e i furbi. Nessuno ce lo poteva più impedire. Se ne erano andati tutti, quelli buoni, quelli sani, quelli che potevano. A loro non importava più nulla, di quanto avrem-mo potuto fare di ciò che restava. Non gliene importa più nulla da tanto tempo. Così viviamo in case migliori, ma non siamo cambiati. E non servirebbe a nulla cambiare, se anche potessimo. Abbiamo voi che vi prendete cura di noi. Fate tut-to quanto voi. Noi non facciamo niente. Non impariamo neanche a leggere, noi. Quando saranno lette le orazioni fu-nebri sulla tomba di mio figlio, sarà uno di voi a leggerle, perché noi non sappiamo leggere.

Nonno, dico io. Nonno. Nonno. Nonno. Mi sento di pian-gere, dentro. Così lui era riuscito dove null’altro poteva riu-scire. Ha tolto tutta l’eleganza. Ha tolto tutto l’orgoglio. Ha fatto quello che Gambastorta non è mai riuscito a fare.

Ma adesso, dice il Nonno, non prendere un atteggiamento sbagliato. Neanche voi avete motivo di sentirvi orgogliosi. Noi e voi siamo uguali. Non serviamo a niente e a nessuno. Ce n’erano tanti altri dei vostri e quelli li hanno portati con loro. Ma voi siete stati lasciati qui. Perché eravate antiquati. Perché eravate lenti e goffi e stupidi. Perché eravate delle ferraglie prive di valore. Perché nessuno aveva bisogno di

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voi. Non potevano darvi spazio. Hanno lasciato qui noi e voi perché né noi né voi valevamo lo spazio che avrebbero dovu-to sacrificare per portarci.

Doc è uscito dalla porta veloce e sicuro. Mi dice, ho lavo-ro per te.

Tutti gli altri di noi sono saliti sul prato, senza dire niente, lentamente. Io cerco di uscire dalla sedia. Non posso. Per la prima volta non posso fare quello che voglio. Le mie gambe sono diventate acqua.

Sam, dice il Nonno, conto su di te.Quando mi dice questo, mi alzo. Scendo i gradini, esco sul

prato. Non c’è bisogno che Doc mi dica cosa devo fare. L’ho già fatto molte altre volte. Non c’è bisogno di sentirsi dire quello che si è fatto spesso. Non è come per Gambastorta che deve ripetere sempre le stesse cose. Io so cosa fare. Non ri-cordo quante volte, ma so di averlo fatto molte, molte volte.

Mi muovo.Parlo all’altra gente. Dò a ciascuno un lavoro da fare. Tu e

tu scavate la tomba. Tu e tu preparate la bara. Tu e tu e tu e tu correte alle altre case. Dite a tutti quanti che la persona zio John è morta. Poi dite di venire al funerale. Dite che sarà un funerale elegante. Ci sarà molto da piangere, molto da man-giare, molto da bere. Andate a chiamare il Predicatore. Dite-gli di preparare il sermone. Chiamate Joshua che dovrà leg-gere la Bibbia. Tu e tu e tu andate da George e aiutatelo a preparare molto liquore. Verranno altre persone. Dovrà esse-re tutto elegante.

Tutto fatto. Scendo per il pendio del prato. Penso pensieri di orgoglio e di perdita. L’eleganza se ne è andata. La mera-viglia se ne è andata e lo splendore. L’orgoglio se ne è anda-to. Non tutto l’orgoglio, però. Una specie di orgoglio rimane. Un orgoglio amaro e duro. Il Nonno ha detto, Sam siediti e parliamo. Il Nonno ha detto, Sam, conto su di te. Questo è orgoglio. Orgoglio duro. Non quello facile e morbido che

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c’era prima. Il Nonno ha bisogno di me.Nessun altro lo saprà. Il Nonno non ritornerà più in uno

stato tale da indurlo a parlare a qualcun altro come ha parlato con me. È un segreto tra noi due. Un segreto nato dalla tri-stezza. La vita degli altri non deve cambiare. Devono conti-nuare a pensare come prima. Gambastorta non è un proble-ma. Nessuno crederà mai a Gambastorta, anche se parlasse per l’eternità. Nessuno saprà mai che lui dice la verità. La verità è dura da accettare. Nessuno si preoccupa se non di quello che c’è da fare adesso, se non di quello che abbiamo adesso. Continueremo allo stesso modo.

All’infuori di me, perché io so. Non ho mai voluto sapere. Non ho mai domandato di sapere. Ho cercato di non sapere. Ma il Nonno non ha voluto tacere. Il Nonno ha dovuto parla-re. Viene il momento in cui un uomo se non parla muore. Deve liberarsi il petto di qualcosa. Ma perché con me? Forse perché mi ama più di tutti gli altri. È un grande orgoglio, questo.

Ma scendendo attraverso il prato, sto piangendo, nel pro-fondo, dentro di me.

CLIFFORD D. SIMAK

I Am Crying All Inside, di Clifford D. Simak, da Galaxy, © by Universal Publishing 1969. Traduzione di Ugo Mala-guti.

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BATTAGLIA SU MERCURIO

La novelette che rappresenta Clifford D. Simak, costante punto di riferimento letterario di Nova Sf* e della sua visio-ne della science fiction, è non soltanto un doveroso omaggio al più grande scrittore espresso da questa letteratura nel corso di questo secolo, ma anche a un personaggio straordi-nario, italianissimo, che se fosse vissuto fino a veder nascere Nova Sf* probabilmente sarebbe stato un amico della nostra rivista, sempre aperta alla capacità stilistica e ai contenuti ideologici, se sinceri e motivati e profondi: intendiamo par-lare di Giorgio Monicelli, raffinato traduttore dei classici della letteratura americana, straordinario personaggio della cultura italiana dagli anni ’30 alla fine degli anni ’50, idea-tore e primo - e mai superato - direttore de I romanzi di Urania, che furono la fonte della passione per il fantastico di un’intera e longeva generazione di lettori.

Abbiamo già dedicato saggi e studi a Giorgio Monicelli, e il primo volume della Storia della Fantascienza in Italia, at-teso per quasi un venticinquennio e quasi certamente in uscita quest’anno, lo vede come indiscusso protagonista: e pensiamo che ospitare sulle pagine di questa rivista un rac-conto “spaziale” del grande Simak nella versione che Moni-celli ne fece per la rivista udinese Galassia, da lui fondata insieme a L. R. Johannis e che ebbe una breve e intensa vita nel primo semestre del 1957, sia un doppio omaggio e un doppio tributo letterario.

Il racconto di Simak fa parte di quel breve ciclo, rimasto incompiuto, che Simak aveva preparato sui pianeti del siste-ma solare (ogni pianeta un racconto) all’inizio degli anni ’40, e che venne interrotto e rimpiazzato dall’idea dalla quale sarebbe poi nata City. La visione delle colonie di Mer-curio, tra l’inferno solare e l’oscurità della notte, è estrema-

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mente suggestiva come nelle migliori space-operas: e la pre-senza delle Girandole, questi camaleonti di energia che ap-paiono innocui e divertenti ai più, e che in realtà si rivelano creature assai più avanzate dell’uomo, è la classica nota si-makiana che rende questo racconto il migliore dell’intera serie planetaria e uno dei più suggestivi del primo periodo simakiano, quello per intenderci che comprende opere come The Creator e romanzi come Ingegneri cosmici e Impero. Curiosamente, in quest’opera il concetto d’intesa tra intelli-genze, così caro allo scrittore del Wisconsin, subisce una modifica sostanziale. I due mondi, quello delle Girandole e quello degli uomini, sono in realtà troppo diversi, troppo lontani per raggiungere un’intesa. Ma la caratterizzazione d’ambiente, la folgorante capacità pittorica, la progressione della storia, i risvolti umani che si mescolano alla colossale visione di un Mercurio fonte di energia per tutto il sistema solare, ne fanno uno dei testi avventurosi più notevoli del-l’autore; e la traduzione di Monicelli, poeta e letterato di straordinario valore, arricchisce la già bellissima prosa si-makiana di un senso del meraviglioso che oggi sembra quasi impossibile eguagliare.

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LE GIRANDOLE

Il vecchio Scortica era giù, nella Sala di Controllo a strim-pellare il suo violino. Sulla grande piana calcinata dal sole, intorno alla Centrale Elettromagnetica, le Girandole, sot-traendo le forme alla mente di Scortica, avevano assunto le sagome di villici terrestri e volteggiavano in una danza cam-pestre. Nella sala di refrigerazione, Mathilde, la gatta, studia-va irosamente i quarti di manzo congelato appeso sopra la sua testa. Su, in ufficio, in cima all’enorme fotocellula che era la Centrale, Curt Craig fissò irritato Norman Page in pie-di dinanzi a lui. A centosessanta chilometri di distanza, Knut Anderson, chiuso nell’ingombrante scafandro stava guardan-do con enorme stupore quello che si vedeva entro la distor-sione spaziale.

La batteria di comunicazione emise un ringhio di chiamata e Craig si girò sulla poltrona, sollevò il ricevitore e rispose con uno scoppio di voce.

«Parla Knut, direttore,» disse una voce terribilmente affio-chita dalle radiazioni.

«Sì, lo so,» gridò Craig. «Che cosa hai trovato?»«Una enorme distorsione,» tremolò la voce di Knut.«Dove?»«Ora ti dò il punto.»Craig afferrò una matita e cominciò a scrivere.«Più grossa di qualunque altra mai registrata,» continuò la

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voce di Knut, «lo spazio qui si è spaccato come per uno scoppio e sprofonda incredibilmente contorto fino all’infer-no. Gli strumenti sono impazziti.»

«Dovremo piazzare un rilevatore,» rispose Craig. «Anche se ha bisogno di una grande quantità di energia... Speriamo che la distorsione non si sposti verso qui...»

La voce di Knut cominciò a scoppiettare così che Craig non riuscì a capire una sola parola.

«Torna qui immediatamente,» si mise a urlare.Ma Knut lo interruppe:«C’è qualche altra cosa, direttore. Una cosa incredibilmen-

te strana...» Qui la voce si assottigliò e scomparve.Craig urlò nel microfono:«Che cosa succede? Che diavolo c’è di strano?» poi tac-

que sbalordito perché ad un tratto, ogni rumore era cessato nel microfono. Egli abbassò un interruttore. Il quadro ronzò sotto l’ondata di intensa energia immessa. Ci voleva una quantità incredibile di energia per mantenere un fascio unidi-rezionale costante nel radiofaro, su Mercurio. Ma non si udì nessun segnale di risposta. Qualche cosa era senza dubbio accaduto laggiù, presso la distorsione spaziale. Qualche cosa aveva interrotto il fascio di onde. Craig si alzò, pallidissimo, per guardare dall’oblò schermato contro le radiazioni ester-ne, la piana cinerea. Non era ancora il caso di perdere la te-sta. Knut sarebbe tornato presto. Quei trattori antitermici po-tevano schivare le pozze di metallo fuso sparse sulla piana anche procedendo a velocità molto elevata. Ma se Knut non fosse tornato? E se quella distorsione avesse cominciato a spostarsi? Era la più vasta che si fosse mai registrata, aveva detto Knut. Naturalmente, ce n’erano sempre da tenere d’oc-chio, ma pochissime quelle da far stare veramente in pensie-ro. Si trattava quasi sempre di piccoli vortici, là dove il con-tinuo spazio-temporale ondeggiava spiraleggiando quasi fos-se incerto in quale direzione fare un balzo. Non tanto perico-

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losi. Bastava stare accorti a non spingervi dentro un trattore... Ma una vasta distorsione, se si fosse cominciata a muovere, avrebbe potuto inghiottire l’intera Centrale...

Fuori, le Girandole sollevavano nuvole di polvere, stri-sciando i piedi, saltellando, agitando pazzamente le braccia. Per il momento non erano che umile gente di montagna, del-le montagne laggiù, sulla Terra, intente a ballare o a lavora-re. Ma c’era qualcosa di grottesco in quelle figure. Sembra-vano un poco degli spaventapasseri che si muovessero a tem-po di musica.

La pianura di Mercurio si spingeva lontana fino a un non remoto orizzonte. Una pianura ondulata, di polvere feroce. Il Sole era una cosa mostruosa, una cosa fatta di fiamme di un azzurro incandescente in un cielo nero punteggiato di stelle. Intorno, un groviglio di nastri scarlatti che guizzavano come tentacoli serpentini.

Mercurio era al perielio: a soli 46 milioni di chilometri dal Sole e forse a ciò si doveva la distorsione spaziale segnalata. Forse, dipendeva anche dalle macchie solari. Il fatto era che nessuno ancora ne sapeva niente.

Craig si era dimenticato completamente di Page che era sempre ritto di fronte alla scrivania. L’uomo tossicchiò poi disse:

«Spero che tu ci abbia ripensato, Craig. Questo mio pro-getto ha, per me, un’importanza eccezionale...»

La cocciutaggine di Page colmò Craig di un’ira enorme e irragionevole.

«Ti ho già detto una volta di no,» disse con uno scoppio di voce. «Dovrebbe bastarti, mi sembra!»

«Il fatto è che non riesco a capire il motivo della tua oppo-sizione,» ribattè Page. «Dopo tutto, queste Girandole...»

«Ti ripeto che non catturerai nessuna Girandola, Page. La tua idea è sballata da ogni punto di vista.»

«Sarà, ma non riesco a capacitarmi ancora di questo tuo

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atteggiamento nei miei riguardi. A Washington mi avevano assicurato che...»

L’ira di Craig esplose senza freno:«Non me ne importa un accidente di quello che possono

averti detto a Washington. Tornerai sulla Terra con l’astro-nave dell’ossigeno. E tornerai senza Girandole!»

«Eppure non porterebbe danno a nessuno. Ed io sono di-sposto a...»

Craig fece un gesto violento. Quindi puntò la matita che aveva in mano contro Page e cominciò con calma forzata:

«Ti spiegherò ancora una volta tutto per filo e per segno. Spero che tu possa finalmente capire. Le Girandole sono in-digene di questo pianeta. Sono state probabilmente le prime forme di vita apparse su Mercurio. E quando gli uomini giunsero qui la prima volta esse c’erano da gran tempo. Pro-babilmente ci saranno anche quando la nostra razza sarà spenta. Esse ci hanno lasciato vivere e noi abbiamo fatto al-trettanto. Ciò per l’eccellente ragione che non sappiamo che cosa esse potrebbero fare il giorno che le stuzzicassimo. In fondo, abbiamo paura di quello che potrebbero fare.»

Page aprì la bocca per parlare ma l’altro gli impose il si-lenzio e riprese:

«Sono organismi di energia pura che traggono la loro so-stanza vitale dal Sole. Come noi, del resto. Solo che noi otte-niamo la nostra seguendo una vita tortuosa. Le Girandole sono più valide ed efficienti in quanto assorbono la loro energia direttamente, senza ricorrere, come noi, a una serie di processi chimici. Quando si è detto questo si è detto tutto quello che c’era da dire. Ed è anche tutto quello che sappia-mo di loro. Dopo cinquecento anni che le osserviamo ci sono ancora del tutto sconosciute.»

«Pensi che siano intelligenti?» chiese Page con un tono di ironia offensiva.

«Certo!» sbraitò Craig. «Credi che non lo siano solo per-

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ché gli uomini non sono capaci di entrare in comunicazione con loro? Oppure perché esse non fanno il minimo sforzo per comunicare con noi? Probabilmente non lo possono fare solo perché il loro pensiero non ha alcun punto in comune con quello del genere umano per uno scambio di idee e concetti base. Forse esse considerano noi animali di una razza infe-riore; una razza per la quale non stimano che valga la pena di perdere il loro tempo.»

«Roba da matti!» brontolò Page. «Le Girandole ci spiano da secoli e si sono rese perfettamente conto di tutte le cose che l’uomo può fare. Hanno visto le nostre astronavi; hanno visto costruire questa Centrale e irradiare l’energia verso gli altri pianeti attraverso abissi di spazio di milioni e milioni di chilometri...»

«Certo che hanno visto tutto ciò,» convenne Craig. «Ma chi ci dice che ne siano rimaste impressionate? Perché le cose che facciamo dovrebbero impressionarle? Già, l’Uomo, il Grande Architetto! Ti prenderesti tu il disturbo di cercare di parlare con un ragno o una farfalla cavolaia? Eppure sono grandi architetti anche loro, così come lo sono anche queste sfere di fuoco.»

Page sembrava uscito dai gangheri davanti al suo superio-re. La rabbia lo fece urlare:

«Ma se sono superiori a noi, maledizione, dove sono le grandi cose che esse hanno creato? Dove le città, le macchi-ne, la loro cultura?»

L’altro sghignazzò:«Chi ti dice che non abbiano superato la fase delle macchi-

ne e delle città millenni e millenni or sono?»Qui si mise a battere ritmicamente la matita sulla scriva-

nia. Poi riprese:«Rifletti, Page: queste Girandole sono immortali o per lo

meno sembrano tali. Né pare che ci sia nulla che le possa di-struggere. Non hanno corpo, a quanto sembra. Sono sempli-

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cemente sfere di pura energia. Questa è la loro risposta a questo ambiente infernale. E tu hai il coraggio di pensare di catturarle! Tu, che non sai nulla di loro, vorresti portarne qualcuna sulla Terra per esibirle in qualche baraccone da fie-ra, farne un’attrazione da circo equestre, qualche cosa da far restare a bocca aperta un pubblico di scemi!»

«La gente non viene forse fin qui su Mercurio per vederle?» ribattè l’altro. «Tutti gli uffici turistici sulla Terra ne parlano nella loro pubblicità.»

«Questo è un altro paio di maniche,» tuonò Craig. «Se le Girandole vogliono dare spettacolo qui, sono affari loro. Ma non puoi pensare di portarle via. Te li immagini, i guai che ti procurerebbero?»

«Ma se sono così intelligenti, perché si abbandonano a tut-te queste esibizioni? Non fai a tempo a pensare una cosa che, ecco, esse te la rappresentano subito. Sono i più grandi mimi del Sistema Solare ma non ti riproducono mai una immagine alla perfezione. Vi è sempre qualche cosa che non corrispon-de al vero, qualche cosa di incompiuto e sottilmente inesatto. Questo è l’aspetto più interessante del fenomeno.»

Craig sghignazzò.«Già, c’è sempre qualche cosa di inesatto solo perché il

cervello dell’uomo non è in grado di farsi un’immagine per-fetta in tutti i particolari. Le Girandole si trasformano se-guendo direttamente ed esattamente il pensiero che captano. Quando tu pensi, non fornisci loro tutte le particolarità. Ognuno di noi pensa per sommi capi. Che colpa ne hanno le Girandole? Esse intercettano quel poco che tu fornisci loro e lo completano meglio che possono. Ecco perché le vedi tal-volta assumere l’aspetto di cammelli con criniere fluenti, cammelli con quattro o cinque gobbe, cammelli cornuti, un corteo interminabile di cammelli che sembrano usciti da un incubo... Se è a dei cammelli che tu pensi!»

Buttò la matita sul tavolo con un gesto di rabbia.

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«E non illuderti che le Girandole facciano tutto questo per divertirci. È molto più probabile che esse credano che noi pensiamo a tutte quelle belle cose soltanto per far loro piace-re. E si divertono immensamente. Forse questa è la sola ra-gione per cui esse ci hanno tollerato qui: per le immagini di-vertenti che forniamo loro. Quando l’uomo giunse su Mercu-rio per la prima volta, le Girandole erano soltanto sfere mul-ticolori che rotolavano un po’ dovunque sulla superficie del pianeta. Qualcuno le battezzò “Girandole” appunto perché facevano pensare a quei fuochi d’artificio. Ma da quel giorno esse sono state tutto ciò che l’uomo abbia mai pensato.»

Page si levò dalla sedia sulla quale s’era messo a cavalcio-ni.

«Riferirò a Washington del suo atteggiamento, capitano Craig,» disse freddamente.

«Riferisci quello che vuoi e dopo impiccati!» ruggì Craig. «Ti sei dimenticato di dove di trovi. Qui non è la Terra né questo ufficio è un ministero.»

Dette un gran pugno sul tavolo poi aggiunse:«Qui comando io e quando dico una cosa, quella cosa vale

per te come per ogni altro. È mio dovere mantenere questa Centrale in azione e far sì che l’energia fluisca senza interru-zione nello spazio verso i vari pianeti. Non permetto a nessu-no di venire qui a buttare all’aria ogni cosa. Finché ci sarò io, qui, nessuno stuzzicherà le Girandole. Abbiamo già troppi guai senza cercarne di nuovi.»

Page si stava avvicinando alla porta ma Craig lo fermò.«Ed ora un piccolo consiglio,» disse con ironia. «Se fossi

in te, non cercherei di sgattaiolare fuori su qualche trattore antitermico. Nemmeno col tuo, Page. Dopo ogni escursione, il serbatoio dell’ossigeno viene tolto dalla macchina e messo nel rigeneratore in modo che sia pronto per la successiva escursione. Il rigeneratore è chiuso e la sola chiave ce l’ho io, qui.»

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Guardò l’altro nel bianco degli occhi facendo una pausa significativa. Poi aggiunse.

«È rimasto poco ossigeno, nel tuo trattore, Page. Per una mezz’ora al massimo, forse meno. Non è igienico restare in secca così, nel deserto mercuriano. È stato trovato il corpo di un tale cui era capitata la stessa cosa, un paio di giorni fa...»

Ma Page se n’era già andato sbattendo la porta.Il vecchio Scortica aveva certamente smesso di suonare

poiché le Girandole avevano cessato le loro danze. Ora roto-lavano intorno, bolle vaganti di luce multicolore.

Craig pensava e teneva il capo stretto tra le palme.La sala di comando era un prodigio di ticchettìi, di battiti

lievi, di fruscii, di secchi ritmi attenuati, di strumenti volti a dirigerne il flusso di energia verso le Sottostazioni della Fa-scia d’Ombra, come era stato chiamato il Terminatore, cioè quella zona neutra che stava ai confini dell’emisfero eterna-mente esposto alle implacabili radiazioni di un Sole enorme e micidiale e l’altro emisfero eternamente buio dove la tem-peratura era vicina allo zero assoluto Strumenti che mantene-vano inoltre esattamente centrati i fasci di onde su quei punti dello spazio dove ognuno doveva essere captato dalle altre Sottostazioni disposte intorno ai pianeti esterni. Che solo uno di quegli strumenti cessasse di funzionare o che il fascio lan-ciato nello spazio deviasse solo di una frazione di grado... Craig rabbrividì al pensiero di un fascio di onde di potenza terrificante che investisse in pieno un pianeta o si abbattesse su una città. Ma l’automatismo degli impianti non era mai venuto meno e mai sarebbe venuto meno. Era perfetto e la Centrale era automatica e concepita per funzionare col mini-mo di sorveglianza umana. Erano ormai lontani di secoli i tempi in cui Mercurio alimentava mostruose batterie di tra-sformatori che dovevano essere poi trasportate sugli altri pia-neti da lente astronavi da carico. Questa era veramente ener-gia allo stato libero, facile da attingersi e disponibile in quan-

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tità illimitata. Energia trasportabile per milioni e miliardi di chilometri grazie al principio del Fascio di Onde Intense enunciato da Addison. Energia gratuita per lo sviluppo del-l’agricoltura di Venere, per le miniere di Marte, i laboratori chimici e le stazioni di studio sulla gelida superficie di Pluto-ne.

Craig udì lo scricchiolio dei passi di Scortica sulla scala e si volse verso la porta nell’istante in cui il vecchio entrava nella stanza trascinando i piedi.

«La Terra è appena passata dietro il Sole,» disse. «La sta-zione di Venere sta ora captando il totale della nostra emis-sione.»

Craig annuì. Questa era ordinaria amministrazione. Poi si alzò dalla sua poltrona e tornò presso l’oblò lasciando spa-ziare lo sguardo sulla rovente desolazione esterna. Un punto si muoveva nella polvere, presso l’orizzonte, un punto che si muoveva a grande velocità e sembrava procedere a balzi per quel morto deserto calcinato.

«Ecco Knut che ritorna!» esclamò.Scortica disse:«Gli vado incontro. Knut si è impegnato per una partita a

scacchi con me.»«Va bene, però prima voglio vederlo. Mandalo qui.»«Certo,» rispose Scortica.Poi si affrettò a scendere zoppicando verso l’ingresso.Craig cercò di dormire, ma non poteva. Qualche cosa di

indefinito lo disturbava. In fondo non c’era alcun motivo di stare in ansia più del solito, tuttavia egli non poteva dormire.

Il rivelatore puntato sulla mostruosa distorsione spaziale mostrava una lenta deriva, poco più di un metro l’ora, in di-rezione opposta a quella della Centrale. Gli altri rivelatori non indicavano la presenza di distorsioni paragonabili a quella. Tutto, almeno per il momento, era sotto controllo del-la Centrale. Ma pure c’era qualche piccola cosa, vaghi so-

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spetti e ancor più vaghi interrogativi.Knut, per esempio. Nulla da dire contro di lui, naturalmen-

te, ma Craig parlandogli aveva presentito qualche cosa. Era una sensazione di disagio che gli aveva fatto rizzare i capelli sulla nuca e venire la pelle d’oca lungo la schiena. Ma nulla di definito, di concreto.

E poi c’era Page, quel maledetto idiota. Avrebbe probabil-mente tentato di svignarsela per correre a catturare qualche Girandola. Un’idea fissa e Dio solo sapeva i guai che si sa-rebbero stati dopo.

Un’altra cosa bizzarra, poi, era il modo in cui le due radio di Knut, dello scafandro e del trattore, non avevano più fun-zionato. Fulminate, come colpite e sommerse da un’ondata di energia. Nessuno ci capiva nulla e Knut si limitava a strin-gersi nelle spalle. Su Mercurio accadevano sempre cose mol-to strane.

Craig rinunciò a dormire, infilò le pantofole e tornò verso l’oblò. Sollevata l’imposta, guardò fuori corrucciato.

Alcune Girandole rotolavano intorno. Ad un tratto una di esse si materializzò in una mostruosa bottiglia di whisky, si levò in aria e, inclinatasi, versò un getto di liquido sul terre-no.

Craig sogghignò. Era il vecchio Scortica che sognava ad occhi aperti, in un momento di regime secco.

Qualcuno battè leggermente alla porta e Craig si girò di scatto, raccolto su se stesso come in attesa di un attacco. Quindi ebbe un sorriso di autocommiserazione. Stava diven-tando isterico come una donnicciuola. Infine gridò:

«Avanti!»Scortica entrò zoppicando.«Spero di non averla svegliata,» disse.«Che cosa c’è?» e nel tempo stesso, mentre parlava, Craig

si sentì spasmodicamente teso. Evidentemente il suo sistema nervoso era in pezzi. Scortica fece ancora un passo e allungò

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il collo.«È Knut,» sussurrò. «Knut mi ha battuto agli scacchi sei

volte di fila!»La risata di Craig rimbombò nella stanza.«Ma prima ero sempre io che lo battevo!» insistette il vec-

chio. «Lo ho sempre lasciato vincere quando ho voluto invo-gliarlo a giocare con me...» fece una smorfia e Craig vide che i suoi baffi tremavano.

«E questo non è tutto, per il diavolo!» riprese Scortica. «Ho avuto la sensazione che Knut non fosse più quello di una volta... che fosse come cambiato...»

Craig afferrò il vecchio per una spalla e lo scosse. Poi dis-se:

«Capisco. So benissimo la sensazione che hai provato.» Quindi si ricordò il modo in cui i capelli gli si erano rizzati sul cranio quando, poco prima, aveva parlato con Knut.

Scortica annuì. I pallidi occhi ammiccavano mentre il pomo di Adamo gli andava su e giù. Intanto Craig si era strappato il pigiama di dosso e stava rivestendosi.

«Scortica,» ordinò con voce roca, «scendi subito in Sala Comando. Prenditi una pistola e chiuditi dentro. Aspettami, e non lasciar entrare nessuno!»

Fece una pausa poi ripetè:«Hai capito? Non lasciar entrare nessuno, e usa la pistola

se vi sarai costretto. Sbrigati!»Il vecchio strabuzzò gli occhi e inghiottì.«Ci sono guai in vista?» balbettò.«Non lo so. È proprio quello che voglio scoprire!»Giù nella rimessa, Craig ristette a fissare iroso lo scompar-

timento vuoto. Il trattore di Page era scomparso!Brontolando di rabbia, si avvicinò al deposito dell’ossige-

no. La serratura era intatta. Egli aprì e poi restò a fissare i bi-doni bene allineati e attaccati ai condotti di alimentazione. Stentava a credere ai propri occhi. C’erano tutti! Questo si-

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gnificava che Page se n’era andato sul trattore privo di ossi-geno. Significava che l’uomo sarebbe morto nell’incande-scente deserto della pianura mercuriana.

Craig si staccò impetuosamente dal deposito dell’ossigeno ma poi si fermò in mezzo alla stanza, la mente assillata da pensieri contrastanti. Inutile andare alla ricerca di Page. Il maledetto cialtrone era sicuramente già morto. Un vero e proprio suicidio. Autentica pazzia. Ed ora lui, Craig, avrebbe dovuto lavorare, e molto! Qualche cosa era successo laggiù, presso la distorsione spaziale. Egli doveva chiarire inoltre i torturanti sospetti che gli assillavano la mente. Vi erano due o tre cose di cui aveva bisogno di essere sicuro. Non poteva perdere tempo a cercare un uomo già morto, un pazzo che si era ucciso.

Rabbiosamente, Craig chiuse una delle valvole dell’ali-mentatore e staccò un bidone di ossigeno liquido. Era molto pesante, ma doveva esserlo, per resistere a una pressione di duecento atmosfere.

Mentre Craig si avviava verso un trattore, la gatta Mathil-de scese la rampa della scala che portava di sopra e venne a strofinarsi fra le gambe dell’uomo. Egli inciampò e fu sul punto di cadere. Imprecando contro la bestia con una loquela che veniva da una gran pratica, riacquistò l’equilibrio.

«Miau, au, au» fece Mathilde in tono di conversazione.Vi è qualcosa di irreale sul lato diurno di Mercurio. Una

anormalità che si sente con lo spirito più che vederla con gli occhi.

C’è il Sole nove volte più grande di quanto non lo si veda dalla Terra e il termometro non scende mai sotto i 400 °C. In quel calore terrificante, accompagnato da radiazioni devasta-trici scagliate dal Sole, gli uomini devono portare scafandri a cellule fotoelettriche, devono viaggiare in veicoli fotoelettri-ci e vivere nella Centrale che, in se stessa, non è altro che una colossale cellula fotoelettrica.

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Le rocce e il suolo sono stati sbriciolati in polvere sotto la sferza del calore e delle radiazioni. L’orizzonte è vicino, sempre incombente davanti a voi, come l’orlo di un abisso sempre presente.

Tuttavia non è ciò che rende il pianeta avverso, insolito e tremendamente ostile. È piuttosto la strana distorsione delle linee, quella distorsione che a volte vi sembra di scorgere ma della quale non siete mai sicuri. Forse la radice stessa di que-sta sensazione extra-terrena sta nel fatto che la massa enorme del Sole rende assolutamente impossibile l’esistenza di una linea retta esercitando una tensione che incurva i campi ma-gnetici e sovverte e sconvolge la struttura stessa dello spazio.

Craig sentiva tutta la bizzarra estraneità di Mercurio men-tre avanzava per la piana bruciante. Il trattore sguazzò ad un tratto entro una pozza di metallo fuso lanciando intorno una cascata di sprazzi lucenti. Craig non vi badò più che tanto. Nel fondo della sua mente palpitavano mille domande par-zialmente formulate. I suoi occhi avevano agli angoli un in-trico di sottilissime rughe e si fissavano con intensità quasi strabica sul filtro schermato, seguendo la pista lasciata dal trattore di Knut. Il serbatoio dell’ossigeno sibilava sommesso e il mescolatore dell'aria tossicchiava monotono. Il resto era silenzioso.

Volgendosi a guardare indietro, Craig notò una Girandola. Era una grande Girandola azzurra e sembrava che lo stesse seguendo. Ma in breve l’uomo se ne dimenticò. Guardò sulla carta l’ubicazione della distorsione spaziale. Era quasi arri-vato.

Già gli strumenti di bordo rivelavano la presenza del vici-no disturbo spaziale a misura che Craig vi si avvicinava. For-se, a guardare dalla giusta visuale e secondo un certo angolo, si sarebbe potuto scorgere un certo tremolio, una vaga incon-sistenza, come guardarsi in uno specchio difettoso. All’in-fuori di ciò non vi era nulla che mostrasse dove cominciava

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realmente la distorsione ed era difficile decidere quando si dovesse fermare. Ed era difficile anche, solo con gli stru-menti, evitare di cascarci dentro.

Craig rabbrividì a quel pensiero e ricordò con terrore le storie dei primi astronauti che erano incappati nelle distorsio-ni spaziali di Mercurio. Molti di quei pionieri che si erano avventurati sulla grande piana rovente ed erano caduti in una di quelle anomalie dello spazio, erano letteralmente spariti, come se si fossero dissolti nell’aria. Anche se, naturalmente, non c’era la minima aria nella quale dissolversi.

Su Mercurio l’aria mancava da molti milioni di anni e così pure tutti gli elementi allo stato libero erano scomparsi da milioni di anni. Quei pochi che restavano erano combinati così tenacemente che riusciva quasi impossibile liberarli con mezzi chimici. Ed era questa la ragione per cui aria liquida e altri gas venivano trasportati direttamente da Venere.

Il trattore si inerpicò fino in cima a una lieve altura e iniziò la discesa dell’altro versante. In fondo vi era una depressione al centro della quale era palese uno strano ondeggiamento di luce e di ombra. Craig spalancò gli occhi e rabbrividì.

La distorsione spaziale!L’uomo lanciò un’occhiata agli strumenti e trattenne il re-

spiro. Era davvero una distorsione gigantesca. Più gigantesca di quanto egli avesse immaginato. Craig scese cautamente in diagonale verso la fossa, avvicinandosi sempre più a quel-l’ondeggiante tumore, quasi invisibile, che segnava il punto della distorsione.

Ecco, la macchina di Knut si era fermata qui. Ed era qui che egli era sceso per portare gli strumenti il più vicino pos-sibile. Gli striscioni delle tracce lasciate dal suo scafandro sembravano carreggiate nella cenere del terreno. Poi, da que-sto punto, aveva cominciato a retrocedere per poi fermarsi e quindi riavvicinarsi alla distorsione. Ed era qui che...

Craig bloccò di colpo i freni e guardò sbalordito e atterrito

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attraverso il filtro schermato. Poi col fiato che gli usciva a singulti dalla strozza cercò freneticamente lo scafandro e se ne rivestì.

L’uomo uscì goffamente dalla macchina e si mosse verso la forma scura che giaceva per terra. Lentamente si avvicinò col cuore stretto nella morsa di una paura senza nome. Pros-simo ormai a toccare la forma immobile, egli si chinò. Il ca-lore, le radiazioni e le molteplici forze di quel mondo disu-mano avevano compiuto la loro opera essiccando, rattrap-pendo e carbonizzando quel corpo... Non vi era ombra di dubbio: là dove giaceva supina, la morta faccia di Knut An-derson lo guardava nera e implacabile.

Alla fine Craig si rizzò, si guardò intorno. Girandole dan-zavano sul crinale delle alture circostanti, roteando e volteg-giando. La solitaria Girandola azzurra, molto più grande del-le altre, aveva seguito la macchina e ora sembrava attendere a una ventina di passi, rotolando instancabilmente su e giù sul fianco della depressione.

Knut aveva detto che c’era qualcosa di molto strano in fondo a quella fossa. Lo aveva gridato, anzi, con la voce resa roca, quasi trafitta dall’urlo di radiazioni potentissime. Ma era poi stato Knut? Forse Knut era già morto quando il mes-saggio era giunto alla Centrale...

Craig si volse a guardare smarrito le dune di cenere, col sangue che gli martellava le tempie. «Se questo che giaceva supino fissando coi morti occhi la nera distesa dello spazio e quel sole mostruoso era Knut, chi era l’altro, lo Knut che aveva fatto ritorno alla base?»

Forse le Girandole potevano assumere anche l’aspetto di esseri umani? No, non era possibile. Che le Girandole sapes-sero imitare molto bene aspetti e pensieri, era un fatto accer-tato. Ma non giungevano al punto di farsi credere uomini. Vi era sempre qualche cosa di errato e impreciso nelle loro imi-tazioni... Qualche cosa di grottescamente approssimativo.

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Craig allora ripensò agli occhi di Knut, quando era ritorna-to; a quella loro espressione raggelante e spenta, espressione che talvolta compare negli occhi di creature disumane, senza pietà o misericordia. Era quello sguardo di Knut che gli ave-va fatto scorrere un brivido gelido lungo la schiena. E Knut che perdeva sempre agli scacchi con Scortica aveva invece vinto sei partite di fila!

Craig si volse a guardare il percorso. Le Girandole conti-nuavano a volteggiare sulle dune, ma la grande Girandola blu era scomparsa. Una sgradevole sensazione di avverti-mento spinse Craig a voltarsi di scatto verso la distorsione. Di fronte a lui, sul limite, stava ritto un uomo e Craig lo fissò impietrito, muto e inetto a fare la minima mossa.

Perché l’uomo che gli stava ritto davanti a meno di quin-dici metri era Craig. Curt Craig, se stesso!

Sì, in ogni particolarità fisionomica quell’uomo era lui stesso, un secondo Curt Craig, come se egli avesse voltato un angolo di strada e incontrato se stesso che tornava indietro.

Lo sbalordimento infieriva ora nel cervello di Craig. Una stupefazione rombante, struggente. Istintivamente egli fece due passi in avanti ma poi si fermò di colpo poiché lo sbalor-dimento si era tramutato in paura, una paura sottile e pene-trante come uno stilo.

L’assurdo uomo gli stava dinanzi, alzò una mano e gli fe’ cenno di avvicinarsi. Craig rimase inchiodato dove si trova-va, cercando di ragionare ai margini della sua paura. Non po-teva essere un miraggio o un riflesso della sua stessa imma-gine perché l’altro se stesso avrebbe dovuto essere chiuso nello scafandro e invece non lo era. E se fosse stato un uomo in carne e ossa non avrebbe potuto resistere un solo istante indifeso e a testa nuda nel folle ardore del Sole. Chi era dun-que?

L’uomo fece un passo avanti e simultaneamente Craig co-minciò a indietreggiare mentre le sue mani si portavano sulle

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impugnature delle sue pistole. Ma con le pistole a mezzo fuori delle custodie Craig si fermò. L’uomo era scomparso. Era semplicemente svanito. Non c’era stato nessun tremolio preliminare come di materia che si disfaccia. L’uomo non c’era più, semplicemente. Ma al suo posto aleggiava ora la Girandola azzurra che si dondolava avanti e indietro. Avanti e indietro.

Un sudore freddo gocciolava lentamente dalla fronte sulla faccia di Craig, chiuso nello scafandro. Egli sapeva di aver sfiorato la morte ma, ancor peggio, capiva di essersi spinto vicinissimo a qualche cosa ancor peggio della morte. Preso dal panico, corse verso il trattore, ne spalancò lo sportello e si buttò al posto di guida.

Ora Craig aveva lanciato la goffa macchina a tutta veloci-tà, il cuore artigliato dalle gelide dita del terrore. Per due vol-te fu sul punto di finire disastrosamente la corsa: la prima quando si ingolfò in una duna mobile di cenere, la seconda nello sprofondare in una pozza di stagno liquido. Mentre stringeva spasmodicamente il volante e si inerpicava sul fianco di una collina sabbiosa, Craig pensava a quello Knut che era alla Centrale e che non era Knut. No, non era Knut anche se sapeva le cose che sapeva Knut, si conduceva, par-lava, gestiva come Knut. Che cosa poteva fare un uomo come Craig di fronte a una cosa simile? Come poter separare l’originale dal suo simulacro? La creatura ritornata alla Cen-trale aveva vinto Scortica agli scacchi. Tutto questo che cosa significava? E poi c’era la Girandola azzurra che aveva as-sunto la forma di Craig e aveva tentato di attirarlo entro la distorsione. Evidentemente le Girandole erano capaci di alte-rare la loro struttura elettronica così da poter continuare ad esistere anche nell’interno delle distorsioni spaziali. Proba-bilmente esse avevano attirato Knut in quell’inferno mo-strandogli sotto un aspetto umano, stimolando la sua curiosi-tà. Così quando Knut si era spinto entro il raggio d’azione

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del fenomeno spaziale, esse lo avevano attaccato. Esse non potevano far del male ad un uomo chiuso in uno scafandro perché lo scafandro era una grossa cellula fotoelettrica e le Girandole erano energia. In un duello del genere, la cellula vinceva sempre.

«Metodo molto scaltro da parte loro,» pensò Craig. «Un metodo di attacco tipo Cavallo di Troia.» Innanzi tutto ave-vano spacciato Knut, poi avevano tentato di uccidere lui, Craig. Così, due Girandole insediate nella Centrale avrebbe-ro avuto facilmente ragione del vecchio Scortica.

Sterzò con tale violenza che il trattore fu per rovesciarsi. Ma Craig doveva scaricare in qualche modo il suo furore. Spinse la macchina intorno a un piccolo promontorio schi-vando un precipizio e riprese la sua corsa sfrenata attraverso l’infuocato deserto. Doveva trovare subito Tessere che si spacciava per Knut. Trovarlo e poi decidere che cosa fare di lui.

Trovare la Girandola Knut era più facile a dirsi che a farsi. Craig e Scortica, chiusi negli scafandri, stavano consultando-si nella cucina della Centrale.

«Maledetto il diavolo,» gracchiò Scortica, «dovrà pur es-sere nascosto in qualche angolo! Che razza di nascondiglio può aver trovato, quella specie di palla di fuoco?»

Craig scosse la testa.«Non abbiamo trascurato nulla, Scortica. Abbiamo frugato

la Centrale da cima a fondo.»«Forse,» azzardò il vecchio, «ha creduto che fosse venuta

la resa dei conti e se l’è squagliata per la camera di decom-pressione quando io ero chiuso nella Sala di Comando.»

«Può darsi,» convenne Craig, «ci stavo pensando anch’io. Ha sfasciato la radio e di ciò siamo sicuri. Temeva che potes-simo chiamare aiuti e ciò significa che ha un piano. Può darsi che proprio in questo momento ci stia lavorando attorno.

La Centrale era immersa nel silenzio e i fievoli suoni degli

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strumenti servivano a far risaltare maggiormente quella pace di cattivo augurio.

«Che gli venga un colpo!» imprecò Scortica. «Lo sapevo bene che non poteva farmela! Knut non è mai stato capace di battermi lealmente agli scacchi!»

Dalla camera di refrigerazione giunse un miagolio freneti-co, lungo e lamentoso.

Scortica si avviò verso la porta, agguantando una scopa.«È ancora quella dannata gatta,» disse. «Ha la mania di

andarsi a cacciare là dentro tutte le volte che le si offra il de-stro di farlo!»

Craig aveva superato di un balzo il tratto che lo separava dalla porta e con una mano sulla leva aveva impedito al vec-chio di abbassarla.

«Un momento!» ordinò.Mathilde lanciò un altro miagolio.«C’è quella dannata gatta...» masticò ancora Scortica.«Forse non è la gatta,» articolò Craig ansimando e con

voce roca.In quel momento, dalla soglia che dava sul corridoio oppo-

sto, giunse un lento e sommesso brontolio felino. I due uomi-ni si voltarono di scatto.

Mathilde era ferma sulla soglia e stropicciava la schiena inarcata contro lo stipite fremendo, con la coda gonfia. Dal-l’interno della camera di refrigerazione venne un urlo di sel-vaggia furia.

Scortica socchiuse gli occhi e lasciò cadere la scopa.«Ma c’è una sola Mathilde!» esclamò in tono piagnucolo-

so.«Certo che ce n’è una sola!» ribattè Graig. «Una di queste

gatte è la vera Mathilde. L’altra è Knut o chi diavolo sia al posto di lui!»

Il campanello d’allarme della camera di decompressione squillò lungamente e Craig corse davanti a un oblò, sollevan-

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done la saracinesca.«È Page!» urlò. «È Page che è ritornato!»Si staccò dall’oblò con la faccia stravolta in una espressio-

ne di profonda incredulità. Page era uscito dalla Centrale cin-que ore prima con ossigeno per mezz’ora eppure era là, di ri-torno!

Gli occhi di Craig si fecero duri e intenti mentre un pro-fondo solco gli si scavava fra i sopraccigli.

«Scortica!» ordinò a un tratto. «Apri la camera di refrige-razione e prendi quella gatta. Non lasciartela sfuggire!»

Scortica fece una brutta faccia ma si affrettò a scendere la rampa verso la camera fredda. Ne spalancò la porta e china-tosi a braccio teso cercò di afferrare la bestia. Mathilde si mise a far le fusa arrotando con grazia le unghie sulle dita guantate del vecchio.

Intanto Page era sceso dal trattore e attraversava la rimessa dirigendosi verso l’interno con un sonoro battere di tacchi sul pavimento. Da dietro il vetro dello scafandro, Craig lo guardò iroso.

«Hai disobbedito ai miei ordini!» gridò. «Sei uscito e hai catturato delle Girandole!»

«Tutto è andato a meraviglia, capitano Craig,» rispose Page allegramente. «Docili come altrettanti micini. Sono creature meravigliose!»

Quindi lanciò un fischio e dallo sportello spalancato del trattore uscirono roteando due Girandole, una rossa e l’altra verde. Rimasero poi accanto al veicolo rotolando avanti e in-dietro come in una paziente attesa.

Craig le guardava con aria ammirata e attonita nel tempo stesso.

«Piccoli diavoli intelligenti!» articolò Page, bonario.«E poi proprio in giusto numero!» masticò Craig.Page sussultò lievemente ma si riprese subito:«Sì, è quello che penso anch’io. Naturalmente, dovrò ad-

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destrarle ma sono convinto che quando saranno sopra a un palcoscenico l’accoglienza del pubblico sarà delle più entu-siastiche.»

Craig si avvicinò al deposito dell’ossigeno e aprì di scatto il coperchio.

«C’è però una cosa che non riesco a capire,» disse. «Ti avevo avvertito che non avresti potuto aprire questo cassone e che inoltre senza il normale rifornimento di ossigeno sare-sti morto. Pure sei qui, fresco come una rosa!»

L’altro scoppiò a ridere.«Avevo un po’ di ossigeno nascosto, Capo. Avevo previ-

sto che le cose avrebbero preso una piega del genere...»Craig sganciò un bidone e rimase là ritto, col recipiente tra

le braccia.«Sei un colossale bugiardo, Page,» egli disse con calma.

«Tu non avevi affatto altro ossigeno. Non ne avevi bisogno e un uomo sarebbe morto al posto tuo in quell’inferno. Di una morte atroce. Ma tu non sei morto, Page per la semplice ra-gione che non sei un uomo!»

Page retrocesse precipitosamente mentre Craig lanciava un urlo di avvertimento. Allora Page si fermò, impietrito, con gli occhi ansiosi fissi sul bidone di ossigeno. Le dita di Craig giocavano nervosamente sulla valvola di controllo.

«Una sola mossa da parte tua,» lo avvisò cupamente, «e ti bombardo di ossigeno. Sai bene di che si tratta. Ossigeno li-quido a una pressione di duecento atmosfere. Più freddo del-le gelide distese spaziali...» Qui fece una pausa e poi sorrise con ferocia: «Una dose di questo liquore sconvolgerebbe di-sastrosamente il tuo metabolismo, non è vero? Un metaboli-smo resistente al punto da poter tenere duro qui, nella Cen-trale.» Qui fece una pausa e poi parlò con maggior calma:

«Voi Girandole vivete là fuori sulla superficie del pianeta da troppo tempo, in mezzo a un inferno di energia e qui non ce n’è molta di energia. Dobbiamo tenerla imbrigliata, star-

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cene al riparo da essa se non vogliamo morire, noi esseri umani. E nell’ossigeno liquido ce n’è ancor meno di energia. D’accordo; voi siete il risultato del vostro ambiente ed esten-dete sempre più il vostro dominio. Ma c’è un limite anche alla vostra invadenza.»

«Parleresti in tutt’altro tono,» rispose Page risentito, «se non fossero questi scafandri spaziali che indossate.»

«Vedo che il fatto ti contraria non poco, vero?» osservò Craig in tono sarcastico. «Ce li siamo messi per dare la cac-cia a un tuo collega. Ho il sospetto che si trovi nel refrigeran-te?»

«Un mio collega... nel refrigerante»«Sì, quello che è tornato qui sotto l’aspetto di Knut e che

si è tramutato in un’altra Mathilde appena si è accorto che volevamo dargli la caccia. Ma ha fatto il suo lavoro con trop-pa abilità: era quasi più gatta che Girandola. Allora ha dovu-to svignarsela nella camera di refrigerazione. Ma sembra che non gli piaccia troppo, il refrigerante.»

Le spalle di Page si fecero d’un tratto cascanti e striminzi-te. Poi per un istante la sua fisionomia divenne incerta, tre-molante, dalle linee mal definite. Infine si riconsolidò in trat-ti e contorni precisi.

«Il fatto è che voi Girandole cercate di fare le cose con un eccesso di perfezione,» riprese Craig. «Proprio in questo mo-mento tu sei più Page che Girandola; più uomo che creatura elettromagnetica.»

«Non avremmo dovuto agire subito,» disse Page. «Avrem-mo dovuto attendere che fosse venuto qualche altro al tuo posto. Eri troppo franco e sincero quando parlavi di noi. Né avevi l’ironico disprezzo che quasi tutti gli altri uomini han-no sempre avuto per noi. Avevo detto loro di attendere, ma un uomo chiamato Page rimase intrappolato in una distorsio-ne spaziale e...»

Craig annuì e sorrise amaramente.

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«Capisco,» disse, «non potevate perdere quella occasione. Di solito, non è facile colpirci, distruggere la nostra invulne-rabilità. Non potete combattere contro le cellule fotoelettri-che e avete dovuto ricorrere all’inganno, inventando frottole il più convincenti possibile. Come quella tua storia di voler prendere al laccio le Girandole...»

«Il vero Page si era avventurato all’aperto con quello sco-po,» obiettò il simulacro di Page. «Era evidente che doveva soccombere nel tentativo. Non è stata, in fondo, che giustizia poetica.»

«È stata un’idea molto scaltra la tua,» ammise Craig dol-cemente. «Più scaltra di quanto tu stesso potessi immaginare. Portare qui due tuoi accoliti fingendo di averli catturati e aspettando che noi allentassimo la sorveglianza.»

«Stammi a sentire,» disse la Girandola che era Page. «Noi sappiamo capire quando perdiamo. Che cosa intendi fare ora?»

«Libereremo la Girandola chiusa nel refrigerante. Poi apri-remo le porte a chiusura stagna e voi potrete andarvene in pace.»

«E se non volessimo andare?»«Allora vi inonderemmo di ossigeno liquido,» disse Craig.

«Ne abbiamo scorte enormi nei serbatoi qui sopra.»Dalla cucina venne un fracasso spaventoso. Un rumore si-

mile a quello prodotto da un rotolo di filo spinato sbattac-chiato sopra una lamiera. Il bailamme era punteggiato dalle urla stridule di Scortica. Poi giù dalla scala della cucina piombò un bolide roteante e peloso, inseguito dal vecchio che brandiva una scopa. La palla di pelo si scisse, divenne due gatte identiche, con code cinque volte più grandi del nor-male, schiene inarcate e irsute, occhi ardenti di un verde fu-rore.

«Mi ero stancato di tenere quella dannata Mathilde,» disse Scortica, ansimando.

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«Ho capito,» assentì Craig, «e allora l’hai buttata nel refri-gerante insieme con l’altra gatta.

«Proprio così. E poi si è scatenato l’inferno sotto il mio naso.»

«Bene!» disse Craig con uno scoppio di voce. «Ora, Page, se vuoi dirci quale di queste due gatte è la tua...»

Page disse qualche cosa in tono reciso e una delle due be-stie cominciò a tremolare, svaporando; macchia fluida e gal-leggiante che alla fine si materializzò in una Girandola, mi-nuscola Girandola di un rosa tenue.

La vera Mathilde lanciò un lungo gemito e corse via in preda al terrore.

«Page,» disse Craig, «tu sai che noi non abbiamo mai vo-luto farvi del male. Se lo desideri, vorremmo esservi amici. Non c’è una maniera?»

Page scosse il capo.«No, capitano Craig, siamo troppo diversi. Tu ed io abbia-

mo parlato molte volte ma abbiamo parlato fra noi come due uomini piuttosto che come un uomo e un essere della mia specie. Le nostre differenze sono immense e le nostre menti troppo diverse.» Qui esitò e per un istante le sue labbra si misero a balbettare: «Sei un brav’uomo, Craig. Avresti dovu-to essere una Girandola.»

«Scortica,» ordinò Craig, «apri la porta della camera di de-compressione.» Ma quando il vecchio fu vicino all’uscita lo richiamò.

Poi disse:«Ancora una cosa. Un favore personale. Potresti dirmi,

Page, che cosa si nasconde sotto questo mistero?»«È molto difficile a spiegarsi,» rispose la Girandola-Page.

«Vedi, è una questione di civiltà, di cultura. Non sono queste le parole esatte ma le più vicine che io possa trovare nella tua lingua per esprimere il mio concetto. Prima che l’uomo ve-nisse qui noi avevamo una civiltà, un modo di vivere, un co-

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stume, un pensiero che erano solo nostri. La nostra linea evo-lutiva non è stata come la vostra: noi abbiamo saltato a piedi pari questa rozza fase preliminare di civiltà che voi state vi-vendo attualmente. Noi siamo partiti da un punto dove voi non giungerete che fra un milione di anni. Avevamo una mèta, un ideale, un punto di arrivo e progredivamo su quella strada. Poi siete arrivati voi...»

«Credo di capire,» disse Craig. «Noi siamo una causa di turbamento, svolgiamo senza volerlo un’azione di disturbo a danno della vostra evoluzione. I nostri pensieri si intrometto-no nelle vostre menti e voi vedete la vostra civiltà decadere in frotte di mimi e di pagliacci che, in assurdi dialetti, assor-bono idee diverse e remote, metodi e concezioni estranee ed assurde.»

Fissò Page, poi aggiunse:«Ma non c’è proprio il modo di mettersi d’accordo? Acci-

denti, mi sembra impossibile!»Ma mentre diceva questo sapeva che non c’era modo. Tut-

ta la lunghissima serie di eventi che era la storia dell’uomo sulla Terra registrava centinaia di guerre come quella che si annunciava ora su Mercurio. Guerre combattute in nome di fedi diverse, di formulazioni religiose diverse, di culture e ideologie diverse. Pur tuttavia coloro che avevano combattu-to quelle guerre erano membri della stessa specie e non già forme di vita differenti separate da origini diametralmente opposte, caratterizzate da metabolismi altrettanto opposti e da menti senza alcun punto in comune.

«No,» disse Craig quasi a se stesso, «Non c’è modo.» Quindi si rivolse di nuovo alla Girandola-Page:

«Può darsi che un giorno noi si abbandoni questo pianeta. Che ci si trovi un’altra fonte di energia più ricca e meno co-stosa di questa e che vi si lasci in pace sul vostro mondo. Ma in attesa di quel giorno...» Non finì la frase.

Page si voltò e si diresse verso l’uscita seguito dalle due

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Girandole e dalla piccola Girandola rosa.Davanti all’oblò, i due terrestri videro le Girandole uscire

sulla piana rovente. Page aveva ancora la forma di un uomo ma quando cominciò ad allontanarsi dalla Centrale il suo corpo si fece fluido, si raccolse in se stesso condensandosi verso il proprio centro ed infine divenne una sfera.

Scortica sghignazzò, al fianco di Craig:«Per il diavolo, era una Girandola violetta.»Craig sedeva al tavolo intento a scrivere un rapporto per il

“Consiglio Energia Solare”:«...hanno aspettato cinquecento anni prima di agire. Forse

nella speranza di trovare un metodo migliore. Ma forse può darsi che il tempo abbia per loro un valore differente. In tutti questi secoli le Girandole non hanno fatto altro che osservar-ci. Hanno letto nelle nostre menti, assimilato i nostri pensie-ri, indagato le nostre cognizioni e assorbito le nostre perso-nalità. Forse, ci conoscono meglio di quanto non ci conoscia-mo noi stessi. Non so se la loro rozza imitazione dei nostri pensieri sia un abile stratagemma per farsi credere innocue o altro. Non posso fare alcuna supposizione.

«Certo è che noi non ci siamo mai dati pensiero di proteg-gerci da loro. Le abbiamo considerate, in generale, entità di-vertenti e niente altro. Se la gatta nel refrigerante fosse real-mente la nostra gatta o una Girandola, non so. Ma fu la gatta nel refrigerante che mi suggerì l’idea dell’ossigeno liquido come difesa. Indubbiamente esisteranno metodi più efficaci. Tutto ciò che può privare le Girandole di energia potrà servi-re allo scopo. Nella convinzione che questi strani esseri elet-tromagnetici tenteranno ancora di sopraffarci, e ciò anche se dovessero attendere altri cinquecento anni, propongo con la massima urgenza che...»

Qui Craig interruppe la scrittura per riflettere qualche istante. Nell’angolo, il cestino della carta straccia fu scosso da un lieve fremito e Mathilde ne uscì stirandosi, la coda a

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mezz’asta. Con uno sguardo sdegnoso a Craig, la gatta mos-se a passi lenti e schizzinosi verso la porta e scomparve nel-l’ombra della scala.

Di sotto si udiva il mandolino di Scortica. Ma il vecchio suonava di malavoglia e sembrava che la scomparsa di Knut gli fosse più dolorosa di quanto era lecito attendersi.

Craig pensò che doveva ancora avventurarsi nel deserto per ricuperare il corpo di Knut e imbarcarlo sulla prima astronave per la Terra. Soprattutto aveva bisogno di dormire. Tuttavia riprese a scrivere: «...si faccia ogni sforzo per la do-tazione di un’arma efficace da usarsi esclusivamente a scopo difensivo. Un programma di sterminio, come è già stato at-tuato sugli altri pianeti, qui è impensabile.

«Per fare questo sarà necessario studiarle come loro hanno studiato noi. Prima di combatterle dobbiamo conoscerle. Per-ché la prossima volta il loro metodo di attacco sarà indubbia-mente diverso.

«Dobbiamo anche elaborare un test capace di distinguere gli umani dalle Girandole, prima di far entrare chiunque nel centro.

«Infine, bisognerà fare ogni sforzo per sviluppare qualche altra forma di approvigionamento di energia, in vista del giorno in cui Mercurio ci sarà del tutto precluso.»

Rilesse il rapporto poi sbuffò e gettò con rabbia la penna.«Non li entusiasmerà,» brontolò. «Soprattutto l’ultima fra-

se.»Craig rimase ancora seduto alla sua scrivania per qualche

tempo, immerso in profonde riflessioni. Poi andò a porsi di-nanzi all’oblò.

Fuori, sulla feroce e disumana pianura di Mercurio le Gi-randole erano distribuite a coppie, due a due. Erano dadi co-lossali che si lanciavano ritmicamente nella polvere ardente. Fino dove poteva spingersi lo sguardo, la grande pianura era ricoperta di dominio galoppanti.

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Ogni coppia, a ogni lancio di dadi, mostrava due sette uscenti.

CLIFFORD D. SIMAK

Masquerade (Operation Mercury) di Clifford D. Simak, Copyright © 1941 by Street & Smith Publications, da Astounding Stories. Traduzione di Giorgio Monicelli.

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IL RICHIAMO DELL’INFINITO

Qual è la degna conclusione di un numero così straordi-nario di Nova Sf*, che ci ha permesso di spaziare attraverso le più diverse prospettive della fantascienza accompagnati da autori di ogni tempo e ispirazione?

Bene, la risposta è una sola: uno dei grandi romanzi brevi dell'autore più significativo espresso dalla science fiction, il grande Clifford D. Simak, una storia insolita e complessa nella quale si intrecciano alcune tra le tematiche più care all’autore del Wisconsin: Un richiamo da fuori, frutto del fe-licissimo periodo d’ispirazione che portò a opere quali Time and again e City, l’ennesimo inno alla libertà di pensiero, alla legittimità di essere diversi, al rifiuto di lasciarsi massi-ficare e irretire dalla falsa “normalità” del mondo.

Plutone, pianeta di frontiera, è stato abbandonato da anni, dopo il fallimento della costruzione della prima nave interstellare, e dopo l’arrivo di un messaggio da parte degli scienziati che presidiavano la base alla frontiera del Nulla, un oscuro messaggio che parlava di presenze infernali usci-te dal nulla per seminare paura e morte. Ma un uomo, un mutante, non è soggetto alla paura che impedisce a chiun-que, nel sistema solare, di avvicinarsi al piccolo pianeta: e anzi ritiene che l’isolamento di quel mondo offra il rifugio ideale a chi deve temere la reazione degli uomini “normali”, spaventati e inferociti come sempre di fronte a chi è superiore a loro. Naturalmente c’è il tema della porta tra i mondi, delle creature degli incubi degli artisti e dei poeti che in realtà non sono leggende, ma presenze venute da “altrove” e come tali presenti nella memoria della raz-za... e c’è il tema di un’ambizione delirante e di una scoper-ta prodigiosa, e infine l’antico, insopprimibile richiamo del-le stelle.

Tutto questo, chiaramente, non è risolto con i canoni della

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space opera, ma è lo sfondo per un agitarsi di sensazioni, nostalgie e sentimenti, e per un succedersi di scenari dall’e-vanescenza onirica... in una parola, quella capacità unica di affascinare che poneva Simak decenni più avanti dei suoi colleghi, tanto che mai come oggi le sue opere ci appaiono vive e attuali.

Raramente, come in questo romanzo breve straordinaria-mente anticipatore di stili e tematiche modernissimi, Simak ha intrecciato le sue tematiche favorite con tanta abilità e così profonda suggestione. E crediamo che non ci sia con-clusione migliore per il nostro viaggio attraverso le nuove proposte e i classici senza tempo della science fiction, di questa riproposta di un testo davvero magnifico, che merita di essere conosciuto nella sua veste completa dai lettori ita-liani ai quali molto probabilmente sfuggì, trenta e passa anni or sono, la precedente versione apparsa su Oltre il Cie-lo.

Ma altre opere, inedite o poco conosciute, di Simak, sono in programma per i prossimi volumi, in attesa che si possa attuare l’ambizioso progetto di riunire la sterminata produ-zione breve dell’autore in vari volumi: un progetto che ri-schia di allontanarsi nel tempo, ma che Nova Sf* sta co-munque portando avanti a modo suo.

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UN RICHIAMO DA FUORI

CAPITOLO I

La Piramide di Bottiglie

Era una piramide di bottiglie, centinaia di bottiglie che lampeggiavano e baluginavano, quasi ardessero di fiamma viva, raccogliendo e scomponendo la luce brumosa che fil-trava dal sole lontano, e dalle stelle ancora più lontane.

Frederick West, lentamente, avanzò di un passo verso la piramide, allontanandosi dal portello aperto della sua minu-scola nave. Scosse la testa, chiuse gli occhi e quando li riaprì la piramide era ancora là. Allora non si era trattato, come aveva temuto, del frutto della sua immaginazione, generato nell’oscurità e nella solitudine del volo dalla Terra.

C’era eccome ed era una cosa pazzesca. Pazzesca, perché non avrebbe dovuto affatto trovarsi lì. Non ci sarebbe dovuto essere niente su quel piccolo groviglio di pietra e di metallo quasi sconosciuto.

Perché non viveva nessuno sulla luna di Plutone. Lui stes-so non aveva pensato di fermarsi là, finché, girandovi intor-no per darvi un’occhiata prima di arrivare a Plutone, non aveva notato quel breve lampo di luce, come se qualcuno

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stesse lanciando dei segnali. Ovviamente era stata la pirami-de. Adesso l’aveva capito. Le bottiglie accatastate che cattu-ravano e riflettevano la luce.

Al di là della piramide c’era un rifugio spaziale, accovac-ciato tra i grossi massi puntuti. Ma non c’era alcun cenno, al-cun segnale di vita. Nessuno si stava precipitando fuori dal portello d’ingresso per dargli il benvenuto. E quello era stra-no, pensò. Dal momento che i visitatori dovevano essere piuttosto rari, sempre ammesso che ce ne fossero.

Forse la piramide era veramente un segnalatore, sebbene come sistema di segnalazione fosse alquanto rozzo. Era più verosimile che si trattasse del capriccio di un pazzoide. Pen-sandoci bene, chiunque fosse stato abbastanza matto da vive-re sulla luna di Plutone, sarebbe stato l’architetto perfetto per erigere una piramide di bottiglie.

La luna era talmente poco importante, che non le avevano nemmeno dato un nome. Gli astronauti, nelle rare occasioni in cui dovevano menzionarla, la chiamavano semplicemente “la luna di Plutone” e finiva lì.

Nessuno si spingeva più in quel settore dello spazio. E, tra parentesi, era stato proprio quello il motivo, si disse West, per il quale era venuto lì. Perché chiunque fosse riuscito a passare inosservato attraverso le maglie della vigilanza spa-ziale, una volta arrivato sarebbe stato completamente al sicu-ro. Nessuno l’avrebbe più infastidito.

Nessuno ormai si preoccupava più di Plutone. Da almeno tre anni, quando su di esso era stato emesso il bando, dal giorno in cui era arrivato il messaggio, partito dagli scienzia-ti dei freddi laboratori costruiti diversi anni prima.

Adesso sul pianeta non veniva più nessuno. Specialmente coi ricognitori spaziali perennemente di guardia, anche se esisteva il modo di schivarli. Bastava sapere dove si sarebbe-ro trovate in un determinato momento le navi di vigilanza e, aumentando la velocità, spegnendo i motori, e avvicinandosi

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per inerzia alle ombre del pianeta, sulla spinta della velocità precedente, si poteva arrivare fino a Plutone.

West, arrivato ormai vicino alla piramide, notò che era sta-ta costruita con bottiglie di whisky. Tutte vuote, completa-mente vuote, e con etichette recenti e nitide.

Si riprese e, distogliendo lo sguardo dalle bottiglie, avanzò verso il rifugio. Individuato il portello, spinse il bottone. Non ebbe risposta. Lo spinse di nuovo. Lentamente, quasi con ri-luttanza, la serratura del portello si sbloccò. Entrò con circo-spezione e, spostata la leva che chiudeva il portello esterno, aprì quello interno.

Dall’interno della capanna filtrava una luce fioca e dalla cuffia West poté sentire lo stridio secco di minuscoli artigli che graffiavano il pavimento. Udì poi un gorgoglio, come se dell’acqua stesse scorrendo lungo un tubo.

Col cuore in gola e il pollice agganciato al calcio della pi-stola, West attraversò velocemente la soglia del portello.

Un uomo, vestito con biancheria tarmata, era seduto al bordo di una brandina. I capelli erano lunghi e incolti e la barba germogliava in un nero, selvaggio, viluppo. Dal grovi-glio della barba spuntavano due occhi spiritati come quelli di un animale imprigionato in una caverna. Una mano ossuta porse una bottiglia di whisky come gesto di benvenuto.

La barba si mosse, lasciando uscire un gracidio, «Ne pren-da una boccata,» invitò.

West scosse la testa. «Non bevo.»«Io sì,» rispose la barba. La mano inclinò la bottiglia che

cominciò a gorgogliare.West lanciò un’occhiata furtiva intorno alla stanza. Niente

radio. Quello rendeva tutto più semplice. Se ci fosse stata una radio avrebbe dovuto spaccarla. Visto che, e se ne rende-va conto solo ora, era stato decisamente stupido da parte sua fermarsi su quella luna. Nessuno sapeva dove si trovava, e così doveva continuare a essere.

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West tirò su la visiera con uno schiocco.«Continuerò a bere, fino a morirne,» gli spiegò la barba.West, sbalordito, fissava la totale povertà, lo squallore as-

soluto del luogo.«Tre anni,» dichiarò l’uomo, «Non un solo respiro sobrio

in tre interi anni.» Tra un singulto e l’altro continuò a dire, «Mi sta agguantando.» Sollevò la mano sinistra e si percosse il petto rinsecchito. La lanugine volava via dalla biancheria sfilacciata, mentre la mano destra teneva ancora stretta la bottiglia.

«Anni terrestri,» spiegò la barba. «Tre anni terrestri. Non anni di Plutone.»

Qualcosa che schiamazzava spuntò tra le ombre che si ad-densavano in un angolo della capanna, e balzò sul letto. Si acquattò di fianco all’uomo, mettendosi a fissare West di sot-tecchi; con quella bocca, una fessura che sbavava da un lato all’altro della faccia, e la pelle raggrinzita, era un vero e pro-prio orrore alla pallida luce del rifugio.

«Le presento Annabelle,» disse l’uomo. Fece un fischio e l’essere gli si arrampicò sulla spalla, andandosi ad accocco-lare contro la sua guancia.

West, a quella visione, ebbe un brivido.«È solo di passaggio?» gli chiese l’uomo.«Mi chiamo West e sono diretto su Plutone.»«Chieda loro di mostrarle il dipinto,» aggiunse l’uomo.

«Sì, deve proprio vedere il dipinto.»«Il dipinto?»«È sordo?» chiese l’uomo in tono belligerante. «Ho detto

un dipinto. Capisce... un quadro.»«Capisco,» rispose West. «Ma non sapevo che su Plutone

ci fossero dei dipinti. Non sapevo nemmeno che ci fosse qualcuno.»

«Certo che c’è qualcuno,» affermò l’uomo. «C’è Louis e...»

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Sollevò la bottiglia e ne trangugiò una boccata.«Sono diventato un alcolizzato,» spiegò l’uomo. «E una

bella cosa l’alcolismo. Tiene lontano il raffreddore. Se sei al-colizzato è impossibile beccare il raffreddore. Però ti uccide più in fretta del raffreddore. Che diamine, si può andare avanti per anni col raffreddore...»

«Senta,» lo pressò West, «Deve parlarmi di Plutone. Di chi c’è. E del dipinto. Come mai è al corrente di tutte queste cose?»

Gli occhi lo guardarono con l’astuzia dell’ebbrezza.«Lei dovrebbe fare qualcosa per me. Non posso certo for-

nirle delle informazioni del genere per pura generosità d’ani-mo.»

«Naturalmente,» concordò West. «Qualsiasi cosa desideri. Deve solo dirmelo.»

«Deve portare Annabelle via da qui. Deve riportarla nel luogo da dove è venuta. Questo non è il posto adatto a una ragazza come lei. Non è fatta per vivere con un relitto ab-bruttito come me. Una volta ero un grand’uomo... sì, signore, un grand’uomo. Tutto ha avuto origine dalla ricerca di una bottiglia. Una bottiglia particolare. Dovevo assaggiarle tutte. Tutte quante, fino all’ultima. E una volta assaggiate, non mi restava altro da fare che berle. Se le avessi lasciate in giro, sarebbero andate di sicuro a male. E chi mai avrebbe voluto restare in un posto pieno zeppo di liquore deteriorato?»

Ne prese un’altra boccata.«E da allora che le sto bevendo,» spiegò. «Adesso le ho

quasi finite. Non ne sono rimaste tante. Ero convinto che avrei trovato la bottiglia giusta prima che fosse troppo tardi, e dopo sarebbe tornato tutto a posto. Adesso non mi servi-rebbe a niente trovarla, visto che sto per morire. Comunque ne sono rimaste a sufficienza da sopravvivere alla mia morte. Intendo morire sbronzo. È un modo allegro di morire.»

«Ma cosa mi dice di quelle persone su Plutone?» domandò

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West.La barba ridacchiò. «Li ho presi in giro. Mi hanno conces-

so la possibilità di scegliere. Prendi quello che vuoi, mi dice-vano.

Gran cuore, capisce. Amiconi fino all’ultimo. E così ho scelto il whisky. Casse di whisky. Vede, loro non lo sapeva-no. Li ho fregati.»

«Sono sicuro che l’ha fatto,» osservò West. Minuscoli pie-dini ghiacciati gli correvano su e giù per la spina dorsale. Perché lì c’era pazzia, lo capiva, ma una pazzia che seguiva un disegno logico. Da qualche parte, in qualche modo, que-sto discorso contorto sarebbe sfociato in un disegno che avrebbe avuto un senso.

«Ma qualcosa è andato storto,» l’uomo dichiarò. «Qualco-sa è andato storto.»

Il silenzio fischiò nella stanza.«Vede, signor Best,» continuò l’uomo, «Io...»«West,» precisò West. «Non Best. West.»L’uomo non sembrò farci caso. «Sto per morire, capisce.

Potrebbe succedere da un minuto all’altro. Ho un fegato e un cuore, e uno qualsiasi dei due potrebbe uccidermi. Sono gli effetti del bere. Ho preso l’abitudine mentre degustavo tutte queste bottiglie. Ci ho preso gusto. Finché non c’è più stato niente da fare...»

Si piegò in avanti.«Mi prometta che porterà via Annabelle,» gracchiò.Annabelle fissava West ridacchiando, mentre la bava le

colava dalla bocca.«Ma non posso riportarla indietro,» protestò West, «Se

non so da dove proviene. Deve dirmelo.»L’uomo agitò un dito. «Da lontano,» gracchiò. «Non così

lontano, però. Non da troppo lontano, se si conosce la stra-da.»

West diede un’occhiata ad Annabelle, mentre il vomito gli

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stava già salendo alla gola.«La porterò con me,» rispose. «Però deve dirmi dove.»«Grazie, Guest,» mormorò l’uomo. Sollevò la bottiglia, fa-

cendola gorgogliare.«Non Guest,» puntualizzò paziente West. «Mi chiamo...»L’uomo vacillò in avanti e cadde giù dal letto, stramazzan-

do al suolo. La bottiglia cominciò a rotolare all’impazzata, versando sporadici zampilli di liquore.

West si chinò, inginocchiandosi di fianco all’uomo, poi lo sollevò. La barba si mosse e, dal profondo del suo groviglio emerse un sussurro ansimante, poco più di un respiro, sem-pre più flebile.

«Dica a Louis che il suo dipinto...»«Louis?» gridò West. «Louis chi? Cosa...»Il sussurro tornò. «Gli dica che... un giorno o l'altro... di-

pingerà il posto sbagliato e allora...»Con delicatezza West tornò ad adagiare l’uomo per terra e

si allontanò. La bottiglia di whisky stava ancora dondolando avanti e indietro sotto la sedia dov’era andata a fermarsi.

Notando un oggetto che baluginava sulla testata del letto, West si diresse verso il punto dove era appeso. Era un orolo-gio, un orologio lucente, reso lucido da anni di attenzioni. Oscillava debolmente, appeso a un cinturino di pelle legato alla sbarra della testata del letto, in modo da poter essere af-ferrato al buio, per vedere l’ora.

West lo prese in mano e, girandolo, scorse l’incisione che ne attraversava tutta la parte posteriore. Si chinò per riuscire a leggere, alla luce fioca, l’iscrizione:

A Walter J. Darling, dalla classe del ‘16,del Politecnico di MarteWest, intuita la verità, si rialzò, la mente ancora stravolta

dall’incredulità.Walter J. Darling, quel mucchietto sul pavimento? Walter

J. Darling, insegnante per anni all'Istituto Politecnico di Mar-

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te, quel cadavere rinsecchito, abbruttito dall’alcol, con bian-cheria scadente?

West si terse la fronte col dorso della mano infilata nei guanti spaziali. Darling era stato un membro di quella miste-riosa commissione governativa assegnata ai freddi laboratori di Plutone, mandata fin là per sviluppare ormoni sintetici de-stinati alla mutazione controllata della razza umana. Una missione che fin da principio era stata tenuta volutamente se-greta perché si temeva, e a ragione, che la divulgazione di tali obiettivi avrebbe scatenato proteste violente tra l’umanità che non avrebbe mai capito quale bisogno ci fosse di perfe-zionarla biologicamente.

Una missione, pensò West, cominciata nel mistero, e finita nel mistero, mistero i cui bisbigli avevano messo le ali, per-correndo l’intero sistema solare. Bisbigli che avevano scate-nato fremiti di raccapriccio.

Louis? Doveva trattarsi di Louis Nevin, un altro membro della commissione di Plutone. Doveva essere lui l’uomo del quale aveva cercato di parlargli Darling, poco prima di mori-re.

E Nevin doveva trovarsi ancora lì, su Plutone, doveva es-sere ancora vivo a dispetto delle notizie arrivate sulla Terra.

Ma la storia del dipinto non calzava. Nevin non era un ar-tista. Era un biologo, di poco secondo a Darling. Allora il messaggio di tre anni prima era stato un imbroglio. C’erano ancora uomini sul pianeta.

Il che significava, si disse West con amarezza, che anche il suo piano era andato storto. Perché Plutone era l’unico posto del Sistema Solare dove avrebbe trovato cibo, e rifugio, e dove non sarebbe mai venuto nessuno.

Ripensò all’estrema cura con la quale aveva programmato ogni cosa... a come quella gli fosse sembrata la risposta per-fetta. Ammassate nei depositi ci sarebbero state provviste di cibo sufficienti per diversi anni, ci sarebbero stati comodi

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ambienti nei quali vivere, e ci sarebbero stati attrezzi e mac-chinari, caso mai ne avesse avuto bisogno. E, naturalmente, l’Entità, qualunque cosa fosse. L’orrore che aveva fatto chiu-dere il pianeta, che aveva piazzato i ricognitori spaziali a guardia della sua solitudine.

Ma West non si era mai preoccupato troppo di cosa avreb-be potuto trovare su Plutone, perché, di qualunque cosa si fosse trattato, non poteva essere peggiore della sua amarezza sulla Terra.

Qualcosa stava andando avanti nei laboratori di Plutone. Qualcosa di cui il governo era all’oscuro, o qualcosa che il governo aveva tenuto nascosto, con il rapporto di tre anni prima che adesso si rivelava menzognero.

Qualcosa che Darling avrebbe potuto dirgli, se solo l’aves-se voluto... o se ne fosse stato in grado. Ma adesso Walter J. Darling non poteva più dirglielo. West avrebbe dovuto sco-prirlo da solo.

West fece alcuni passi verso il punto dov’era sdraiato l’uo-mo, lo sollevò per adagiarlo sul letto e lo coprì con una co-perta sbrindellata.

Annabelle, appollaiata sul capezzale del letto, schiamazza-va, ridacchiando e sbavando.

«Ehi, tu, vieni qua,» chiamò West. «Forza, vieni qua.»Annabelle, lenta e ritrosa, alla fine arrivò. West la sollevò

con disgusto e la infilò in una tasca esterna che poi chiuse con la cerniera. Si avviò quindi verso la soglia.

Nell'uscire, raccolse da terra la bottiglia vuota e, una volta fuori, la sistemò in cima alla piramide.

CAPITOLO II

La Cantante Bianca

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La nave di West si dileguò come un’ombra d'argento tra i torreggianti picchi della montagna che faceva da scudo all’u-nica valle di Plutone che avesse mai conosciuto un’orma umana.

Entrando per inerzia, coi motori spenti, all’ombra del pia-neta, era riuscito a eludere la sorveglianza. Superate le mon-tagne, aveva riacceso i motori, frenando la nave che si era tuffata, quasi in un crawl, per non correre il rischio che i ba-gliori dei razzi potessero essere visti in lontananza da qual-che ricognitore.

E adesso, ridotta la velocità, mentre si abbassava con note-vole inclinazione su un campo d’atterraggio liscio come il vetro, si chinò sui comandi predisponendoli a un atterraggio a caduta libera, a dir poco pericoloso. Ma capì che sarebbe stato altrettanto pericoloso annunciare la sua venuta con un’altra esplosione dei razzi. Il campo era lungo e liscio. Se avesse toccato il suolo in modo adeguato e non troppo lonta-no, ci sarebbe stato spazio a sufficienza.

L’atmosfera quasi inesistente era un punto a suo favore. Non c’erano risucchi, né correnti d’aria che potessero fare deviare la nave, facendola cadere a vite o sbandare pericolo-samente.

In lontananza, sulla sua destra, scorse un lampo di luce e, nella frazione di un secondo, gli balenò l’idea che potesse trattarsi del laboratorio.

Poi la nave atterrò, a caduta, lanciando un sibilo lungo la pista di atterraggio, mentre la frizione faceva presa sullo sca-fo.. Quando la nave finalmente si arrestò, a ridosso di un am-masso di rocce ammucchiate alla rinfusa, West tirò un sospi-ro di sollievo, mentre il cuore riprendeva a battere. Solo po-chi metri in più...

Bloccati i comandi, appese al collo la chiave, abbassò la visiera dell’equipaggiamento spaziale e uscì dalla nave.

Dalla parte opposta del campo d’atterraggio brillavano le

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luci del laboratorio. Allora, non si era sbagliato. Aveva visto realmente le luci... perciò dovevano esserci degli uomini. O si stava forse sbagliando? Quelle luci avrebbero continuato a funzionare anche senza assistenza. Il fatto che fossero accese non era un motivo sufficiente per asserire che nell’edificio ci fossero anche delle persone.

Proprio in fondo al campo si profilava una struttura mas-siccia e West sapeva che erano gli stabilimenti della spedi-zione per Alfa Centauri, dove per troppi anni tanti uomini si erano affaticati nel tentativo di far funzionare il propulsore spaziale Henderson. Sapeva che da qualche parte, all’ombra degli stabilimenti illuminati dalle stelle, c’era proprio la nave spaziale, l'Alfa Centauri, lasciata lì quando l’equipaggio, sconfortato aveva rinunciato all’impresa, facendo ritorno sul-la Terra. Una nave messa a punto per volare lontano, tra le stelle, per lasciare il Sistema Solare, entrando nel vuoto, at-traversando anni luce con la stessa facilità con la quale una nave spaziale si recava dalla Terra a Marte.

Naturalmente non c’era andata, ma quello non aveva im-portanza.

“Un simbolo,” si disse West.Ecco cos’era... un simbolo e un sogno.E qualcosa di più. Adesso che era arrivato, adesso final-

mente poteva ammetterlo: qualcosa che era rimasto, latente, in fondo alla sua mente durante tutto il viaggio dalla Terra.

West girò la cintura, in modo da avere la pistola a portata di mano.

Se ci fossero stati degli uomini... o qualcosa di peggiore ancora, qualora il messaggio non fosse stato falso, avrebbe potuto aver bisogno della pistola. Anche se era poco credibi-le che la sconosciuta entità che avrebbe dovuto eventualmen-te affrontare potesse essere vulnerabile a una pistola.

Tremando, si ricordò del rapporto succinto e segreto ripo-sto, sulla Terra, negli archivi nascosti... la registrazione di

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quella voce tesa, stridula, giunta alla radio da Plutone, una voce che parlava di cose terribili, di uomini morti, e di una qualche entità rimasta libera. Una voce che dopo aver lancia-to il suo grido d’allarme, aveva farfugliato qualcosa, prima di spegnersi definitivamente.

Era stato proprio in seguito a quella vicenda che il pianeta era stato messo al bando ed erano stati mandati i ricognitori spaziali a tenere in quarantena Plutone.

Un mistero fin dall’inizio, pensò... un mistero dall’inizio alla fine. Soprattutto perché la commissione era alla ricerca di un ormone in grado di produrre mutazioni controllate nel-la razza umana. E una cosa del genere, com’era naturale pen-sare, non sarebbe piaciuta alla razza umana, perciò doveva rimanere un segreto.

La razza umana, West rifletté con amarezza, si sdegnava davanti a qualsiasi cambiamento che si discostasse dalla nor-malità. L’umanità che un tempo allontanava a sassate l’appe-stato dalle città, e soffocava i matti nei loro profondi letti di piume, e adesso si limitava a guardare con occhi sbarrati qualunque essere handicappato, e la sua pietà non era che un insulto bruciante. E la sua paura poi... oh, sì, la sua paura!

Lentamente, con molta cautela, West avanzò lungo la pista d’atterraggio. La superficie era levigata, talmente levigata che i suoi stivali spaziali non riuscivano a farvi presa.

Sull’altura rocciosa che sovrastava il campo si stagliava il laboratorio, ma West si voltò per fissare lo spazio lontano, come se dovesse dare l’ultimo commiato a qualcuno di sua conoscenza.

Terra, disse. Terra, puoi sentirmi, adesso?Non devi più aver paura di me, e non devi più preoccupar-

ti, perché non tornerò.Ma un giorno ci saranno altri come me. E forse ce ne sono

perfino adesso.Perché non sei in grado di distinguere un mutante da come

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si pettina, né da come cammina, né da come parla. Non gli spuntano le corna, non gli cresce la coda e non ha nessun marchio sulla fronte.

Ma quando riesci a individuarne uno, devi osservarlo at-tentamente. Devi spiarlo e controllarlo due volte. E devi tro-vare un posto dove rinchiuderlo, per poter essere al sicuro da quello che fa... ma non devi farglielo capire. Devi processar-lo e condannarlo e mandarlo in esilio, senza che nemmeno lo sappia.

Come, continuò West, come hai cercato di fare con me.Ma, proseguì West, parlando con la Terra, a me non è pia-

ciuto il tuo esilio, allora me ne sono scelto uno di mio gradi-mento. Perché, vedi, io avevo capito. L’avevo capito quando avevi cominciato a fissarmi, l’avevo capito dalla doppia sor-veglianza, dalle consultazioni e dal piano d’azione, e ci sono stati momenti che ho fatto una fatica tremenda a trattenermi dal riderti in faccia.

Rimase immobile per un lungo momento a fissare lo spa-zio, là dove la Terra nuotava in qualche punto dell’oscurità che attorniava il Sole, non diverso da una comunissima stel-la.

Amarezza? si chiese, per poi rispondere: no, non si tratta-va di amarezza. Non esattamente di amarezza.

Perché devi capire, disse, parlando ancora con la Terra, che un uomo è prima di tutto umano, poi mutante. Non è un mostro per il solo motivo di essere un mutante... è solo un po’ diverso. E umano proprio come te, anzi, sotto molti aspetti potrebbe essere anche più umano di te. Perché la raz-za umana, come si presenta oggi, rappresenta la storia di una lunga serie di mutazioni... di uomini che erano un po’ diver-si, che pensavano in modo un po’ più schietto, che provava-no una compassione più profonda, che avevano delle qualità molto più umane del resto dei loro compagni umani. E hanno trasmesso ai loro figli e alle loro figlie quel modo più schiet-

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to di pensare e quella compassione più profonda, e i loro figli e le loro figlie le hanno a loro volta trasmesse a qualcuno... non a tutti... a qualcuno dei loro figli e delle loro figlie. E in questo modo la razza si è evoluta dallo stato selvaggio, e in questo modo sono progredite le conoscenze umane.

Mio padre, pensò, forse era stato un mutante, un mutante del quale nessuno aveva sospettato. O forse lo era stata mia madre. E non avrebbero sospettato di nessuno dei due. Dal momento che mio padre era un contadino e la sua mutazione gli aveva permesso di far crescere un po’ meglio le coltiva-zioni, per una migliore conoscenza del terreno o per una più profonda sensibilità verso l’arte di far crescere le cose, chi avrebbe potuto in quel contesto capire che era un mutante? Avrebbe continuato a essere, per tutti, un contadino più bra-vo dei suoi vicini. E se di notte, leggendo i libri consunti del-lo scaffale della sala da pranzo, riusciva a capirli e a capirne il significato meglio della maggior parte degli altri uomini, chi ci sarebbe stato in grado di capire?

Ma io, si disse, io sono stato scoperto. È questo il peccato della mutazione, venire scoperti. Come i ragazzi spartani che se rubavano una volpe non commettevano affatto un reato, ma le grida di dolore che lanciavano quando la volpe li mor-deva a sangue, quelle sì erano considerate una colpa.

Mi ero fatto strada troppo in fretta, pensò. Avevo scaval-cato troppo spesso la burocrazia. Capivo troppo bene le cose. E quando ricopri una carica governativa non puoi far carriera troppo in fretta, né scavalcare la burocrazia, né capire più del necessario. Devi essere un mediocre, come qualsiasi tuo col-lega che ricopra una carica analoga. Non puoi puntare il dito sul disegno di un motore a razzo e asserire, “Ecco dov’è il problema,” quando persone più preparate di te non riescono a vederlo. E non puoi ideare un sistema di produzione in gra-do di generare, in metà tempo, due motori a razzo al prezzo di uno. Perché non significherebbe solo essere efficienti; sa-

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rebbe una bestemmia bella e buona.Ma, soprattutto, non puoi alzarti durante una riunione pub-

blica di esponenti governativi responsabili di decisioni politi-che e far notare che la mutazione, di per sé, non è un crimi-ne... che può essere un crimine soltanto se viene usata in modo sbagliato. E non puoi nemmeno dire che il mondo fun-zionerebbe meglio se si servisse dei suoi mutanti anziché avere paura di loro.

Naturalmente, se uno sapesse di essere un mutante, non di-rebbe mai una cosa del genere. E un mutante, sapendo di es-sere un mutante, non spiegherebbe mai cosa c’è che non va in un motore a razzi. Perché un mutante deve tenere la bocca chiusa, deve far finta di essere un mediocre e arrivare dove vuole arrivare per vie traverse e tortuose.

Se solo l’avessi capito, pensò West. Se solo l’avessi capito in tempo. Avrei potuto imbrogliarli, come spero che tanti al-tri, anche adesso, li stiano imbrogliando.

Ma sapeva che adesso era troppo tardi, troppo tardi per far ritorno a quella vita che aveva respinto, per tornare ad accet-tare quella trappola senza via d’uscita che avevano foggiato per lui... una trappola che l’avrebbe catturato e trattenuto, una trappola dentro la quale sarebbe stato al sicuro. E la raz-za umana sarebbe stata al sicuro da lui.

West si voltò e trovò il sentiero che si inerpicava sul decli-vio roccioso che conduceva al laboratorio.

Dalle ombre sbucò una figura massiccia che gli si piazzò davanti, con aria di sfida.

«Dove crede di andare?»West si fermò. «Sono appena arrivato,» spiegò. «Sto cer-

cando un mio amico. Si chiama Nevin.»Si accorse che Annabelle, nella tasca della tuta, non smet-

teva di agitarsi. Forse cominciava ad aver freddo.«Nevin?» chiese l’uomo con una nota di preoccupazione

che gli gelò la voce. «Cosa vuole da Nevin?»

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«Ha un dipinto,» dichiarò West.La voce dell’uomo tornò a essere morbida e pericolosa.

«Cosa sa di Nevin e del suo dipinto?»«Non tanto,» rispose West. «Ecco perché sono qui. E pro-

prio di quello che volevo parlargli.»Annabelle fece una capriola dentro la tasca chiusa con la

cerniera. Gli occhi dell’uomo si avvidero del movimento.«Cos'ha lì dentro,» chiese, sospettoso.«Annabelle,» rispose West. «E... be’, è una specie di ratto

scorticato con un volto quasi umano, a parte il fatto che è quasi tutto bocca.»

«Ma no. Dove l’ha presa?»«L’ho trovata,» rispose West.Una risata squillante si levò dalla gola dell’uomo. «E così

l’ha trovata, eh? Si può immaginare una cosa del genere?»Allungò una mano e prese West per il braccio.«Forse abbiamo molte cose da raccontarci,» dichiarò.

«Dovremo avere uno scambio di idee.»Insieme, s’incamminarono su per il pendio, sempre col

guanto dell’uomo ben stretto sul braccio di West.«Lei è Langdon,» azzardò West, nel modo più naturale

possibile.L’uomo ridacchiò. «No, non sono Langdon. Langdon si è

perso.»«Brutta faccenda,» commentò West. «Non è certo piace-

vole perdersi su... Plutone.»«Non su Plutone,» precisò l’uomo. «Da un’altra parte.»«Allora Darling, forse...» e trattenne il respiro aspettando

la risposta.«Darling ci ha lasciati,» asserì l’uomo. «Io sono Cartw-

right. Burton Cartwright.»Si fermarono per riprendere fiato sul minuscolo pianoro

antistante il laboratorio. La debole luce stellare dipingeva la valle sottostante con disegni d’argento.

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West indicò, «Quella nave!»Cartwright ridacchiò. «L’ha riconosciuta, eh? L’Alfa Cen-

tauri.»«Sulla Terra stanno ancora lavorando sul suo propulsore,»

spiegò West. «Un giorno o l’altro ci riusciranno.»«Non lo metto in dubbio,» aggiunse Cartwright.Si rigirò verso il laboratorio. «Entriamo. A momenti sarà

pronta la cena.»Il tavolo era apparecchiato con una tovaglia bianca e scin-

tillanti posate d’argento che luccicavano alla luce tremula delle candele. Sistemati nel posto giusto c’erano bicchieri ri-colmi di vino frizzante. Il centrotavola era costituito da una coppa di frutta... frutta che West non aveva mai visto prima.

Cartwright inclinò la sedia per far cadere a terra un essere che vi stava dormendo sopra.

«Il suo posto, signor West,» annunciò.L’essere si srotolò, fissò West con occhi ostili, fece le fusa

con evidente acredine e scivolando via sparì dalla circolazio-ne.

Dalla parte opposta del tavolo Nevin si lamentò. «Quei maledetti esseri riescono sempre a intrufolarsi, attraversando furtivi. Suppongo che creino problemi anche a lei, signor West.»

«Abbiamo tentato con trappole per topi,» spiegò Cartw-right, «Ma erano troppo furbi. Allora ci siamo rassegnati a convivere con loro alla meglio.»

West scoppiò a ridere per mascherare, momentaneamente, la sua confusione, ma si trovò gli occhi di Nevin puntati ad-dosso.

«Annabelle,» affermò, «E l’unica ad avermi creato proble-mi.»

«Lei è fortunato,» osservò Nevin. «Sono veramente pesti-fere. Ce n’è una che si ostina a dormire con me.»

«Dov’è Belden?» chiese Cartwright.

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«Ha mangiato presto,» spiegò Nevin, «Sostenendo di ave-re alcune faccende da sbrigare. Ha chiesto di volerlo scusa-re.»

Spiegò quindi a West, «James Belden. Forse ne ha sentito parlare.»

West annuì.Tirò indietro la sedia e fece per sedersi, poi scattò in piedi.Sulla soglia era comparsa una donna, una donna con occhi

violetti e capelli color platino, avvolta in un mantello da sera d’ermellino. Mentre avanzava, la luce brillante delle candele le illuminò il volto. A quella visione West si irrigidì, mentre il sangue gli si ghiacciava nelle vene.

Perché quello non era un volto di donna. Sembrava un cra-nio di pelo, il volto di una falena che, nel tentativo di diven-tare umano, si era fermato a metà strada.

In fondo al tavolo Cartwright stava sogghignando.«La riconosce, signor West?»West strinse con tale forza lo schienale della sedia che le

nocche diventarono subito bianche.«Certo che la riconosco,» rispose. «La Cantante Bianca.

Ma come avete fatto a portarla qua?»«Allora è così che la chiamano sulla Terra,» osservò Ne-

vin.«Ma il suo viso,» insisté West. «Cos’è successo al suo

viso?»«Ce n’erano due.» spiegò Nevin. «Una l'abbiamo mandata

sulla Terra. Abbiamo dovuto sistemarla un po’. Chirurgia plastica, capisce.»

«Canta,» aggiunse Cartwright.«Sì, lo so.» affermò West. «L’ho sentita cantare. O, perlo-

meno, l’altra... quella che avete mandato sulla Terra col vol-to rifatto. Ha praticamente fatto piazza pulita della concor-renza. È presente su ogni rete.»

Cartwright fece un profondo sospiro. «Mi piacerebbe sen-

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tirla sulla Terra,» esclamò. «Sa, là canterebbe sicuramente in modo diverso da come canta qua.»

«Cantano,» lo interruppe Nevin, «In modo diverso, a se-conda delle loro sensazioni.»

«La luce di un caminetto sulla parete,» spiegò Cartwright, «Ed ecco che canterebbe come la luce di un caminetto sulla parete. Oppure il profumo dei lillà nella pioggia d’aprile e la sua musica assomiglierebbe al profumo dei lillà e al velo del-la pioggia lungo i sentieri del giardino.»

«Qui non abbiamo né pioggia, né lillà,» aggiunse Nevin e, per un attimo, sembrò che stesse per scoppiare a piangere.

Pazzesco, pensò West. Pazzesco come una coppia di cimi-ci nel letto. Pazzesco come l’uomo che, sulla luna di Plutone, si era ubriacato fino a morire.

Eppure, forse non era poi così pazzesco.«Non possiedono intelligenza,» precisò Cartwright. «Cioè,

non hanno un’intelligenza vera e propria. Solo un insieme di reazioni nervose, probabilmente senza le nostre percezioni sensoriali ma, in compenso, dotate di altre percezioni senso-riali completamente diverse. Sensazioni. La musica, per loro, è una delle manifestazioni di queste impressioni sensoriali. Non possono mutare il loro modo di cantare proprio come una falena non può evitare di uccidersi nella fiamma di una candela. E, per natura, sono telepatiche. Raccolgono i pen-sieri e li trasmettono. Non ne trattengono nessuno, sa, si li-mitano a trasmetterli. Come i fili dei primi telefoni, vecchi e antiquati. Pensieri che gli ascoltatori, sotto l’influsso magico della musica, raccolgono, deliziandosene.»

«E il bello è,» continuò Nevin, «Che un ascoltatore, in se-guito, presa coscienza di questi pensieri, meravigliandosene, arriva a convincersi che quei pensieri erano suoi, di averli sempre avuti.»

«Ingegnoso, eh?» chiese Cartwright.West tirò il fiato. «Sì, ingegnoso. Non immaginavo che fo-

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ste stati voi a mandarla.»West avrebbe voluto rabbrividire, ma scoprì di non riuscir-

ci, mentre il fremito si accumulava, si accumulava, finché non gli sembrò che i suoi nervi fossero tesi al punto da stare per saltare.

Cartwright stava parlando. «E così la nostra Stella si sta comportando bene.»

«E chi è?» chiese West.«Stella. Quell’altra. Quella col volto.»«Ah, capisco,» rispose West. «Non sapevo che si chiamas-

se Stella. Nessuno, a dire il vero, sa niente di lei. Una notte è apparsa all'improvviso su una rete televisiva come grande at-trazione, a sorpresa. Era stata annunciata come una cantante misteriosa e da quel momento la gente ha cominciato a chia-marla la Cantante Bianca. Dovete sapere che cantava sempre sotto una luce fioca, blu, e nessuno è mai riuscito a vedere distintamente il suo viso, anche se, ovviamente, immagina-vano tutti che fosse bellissima.

«Le reti televisive non si erano per niente preoccupate del fatto che fosse un essere alieno. Veniva presentata come il membro di una razza misteriosa che Juston Lloyd aveva sco-perto negli Asteroidi. Ricorderete sicuramente Lloyd, l’agen-te pubblicitario di New York.»

Nevin si piegò sul tavolo. «E la gente, il governo, non han-no sospetti?»

West scosse la testa. «Perché dovrebbero? La vostra Stella è una prodigio. Sono tutti pazzi di lei. I giornali vanno in de-lirio. Quelli del cinema...»

«E il pubblico?»«Il pubblico,» rispose West, «Ne va pazzo.»«E lei?» chiese Cartwright, e nella sua voce risonante

West rilevò un tono di sfida.«Io ho scoperto una cosa,» dichiarò «E sono venuto qui

per essere coinvolto.»

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«Sa esattamente cosa sta chiedendo?»«Lo so,» affermò West, che avrebbe voluto saperlo vera-

mente.«Una nuova filosofia,» spiegò Cartwright. «Un nuovo

concetto di vita. Nuove strade per il progresso. Segreti che la razza umana non ha mai sospettato. La ricostruzione della ci-viltà umana, quasi nel volgere di una notte.»

«E lei,» osservò West, «Al centro a tirare i fili.»«E così,» confermò Cartwright.«Voglio alcuni fili da poter tirare.»Nevin alzò una mano. «Un attimo, signor West. Vorrem-

mo solo sapere come...»Cartwright gli rise in faccia. «Lascia perdere Louis. Sape-

va del tuo dipinto. Aveva Annabelle. Dove pensi che l’abbia scoperto?»

«Ma... ma...» farfugliò Nevin.«Forse non ha usato un dipinto,» dichiarò Cartwright.

«Forse ha usato altri metodi. Dopotutto ce ne sono altri, lo sai. Migliaia di anni fa l’uomo conosceva il posto che abbia-mo trovato. Mu, probabilmente. Atlantide. Altre civiltà di-menticate. Il solo fatto che West avesse Annabelle per me è sufficiente. Dev’essere stato là.»

West, sollevato, sorrise. «Ho usato altri metodi,» spiegò.

CAPITOLO III

Il Dipinto

Scivolando sulle sue ruote entrò un robot con un vassoio di piatti fumanti.

«Mettiamoci seduti,» suggerì Nevin.«Solo una cosa,» chiese West. «Come avete fatto a portare

Stella sulla Terra? Nessuno di voi avrebbe potuto portarla.

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Vi avrebbero riconosciuti.»Cartwright ridacchiò. «Robertson,» rispose. «Avevamo

una nave e lui è riuscito a svignarsela. In quanto a ricono-scerci, Belden è il nostro medico. Se si ricorda, è anche un chirurgo plastico dalle qualità fuori dal comune.»

«Ha fatto lui il lavoro,» precisò Nevin. «Sia per Robertson che per Stella.»

«Ci ha quasi spellati vivi,» brontolò Cartwright. «Per otte-nere la pelle necessaria per eseguire il lavoro. Sarò sempre convinto che ne abbia presa più del necessario, solo per farci un dispetto. È un tipo stravagante.»

Nevin cambiò argomento. «Facciamo sedere Rosie con noi?»

«Rosie?» chiese West.«Rosie è la sorella di Stella. Non conosciamo esattamente

il grado di parentela, ma la chiamiamo così per comodità.»«Ci sono momenti,» spiegò Cartwright, «Nei quali ci di-

mentichiamo il suo volto e la facciamo sedere a capotavola, come se fosse una di noi. Come se fosse nostra ospite. Sa, assomiglia molto a una donna. Quelle sue ali sembrano un mantello d’ermellino, e quei capelli di platino. Porta a tavola una certo non so che... una sorta di...»

«Un’illusione di raffinatezza,» concluse Nevin.«Forse stasera è meglio di no,» decise Cartwright. «Il si-

gnor West non è abituato a lei. Quando sarà rimasto qui per un po’.·.»Si interruppe, con aria inorridita.

«Ci siamo dimenticati di qualcosa,» annunciò.Si alzò e, girando intorno al tavolo si portò vicino al cami-

netto finto per raccogliere una bottiglia appoggiata sulla mensola... una bottiglia con un nastro di seta nero legato in-torno al collo. Cerimoniosamente la sistemò al centro del ta-volo, di fianco alla coppa di frutta.

«È uno scherzetto che siamo soliti fare,» spiegò Nevin.«Non esattamente uno scherzo,» lo contraddisse Cartw-

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right.West sembrava confuso. «Una bottiglia di whisky?»«Sì, ma una bottiglia speciale,» precisò Cartwright. «Una

bottiglia molto speciale. Ai vecchi tempi avevamo costituito, tanto per divertirci, il club dell’ultimo uomo. Questa bottiglia avrebbe dovuto berla l’ultimo uomo. Ci faceva sentire molto avventurosi e audaci e ne ridevamo, mentre ci davamo da fare per scoprire gli ormoni. Perché, vede, nessuno di noi pensava che sarebbe mai finito.»

«Ma adesso,» aggiunse Nevin, «Siamo rimasti solo in tre.»«Ti sbagli,» gli ricordò Cartwright. «Siamo in quattro.»Guardarono entrambi West.«Naturalmente,» decise Nevin. «Siamo in quattro.»Cartwright si sistemò il tovagliolo sul grembo. «Forse,

Louis dovremmo mostrare al signor West anche il dipinto.»Nevin ebbe un attimo di esitazione. «Non sono del tutto

convinto, Cartwright...»Cartwright fece schioccare la lingua. «Sei troppo sospetto-

so, Louis. Aveva la creatura sì o no? Era al corrente del di-pinto. C’era solo un modo per saperlo.»

Nevin ci pensò su. «Suppongo che tu abbia ragione,» con-cluse.

«E se per caso il signor West dovesse rivelarsi un imposto-re,» minacciò Cartwright, allegro, «Faremo i nostri passi.»

Nevin si rivolse a West: «Spero che lei capisca.»«Perfettamente,» rispose West.«Dobbiamo essere molto prudenti,» precisò Nevin. «Ben

pochi capirebbero.»«Davvero pochissimi,» aggiunse West.Nevin attraversò la stanza e tirò una corda che penzolava

lungo la parete. Uno dei drappi slittò delicatamente indietro, confluendo in un voluminosa arricciatura. West, che stava guardando, rimase senza fiato davanti a quanto gli si parò davanti agli occhi.

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In primo piano c’era un albero carico di frutti dorati, frutti identici ad alcuni di quelli della coppa situata in mezzo al ta-volo. Come se qualcuno si fosse appena introdotto nel dipin-to per raccoglierli freschi per la cena.

Sotto l'albero scorreva un sentiero che saliva fino all’orlo della tela, così particolareggiato che si vedevano perfetta-mente perfino i minuscoli sassolini disseminati qua e là. E dall’albero il sentiero tornava indietro, contro un ampio scor-cio dello sfondo, per arrampicarsi su delle colline coperte di alberi.

West avrebbe giurato di aver sentito, per la frazione di un secondo, il sussurro del vento tra le foglie dell’albero carico di frutti, di aver visto le foglie tremare al vento, di aver annu-sato la fragranza dei fiorellini che sbocciavano lungo il sen-tiero.

«Allora, signor West?» chiese Nevin con aria trionfante.«Diamine,» rispose West, con le orecchie ancora tese a

captare il lamento del vento tra le foglie. «Diamine, sembra quasi che ci si possa entrare per camminare lungo il sentie-ro.»

Nevin inspirò, e il suo respiro non era né un anelito né un sospiro, ma una via di mezzo. Laggiù, in fondo al tavolo, Cartwright si stava strozzando col vino, nel tentativo di sof-focare una risata che gli traboccava tra le labbra, nonostante tutti i suoi sforzi per tenerla imbottigliata.

«Nevin,» chiese West, «Non ha mai pensato di fare un al-tro dipinto?»

«Forse,» rispose Nevin, «Perché me lo chiede?»West sorrise. Delle parole gli stavano martellando nel cer-

vello, parole che ricordava molto bene, parole che un uomo gli aveva sussurrato poco prima di morire.

«Stavo solo pensando,» rispose West, «A cosa potrebbe succedere se un giorno le capitasse di dipingere il posto sba-gliato.»

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«Oh Signore,» urlò Cartwright, «Ti ha punto sul vivo, Ne-vin. Le identiche parole che ho continuato a ripeterti.»

Nevin fece per alzarsi da tavola e proprio mentre lo faceva il mormorio frusciante della musica inondò la stanza. Musica che riuscì ad allentare la presa delle mani di Nevin dal bordo del tavolo, musica che spazzò via in un baleno il gelo dalle scapole di West.

Una musica che parlava di uno spazio dalle zanne affilate e della fiammata delle stelle. Una musica che aveva in sé il bisbiglio delle rocce, la quiete del vuoto e gli archi tenebrosi della notte eterna.

Rosie stava cantando.West era seduto sul bordo del letto e sapeva di essere stato

fortunato a tagliare la corda prima che gli avessero fatto altre domande. Fino a quel momento, ne era certo, era riuscito a ribattere ai loro quesiti senza destare troppi sospetti, ma più avanti fosse andata quella faccenda, più sarebbe stato facile commettere qualche piccolo errore.

Adesso avrebbe avuto un po’ di tempo per pensare, un po’ di tempo per cercare di sbrogliare e sistemare al meglio la si-tuazione attuale.

Una delle mostruosità minori che infestavano quel posto si arrampicò sul letto e si appollaiò sulla spalliera, arrotolando-vi intorno, più e più volte, la lunga coda. Indirizzò a West un cinguettio e West nel guardarla ebbe un fremito domandan-dosi se gli stesse facendo una smorfia o se quella era proprio la sua espressione.

Questi esseri scivolosi e cinguettanti... ne aveva sentito parlare in precedenza, chissà dove. Lo sapeva già. Una volta ne aveva perfino visto dei disegni. In un luogo e in un perio-do diverso, tantissimo tempo fa. Esseri come Annabelle, come la creatura che Cartwright aveva cacciato giù dalla se-dia e come il piccolo essere satanico appollaiato sulla spal-liera del suo letto.

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Era buffo, quello che Nevin aveva detto di loro... riescono sempre a intrufolarsi, attraversando furtive... non entrando, ma attraversando.

Niente quadrava. Nemmeno Nevin e Cartwright. Perché anche in loro c’era una sfumatura non del tutto umana.

Avevano continuato a lavorare con gli ormoni, finché non era successo qualcosa che aveva portato al famoso allarme sulla Terra. Ma c’era stato veramente un allarme? O l’allar-me era stato tutto un imbroglio? Stava forse succedendo qualcosa qui che il governo Solare voleva tenere nascosto?

Perché avevano mandato Stella sulla Terra? Perché li ave-va resi così contenti il fatto che fosse stata accolta con tanto entusiasmo? Come mai Nevin aveva chiesto... e il governo, non ha sospetti? Perché il governo avrebbe dovuto avere dei sospetti? Cosa poteva mai esserci lì, di così importante da destare i sospetti del governo? Soltanto una creatura priva di intelligenza che cantava come le campane del paradiso.

E adesso quella faccenda degli ormoni. Gli ormoni produ-cevano strani effetti sulle persone.

Io dovrei ben saperlo, si disse West.Tutto va un po’ più velocemente, un po’ più in fretta. Una

piccola scorciatoia mentale qua e là. E perfino tu fai fatica a capire di essere diventato diverso. Ecco, così si sviluppa la razza. Una mutazione qui, un’altra là e, in una o due migliaia di anni, una certa percentuale della razza non sarà più quella che era un migliaio di anni prima.

Forse era stato proprio un mutante, durante l’Età della Pie-tra, a strofinare due pietre focaie creando, lui stesso, il fuoco. E forse era stato sempre un mutante, dopo aver sognato una ruota, a prendere una portantina trasformandola in un carro.

Lentamente, pensò, doveva avvenire lentamente. Solo un po’ alla volta. Se fosse stata troppo veloce, se fosse stata evi-dente, gli altri umani avrebbero eliminato ogni mutazione non appena se ne fossero accorti. Perché gli umani non tolle-

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rano tutto ciò che si distoglie dalla normalità, anche se è stata proprio la mutazione il processo che ha determinato lo svi-luppo della razza.

La razza non uccide più i mutanti. Adesso li confina in istituti per la cura delle malattie mentali, oppure li spinge con la forza verso espressioni senza prospettive, come l’arte o la musica, oppure, molto amichevolmente procura loro de-gli esili piacevoli, dotati di ogni comodità, un lavoro, e dove non sapranno mai cosa sono in realtà.

Adesso è più difficile essere diversi, pensò, più difficile essere un mutante e sfuggire alla detenzione che, insieme a comitati medici, psichiatri, e tutte le altre astrusità scientifi-che, gli umani hanno approntato per salvaguardare la loro pace mentale.

Cinquecento anni fa, pensò West, non mi avrebbero scova-to. Cinquecento anni fa probabilmente non mi sarei reso con-to nemmeno io del mio stato.

Mutazioni controllate? Be’, quello era qualcosa di diverso. Era ciò che il governo aveva in mente di fare quando aveva inviato la commissione qui, su Plutone, approfittando del cli-ma gelido, per sviluppare ormoni che potessero migliorare la razza, che potessero sviluppare attitudini latenti, o addirittura aggiungere di sana pianta nuove caratteristiche che si ritene-va potessero attingere quanto di meglio c’era nell’umanità.

Mutazioni controllate, sì, quelle andavano bene. Erano solo le mutazioni sregolate che il governo temeva.

Come sarebbe se i membri della commissione avessero sviluppato un ormone e l’avessero provato su se stessi?

Il suo pensiero si arrestò all'improvviso, compiaciuto all’i-dea, di una possibile soluzione.

Sulla spalliera del letto, la piccola mostruosità si stava toc-cando la bocca, sbavando giulivamente.

Udì bussare alla porta.«Avanti,» invitò West.

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La porta si aprì ed entrò un uomo.«Sono Belden. Jim Belden. Mi hanno detto che era qui.»«Sono contento di conoscerla, Belden.»«A che gioco sta giocando,» chiese Belden.«A nessun gioco,» rispose West.«E riuscito a convincere i due dabbasso,» esclamò Belden.

«La ritengono un’altra mente eccelsa che ha scoperto il Fuo-ri.»

«Allora li ho convinti,» osservò West, «Mi fa molto piace-re saperlo.»

«Mi hanno mostrato Annabelle,» continuò Belden. «Di-cendo che era la prova che lei era uno di noi. Ma io ho rico-nosciuto Annabelle. Loro no, ma io sì. È quella che si è por-tato dietro Darling. Lei l’ha avuta da Darling.»

West rimase in silenzio. Non aveva alcun senso fare l’in-genuo con Belden, perché Belden era arrivato troppo vicino alla verità.

Belden abbassò il tono della voce. «Lei ha avuto la mia stessa intuizione. E convinto che l’ormone di Darling valga molto più di tutta questa pantomima che si svolge dabbasso. Ed è qui per trovarlo. Lo avevo detto a Nevin che era l’or-mone di Darling che dovevamo cercare, anziché incasinarci col Fuori ma lui non era dello stesso parere. Dopo aver por-tato Darling sulla luna, Nevin ha fracassato i comandi della nave. Sa com’è, aveva paura che potessi andarmene. Non si fidava di me e non poteva permettersi di lasciarmi andare via.»

«Sono disposto a trattare con lei,» gli propose West, con calma.

«Andremo con la sua nave sulla luna a trovare Darling,» suggerì Belden. «Riusciremo, con la forza, a farlo cantare.»

West fece una smorfia. «Darling è morto,» annunciò.«Ha perquisito la capanna?» chiese Belden.«No, naturalmente. Perché avrei dovuto perlustrarla?»

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«Allora è là,» dichiarò Belden, torvo. «Nascosto nella ca-panna, da qualche parte. Ho rovistato questo posto da cima a fondo e sono sicuro che non si trova qui. Né la formula, né gli ormoni. A meno che Darling non fosse più astuto di quanto pensassi.»

«Lei conosce l’effetto di questo ormone,» chiese West con noncuranza, cercando di fargli credere che lui potesse saper-lo.

«No,» rispose secco Belden. «Darling non si fidava di noi. Era arrabbiato per quanto Nevin stava cercando di fare. E una volta, con una battuta, aveva detto che l’uomo che l’a-vesse posseduto avrebbe potuto governare il Sistema Solare. West, Darling non stava scherzando. Ne sapeva più lui sugli ormoni, di tutti quanti noi messi insieme.»

«Ho l’impressione,» osservò West seccamente, «Che lei avrebbe voluto tenere qui un uomo come lui. Di sicuro avrebbe potuto servirsi di lui.»

«Ancora Nevin,» spiegò Belden. «Darling non voleva pro-seguire col programma che Nevin aveva pianificato. Arri-vando addirittura a minacciarlo di smascherarlo qualora gli si fosse presentata l’opportunità. Nevin voleva ucciderlo, ma Cartwright aveva escogitato una burla... è un tipo gioviale, Cartwright, sì.»

«L’ho notato,» ammise West.«Cartwright aveva escogitato la faccenda dell’esilio,» con-

tinuò Belden. «Aveva offerto a Darling una qualsiasi quanti-tà della cosa che avesse voluto portare con sé. Una cosa, ca-pisce. Soltanto una. Ecco dove stava lo scherzo. Cartwright si aspettava che Darling, arrovellandosi per prendere una de-cisione, avrebbe sofferto le pene dell’inferno. Invece non aveva avuto un attimo di esitazione. Darling aveva scelto il whisky.»

«Si è ubriacato fino a morire,» affermò West.«Darling non era un bevitore,» lo informò Belden pungen-

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te.«Si è trattato di suicidio,» spiegò West. «Darling vi ha fre-

gato fino in fondo, apertamente, per tutto questo tempo. Era di gran lunga più avanti di voi.»

Un rumore fievole, come il fruscio delle ali di un uccello, fece voltare di scatto West.

Rosie stava varcando la soglia, accentuando, con le ali mezze sollevate, la ripugnanza di quel corpo irsuto, chiazza-to, sotto un peloso teschio da morta.

«No!» gridò Belden. «No! Non avevo intenzione di fare niente. Io non...»

Si allontanò indietreggiando, con le braccia aperte nel ten-tativo di respingere quell’essere che avanzava verso di lui, e nonostante la bocca continuasse a muoversi, non usciva il più piccolo suono.

Rosie spinse di lato West, con un colpo delle ali pelose, che poi spalancò, nascondendo Belden alla vista di West. Poi, con un battito violento le ali si richiusero, e dal loro in-terno si sprigionò l’urlo soffocato dell’uomo. Quindi più niente; silenzio.

La mano di West si abbassò sulla fondina, facendo scivo-lar fuori la pistola. Il pollice schiacciò l’attivatore e la rivol-tella fece le fusa come un gatto contento.

Dapprima le ali d’ermellino di Rosie diventarono nere, poi si abbatté al suolo. Un odore disgustoso inondò la stanza.

«Belden!» urlò West. Si chinò in avanti, spostando di lato con un calcio il corpo carbonizzato di Rosie. Belden giaceva a terra, e West fu costretto, tra conati di vomito, a distogliere lo sguardo.

Per un attimo West rimase indeciso, poi di colpo capì cosa doveva fare.

Mettere le carte in tavola. Aveva sperato di potere riman-dare di un altro po’ quel momento, finché non avesse scoper-to qualcosa di più, ma la disgrazia di Belden e di Rosie l’a-

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veva costretto a rompere gli indugi. Non gli restava altro da fare.

S’incamminò a grandi passi, dapprima verso la porta, poi giù per le scale a chiocciola, verso il buio della stanza sotto-stante.

Si accorse che il dipinto era illuminato... come se l’illumi-nazione facesse parte del quadro. Come se la sorgente di luce fosse situata all’interno del dipinto, come se un altro sole brillasse sul paesaggio della tela. Il quadro era illuminato, ma il resto della stanza era buio, e la luce non si diffondeva dal dipinto, ma rimaneva lì, imprigionata nella tela.

Qualcosa passò velocemente tra i piedi di West, scappan-do giù per le scale. Squittiva e i suoi artigli sui gradini suo-navano la ritirata.

Quando West giunse in fondo alla scala udì una voce che usciva dal buio:

«Sta cercando qualcosa, signor West?»«Sì, Cartwright,» rispose West, «Stavo cercando lei.»«Non mi sembra troppo convinto dell’operato di Rosie,»

asserì Cartwright. «Non si lasci turbare. Belden doveva aspettarselo già tanto tempo fa. Faceva fatica a essere uno di noi, anzi, a dire il vero, non è mai stato uno di noi. Faceva finta di andare d’accordo con noi, perché era l’unico modo per salvarsi la vita. E, tutto sommato, la vita è una cosa tal-mente minuscola. Non è d’accordo, signor West?»

CAPITOLO IV

L’Ultimo Uomo

West rimase in fondo alla scala in silenzio. La stanza era talmente buia che non riusciva a vedere niente, ma la voce arrivava più o meno dall’estremità del tavolo, vicino al di-

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pinto illuminato.Forse sarò costretto a ucciderlo, pensava West, e devo sa-

pere dove si trova. Perché dovrò farcela al primo colpo, non ci sarà tempo per un secondo.

«Rosie non aveva intelligenza,» pronunciò la voce in mez-zo al buio. «O meglio, fino a un certo punto non aveva intel-ligenza. Era comunque telepatica. Il suo cervello raccoglieva i pensieri e li trasmetteva. Ed era in grado di obbedire a dei semplici comandi. A dei comandi semplicissimi. E uccidere un uomo, signor West, è talmente semplice.

«Rosie si trovava qui, accanto a me, e sono riuscito a capi-re ogni parola che lei e Belden vi siete detti. Non mi sono sentito di biasimare lei, signor West, perché non aveva modo di capire cosa aveva fatto. Ma ho incolpato Belden e ho man-dato su Rosie perché si occupasse di lui.

«C’è solo una cosa, West, della quale la incolpo. Non avrebbe dovuto uccidere Rosie. È stato un grave errore, West, un errore gravissimo.»

«Non è stato un errore,» precisò West. «L’ho fatto di pro-posito.»

«Stia attento, signor West,» minacciò Cartwright. «Non faccia qualcosa che mi costringa a premere il grilletto. Per-ché ho una pistola puntata contro di lei. Il centro esatto del bersaglio, signor West, è puntato su di lei, e io non sbaglio mai.»

«Sono pronto a scommettere,» asserì West, «Che la colpi-rò prima che lei riesca a premere il grilletto.»

«Via, signor West,» ribatté Cartwright, «Non scaldiamoci per una cosa del genere. E vero che ci ha giocato un brutto tiro. Ha cercato di imporsi con la forza e ci ha quasi venduti, anche se avremmo finito per coglierla in fallo. Inoltre ammi-ro il suo fegato. Forse possiamo metterci d’accordo, in modo che nessuno dei due debba rimanere ucciso.»

«Cominci a parlare,» lo incitò West.

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«Quello che ha fatto a Rosie è stato bruttissimo, e gliene faccio veramente una colpa, West, perché Rosie ci sarebbe tornata utile. Ma, dopo tutto, il nostro lavoro sugli altri pia-neti è iniziato, inoltre abbiamo ancora Stella. I nostri disce-poli sono ben preparati... possono andare avanti per un po’ anche senza istruzioni e forse, prima di doverci rimettere in contatto con loro possiamo trovare qualcun’altra per rim-piazzare Rosie.»

«La smetta di divagare,» ingiunse West. «Sentiamo piutto-sto cos’ha in mente.»

«Bene,» rispose Cartwright, «Siamo terribilmente a corto di manodopera. Belden è morto, Darling è morto e se Ro-bertson non è ancora morto, lo sarà molto presto. Perché, dopo aver portato Stella sulla Terra, ha tentato di disertare, cercando di scappare. E questo non passa. Potrebbe andare a raccontare di noi e non possiamo permettere a nessuno di farlo. Perché, vede, noi siamo morti...»

Ridacchiò, un riso soffocato che rimbalzava nell’oscurità.«West, quel programma è stato un capolavoro. Ero l’ulti-

mo uomo ancora in vita, che raccontava cos’era successo. Avevo spiegato che si era spezzato il continuum dello spa-zio-tempo, lasciando passare delle entità. Poi avevo comin-ciato a farfugliare... a farfugliare, subito prima di morire.»

«Ovviamente non è davvero morto,» osservò innocente-mente West.

«No, che diavolo. Ma loro sono convinti che lo sia. E an-cora adesso si svegliano urlando, cercando di immaginare in quale modo possa essere morto.»

Sbruffone, pensò West. Uno sbruffone bell’e buono. Un buffone capace di abbandonare fino alla morte un uomo su una luna solitaria. Un uomo che teneva ben stretta in pugno la pistola mentre si gloriava delle bravate compiute... di come era riuscito a farla in barba alla Terra.

«Vede,» continuò Cartwright, «Ho dovuto far loro credere

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che fosse realmente successo. E ho dovuto rendere la faccen-da quanto mai orribile, in modo che il governo non potesse mai renderla pubblica, così orribile da costringerli a chiudere il pianeta con un bando a prova di ferro.»

«Dovevate rimanere soli,» affermò West.«Ha ragione, West. Dovevamo rimanere soli.»«Bene, adesso c’è quasi riuscito. Solo due di voi sono ri-

masti vivi.».»«Due di noi,» rispose Cartwright, «E lei.»«Si dimentica, Cartwright,» precisò West, «Che sta per uc-

cidermi. Ha una pistola puntata contro di me ed è pronto a premere il grilletto.»

«Non necessariamente,» replicò Cartwright. «Possiamo fare un accordo.»

Adesso l’ho beccato, pensò West. So esattamente dove si trova. Non riesco a vederlo, ma so dove si trova. E fra un mi-nuto ci sarà la resa dei conti. O uno, o l’altro.

«Per adesso lei non è di grande utilità,» affermò Cartw-right, «Ma potremmo aver bisogno di lei in seguito. Si ricor-da di Langdon?»

«Quello che si è perso?» chiese West.Cartwright sogghignò. «Proprio lui, West. Ma non si è

perso. L’abbiamo dato via. Vede, c’è un... un... be’, qualco-sa, che voleva servirsi di lui come di un cucciolo, così gli ab-biamo regalato Langdon.»

Tornò a sogghignare. «A Langdon l’idea non è piaciuta un gran che, ma cosa potevamo farci?»

«Cartwright,» avvertì con calma West. «Sto per prendere la mia pistola.»

«Cosa cavolo...» esclamò Cartwright, ma il resto della fra-se venne soffocato dal sibilo della sua pistola, che faceva fuoco mentre parlava.

Il raggio, sibilando, colpì la parete ai piedi della scala in un punto dove, una frazione di secondo prima, c’era la testa

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di West.Ma West, subito dopo aver parlato, si era gettato a terra,

acquattandosi, e adesso aveva la pistola in pugno, pronta a mirare e la mano era ferma. Il pollice premette l’attivatore, poi scivolò via.

Qualcosa cominciò a trascinarsi lungo il pavimento con pesanti colpi e negli attimi di quiete, tra un tonfo e l’altro West poté udire il suono stridulo di respiri affannosi.

«Che tu sia maledetto, West,» imprecò Cartwright. «Che tu sia maledetto...»

«È vecchio il trucco, Cartwright, di parlare a una persona proprio prima di ucciderla. Per coglierla di sorpresa, tenden-dole praticamente un agguato.»

Intanto si udiva uno struscio di stoffa dopo un altro stru-scio di stoffa, il fischio di un respiro affannoso, il tonfo con-tro il pavimento di ginocchia e gomiti.

Poi fu il silenzio.E un attimo dopo in un angolo qualcosa squittì, per correr

poi via su zampette picchiettanti, come zampe di topi. Quin-di fu di nuovo silenzio.

Le zampe di topo erano ferme, ma si udì un altro rumore, un grido debole, come se qualcuno stesse gridando da molto lontano... da un punto esterno all’edificio, da qualche parte fuori... da Fuori.

West si accovacciò sul pavimento, raggomitolato, con la bocca della pistola ferma sul tappeto.

Fuori... Fuori... Fuori...Quelle parole gli martellavano in testa.Al di fuori di cosa, si chiese, ma adesso conosceva la ri-

sposta. Sapeva dove aveva visto i disegni dell’essere che dormiva sulla sedia, e di quell’altro, accucciato sulla spallie-ra del letto. E riconobbe anche il suono stridulo, il cinguettio e il rumore delle piccole zampe in fuga.

Fuori... Fuori... Fuori...

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Fuori da questo mondo, naturalmente.Sollevò la testa per guardare il dipinto, e l’albero stava an-

cora debolmente luccicando per la sua luce interna, e sempre dall’interno giungeva anche un rumore, un rumore flebile e sordo, il rumore di piedi che stavano correndo.

Si riudì il grido e l’uomo stava correndo giù per il sentiero, dentro il dipinto. Un uomo che correva, agitando le braccia e gridando.

L’uomo era Nevin.Nevin era dentro al dipinto e correva giù per il viottolo; i

suoi piedi, muovendosi, sollevavano piccole nubi di polvere lungo il sentiero ghiaioso.

West sollevò la pistola, e si accorse che gli tremava la mano, tanto che il cane dell’arma fece un guizzo avanti e in-dietro, descrivendo poi un cerchio.

«Coraggio,» ingiunse West a se stesso.Lo disse tra i denti che battevano.Perché adesso conosceva... adesso conosceva la risposta.Alzò l’altra mano per afferrare il polso di quella che tene-

va la pistola e la bocca dell’arma si stabilizzò. Strinse i denti perché smettessero di battere.

Il pollice si abbassò, premendo sull’attivatore, e lo tenne premuto finché dalla bocca della pistola non uscì la fiamma che sputò sul quadro, diffondendosi a fungo. Continuò a espandersi, finché l’intera tela non divenne uno sfavillante vortice blu, che sibilava, rimbombava e lambiva ogni cosa con le sue lingue affamate.

Lentamente l’albero si fuse, come se la vista si fosse an-nebbiata e facesse sempre più fatica a mettere a fuoco. Il paesaggio si offuscò, traballò, e confluì in minuscole linee ondeggianti. E tra le linee ondeggianti si riusciva a vedere un uomo ricurvo e contorto, la cui bocca sembrava aprirsi in un grido di rabbia. Ma non si udì alcun grido, solo il ronzio del-la pistola.

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Con uno sbuffo stanco sparirono sia lo scintillio, che il di-pinto, mentre il fascio di luce della fiammata sibilava attra-verso una vuota cornice d’acciaio, ancora ricolma di minu-scoli fili sfavillanti che schizzavano contro la parete retro-stante.

Quando West alzò il pollice, il silenzio si abbatté su di lui, si abbatté sulla stanza, afferrandola in una morsa... come af-ferrava le leghe dello spazio, allungandosi in ogni direzione.

«Niente più dipinti,» disse West.Sembrò che un’eco si diffondesse per tutta la stanza.«Niente più dipinti,» diceva l’eco, ma West sapeva che

non si trattava di un’eco, ma del suo cervello che smorzava, all’infinito, le parole pronunciate dalle sue labbra.

«Niente più dipinti,» diceva l’eco, ma era l’altro mondo di West, un altro posto, un altro chissà-dove. Una macchina che aveva infranto la continuità spazio-temporale, o qualunque cosa fosse, che separava l’universo degli Uomini da altri uni-versi, universi sconosciuti.

Non c’era da stupirsi se i frutti dell’albero gli erano sem-brati uguali ai frutti sul tavolo. Non c’era da stupirsi se aveva creduto di sentire il vento e le foglie.

West si alzò, dirigendosi verso la parete alle sue spalle. Trovò un interruttore, ne sollevò la levetta e si accesero le luci.

Alla luce, la macchina fracassata dell’altro mondo non era che un rottame afflosciato. Il corpo di Cartwright giaceva al centro della stanza. Una creatura schiamazzante attraversò di corsa il pavimento per andarsi a immergere nel buio, sotto il tavolo. Da dietro la sedia spuntò un volto che, con un sog-ghigno, sbraitò all’indirizzo di West con una ferocia da far raggelare le ossa.

Ma non era niente di nuovo, perché aveva già visto prima quei volti. Disegni di creature simili su vecchi libri e riviste che pubblicavano racconti dell’orrore da far tremare l’anima,

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racconti di esseri che venivano dal di fuori, di entità che ave-vano fatto irruzione dal di Fuori.

Solo storie raccontate per mandarti a letto tremante. Solo storie che non andrebbero lette a mezzanotte. Storie che ti rendono un po’ nervoso se solo senti fuori dalla finestra un albero che scricchiola al vento, o la pioggia che sembra cam-minare sulla ghiaia.

C’era voluta la magia del miglior gruppo di scienziati del Sistema Solare perché si dischiudessero le porte che condu-cevano a quel mondo là Fuori.

Eppure la popolazione di ere sconosciute, selvagge, aveva già parlato di creature come queste...di spiriti maligni, di in-cubi e di folletti. Forse gli abitanti di Atlantide avevano sco-perto quel passaggio, così come l’avevano trovato Nevin e Cartwright. Lasciando fluire sul mondo, in quel giorno tanto remoto, un flusso di entità che per interi secoli erano vissute agli angoli dei focolari per far spaventare le persone, ragge-landole fino al midollo.

E i disegni che aveva visto?Forse ricordi ancestrali. O immagini prodotte da un incan-

tesimo, diventate reali. Oppure gli scrittori di quei racconti, i pittori di quei quadri...

Quel pensiero lo fece rabbrividire.Cosa aveva pur detto Cartwright? Il lavoro sugli altri pia-

neti è iniziato.Il compito di trasmettere il pensiero, i principi, la psicolo-

gia delle creature aliene venute dal di Fuori. Un’istruzione impartita a distanza... un’istruzione involontaria. Stella, Stel-la la telepatica, che cantava sulla Terra, Stella, la beniamina dell’etere. Ed era un’agente di quelle creature... trasmetteva il suo pensiero a una persona, che l’avrebbe considerato suo.

Allora era quello il piano che Nevin e Cartwright avevano organizzato. Ricostruire il mondo, avevano detto. Restando-sene su Plutone a tirare i fili che avrebbero ricostruito il

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mondo.Un tempo superstizione. Adesso dura realtà. Storie che un

tempo, facevano solo raggelare il sangue nelle vene. Adesso invece...

Con la fonte prosciugata, con lo schermo vuoto, con la co-sca di Plutone spazzata via, i seguaci sarebbero morti e Stella avrebbe, sì, continuato a cantare, ma sarebbe arrivato il gior-no in cui gli ascoltatori, scemato l’entusiasmo della novità, tramontato il fascino del mistero per la sua natura aliena, si sarebbero allontanati da lei.

E il Sistema Solare avrebbe continuato a pensare che fol-letti e incubi non fossero che fantasie raccapriccianti, tra-mandate dai giorni nei quali l’uomo, rannicchiato nella sua caverna, vedeva una minaccia soprannaturale in ogni ombra che si muoveva.

Invece era stato un pericolo reale, evitato per un soffio.Da un angolo buio un essere scrutava West, facendogli

delle smorfie, accompagnate da una stridula cantilena di odio.

Allora, così stavano le cose, pensò West.Eccolo lì, ai confini del Sistema Solare in una casa vuota.

Era finalmente successo quello che aveva sperato. Nessuno intorno. Un deposito pieno di cibo. Un rifugio adeguato. Un laboratorio dove avrebbe potuto lavorare. Un luogo sorve-gliato da ricognitori che avrebbero tenuto lontano ospiti poco graditi.

Proprio il posto adatto per chi voleva rimanere nascosto. Proprio il posto adatto per chi voleva fuggire dalla razza umana.

Ci sarebbero state cose da fare... più avanti. Due corpi ai quali dare sepoltura. Uno schermo da ripulire e gettare in un mucchio di rifiuti. Alcune creature schiamazzanti da scovare e uccidere.

Poi si sarebbe potuto sistemare.

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Naturalmente c’erano dei robot. Uno aveva appena portato la cena.

Più avanti, ripeté.Ma c’era qualcos’altro da fare... qualcosa da fare subito, se

solo fosse riuscito a ricordare cosa.Rimase fermo nella stanza e si guardò intorno per catalo-

garne il contenuto.Sedie, tende, una scrivania, un tavolo, il caminetto finto.Ecco cos’era, il caminetto.Attraversò la stanza, andandosi a fermare davanti al cami-

netto. Allungò la mano e tirò giù dalla mensola la bottiglia col nastro di seta nero legato intorno al collo. La bottiglia del club dell’ultimo uomo.

Ed era lui l’ultimo uomo, su questo non c’erano dubbi. L’ultimissimo, fra tutti.

Lui non aveva fatto parte del patto, naturalmente, ma avrebbe comunque portato a termine l’accordo. Sì, certo, era un melodramma, ma a volte, si disse, un piccolo melodram-ma si poteva anche perdonare.

Stappò la bottiglia e si girò per guardare la stanza. Quindi la sollevò per fare un brindisi... un brindisi alla salute della cornice annerita e squarciata che aveva racchiuso il dipinto, alla salute dell’uomo morto sul pavimento, alla salute di quell’essere che miagolava in un angolo lontano e buio.

Provò a pensare a qualcosa da dire, ma non ci riusciva. Eppure doveva esserci qualcosa da dire, doveva esserci.

«Cin cin,» esclamò, e non era certo un gran che, ma dove-va per forza andar bene.

Accostò la bottiglia alle labbra, la rovesciò e piegò la testa all’indietro.

Sul punto di strozzarsi, staccò la bottiglia dalle labbra.Non era whisky e faceva schifo. Era fiele, aceto e chinino,

mescolati insieme. Era un intruglio che arrivava direttamente dagli Abissi. Era un miscuglio di tutte le medicine più disgu-

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stose che aveva preso da bambino, era zolfo e melassa, era olio di ricino, era...

«Buon Dio,» esclamò Frederick West.Perché istantaneamente gli venne in mente dove si trovava

un coltello che aveva perso vent’anni prima. Lo vedeva, in modo chiaro come il sole, proprio nel punto dove l’aveva la-sciato.

Capì un’equazione che non aveva mai capito prima e, cosa più sconcertante, capì a cosa serviva e come poteva essere usata.

Indipendentemente dalla sua volontà, vide con l’occhio della mente, in un’ampia immagine, come funzionava un motore a razzo... ogni particolare, ogni pezzo, ogni comando, come un diagramma spianato davanti i suoi occhi.

Riuscì a cogliere e a fissare con gli occhi della mente sette distinti punti di una palizzata, e quattro era il limite massimo che ogni essere umano fosse mai riuscito prima a vedere mentalmente.

Con un sibilo, fece una profonda espirazione, per dar aria alla bocca, poi, sbalordito, fissò la bottiglia.

Senza esitazione, riuscì a ripetere a memoria, parola per parola, la prima pagina di un libro che aveva letto dieci anni prima.

«Gli ormoni,» sussurrò. «Gli ormoni di Darling!»Ormoni che avevano prodotto un certo effetto sul suo cer-

vello. Ne avevano accelerato l’attività, lo avevano fatto fun-zionare meglio, sfruttandone una sezione molto più ampia di quanta non ne fosse stata sfruttata in precedenza. Inducendo-lo a pensare in modo più nitido e chiaro di come avesse mai pensato in precedenza.

«Buon Signore,» esclamò.Era già partito avvantaggiato. E adesso anche questo!L’uomo che l’avesse posseduto avrebbe potuto governare

il Sistema Solare. Era quello che aveva detto Belden, par-

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lando degli ormoni.Belden li aveva cercati. Aveva messo quel posto sottoso-

pra. E anche Darling li aveva cercati. Darling, che era con-vinto che fossero in mano sua, che aveva tirato un brutto scherzo a Nevin e Cartwright per essere sicuro di averli lui, che si era ubriacato fino alla morte alla ricerca della bottiglia che doveva contenerli.

E per tutti quegli anni gli ormoni erano rimasti dentro que-sta bottiglia, sulla mensola del caminetto!

Qualcun altro aveva tirato un brutto scherzo a tutti loro. Forse Langdon. Langdon, che era stato donato come un cuc-ciolo a un essere talmente mostruoso che Cartwright stesso aveva evitato perfino di nominarlo.

Con la mano tremante, West rimise la bottiglia sulla men-sola del caminetto, sistemandovi accanto il tappo. Per un po’ rimase fermo lì, con le mani appoggiate alla mensola, ag-grappate alla mensola, a guardar fuori dalla finestra-oblò si-tuata di fianco al focolare. Fissando la valle, dove un cilindro ombroso, inclinato verso l'alto, si distaccava dal pianeta roc-cioso, quasi tentasse di raggiungere le stelle.

L'Alfa Centauri... la nave col propulsore spaziale che non funzionava. C’era qualcosa che non andava... qualcosa che non andava...

Un sussulto prese West alla gola, mentre le sue mani si strinsero ancora di più alla mensola, in una presa che gli fa-ceva male.

Sapeva cosa non andava!Sulla Terra aveva studiato i progetti del propulsore.E adesso era come se quei progetti si trovassero nuova-

mente davanti ai suoi occhi, perché se ne ricordava ogni li-nea, ogni simbolo, come fossero incisi nel suo cervello.

Individuò il problema, la piccola modifica che avrebbe fat-to funzionare il propulsore della nave. Dieci minuti... Gli sa-rebbero bastati dieci minuti. Era talmente banale. Talmente

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banale. Talmente banale che gli sembrava inconcepibile che non fosse stato scoperto prima, che tutte le menti eccelse che vi avevano lavorato non l’avessero individuato tanto tempo fa.

C’era stato un sogno... qualcosa che non avrebbe osato nemmeno dire a voce alta, nemmeno a se stesso. Qualcosa che non avrebbe nemmeno osato pensare.

West si scostò dal caminetto e tornò a guardare la stanza. Prese la bottiglia e per la seconda volta la sollevò per fare un brindisi.

Ma questa volta aveva la frase giusta da rivolgere a quegli uomini che erano morti e all’essere che frignava in un ango-lo.

«Alle stelle,» pronunciò.E bevve, questa volta senza strozzarsi

CLIFFORD D. SIMAK

The Cali from Beyond, di Clifford D. Simak, Copyright © 1950 by Popular Publications Inc., da Super Science Stories. Traduzione di Leila Moruzzi.

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I COLONI DI GIOVE

Il gigantesco pianeta Giove, forse una stella mancata, o una creazione troppo titanica per poter essere completamen-te compresa, ha esercitato un enorme fascino sullo scrittore che continuiamo a ritenere il più completo, poetico e signifi-cativo che l'intero movimento della science fiction abbia prodotto in settant'anni di storia: Clifford D. Simak.

La collana che la Perseo ha destinato a ospitare tutte le sue opere non ha prodotto nuovi volumi, negli ultimi anni, ma il progetto è tutt'altro che accantonato: e anzi, se la va-sta campagna di diffusione che la casa editrice ha iniziato con la pubblicazione del nuovo Catalogo 2000 darà i frutti sperati, presto usciranno altri titoli.

Non però le antologie dedicate a tutti i racconti, che sono state spostate molto più avanti nel tempo, per motivi di ordi-ne tecnico che sarebbe troppo lungo enumerare.

Ma il lavoro di ricerca e di selezione delle opere più rare di Simak non è certo andato perduto.

Infatti Nova Sf* si è assicurata, e sta pubblicando rego-larmente, numerosi di quei racconti inediti, rari e famosi, che permettono al lettore italiano di completare la propria conoscenza di un talento straordinario anche nelle opere minori, di uno scrittore capace di evocare l'epopea spaziale con accenti sempre originali e ricchi di contenuti, e le cui idee hanno influenzato poderosamente gli scrittori di questa letteratura attraverso gli anni.

La storia che ospitiamo in questo volume, che abbiamo in-titolato non a caso Viaggiatori dell'infinito, per la panora-mica di visioni del tempo, dello spazio e delle forze oscure che si agitano nell'uomo, ci porta sul grande pianeta nell'i-conografia che la fantascienza non ha mai smarrito... un mondo dove si agitano forze spaventose, dove la vita è im-possibile se non attraverso i più sofisticati espedienti della

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scienza.Ma il gigante del Sistema Solare è anche un mondo così

alieno da permettere di trovare la soluzione a una misterio-sa pestilenza che ha infestato le vie spaziali, un mondo nel quale i coloni si muovono in continuo pericolo, e dove una missione di recupero si trasforma in tragedia a ogni soffiare dei venti spaventosi che spazzano la superficie ostile a ogni forma di vita.

Di Giove, in realtà, ancora non sappiamo molto, malgra-do le sonde spaziali l'abbiamo avvicinato e fotografato. I suoi satelliti possono essere un tesoro di conoscenza per la biologia e la fisica.

Il suo stato semigassoso può comunque presentare facce e fenomeni che nessuno di noi oggi è in grado di ipotizzare.

Perché non lasciarci di nuovo travolgere, allora, dalla fantasia di un Simak giovane e affascinato dai misteri del cosmo, per goderci un'avventura scritta nel più classico stile delle storie spaziali, quelle space operas che non conoscono tramonti?

In fondo, basta chiudere gli occhi per un momento e im-maginarci in uno scenario titanico, su una superficie ostile e gelida spazzata da venti spaventosi...

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ERRORE MATERIALE

Fred Franklin sapeva, più di ogni altro, che la morte li sta-va accerchiando. Ma non aveva paura. Era semplicemente furibondo... irritato fino al midollo, perché i suoi bellissimi motori nel sottofondo dell'Alveare non avrebbero girato an-cora a lungo.

Fred viveva per i suoi motori. Adorava il brusio sordo e continuo della forza motrice, il vago turbinio degli alternato-ri, il ronzio del perfetto accoppiamento degli ingranaggi.

Le sue manone enormi, sporche di unto, si stavano contor-cendo spasmodicamente... come se stessero cercando di ag-guantare qualcuno alla gola.

«Se solo potessi mettere le mani sul quel tizio sulla Terra,» borbottò.

«Chiunque fosse, probabilmente in questo momento lo sta-ranno ammanettando,» osservò Bill Vickers. «Sarà stato un addetto alle spedizioni. Un errore del quale gli ispettori si sa-rebbero comunque dovuti accorgere.»

«Certo,» ringhiò Fred, «L'addetto alle spedizioni andrà in galera, e noi moriremo.»

Vickers osservò con aria corrucciata l'ingegnere atomico. «Per quanto ancora riuscirai a farli andare, Fred?»

L'ingegnere esplose: «E me lo chiedi? Ti dirò una cosa... Li farò andare finché la camera di combustione non andrà in

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fumo, e quando accadrà, non dovremo più preoccuparci.»Vickers ebbe un fremito, immaginando cosa sarebbe suc-

cesso a quel punto... sempre che fosse successo. Vedeva, con l'occhio della mente, la potenza dell'energia atomica incon-trollata che si sprigionava nella sala delle macchine, attraver-sando l'intera cupola, squarciandola.

«Il mercotite si sta assottigliando,» precisò Fred. «Male-dettamente troppo sottile per garantirci la salvezza. Se vo-gliamo che la camera di combustione continui a funzionare, ci serve il mercotite... quel mercotite che avrebbe dovuto es-sere negli scatoloni, e invece non c'era.»

Sputò, amareggiato.«Rame! Cosa cavolo, ce ne facciamo del rame?»«Ho chiesto l'intervento dei trattori,» spiegò Vickers.

«Hanno risposto tutti, tranne il Vecchio Cal Osbom. D'al-tronde, l'ultima volta che gli ho parlato, era ubriaco. Forse si farà vivo fra un po'. Non appena i trattori arriveranno potrai attingere il mercotite dalle loro camere di combustione e usarlo per aggiustare e rafforzare la camera principale. Lo so che non durerà a lungo, comunque servirà a tirare avanti per un po'. Ogni minuto in più che riusciremo a fare funzionare questi motori, ogni minuto in più che permetterà alla linfa di scorrere in queste pareti, sarà un minuto di vita in più per noi. Quando i motori si fermeranno, anche noi ci fermeremo. Questo lo sappiamo tutti.»

«Hai mandato a chiamare gli uomini?» chiese il dottor Norman Lester. «Questo significa che hai smesso di cercare la nave?»

Vickers si girò per guardare dritto in faccia l'uomo dai ca-pelli grigi.

«No,» sbottò. «Siamo costretti a far venire i trattori per avere il mercotite. Ma non abbiamo rinunciato alla ricerca. Io stesso ho intenzione di uscire e tornerò col mercotite con-tenuto nell'Arca di Giove, oppure non tornerò affatto. Benny

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sostiene che quando si sono interrotti i segnali la nave era in avvicinamento e stava sorvolando il Monte Ululato. Dev'es-sere andata a sbattere da qualche parte sul versante opposto.»

«Proprio così,» aggiunse Benny Kem l'addetto alle comu-nicazioni. «Si stava avvicinando da nord, ancora abbastanza alta, e il fortunale le stava procurando non poche difficoltà. La ricezione non era un gran che, comunque la stavo guidan-do al rientro. Stava seguendo il raggio direzionale, anche se doveva essere parecchio confuso. Il cielo era pieno di lampi.»

«Tutto questo è molto bello,» osservò il dottor Lester, «Ma non troppo convincente. Gli uomini usciti in perlustra-zione hanno setacciato minuziosamente quella montagna. Come pensi di riuscire a trovare qualcosa dal momento che non ci sono riusciti loro?»

«Stammi bene a sentire,» sbottò Fred, «Vedi di non immi-schiarti in questa faccenda. Hai fatto molto tu. Abbiamo spe-rato che riuscissi a creare un sostituto per il mercotite. La mi-gliore attrezzatura scientifica del mondo, tutto il metallo di Giove, e cos'hai combinato? Un bel niente!»

«Ma io sono un biologo,» si giustificò Lester, «E non capi-sco un tubo di metalli. E nemmeno i miei uomini.»

«Se non fosse stato per il fortunale,» aggiunse Vickers, «Adesso saremmo a posto. I rotori erano pronti a entrare in funzione, ma il vento li ha ridotti in rottami...»

Su Giove di norma ci si aspetta un vento di circa trecento chilometri l'ora. Succede ogni giorno... una delicata brezza che mulina e gira vorticosamente per il gigantesco pianeta. In realtà fin quando il vento non comincia a soffiare a otto-cento chilometri l'ora, non viene mai considerato un vento particolarmente forte. Quando la velocità sale, superando i milleseicento chilometri, allora si può parlare di raffiche. Ol-tre tale velocità, si parla di fortunale.

L'atmosfera di Giove è densa e pesante, composta da azoto

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e idrogeno... soprattutto idrogeno... e dalla consistenza simile a quella di una zuppa. A trecento chilometri l'ora, una simile atmosfera consente ai potenti rotori di girare, divenendo fon-te di una portentosa energia, l'energia necessaria a tenere l'Alveare sotto l'orribile pressione della superficie di Giove. Ma a milleseicento chilometri l'ora i rotori possono facilmen-te andare in frantumi riducendosi in un cumulo di ciarpame. Esattamente ciò che era successo.

L'Alveare era stato edificato cinque anni prima con l'ausi-lio delle prime navi spaziali costruite appositamente per rag-giungere la superficie del più grande membro del Sistema Solare.

Era stato costruito da robot, manovrati dall'interno delle navi per mezzo di telecomandi. Infatti, se anche l'uomo pote-va costruire su Giove, vivere su Giove, e perfino, nei tempi a venire, conquistare Giove, non sarebbe mai stato in grado di camminare su Giove, non avrebbe mai osato avventurarsi al-l'aperto, sulla terra ferma.

La gravità non era poi tanto male. Solamente due volte e mezzo quella della Terra. D'accordo, buona decisamente no, ma era comunque adatta a consentire all'uomo di viverci, al-l'interno di camere a condizionamento terrestre.

In quanto alla pressione, be', lì il discorso si faceva com-pletamente diverso. Una pressione paragonata alla quale quella delle profondità marine terrestri sarebbe sembrata quasi il vuoto. Una pressione che avrebbe reso fragile perfi-no l'acciaio, frantumandolo e sfaldandolo in un milione di frammenti.

Era ormai da cinque anni che l'uomo viveva su Giove, ma per tutto quel tempo nessuno aveva mai osato mettere piede sul pianeta, nessuno aveva mai osato osservare a occhi nudi la sua superficie.

L'Alveare era composto da un guscio interno di duraccia-io, la lega più solida, più resistente che fosse mai stata ideata,

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eppure, di per sé, non era in grado di resistere al peso dell'e-norme atmosfera di Giove.

L'elevazione della tensione elettronica del duracciaio ave-va reso possibile la costruzione della cupola. Ma occorreva un'incredibile energia per il mantenimento di quella tensione elettronica... un'energia così potente che poteva essere fornita esclusivamente da una esplosione atomica, o dai venti del-l'atmosfera stessa di Giove.

Intorno al guscio di duracciaio era stato fuso un altro invo-lucro di quarzo, per proteggere la lega dalle piogge alcaline che si riversavano quasi ininterrottamente dalle dense nuvo-le.

Lo stesso tipo di costruzione era stato impiegato per le na-vette che si avventuravano sulla superficie di Giove, per i trattori che trasportavano gli uomini sulla sua superficie, per i robot che fungevano da mani umane sul più inverosimile pianeta del Sistema Solare.

E non era certo stato un mero, fortuito spirito d'avventura a spingere l'uomo a sfidare i pericoli di Giove, ma pura e semplice necessità. La creazione dell'Alveare era stata prati-camente frutto di un ultimo, disperato sforzo... un ultimo lan-cio dei dadi, il cui risultato avrebbe indicato la vita o la mor-te di ogni creatura vivente sui pianeti.

Perché molto lontano dall'atmosfera densa di Giove, infat-ti, poco a poco si era diffuso un flagello, un flagello capace di resistere a ogni tipo di farmaco. La piaga aveva avuto ini-zio su Marte, il che probabilmente spiegava come mai i pri-mi uomini a raggiungere il pianeta non avessero trovato nes-suna traccia di vita, ma prove più che sufficienti a dimostrare l'esistenza di una vita passata.

Quel germe mortale era rimasto in agguato per anni, e con la venuta dell'uomo era tornato alla vita. Da Marte, trasporta-to nei corpi delle vittime dalle navi spaziali, si era diffuso sulla Terra. E dalla Terra a Venere e Mercurio, e nei pochi

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asteroidi abitati. Una piaga che si era abbattuta sui mondi, at-taccando non solo l'uomo, ma ogni forma vivente.

La frenetica ricerca non aveva fruttato nessun risultato. Il germe era stato isolato e identificato, ma era sfuggito a ogni tentativo di controllo.

Spinti dalla disperazione, non intravedendo nessuna possi-bilità di soggiogare l'avanzata della pestilenza, era stata equi-paggiata una spedizione destinata a Giove. Perché su Giove, si diceva, avrebbero trovato una chimica completamente aliena... una chimica che avrebbe potuto fornire un qualche indizio, che avrebbe potuto indicare un qualche sistema atto ad arrestare il flagello.

La prima spedizione aveva fallito, con un'unica nave che era riuscita a far ritorno sulla Terra. Anche la seconda spedi-zione aveva fallito, ma la terza, forte dell'esperienza ricavata dalle altre due tragedie, era riuscita a farsi strada, a costruire l'Alveare e ad installarvi i macchinari necessari a consentire la vita.

Una quarta spedizione vi aveva condotto chimici e biologi.Avevano poi fatto seguito tre anni di sforzi infruttuosi.La chimica di Giove era sì aliena, su quello non c'era dub-

bio. Talmente aliena, in effetti, che il personale addetto alla ricerca aveva impiegato mesi nel tentativo di raccapezzarsi.

Su Giove c'era vita... una bizzarra vita vegetale e una vita animale ancora più bizzarra. Vita basata su ammoniaca e idrogeno, vita che, a temperature normali sulla Terra, sem-plicemente evaporava.

La vita animale era costituita da esseri piccoli e perversi, con un metabolismo opposto a quello degli animali terrestri, basato sull'ossidazione, sul nutrimento, e sulla riduzione del-l'aria.

Esaminata da un punto di vista microscopico, chimico, batteriologico e spettrografico la vita su Giove aveva svelato molti segreti... tranne quello però che gli scienziati stavano

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cercando.Ma il successo alla fine era arrivato. Nella ghiandola di un

piccolo animale... soprannominato sradicatore per il modo in cui si procurava il cibo... era stata trovata la cura contro la micidiale pestilenza, e l'Alveare di Giove era immediatamen-te diventato il fulcro di ogni speranza del Sistema Solare.

In quel momento, due anni dopo la scoperta delle proprietà della ghiandola, la battaglia contro il flagello stava ancora proseguendo, ma la corrente stava cambiando, cambiando lentamente, a favore dell'umanità. Ma, come c'era da aspet-tarsi, l'uomo se pur in grado di estrarre quel prodotto, frutto di un metabolismo alieno... non poteva produrlo.

Bill Vickers, lamentandosi, teneva gli occhi fissi sul moni-tor.

Stava ancora una volta piovendo e i lastroni di ammoniaca liquida, fredda come la morte, si abbattevano contro le rupi orientali che costituivano le pendici più basse del Monte Ululato. Una pioggia sospinta dal solito vento che, come ogni giorno, avanzava ululando a oltre trecento chilometri l'ora.

Spostando il campo visivo dello schermo, inquadrò i re-cinti dove venivano tenuti centinaia di sradicatori. Sradicato-ri che rappresentavano la speranza del Sistema Solare, curati teneramente, allevati, fatti crescere, e infine uccisi per le loro ghiandole miracolose.

Dalla valle stavano arrivando una mezza dozzina di robot, intenti a trasportare i carichi dei tuberi che costituivano il nu-trimento degli sradicatori. Non erano i tipici robot, costruiti a somiglianza umana, tenuti come servitori da molte famiglie terrestri, ma macchine complicate, complesse, adattate in modo da compiere un lavoro che l'uomo non era in grado di fare... macchine che, in quel pianeta inusuale, operavano per delega umana.

«Fred,» osservò Bill, «Il funzionamento dell'Alveare signi-

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fica vita per milioni di persone degli altri pianeti. Se dovesse fermarsi, la lotta contro la pestilenza subirebbe una battuta d'arresto di cinque anni buoni. Dovranno costruire un altro Alveare. Dovranno raccogliere un altro ceppo di sradicatori.»

«E tutto,» aggiunse con amarezza l'ingegnere, «Perché uno spedizioniere rimbambito ci ha inviato del rame al posto del mercotite.»

Bill rispose con un cenno d'assenso.Ricordava benissimo quel giorno, alcune settimane prima,

quando avevano aperto le scatole per prelevare un nuovo quantitativo di mercotite che sarebbe servito per rappezzare la camera di combustione atomica. Una scatola dopo l'altra... solo rame, neanche un po' di mercotite.

Mercotite... un metallo meraviglioso, che si trovava esclu-sivamente sulla faccia rivolta verso il Sole del pianeta Mer-curio. L'unico metallo conosciuto che riuscisse a resistere al-l'attacco della disintegrazione atomica. Senza il mercotite l'e-nergia atomica non poteva essere controllata... e senza un'e-nergia atomica controllata l'Alveare era destinato alla distru-zione. Una volta interrotto il flusso d'energia all'interno delle pareti di duracciaio, la cupola si sarebbe frantumata per ef-fetto della pressione.

Là fuori, sul lato opposto del Monte Ululato, giaceva l'Ar-ca di Giove col suo carico di nuove scorte di mercotite. Là fuori, ai margini della valle, devastata anch'essa dalla stessa tempesta che aveva distrutto la nave spaziale, giacevano i ro-tori contorti, messi a punto dopo lunghe settimane di lavoro nella speranza che potessero fornire energia sufficiente a consentire il funzionamento della cupola, qualora la nave non fosse riuscita ad arrivare in tempo.

«Ho estratto abbastanza metallo dai trattori da rabberciare, temporaneamente, la camera,» spiegò Fred, «Ma anche nella migliore delle ipotesi non durerà a lungo. In alcuni punti si

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sta di nuovo assottigliando. Se la reazione atomica arriverà di nuovo all'acciaio, per noi sarà la fine.»

Guardò il monitor.«Forse dovremmo far rientrare tutti i robot,» aggiunse,

«Sebbene le loro camere di combustione siano piuttosto pic-cole, potremmo comunque ricavarne un po' di metallo.»

«Fai rientrare quel che ti pare,» rispose Vickers, «Io ades-so esco e provo a trovare l'Arca, anche se temo che il dottor Lester abbia ragione. Se nessuno degli altri c'è riuscito, non ho certo molte probabilità di trovarla io.»

«Hai qualche notizia del Vecchio Cal?» chiese Fred.Vickers scosse la testa: «L'ultima volta che ha chiamato

era ubriaco fradicio. Tiene nascosta da qualche parte una ri-serva di liquore e di quando in quando se la svigna con una bottiglia. C'è da meravigliarsi che non sia rimasto stecchito almeno una dozzina di volte. Uno che se ne va in giro sul trattore con la pancia piena di torcibudella.»

Benny Kem sporse la testa dalla camera delle comunica-zioni.

«C'è una chiamata per te,» gridò. «È il Vecchio Cal.»Il pollice di Vickers fece scattare una levetta del pannello

sistemato sulla sua scrivania. Con un breve sfarfallio lo schermo si sincronizzò, inquadrando il volto del Vecchio Cal Osbom che lo stava fissando.

«Ciao ragazzo,» guai Cal. «Come stai? Fatti una bevuta a mie spese.»

Agitò una bottiglia, la sollevò, si fece una bevuta a garga-nella e si spazzò la bocca.

«Ma dove sei?» chiese Vickers infuriato. «Non hai ricevu-to la mia chiamata? Si può sapere perché non sei venuto?»

Dallo schermo il Vecchio Cal lo fissò con aria di solenne saggezza.

«Ma porca miseria!» esclamò. «Tanto siamo destinati a morire in ogni modo, o no? Niente mercotite, niente

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energia... niente energia, niente Alveare...»Non riuscendo a trattenere il singhiozzo, mostrò un certo

imbarazzo.«Sei ubriaco,» scattò Vickers.«Stammi bene a sentire, figliolo,» farfugliò il Vecchio Cal.

«Cerca di non essere così duro con un vecchio. Un povero vecchietto che sa di essere sul punto di morire dovrà pure spassarsela un po'. Solo un altro goccetto, mi sono detto... solo un altro, e così mi sono portato a bordo di soppiatto una decina di litri della roba. Inoltre, mi sono detto: “A Billy Vickers non importerà di certo, perché capirà.” Inoltre...»

«Inoltre cosa?» urlò Vickers.«Be', ho trovato la nave.»«La nave?»«Certo, figliolo, sai benissimo di quale nave sto parlando.

L'Arca di Giove.»«Hai trovato l'Arca di Giove!»«Proprio così, ma non ci servirà a un bel niente. Proprio a

un bel niente, figliolo. Perché, vedi, è in fondo a un canyon. Maledettamente sfasciata, ed è impossibile raggiungerla.»

Vickers colpì la scrivania con un poderoso pugno.«Non mi interessa dove si trova,» gridò. «Ma solo che

l'abbiamo trovata. Domani la raggiungeremo!»Vickers guidò in modo selvaggio. Sullo schermo, situato

davanti ai comandi, vedeva i fendinebbia che aprivano pro-fondi varchi di luce tra la furia degli elementi che, ululando, lanciavano le loro violente sferzate.

Il vento coi suoi sibili flagellava la pioggia di ammoniaca liquida, formando un turbine accecante. Dalle nuvole le saet-te andavano a squarciarsi intorno alla cima del Monte Ulula-to, mentre l'arcana vegetazione, sotto le sferzate della piog-gia, assumeva le sembianze di grigi fantasmi. E il trattore procedeva, guidato da quattro macchine metalliche, quattro robot che avanzavano sulle loro ruote per aiutarlo a raggiun-

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gere i rottami dell'Arca di Giove.Creature grigie e rosse in fuga attraversavano velocemente

il fascio di luce dei fari. Una volta, una di queste creature si era scagliata contro uno dei robot andando violentemente a sbattere contro il metallo della macchina; ruzzolata a terra, aveva ritentato la carica, ritirandosi tra l'oscurità della piog-gia soltanto dopo aver esaurito tutta la propria furia.

Piccoli esseri perversi. Velenosi. Molti di loro anche intel-ligenti... quanto intelligenti, però, era quasi impossibile stabi-lirlo.

Non c'erano grosse forme di vita su Giove, semplicemente perché grosse forme di vita non potevano vivere sotto quella tremenda pressione. Lì le creature viventi dovevano per for-za essere piccole e veloci, una vita concepita per restare av-vinghiata al suolo.

Quando i battistrada slittarono sulla roccia liscia, il trattore sbandò pericolosamente. Vickers, imprecando, sterzò di col-po. Se a quel punto il veicolo si fosse capovolto, danneggian-dosi, per loro sarebbe stata la fine, essendo rimasto quello l'unico trattore disponibile. Tutti gli altri erano stati smantel-lati per ricavarne il metallo per rappezzare la camera di di-sintegrazione.

Procedere velocemente era però indispensabile. Il mercoti-te sarebbe bastato ancora per poche ore, poi non ci sarebbe stato più niente da fare.

A quel pensiero, prese a imprecare... ma le sue, più che imprecazioni, sembravano l'intonazione di una preghiera.

Maledetto pianeta! Maledetto Giove! Un posto sulla cui superficie non si poteva camminare, dove non si poteva guardare a occhi nudi. Bisognava andare in giro coi trattori. Bisognava ricorrere a degli schermi visivi, semplicemente perché non era possibile costruire dei portelli d'osservazione che riuscissero a reggere. Un luogo dove la radio funzionava solo per qualche chilometro, poi la ricezione diventava irre-

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golare. Nessuna possibilità di parlare con la Terra... poiché nessun segnale, in quella ribollente atmosfera, si sarebbe ir-radiato oltre ottanta chilometri.

Trattenendo il respiro, controllò le carte direzionali, spe-rando che fossero giuste. In un mondo come quello non si poteva mai essere sicuri di niente. Un mondo dal freddo ter-rificante... 120 gradi centigradi sotto zero... dalla pressione spropositata, con una chimica e una metallurgia del tutto aliene.

Poteva sentire il ruggito del vento che attraversava le alte gole e i passi del Monte Ululato, il tonante ruggito al quale il picco doveva i suoi due nomi... Monte Ululato da un versan-te della valle. Monte Urlo da quello opposto.

Si gettò sui comandi della radio, gridando al microfono:«Cal! Cal Osbom!»La radio gracchiò con una specie di risata chioccia, prima

che si udisse la voce spettrale di Cal:«Sei tu, figliolo?»«Sì, Cal. Hai trovato qualcosa?»«Niente di niente,» replicò Cal. «L'ho osservata da prua a

poppa, ma non c'è modo di calarsi. Si è incastrata proprio sotto un dirupo e l'apertura è bloccata da uno smottamento. Se avessimo tempo potremmo puntare dei proiettori termici e sciogliere l'ostacolo, ma...»

«Non abbiamo tempo,» tagliò corto Vickers. «E se tentas-simo col riscaldamento, probabilmente ci faremmo crollare addosso l'intera montagna.»

«Cavolo,» esclamò Cal, «Quei tipi devono aver sbattuto contro il canyon come una tonnellata di mattoni. Si sono spiattellati come delle frittelle.»

«Stammi a sentire,» ordinò Vickers, «Prova a mandare giù il tuo robot. Vedi cosa riesce a fare.»

«D'accordo,» assentì Cal. «Ma di sicuro non mi faccio molte speranze.»

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Vickers spense la radio, concentrando tutta la propria at-tenzione sulla guida.

All'improvviso si sentì solo... solo e senza speranza. Sa-rebbe stato bello, in un momento come quello, avere vicino Fred, ma la presenza di Fred era indispensabile nell'Alveare e comunque i trattori erano stati progettati per un'unica per-sona. Ecco di nuovo la vecchia regola che voleva che su Gio-ve, per sopravvivere, ogni cosa dovesse evitare certe dimen-sioni e avere la foggia di una tartaruga.

Aggirò una rupe maestosa, una bianca rupe gessosa, fatta di una sostanza che, sulla Terra, sarebbe stata acqua, ma che su Giove era solida, a causa del freddo terribile di quella schiacciante atmosfera. Una cascata azzurra di ammoniaca liquida si riversava sulla rupe, scorrendo impetuosamente lungo il versante della montagna, in un torrente turbinoso. La cascata era avvolta da una nube di vapore.

La pioggia stava ancora scendendo impetuosamente. Dal-l'alto si udiva l'incessante ululato del vento che attraversava, violento, i passi.

Vickers accese la radio, cercando di mettersi in contatto con Cal, ma non ebbe nessuna risposta. Chissà, forse era solo un altro capriccio di quel gigantesco pianeta. I trasmettitori non funzionavano mai bene.

O forse Cal era semplicemente svenuto.Disgustato, Vickers sputò. Se solo nel canyon, dov'era an-

data a sbattere l'Arca di Giove, ci fosse stato un uomo vero! Un uomo come Fred, o Eric, o come una dozzina di altri. In-vece c'era il Vecchio Cal Osbom!

Il trattore si fece strada a naso intorno alla rupe, arrampi-candosi sulla spalla della montagna, scivolando e sbandando sulle superfici sdrucciolevoli. Se non fosse stato per la mag-giore gravità quella spalla sarebbe stata insormontabile, ma il trattore ci riuscì, scendendo ad angolo e riprendendo la scala-ta verso un secondo sperone.

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All'improvviso la radio riprese vita con un farfuglio, e la debole voce di Cal, distorta e spettrale, si rivolse a Vickers, in un bisbiglio.

«Stammi a sentire, giovanotto, il mio robot non riesce a combinare un tubo. Ci vuole qualcuno laggiù che lavori con lui. Scalpita intorno al relitto, ma non sa cosa deve cercare.»

«Non riesci a dirigerlo?» sbraitò Vickers. «Dov'è il proble-ma?»

«Il canyon è profondo,» rispose la voce spettrale. «Anche con le luci al massimo, riesco a malapena a intravedere il re-litto. Non riesco a scorgere un gran che. Se solo fossi riuscito a capire cosa stava facendo quel maledetto robot, forse sarei riuscito in qualche modo ad aiutarlo.»

Vickers ci pensò su. Il Vecchio Cal aveva ragione. Sareb-be stato difficile scorgere il fondo di un canyon. Quell'atmo-sfera così densa giocava dei brutti scherzi alla vista, distor-cendo le immagini, frazionando e disperdendo la luce.

«Senti, Cal,» disse. «In qualche modo dobbiamo riuscire a scendere. Uno di noi deve arrivare laggiù per dirigere il ro-bot.»

Un singhiozzo da sbronza, un singhiozzo spettrale uscì dalla bocca di Cal, ben udibile alla radio. Poi fu la voce dello stesso Cal a dire: «D'accordo, giovanotto. Troverò una stra-da.»

La radio restò muta. Vickers tentò disperatamente di con-tattare il vecchio, ma i suoi sforzi andarono a sbattere contro il più totale silenzio.

Vickers si chinò sulla cartina, facendo velocemente dei calcoli. Ormai mancavano solo pochi chilometri. Nel giro di pochi minuti sarebbe arrivato. Spinse a rotta di collo il tratto-re su per lo sperone e svoltò, lanciando il veicolo lungo una pendenza sulla quale i battistrada giravano all'impazzata. Ma la macchina, come guidata dall'accanita forza di volontà del-l'uomo al volante, continuò ad avanzare protestando, gemen-

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do in ogni sua asta, in ogni sua piastra. Raggiunta la cresta del piano inclinato, si lanciò a tutta velocità, serpeggiando e sobbalzando sul terreno dissestato.

Si tornò poi a udire il ronzio della radio.«Ho trovato la strada,» esclamò la voce del Vecchio Cal.

«Non è un gran che, ma forse posso farcela. Si tratta di una specie di sentiero che porta giù, in fondo al canyon. Da quanto si può vedere, ci sono dei brutti tornanti, molto stret-ti...»

«Aspetta,» gridò Vickers. «Aspettami. Sei ubriaco, pazzo che non sei altro. Non ce la farai mai. Finiresti per schiantar-ti.»

«E chi l'ha detto che sono ubriaco?» domandò Cal. «Sono solo eccitato. Mi comporterò meglio di quanto faresti tu, fi-gliolo. Ho esperienza... blurp... io.»

«Stammi bene a sentire, Cal,» tagliò corto Vickers. «È un ordine: devi aspettarmi. Mi calerò per quel sentiero. Io una probabilità di farcela ce l'ho, tu no!»

«Dei tuoi ordini, signore, non me ne frega un tubo,» ruggì Cal. «Tieni accesa la radio e raggiungimi. Io scenderò in quel canyon.»

Vickers gli gridò qualcosa, ma senza ottenere risposta.Vecchio pazzo e cocciuto! Vickers aveva perfettamente

capito fino a che punto era ubriaco. Se fosse andato a piedi, le orme di Cal avrebbero formato un'onda sinusoidale. Non sarebbe mai arrivato vivo in fondo al canyon.

Cal in precedenza aveva riferito che non c'era modo di raggiungere il fondo del canyon, e adesso ecco che all'im-provviso aveva trovato una strada. Com'era potuto accadere? Era proprio sicuro che si trattasse di un sentiero... e non piut-tosto di una cornice di roccia che scendeva per un certo trat-to, per poi interrompersi di punto in bianco...

Tornò a strillare alla radio, ma fu salutato soltanto dal si-lenzio. Udì ancora una volta il sibilo della pioggia contro la

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corazza del trattore, lo stridio dei cingoli che slittavano, l'u-lulato del vento tra i passi sopra di lui, ma oltre quello, nien-t'altro.

Davanti al veicolo, nel fascio di luce dei fari, i quattro ro-bot sembravano dei folletti soprannaturali, coi corpi ricoperti di quarzo che luccicavano, inondati da quella pioggia di un colore azzurro cupo. Il mostruoso bagliore di un lampo squarciò in due il cielo e il paesaggio circostante, dipingendo i loro corpi di un rosso sanguigno. Seguì il boato del tuono che fece tremare la montagna con inaudita violenza.

Ed ecco che, all'improvviso, il trattore cominciò ad immer-gersi in una regione dalla topografia da incubo. Formazioni fantastiche si profilavano, minacciose, tra il cupo grigiore della pioggia.

Vickers rallentò, proseguendo la discesa con estrema pru-denza. Si stava avvicinando all'orlo del canyon, e non poteva correre il rischio di passarvi sopra, facendo precipitare il trat-tore nel burrone sottostante.

Davanti a lui i robot, dopo essersi spostati a destra e a sini-stra, si fermarono. Avevano raggiunto il ciglio.

Vickers arrestò il trattore e, fatti i dovuti rilevamenti, capì di aver raggiunto il canyon in un punto del versante troppo elevato. Con cautela costeggiò lungo il margine del precipi-zio.

La radio cominciò a gridare, questa volta in modo forte e chiaro: «Sono in fondo, Vickers. Chi diceva che ero ubriaco? E se anche lo fossi? Comunque non lo sono. Il robot sta cer-cando di prendere il mercotite.»

«Ma tu stai bene, Cal?» urlò Vickers.«Certo, ragazzo. Ma adesso sbrigati. Gettami giù una cor-

da che te lo mando su.»Il trattore continuò a costeggiare, gettando un fascio di

luce accecante sugli abissi spalancati.Poi il raggio colse un'altra luce in fondo al burrone, una

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massa accartocciata di rottami, una figura minuscola che sgambettava velocemente, strappando e sventrando il relitto.

Prontamente, Vickers girò il trattore, mettendolo in posi-zione. Uno dei robot afferrò l'estremità della grossa fune av-volta attorno al tamburo rotante situato sulla parte anteriore del veicolo. Dall'interno del trattore l'uomo abbassò un per-no, mettendo in movimento il tamburo.

Il robot avanzò velocemente, scavalcò il ciglio e si appese al cavo. Un altro robot superò il bordo del precipizio e, aggrappato alla fune, si calò dietro il primo.

«Sono riuscito a estrarre la prima scatola,» riferì la voce del Vecchio Cal. «Quei due robot sono appena arrivati. Mi saranno di grande aiuto.»

Passarono i minuti, minuti trascorsi col fiato sospeso, mi-nuti che sembrarono durare un'eternità.

Poi si rifece viva la voce del Vecchio Cal: «Dài, giovanot-to, tira. Ci sono le prime tre scatole.»

Avviato il tamburo, Vickers inserì la marcia indietro come ancoraggio, in modo che il trattore potesse tirare su il peso senza slittare. Il cavo si avvolse velocemente, portando in su-perficie tre scatole di metallo ben legate dalle funi e guidate da un robot.

Di nuovo giù, e poi su, con altre tre scatole. Poi altre tre. E infine le ultime tre. Dodici scatole di mercotite! Dodici sca-tole di vita per l'Alveare e per gli uomini che vi vivevano! Dodici scatole di speranza per il Sistema Solare!

Si tornò a sentire la voce del Vecchio Cal, questa volta più flebile, come se provenisse da molto lontano.

«Bene, ragazzo. Carica la roba e vai a casa sparato. Io sali-rò fra un po', ma non aspettarmi.»

Vickers avvertì una certa preoccupazione.«Senti, Cal, sei sicuro di star bene?»«Certo, va tutto bene, figliolo.» Una lunga pausa, poi:

«Stammi a sentire, ragazzo, c'è qualcosa che vorrei dirti...

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qualcosa di molto importante. Nascosta nell'Alveare c'è an-cora una mia bottiglia di ottimo Scotch.»

Seguì una pausa più lunga, e quando tornò a parlare la sua voce era poco più di un bisbiglio.

«Su in camera, vicino al capanno della radio. Non ci va mai nessuno. Un nascondiglio perfetto!»

«Cal!» gridò Vickers. «Cal, riesco a sentirti a malapena. Ehi, vecchio, cosa sta succedendo? Qual è il problema?»

Il bisbiglio, ancor più debole, era convulso, tremulo: «For-se avrai voglia di bere alla salute di qualcuno, o di qualcosa.»

«Cal!» gridò Vickers. «Cal, rispondimi!»Ma non ci fu risposta. Solo lo stridio del vento che attra-

versava i passi, il brontolio del tuono in lontananza, il pic-chiettio della pioggia contro le fiancate del trattore.

Spaventato, Vickers si chinò furiosamente sui comandi, girò il veicolo, rasentando il ciglio e perlustrando le pareti coi fari.

Infine vide quel che stava cercando. Un'ampia sporgenza che, degradando bruscamente, dal bordo del canyon arrivava fino in fondo al dirupo. Una sporgenza, però, che prima di raggiungere il fondo s'interrompeva, una sporgenza sospesa sul vuoto. E proprio sotto quell'estremità vuota, senza sboc-co, giaceva il cumulo dei rottami dell'Arca di Giove.

Laggiù c'era anche un altro cumulo di rottami... un cumulo di rottami tra i quali un uomo era vissuto abbastanza a lungo da portare a termine un progetto ben preciso. Un uomo che aveva scelto di correre un rischio. Sperando che il suo tratto-re riuscisse a reggere l'impatto almeno per alcuni minuti dopo il tuffo nel canyon. Confidando di non rimanere ucciso sul colpo.

Vickers maledisse se stesso a bassa voce. Sapeva benissi-mo quanto fosse ubriaco il Vecchio Cal. Ubriaco al punto da barcollare come un ciclone quando camminava, inoltre,

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avendo fatto parte di quel gruppetto di capostipiti che, all'ini-zio delle spedizioni planetarie, avevano dato il via all'esplo-razione dei pianeti, aveva trascorso la maggior parte della sua vita, sobrio o ubriaco, alla guida di quei trattori da perlu-strazione. Poteva anche barcollare quando camminava, ma la sua guida sarebbe stata più lineare di quella del più sobrio degli uomini.

Ed era ubriaco quel tanto che bastava a renderlo furioso al-l'allusione che potesse essere sbronzo, e quanto mai deciso a dimostrare il contrario. E, ovviamente, ubriaco al punto da perdere la capacità di giudizio. Solo un imbecille, vuoi che fosse un eroe, o un incallito ubriacone come Cal, avrebbe po-tuto anche solo per un attimo pensare che un trattore lanciato da quel dirupo, sotto la gravità di Giove, sarebbe rimasto in-tegro abbastanza a lungo. A rigor di logica il veicolo, andan-do a sbattere si sarebbe dovuto squarciare come un melone. Invece si era semplicemente staccato lo strato protettivo di quarzo, permettendo al metallo di resistere un po' più a lun-go, prima che l'idrogeno dell'atmosfera finisse di trasformar-lo in idruro di ferro, friabile come lo zucchero.

«Dannato di un Cal, solo un pazzo ubriacone poteva...»Dal bordo del canyon il vento si precipitò in fondo al bara-

tro, scagliando con un furioso ululato tonnellate di pioggia d'ammoniaca sul relitto. Il relitto dell'Arca di Giove non cambiò forma; era già completamente appiattito. Invece la forma del trattore, anch'esso laggiù, in fondo al burrone, subì un improvviso, ulteriore schiacciamento, diventando di pun-to in bianco, al chiarore dei fari di Vickers, di un bellissimo color azzurro cupo. L'ammoniaca aveva raggiunto lo strato in rame e lo stava sciogliendo.

Vickers si decise a tornare verso l'Alveare. «Faremo un brindisi,» borbottò, «Non sarà però un brindisi alla salute del mercotite. Sarà un brindisi alla salute di un addetto alle spe-dizioni, un miserabile addetto alle spedizioni, agli arresti sul-

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la Terra... perché possa andare all'inferno, subito e per sem-pre!»

CLIFFORD D. SIMAK

Clerical Error, di Clifford D. Simak, Copyright © 1940 by Street & Smith Publications, da Astounding Science Fiction. Traduzione di Leila Moruzzi.

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L’IGNOTO INTORNO A NOI

Una delle presenze più ricorrenti nella storia di Nova Sf* è stata quella di Clifford D. Simak, le cui opere brevi miglio-ri sono apparse sia nella prima che nella seconda serie, a cominciare dal mitico Orizzonte (Nova Sf* 10, prima serie) che presentammo già allora, quasi trent'anni or sono, come uno ei più struggenti e importanti manifesti di una concezio-ne neoumanistica della science fiction che negli anni succes-sivi è stata affrontata, anche sperimentalmente, da molti al-tri autori, senza però mai raggiungere l'intensità poetica dell'originale.

Già ai tempi della Libra, e ancor prima di Galassia, Si-mak era considerato dalla maggioranza del nostro gruppo di studiosi e critici il più importante scrittore apparso sullo scenario della fantascienza, per la profonda capacità inno-vativa (provate a rileggere Oltre l'invisibile, e diteci se non contiene in nuce quasi tutte le problematiche di Philip Dick e della successiva e recente ondata cyberpunk, pur mante-nendo una tensione morale e una coerenza ideologica che, purtroppo, nessuno degli emuli di Simak è ancora riuscito a raggiungere) per la bellezza di uno stile solo falsamente di-stratto e popolare, ma curato fin nei minimi dettagli, con una riscoperta alle radici del linguaggio delle campagne americane e un tentativo di conciliare progresso tecnologico e difesa delle radici contadine dell'uomo che, ci dispiace per quei critici che molto ostinatamente avversarono soprattutto negli anni '70 queste tesi, precorreva la situazione del terzo millennio assai più delle nevrosi urbane di autori ritenuti su-periori erroneamente al grande scrittore del Wisconsin.

L'attualità, la straordinaria modernità, la bellezza e la coerenza dell'intera opera simakiana, anche nei momenti minori, può essere apprezzata in pieno da una lettura dei racconti: come questo La ricerca di Foster Adams, nel quale

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si affronta uno dei grandi temi simakiani, il confronto tra il mondo materialista e la trascendenza.

In questo caso, il rapporto non e con il Bene - presente in una vena singolarmente più ottimistica nella parte finale della carriera dell'autore - ma con il Male, visto come asso-luto.

Già dai tempi di Ingegneri cosmici, unico tra decine e de-cine di grandi autori, Simak aveva esposto su carta le sue problematiche, i suoi grandi temi, quelli che avrebbero im-prontato la sua carriera.

Il racconto che state per leggere appartiene forse al più importante ai questi temi, e l'orrore che produce malgrado la quotidianità, la pacatezza con cui la storia viene esposta, riecheggia anche a distanza di anni nelle nostre menti.

Simak era un amico di Nova Sf*, alla quale aveva conces-so quasi tutte le sue opere maggiori. Non abbiamo avuto con lui la stessa corrispondenza assidua che ci legava ad altri grandi scrittori: i nostri collaboratori che ebbero occasione di parlargli e di visitarlo nella sua vecchia e grande casa, giurano che egli era esattamente ciò che appare dai suoi racconti. Un personaggio stupendo che non si dovrà mai di-menticare.

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LA RICERCA DI FOSTER ADAMS

Non si può negare che il passatempo di Foster Adams fos-se quantomeno singolare. Bisogna tener presente che Foster Adams era un tipo strano. Che poi Adams considerasse la sua ricerca un hobby, oppure una vera e propria occupazio-ne, questo nessuno potrà mai dirlo. Potrebbe esser stato un passatempo, o un’ossessione... o più semplicemente il cattivo uso di una mente brillante.

Come fosse arrivato a intraprendere la sua ricerca, quale profondo motivo l’avesse spinto a condurla a termine fino alla sua logica e mortale conclusione, be’, di questo non ho proprio idea. Anzi, pensandoci bene, son ben poche le cose che so di Foster Adams. Sono ben poche le cose che chiun-que abbia mai saputo di Foster Adams.

Non so dove fosse nato, né chi fossero i suoi genitori, né che ne fosse stato di loro, anche se ho sempre dato per scon-tato che fossero morti molti anni fa. Non so niente della sua educazione, tranne il fatto che dev’essere stata molto vasta. Non sono assolutamente a conoscenza di come, o quando, o perché sia entrato in possesso della fattoria del vecchio Smi-th. Né perché cercasse una risposta a una domanda verso la quale nessun uomo di questi giorni e di questa epoca avrebbe mostrato più che un fugace interesse, anche se c’è stato un tempo, non troppi secoli fa, in cui l’uomo ha meditato a lun-go su questo argomento.

Non c’è dubbio che fosse spinto da qualche profondo mo-

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tivo, riposto in qualche remoto angolino della sua mente. Si-curamente verso la fine, quando aveva motivo di credere che la tanto sospirata soluzione fosse a portata di mano, dev’es-sersi reso conto del pericolo di una conoscenza di tale porta-ta.

Forse Foster Adams si riteneva di una fibra più robusta di quanto in realtà non fosse, oppure può anche darsi che nel suo più approfondito giudizio, o perfino nelle sue più assurde fantasticherie, non sia mai arrivato a immaginare quale fosse realmente la risposta. E questo mi sembra davvero strano, vi-sto che la sua ricerca è stata supportata da anni e anni di stu-dio.

Ho sentito parlare per la prima volta di Foster Adams da un conoscente, nel dipartimento di storia della State Univer-sity.

«E Foster Adams il tuo uomo,» mi annunciò. «Adesso vive dalle tue parti. Probabilmente sono immagazzinate più banalità storiche nel suo cranio che in quello di qualunque altro essere vivente.»

Mi sembrava strano, e glielo dissi, che un professore di storia inglese non fosse in grado di parlarmi delle abitudini alimentari della classe media inglese del quindicesimo seco-lo, ma mi rispose scuotendo la testa.

«Potrei parlartene in via generale, ma senza addentrarmi nei particolari fino all’ultima briciola di pane d’orzo, come potrebbe fare Foster Adams.»

Quando gli chiesi chi fosse Adams, non fu in grado di ri-spondermi. Non aveva rapporti con nessuna università, non aveva mai pubblicato niente, e non era un’autorità, non un’autorità riconosciuta, comunque. Sapeva però cos’aveva-no indossato e mangiato gli egiziani fino alla svolta dell’ulti-mo secolo... che utensili avevano usato, cosa coltivavano, come viaggiavano... tutti quei piccoli irrilevanti dettagli che hanno costituito la vita quotidiana attraverso i secoli.

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«E un hobby,» affermò il mio conoscente. E quella fu la spiegazione più plausibile che mi sia mai stata fornita.

La fattoria Smith è un podere desolato, battuto dalle in-temperie, situato su un crinale roccioso sfregiato dal vento. Non ha né grazia, né carattere, né dignità. Nonostante gli av-venimenti di una notte di fine novembre, nemmeno ora rie-sce a raggiungere nel ricordo una dimensione di terrore, o la tetra grandiosità tipica degli avvenimenti oscuri.

Ricordo ancora la prima volta che l’ho vista e la depressio-ne e la malinconia che mi hanno afferrato mentre arrancavo sulla strada rocciosa, aggirando la collina per raggiungere il crinale.

La casa era grigia; non il grigiore del legno vecchio, ma il grigio spento, malsano, del legno che ha conosciuto una mano di vernice, ma che da allora, tanto tempo fa, si è sfal-data e scrostata, scomparendo del tutto sotto le sferzate del vento e delle intemperie. Le travi del tetto del fienile erano incurvate al centro, tale e quale un cavallo dalla schiena trop-po insellata, mentre un’altra costruzione, che poteva essere un porcile, era completamente crollata su se stessa. Veden-dola per la prima volta, ebbi la netta sensazione che un bel giorno, essendosi stancata, avesse semplicemente deciso di mollare.

Una volta, sul retro della casa c’era stato un ampio frutte-to, ma ormai non erano rimasti che gli scheletri di quegli al-beri, strane entità nodose ferme sotto il sole come dei vecchi gibbosi. Un mulino a vento che si trastullava con una torre deformata se ne stava con la testa china sul frutteto morente, mentre il vento che non cessava mai di soffiare sul crinale, sbatteva avanti e indietro le grandi pale metalliche, in una fu-tile e snervante malinconia.

Quando fermai l'auto mi accorsi che i danni dell’abbando-no avevano raggiunto anche i più piccoli particolari. Aiuole che si battevano contro erbacce abusive, mentre le porte pen-

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denti che impedivano l'accesso alla scala della cantina erano in parte marce e in parte crollate.

A una finestra era appesa una sola persiana, a penzoloni, mentre a un’altra mancavano entrambe le imposte. E le vidi per terra, nel punto dov’erano cadute, ricoperte di erbacce cresciute tra le fessure. La veranda stava cedendo, coi mon-tanti pericolosamente inclinati, e il pavimento scricchiolava e si spostava sotto i miei piedi mentre mi avvicinavo alla por-ta.

In risposta alla mia bussata venne ad aprirmi un vecchio con una livrea talmente consunta che il nero stava ormai di-ventando grigio; in vita mia non ho mai visto un'incongruen-za simile, perché quella era una cadente fattoria del Wiscon-sin, e l’uomo fermo davanti alla porta era uscito direttamente dalla fantasia di Dickens.

Quando gli chiesi di Adams, aprì un po’ di più la porta in-vitandomi a entrare. La sua voce stridula, riecheggiava tra i vecchi, alti soffitti delle stanze.

La casa era quasi spoglia di mobilio. In cucina c’erano una stufa a legna, qualche vecchia sedia e un tavolo coperto da un pezzo di tela cerata unta e bisunta. Contro le pareti in le-gno di quella che era stata la sala da pranzo, erano allineate delle casse da imballaggio, mentre qua e là erano accatastate, apparentemente a casaccio, enormi pile di libri. Le finestre guardavano il mondo a occhi spalancati, occhi vuoti, senza una tenda degna di questo nome.

Le veneziane verdi del salotto sul davanti della casa erano abbassate e la stanza era immersa nel buio, un buio ancor più intenso della luce crepuscolare. Foster Adams sollevò a fati-ca il corpo voluminoso da una poltrona in cuoio situata in un angolo e attraversò la sala per stringermi la mano. Una stret-ta fredda e fiacca, indifferente, per non dire seccata.

«Non sono molti a trovare la strada per arrivare fino qui,» dichiarò. «Mi fa piacere che sia venuto.»

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Ma sono sicuro che non lo era. Sono sicuro che avrebbe preferito non essere infastidito dalla mia visita.

Restammo seduti nella semioscurità dietro le veneziane abbassate, parlando sottovoce, perché la sala stessa ci bisbi-gliava di non parlare ad alta voce. Se non altro, Foster Adams aveva maniere perfette. Ordinato, preciso, forse addi-rittura un po’ troppo pignolo... e inquietante.

Era strano, pensai, udire contro le facciate e agli angoli della casa, il sommesso, alto, freddo e ostile sibilo del vento in un mezzogiorno d’agosto. Perché non c’era il minimo se-gno d'amicizia, né nella collina, né nella casa. Qualsiasi calo-re avesse potuto esserci, era stato portato via con la rovina della proprietà e l’indifferente abbandono al vento, alla piog-gia, e al sole di quelle costruzioni.

Sì, rispose Adams, poteva fornirmi le informazioni che mi interessavano. E me le fornì, senza ricorrere a libri o appunti, come se le attingesse da un’esperienza personale, come se parlasse di un periodo attuale, come se lui stesso fosse vissu-to nell’Inghilterra del quindicesimo secolo.

«Simili particolari,» dichiarò, «Mi hanno sempre interes-sato. Che genere di sottoveste indossavano le donne, o quali tipi di erbe finivano nella pentola. E ancor di più...» abbassò leggermente la voce... «Ancor di più il modo di morire degli uomini.»

Perfettamente immobile sulla sua poltrona, sembrava ascoltasse qualcosa che sapeva essere lì... forse i ratti in can-tina, o i grilli tra le tende.

«Gli uomini,» affermò, «Sono morti in molte maniere di-verse.» E lo disse come se fosse stato il primo uomo ad aver-lo pensato, o dichiarato.

Nel silenzio udii il passo pesante del vecchio domestico che camminava nella sala da pranzo, subito fuori dalla porta, mentre dal frutteto giungeva sommesso il colpo sordo e me-tallico della pala del mulino sferzata dal vento.

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Foster Adams si alzò di scatto dalla poltrona. «Mi ha fatto piacere incontrarla,» esclamò. «Spero voglia tornare.»

E andò esattamente così. Ero stato letteralmente cacciato fuori, invitato ad andarmene come uno scolaro che si fosse trattenuto troppo, abusando dell’ospitalità.

Ma non riuscivo a togliermi di mente quell'uomo. C’era un fascino in lui che mi spronava a tornare nella fattoria vecchia e grigia, in cima a quel crinale lugubremente ostile. Come chi, nello zoo, torna regolarmente davanti alla stessa gabbia e resta lì a fissarla, tremando alla vista delle belve che vi sono rinchiuse.

Servendomi con buon profitto delle informazioni di Adams, terminai il mio libro e lo spedii all’editore.

Finché un giorno, senza ben sapere cosa stavo facendo, e senza voler ammettere nemmeno per un attimo con me stes-so che lo stavo facendo, mi ritrovai ancora una volta tra il groviglio delle colline del basso Wisconsin.

La vecchia fattoria appariva esattamente come la volta precedente.

Mi dissi che probabilmente Adams si era trasferito lì poco prima della mia visita e che a tempo debito avrebbe sistema-to il posto. Una mano di vernice avrebbe indubbiamente gio-vato. Un camino avrebbe fatto miracoli per rallegrare un po’ la casa. Dei fiori, un giardino roccioso, e qualche terrazza avrebbero conferito ai suoi tratti desolati una sembianza più aggraziata, mentre un pioppo o due agli angoli avrebbero spezzato quella cupa monotonia che si stagliava contro il cie-lo.

Ma Adams non aveva fatto niente. La casa era esattamente come me la ricordavo.

Disse che era contento di vedermi, ma la sua stretta era an-cora fiacca, mentre era più cerimonioso e imperturbabile che mai.

Si sedette nella sua comoda poltrona di cuoio e capii che

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se davvero era contento di vedermi, lo era solo perché in tal modo aveva l’opportunità di udire la propria voce. Infatti, non era a me che parlava, anzi, non mi ascoltava nemmeno. Era come se stesse parlando tra sé e di quando in quando co-glievo addirittura un tono querulo nella sua voce, come se fosse impegnato in una discussione con se stesso.

«C’è una vena di crudeltà,» affermò, «Che attraversa la razza umana. La trovi dovunque guardi, su ogni pagina di storia documentata. L’uomo non si accontenta di infliggere la morte, deve infliggerla impreziosendola con numerosi, do-lorosi orpelli.

«Un bambino strappa le ali alle mosche e attacca lattine alla coda di un cane. Gli Assiri hanno scorticato migliaia di persone urlanti, mentre erano ancora in vita.»

C’era una strana sensazione di muffa nella casa... sì, pro-prio una sensazione, non un odore. La sensazione di un pe-riodo polveroso traboccato da un bel pezzo dal bicchiere.

«Gli Aztechi,» continuò Foster Adams, «Tranciavano il cuore alle vittime dei loro sacrifici con un coltello di pietra smussato. I Sassoni gettavano le persone nelle fosse dei ser-penti, oppure le scorticavano vive, e quando saltava via la pelle, facevano penetrare del sale, strofinando, nella carne fremente.»

Il suo discorso mi faceva venire la nausea... non le cose che raccontava, ma il modo in cui le raccontava, il discorso lineare e professionale di chi conosce a fondo la propria ma-teria e la esamina con obiettività, come qualcosa da provare e studiare e catalogare, quasi come un mercante intento a fat-turare la propria merce.

Perché per lui, solo ora me ne rendo conto, le persone scorticate, quelle gettate nelle fosse dei serpenti e quelle ap-pese a delle croci lungo le strade di Roma non erano carne e sangue, ma semplici fatti, che un giorno o l’altro sarebbero potuti rientrare in un disegno cercato ostinatamente dal suo

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cervello.Non che fosse insensibile. Il suo interesse era reale, inten-

so e personale... che poi il suo interesse fosse diventato forte-mente personale nelle sue ultime ore di vita e di sanità men-tale, be’, su questo non c’è il minimo dubbio.

Doveva essersi accorto che il suo monologo m’infastidiva, perché di punto in bianco cambiò argomento, e parlammo di altre cose, della campagna, e della vista dalla collina, del tempo clemente, visto che eravamo ormai a fine ottobre; del-l'irritante curiosità della gente del posto sui motivi che l’ave-vano spinto a vivere nella fattoria e su quali potessero essere le sue occupazioni. Mi resi conto che il loro comportamento lo disturbava.

Passò più di un anno prima che rivedessi Foster Adams e successe per puro caso.

Tornando a casa in macchina da una breve visita a Chica-go, una violenta bufera autunnale mi sorprese in mezzo alla strada, proprio sul calar della notte. La pioggia si trasformò in ghiaccio, e il ghiaccio in neve. Visto che la bufera conti-nuava a peggiorare e che la mia macchina era costretta lette-ralmente a nuotare.

mi resi conto di non poter andare ulteriormente avanti e di dover cercare al più presto un riparo. Oltre a quello, mi resi conto anche di un altro particolare, di trovarmi in quel preci-so momento a non più di tre chilometri dalla fattoria del vec-chio Smith.

Trovai la stradina laterale che usciva dalla superstrada e mezz’ora dopo arrivai ai piedi della collina che portava al crinale sovrastante. Intuendo che l’auto non aveva nessuna possibilità di salire il pendio, uscii dalla macchina e m’in-camminai a piedi, arrancando nella neve bagnata e pesante, guidato da un debole raggio di luce proveniente da una delle finestre della fattoria.

Se di giorno il vento della collina era appena rabbioso, un

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vento sparuto, che ringhiava tra i denti, adesso, mentre attra-versava il crinale per scendere tuonando nella valle, era per-vaso da un tremendo furore.

Fermandomi per riprendere fiato, restai ad ascoltarlo, e udii l’ululato di una muta di cani da caccia diabolici e le gri-da delle vittime braccate e attaccate, i gemiti, fiaccamente farfugliati nel bagnato, di una creatura che, senza più via di scampo, si dibatteva in una gola profonda.

Affrettai il passo, guidato da un insensato terrore, e soltan-to quando ormai mi trovavo nei pressi della casa mi resi con-to che stavo correndo, spinto dalla miriade di orrori partoriti dalla mia immaginazione, che si accalcavano, inseguendomi, su per il pendio.

Raggiunta la veranda, mi appoggiai a uno dei pali inclinati per riprendere fiato e respingere l’illogica paura che avevo accumulato nel buio. Ero tornato quasi del tutto me stesso quando bussai alla porta... e dovetti farlo una seconda e una terza volta, perché i colpi delle mie nocche venivano smorza-ti dall’ululato della tempesta.

Quando il vecchio domestico mi fece entrare, ebbi l’im-pressione che si muovesse più lentamente, strascicando i pie-di un po’ più di quanto ricordassi. E mi sembrò anche che biascicasse ancor più le parole, come se qualcuno gli strin-gesse una mano sulla gola.

Anche Adams era cambiato. Era ancora impettito e forma-le, quasi distaccato, ma non era più ordinato. Non si era rasa-to da un giorno o due, aveva l’aria stanca e intorno a lui aleg-giava un leggero nervosismo che mi mise in ansia.

Non sembrò sorpreso di vedermi e quando spiegai che era stato il temporale a spingermi a cercare un riparo, liquidò l’argomento limitandosi a convenire con me che era davvero una nottataccia. Come se fossi stato un suo vicino di casa, venuto a fargli una visitina per un’ora o due.

Non accennò a offrirmi qualcosa da mangiare, così come

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non lasciò intendere di sospettare nemmeno lontanamente che potessi sperare di trascorrere la notte lì.

Con un certo imbarazzo, o meglio, con un certo imbarazzo da parte mia, parlammo di cose irrilevanti. Adams sembrava perfettamente a suo agio, anche se il volto e le mani palesa-vano un certo nervosismo.

In breve la conversazione virò sui suoi studi, e dalle sue parole capii che aveva mollato ogni altra fase della ricerca per concentrarsi sulle punizioni e le torture inflitte dall’uomo ai suoi simili, dall’inizio della storia conosciuta.

Curvo nella sua poltrona, gli occhi fissi sulla parete, rievo-cava l’atroce sadismo che aveva lasciato una scia di sangue e di dolore attraverso i secoli, legando il nome del vecchio re egiziano il cui titolo più glorioso era stato lo Squarciatore di Teste, agli uomini le cui pistole fumanti avevano riempito i sotterranei russi di cataste di morti alte fino al ginocchio.

Sapeva nei minimi dettagli come degli esseri umani fosse-ro stati legati a un palo a beneficio delle formiche, come altri fossero stati sepolti fino al collo nella sabbia del deserto, e mi assicurò con assoluta serietà che gli indiani d’America erano stati dei veri maestri nell’arte di bruciare le persone, e che gli “investigatori” dell’inquisizione, perlomeno a questo riguardo, non erano stati che dei pasticcioni neanche tanto efficienti.

Parlò di ruote della tortura, di impiccagioni e di squarta-menti, di ganci che sventravano le interiora umane... e dietro le sue erudite parole, dure e fredde, sentivo l’odore del fumo e del sangue, e udivo le grida, e il cigolio delle corde, e il ru-more delle catene.

Ma di questo, ne sono sicuro, non sapeva ancora niente.Poi arrivò: il punto cruciale al quale aveva voluto andare a

parare, il problema scottante che aveva continuato a scorrer-gli nel cervello come argento vivo, e che non aspettava che di essere afferrato e risolto... il risultato finale di tutte le sue

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cognizioni.«Ma nessuna di queste forme di supplizio raggiunge la

perfezione,» affermò. «La tortura perfetta non esiste, perché la vittima finisce sempre per morire o per cedere, con la con-seguente inevitabile interruzione della tortura. Non c’è modo di poter valutare la resistenza di un uomo. A volte si esagera, e la vittima muore, altre volte le consenti di evitare il totale rigore dell’esecuzione per timore che abbia raggiunto il limi-te della sopportazione, limite che invece non aveva raggiun-to.»

«Una tortura perfetta!» dichiarai, e so che le mie parole devono essergli suonate allo stesso tempo come una doman-da e un’esclamazione. Perché ancora non riuscivo a capire. Non riuscivo a capire perché mai una persona dovesse pro-vare interesse, se pur da un punto di vista accademico, per una tortura perfetta. Un simile interesse mi sembrava rasen-tare la pazzia.

Era fantastico... starmene seduto lì, in quella fredda fatto-ria del Wisconsin, con la prima tormenta invernale che infu-riava contro le finestre, ad ascoltare uno che parlava in asso-luta tranquillità e con estrema erudizione, dei problemi tecni-ci di un’efficiente tortura, passata e presente.

«Forse all’inferno,» aggiunse Foster Adams, «Ma di sicu-ro non sulla terra. Perché gli esseri umani sono grossolani, e le cose che fanno sono grossolane.»

«L’inferno?» chiesi. «Lei crede all’inferno? All’inferno inteso in senso letterale?»

Alle mie parole scoppiò a ridere, e dalla sua risata non riu-scii a capire se ci credesse oppure no.

Guardai l’orologio, e segnava quasi la mezzanotte. «Be’, sarà meglio che vada,» dichiarai, «Mi sembra che il tempora-le si sia un po' calmato.»

Ma non feci cenno di alzarmi dalla poltrona, perché, pen-sai, con un’allusione del genere mi sarei sicuramente guada-

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gnato un invito per la notte.Adams invece si limitò a rispondere, «Mi dispiace che se

ne debba andare. Speravo potesse trattenersi per un’altra ora.»

Mentre mi strascinavo giù per la collina per raggiungere l’auto, ero talmente arrabbiato da non udire per un po’ il ru-more di passi alle mie spalle. Sono sicuro che dovevano avermi seguito fin dalla casa, ma non li avevo sentiti.

Il temporale si era calmato e il vento stava calando, e qua e là, fra le nuvole che correvano via, si intravedeva il lucci-chio delle stelle.

Quando udii il rumore dei passi ero già a metà strada giù per la collina, anche se, ripensandoci bene, sono sicuro di averli sentiti un po’ prima di averne piena consapevolezza. E nell’udirli, mi resi conto che non erano passi umani, ma di un qualche animale, perché riuscivo a distinguere il ticchet-tio degli zoccoli e lo scricchiolio dei garretti mentre scivola-vano sul ghiaccio che si era formato sotto la neve.

Mi fermai e mi voltai di scatto, ma nella strada dietro di me non c’era proprio nessuno, anche se il rumore di passi continuava ad avanzare. Ma una volta arrivati abbastanza vi-cino, si fermarono ad aspettare, per ricominciare subito dopo, non appena mi rimisi in cammino, a inseguirmi lungo la discesa, lasciando che fossi io a fare l’andatura, mantenen-do il contatto, appena fuori vista.

Una mucca, pensai, anche se mi sembrava strano, perché ero sicuro che Adams non aveva nessuna mucca, e di regola le mucche non gironzolano di notte lungo una strada di colli-na, fra l’altro mentre imperversa un temporale. E anche i col-pi degli zoccoli non erano quelli di una mucca.

Mi fermai parecchie volte e una volta gridai qualcosa alla creatura che m’inseguiva, finché dopo la terza o quarta volta, mi accorsi che aveva smesso di seguirmi.

In un modo o nell’altro, riuscii a girare l’auto. Prima che

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raggiungessi la superstrada, la macchina s’impantanò tre vol-te, ma vuoi per un colpo di fortuna, vuoi per qualche bestem-mia, riuscii di nuovo a mettermi in movimento. La superstra-da era decisamente più agibile, e poco dopo l’alba arrivai a casa.

Tre giorni dopo ricevetti da Adams una lettera che era una mezza profferta di scuse. Aveva lavorato troppo, spiegò, e non era del tutto se stesso. Sperava potessi chiudere un oc-chio su qualsiasi forma di eccentricità. Ma non fece nessun accenno a una eventuale mancanza d’ospitalità. Presumo che anche quella fosse da annoverare tra le “eccentricità.”

Passò quasi un anno prima che lo rivedessi. Per vie traver-se, venni a sapere che il suo vecchio domestico era morto e che adesso viveva da solo. Mi capitò spesso di pensare a lui, avendo la sensazione che si sentisse solo, visto che il dome-stico a quanto pareva aveva costituito il suo unico contatto con l’umanità. Ma ero ancora un po’ contrariato dall’inci-dente della tempesta di neve e non feci niente per andarlo a trovare.

Ricevetti poi una seconda lettera; a dire il vero non era niente più di un appunto. Dichiarava di avere qualcosa di in-teressante da mostrarmi e che gli avrebbe fatto piacere se mi fossi fermato da lui la prima volta che mi fosse capitato di passare da quelle parti. Non faceva parola della morte del domestico, niente che indicasse che si sentiva solo per la mancanza di una compagnia umana, nessun accenno al fatto che in un certo senso la sua vita non era più la stessa di pri-ma. Conciso, pratico, l’appunto si limitava a focalizzare il punto essenziale, e nient’altro.

Feci trascorrere il giusto periodo di tempo, perché su due punti ero ben deciso... deciso a dimostrare, per pura soddi-sfazione personale, che Adams non mi teneva in pugno, e de-ciso a dimostrare che non sarei accorso precipitosamente ai suoi inviti. Visto il misero trattamento che mi aveva riservato

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quella notte di novembre, avvertivo la necessità di ostentare una certa freddezza nei suoi confronti.

Ma alla fine andai, e la casa era la stessa di prima, anche se in effetti mi sembrava un po' più malconcia; la porta della cantina, ormai completamente marcia, era crollata, mentre dalle finestre si erano staccate un’altra persiana o due.

Adams mi fece entrare e davanti al suo cambiamento ri-masi sconvolto. Non si era più rasato, e la barba presentava delle chiazze grigie. I capelli gli ricadevano sul colletto e le mani erano sporche, con spesse strisce di nero sotto le un-ghie spezzate. Il colletto e i polsini erano sfilacciati e la giac-ca frusta. Gocce secche d’uovo colate giù dal mento, erano disseminate su tutta la camicia. Mentre camminava lungo il corridoio, le pantofole di panno consumate strisciavano per terra con un fruscio.

Salutandomi con lo stesso distacco di sempre, mi accom-pagnò nel salotto che sembrava ancor più buio e ammuffito di prima. Anche se lo sguardo era sveglio e la voce più ferma che mai, c’era una certa goffaggine in lui, una leggera insicu-rezza, sia nel modo di parlare che nel comportamento.

Mi fece i complimenti per il mio romanzo, dicendomi che gli aveva fatto piacere constatare che avevo fatto buon uso delle informazioni che era riuscito a fornirmi. Ma dal modo in cui lo disse, ero sicuro che non aveva letto il libro.

«Mi chiedevo,» dichiarò, «Se ora non le dispiacerebbe dare un’occhiata a qualcosa che ho scritto.»

Non potevo far altro che accordargli la mia disponibilità.Strascicando i piedi, raggiunse uno scrittoio vecchio e ro-

vinato con alzata avvolgibile, dal quale estrasse un pesante manoscritto, legato con uno spago. «I fatti ci sono,» spiegò, «Ma purtroppo sono piuttosto scarso come scrittore. Mi chie-devo se lei...»

Aspettò che fossi io a dirlo, e lo feci. «Vi darò un’occhiata e se in qualche modo potrò esserle d’aiuto sarò felice di far-

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lo.»Ero sul punto di chiedergli di che argomento trattasse,

quando mi chiese se avevo saputo del suo domestico. Risposi che avevo sentito dire che il vecchio era morto.

«Tutto qui?» mi chiese.«Tutto qui,» risposi.Adams sprofondò pesantemente nella poltrona. «E stato

trovato morto,» spiegò, «E da quanto ho potuto capire, qual-che terribile diceria ha fatto il giro del vicinato.»

Stavo per rispondergli, quando un rumore mi lasciò pietri-ficato sulla poltrona. Qualcosa stava fiutando alla porta che si apriva sulla veranda.

Adams non doveva averlo sentito... o non l’aveva sentito, oppure lo aveva già sentito talmente spesso in precedenza da non farci più caso; continuò infatti a parlare. «Lo hanno tro-vato a nord, nel terreno da pascolo in fondo al crinale. E sta-to brutalmente mutilato.»

«Mutilato!» bisbigliai, e non avrei potuto aggiungere una sola parola, né pronunciarla ad alta voce nemmeno se mi avessero pagato per farlo; la creatura infatti era tornata alla porta e stava fiutando e sbuffando. Mi aspettavo di sentire da un momento all’altro un rumore di artigli sul legno della por-ta.

«Qualche animale deve averlo raggiunto prima che lo tro-vassero,» commentò Adams.

Rimasi seduto là, con la pelle d’oca, ad ascoltare quell'en-tità intenta a fiutare le fessure della porta, su e giù, su e giù. Una volta o due emise anche un uggiolio, ma Adams seguitò a non sentirlo, o a far finta di non sentirlo, visto che continuò a parlare, illuminandomi sul manoscritto.

«Non è finito,» spiegò. «Manca il capitolo finale, ma pre-sto avrò le informazioni necessarie per poterlo ultimare. Mi basta soltanto un altro po’ di ricerca, soltanto un altro po’. Ci sono molto, molto vicino.»

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In quel momento lo notai per la prima volta, anche se do-vevo averlo osservato fin da quando ero entrato nella stanza... l’oggetto sul muro, appeso nel modo sbagliato.

Adesso lo vidi per la prima volta con chiarezza, ricono-scendolo per ciò che era... un crocifisso capovolto... capovol-to e inchiodato al muro.

Mi alzai con passo malfermo e, stringendo il manoscritto sotto il braccio, farfugliai che dovevo andarmene, che avevo dimenticato qualcosa e dovevo partire immediatamente.

Quando uscii dalla stanza, udii alle mie spalle l’animale uggiolare alla porta, gridando il suo gemito d’impazienza, mentre gli artigli raspavano sul legno, cercando di entrare.

Avevo la pelle d’oca e sono quasi certo che devo essermi messo a correre. Perfino adesso, ripensandoci, non sento di dovermi scusare. Perché i rumori che avevo udito alla porta erano quelli di una paura sepolta nel profondo dell’animo dell’uomo, una paura risalente ai giorni oscuri in cui l’uomo se ne stava rannicchiato in una caverna ad ascoltare il suono di zampe felpate, il respiro e i gemiti di esseri perennemente in agguato, là fuori, nell’oscurità.

Raggiunta l'auto, restai fermo con una mano sullo sportel-lo, pronto a entrare. Adesso che avevo raggiunto la sicurez-za, avevo all'improvviso ritrovato il coraggio. Mi rendevo conto che la casa non era altro che una vecchia fattoria, e che non c’era assolutamente niente di cui aver paura, né dentro né fuori.

Aprii lo sportello e raggiunto il posto di guida posai il pie-de sulla tavoletta dell’acceleratore. Nel farlo, abbassai lo sguardo, e fu allora che notai le impronte. Impronte come quelle di una mucca, ma più piccole, forse più simili a quelle di una capra. Mi soffermai per un po’ a domandarmi se Adams tenesse delle capre e capii istintivamente che non era così. Era tuttavia perfettamente plausibile che qualche ani-male delle fattorie confinanti si fosse aperto un varco nel re-

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cinto e stesse girovagando da quelle parti.Mi accorsi allora che sul terreno spoglio, c’era una fitta

trama di impronte di zoccoli e mi tornò in mente la notte del temporale, quando quella che mi era parsa una creatura con gli zoccoli mi aveva inseguito giù per la strada.

Entrai in macchina e chiusi lo sportello con un colpo sec-co, e come se il rumore dello sportello fosse stato un segnale, dall'angolo della casa sbucò un cane. Era grosso, nero e lu-cente, e mentre avanzava riuscivo a distinguere i muscoli che si contraevano e si rilassavano sotto la pelle lucida. Cammi-nava dinoccolato, emanando una sensazione di forza e di agi-lità.

Voltò la testa verso di me e notai i suoi occhi. Non li di-menticherò... mai. Erano pervasi da un’agghiacciante malva-gità, da un totale cinismo, e non erano gli occhi di un cane.

Misi in moto e pigiai il piede sulla tavoletta dell'accelera-tore. Dopo quindici chilometri smisi finalmente di tremare.

Arrivato a casa, stappai una bottiglia e mi misi a sedere in veranda, bevendo alla pallida luce di fine autunno, finalmen-te calmo e da solo, cosa che non avevo mai fatto prima, ma che da quel giorno cominciai a fare con una certa frequenza.

Quando calò il buio, rientrai in casa ed esaminai il mano-scritto di Adams: esattamente quello che mi ero aspettato. Era la storia della tortura e del castigo, le innumerevoli atte-stazioni storiche del comportamento disumano dell’uomo verso i suoi simili. C’erano schizzi e disegni e dettagliate spiegazioni sulla costruzione e il funzionamento di macchine infernali scaturite dal cervello umano. L’evoluzione della tortura veniva descritta con accurata precisione e ogni meto-do esaminato nelle sue molteplici varianti, con scrupolose annotazioni anche sui più piccoli e banali dettagli riguardanti la tecnica di esecuzione.

Ed erano elencati dei sistemi di tortura pochissimo cono-sciuti, ai quali era stato fatto raramente accenno, e decisa-

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mente poco adatti ad essere stampati.Scorrendo velocemente le pagine, arrivai al Capitolo XL-

VIII e mi accorsi che il libro finiva lì; sulla pagina c’era sol-tanto l’inizio di un paragrafo.

Ma la massima tortura, la tortura che continua ininter-rottamente, in eterno, perennemente a un passo dalla paz-zia e dalla morte, senza mai raggiungerle, si trova soltanto negli abissi dell’inferno, e finora nessun essere mortale, prima della sua morte, e mai venuto a conoscenza dei tor-menti dell’Inferno...

Posai il manoscritto sul tavolo e allungai la mano per af-ferrare la bottiglia. Ma era vuota, e la scaraventai dalla parte opposta della stanza; andò a urtare contro il camino, spac-candosi in mille pezzi che si levarono in alto, sfavillando alla luce della lampada. Rimasi accovacciato nella poltrona, con la sensazione delle mani pelose dell'Inferno che si protende-vano per afferrarmi, senza però riuscirci, e col cuore in gola avvertii il sudore che mi colava lungo tutto il corpo.

Perché Adams sapeva... o sapeva, o intendeva scoprirlo. Aveva detto che gli bastava solo un po’ di ricerca per ultima-re il libro, solo qualche altra informazione che doveva ancora ottenere. E mi tornarono in mente le impronte nel cortile, e il cane con occhi che non erano gli occhi di un cane, e la crea-tura, probabilmente il cane, che aveva continuato a raspare alla porta durante la mia visita.

Restai seduto a lungo, ma alla fine mi decisi ad alzarmi dalla poltrona per andare alla scrivania. Da un cassetto estrassi una pistola rimasta lì da chissà quanto tempo, e ne esaminai il meccanismo, notando che era carica. Presi poi fuori la macchina e guidando come un pazzo mi avventurai nella notte per la strada che portava al rifugio di un pazzo.

Quando raggiunsi la fattoria Smith, un gruppo di nuvole,

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nella loro rapida corsa, coprivano la luna morente sospesa sui crinali occidentali, e anche la casa si ergeva come una creatura spettrale nel silenzio che avvolge le colline prima dello spuntar dell’alba.

Regnava la quiete più assoluta e non c’era neanche una fi-nestra accesa. Il vento, gelido e gagliardo, attraversava la valle fluviale e i campi erano ricoperti di brina. I pali della veranda scricchiolarono quando li scavalcai per andare a bussare alla porta... ma non ottenni nessuna risposta. Tornai a bussare, poi di nuovo ancora, ma sempre senza risposta, perciò girai il pomello e la porta si aprì lentamente.

Era un gemito troppo sommesso e debole per poterlo udire con la porta chiusa, ma quando entrai nell’ingresso che con-duceva in cucina era là, e mi stava aspettando.

Più che un gemito, sembrava un miagolio, come se prove-nisse dalla lingua di una creatura priva di cervello. Era come se solo poco tempo prima fosse stato molto più forte, ma ora una vera e propria spossatezza fisica l’aveva reso molto più fievole.

Trovai la pistola in tasca, e nell’estrarla mi tremava la mano. Volevo scappar via e lo volevo veramente tanto. Ma non potevo farlo, perché dovevo sapere. Dovevo sapere che qualunque cosa fosse non era così brutta come me l’ero im-maginata.

Entrai furtivamente in cucina, e da lì in camera da pranzo, e il gemito si fece più basso, poi si alzò in un piagnucolio, crescendo ancora in quello che sarebbe potuto diventare un grido se la creatura da cui proveniva avesse avuto la forza di gridare.

In salotto notai qualcosa per terra e mi avvicinai guardin-go. L’essere sul pavimento si contorceva, si rannicchiava e si lamentava e quando si accorse della mia presenza si trascinò verso di me e anche se non disse una parola, capii che mi sta-va implorando, mi supplicava con dei suoni così pietosi da

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straziare il cuore.Indietreggiai contro il muro, cercando di allontanarmi, ma

mi raggiunse e sollevò gli artigli ricurvi, gettandomi le brac-cia intorno alle ginocchia. Piegò la testa all’indietro per guar-darmi, e in quel momento vidi il volto di Foster Adams. La stanza era buia, perché, come sempre, le veneziane erano completamente abbassate, e il primo pallido grigiore dell’al-ba stava cominciando a tinteggiare le finestre della camera da pranzo.

Non riuscivo a distinguere bene il suo volto e di questo sarò grato in eterno. Perché gli occhi erano più bianchi e spa-lancati di quanto ricordassi e le labbra erano tirate, agghiac-ciate in una smorfia di paura. Sulla barba c’erano chiazze di bava.

«Adams,» gridai. «Adams, cos’è successo?»Ma non avevo bisogno di chiederlo. Lo sapevo già. Non

ciò che Adams sapeva... non i fatti sconvolgenti, diabolica-mente crudi che Adams sapeva... ma soltanto che aveva sco-perto ciò che cercava. Dal crocifisso capovolto, dagli artigli che raspavano alla porta, dalle impronte di capra nel cortile aveva trovato la risposta.

Né mi rispose. Le braccia scivolarono via dalle mie gambe e cadde a terra, e vi rimase, completamente inerte, e capii che ormai Foster Adams non avrebbe più potuto fornirmi nessuna risposta.

Poi, per la prima volta, mi accorsi della presenza di qual-cun altro nella stanza, una massa scura perfettamente immo-bile, immersa nel buio più profondo.

Rimasi per un po’ accanto al corpo abbandonato di Foster Adams, guardando verso l’altro intruso, senza riuscire a di-stinguerlo troppo bene, visto che era ancora piuttosto buio. E lui contraccambiò il mio sguardo. Sempre in silenzio, rimisi in tasca la pistola, mi voltai, ed uscii.

Udii alle mie spalle l’altro che camminava sul pavimento.

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Un ticchettio di zoccoli e lo scricchiolio dei garretti, e dal rit-mo dei suoi passi capii che non camminava su quattro, ma su due zampe.

CLIFFORD D. SIMAK

The Quesling of Foster Adams, di Clifford Simak, Co-pyright © 1953 by King Size Publications, Inc., da Fanta-stic Universe. Traduzione di Leila Moruzzi.

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IMMORTALE, CHE NOIA!

Il tema dell'immortalità e uno degli eterni “must” dell’Uo-mo che la science fiction ha ereditato dalla grande tradizio-ne letteraria, e ha approfondito con ogni tipo di variante, soprattutto dal punto di vista etico e filosofico.

Ci sono, nella nostra letteratura, immortali felici di esser-lo, o rassegnati a esserlo, o disperati nello scoprire di esser-lo. C’è l’idea dello scorrere del tempo, della solitudine nella quale l’immortale si ritrova dopo che gli amici e i coetanei sono scomparsi, la fragilità di ogni forma di affetto o di amore, ai fronte al destino che isola l’immortale nella sua condizione.

Clifford D. Simak ha spesso affrontato, con straordinaria profondità, il tema della longevità in generale, e dell'immor-talità in particolare (lo splendido romanzo Why call them back from Heaven si basa sulla promessa della vita eterna, compiuta da una società truffaldino, promessa che condan-na tutti i viventi a un’esistenza stentata per accumulare beni e ricchezze in vista dell’ipotetica resurrezione in un mondo migliore) e ha fornito spesso intuizioni splendide per varia-zioni su un tema che, essendo una delle più profonde e anti-che aspirazioni umane, non passerà mai di moda.

In questo raro racconto, però, sembra che il grande scrit-tore americano abbia voluto riordinare le idee sull’argo-mento, concentrandosi sul problema umano di una società di immortali nella quale il protagonista si trova davanti al pro-blema dei troppi ricordi, delle troppe esperienze, della stan-chezza che migliaia di anni di vita possono portare.

Qui la lunga vita è patrimonio di tutti gli uomini, ma il problema si presenta ugualmente, e non a caso la storia ini-zia con la richiesta fatta dal protagonista ai suoi colleghi di lasciarlo in qualche modo morire.

La soluzione, per quanto singolare, è invece straordina-

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ria, e ci sembra che Simak non l'abbia successivamente ri-presa in altre opere - e sarebbe stato interessante se l’avesse fatto, visto che i suoi racconti sono sempre sfociati in qual-che grande realizzazione narrativa “maggiore”, e l’argo-mento era così insolito da meritare un approfondimento.

Comunque sia, leggiamoci questa rara storia di un Simak al meglio della forma, e aggiungiamo questa soluzione del vecchio problema alle tante proposte dai grandi scrittori di fantascienza.

Curiosamente, sia il tema dell’alchimia regnante che quello della noia degli immortali in epoche più recenti sono diventati patrimonio della narrativa fantastica pura, che ne ha utilizzato gli aspetti più suggestivi per creare effetti nar-rativi eclatanti e favorire il desiderio di evasione del lettore dai confini e dalle regole del mondo attuale.

E' interessante vedere come la science fiction utilizzasse gli stessi strumenti per produrre un effetto opposto: cioè, ap-profondire il mondo reale attraverso i sogni e le utopie e le leggende, senza per questo perdere la capacità di avvincere. Non vogliamo riaprire l’annosa polemica tra fantasy e fan-tascienza: ma questi dati ci sembrano significativi, e bisogna tenerne conto.

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SECONDA INFANZIA

Non si moriva.Non c’era modo di morire normalmente.Si viveva nel modo più sconsiderato e spericolato possibi-

le, sperando di aver la fortuna di restare uccisi accidental-mente.

Si continuava a vivere, e ci si stancava di vivere. «Dio, come ci si può stancare di stare al mondo!» esclamò Andrew Young.

John Riggs, presidente della commissione immortalità, si schiarì la voce.

«Si renderà conto,» osservò, rivolgendosi ad Andrew Young, «Che presentarci questa istanza costituisce una pro-cedura altamente irregolare.»

Raccolse dal tavolo il fascio di fogli che sfogliò rapida-mente.

«Non esistono precedenti,» aggiunse.«Avevo sperato,» spiegò Andrew Young, «Di essere io a

stabilire un precedente.»Il commissario Stanford dichiarò, «Devo ammettere che il

suo è un caso interessante. Antenato Young. Tuttavia, deve capire che questa commissione non ha alcuna potestà sulla vita delle persone, se non verificare che a ognuno vengano assicurati tutti i benefici dell’immortalità, sciogliendo gli

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eventuali nodi che dovessero configurarsi.»«Ne sono perfettamente consapevole,» rispose Young, «E

ritengo che il mio caso possa rientrare fra i nodi da lei men-zionati.»

Rimase in silenzio, osservando i volti dei membri del con-siglio. Hanno paura, pensò. Ognuno di loro. Paura del giorno in cui dovranno affrontare il problema che mi trovo ad af-frontare ora. Hanno cercato una risposta, ma non esiste anco-ra una risposta, se non la pietosa risposta essenziale, la bruta-le, elementare risposta da me prospettata.

«La mia richiesta è molto semplice,» asserì, con calma. «Ho chiesto il permesso di interrompere la mia esistenza. E dal momento che il suicidio è stato reso psicologicamente impossibile, ho chiesto a questa commissione di nominare un elenco di amici intimi che si occupino delle iniziative neces-sarie, per quanto spiacevoli, che portino all’interruzione del-la mia esistenza.»

«Così facendo,» osservò Riggs, «Distruggeremmo tutto ciò che abbiamo ottenuto. Cosa può esserci di buono in una vita di appena cinquemila anni? Non più di quanto ci sia in una di soli cento anni. Se l’Uomo dev’essere immortale, al-lora dev’esserlo autenticamente, fino in fondo. Non può ve-nire a compromessi.»

«Eppure,» osservò Young, «I miei amici se ne sono anda-ti.»

Indicò con un gesto i fogli tenuti stretti da Riggs. «È tutto elencato qui,» spiegò, «I loro nomi, quando, dove e come sono morti. Date un’occhiata. Più di duecento nomi. Persone appartenenti alla mia generazione, o a quelle immediatamen-te successive. Ci sono i loro nomi e le fotocopie dei loro cer-tificati di morte.»

Posò entrambe le mani sul tavolo, palmo ingiù, appoggian-dosi di peso sulle braccia.

«Date un’occhiata a come sono morti,» avvertì. «Ognuno

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dei decessi è avvenuto in modo violento e accidentale. Qual-cuno, alla guida del proprio veicolo, mentre teneva un’anda-tura troppo veloce e, cosa assai probabile, guidando in modo decisamente spericolato. Uno è precipitato da un dirupo mentre si sporgeva per raccogliere un fiore, cresciuto sul ci-glio. Un comportamento deliberatamente scriteriato, a mio parere. Uno, dopo essersi preso una sbronza solenne, è anda-to a fare il bagno ed è svenuto nella vasca da bagno. È anne-gato...»

«Antenato Young,» intervenne aspramente Riggs, «Non vorrà insinuare che questi individui possano aver commesso un suicidio?»

«No,» rispose brusco Andrew Young. «Abbiamo abolito il suicidio tremila anni fa, è stato completamente cancellato dalla mente umana. Come avrebbero potuto suicidarsi?»

Scrutando Young, Stanford aggiunse, «Se non mi sbaglio, signore anche lei faceva parte del consiglio che ha portato alla risoluzione di quel problema.»

Andrew Young annuì. «È stato dopo la prima ondata di suicidi. Me lo ricordo benissimo. Ci sono voluti anni di lavo-ro. Abbiamo dovuto cambiare la prospettiva umana, mutare alcuni aspetti della nostra natura. Abbiamo dovuto condizio-nare il pensiero umano attraverso l’istruzione e la propagan-da, inculcando una nuova serie di valori morali. E penso che abbiamo fatto un buon lavoro. Fin troppo buono, forse. Oggi un uomo non può pensare deliberatamente di suicidarsi, non più di quanto allora potesse pensare intenzionalmente di ro-vesciare il nostro governo. Anche solo l’idea, anche solo il termine suicidio è ripugnante, istintivamente ripugnante. Si-gnori, se ne può fare di strada in tremila anni.»

Si chinò sul tavolo e picchiò il fascio di documenti col dito affilato, teso.

«No, non si sono uccisi,» continuò. «Non si sono suicidati. Hanno solo continuato a vivere fregandosene altamente della

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vita. Erano stanchi di vivere... come lo sono io. Hanno con-dotto un’esistenza in tutto e per tutto spericolata. Forse co-vando sempre la segreta speranza di restare annegati in preda a una sbornia, o che l’auto andasse a sbattere contro un albero, o...»

Si raddrizzò, fissandoli in volto. «Signori,» dichiarò, «Ho 5786 anni. Sono nato sul pianeta Terra il 21 settembre del 1968 a Lancaster, nel Maine. In questi cinquantasette secoli ho servito egregiamente l’umanità. Se volete controllare, qui c’è il mio stato di servizio. Consigli, comitati, cariche legi-slative, missioni diplomatiche. Nessuno potrà asserire che mi sono sottratto al mio dovere. Dichiaro di aver pagato ogni mio debito verso l’umanità, perfino quello, fatto a fin di bene, di aver dato loro l’opportunità di acquisire l’eternità.»

«Gradiremmo,» dichiarò Riggs, «Che ci ripensasse su.»«Sono un uomo solo,» replicò Young. «Un uomo solo e

stanco. Non ho amici. Non c’è più niente ormai che riesca a suscitare il mio interesse. Spero soltanto di riuscire a convin-cervi ad assumervi la potestà di giudicare in casi come il mio. Un giorno forse troverete una soluzione al problema, ma fino a quel giorno, facendo appello alla vostra misericor-dia, vi chiedo di liberarci dal peso di questa esistenza.»

«Da come la vediamo noi,» commentò Riggs, «Il proble-ma è quello di trovare il modo di cancellare la nostra pro-spettiva mentale. Quando una persona vive come lei, signo-re, per cinquanta secoli, la sua memoria diventa troppo este-sa. I ricordi si aggiungono alle sfavorevoli realtà attuali e alle altrettanto sfavorevoli prospettive per il futuro.»

«Lo so,» rispose Young. «Ricordo che nei primi tempi ab-biamo dibattuto spesso questo problema. È stata una delle questioni insorte non appena l’immortalità è diventata un fat-to reale. Ma eravamo convinti che col tempo la memoria si sarebbe cancellata da sola, che il cervello potesse contenere soltanto un numero limitato di ricordi, finendo per scaricare

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quelli più vecchi una volta colmo. Ma non è andata così.»Si lasciò andare a un gesto d’impazienza. «Signori, riesco

a ricordare molto meglio la mia infanzia, delle cose accadute ieri.»

«I ricordi sono sepolti,» affermò Riggs, «E ai vecchi tem-pi, quando l’uomo viveva al massimo un centinaio d’anni, si credeva che i ricordi sepolti venissero dimenticati. La vita, si diceva l'Uomo, porta a dimenticare. E così, una volta divenu-to immortale, non si è più preoccupato dei ricordi, convinto che avrebbe finito per dimenticarli.»

«Avrebbe dovuto saperlo,» obiettò Young. «Io ricordo perfettamente mio padre, e quando avrò lasciato questa stan-za, signori, lo ricorderò molto meglio di quanto non ricorde-rò voi... ricordo che mio padre, nei suoi ultimi anni, mi dice-va di rammentare particolari della sua infanzia dimenticati durante tutti gli anni della sua giovinezza. Già questo sareb-be dovuto bastare per metterci sull'avviso. Il cervello seppel-lisce in profondità solamente i ricordi più recenti... che di-ventano inaccessibili; non saltan fuori per infastidirci, perché non si accordano, né si orientano, né sono in connessione, o comunque in qualche rapporto col cervello. Ma una volta ben registrati e archiviati, saltano fuori in un batter d’oc-chio.»

Riggs annuì con un cenno. «Nel sistema di computare del cervello c’è un ritardo di parecchi anni. Riusciremo a supera-re col tempo questo inconveniente.»

«Ci abbiamo provato,» proseguì Stanford. «Abbiamo pro-vato col condizionamento, la stessa soluzione che ha funzio-nato coi suicidi. In questo caso però non ha funzionato. Per-ché la vita di un uomo si basa sui suoi ricordi. Ci sono certi ricordi fondamentali che devono rimanere intatti. Col condi-zionamento non si può essere selettivi. Non si può fare una cernita, preservando i ricordi basilari, ed eliminando quelli di scarto. Questo sistema non ha funzionato.»

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«C’era una macchina che funzionava,» intervenne Riggs. «Si liberava dei ricordi. Non so esattamente come operasse, ma il suo lavoro lo svolgeva benissimo. Anzi, svolgeva un lavoro fin troppo perfetto. Ripuliva la mente, lasciandola sgombra come una stanza vuota. Non lasciava assolutamente niente. Prendeva tutti i ricordi senza lasciare la capacità di costruirne degli altri. Un uomo vi entrava come essere uma-no, e ne usciva come un vegetale.»

«Una soluzione,» intervenne Stanford, «Potrebbe essere rappresentata dallo stato comatoso. Se esistesse lo stato co-matoso. Basterebbe mettere una persona in attesa fino a tro-vare la risposta giusta, facendola poi tornare in vita e ricon-dizionandola.»

«Comunque vadano le cose,» dichiarò Young, «Gradirei prendeste attentamente in considerazione la mia richiesta. Non me la sento proprio di aspettare finché non avrete trova-to una risposta.»

Riggs, brusco, dichiarò, «Lei ci sta chiedendo di legalizza-re la morte.»

Young annuì. «Se preferisce usare queste parole. Io ve lo sto chiedendo in nome delle convenienze sociali.»

«Non possiamo permetterci di perderla, Antenato,» escla-mò il commissario Stanford Young protestò, lamentandosi. «Ecco che ci risiamo col solito, maledetto atteggiamento. L’immortalità paga tutti i debiti. Con l’acquisizione dell’im-mortalità un individuo ha già ricevuto ogni compenso, anche per tutto ciò che dovrà sopportare. Sono vissuto più a lungo di quanto chiunque potrebbe aspettarsi di vivere, eppure, mi viene negata la dignità della vecchiaia. I desideri di un uomo sono pochi, e si soddisfano in fretta, tuttavia si pretende che continui a vivere anche dopo che ogni suo desiderio è stato distrutto e ridotto in cenere. Arriva al punto in cui più niente ha valore... arriva al punto in cui perfino i propri intimi valo-ri non sono altro che ombre. Signori, c’è stato un tempo in

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cui non avrei mai potuto commettere un omicidio... vera-mente, non sarei mai riuscito a uccidere un’altra persona... ma oggi potrei farlo, e senza pensarci su due volte. Delusio-ne e cinismo si sono insinuati nel mio animo e posso dire di non aver più una coscienza.»

«Ci sono però delle compensazioni,» precisò Riggs, «La sua famiglia...»

«Mi danno solo ai nervi,» esclamò Young, con aria disgu-stata. «Migliaia e migliaia di individui insignificanti e borio-si che mi chiamano Antenato, o Avo, e che vengono da me per chiedermi un consiglio che non metteranno mai in prati-ca. Non ne conosco che una minima parte, e quando li ascol-to mentre tentano scrupolosamente di spiegarmi una parente-la così complicata e banale, mi viene da sbadigliargli in fac-cia. Per loro tutto è così nuovo, quando per me tutto è così vecchio, così maledettamente vecchio.»

«Antenato Young,» ribatté Stanford, «Lei ha assistito al-l’espansione dell’Uomo, dalla Terra ai lontani sistemi stella-ri. Ha visto la razza umana diffondersi da un pianeta a parec-chie migliaia di altri pianeti. E ha preso personalmente parte a tutto questo. Non le procura qualche soddisfazione...»

«Lei sta parlando in astratto,» lo interruppe Young. «Io in-vece mi preoccupo di me stesso... una massa tangibile e ben precisa di protoplasma, modellata a forma di bipede e, per quanto ironico possa sembrare, etichettata sotto la denomina-zione di Andrew Young. Sono stato un altruista per tutta la vita e adesso vi chiedo di considerare questa questione come un problema personale, anziché come un’astrazione concer-nente l’intera razza umana.»

«Che lei voglia ammetterlo o no,» proseguì Stanford, «Ci troviamo di fronte a un problema che va ben oltre un proble-ma personale. Un problema che un giorno o l’altro dovrà es-sere risolto per la salvezza della razza.»

«Ma è proprio quello che sto cercando di farvi capire,» ri-

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batté duramente Young. «E un problema che sarete costretti ad affrontare. Un giorno lo risolverete, ma fino a quel giorno dovrete provvedere a coloro che si trovano ad affrontare il problema irrisolto.»

«Aspetti un altro po’,» consigliò il Presidente Riggs. «Chi lo sa, potrebbe accadere oggi, oppure domani.»

«O fra un milione di anni,» rispose aspramente Young, e se ne andò; un uomo alto, dall’aspetto vigoroso, il cui passo era reso agile e veloce dalla rabbia, quando normalmente erano stanchezza e disperazione a rendere lenta la sua anda-tura.

Ovviamente, c’era ancora una possibilità.Ma le speranze erano poche.Come si può tornare indietro di quasi seimila anni per in-

trappolare qualcosa che non si è mai riusciti a capire?Eppure Andrew Young la ricordava perfettamente. La ri-

cordava come se fosse successo quel mattino stesso.Qualcosa di scintillante, di intenso, una felicità completa-

mente nuova, fresca come l’ala di un uccello azzurro in un mattino d’aprile, o come un timido fiore di bosco dopo uno scroscio improvviso.

Era un bambino quando aveva visto l’uccello azzurro e non aveva trovato le parole per esprimere ciò che provava, ma sollevando le piccole dita per indicarlo, aveva increspato le labbra per tubare.

Quando ero riuscito ad averlo fra le mani, pensò, non ave-vo abbastanza esperienza da sapere che cosa fosse, né da in-tuirne il valore. Adesso invece che ne conosco il valore, mi è sfuggito... è fuggito via da me il giorno in cui ho cominciato a pensare come un essere umano. Il primo pensiero da adulto lo ha allontanato appena, il secondo l’ha spinto un po’ più in là, e alla fine se n’è andato del tutto, senza che nemmeno mi accorgessi che se n’era andato.

Seduto su una sedia nel patio di pietra sentiva sulla pelle il

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Sole che filtrava dai rami degli alberi, ostacolato qua e là dalle foglie appena spuntate della primavera.

C’era qualcos’altro, pensò Andrew Young. Qualcosa che non era umano... non ancora. Un piccolo animaletto che po-teva scegliere fra diverse strade, tanti sentieri da poter per-correre. E, naturalmente, ho scelto quella sbagliata. Ho scelto il percorso umano. Ma ce n’era un altro. So che doveva es-serci. Quello delle fate... o quello degli spiriti benigni, o per-fino quello dei folletti. Adesso tutto questo può apparire sciocco e puerile, ma non è sempre stato così.

Ho scelto il cammino umano perché vi ero stato guidato. Vi ero stato sospinto e cacciato dentro, come la pecora in un gregge.

E sono cresciuto e ho perso la cosa che possedevo.Rimase seduto là, sforzandosi di capire cos’era la cosa che

stava cercando con tanta ansia, ma non riusciva a trovare un termine con cui definirla. Tranne felicità. E la felicità era uno stato d'animo, non una cosa da poter riprendere ed afferrare con mano.

Riusciva però a rammentare come si sentiva. Con gli occhi aperti nel presente, riusciva a ricordare lo splendore di quel giorno del passato, il suo fresco nitore, la meraviglia di quei colori, così brillanti come non ne avrebbe rivisti mai più... come se quello fosse stato il primo secondo dopo la Creazio-ne e il mondo, nuovo di zecca, fosse stato tutto un lucore.

Ed era veramente nuovo di zecca. Era naturale che appa-risse tale agli occhi di un bambino.

Ma non gli bastava come spiegazione.Non spiegava la smisurata capacità di vedere, e di com-

prendere e di credere nella bellezza e nella bontà di un mon-do nuovo di zecca. Non spiegava l’euforia quasi disumana nell’apprendere che c’erano dei colori da vedere, e dei profu-mi da annusare, e dell’erba tenera e verde da toccare.

Sono pazzo, si disse Andrew Young. O sono pazzo, o lo

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sto diventando. Ma se la pazzia riuscirà a riportarmi indietro ridandomi un intelletto in grado di afferrare quella strana sensazione che possedevo da bambino, e che ho perso, accet-to di buon grado la pazzia.

Si adagiò sulla sedia, lasciando che gli occhi si chiudesse-ro, mentre la mente fluttuava verso il passato.

Era accovacciato nell’angolo di un giardino e le foglie ca-devano dagli alberi di noci come una pioggia d’oro color zaf-ferano. Prese in mano una foglia che gli scivolò via dalle dita, perché le sue mani erano ancora grassocce e non troppo sicure nella presa. Ma ci riprovò e l’afferrò per il picciolo, e tenendola stretta nel pugno cicciottello, si accorse che non era soltanto un ammasso giallastro, ma era delicata, con tante piccole striature. E quando la sollevò, in modo che il Sole potesse colpirla, riuscì quasi a vederla in trasparenza, tanto era sottile la sua trama dorata.

Rimase rannicchiato con la foglia stretta in mano e per un attimo ci fu un tale silenzio che lo lasciò di sasso. Poi udì tut-t’intorno il mormorio delle foglie staccate dal gelo, foglie che cadevano sussurrando, e comunicavano tra di loro con sommessi bisbigli quando, finendo a terra, trovavano un letto per sé e per le loro compagne dorate.

In quel momento capì di costituire un tutt’uno con quelle foglie e coi loro bisbigli, un tutt’uno con l’oro, col sole au-tunnale, e con la nebbia azzurrognola che ricopriva la colli-na, visibile in lontananza sul boschetto di meli.

Alle sue spalle un piede calpestò rumorosamente la pietra, e i suoi occhi si spalancarono, e le foglie sparirono.

«Mi dispiace di averla disturbata, Antenato,» disse l’uo-mo. «Avevo un appuntamento per quest’ora, ma se l’avessi saputo non l’avrei disturbata.»

Young lo fissò con aria seccata, senza rispondere.«Sono un suo parente,» spiegò l’uomo.«Non ne avevo dubbi,» rispose Andrew Young. «La Ga-

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lassia è piena di miei discendenti.»L’uomo sembrava particolarmente avvilito. «Immagino

che a volte la infastidiamo. Però siamo orgogliosi di lei, si-gnore. Direi quasi che proviamo venerazione per lei. Nes-sun’altra famiglia...»

«Lo so,» lo interruppe Andrew Young. «Nessun’altra fa-miglia può vantare un fossile vecchio quanto me.»

«Né altrettanto saggio,» aggiunse l’uomo.Andrew Young s’arrabbiò. «Dacci un taglio con queste as-

surdità. Dimmi quello che hai da dire e falla finita.»Il tecnico si sentì un po’ offeso e preoccupato e, onesta-

mente, piuttosto turbato. Ma continuò a comportarsi con ri-spetto, perché un antenato andava sempre trattato con rispet-to, chiunque egli fosse. Ormai erano rimaste pochissime le persone nate in un mondo mortale.

Non che Andrew Young sembrasse vecchio. Aveva l’a-spetto di un qualsiasi adulto, il fisico piacente di un indivi-duo sulla trentina.

Il tecnico, imbarazzato, non riusciva a stare fermo. «Ma, signore, questo... questo...»

«Orsacchiotto,» rispose Young.«Sì, certo. Si tratta forse di una sottospecie estinta di ani-

male terrestre?»«No, è un giocattolo,» spiegò Young. «Un giocattolo mol-

to antico. Ogni bambino ne aveva uno cinquemila anni fa. Se li portavano a letto.»

Il tecnico non poté trattenere un fremito di raccapriccio. «Un’abitudine deplorevole. Primitiva.»

«Dipende dal punto di vista,» osservò Young. «Ho dormi-to parecchie volte con un orsacchiotto di pezza. Posso assi-curarti che sono estremamente consolatori.»

Il tecnico capì che non era il caso di continuare a discute-re. Tanto valeva fabbricarne uno e farla finita.

«Signore, potrei costruirgliene uno molto bello,» dichiarò,

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sforzandosi di mostrare un certo entusiasmo. «Potrei proget-tare un meccanismo parlante, che fornisca semplici risposte a determinate domande chiave e, naturalmente, farò in modo che possa camminare, sia su due gambe che su quattro...»

«No,» obiettò Young.Il tecnico sembrò sorpreso e ferito. «No?»«No,» ripeté Andrew Young. «Non ne voglio uno elabora-

to. Ne voglio uno semplicissimo, che si veda che è finto. Non mi meraviglio che i bambini di oggi siano privi d’imma-ginazione. I giochi moderni sono talmente pieni di artifici che ai ragazzi non resta più spazio per l’immaginazione. Con tutte le cose strampalate che fanno questi giocattoli moderni i giovani non sono più in grado di pensare da soli, col pro-prio cervello. Risposte programmate, conoscenza incorpora-ta, e tutte quelle stupidaggini meccaniche...»

«Lei vuole un semplice pezzo di stoffa imbottito,» osservò malinconicamente il tecnico, «Con braccia e gambe snodabi-li.»

«Proprio così,» rispose Young.«È sicuro di volere proprio della stoffa, signore? Potrei

fare un lavoro più accurato usando della plastica.»«Stoffa,» insisté caparbiamente Young, «E dev’essere ru-

vida.»«Ruvida, signore?»«Certo. Sai bene di cosa parlo. Ispida. In modo che quan-

do ci strofini la faccia contro ne avverti la ruvidezza.»«Ma nessuna persona sana di mente vorrebbe strofinare la

faccia...»«Io sì,» rispose Andrew Young. «Sono fermamente inten-

zionato a farlo.»«Come desidera, signore,» rispose, sconfitto, il tecnico.«Quando l’avrai finito,» comunicò Young, «Ho in mente

qualche altra cosa da farti fare.»«Qualche altra cosa?» ripeté il tecnico, guardandosi intor-

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no con gli occhi spalancati, quasi a cercare una via di fuga.«Un seggiolone,» spiegò Young. «Un lettino con le spon-

de alte. Un cane dal pelo lanuginoso. E dei bottoni.»«Dei bottoni?» chiese il tecnico. «Cosa sono i bottoni?»«Ti spiegherò ogni cosa,» si limitò a rispondere Young.

«È tutto molto semplice.»Quando Andrew Young entrò nella sala, sembrava quasi

che Riggs e Stanford ne avessero previsto l’arrivo, e lo stes-sero aspettando.

Non perse tempo in preliminari o formalità.Lo sanno, si disse. Lo sanno, oppure l’hanno immaginato.

Devono avermi tenuto d’occhio. Devono avermi tenuto d’oc-chio da quando ho presentato la mia richiesta, chiedendosi cosa stessi escogitando, cercando di intuire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Sanno tutto ciò che ho fatto, sono al corrente dei giocattoli, dei mobili e di tutte le altre cose. E non è necessario che stia a informarli dei miei piani.

«Ho bisogno d’aiuto,» dichiarò, e i due annuirono seria-mente, come se avessero già immaginato che aveva bisogno d’aiuto.

«Voglio costruire una casa,» spiegò. «Una grande casa. Molto più grande di quelle normali.»

«Le prepareremo un progetto,» rispose Riggs. «Faremmo qualunque cosa lei...»

«Una casa,» continuò Young, «Circa quattro, cinque volte più grande di un’abitazione normale. Intendo dire che tutto deve essere quattro o cinque volte più grande, perfettamente in scala. Con porte alte dai sette ai nove metri e ogni altro particolare in proporzione.»

«Vuole dei vicini, o preferisce la privacy?» chiese Stan-ford.

«Preferisco la privacy,» rispose Young.«Ci penseremo noi,» promise Riggs. «Lasci fare a noi.»Young rimase a lungo in silenzio, osservando i due. Poi

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dichiarò, «Vi ringrazio, signori. Vi ringrazio del vostro aiuto e della vostra comprensione. Ma vi ringrazio soprattutto per non avermi fatto altre domande.»

Si voltò, uscendo lentamente dalla porta e i due rimasero in silenzio per alcuni minuti anche dopo che se ne fu andato.

Infine fu Stanford ad azzardare un’ipotesi: «Deduco sia un posto adatto ai bambini. Boschetti dove poter correre, un pic-colo torrente per pescare e un campo per farci volare un aquilone. Cos’altro potrebbe essere se no?»

«Ha ordinato anche mobili e giocattoli per bambini,» ag-giunse Riggs. «Tutti articoli che si usavano cinquemila anni fa. Le cose che usava lui da bambino. Ma rapportate alle di-mensioni di un adulto.»

«Adesso vuole una casa costruita con le stesse proporzio-ni. Una casa che gli farà pensare, o lo aiuterà a credere, di es-sere un bambino. Ma funzionerà, Riggs? Il suo corpo non cambierà. Il cambiamento avverrà soltanto nella sua mente.»

«Un’illusione,» osservò Riggs. «Un’illusione di grandez-za, rapportata a se stesso. A un bambino che cammina gatto-ni la porta sembra alta sette, nove metri. Ovviamente questo il bambino non lo sa. Ma Andrew Young lo sa. Non vedo come potrà ovviare a questo inconveniente.»

«Da principio,» congetturò Stanford, «Sarà consapevole che si tratta soltanto di un’illusione, ma dopo un po’ non pensi che potrebbe farla diventare realtà? È per questo che gli serve il nostro aiuto. Perché il pensiero della casa non sia radicato nella sua memoria semplicemente come un qualcosa di sproporzionato... in tal modo l’illusione potrà trasformarsi poco a poco in realtà, senza grossi sforzi.»

«Dobbiamo tenere la bocca chiusa,» affermò serio Riggs. «Non dovranno esserci interferenze. Si tratta di qualcosa che dovrà fare da solo... completamente da solo. Il nostro inter-vento per la costruzione della casa dovrà passare del tutto inosservato. Dovremo aiutarlo senza mai farci vedere, come

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dei folletti, per usare il suo stesso termine. Un’eventuale in-trusione finirebbe per introdurre una nota stonata, distrug-gendo l’illusione che dovrà invece essere la sua unica preoc-cupazione. Pura e semplice illusione.»

«Ci hanno già provato altri,» obiettò Stanford, pessimista come sempre. «Tanti altri. Con congegni, macchinari...»

«Nessuno però ci ha provato,» osservò Riggs, «Ricorrendo semplicemente alla forza della mente. Con la ferma determi-nazione di cancellare dalla propria mente cinquemila anni di ricordi.»

«E proprio quello sarà il suo ostacolo,» obiettò Stanford. «Saranno i vecchi ricordi, quelli già estinti che dovrà com-battere. Dovrà liberarsi di loro... non limitarsi a seppellirli, ma liberarsene una volta per tutte, definitivamente.»

«Dovrà fare ancor di più,» aggiunse Riggs. «Dovrà rim-piazzare i vecchi ricordi con altri, visti con l’occhio di quan-do era bambino. La sua mente dovrà essere ripulita, rinfre-scata, spazzata completamente fino a ritornare splendente, come quando era nuova di zecca... pronta a vivere altri cin-quemila anni.»

I due uomini rimasero a guardarsi negli occhi, e ognuno scorse un pensiero nello sguardo dell’altro... sarebbe arrivato il giorno in cui anche loro, ognuno di loro singolarmente, avrebbe dovuto affrontare il problema che stava affrontando Andrew Young.

«Dovremo aiutarlo in ogni modo possibile,» affermò Riggs, «E dovremo continuare a osservarlo, tenendoci pron-ti... ma Andrew Young non dovrà sapere che lo stiamo aiu-tando e che lo stiamo tenendo d’occhio. Dovremo fare in modo che trovi pronto il materiale e le attrezzature e l’aiuto che potrà servirgli.»

Stanford fece per parlare, poi ebbe un attimo di esitazione, come se cercasse le parole giuste.

«Sì?» chiese Riggs. «Cosa c’è?»

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«Più avanti,» riuscì a dire Stanford, «Molto più avanti, verso la fine, c’è qualcos’altro che dovremo fornirgli. La cosa che gli servirà maggiormente, che poi è anche l’unica cosa che non è in grado di prevedere in anticipo. Tutto il re-sto fungerà semplicemente da scenario, un scenario che gli permetterà di andare avanti fino a quando non diventerà real-tà. Tutto il resto potrà essere finzione, ma una cosa dovrà es-sere reale, se non vogliamo che ogni sforzo finisca per falli-re.»

Riggs annuì. «Naturalmente. È qualcosa che dovremo stu-diare attentamente.»

«Se ci riusciremo,» rispose Stanford.Questo bottone giallo, e quello rosso, e il verde non va

bene e allora lo butto per terra, e poi, tanto per divertirmi un po’, mi infilo in bocca quello rosa e qualcuno mi troverà col bottone in bocca e farà un gran casino, per paura che lo man-di giù.

E non c’è niente, ma proprio niente che mi diverta di più di un bel casino. Specialmente se ci sono di mezzo io.

«Uh,» esclamò Andrew Young, e ingoiò il bottone.Rimase seduto, immobile, nel torreggiarne seggiolone,

poi, come una furia, spazzò via l’enorme stampino per le fo-cacce col suo carico di bottoni, facendo cadere tutto quanto a terra.

Per un attimo, totalmente frustrato, provò l’impulso di mettersi a piangere, poi si sentì pervadere da un senso di ver-gogna.

Bambinone, si disse.Era da pazzi starsene seduti in un enorme seggiolone a

giocare coi bottoni, usando un linguaggio infantile, e cercan-do di incanalare una mente condizionata da un’esistenza di cinquemila anni nella linea di pensiero di un bimbo piccolo.

Sganciò attentamente il ripiano e lo tolse via, calandosi poi cautamente dalla sedia alta più di tre metri.

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La camera lo inghiottì, con l’alto soffitto che torreggiava sulla sua testa.

Senza dubbio i vicini lo consideravano un pazzo, pensò, anche se nessuno aveva mai osato dirlo apertamente. Ma, pensandoci bene, era ormai da un bel pezzo che non ne vede-va nessuno.

Gli venne un vago sospetto. Che sapessero quel che stava facendo? Che si tenessero deliberatamente alla larga da lui per non metterlo in imbarazzo?

Ovviamente, era quello che avrebbero fatto se avessero ca-pito quali erano le sue intenzioni. Ma si era aspettato... si era aspettato... che quel tipo, come si chiamava pure?... il tipo della commissione; a proposito qual era il nome della com-missione? Be’, insomma, si era aspettato che un tizio del quale non riusciva a ricordare il nome, di una commissione, della quale non si rammentava il nome, sarebbe venuto a fic-care il naso, chiedendosi cosa stesse combinando, offrendosi di aiutarlo, e mandando a rotoli tutto il suo lavoro, tutti i suoi piani.

Non riesco a ricordare, si lamentò. Non riesco a ricordare il nome di un tale che non più tardi di ieri sapevo benissimo come si chiamava. E non mi ricordo neanche il nome della commissione, un nome che conoscevo bene come il mio. Sto perdendo la memoria; sto diventando proprio come un bam-bino.

Come un bambino?Come un bambino!Come un bambino, e senza memoria.Santo Cielo, pensò Andrew Young, ma è proprio quello

che volevo.Andò in giro gattoni e raccolse i bottoni che infilò in tasca.

Poi, con lo stampino per le focacce sotto il braccio si arram-picò sul seggiolone e, mettendosi comodamente a sedere, ri-mise in ordine i bottoni dentro lo scodellino.

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Quello verde va qui, e il giallo... ups, ecco che è finito per terra. Il rosso lo mettiamo con l’azzurro, e questo... questo... di che colore è questo? Colore? Che cos’è?

Che cos’è cosa?Cosa...«È quasi ora,» dichiarò Stanford, «E siamo pronti, come lo

saremo sempre. Entreremo in azione al momento opportuno, ma non possiamo farlo troppo presto. Meglio arrivare un po’ in ritardo, che in anticipo. Abbiamo tutto quello che ci serve. Pannoloni di misura speciale, e...»

«Eh, Santo Cielo,» esclamò Riggs. «Non si spingerà mica fino a questo punto?»

«Mi sa proprio di sì,» rispose Stanford. «Anzi, se tutto funziona bene, andrà anche oltre. Ieri si è perso. L’ha trovato uno dei nostri uomini che l’ha riaccompagnato a casa. Non aveva la più pallida idea di dove fosse, e stava cominciando a spaventarsi, e piagnucolava. Blaterava qualcosa sugli uc-celli e sui fiori, insistendo che il nostro uomo rimanesse a giocare con lui.»

Riggs non riuscì a trattenere una risatina. «Davvero?»«Ma certo. Quando è tornato indietro era ridotto uno strac-

cio.»«E per il mangiare? Come fa a nutrirsi?»«Abbiamo notato che c’è una scorta di prodotti alimentari,

biscotti e altre cose del genere, su un basso scaffale dove può prenderseli da solo. Uno dei robot prepara regolarmente del cibo un po’ più sostanzioso che lascia dove Young può tro-varlo. Dobbiamo stare attenti. Non possiamo immischiarci troppo. Non possiamo intrometterci nella sua vita. Ho la sen-sazione che sia quasi a una svolta. Non possiamo permetterci di rovinare tutto proprio adesso che è arrivato fino a questo punto.»

«L’androide è pronto?»«Quasi,» rispose Stanford.

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«E i compagni di gioco?»«Pronti. Questo è stato il minore dei problemi.»«C’è qualcos’altro che possiamo fare?»«No, niente,» rispose Stanford. «Solo aspettare, nient’al-

tro. Young è arrivato fin qui da solo, grazie alla sua forza di volontà. Adesso questa forza di volontà è scemata. Non è più in grado di tornare indietro coscientemente nel tempo. Ormai è più un bambino che un adulto. Si è creato uno slancio re-gressivo, e a questo punto l’unica incognita è vedere se que-sto slancio regressivo basterà a farlo tornare indietro comple-tamente, fino alla prima infanzia.»

«Deve regredire fino a quel punto?» chiese Riggs, con aria infelice, pensando ovviamente al proprio futuro. «Le tue sono solo supposizioni, vero?»

«O toma indietro fino in fondo, o non servirebbe a niente,» rispose dogmaticamente Stanford. «Deve ricominciare tutto completamente da capo. O arriva fino in fondo, o niente.»

«E se rimane intrappolato a metà strada? Metà bambino e metà uomo, cosa succede?»

«E un’ipotesi alla quale non voglio nemmeno pensare,» ri-spose Stanford.

Aveva perso il suo orsacchiotto di stoffa preferito, ed era uscito a cercarlo in un crepuscolo pregno di lucciole sfug-genti e del silenzio di un mondo che si stava chetando prepa-randosi al sonno. Mentre si spostava tra gli arbusti, sotto le siepi e nelle aiuole per cercare il giocattolo perduto, avverti-va la fredda umidità dell’erba bagnata di rugiada penetrargli nelle scarpe.

Doveva assolutamente trovare il suo bell’orsacchiotto, si disse, perché era quello che si portava a letto e sapeva che se non l’avesse trovato l’orsacchiotto avrebbe passato una brut-ta notte, solo e sconsolato. Ma non avrebbe mai ammesso, nemmeno con se stesso, che era lui ad aver bisogno del gio-cattolo, e non il giocattolo ad aver bisogno di lui.

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Un pipistrello si abbassò in volo e per un terribile istante, alla vista di quella mostruosa massa scura che alla luce sem-pre più buia del crepuscolo si avvicinava a tutta velocità, si accovacciò per terra, cercando di proteggersi da quell'im-provvisa paura scaturita dalla notte. E quando nel grande giardino buio ravvisò un luogo sconosciuto, carico di ombre in agguato che non aspettavano che lui, strani suoni di terro-re gli gorgogliarono in gola.

Rimase rannicchiato a terra, cercando di scacciare quella paura aliena che ringhiava da dietro ogni arbusto, borbottan-do rabbiosamente in ogni angolo oscuro. Ma anche mentre era in preda al terrore, un angolino nascosto della sua mente sapeva che non c’era niente da temere. Era come se quell’an-golino di cervello stesse ancora combattendo col resto del suo io, come se quella piccolissima sezione di cellule sapesse che il pipistrello non era che un pipistrello in volo, che le ombre del giardino non erano che assenza di luce.

Era sicuro che c’era un motivo per cui non avrebbe dovuto aver paura... un valido motivo, scaturito da una cognizione certa che lui non possedeva più. E pareva impossibile che potesse avere quella cognizione, perché era sì e no un bambi-no di due anni.

Cercò di dirlo... “due anni.”C’era qualcosa che non andava nella sua lingua, qualcosa

che non andava nel modo in cui usava la bocca, con le labbra che si rifiutavano di foggiare le parole che intendeva pronun-ciare.

Cercò di definire le parole, cercò di spiegare a se stesso il significato di quella frase, “due anni”, e per un attimo gli sembrò quasi di averlo afferrato, ma subito dopo tornò a sfuggirgli.

Il pipistrello tornò e Young, tremante, si rannicchiò ancor di più al suolo. Sollevò timoroso lo sguardo, lanciando oc-chiate furtive qua e là, finché con la coda dell’occhio non

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scorse in lontananza la casa, che riconobbe come un luogo di rifugio.

«Casa,» esclamò, sbagliando la parola, non il vocabolo in sé, ma il modo in cui l’aveva pronunciato.

Tremante, cominciò a correre con passo malfermo, finché non gli comparve davanti la grande porta, col chiavistello troppo alto per poterlo raggiungere. Ma c’era un altro acces-so, una piccola porta oscillante montata su quella più grande, una di quelle porticine costruite per i cani, e i gatti, e a volte per i bambini piccoli. Sfrecciò dentro, avvertendo la sicurez-za e il senso di sollievo della casa che lo circondava. Sicu-rezza, sollievo... e solitudine.

Trovò il secondo orsacchiotto preferito; lo raccolse e se lo strinse al petto, scoppiando a piangere sulla schiena ruvida del giocattolo, un pianto di sollievo dall’opprimente terrore.

C’è qualcosa che non va, pensò. Qualcosa di brutto, che proprio non va. Qualcosa che non è come dovrebbe essere. Non è il giardino, e neanche gli arbusti bui, o quella forma alata spuntata a tutta velocità dalla notte. È qualcos’altro, qualcosa che manca, qualcosa che dovrebbe essere qui, e che invece non c’è.

Stringendosi forte al petto l’orsacchiotto, rimase seduto, immobile, cercando disperatamente di riportare indietro nel tempo la propria mente, finché non fosse riuscita a spiegargli cos’era che non andava. La risposta c’era, ne era certo. Da qualche parte c’era una risposta; una volta l’aveva conosciu-ta. Una volta aveva riconosciuto una necessità e l’aveva av-vertita, ma non aveva avuto modo di soddisfarla... e adesso non era nemmeno in grado di riconoscere quella necessità; la avvertiva, ma non riusciva a raffigurarla.

Strinse ancor più forte l’orsacchiotto e si rannicchiò al buio, osservando i raggi della luna che entrando dall’alta fi-nestra dipingevano di luce uno squarcio di pavimento.

Affascinato, continuò a contemplare il chiarore lunare, ed

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ecco che all'improvviso il terrore svanì. Lasciò cadere l’or-sacchiotto per avvicinarsi gattoni alla luce lunare. Il chiarore non cercò di scappare e ne raggiunse il bordo e vi gettò den-tro le mani, ridendo felice quando si accorse che le manine venivano dipinte dalla luce che entrava dalla finestra.

Sollevando il volto per contemplare il buio, scorse il globo bianco della Luna che lo guardava, lo fissava. Sembrava che la Luna gli facesse l’occhietto, e allora, contento, cominciò a ridacchiare.

La porta si spalancò alle sue spalle, e si voltò in modo maldestro.

C’era qualcuno sulla porta, qualcuno che occupava quasi completamente la soglia... una persona bellissima che gli sta-va sorridendo. Perfino al buio riuscì a distinguere la dolcezza di quello sguardo, l’alone dorato dei suoi capelli.

«È ora di mangiare, Andy» disse la donna. «Di mangiare, di fare un bel bagnetto e di andare a letto.»

Andrew Young sollevò entrambe le braccia, saltellando fe-lice... felice, emozionato e contento.

«Mamma,» gridò. «Mamma... Luna!»Si voltò di scatto col dito alzato e la donna gli si avvicinò

velocemente per abbracciarlo, stringendolo forte a sé. La guancia contro quella di lei, guardò estasiato la Luna, trovan-dola straordinaria, sfolgorante e dorata, una splendida mera-viglia per lui del tutto nuova.

Stanford e Riggs erano fermi ai bordi della strada a guar-dare l’enorme casa che torreggiava sopra gli alberi.

«Adesso è là,» asserì Stanford. «Mi sembra tutto tranquil-lo, quindi dev’essere andato tutto bene.»

Riggs dichiarò, «Stava piangendo in giardino, poi è corso in casa, terrorizzato. Deve aver smesso di piangere proprio quando è entrata lei.»

Stanford annuì. «Avevo paura che stessimo indugiando troppo, ma adesso come adesso non vedo come avremmo po-

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tuto farlo prima. Ogni interferenza dall’esterno avrebbe man-dato in malora quel che stava cercando di fare. Doveva sen-tirne veramente la necessità. Be’, adesso è tutto a posto. Sia-mo intervenuti con perfetto tempismo.»

«Ne sei sicuro, Stanford?»«Sicuro? Ma certo che lo sono. Abbiamo creato l’androide

e l'abbiamo addestrata, inculcandole un profondo senso ma-terno. Sa quel che deve fare. È quasi umana. Abbiamo cerca-to di renderla quanto più possibile somigliante a una madre umana di oltre cinque metri d’altezza. Non sappiamo che aspetto avesse la madre di Young, ma è più che immaginabi-le che nemmeno lui se ne ricordi. Col passar degli anni la sua memoria l’ha idealizzata. Ed è quello che abbiamo fatto noi. Ne abbiamo fatto una madre ideale.»

«Se solo funzionasse,» dichiarò Riggs.«Funzionerà,» affermò Stanford, fiducioso. «Nonostante le

manchevolezze, proprio grazie ai tentativi e agli inevitabili errori, scopriremo che funzionerà. Ha trascorso tutto questo tempo lottando contro se stesso. Adesso può smettere di lot-tare, scaricando la responsabilità. Quanto basta a consentirgli di superare l’ultimo ostacolo per sistemarsi sano e salvo, e al sicuro, in quella seconda infanzia della quale non poteva fare a meno. Adesso può accoccolarsi, contento. C’è qualcuno che lo terrà d’occhio, e penserà per lui, e si prenderà cura di lui. Probabilmente tornerà indietro un altro po’ nel tempo, un po’ più vicino alla prima infanzia. Ed è un bene, perché più va indietro, più i suoi ricordi si cancellano.»

«E poi?» domandò preoccupato Riggs.«Poi potrà ricominciare a crescere.»Rimasero a guardarsi in silenzio.Nell’enorme casa si accesero le luci della cucina e le fine-

stre s’illuminarono di una luce familiare.Anch’io, pensava Stanford. Anch’io, un giorno. Young ci

ha indicato la strada, illuminato il sentiero. Ha indicato a noi,

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e a tutti gli altri miliardi di abitanti della Terra e dell’intera Galassia, il modo di arrivarci. Ci saranno altri, e per questi altri l’aiuto sarà maggiore. Allora saremo in grado di farlo in modo migliore.

Adesso abbiamo qualcosa su cui lavorare.Un altro migliaio di anni o giù di lì, pensò, e anch’io sarò

pronto a tornare indietro. A tornare alla mia prima infanzia, e ai sogni della fanciullezza, e alla confortante sicurezza delle braccia materne.

L’idea non lo spaventò minimamente.

CLIFFORD D. SIMAK

Second Childhood, di Clifford D. Simak, Copyright © 1951 by World Editions Inc., da Galaxy. Traduzione di Leila Moruzzi.

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POLITICALLY UNCORRECT

L'apertura di questo volume ricchissimo di Nova Sf* è ri-servata a quello che, per noi, è un autentico capolavoro del massimo scrittore che la fantascienza abbia espresso nei suoi quasi ottant'anni di storia ufficiale (o quasi duecento, se vogliamo, con Brian Aldiss, far risalire la nascita ufficia-le di questa letteratura, il suo distacco dal corpo centrale del mainstream, al Frankenstein di Mary Shelley: ipotesi che Aldiss argomenta con proprietà e intelligenza, ma sulla qua-le non ci siamo mai trovati completamente d'accordo, rite-nendo che la science fiction era rimasta innestata nel filone centrale delle lettere e delle arti quanto meno fino all'esplo-dere del primo conflitto mondiale, quando le armi di stermi-nio di massa sgomentarono scrittori e letterati che fino ad allora avevano considerato in maniera creativa e positiva il futuro, creando uno strappo traumatico tra una letteratura non contemporanea, quella che poi ci si e ostinati a chiama-re mainstream, e una letteratura di metarealismo contempo-raneo, cioè la fantascienza).

L'autore è Clifford D. Simak (1904-1988) e il lungo rac-conto è Un medico per l'universo, apparso su Fantastic pro-prio nel periodo più creativo del grande scrittore del Wi-sconsin, e stranamente passato un po' sotto silenzio anche da parte degli storici dello scrittore, che pure ha offerto tan-ti autentici capolavori a questa letteratura, ma che qui offre un contributo che a nostro parere spicca, straordinariamen-te, come uno dei più intensi, più visionari e più attuali che ci sia stato dato di leggere.

La science fiction, in quanto letteratura metarealista con-temporanea, ha il compito, tra gli altri, di analizzare e cer-care di capire le realtà del proprio tempo, e di proiettare il risultato di queste analisi nel futuro prossimo o remoto. E la funzione di estrapolazione che non può sottrarsi a una com-

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prensione viva delle realtà presenti, perché è appunto da esse che scaturisce la possibilità di individuarne le possibili conseguenze future. Partendo da analisi sbagliate o man-chevoli, è evidente che anche l'estrapolazione ne subirà gli errori di fondo: questo distingue la science fiction da altre forme di letteratura d'ipotesi o di analisi, ed è per questo che tanti romanzi di scrittori anche di grande erudizione e tradizione letteraria che si sono cimentati nella science fic-tion senza averne una corretta percezione riescono così pre-sto datati e velleitari, malgrado la critica abbia il malvezzo di esaltarli al loro apparire.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a cumuli di sciocchez-ze paludate dietro un linguaggio para accademico, quindi criptico, che spesso serve a nascondere la povertà d'idee e la carenza di documentazione. C'è stato persino un periodo recente (per fortuna oggi in via di revisione critica) nel qua-le la Trimurti Bradbury-Dick-Le Guin veniva indicata come unico patrimonio letterariamente valido di una letteratura che si muove a fisarmonica, tanto che non si può ignorare l'importanza di alcune parti e di alcuni elementi se si vuole valutare il tutto. Fatto salvo che, nello specifico, i tre autori citati sono più che degni, nessuno ha spiegato in base a qua-li criteri sono stati così vigorosamente beatificati a danno di altri.

Simak rappresenta un discorso a parte: amato ed esaltato da scrittori e critici al di sopra di ogni sospetto (basterà ci-tare Sergio Solmi, Guido Piovene e Gramigna, ma ce ne sono tantissimi altri) non ha mai goduto della benevolenza di coloro che seguono le mode o vanno a caccia di un posti-cino nella storia della critica di seconda linea, quella che della fantascienza ha quasi sempre fatto strame nei periodi durante i quali questa era di moda e appariva molto “in” e molto colto parlarne male (E c'è anche qualche critico “se-rio” che non e in sintonia con Simak, più per motivi di estra-

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zione sociopolitica che per motivi estetici: ma questo pub accadere). Ma è rimasto, per tutti questi anni, insieme a po-chi altri scrittori geniali - citeremo Cordwainer Smith, il pri-mo Frederik Pohl, il secondo Edmond Hamilton, in parte Fritz Leiber e Theodore Sturgeon e alcuni altri - un punto di riferimento e un modello le cui straordinarie intuizioni spes-so venivano comprese in ritardo.

Questo racconto lungo è straordinario, nell'intuire quello che si sta manifestando nella nostra società con sempre maggiore frequenza: l'assenza di libertà, la stupidità ma-scherate da un falso pietismo, l'imposizione di regole che le-dono la libertà dei singoli in nome di un bene della comunità del quale in realtà non frega niente a nessuno.

La società dei robot medici ipotizzata da Simak è la no-stra società: nella quale non si può addirittura fumare all'a-perto o in casa propria in certe parti degli Stati Uniti, ma si possono sganciare tonnellate di bombe in qualsiasi parte del mondo, anche con uranio sia pure impoverito, definendole “umanitarie” o chirurgiche. Dove ai veri ecologisti che ne-gli anni '60 lanciavano grida di allarme irrise da tutti coloro che detenevano i fili del potere, si e sostituita una fauna va-riopinta di incompetenti pronti a sacrificare decine di vite umane per risparmiare qualche granchiolino che vive sul fondo dei fiumi, che chiude gli occhi, non sappiamo se per colpevole convenienza o per altrettanto colpevole ignoranza, di fronte ai veri grandi problemi dell'ambiente, per distillare regole e regolucce che spesso hanno il solo scopo di eserci-tare un potere (spesso economico, sempre politico) conve-niente per loro. Siamo di fronte ad autentici genii che ci hanno fatto chiudere unilateralmente le centrali nucleari, pericolose magari, ma almeno controllate, per ritrovarci a comprare energia dai paesi vicini nei quali le centrali nu-cleari producono ancora, spesso ridotte a ferrivecchi più pe-ricolosi di cento Chernobyl. Ma gli esempi sono tanti, nel

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quadro di quella maledetta invenzione che è stata la moda del politically correct, da nauseare chi quei problemi reali li conosce e vorrebbe tentare di risolvere.

Simak è qui al massimo della forma, totalmente, radical-mente politically uncorrect, e il suo quadro descrive le ten-denze della società di oggi meglio di qualsiasi nostro discor-so o di qualsiasi saggio. Potrete non essere d'accordo con lui, ma la radiografia è esatta. Purtroppo non esiste un me-dico galattico in grado di darci una cura come quella ipotiz-zata nel finale.

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UN MEDICO PER L'UNIVERSO

Si svegliò, ritrovandosi in un posto che non aveva mai vi-sto prima. Un paesaggio immateriale, che appariva e spariva con un guizzo; un posto immerso in una luce crepuscolare dove spiccavano debolmente figure ancor più scure. C'erano due volti bianchi che baluginavano e si dileguavano insieme al paesaggio, e un fetore che non avevo mai sentito prima... un odore di chiuso, di umidità, come un tanfo di acque pro-fonde rimaste da troppo tempo ferme, mai mosse nemmeno dal più debole filo di corrente.

Poi il posto svanì e si ritrovò in quell'altro luogo, inondato da una luce intensa, con quell'altura di marmo che si staglia-va alta davanti ai suoi occhi e la testa di quell'uomo che spic-cava alta da dietro l'altura, tanto che per vederla bisognava guardarla da molto lontano, come se quell'uomo fosse stato immenso e chi lo guardava, lui, estremamente dimesso.

La bocca, al centro del volto dell'uomo alto e maestoso, si stava muovendo e per quanto ci si sforzasse di afferrare il suono delle sue parole, non c'era che silenzio, uno straordi-nario, immenso silenzio che ti escludeva da quel posto splen-dente facendoti sentire completamente solo, e piccolo, e del tutto insignificante... troppo misero e insignificante da poter udire le parole che l'uomo maestoso stava pronunciando. Ep-pure, era come se si conoscessero già quelle parole, come se si sapesse che quel grande uomo non avrebbe potuto pronun-

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ciare parole diverse, che doveva dirle, perché nonostante la sua altezza e la sua imponenza era rimasto imprigionato nel-la stessa identica trappola del piccolo, umile essere che lo stava fissando. Le parole erano là, vicinissime, oltre una sor-ta di barriera, che non gli consentiva di comprenderle, ma se solo fosse riuscito a trapassare quella barriera, allora le avrebbe capite anche senza sentirle pronunciare. Ed era im-portante che le conoscesse, perché avevano un'estrema rile-vanza per lui... in realtà riguardavano proprio lui e avrebbero influito su tutta la sua vita.

La sua mente scalpitava, cercando freneticamente la bar-riera per strapparle le parole, e mentre lo faceva il posto inondato di luce intensa continuava ad dissolversi e si ritrovò ancora una volta tra i guizzi del crepuscolo.

I volti bianchi erano ancora chini su di lui, e uno di loro si stava avvicinando come se stesse scendendo in volo sopra di lui... appartato, tutto solo, un piccolo palloncino dal volto bianco. Sì, perché nel buio non si vedeva il corpo. Sempre ammesso che ci fosse stato un corpo.

«Vedrai che starai bene,» dichiarò il volto bianco. «Ti stai riprendendo.»

«Certo che starò bene,» rispose con stizza Alden Street.Perché quelle parole lo avevano fatto infuriare, sì, era in-

furiato, perché aveva potuto sentirle, mentre quelle pronun-ciate nel luogo inondato di luce non era stato in grado di udirle... ed erano importantissime, mentre quelle appena sen-tite non erano che sciocchezze.

«E chi ha detto che non sarei stato bene?» chiese Alden Street.

Sì, quello era lui, ma non interamente lui, perché era molto di più di un semplice nome. Ogni uomo, pensò, era più di un semplice nome. E lui era tante cose.

Era Alden Street, ed era un individuo strano e solitario che viveva in cima al villaggio, in una grande casa, alta e solita-

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ria, affacciata su una distesa desolata e paludosa che si sten-deva verso sud, fino a sparire di vista... lontano, lontanissimo fin dove l'occhio umano non poteva arrivare, una palude le cui vere proporzioni erano immaginabili soltanto con l'aiuto di una mappa.

La facciata anteriore della casa era circondata da un gran-de prato e quella posteriore da un giardino, in fondo al quale spiccava un grande albero che in autunno per qualche ora s'infiammava di luce dorata; un albero che racchiudeva in sé qualcosa di estremamente importante, un'importanza alla quale lui, Alden Street, era intimamente legato.

Cercò convulsamente quella grande importanza ma, al buio, non riuscì a trovarla. In qualche modo continuava a sfuggire alla sua presa. L'aveva posseduta, l'aveva conosciu-ta, vi aveva convissuto per tutta la vita, fin dai tempi della sua infanzia, ma adesso non la possedeva più. In qualche modo l'aveva abbandonato. Continuò a cercarla a tentoni, freneticamente, tuffandosi negli abissi oscuri del suo cervello per trovarla, perché non poteva permettersi di perderla. E nel cercarla, tornò a degustarne il sapore, lo stesso sapore amaro di quando aveva scolato la fiala, buttandola poi per terra.

Continuò a frugare nel buio della mente, alla ricerca di ciò che aveva perduto, senza nemmeno ricordare cosa, senza la più pallida idea di cosa potesse essere, ma certo che l'avreb-be riconosciuta non appena l'avesse incontrata.

Frugò, ma senza trovarla. Perché di punto in bianco non si trovava più nel buio della propria mente, ma nuovamente nel luogo inondato di luce. E infuriato per come era stato ostaco-lato nella sua ricerca.

L'uomo alto e possente non aveva ancora cominciato a parlare, anche se Alden intuiva che stava per farlo, che da un momento all'altro si sarebbe messo a parlare. E quel che era strano, era che era sicuro di aver già assistito a tutto quello in precedenza e di aver già udito ciò che l'uomo alto e possente

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stava per dire. Anche se non riusciva in nessun modo a ricor-dare una sola parola. Sapeva di esser già stato in quel luogo, e non una sola volta, ma due. La replica di un film già visto, un passato che stava rivivendo.

«Alden Street,» disse l'uomo così alto sopra di lui, «Resti fermo lì e mi guardi.»

Che razza di sciocchezza, pensò Alden; era già fermo lì e lo stava guardando.

«Ha sentito la deposizione,» continuò l'uomo, «Appena ri-lasciata.»

«Sì, l'ho sentita.»«Allora, cos'ha da dire a sua discolpa?»«Niente,» rispose Alden.«Vuol dire che non nega l'accusa?»«Non posso negare che sia vero. Ma c'erano delle circo-

stanze attenuanti.»«Ne sono sicuro, ma non sono ammissibili.»«Vuol dire che non posso raccontarle...»«Certo che può. Ma non farà alcuna differenza. La legge

contempla solamente l'autorità del crimine. Non sono am-messe scuse.»

«Suppongo allora,» dichiarò Alden Street, «Che non ci sia niente da dire. Vostro Onore, non voglio farle perdere tem-po.»

«Sono contento,» commentò il giudice, «Che sia così rea-listico. Il suo comportamento rende tutto molto più semplice e più facile. E accelera il lavoro di questa corte.»

«Però deve capire,» aggiunse Alden Street, «Che non po-tete mandarmi via. Ho del lavoro importantissimo del quale dovrei tornare a occuparmi.»

«Lei ammette,» dichiarò l'uomo alto e maestoso, «Di esse-re stato ammalato per ventiquattro ore buone e, cosa più ri-provevole, di aver omesso di denunciare la sua malattia.»

«Sì,» ammise Alden Street.

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«Lei ammette anche che in quella circostanza non si è fat-to curare, ed è stato sorpreso da un monitor.»

Alden non rispose. Le prove contro di lui si stavano accu-mulando e non aveva senso rispondere. Capiva perfettamente che non sarebbe servito a niente.

«Inoltre, ammette anche che sono ben diciotto mesi che non si presenta dal suo medico.»

«Ero troppo occupato.»«Troppo occupato, pur sapendo che la legge dice esplicita-

mente che bisogna sottoporsi a una visita medica ogni sei mesi?»

«Lei non capisce, Vostro Onore.»Suo Onore scosse la testa. «Temo, invece, di capire fin

troppo bene. Lei si è posto al di sopra della legge. Ha scelto deliberatamente di tenere in spregio le regole, e adesso dovrà rendere conto del suo operato. Troppo è stato ottenuto dalla legislazione medica da permettere che ne venga messa a re-pentaglio l'osservanza. A nessun cittadino verrà permesso di ostacolarla. Lo sforzo teso a ottenere una popolazione forte e sana va compiuto col supporto di ognuno di noi, e non posso permettere che...»

Il luogo inondato di luce si dileguò, e si ritrovò nel crepu-scolo.

Era sdraiato di schiena ad osservare il buio, e pur avver-tendo la pressione del letto sul quale giaceva era come se fosse sospeso in una specie di limbo oscuro senza inizio e senza fine, che non si trovava in nessun posto e non portava in nessun posto, ma che allo stesso tempo rappresentava il punto d'arrivo di ogni esistenza.

Da una parte remota del suo io udì ancora una volta quella voce che lo interrogava... una voce monotona, dura, con una certa inflessione metallica:

Hai mai fatto parte di un programma di body-building?Quando è stata l'ultima volta che ti sei lavato i denti?

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Hai mai offerto alle associazioni sportive minori parte del tuo tempo o del tuo denaro?

Su, dillo, quanto spesso hai fatto un bagno?Hai mai espresso dei dubbi sul fatto che lo sport sviluppi

il carattere?Uno dei volti bianchi uscì fluttuando dall'oscurità, restan-

do di nuovo sospeso sopra di lui. Notò che era un volto vec-chio... il viso di una donna, un viso gentile.

Una mano scivolò sotto il suo capo e lo sollevò.«Su,» dichiarò il volto bianco, «Bevi questo.»Sentì il cucchiaio contro le labbra.«È brodo,» spiegò la donna. «E caldo. Ti darà forza.»Aprì la bocca, lasciando scivolar dentro il cucchiaio. Il

brodo era caldo e confortevole.Il cucchiaio si ritrasse.«Dove...» domandò.«Dove ti trovi?»«Sì,» sussurrò, «Dove sono? Voglio saperlo.»«Questo è il Limbo,» rispose il volto bianco.Adesso sì che quella parola aveva un significato.Adesso ricordava cos'era il Limbo.E non poteva restare nel Limbo.Era inconcepibile che qualcuno pensasse di poter restare

nel Limbo.Girò la testa avanti e indietro sul cuscino duro e sottile in

un gesto disperato.Se solo fosse stato un po' più forte. Solo poco tempo prima

aveva un sacco di forza. Vecchio e nerboruto e con ancora un sacco di forza. Abbastanza forte da poter fare praticamen-te tutto.

Inetto però, avevano detto a Willow Bend.Ecco che gli era tornato in mente il nome. Era contento

che gli fosse tornato in mente. Lo abbracciò, tenendoselo stretto.

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«Willow Bend,» esclamò, rivolgendosi al buio.«Stai bene, vecchio?»Non riusciva a vedere colui che parlava, ma non aveva

paura. Non c'era niente di cui aver paura. Ricordava il pro-prio nome, e Willow Bend, e il Limbo, e fra poco si sarebbe ricordato anche di tutto il resto e allora sarebbe ritornato for-te e sano.

«Sto bene,» rispose.«Kitty ti ha dato del brodo. Ne vuoi un altro po'?»«No. Voglio solo andarmene da qui.»«Sei stato molto ammalato. Avevi trentotto e sette di feb-

bre.»«Ma adesso la febbre non ce l'ho più.»«No. Però quando sei arrivato ce l'avevi.»«Come fai a conoscere la mia temperatura? Non sei mica

un medico. Lo capisco dalla voce che non sei un medico. Non ci sono medici nel Limbo.»

«No, nessun medico,» rispose la voce dell'uomo nascosto. «Io però sono un dottore.»

«Stai mentendo,» ribatté Alden. «Non esistono dottori umani. Non esistono più i dottori. Esistono soltanto i medici della Sanità.»

«Ci sono ancora alcuni di noi impegnati nella ricerca.»«Ma il Limbo non è un luogo di ricerca.»«A volte,» spiegò la voce, «La ricerca finisce per stancarti.

È troppo arida e impersonale.»Alden non replicò. Fece scorrere su e giù la mano strofi-

nando la coperta che avevano usato per coprirlo. Era rigida e ruvida al tatto, ma sembrava abbastanza pesante.

Cercò mentalmente di dare un senso a ciò che l'uomo gli aveva detto.

«Qui possono esserci soltanto dei trasgressori,» osservò. «Tu che tipo di trasgressione hai commesso? Ti sei dimenti-cato di tagliarti le unghie? Hai lesinato sul sonno?»

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«Non sono un trasgressore.»«Sei forse un volontario?»«No, non sono nemmeno un volontario. Non servirebbe a

niente offrirsi volontario, tanto non ti lascerebbero entrare. E proprio questa la forza del Limbo... consiste proprio in que-sto il suo lurido, putrido trucco. Hai ignorato le cure? Allora adesso le cure ignorano te. Sei costretto ad andare in un po-sto dove non ci sono cure, perché tu possa vedere coi tuoi occhi quanto ti piacerà.»

«Vuoi dire che ti sei introdotto qui di nascosto?»«Definiscila pure intrusione se vuoi.»«Tu sei pazzo,» dichiarò Alden Street.Perché non si poteva fare irruzione nel Limbo. Se eri furbo

facevi del tuo meglio per restarne alla larga. Ti lavavi i denti, facevi il bagno, e facevi uso di uno dei tanti tipi di collutorio approvati, stavi attento a presentarti ai periodici check-up, non dimenticavi di fare gli esercizi quotidiani, osservavi la dieta e non appena ti sentivi poco bene correvi il più veloce-mente possibile alla clinica più vicina. Non che ci si amma-lasse spesso. Visti i controlli medici, visto il tenore di vita, raramente si era malati.

Udì risuonargli nuovamente nel cervello la voce monoto-na, metallica, la voce disgustata, sbigottita, accusatoria, dei corpi medici disciplinari.

Alden Street, diceva, non sei che un lurido sudicione.Quello ovviamente era il peggior insulto che gli potessero

rivolgere. Non esisteva un altro epiteto peggiore di quello. Era sinonimo di traditore della causa della bellezza e della salute del corpo.

«Questo,» domandò, «E un ospedale?»«No,» rispose il dottore. «Non ci sono ospedali qui. Non

c'è niente. Soltanto io e quel poco che so, oltre alle erbe e agli altri rimedi specifici di origine vegetale dei quali posso disporre.»

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«E questo Limbo. Che tipo di Limbo è?»«Una palude,» spiegò il dottore. «Un posto incredibile,

credimi.»«Pena di morte?»«Più o meno la stessa cosa.»«Ma io non posso morire,» osservò Alden.«Prima o poi,» commentò la voce pacata, «Ogni uomo è

destinato a morire.»«Non ancora.»«No, non ancora. Nel giro di poche ore starai di nuovo

bene.»«Cos'ho avuto esattamente?»«Sei stato colpito da un certo tipo di febbre.»«Ma senza una definizione esatta.»«Senti, come faccio a saperlo? Non sono mica...»«Sì, lo so, non sei un medico. Gli umani non possono esse-

re medici... né guaritori abilitati, né chirurghi, né qualsiasi al-tro mestiere che abbia a che fare col corpo umano. Però un umano può occuparsi di ricerche mediche, in quanto richie-dono acume e immaginazione.»

«Ci hai pensato un bel po' su, eh?» esclamò il dottore.«Un po',» rispose Alden. «E chi non l'ha fatto?»«Forse non così in tanti quanto credi. Però sei adirato, aci-

do.»«E chi non lo sarebbe, a pensarci?»«Io non lo sono,» affermò il dottore. «Tu però...»«Sì, fra tutti noi dovrei essere io il più acido. Perché siamo

stati noi a volerlo. Non sono stati i robot a chiedercelo. Li abbiamo incaricati noi.»

Il che, ovviamente, era giusto, pensò Alden. Era iniziato tanto tempo fa, quando i computer venivano utilizzati per ef-fettuare delle diagnosi o per il calcolo del dosaggio dei medi-cinali. Era tutto partito da lì, e si era continuato per quella strada, incoraggiando il nuovo sistema in nome del progres-

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so. E chi c'era allora a ostacolare il cammino del progresso?«Come ti chiami?» domandò. «Mi piacerebbe sapere come

ti chiami.»«Mi chiamo Donald Parker.»«Un nome onesto,» osservò Alden Street. «Un bel nome,

onesto e pulito.»«Adesso dormi,» ordinò Parker. «Hai parlato troppo.»«Che ore sono?»«Presto sarà mattino.»Il posto era più buio che mai. Non c'era nessuna luce. Non

si vedeva e non si sentiva niente e c'era quel malefico tanfo di umido. Era un pozzo, pensò Alden... un pozzo destinato a quella piccola porzione di umanità che, per un motivo o per l'altro, si era ribellata, aveva ignorato, o si era rifiutata di se-guire il fervore evangelico della salute universale. Fervore che ti accoglieva alla nascita, che ti accompagnava durante la crescita e che continuavi a seguire fino al giorno della tua morte. E, naturalmente, era splendido, ma, Dio solo sapeva quanto finisse per stancarti, per nausearti. Non era del pro-gramma o della legge che ti stancavi, ma dell'incessante vigi-lanza, di quello spirito da crociata contro un minuscolo ger-me, di quel continuo accanimento contro il virus e la sporci-zia, dell'ardore quasi religioso col quale i corpi medici man-tenevano costantemente la guardia.

Fino a quando, in preda a un vero e proprio risentimento, non desideravi con tutto te stesso diguazzare nella sporcizia; fino a quando non lavarti le mani diventava una bravata, un segno di ribellione.

Perché le leggi erano chiarissime... la malattia era un reato penale e il mancato adempimento delle più piccole misure precauzionali mirate al mantenimento della salute era consi-derato una violazione della legge.

Cominciava con la culla e ti accompagnava fino alla tom-ba, e c'era una battuta, mai pronunciata ad alta voce (una bat-

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tuta decisamente patetica) che diceva che l'unica cosa ormai rimasta in grado di uccidere una persona era un inarrestabile senso di noia. A scuola, venivano apposti degli asterischi ac-canto al nome dei bambini per il lavaggio dei denti, delle mani, per le comuni regole igieniche, per molti altri compiti. Nei parchi non si facevano più quei giochi così inutili e sciocchi (e perfino criminali) come i soliti vecchi giochi oc-casionali, ma venivano invece seguiti programmi meticolo-samente studiati per un perfetto sviluppo fisico. C'erano pro-grammi sportivi a tutti i livelli. Per le scuole elementari, per le medie, per l'università, sport da praticare coi vicini o nella comunità, sport per i giovani scapoli, per i giovani sposati, per le persone di mezz'età o per gli anziani... ogni tipo di sport, per ogni gusto e per ogni età. E non erano sport che at-tiravano il pubblico. Una persona consapevole del proprio bene non sarebbe mai e poi mai diventata uno di quegli esse-ri così inutili e sospetti come gli spettatori sportivi.

Il tabacco era proibito, come del resto tutte le sostanze in-tossicanti (nelle leggi, tabacco e sostanze intossicanti erano ormai poco più che dei nomi), e sul mercato erano ammessi solamente cibi sani. Non si trovavano più prodotti come ca-ramelle, bibite gasate, popcorn o gomme da masticare. Que-sti ultimi prodotti, insieme a liquori e tabacco erano ormai ri-masti soltanto dei nomi, retaggio di un passato remoto, qual-cosa che veniva raccontato in giro col fiato sospeso da un vecchio garrulo che ne aveva sentito parlare in giovane età e che era a conoscenza, per avervi partecipato di persona o sol-tanto per sentito dire, dell'ultimo debole gesto di sfida da parte di una piccola folla di persone di poco conto, gesto che aveva segnato il loro definitivo annientamento.

Non esistevano più gli spacciatori di caramelle, né i vendi-tori ambulanti che smerciavano clandestinamente bibite gas-sate, ed era sparita anche la vendita furtiva nei vicoli bui di un pacchetto di gomma da masticare.

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Oggi la gente era sana e non c'erano più malanni... o quasi. Oggi, un uomo di settant'anni entrava nella mezza età e pote-va guardare con fiducia al futuro, contando su altri quaran-t'anni di piena attività da dedicare ai propri affari o alla pro-pria professione. Oggi non si moriva più a ottant'anni ma, salvo imprevisti, ci si poteva tranquillamente aspettare di raggiungere il traguardo del secolo e mezzo di età.

Tutto questo ovviamente era per il tuo bene, ma il prezzo da pagare era alto.

«Donald Parker,» chiamò Alden.«Sì,» rispose dal buio la voce.«Mi chiedevo se eri ancora lì.»«Stavo per andarmene. Credevo stessi dormendo.»«Sei riuscito a entrare,» continuò Alden, «Facendo tutto da

solo. Non ti hanno accompagnato i medici.»«Tutto da solo,» confermò Parker.«Allora conosci la strada. Qualcun altro potrebbe seguir-

la.»«Vuoi dire che qualcun altro potrebbe entrare?»«No, intendo dire che qualcuno potrebbe uscire. Seguendo

il tuo percorso a ritroso.»«Non certo uno dei presenti,» precisò Parker. «Ero al mas-

simo delle mie condizioni fisiche e ci sono riuscito per un pelo. Altri otto chilometri e non ce l'avrei mai fatta.»

«Ma se uno...»«Uno in buona salute. Non c'è più nessuno qui in grado di

riuscirci. Nemmeno io.»«Se solo potessi indicarmi la strada.»«Sarebbe una follia,» osservò Parker. «Chiudi il becco e

dormi.»Alden sentì che l'altro si spostava, diretto verso la porta in-

visibile.«Ce la farò,» affermò Alden, non rivolgendosi a Parker, e

nemmeno a se stesso, ma rivolgendosi al buio e al mondo av-

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volto dal buio.Perché doveva farcela. Doveva ritornare a Willow Bend.

A Willow Bend c'era qualcosa che lo aspettava e doveva as-solutamente tornarci.

Parker se n'era andato e non c'era nessuno.Il mondo era tranquillo, buio e umido. La quiete era tal-

mente profonda che il silenzio gli risuonava nella testa.Alden si portò le braccia ai fianchi, sollevandosi sui gomi-

ti. La coperta scivolò via, scoprendogli il petto, e rimase se-duto sul letto, avvertendo il freddo gelido che accompagnava l'oscurità, e l'oscurità allungò le sue braccia, afferrandolo.

Rabbrividì, seduto sul letto.Sollevò cautamente una mano per prendere la coperta ed

avvolgersela addosso. Ma pur con le dita aggrappate al tessu-to ruvido, non la tirò su. Perché non era così, si disse, che doveva comportarsi. Non poteva rannicchiarsi nel letto, na-scondersi sotto le coperte.

Anziché tirarla su, gettò via la coperta, abbassando la mano per tastarsi le gambe. Erano coperte da tessuto... aveva ancora addosso i calzoni, e anche la camicia, ma i piedi era-no nudi. Forse le scarpe erano accanto al letto coi calzini in-filati dentro. Annaspando nel buio, allungò la mano per cer-carle... e non era a letto. Si trovava su una specie di piattafor-ma appoggiata al pavimento, ma non c'era il pavimento, sol-tanto la terra. Strofinando la superficie con la mano poté sen-tire la freschezza e l'umidità della terra compatta.

Le scarpe non c'erano. Le cercò a tentoni in un ampio se-micerchio, sporgendosi il più possibile per raggiungere ed esplorare il pavimento.

Qualcuno le aveva messe da qualche altra parte, pensò. O forse qualcuno le aveva rubate. Era più che plausibile che un paio di scarpe nel Limbo costituissero un tesoro. O forse non le aveva mai avute con sé. Forse non era permesso portarsi le scarpe nel Limbo... forse era anche quella una regola del

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Limbo.Niente scarpe, niente spazzolino da denti, niente cibo ap-

propriato, né medicine, né medici. Però c'era un dottore... un dottore umano che era riuscito a intrufolarsi, un uomo che di propria volontà aveva scelto di relegarsi nel Limbo.

Che razza di uomo poteva essere, si domandò, per fare una cosa del genere? Che motivo poteva averlo spinto a tanto? Che sorta di idealismo o di amarezza poteva averlo sostenuto lungo il cammino? Che genere di amore o di odio lo spinge-va a restare?

Rinunciando alla caccia alle scarpe, tornò a sedersi sulla piattaforma, e scosse meravigliato la testa davanti a ciò che un uomo poteva fare. La razza umana, pensò, era davvero bizzarra. Dava un'adesione puramente formale alla logica e alla ragione, tuttavia erano più spesso l'emotività e l'irragio-nevolezza a disegnarne i fini.

E quello, pensò, poteva essere il motivo per cui adesso i medici erano solo robot. Perché la medicina era una scienza che si poteva servire soltanto con la ragione e con la logica e nei robot non c'era niente che corrispondesse alla debolezza e all'emozione umana.

Con cautela tolse i piedi dalla piattaforma e li posò per ter-ra, sollevandosi lentamente in posizione eretta. Restò fermo in quell'oscura solitudine, con l'umidità del suolo che gli pe-netrava nella pianta dei piedi.

Simbolico, pensò... involontario forse, ma un perfetto, simbolico primo approccio col vuoto di quel posto chiamato Limbo.

Con le mani protese, cercando a tentoni un punto di riferi-mento, avanzò lentamente, strisciando i piedi per terra.

Trovò una parete, fatta di assi verticali segate grossolana-mente, ancora ruvide per la presenza delle schegge lasciate dalla lama della sega, assi mai piallate, e con delle fessure disuguali nei punti dov'erano state unite.

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Tastando le assi, avanzò lentamente fino in fondo alla pa-rete. Muovendosi a tentoni, capì di aver trovato una soglia, ma senza che ci fosse nessuna porta.

Sporse un piede oltre la soglia, cercando il pavimento e lo trovò quasi allo stesso piano della soglia.

Velocemente, come se stesse fuggendo, si gettò al di là della porta e, per la prima volta, ci fu uno squarcio nel buio. Il cielo più luminoso delineava i contorni di alberi imponenti e, ad un livello più basso di quello da lui occupato, poté di-stinguere un chiarore spettrale che immaginò fosse un banco di nebbia al suolo, più che un banco di nebbia sospeso su un lago o sopra un torrente.

Rimase perfettamente immobile, valutando attentamente le proprie condizioni fisiche. Un po' debole, qualche capogiro, una sensazione di freddo allo stomaco e un tremore alle ossa, ma per il resto andava tutto bene.

Alzò la mano per sfregarsi la guancia, e trovò che la barba pungeva. Una settimana o più, pensò, da quando si era rasa-to... una settimana come minimo. Cercò di andare indietro con la memoria nel tentativo di scoprire quando si era fatto la barba per l'ultima volta, ma il tempo si scioglieva come un fluido oleoso e non arrivò a capo di nulla.

Era rimasto senza cibo e per la prima volta dopo tanti gior-ni si era recato nel centro del villaggio.... nemmeno allora avrebbe voluto andarci, ma vi era stato spinto dalla fame. Non c'era tempo per andare, non c'era tempo per nulla, ma prima o poi arrivava sempre il momento in cui si doveva mangiare. Da quanto tempo, si domandò, era rimasto senza un boccone di cibo, incollato al lavoro che stava eseguendo, quel compito così importante che adesso aveva dimenticato, ma che sapeva di aver fatto e di non aver terminato e del quale doveva tornare ad occuparsi. Perché se n'era dimenti-cato? Perché si era ammalato? Era possibile che una malattia portasse una persona a dimenticare?

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Cominciamo dall'inizio, pensò. Affrontiamo la situazione con calma e naturalezza. Un passo alla volta, attentamente, tranquillamente; non facciamo tutto in fretta e furia.

Si chiamava Alden Street e viveva in una grande, alta casa solitaria costruita dai suoi genitori quasi ottanta anni prima, una casa che dall'alto di una collinetta, dominava il villaggio con tutto il suo orgoglio e la sua arroganza. E a causa di quella costruzione che dominava il villaggio dalla cima della collina, a causa dell'orgoglio e dell'arroganza di quella co-struzione, i suoi genitori erano stati odiati, ma per quanto po-tesse esser stato grande quell'odio erano stati comunque ac-cettati, perché suo padre era un uomo erudito e di grande acume negli affari e nel corso degli anni, occupandosi delle ipoteche delle fattorie e di altre proprietà della contea di Ma-taloosa, aveva accumulato una piccola fortuna.

Morti i genitori, l'odio era stato trasferito su di lui, ma la stessa cosa non poteva dirsi dell'accettazione che fino ad al-lora aveva sempre accompagnato di pari passo l'odio; perché sebbene in possesso anche lui di una cultura formatasi in anni di studi in diverse università, non aveva fatto buon uso del proprio sapere... o perlomeno non un uso che avesse reso la sua cultura manifesta al villaggio. Non trattava né ipote-che, né proprietà. Viveva da solo nella grande, alta casa or-mai in rovina, dilapidando, un poco alla volta, i risparmi che suo padre gli aveva lasciato. Non aveva amici e non se ne doleva. A volte non si faceva vedere nel villaggio per parec-chie settimane di fila, anche se tutti sapevano che era a casa. Perché al calar della notte gli abitanti del villaggio vedevano accendersi le luci nell'alta casa solitaria.

Una volta la casa era molto bella, ma ormai l'abbandono e gli anni avevano cominciato a reclamare il loro tributo. Alcu-ne persiane penzolavano sbilenche, e anni prima un forte vento aveva staccato dal camino parecchi mattoni, alcuni dei quali si trovavano ancora adesso in cima al tetto. La vernice

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era scrostata e in parte sparita, e la scaletta d'accesso era sprofondata, e le fondamenta minate, scavate in parte dall'a-lacre opera di un citello e in parte dalle susseguenti piogge. Sul prato, un tempo perfettamente curato, l'erba cresceva ri-gogliosa e disordinata, gli arbusti non conoscevano più le ce-soie, e gli alberi erano diventati delle enormi mostruosità che praticamente impedivano la vista dell'edificio. Le aiuole, cu-rate con tanto amore da sua madre, erano sparite, soffocate ormai da tempo dalle erbacce.

Una vergogna pensò, fermo lì nella notte. Avrei dovuto prendermi cura di quel posto come avevano fatto mio padre e mia madre, ma c'erano così tante cose da fare.

Gli abitanti del villaggio lo disprezzavano per quell'inetti-tudine e quel menefreghismo che avevano permesso all'orgo-glio e all'arroganza di cadere in rovina. Perché, per quanto potessero odiare l'arroganza, in fondo ne andavano fieri. Di-cevano che era un buono a nulla. Dicevano che era pigro e che se ne fregava.

E invece mi importava, pensò. Mi importava tantissimo, non per la casa, non per il villaggio, e nemmeno per me stes-so. Ma per il lavoro... un lavoro che non aveva scelto di pro-pria volontà, ma che gli era stato assegnato.

O forse il suo lavoro, si domandò, non era che un sogno?Cominciamo dall'inizio, si era detto, ed era ciò che inten-

deva fare, però non aveva cominciato dall'inizio; aveva co-minciato praticamente dalla fine. Aveva cominciato da mol-to, molto più lontano dell'inizio.

Era fermo lì, nel buio, con le cime degli alberi stagliate dal chiarore più intenso del cielo, con quella pallida nebbia spet-trale sospesa sull'acqua, e cercava di nuotare contro la marea del tempo per raggiungere l'inizio, per raggiungere l'attimo in cui tutto era cominciato. Sapeva che era un momento lon-tano nel tempo, molto più lontano di quanto pensasse e in qualche modo aveva a che fare con una farfalla di fine set-

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tembre e con l'oro scintillante delle foglie cadenti di un albe-ro di noci.

Era seduto in un giardino, ed era un bambino. Era un gior-no d'autunno e il cielo azzurro era striato di rosso. L'aria era fresca e il sole caldo, quella freschezza e quel calore che sono un patrimonio esclusivo della fanciullezza.

Le foglie cadevano dall'albero in una pioggia dorata e lui tese le mani per afferrarne una, non tentando di catturare una singola foglia, ma tenendo le mani protese, sapendo che pri-ma o poi una foglia gli sarebbe caduta sul palmo... proten-dendo le mani con quella fiducia che soltanto i bambini san-no avere, consumando in quel singolo istante l'unico fram-mento di fede totale che all'uomo sia dato di possedere.

Chiuse gli occhi, cercando nuovamente di catturarla, pro-vando a essere lo stesso bambino di quel giorno, remoto nel tempo, in cui era caduta una pioggia d'oro.

Era lì, ma il tempo era fosco, non splendente, e la luce non sarebbe arrivata... perché stava accadendo qualcosa, perché laggiù nel buio c'era un'ombra in parte avvertita, e un cic ciac di passi di scarpe bagnate.

Spalancò gli occhi e il giorno autunnale era sparito, e nella notte qualcuno stava avanzando verso di lui; come se un pez-zo di buio si fosse staccato, avesse preso forma, e si stesse avvicinando.

Udì il respiro affannoso e il cic ciac delle scarpe; poi i pas-si si fermarono.

«Ehi, tu,» esclamò all'improvviso una voce rauca. «Ehi, tu, laggiù, chi sei?»

«Sono nuovo del posto. Mi chiamo Alden Street.»«Oh, bene,» rispose la voce. «Il nuovo arrivato. Ti stavo

proprio venendo a trovare.»«Gentile da parte tua,» osservò Alden.«Qui ci prendiamo cura gli uni degli altri,» dichiarò la

voce. «Ci vogliamo bene. Ci siamo solo noi. Dobbiamo per

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forza prenderci cura l'uno dell'altro.»«Ma tu...»«Io sono Kitty,» precisò la voce. «Sono quella che ti ha

dato il brodo.»Kitty sfregò il fiammifero e lo tenne tra le mani chiuse a

coppa, come se volesse proteggere dal buio la minuscola fiamma.

Solamente noi tre, pensò Alden... in tre contro il buio. Io, lei e la fiamma. Perché la fiamma faceva parte di loro, era di-ventata un tutt'uno con loro, sostenendo la vita, e il movi-mento, e lottando contro l'oscurità.

Vide che le dita della donna erano sottili e sensibili, deli-cate come un antico vaso di porcellana.

Con la fiammella ancora protetta dalla mano, si piegò e l'accostò a un mozzicone di candela infilato in una bottiglia che, a giudicare dall'altezza, doveva essere appoggiata su un tavolo, anche se il tavolo non si vedeva.

«Non ci capita spesso di avere una luce,» spiegò Kitty. «È un lusso che raramente possiamo permetterci. I fiammiferi sono pochissimi e le candele molto consumate. Abbiamo così poco qui.»

«Non ce n'è bisogno,» dichiarò Alden.«E invece sì che ce n'è bisogno,» obiettò Kitty. «Tu sei

nuovo qui. Non possiamo lasciarti brancolare nel buio. Per un po', all'inizio, ti faremo luce.»

La candela si accese, e cominciò a gocciolare, sprigionan-do tremule ombre che fuggivano freneticamente. Poi la luce si stabilizzò e il suo tenue bagliore disegnò un cerchio nel buio.

«Presto sarà mattino,» annunciò Kitty, «E allora arriverà il giorno, e la sua luce è peggiore del buio della notte. Perché di giorno puoi vedere e capire. Al buio, almeno, puoi pensare che non sia poi così male. Questa però è la condizione mi-gliore... un piccolo squarcio di luce col quale costruirti una

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dimora dentro l'oscurità.»Si avvide che Kitty non era giovane. I capelli bagnati e ac-

cordellati le scendevano lungo il volto, un volto emaciato e sottile, e pieno di rughe. Ma, pensò Alden, dietro quelle cor-delle, dietro quella magrezza e quelle rughe, s'intravedeva una sorta di eterna giovinezza e di vitalità che niente ancora era riuscito a sopraffare.

Adesso che la fiamma si era stabilizzata, lo squarcio di luce si era un po' allargato ed era finalmente in grado di ve-dere il luogo dove si trovavano.

Era piccolo, non più grande di una capanna. Per terra c'era la piattaforma e la coperta, ancora nello stesso punto dove l'aveva gettata togliendosela di dosso. C'era un tavolo dalle gambe sbilenche sul quale era appoggiata la candela, e due pezzi di legno che fungevano da sedie. Sul tavolo c'erano an-che due piatti e due tazze bianche.

Tra le assi verticali che formavano le pareti della capanna c'erano grosse fessure e in più punti i nodi del legno si erano seccati ed erano caduti, lasciando dei buchi che permetteva-no al mondo esterno di sbirciare dentro.

«Questo è il tuo alloggio,» dichiarò Alden. «Non avrei do-vuto disturbarti.»

«Non è il mio alloggio,» spiegò la donna. «E di Harry, ma non è il caso di preoccuparsi.»

«Dovrò ringraziarlo.»«Non puoi,» precisò Kitty. «Harry è morto. Adesso il po-

sto è tuo.»«Non ne avrò bisogno a lungo,» dichiarò Alden. «Non re-

sterò qui. Tornerò indietro.»Kitty scosse la testa.«Ci ha già provato qualcuno?»«Sì. E tutti quelli che ci hanno provato sono stati costretti

a ritornare. Non si può sconfiggere la palude.»«Il dottore ce l'ha fatta.»

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«Il dottore era grande e grosso e in ottime condizioni fisi-che. E c'era qualcosa che lo stimolava.»

«C'è qualcosa che stimola anche me.»La donna alzò una mano per togliersi i capelli dagli occhi.

«Possibile che nessuno riesca a farti desistere da questa fol-lia? Sei davvero convinto di quello che dici?»

«Non posso restare,» affermò Alden.«Domattina,» gli promise, «Ti porterò da Eric.»Nella stanza la fiamma gialla della candela tremolava, e

ancora una volta le foglie dorate scendevano a pioggia. Nel giardino regnava la pace e lui aveva proteso le mani coi pal-mi all'insù, perché le foglie potessero cadervi sopra. Sola-mente una, pensò... una sola foglia è tutto ciò che voglio, un'unica foglia tra i milioni di foglie che stanno cadendo.

Osservò attentamente le foglie che gli passavano accanto, cadendogli intorno, senza che una sola gli si posasse sulle mani. Poi, all'improvviso, notò qualcosa, ma non era una fo-glia... una farfalla, arrivata dal nulla, svolazzando come una foglia, azzurra come la bruma che avvolgeva la cima delle colline lontane, azzurra come l'aria fumosa dell'autunno.

Per un attimo la farfalla gli si posò sul palmo della mano protesa, volando via subito dopo, librandosi tenacemente in aria contro la pioggia di foglie: una pagliuzza azzurra che batteva le ali in un mare dorato.

Rimase a osservarla volare, finché non sparì tra i rami del-l'albero; tornò poi a guardarsi le mani e c'era qualcosa sul suo palmo, ma non era una foglia.

Era una carta di cinque centimetri per sette, o giù di lì, ed era dello stesso colore delle foglie, ma il colore le veniva conferito da quella che sembrava una sua luce interna, per cui brillava di luce propria, anziché di luce riflessa, come in-vece accadeva per il colore delle foglie.

Rimase seduto a guardarla, domandandosi come aveva po-tuto raccogliere al volo una carta, quando non ne scendeva

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nessuna, e dall'albero cadevano soltanto delle foglie. Comun-que l'aveva presa e adesso la stava scrutando e non era di carta, e vi era raffigurato un disegno che non era in grado di capire.

Mentre guardava stupito la carta udì la voce di sua madre che lo chiamava per cena. Si infilò la carta in tasca ed entrò in casa.

E, in normali circostanze, la magia sarebbe svanita e non avrebbe mai più conosciuto un altro giorno d'autunno come quello.

Per ogni essere vivente, pensò Alden Street, esiste soltanto un giorno come quello. Per ogni essere vivente, a eccezione di lui.

Si era infilato la carta in tasca ed era entrato in casa per andare a cena e più tardi quella sera stessa l'aveva riposta nel cassetto dell'armadio di camera sua, perché era lì che l'avreb-be trovata un autunno di parecchi anni dopo.

La raccolse dal suo ripostiglio e mentre la teneva in mano, quel giorno di trent'anni prima gli tornò in mente con tanta chiarezza che riuscì quasi a sentirne la freschezza dell'aria come se fosse successo il giorno precedente. La farfalla era lì, e il suo colore azzurro era così nitido e così fedele all'ori-ginale da fargli capire che quell'immagine era ormai talmente impressa nella sua mente che non l'avrebbe dimenticata mai più.

Aveva riposto attentamente la carta nel suo ripostiglio e si era incamminato verso il villaggio per trovare l'agente immo-biliare che aveva visto il giorno precedente.

«Ma Alden,» protestò l'agente immobiliare, «Adesso che tua madre è morta e tutto il resto, non hai motivo di restare qui. A New York c'è quel lavoro che ti aspetta. Quello di cui mi hai parlato ieri.»

«Sono vissuto qui per troppo tempo,» rispose Alden. «Sono troppo legato a questo posto. Penso che resterò. La

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casa pertanto non è più in vendita.»«E vivrai lì tutto solo? Tutto solo in quella casa enorme?»«Non c'è altro da fare,» affermò Alden.Si voltò e se ne andò, per tornare a casa e riprendere la

carta dal cassetto.Rimase seduto a studiare il disegno raffigurato sulla carta,

uno disegno bizzarro, diverso da qualsiasi disegno avesse mai visto in vita sua; non era stato tracciato a china, né dise-gnato a matita, né tanto meno dipinto col pennello. In nome di Dio, pensò, con cosa diamine era stato disegnato?

E il disegno cos'era? Una stella a più punte? Un porcospi-no appallottolato? O un rametto di uva spina, un rametto in-grandito parecchie volte di quel tipo di uva spinosa?

Sapeva che non aveva alcuna importanza com'era stato di-segnato, né cosa fosse quello strano tessuto rigido, serico, con cui era fatta la carta, né tanto meno cosa rappresentasse il disegno. Ciò che veramente importava era che molti anni prima, quando era ancora un bambino, si era seduto sotto l'albero e aveva teso la mano per raccogliere una foglia ca-dente, e invece aveva raccolto la carta.

Portandosi dietro la carta, andò alla finestra e guardò il giardino. Il grande albero di noci era ancora lì, come quel giorno, ma non era ancora ricoperto d'oro. Per l'oro bisogna-va attendere la venuta del primo gelo, che sarebbe potuto ar-rivare da un giorno all'altro.

Rimase alla finestra, domandandosi se anche questa volta ci sarebbe stata una farfalla, o se la farfalla fosse appartenuta esclusivamente alla sua fanciullezza.

«Presto sarà mattino,» annunciò Kitty. «Ho udito un uccel-lo. Gli uccelli si svegliano poco prima dello spuntar del sole.»

«Parlami di questo posto,» chiese Alden.«È una specie di isola,» spiegò Kitty. «Non un gran che

come isola. Poche decine di centimetri sopra il livello del-

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l'acqua. Circondata da acqua e sudiciume. Ci accompagnano qui in elicottero e ci fanno scendere. Allo stesso modo fanno arrivare il cibo. Non c'è abbastanza cibo per sfamarci. Non c'è abbastanza di nulla. E non abbiamo nessun contatto con loro.»

«Uomini o robot? Nella nave, intendo.»«Non lo so. Nessuno è mai riuscito a vederli. Ho comun-

que il sospetto che siano robot.»«Hai detto che non c'è abbastanza cibo?»Kitty scosse la testa. «È così che deve essere. Fa parte del-

le regole del Limbo. Non ci si aspetta che sopravviviamo. Peschiamo, raccogliamo radici e altre piante. In qualche modo tiriamo avanti.»

«E, ovviamente, moriamo.»«La morte arriva per tutti,» osservò la donna. «Solo che

per noi arriva un po' prima.»Era accovacciata su uno dei pezzi di legno che fungevano

da sedia e la candela, gocciolando, le solcava il volto di om-bre, tanto che sembrava una ragnatela mobile animata da una vita propria. «A causa mia non hai dormito,» dichiarò Alden.

«Posso dormire quando voglio. Non ho bisogno di dormire molto. Inoltre, quando arriva qualcuno nuovo...»

«Non arrivano spesso nuove persone?»«Non tante come una volta. E la speranza non muore mai.

Ogni volta che arriva qualcuno si riaccende la speranza.»«La speranza di cosa?»«La speranza che un nuovo venuto possa portarci una ri-

sposta.»«Possiamo sempre scappare.»«Per essere catturati e riportati qui? Per morire nella palu-

de? Questa, Alden, non è una risposta.»Continuando a dondolarsi avanti e indietro, esclamò: «Im-

magino che non ci sia una risposta.»Ma Alden capiva che era ancora aggrappata a quella spe-

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ranza. Nonostante tutto, Kitty aveva mantenuto viva la spe-ranza.

Un tempo Eric era stato un uomo grande e grosso, ma adesso si era rinsecchito. La forza fisica era quella di sempre, ma la forza d'animo l'aveva abbandonato. Bastava guardarlo, si disse Alden, per capirlo.

Eric era seduto con la schiena contro un albero, una mano in grembo mentre l'altra scavava pigramente lo scarso terric-cio con le dita sottili e sporche.

«E così sei deciso a scappare?» chiese.«Non ha parlato d'altro,» precisò Kitty.«Da quanto tempo sei qui?»«Mi hanno portato qui la notte scorsa. Ero stanco morto.

Non ricordo.»«Non ricordi com'è?»Alden scosse la testa. «E non intendo nemmeno scoprirlo.

Visto che ho intenzione di andarmene, suppongo sia meglio che lo faccia subito, prima che questo posto mi porti alla ro-vina.»

«Lascia che ti spieghi,» insisté Eric. «Lascia che ti spieghi com'è fatta. La palude è enorme e noi siamo proprio al cen-tro. Il dottore è arrivato da nord. Non so come, ma ha loca-lizzato il posto e si è impossessato di qualche vecchia map-pa. Mappe di rilevamento geologico fatte diversi anni fa. Le ha esaminate e ha studiato il miglior percorso per arrivarci. Ce l'ha fatta, in parte perché era forte e sano... ma soprattutto perché è stato fortunato. Se un'altra dozzina di uomini forti come lui ci avessero provato, probabilmente si sarebbero persi tutti quanti per non aver avuto fortuna. Ci sono sabbie mobili e alligatori. Ci sono mocassini acquatici e serpenti a sonagli. C'è il caldo assassino. Ci sono gli insetti e neanche un po' d'acqua che si possa bere.

«Forse, uno che conoscesse il percorso esatto, potrebbe anche riuscirci; ma tu dovresti cercare la strada giusta. Do-

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vresti farti largo a fatica nella palude imbattendoti continua-mente in qualche ostacolo che non saresti in grado di supera-re o di evitare, e allora saresti costretto a tornare indietro e a tentare con un'altra via. Perderesti un sacco di tempo, e il tempo intanto ti lavorerebbe contro.»

«E per quanto riguarda il cibo?»«Se non si è troppo schizzinosi, il cibo non è un problema.

Potresti trovare del cibo lungo il cammino. Non quello giu-sto, ovviamente. La tua pancia potrebbe non gradirlo. Proba-bilmente ti verrebbe la dissenteria. Però non moriresti di fame.»

«Questa palude,» chiese Alden, «Dove si trova?»«Parte nella contea di Mataloosa e parte nel Fairview. Si

tratta di un Limbo locale. Sono tutti Limbo locali. Non ce ne sono di particolarmente grandi; soltanto un mucchio di pic-coli Limbo.»

Alden scosse la testa. «Dalla finestra di casa mia si vede la palude, ma non avevo mai sentito dire che c'era un Limbo.»

«Non è pubblicizzato,» rispose Eric. «Non è segnato sulle mappe, e non è certo qualcosa di cui si senta parlare.»

«Quanti chilometri? Quanti per arrivare al confine?»«In linea retta cinquanta, sessanta chilometri. Ma non si

può procedere in linea retta.»«E il perimetro è sorvegliato.»«E sorvolato da aerei da perlustrazione che tengono d'oc-

chio gli abitanti della palude. Se fai del tuo meglio per stare nascosto, può anche darsi che non riescano a individuarti. Ma è più probabile che ti localizzino e restino ad aspettarti ai confini.»

«E anche se non dovessero scoprirti,» aggiunse Kitty, «Dove andresti? Finiresti nel mirino di un monitor, oppure qualcuno ti individuerebbe e ti denuncerebbe. Nessuno osa aiutare un rifugiato scappato dal Limbo.»

L'albero sotto il quale era seduto Eric si trovava a breve

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distanza dall'agglomerato di capanne che davano riparo agli abitanti del Limbo.

Alden notò che qualcuno aveva preparato il fuoco per la cucina della comunità ed eretto una specie di impalcatura, mentre un tipo vestito di stracci risaliva dalla sponda portan-do il pesce pescato al mattino. Un uomo era sdraiato su una piattaforma all'ombra di una delle capanne. Altri, uomini e donne, se ne stavano seduti in gruppi con aria indifferente.

Nel cielo orientale il sole si era alzato solo in parte, ma il caldo era già soffocante. Gli insetti ronzavano rumorosamen-te nell'aria, mentre gli uccelli volteggiavano pigramente nel pallido cielo azzurro, disegnando ampi cerchi.

«Pensate che il dottore ci lascerebbe vedere le mappe?»«Può darsi,» rispose Eric. «Potresti chiederglielo.»«Gli ho parlato ieri sera,» spiegò Alden. «Mi ha detto che

era una follia.»«Ha ragione,» esclamò Eric.«Il Dottore ha delle strane idee.» osservò Kitty. «Non se la

prende coi robot. Sostiene che stanno semplicemente svol-gendo il compito affidato loro dagli uomini. Sono stati gli uomini a fare le regole; i robot si limitano a eseguirle.»

E ancora una volta, pensò Alden, il dottore aveva ragione.Era comunque difficile riuscire a capire il percorso che

aveva portato l'uomo a quella situazione. Probabilmente era stato di nuovo spinto da un eccesso di enfasi e dalla tipica cecità sociale determinata proprio da quell'eccesso di enfasi.

Certo, pensandoci bene, non aveva proprio senso. Un uomo aveva tutti i diritti di essere ammalato. Se si ammalava era sfortuna sua. Erano fatti suoi e di nessun altro. E invece le cose erano state distorte a tal punto da mettere la malattia allo stesso livello dell'assassinio. Come risultato di quella crociata salutista, promossa senza dubbio a fin di bene, ma finita per sfuggire di mano ai suoi ideatori, quello che una volta sarebbe stato considerato semplice sfortuna adesso era

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diventato un reato.Eric lanciò un'occhiata ad Alden. «Perché sei così ansioso

di andartene? Non servirà a nulla. Qualcuno ti troverà e ti ri-porterà qui. Finiresti comunque per tornare da dove sei parti-to.»

«Il tuo non sarà solo un gesto di sfida?» domandò Kitty. «Qualche volta gli uomini fanno di tutto per dimostrare di non esser stati sconfitti. Per dimostrare che nessuno può sconfiggerli.»

«Quanti anni hai?» chiese Eric.«Cinquantaquattro,» rispose Alden.«Troppo vecchio,» esclamò Eric. «Io ne ho solo quaranta e

non vorrei certo provarci.»«Non sarà forse una sfida?» domandò Kitty.«No,» spiegò Alden, «Non è così. Vorrei che lo fosse. Il

mio non è certo un atto di coraggio. C'è semplicemente un lavoro che ho lasciato incompiuto.»

«Tutti noi,» osservò Eric, «Ci siamo lasciati alle spalle qualcosa di incompiuto.»

L'acqua era nera come l'inchiostro e più che acqua sembra-va olio. Era assolutamente priva di vita; non emetteva nessun luccichio, nessun bagliore; più che riflettere la luce del sole, la assorbiva. Eppure si sentiva che sotto quella superficie si celava la vita, che era soltanto una maschera che la nascon-deva.

Non era un vero e proprio strato d'acqua, ma acqua che si infiltrava, serpeggiando intorno alle gibbosità e alle piccole isole erbose e agli alberi che la sfidavano standovi immersi fin quasi ai rami. E se si dava uno sguardo alla palude, ten-tando di trovarci un qualche disegno, tentando di capire che razza di bestia fosse, la distanza si trasformava in una distesa verde, crudele e spaventosa e l'acqua stessa assumeva quella funesta colorazione verdognola.

Alden si accoccolò ai bordi dell'acqua, fissando la palude,

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affascinato dall'asprezza di tutto quel verde.Sessanta chilometri di quel verde, pensò. Come si poteva-

no affrontare sessanta chilometri di quella distesa? Ed erano più di sessanta chilometri, perché, come aveva detto Eric, ci si imbucava in vicoli ciechi, e bisognava tornare indietro per cercare un'altra strada.

Ventiquattro ore fa, pensò, non era lì. Ventiquattro ore fa, o poco più, aveva lasciato la casa per recarsi nel villaggio a fare un po' di spesa. E avvicinandosi al banco d'angolo, si era ricordato di non essersi lavato i denti... quando era stata l'ul-tima volta?... e che da giorni non si faceva un bagno. Prima di venire in città, avrebbe dovuto farsi il bagno, lavarsi i den-ti e fare tutte le altre cose indispensabili che aveva sempre fatto... o quasi sempre, perché una volta o due gli era capita-to di passare accanto al banco e allora il monitor nascosto aveva preso vita, e aveva cominciato a schiamazzare, facen-do riecheggiare la sua voce metallica lungo tutta la strada: «Alden Street oggi non si è lavato i denti (o non ha fatto il bagno, o non si è pulito le unghie, o non si è lavato la faccia e le mani, o chissà cos'altro.)» E il baccano continuava, ac-compagnato dalle sirene dell'allarme e dal fragore dei colpi che si frammischiavano ad ogni infamante accusa, finché per la vergogna non si era costretti a correre a casa a fare quelle cose che si era tralasciato di fare.

In un piccolo villaggio, pensò, si riusciva a cavarsela ab-bastanza bene. O perlomeno fino a quando non arrivavano i medici a installarti i monitor in casa come avevano già fatto in alcune delle città più grandi. Ma prima di arrivare a tanto avrebbero potuto trascorrere anni.

Comunque a Willow Bend non era molto difficile convi-vere con la legge. Bastava attenersi alle regole e tutto andava per il meglio. E anche se non lo facevi, conoscendo l'ubica-zione dei monitor, uno al banco, e l'altro all'angolo della dro-gheria, potevi sempre tenerti alla larga dalla vigilanza. A più

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di un isolato di distanza non potevano scoprire le tue man-chevolezze.

In ogni caso, generalmente era più sicuro conformarsi alle regole prima di recarsi in città. Cosa che, di regola, aveva fatto, anche se una volta o due se n'era dimenticato ed era stato costretto a correre a casa davanti alla gente che, ferma lungo la strada lo stava a guardare, ridendo sotto i baffi, e i bambini che gli fischiavano dietro, mentre il monitor non cessava il suo baccano infernale. E, sempre in quelle occa-sioni, più tardi nel pomeriggio, o forse la sera, il comitato lo-cale gli telefonava per avvisarlo che sarebbe venuto a riscuo-tere la multa prevista dal registro delle infrazioni minori.

Ma quel mattino non aveva pensato a farsi il bagno, a la-varsi i denti, a pulirsi le unghie, ad assicurarsi che fossero ben tagliate e curate. Aveva lavorato sodo, e troppo a lungo, e aveva perso un sacco di sonno (anche quella una cosa che avrebbe fatto innervosire il monitor) e, riandando indietro con la memoria, ricordava che gli era sembrato di muoversi in una nebbia calda e fitta, indebolito dalla fame, con una mosca affaccendata, forse infuriata, che gli ronzava per la te-sta.

Però si era rammentato in tempo del banco ed era tornato indietro di un isolato per evitarlo. Ma arrivato all'altezza del-l'emporio (a debita distanza dal monitor del banco e da quel-lo dell'emporio) aveva udito l'odiosa voce metallica sbottare in uno spaventoso urlo d'indignazione.

«Alden Street è ammalato!» gridava. «Tenetevi lontani da Alden Street. E' ammalato... che nessuno gli si avvicini!»

Le campanelle suonavano, le sirene strillavano, erano stati sparati i razzi, e in cima all'emporio lampeggiava un'enorme luce rossa.

Aveva fatto marcia indietro, pronto a scappare, consape-vole del brutto tiro che gli era appena stato giocato. Avevano orientato uno dei monitor verso l'emporio, oppure ne aveva-

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no installato un terzo.«Resta dove sei!» gli aveva gridato il monitor. «Mettiti in

mezzo alla strada, lontano dagli altri.»E c'era andato. Aveva smesso di correre e si era portato in

mezzo alla strada ed era rimasto lì, mentre dalle vetrine dei negozi volti pallidi e spaventati lo fissavano a occhi spalan-cati... fissavano a occhi spalancati lui, Alden Street... un uomo ammalato, e un criminale.

Il monitor aveva continuato col suo orribile grido, mentre lui se ne stava là. umiliato, sotto lo sguardo fisso di tutti quei volti pallidi e spaventati; dopo poco (forse pochissimo, an-che se a lui era sembrata un'eternità) dalla sede della contea erano arrivati i robot del corpo medico disciplinare.

Dopo d'allora tutto si era svolto molto in fretta. L'intera storia era venuta allo scoperto. Di come avesse trascurato di fare le visite mediche. Di come fosse stato multato per più di una trasgressione. Di come non avesse contribuito ai pro-grammi delle associazioni minori. Di come non avesse preso parte a nessuno dei vari programmi sanitari e sportivi della comunità.

Allora, in collera, gli avevano detto che non era altro che un lurido sudicione, e le ruote della giustizia si erano mosse con decisa e rapida precisione. Così, alla fine si era ritrovato a fissare l'uomo alto e possente che aveva pronunciato la sua condanna. Anche se non riusciva a ricordare di aver udito la condanna. Era seguito un buio totale, e quello era tutto ciò che riusciva a ricordare fino a quando non si era svegliato in un proseguimento del buio, e aveva visto chini su di lui due volti tondi, simili a dei palloncini.

Nel giro di poche ore era stato arrestato, giudicato e con-dannato. E tutto per il bene dell'umanità... per dimostrare agli altri uomini che non potevano infischiarsene della legge, che sosteneva che bisognava aver cura del proprio corpo e salva-guardare la propria salute. Perché la salute, diceva la legge,

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era il bene più prezioso che si potesse possedere, ed era un reato metterla in pericolo o guastarla. La salute della nazione andava considerata una risorsa naturale d'importanza vitale e, ancora una volta, era un reato metterla in pericolo o guastar-la.

Pertanto, avevano fatto di lui un orribile esempio, e la sto-ria di quanto gli era successo sarebbe apparsa sulle prime pa-gine di ogni giornale pubblicato, e la popolazione sarebbe stata avvertita: le leggi mediche non erano delle semplici ar-gomentazioni leziose, e andavano rispettate.

Si acquattò ai bordi dell'acqua, guardando lontano, oltre la palude, e ascoltando dietro di sé i rumori smorzati prove-nienti dal campo gremito di persone situato vicinissimo ai margini dell'isola... il suono metallico della padella o del te-game, i colpi sordi dell'ascia di qualcuno che tagliava la le-gna, il fruscio del vento contro un pezzo di tela steso come porta davanti a una capanna, il quieto mormorio di voci im-pegnate in conversazioni sommesse e rassegnate.

Implacabile, la palude si guardava attorno... e aspettava. Fiduciosa e impudente, sicura che nessuno sarebbe stato in grado di attraversarla. Le sue trappole erano ben piazzate, le sue reti disseminate ovunque, e aveva una pazienza con la quale nessun uomo si sarebbe potuto misurare.

Forse, pensò, non stava veramente aspettando. Forse era un po' sciocco pensare che stesse aspettando. Probabilmente, non era che un'entità che se ne fregava altamente. Un'entità per la quale la vita umana non significava nulla. Per la quale una vita umana aveva lo stesso valore della vita di un serpen-te, o di quella di una libellula, o di quella di un minuscolo pesciolino. Non avrebbe aiutato nessuno, e non avrebbe mes-so in guardia nessuno, e non possedeva nessuna benevolen-za.

Rabbrividì pensando a quell'enorme indifferenza. Un'in-differenza ancor peggiore del saperla in attesa con maligna

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premeditazione. Perché se ti avesse aspettato almeno voleva dire che era consapevole della tua presenza. Almeno ti avrebbe attribuito un minimo di importanza.

Malgrado il caldo infernale, avvertì il viscido gelo della palude che allungava le sue grinfie per agguantarlo, e indie-treggiò, cercando di scansarla, e mentre lo faceva si rese con-to di non essere in grado di affrontarla. Nonostante tutte le impavide parole che aveva pronunciato, nonostante la sua determinazione, non osava affrontarla. Era troppo imponente perché un uomo potesse combatterla... era troppo verde e in-gorda.

Si raggomitolò su se stesso, cercando di raggomitolarsi in una palla consolatoria, anche se era consapevole che non avrebbe trovato nessuna consolazione. Non ci sarebbe mai stata nessuna consolazione, perché stava per venir meno a tutte le sue promesse.

Fra non molto, pensò, avrebbe dovuto rialzarsi da dov'era rannicchiato e sarebbe tornato alle capanne. E sapeva che una volta arrivato là per lui sarebbe stata la fine: sarebbe di-ventato un tutt'uno con gli altri, quegli altri che come lui, non erano in grado di affrontare la palude. Avrebbe consumato lì la sua esistenza, pescando per procurarsi un po' di cibo, ta-gliando un po' di legna, prendendosi cura degli ammalati, e restando seduto fiaccamente al sole.

Provò un improvviso impeto di rabbia contro un sistema che condannava una persona a una simile esistenza, e male-disse i robot, sapendo, nello stesso momento, che non erano loro i responsabili. I robot non erano che un simbolo di quel-la brutta situazione innescata dalla legge medica.

Ne avevano fatto dei medici e dei chirurghi della razza umana per la loro rapidità e sicurezza, perché il loro giudizio non veniva distorto da un fremito emotivo, perché si dedica-vano al loro lavoro come avevano fatto i migliori medici umani, perché erano instancabili, e non pensavano mai a loro

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stessi.Quello era indubbiamente giusto. Ma, come sempre, la

razza umana aveva perso la testa. Aveva fatto del robot non soltanto un medico bravo e devoto, ma lo aveva reso difen-sore e zar della salute umana, creando, in tal modo, un orco metallico.

Sarebbe mai arrivato il giorno, si domandò, in cui gli uma-ni l'avrebbero fatta finita una volta per tutte coi loro orchi e i loro spiritelli maligni?

La rabbia svanì e, depresso, spaventato, e tutto solo, si ac-quattò accanto all'acqua cupa della palude.

Vigliacco, si disse. E avvertì un sapore amaro nella mente e una gran debolezza nello stomaco.

Alzati, si disse. Alzati e raggiungi le capanne.Ma non lo fece. Rimase lì come se ci fosse stata una spe-

cie di tregua, come se da qualche nuova fonte, mai esplorata, sperasse di attingere il coraggio necessario a entrare nella pa-lude.

Ma sapeva che la sua era una speranza vana.Ormai era rimasto privo di qualsiasi speranza. Dieci anni

fa avrebbe anche potuto farlo. Non adesso però. Aveva perso troppo lungo il cammino.

Udì dei passi alle sue spalle e girò il capo per dare un'oc-chiata.

Era Kitty.La donna si acquattò accanto a lui.«Eric sta radunando la roba,» spiegò. «Fra un po' ci rag-

giungerà.»«La roba?»«Del cibo. Un paio di machete. Un po' di corda.»«Non capisco.»«Non aspettava altro che l'arrivo di qualcuno che avesse il

fegato di affrontare la palude. Ed è convinto che tu ce l'ab-bia. Ha sempre asserito che un uomo solo non avrebbe avuto

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nessuna possibilità, ma in due forse avrebbero anche potuto sperare. Due uomini, aiutandosi tra di loro potrebbero anche avere una possibilità.»

«Ma mi ha detto...»«Certo. Lo so cosa ti ha detto. E non hai mai esitato, nem-

meno quando te l'ha detto in faccia. Così abbiamo capito.»«Avete?»«Certo, noi,» rispose Kitty. «Andremo tutti e tre. Vengo

anch'io.»La palude impiegò quattro giorni a sconfiggere il primo di

loro.Curiosamente fu Eric a essere sconfitto; Eric, il più giova-

ne, il più forte.Inciampò mentre percorrevano una striscia di terra fian-

cheggiata da un lato da un groviglio di arbusti e dall'altro da un acquitrino. Alden, che lo seguiva, lo aiutò a rialzarsi, ma non riusciva a stare in piedi. Barcollando, fece un passo o due poi cadde nuovamente a terra.

«Mi basta un po' di riposo,» osservò Eric, ansimando. «Mi basta un po' di riposo, poi sarò pronto a proseguire.»

Aiutato da Alden, strisciò fino a uno squarcio d'ombra dove si sdraiò di schiena: la fiacca immagine di un uomo stanco e azzoppato.

Kitty gli sedette accanto, allontanandogli con una carezza i capelli dalla fronte.

«Forse dovresti accendere un fuoco,» propose, rivolgendo-si ad Alden. «Qualcosa di caldo potrebbe aiutarlo. Potremmo prenderne un po' tutti e tre.»

Alden uscì dal crinale gettandosi tra gli arbusti. Il terreno era molle e umido e in qualche punto s'immerse in quella lor-dura fin quasi al ginocchio.

Trovò un alberello secco e ne strappò via i rami. Sapeva che il fuoco sarebbe stato stento e di legna completamente secca, perché un qualsiasi segno di fumo avrebbe potuto atti-

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rare l'attenzione della pattuglia di vigilanza che sorvolava la palude.

Tornato sul crinale, si servì di un machete per ricavare dei piccoli pezzi di legno che accatastò con cura, sperando di riuscire ad accenderli con un solo fiammifero, visto che ne avevano pochissimi.

Kitty andò ad inginocchiarglisi accanto, e rimase a osser-varlo.

«Eric si è addormentato,» dichiarò, «E non è soltanto sfi-nito. Penso che abbia la febbre.»

«E metà pomeriggio,» osservò Alden. «Staremo qui fino a domattina. Domani potrebbe star meglio. Un altro po' di ri-poso potrebbe rimetterlo in piedi.»

«E se non dovesse farcela?»«In tal caso ci fermeremo un altro giorno. Tutti e tre. È

quel che abbiamo deciso prima di partire. Che saremmo ri-masti sempre insieme.»

Kitty tese la mano e l'appoggiò sul braccio di lui.«Ero certa che l'avresti detto,» esclamò. «Eric aveva una

totale fiducia in te, e aveva ragione. Ha detto che eri l'uomo che stava aspettando.»

Alden scosse la testa. «Non si tratta solo di Eric,» dichia-rò. «Ma anche degli altri abitanti delle capanne. Ricordi come ci hanno aiutato? Ci hanno dato del cibo, anche se così facendo avrebbero avuto ancor più fame. Ci hanno dato due degli unici sei ami da pesca che possedevano. Uno di loro ha ricopiato la mappa del dottore. Mi hanno fatto un paio di scarpe, dicendo che non ero abituato a camminare scalzo. E sono tutti venuti a salutarci restando a guardarci finché non siamo spariti di vista.»

S'interruppe e la guardò.«Non si tratta solo di noi tre. Ma di tutti noi... tutti noi del

Limbo.»Kitty sollevò una mano e si tolse i capelli dagli occhi.

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«Non ti ha mai detto nessuno,» le chiese, «Che sei bella?»Kitty fece una smorfia. «Tanto tempo fa,» dichiarò. «Ma

sono ormai passati molti anni. La vita è stata troppo dura. Un tempo però penso che avresti potuto dire che ero bella.»

Gli fece un gesto con le mani. «Accendi il fuoco,» disse, «Poi vai a prendere un po' di pesce. Visto che sostiamo per la notte ci servirà un po' di cibo.»

Alden si svegliò allo spuntar dell'alba e rimase sdraiato a contemplare la distesa dell'acqua che, nera come l'inchiostro, ai primi bagliori del giorno, sembrava un pavimento di smal-to nero appena dipinto e non ancora asciutto, e che qua e là mostrava delle residue chiazze di bagnato. Un uccello grande e sgraziato abbandonò il ceppo di un albero secco e, battendo goffamente le ali, scese in picchiata, e sfiorò la superficie dell'acqua, formando delle piccole onde nello smalto nero.

Rigido e indolenzito, Alden si mise a sedere. L'umidità gli faceva dolere le ossa e il freddo della notte gli aveva irrigidi-to i muscoli.

A breve distanza, Kitty era completamente appallottolata e stava ancora dormendo. Guardò verso il punto dove giaceva Eric quando era andato anche lui a riposare, ma non c'era nessuno.

Sconcertato, balzò in piedi.«Eric!» gridò.Non ebbe risposta.«Eric!» gridò di nuovo.Kitty si srotolò e si mise a sedere.«È sparito,» spiegò Alden. «Mi sono appena svegliato, e

non c'era più.»Camminò fino al punto dov'era sdraiato il compagno e sul-

l'erba c'era ancora l'impronta del suo corpo.Si chinò per esaminare il terreno, facendovi scorrere sopra

la mano. Al tocco delle sue dita alcuni fili d'erba si piegaro-no, ma si rialzarono immediatamente. Capì quindi che Eric

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se n'era andato da poco. Se n'era andato... da quando, un'ora, due, o più?

Kitty si alzò e gli andò accanto.Alden si raddrizzò e le si mise di fronte.«Quando ho guardato, prima di andare a letto, stava dor-

mendo,» spiegò. «Borbottava nel sonno, ma dormiva. Aveva ancora la febbre.»

«Forse,» insinuò la donna, «Uno di noi sarebbe dovuto re-stare a vegliarlo. Ma sembrava che stesse bene, ed eravamo talmente stanchi.»

Alden scrutò la striscia di terra da tutte le parti, ma dell'uo-mo sparito non c'era traccia.

«Potrebbe essersi messo a gironzolare,» affermò. «Essersi svegliato in delirio, allontanandosi.»

E se fosse andata così, probabilmente non l'avrebbero più ritrovato. Poteva essere caduto in una pozza d'acqua o essere rimasto intrappolato nel sudiciume o nelle sabbie mobili. Forse era sdraiato chissà dove e, spossato, stava piano piano morendo.

Alden lasciò il crinale per entrare nella folta sterpaglia cre-sciuta nel luridume. Esplorò attentamente il lembo di terra, ma non scorse nessuna impronta, se non le sue, lasciate il po-meriggio prima quando si era allontanato dalla striscia di ter-ra. E se fosse passato qualcuno ci sarebbero state delle trac-ce, perché entrando in quel luridume si sprofondava fino alla caviglia, e in qualche punto fin quasi alle ginocchia.

Mentre si dibatteva tra i cespugli, le zanzare e altri insetti gli ronzavano freneticamente intorno e da qualche parte, in lontananza, un uccello sferrava pesanti colpi.

Si fermò per riposare e riprendere fiato, sventolando le mani davanti al volto per liberarsi dagli insetti.

Il rumore di colpi continuava, accompagnato adesso da un altro suono. Aspettò che quest'ultimo rumore si ripetesse.

«Alden,» udì nuovamente gridare; un grido talmente som-

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messo che a malapena lo sentì.Uscì precipitosamente dai cespugli per tornare sul crinale.

Il grido proveniva dal sentiero che avevano percorso il gior-no precedente.

«Alden!» E questa volta capì che era Kitty e non Eric che lo chiamava.

Scese goffamente dal rilievo correndo in direzione del suono.

Kitty era accovacciata ai margini di una distesa d'acqua; il crinale si era interrotto, lasciando entrare l'acqua.

Si fermò accanto alla donna e guardò giù. Kitty gli stava indicando l'impronta di un piede... un'impronta che andava nella direzione opposta. C'erano altre impronte, tutte dirette in senso contrario, le impronte che avevano lasciato nel fan-go il giorno prima mentre arrivavano lungo il crinale.

«Noi non ci siamo fermati,» dichiarò Kitty. «Abbiamo proseguito. Non possono essere le nostre. Tu non sei sceso laggiù, vero?»

Alden scosse la testa.«Allora devono essere di Eric.»«Tu resta qui,» ordinò.Si tuffò nell'acqua e passò a guado sulla riva opposta, da

dove le impronte si allontanavano, dirette verso il punto da dov'erano arrivati.

Si fermò, e cominciò a gridare:«Eric! Eric! Eric!»Aspettò una risposta. Non ce ne fu nessuna.Dopo aver proseguito per quasi due chilometri giunse

presso il grande acquitrino che avevano attraversato il giorno precedente... quei quasi due chilometri di sporcizia e di ac-qua che li aveva prosciugati delle loro forze. E lì, sull'argine fangoso, le tracce finivano risucchiate nel mare di fango e di acqua, sparendo di vista.

Si acquattò sulla riva scrutando la distesa d'acqua, cospar-

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sa di piccole collinette che alla luce dell'alba erano verdi come il veleno. Non c'era segno di vita, né di un qualche mo-vimento. Una volta, per un attimo, un pesce (o forse nemme-no un pesce, forse semplicemente qualcosa) fendette la su-perficie, formando un cerchio di piccole onde. Ma oltre a quello non ci fu nient'altro.

Faticosamente, tornò indietro.Kitty era ancora accovacciata accanto ai bordi dell'acqua.Alden la guardò, scuotendo la testa.«È tornato indietro,» affermò. «Non so come abbia fatto.

Era debole, e...»«Determinazione,» esclamò Kitty. «E forse anche devo-

zione.»«Devozione?»«Ma non capisci?» chiese la donna. «Sapeva di essere am-

malato e sapeva di non potercela fare. E sapeva anche che saremmo rimasti con lui.»

«Ma è quello che avevamo stabilito di comune accordo,» dichiarò Alden.

Kitty scosse la testa. «Così non ci stava. Ci sta dando un'opportunità.»

«No!» gridò Alden. «Non glielo permetterò. Tornerò a cercarlo.»

«Oltre quell'ultimo tratto di palude?» chiese Kitty.Alden annuì. «Chissà, forse è stato in grado di farcela.

Molto probabilmente è riuscito a tener duro raggiungendo in qualche modo l'altra sponda.»

«E se invece non ce l'avesse fatta? Se non fosse mai riusci-to ad attraversare la palude?»

«Ovviamente in tal caso non lo troverò. Ma devo provar-ci.»

«Quel che mi preoccupa,» dichiarò Kitty, «È quello che farai se dovessi trovarlo. Come faresti con lui? Cosa gli dire-sti?»

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«Lo riporterei indietro,» affermò Alden. «Oppure resterei con lui.»

Kitty alzò il viso e i suoi occhi erano pieni di lacrime. «Gli restituiresti il regalo che ti ha fatto,» osservò, «Glielo gette-resti in faccia. Lo umilieresti, non attribuendo nessunissimo valore al suo ultimo, mirabile gesto.»

Guardò Alden. «Faresti una cosa del genere?» gli chiese. «Ha compiuto un'azione bella e dignitosa. Se ci pensi, forse è l'ultima opportunità che gli resta per comportarsi in modo decoroso. E tu vorresti impedirglielo?»

Alden scosse la testa.«Farebbe lo stesso per te,» continuò Kitty. «Non ti prive-

rebbe del tuo ultimo sprazzo di dignità.»Il mattino dell'ottavo giorno Kitty aveva la febbre, e si agi-

tava, lamentandosi nel sonno. Il giorno prima avevano vissu-to un vero e proprio incubo alla luce del sole; un incubo fatto di fango, di erba tagliente, di un caldo infernale, di serpenti e di zanzare, di una speranza che si faceva sempre più esigua, e di una paura crescente che si insinuava abulicamente nelle viscere.

Era stata una follia provarci, pensò Alden, una follia, fin dall'inizio... tre persone che non avevano nessun diritto di provarci, troppo fuori forma, troppo male equipaggiate e, al-meno nel suo caso, troppo vecchie per lanciarsi in una simile impresa. Per attraversare sessanta chilometri di palude biso-gnava essere giovani e forti, mentre l'unico requisito di cui erano tutti e tre dotati era la determinazione. Forse, pensò, una determinazione malriposta, spinti, ognuno di loro, da un qualcosa che molto probabilmente nessuno dei tre era in gra-do di capire.

Perché, si domandò, Kitty ed Eric avevano voluto scappa-re dal Limbo?

Era qualcosa di cui non avevano mai parlato. Se ne aves-sero discusso a lungo chissà, forse avrebbero finito per farlo

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lo stesso. Ma non ne avevano mai parlato. Non avevano avu-to né il tempo, né il fiato per le chiacchiere.

Poiché, solo ora se ne rendeva conto, non esisteva una vera possibilità di fuga. Si poteva scappare dalla palude, ma non si poteva sfuggire al Limbo. Perché, una volta entrati nel Limbo si diventava una parte di esso e non c'era più posto per te nel mondo esterno.

Forse, si disse, era stato soltanto... un gesto di sfida. Come lo stupido, nobile gesto di Eric che quando si era accorto di essere ammalato li aveva lasciati.

E il perché della loro decisione tornò a tormentarlo.Nonostante la luce abbagliante del mezzogiorno, gli basta-

va chiudere gli occhi per rivedere ancora una volta tutta la scena... un uomo affamato, inerme, moribondo, che era usci-to strisciando dalla palude per nascondersi nel folto di un ce-spuglio cosicché, se anche i suoi compagni fossero venuti a cercarlo, non l'avrebbero trovato. Le mosche gli strisciavano sul volto e lui non osava (o non poteva?) sollevare la mano per allontanarle. Sul ceppo di un albero morto, uno sparuto uccello nero aspettava pazientemente, mentre in acqua un al-ligatore restava immobile a osservarlo; e tutt'intorno, una moltitudine di creature strisciavano furtivamente, saltellando qua e là nell'erba e tra gli arbusti striminziti.

La scena non cambiava mai; un'immagine terribile, e sem-pre uguale, dipinta con un unico colpo di pennello dall'im-maginazione che poi se n'era andata, lasciando lì la sua ope-ra, con tutti i suoi appariscenti dettagli.

Adesso era Kitty ad essere sdraiata là, e a lamentarsi, strin-gendo i denti... una donna vecchia e inutile, vecchia e inutile come lo era lui del resto. Kitty, col suo volto rugoso, i capelli radi e quella sua terribile magrezza, ma ancora tutta presa da quell'ossessionante senso dell'eterna giovinezza, profonda-mente racchiuso nel suo corpo.

Doveva andare a prendere dell'acqua, pensò, per bagnarle

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il volto e le braccia e infilargliene a forza un po' in gola. Ma quell'acqua non era certo la miglior acqua da bere. Era vec-chia, stagnante; puzzava di piante marce e aveva il sapore delle antiche cose morte che ci si sforzava di non immagina-re.

Raggiunse la piccola sacca di Kitty ed estrasse la casse-ruola ammaccata e annerita dal fuoco; l'unico utensile che avevano preso con loro.

Procedendo con grande cautela lungo la minuscola isola dove avevano trascorso la notte, si avvicinò alla riva e la per-lustrò attentamente, cercando un punto dove l'acqua apparis-se un po' meno velenosa. Ma era perfettamente consapevole che era un'idiozia; indipendentemente da dove la guardavi, l'acqua era sempre la stessa.

L'acqua crudele di una palude crudele che da sette giorni li stava combattendo, che aveva cercato di intrappolarli e di trattenerli, che li aveva addentati e punti, cercando di farli impazzire, che aveva aspettato, sapendo che prima o poi uno scivolone o un passo falso li avrebbe messi alla sua mercé.

Rabbrividì a quel pensiero. Si rese conto che era la prima volta che ci pensava. Non ci aveva mai pensato prima; si era limitato a combatterla. Tutti i suoi sforzi erano stati rivolti al superamento del metro di terreno che gli stava di fronte e, dopo quello, al metro successivo.

Misurato soltanto con la resistenza umana, il tempo aveva perso ogni sua accezione. La distanza non aveva più nessun significato, prolungandosi in ogni direzione. Una distanza che ci sarebbe sempre stata; che non avrebbe mai avuto fine.

Erano stati sette giorni massacranti e già dopo i primi due aveva capito che non ce la poteva fare, che non gli era rima-sto più niente per affrontare un altro giorno. Ma ogni giorno gli era rimasto quel tanto di forza sufficiente a superarne un altro ancora, e così ne aveva vissuto ciascuno fino all'amaro epilogo.

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Dei tre, pensò, era l'unico a essere ancora in piedi. E un'al-tra cosa buffa: adesso sapeva di possedere ancora abbastanza energia da poter affrontare un altro giorno, da poter affronta-re molti altri giorni. Avrebbe potuto resistere per l'eternità, se ci fosse voluta un'eternità. Ormai la palude non poteva più fermarlo. In un qualche punto di quell'orrendo groviglio ver-de aveva trovato una forza nascosta che gli aveva dato una nuova carica.

Com'era potuto succedere, si domandò. Cos'era quella for-za interiore? Da dov'era scaturita?

Era forse dovuta alla tenacia del suo proposito?E si ritrovò alla finestra, domandandosi se questa volta ci

sarebbe stata una farfalla, o se la farfalla avesse fatto parte soltanto della sua fanciullezza. Ma senza mai mettere in dub-bio, nemmeno per un attimo, che la magia fosse ancora lì, una magia che era stata talmente fulgida e forte da non poter essere offuscata da trent'anni di vita.

E così era uscito e si era seduto sotto l'albero come quel giorno, da bambino, con le mani tese, i palmi all'insù, e quel-la strana carta appoggiata sul palmo. Percepiva l'incisività della magia, e sentiva il profumo della nuova freschezza del-l'aria, ma non poteva essere, perché non c'erano foglie gialle che cadevano dal cielo.

Aveva aspettato la rugiada e quando era arrivata era uscito di nuovo e si era seduto sotto l'albero con le foglie che cade-vano come lente gocce di pioggia. Aveva chiuso gli occhi e annusato l'aria autunnale, inquinata da un debolissimo odore di fumo, e aveva sentito il calore del sole che lo avvolgeva, ed era tutto esattamente come quel giorno di tanto tempo fa. Quel giorno d'autunno della sua infanzia non era andato per-duto; era ancora con lui.

Era seduto là, con le mani tese e la carta sul palmo, ma non succedeva niente. Poi, come invece non era successo quel giorno di tanti anni fa, una foglia scese fluttuando, e

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cadde in cima alla carta. Un pezzetto d'oro, perfetto, che re-stò lì per un po'.

Poi sparì all'improvviso e al suo posto, in cima alla carta, si materializzò l'oggetto che prima vi era raffigurato... una specie di palla, di sette, otto centimetri di diametro, circonda-ta da punte aguzze, simile a un enorme chicco di uva spina. Poi, ronzando, gli bisbigliò qualcosa e Alden sentì il ronzio diffondersi per tutto il corpo.

In quel momento gli sembrò che qualcosa fosse entrato in lui, o che lui fosse entrato a far parte di qualcosa... un'entità pensante, viva (forse addirittura in grado d'amare) che stava fremendo in qualche punto vicinissimo a lui, ma allo stesso tempo lontanissimo. Come se quell'entità, qualunque cosa fosse, avesse allungato un dito e l'avesse toccato con l'unico scopo di fargli capire che era lì.

Si chinò per attingere l'acqua, immergendo la casseruola ammaccata e annerita dal fuoco in un punto dove l'acqua sembrava leggermente più pulita e più limpida che altrove.

Inoltre c'era qualcosa in quel punto, pensò. Qualcosa con cui aveva familiarizzato nel corso degli anni, senza mai co-noscerla completamente. Un'entità gentile, perché lo aveva trattato con gentilezza. E un'entità con un suo fine preciso e che lo aveva guidato verso quel fine, ma dolcemente, con la stessa dolcezza con cui un insegnante conduce uno studente verso una meta che alla fine risulterà essere la meta che lo studente stesso si era prefissata.

Il piccolo, ronzante, chicco d'uva spina, finché fosse stato necessario, rappresentava la via d'accesso verso quella meta. Anche se, pensò, il termine “via d'accesso” era completa-mente sbagliato, perché non c'era mai stata nessuna via d'ac-cesso, nel senso che non aveva mai visto quell'entità, né le si era mai avvicinato, né aveva mai avuto la possibilità di sco-prire cosa fosse. Sapeva solo che c'era, che viveva, che aveva una mente, e che poteva comunicare.

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Non parlare... comunicare. E si rammentò che verso la fine la comunicazione era stata eccellente, anche se la compren-sione che avrebbe dovuto accompagnarsi alla comunicazione non era mai stata del tutto chiara.

A tempo debito, pensò. Ma c'era stata un'interruzione; ecco perché doveva tornare indietro il più in fretta possibile. Perché l'entità non avrebbe capito per quale motivo l'avesse lasciata. No, non l'avrebbe capito. Avrebbe potuto pensare che era morto, sempre che avesse il concetto di quella condi-zione che definiamo morte. Oppure che l'avesse abbandona-to. Oppure poteva pensare di avere in qualche modo fallito.

Riempì la casseruola di acqua e si rialzò restando immobi-le nella immensa quiete del mattino.

Adesso rammentava. Ma perché non se l'era ricordato pri-ma? Perché gli era sfuggito? Come aveva fatto a dimenticar-lo?

Lo udì lontanissimo, e riudendolo si sentì pervadere dalla speranza. Aspettò nervosamente di risentirlo avvertendo la necessità di sentirlo una seconda volta per essere certo che fosse vero.

E, sommesso, ma sicuramente presente nell'aria del matti-no riudì... il canto di un gallo.

Si girò di scatto per tornare di corsa al punto dove si erano accampati.

Correndo, inciampò e la pentola gli volò via di mano. Si rialzò in tutta fretta, lasciando la pentola dov'era caduta.

Si precipitò da Kitty e cadde in ginocchio accanto a lei.«Solo pochi chilometri!» gridò. «Ho sentito un gallo can-

tare. La fine della palude non può essere molto lontana.»Abbassò le mani e le infilò in quelle di lei; la sollevò e,

cullandola, la tenne stretta a sé.Kitty si lamentò, agitandosi.«Buona, ragazza, ne siamo quasi fuori.»Si alzò a fatica da in ginocchio e restò in piedi. La sollevò

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tra le braccia, per poterla trasportare meglio.«Ti porto io,» esclamò. «Posso portarti per tutto il tragit-

to.»Era più lontano di quanto pensasse. E la palude era più

perfida che mai... come se, intuendo che la caparbia creatura che avanzava incespicando potesse sfuggire alla sua presa, avesse raddoppiato i suoi tranelli e la sua malvagità nell'e-stremo tentativo di agguantarlo e di inghiottirlo.

Aveva abbandonato il poco cibo che avevano. Aveva ab-bandonato tutto quanto. Aveva preso solo Kitty con sé.

Quando la donna raggiunse uno stadio di semi coscienza e, gridando, gli chiese dell'acqua, si fermò accanto a una pozza, trasportò l'acqua con le mani, le bagnò il viso e l'aiutò a bere, riprendendo poi il cammino.

Nel tardo pomeriggio la febbre cessò e Kitty riprese com-pletamente conoscenza.

«Dove sono?» domandò, fissando la verde oscurità della palude.

«Tu chi sei?» gli chiese e Alden cercò di spiegarglielo. Non si ricordava di lui, né della palude, né del Limbo. Le parlò di Eric, ma non si rammentava più nemmeno di lui.

Esattamente la stessa cosa, ricordò, che era successa a lui. Non si era ricordato. Solamente dopo ore, giorni, gli era tor-nato in mente, a brandelli.

Sarebbe stato così anche per lei? Era stato così anche per Eric? Non c'era stato nessun mezzo sacrificio, nessun atto di eroismo nel gesto di Eric? Era stata soltanto una fuga cieca dall'orribile pozzo in cui si era svegliato per scoprire se stes-so?

E se tutto quello era vero, indipendentemente da ciò che era andato storto, indipendentemente dal fattore che aveva scatenato la febbre e l'oblio, gli era allora successa la stessa cosa che era successa a Kitty e a Eric?

Che si trattasse di una qualche infezione da cui era affetto?

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Perché se era così, allora era possibile che avesse contami-nato tute le persone presenti nel Limbo.

Proseguì per tutto il pomeriggio e la sua forza lo stupì, perché non doveva essere così forte.

Era consapevole che era la sua forza d'animo a farlo anda-re avanti, la smisurata eccitazione di essersi quasi liberato da quella palude vendicativa.

Ma la forza d'animo avrebbe ceduto, lo sapeva. Non pote-va conservarla a lungo. La forza d'animo avrebbe ceduto, l'eccitazione si sarebbe annebbiata, affievolita, e le energie lo avrebbero abbandonato. Allora non sarebbe stato che un vec-chio che trasportava una vecchia attraverso una palude e non avrebbe avuto alcun diritto di pensare di poterla sfidare da solo, tutto solo col fardello di un altro essere umano.

Ma la forza non lo mollò. Se la sentiva scorrere nelle vene. Calò la sera e spuntarono le prime pallide stelle, ma adesso l'andare era più agevole. Già dall'ultima ora o giù di lì, si rese conto, era diventato più agevole.

«Mettimi giù,» consigliò Kitty. «Posso camminare anche da sola. Non è più necessario che mi porti.»

«Solo un altro po',» rispose Alden. «Ormai siamo quasi ar-rivati.»

Adesso il terreno era più solido e dallo strofinio contro i calzoni capì che stava camminando su un tipo d'erba diver-so... non più l'erba che cresceva nella palude, un'erba ruvida, acuminata come la lama di un coltello, ma un'erba più mor-bida, più delicata.

Una collina si profilò in lontananza e la scalò, e adesso il terreno era solido.

Raggiunse la cima dell'altura e si fermò. Lasciò andare Kitty, mettendola in piedi.

L'aria era limpida, pungente e pura. Una leggera brezza fa-ceva stormire le foglie di un albero vicino, e la luce perlacea di una luna tinteggiava il cielo orientale.

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Alle loro spalle c'era la palude che avevano sconfitto, e da-vanti a loro la tersa, solida campagna che alla fine li avrebbe sconfitti. Anche se “alla fine”, si disse Alden, gli sembrava un po' troppo remoto. Nel giro di pochi giorni, forse di poche ore, sarebbero stati scovati e catturati.

Con un braccio intorno alla cintura di Kitty per sorregger-la, iniziò la discesa della collina verso la sconfitta finale.

Nell'aia della casa colonica la luce della luna illuminava lo sgangherato camioncino a sponde basse. Non c'erano luci nella casa che spiccava, tetra e desolata, sulla cima della col-lina. Dall'aia, un lungo viottolo scendeva ripido dall'altura per unirsi alla strada principale a meno di un chilometro di distanza.

Era immaginabile che nel camion non ci fosse la chiave d'accensione, ma avrebbero potuto collegare i fili e spingere fuori l'automezzo, iniziando poi la discesa col motore in fol-le. Una volta in movimento, avrebbero ingranato la marcia, e il camion si sarebbe messo gradualmente in moto.

«Finiranno per beccarci, Alden,» osservò Kitty. «Non c'è un modo più sicuro per farci trovare. Rubare un camion...»

«Sono soltanto cinquanta chilometri,» spiegò Alden. «Al-meno così diceva il cartello. E potremmo arrivare prima che ci sia troppo fermento.»

«Ma sarebbe più sicuro andare a piedi e nasconderci.»«Non c'è tempo,» esclamò l'uomo.Perché adesso ricordava. Gli era tornato in mente tutto

quanto... la macchina che aveva costruito in sala da pranzo. Una macchina che era come un secondo corpo, come un abi-to da indossare. Era una scuola a due direzioni, o forse un la-boratorio a due direzioni, perché quando era dentro veniva a conoscenza di quell'altra vita, e quell'altra vita veniva a co-noscenza della sua.

Aveva impiegato anni a costruirla, anni per capire come assemblare i componenti che quegli altri, o quell'altro, gli

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avevano fornito. Erano tutti pezzi piccoli e ce n'erano a mi-gliaia. Ogni volta che aveva teso la mano, pensando intensa-mente alle foglie gialle che cadevano nell'azzurra bruma del-l'aria autunnale, gli avevano messo nel palmo della mano un altro pezzo di quella strana macchina.

E adesso il congegno era là, senza ospiti, in quella stanza sbiadita, cupa, con loro che si si stavano sicuramente doman-dando cosa gli fosse successo.

«Andiamo,» ingiunse, rivolgendosi bruscamente a Kitty. «Non ha senso star qui ad aspettare.»

«Potrebbe esserci un cane. Potrebbe esserci un...»«Dobbiamo correre il rischio.»Uscì furtivamente dal folto degli alberi e si diresse verso il

camion attraversando velocemente l'aia rischiarata dalla luce della luna. Raggiunto il veicolo, diede uno strattone al cofa-no, che però non voleva saperne di aprirsi.

Kitty strillò, una sola volta; era più un grido d'avvertimen-to che di paura e Alden si voltò di scatto. La sagoma si trova-va a meno di quattro metri di distanza, col metallo che riflet-teva la luce lunare e il simbolo del Corpo Medico Disciplina-re inciso sul petto.

Alden indietreggiò contro il camion e restò lì a fissare il robot, rendendosi conto che il camion non era stato che un'e-sca. E pensò a come i medici conoscessero bene la razza umana per piazzare quel genere di trappola... medici dotati non solo di una perfetta conoscenza del funzionamento del corpo umano, ma altrettanto ferrati sui segreti della mente.

Kitty dichiarò: «Se non ti avessi fatto perder tempo. Se non mi avessi trasportato...»

«Non avrebbe fatto nessuna differenza,» rispose Alden. «Probabilmente ci avevano già individuato fin dall'inizio e seguivano le nostre tracce.»

«Giovanotto,» esclamò il robot. «Lei ha completamente ragione. Vi stavo proprio aspettando. Devo ammettere,» con-

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tinuò il robot, «Di provare una certa ammirazione per voi. Siete gli unici che siano mai riusciti ad attraversare la palu-de. Qualcun altro ci ha provato, ma finora non c'era riuscito nessuno.»

Allora era così che doveva finire, si disse Alden con una certa amarezza, non tanta però quanta avrebbe dovuto pro-varne. Perché fin dall'inizio non c'era mai stata che una tenue speranza. Sapeva che a ogni passo del suo cammino si era avvicinato sempre più alla sconfitta... e a una situazione sen-za speranza, come lui stesso ammetteva.

Se solo fosse riuscito a raggiungere la casa di Willow Bend; lo aveva tanto sperato, lo avrebbe talmente appagato. Raggiungerla, e far sapere agli altri che non li aveva abban-donati.

«Allora, cosa succede adesso?» domandò al robot. «Si toma al Limbo?»

Il robot non ebbe mai l'opportunità di rispondere. Si udì all' improvviso un rumore di passi che correvano pesante-mente nell'aia.

Il robot si voltò e scorse un oggetto attraversare come un lampo la luce lunare; cercò di scansarlo, ma non ci riuscì.

Alden si lanciò in un tuffo basso e possente, mirando alle ginocchia del robot. Colpì con la spalla il metallo dell’auto-ma e il sasso, nel suo volo, andò a sbattere fragorosamente contro la corazza dell'uomo metallico. Alden sentì il robot, già sbilanciato dal sasso, vacillare per il forte impatto contro la sua spalla.

L'automa cadde pesantemente al suolo e Alden, finito an-che lui a terra, riuscì a divincolarsi, rialzandosi prontamente in piedi.

«Kitty!» gridò.Ma si accorse che Kitty era occupata. Era inginocchiata

accanto al robot che tentava di rialzarsi, e teneva stretta la pietra che era appena stata lanciata, con la mano sollevata

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sopra il cranio dell'automa. Il sasso si abbassò sul cranio me-tallico che risuonò come una campana... e tornò di nuovo a risuonare, e poi ancora.

Il robot smise di lottare, restando inerte a terra, ma Kitty continuava a martellargli il cranio.

«Basta, Kitty,» esclamò un'altra voce.Alden si voltò, guardando in direzione della voce.«Eric,» gridò. «Ma ti avevamo lasciato laggiù!»«Lo so,» rispose Eric. «Eravate convinti che fossi tornato

nel Limbo. Ho trovato il punto dove mi avevate inseguito.»«Invece sei qui. E hai scagliato la pietra.»Eric si strinse nelle spalle. «Sono riuscito a tornare in me.

Da principio non sapevo dove fossi, né chi fossi; niente di niente. Ma poi mi è tornato in mente tutto quanto. E a quel punto ho dovuto fare una scelta. A dire il vero non avevo scelta. Non c'era proprio niente che mi attirasse nel Limbo, così ho cercato di raggiungervi, ma stavate andando troppo in fretta.»

«L'ho ucciso,» annunciò spavaldamente Kitty. «E non me ne frega niente. Volevo ucciderlo.»

«Non ucciso,» precisò Eric. «Presto ne arriveranno altri e potrà essere aggiustato.»

«Dammi una mano col cofano del camion,» chiese Alden. «Dobbiamo andarcene da qui.»

Alden scese dal macinino ed Eric andò a parcheggiarlo dietro la casa.

«Forza, andiamo,» li incitò Alden.La porta sul retro era aperta, proprio come l'aveva lasciata

lui. Entrò in cucina e accese la luce del soffitto.Dalla porta che immetteva nella sala da pranzo, scorse l'in-

distinta intelaiatura della struttura che aveva costruito.«Non possiamo restare a lungo,» affermò Eric. «Sanno che

abbiamo il camion. E molto probabilmente immaginano an-che dov'eravamo diretti.»

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Alden non rispose, perché non c'era risposta. Non c'era nessun posto dove potessero andare.

Dovunque fossero andati, li avrebbero scovati, perché a nessuno poteva essere permesso di beffeggiare le leggi medi-che, e di sfidare la giustizia sanitaria. Nessuno al mondo avrebbe osato aiutarli.

Era corso via dal Limbo per raggiungere quel luogo... an-che se, allora, non sapeva verso cosa stava correndo. E aveva corso non tanto per andarsene dal Limbo, quanto per rag-giungere la macchina che era in sala da pranzo, subito dopo la cucina.

Entrò nella stanza e accese la luce: lo strano meccanismo cominciò a luccicare al centro della camera.

Era una gabbia grande come un uomo e al suo interno c'e-ra posto soltanto per lui. E doveva avvisarli che era tornato.

Entrò nello spazio riservato a lui e l'intelaiatura e i suoi misteriosi accessori sembrarono ripiegarsi, avvolgendolo completamente.

Rimase fermo nel punto esatto e chiuse gli occhi, pensan-do a delle foglie gialle che cadevano. Si trasformò di nuovo nel bambino seduto sotto l'albero, e non fu la sua mente, ma quella del fanciullo a vedere l'oro e l'azzurro, ad annusare il profumo di vino dell'aria autunnale, a sentire il calore del sole d'autunno.

Si lasciò prendere completamente dall'autunno e dal tempo andato e aspettò la risposta, ma non ci fu nessuna risposta.

Aspettò, ma l'oro scivolò via, e l'aria non sapeva più di vino, e non c'era più il calore del sole, ma un vento pungente che faceva volar via un mare nero fatto di nulla assoluto.

Aveva capito... aveva capito, ma non voleva ammetterlo. Caparbiamente, rimase ad aspettare, sbiancato in volto, coi piedi immobili nel punto esatto.

Ma anche la cocciutaggine si affievolì e capì che se n'era-no andati e non aveva più senso aspettare, perché non sareb-

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bero ritornati. Si girò lentamente, e uscì dalla gabbia.Era rimasto troppo a lungo lontano.Non appena uscì dalla gabbia notò la fiala sul pavimento e

si fermò a raccoglierla. Ricordava che quel giorno (quanto tempo fa?) l'aveva bevuta per cena quando era tornato nella stanza dopo parecchie ore trascorse nella gabbia.

Gliela avevano materializzata loro, spiegandogli che avrebbe dovuto berla e ricordava ancora il sapore amaro che gli aveva lasciato sulla lingua.

Kitty ed Eric, fermi sulla soglia, lo stavano fissando; Al-den sollevò lo sguardo dalla fiala e li guardò a sua volta.

«Alden,» chiese Kitty. «Cosa ti è successo?»Scosse la testa. «Va tutto bene,» rispose. «Non è successo

niente. Purtroppo loro non ci sono più, tutto qui.»«Qualcosa è successo,» ribatté la donna. «Sembri più gio-

vane di vent'anni, se non di più.»Lasciò cadere la fiala e sollevò le mani davanti a sé, sotto

la luce, e si accorse che le rughe erano sparite. E le sue mani erano più forti, più ferme. Mani più giovani.

«Guarda il tuo volto,» esclamò Kitty. «È più pieno. Le zampe di gallina sono sparite.»

Si passò il palmo della mano sulla guancia e gli sembrò che lo zigomo fosse meno pronunciato, che avesse messo su carne e il viso fosse diventato meno spigoloso.

«La febbre,» esclamò. «Ecco cos'è stato... la febbre.»Perché riusciva vagamente a ricordare. Ricordare proprio

no, visto che non era nemmeno sicuro di averlo mai saputo. Ma adesso riusciva a capire. Era così che era sempre andata. Non come se avesse imparato qualcosa, ma come se l'avesse ricordata. Gli mettevano in testa qualcosa e la lasciavano conficcata lì, e poi la cosa si schiudeva e cominciava lenta-mente a strisciargli addosso.

E adesso capiva.La gabbia non era un insegnante. Era un congegno di cui

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si servivano per studiare l'uomo, per imparare tutto quello che c'era da sapere sul suo corpo, sul suo metabolismo e su tutto il resto.

Poi, quando avevano imparato tutto quello che c'era da im-parare, avevano scritto la ricetta e gliela avevano data.

Giovanotto, lo aveva chiamato il robot nell'aia. Ma non ci aveva fatto caso. Giovanotto, ma aveva troppe cose a cui pensare per far caso a quelle due parole.

Ma il robot si era sbagliato.Perché non era soltanto giovane.Non solamente giovane... non giovane per il privilegio di

essere giovane, ma giovane perché nel suo corpo scorreva uno strano virus alieno, o qualunque cosa fosse, che gli ave-va risistemato il fisico, che lo aveva rimesso in forma, che gli aveva dato il potere di sostituire i tessuti vecchi con dei tessuti nuovi.

Medici al servizio dell'universo, pensò, ecco che cos'era-no. Meccanici mandati ad aggiustare, a rinnovare, e a rimet-tere in forma il macchinario protoplasmatico che diventava sempre più vecchio e arrugginito.

«La febbre?» gli chiese Eric.«Sì,» rispose Alden. «E, grazie a Dio, è contagiosa ed en-

trambi l'avete presa da me.»Li guardò attentamente, ma non c'era ancora traccia del

cambiamento, anche se sembrava che Eric cominciasse a cambiare. E Kitty, pensò, chissà come diventerà bella, quan-do comincerà ad avere effetto su di lei! Sì, bella, perché non aveva mai perso parte della sua bellezza ancora visibile, no-nostante l'età.

E tutti gli abitanti di Willow Bend... anche loro erano stati esposti al contagio, così come le creature condannate al Lim-bo. E, chissà, forse perfino il giudice, il volto alto e possente che si era profilato maestoso sopra di lui. Fra un po' la febbre e quella sana giovinezza si sarebbero diffuse per il mondo in-

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tero.«Non possiamo restare qui,» dichiarò Eric. «I medici sta-

ranno arrivando.»Alden scosse la testa. «Ormai non c'è più bisogno di scap-

pare,» esclamò. «Non possono più farci del male.»Perché la legge medica era finita. Ormai non c'era più bi-

sogno di medici, non c'era più bisogno delle associazioni mi-nori, non c'era più bisogno dei programmi di sviluppo fisico.

Ovviamente la gente ci avrebbe messo un po' a capire co-s'era successo, ma presto l'avrebbero capito perfettamente e allora i medici si sarebbero potuti rottamare o impiegare per altri lavori.

Si sentì più forte che mai. Abbastanza forte, se necessario, da riattraversare a piedi la palude per tornare nel Limbo.

«Se non fosse stato per te,» osservò Kitty, «Non saremmo mai venuti via dal Limbo. Per fortuna che eri talmente pazzo da avere anche il fegato che ci mancava.»

«Be',» rispose Alden, «Vedi di ricordartene fra alcuni gior-ni, quando sarai di nuovo giovane.»

CLIFFORD D. SIMAK

Physician to the Universe, di Clifford D. Simak, Copy-right © 1963 by Ziff-Davis Publications, Inc., da Fantastic. Traduzione di Leila Moruzzi.

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SIMAK E LE OMBRE

Dopo avere letto lo splendido romanzo breve di Chad Oli-ver, ci siamo messi a cercare un racconto che affrontasse lo stesso argomento da un'angolazione diversa, ma con suffi-cienti punti di contatto da permettere un raffronto stimolan-te. Abbiamo impiegato diverso tempo, abbiamo letto diverse opere una più interessante dell’altra, e finalmente ci siamo imbattuti in questo Simak di un'annata tra le migliori del grande scrittore del Wisconsin, un racconto che parte da presupposti che ricordano quelli ai Oliver.

Anche qui, la Terra ha rischiato la catastrofe, per uno sfruttamento irrazionale delle proprie risorse. Anche qui, la strada dello spazio viene considerata la migliore per ripara-re al male fatto. Non c'è la scoperta dell’antigravità, e la Terra non è rifiorita come un paradiso terrestre: ma gli uo-mini sembrano decisi, una volta per tutte, a cercare nuovi spazi e nuove risorse senza commettere gli stessi errori che hanno impoverito il loro pianeta. E così, trovato un mondo simile a un paradiso terrestre, Stella IV, i coloni si mettono al lavoro, per realizzare un progetto quasi utopistico di uso intelligente delle risorse, senza alterare ma anzi miglioran-do il ciclo naturale del pianeta.

Anche qui, l’umanità si è in qualche modo evoluta, non troppo ma almeno un poco: quanto basta per capire che gli indigeni di un nuovo pianeta ne sono i proprietari, ed è ne-cessario il loro consenso per installarvisi, per quanto possa essere grande il bisogno di nuovi spazi e di nuove frontiere.

Non ci sono le proibizioni che l'ONU di Oliver ha impo-sto, forse perché in fondo al cuore Simak è più sognatore e ottimista del suo collega. Ma Stella IV è popolato da alieni... Ombre, le deliziose, inarrivabili Ombre che Simak spesso pone nelle sue opere, creature strane che stanno con i terre-stri, sembrano buffe e bizzarre, ma nascondono in realtà un

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segreto.Simak conduce la storia sul piano dell’ironia, è vero, e il

suo affetto per gli alieni traspare da ogni riga: ma anche qui, si tratta di vedere cosa possa offrire l’uomo agli abitan-ti di altri mondi, come possa stabilirsi un accordo fruttuoso nell’interesse comune.

La risposta non è nuova, per Simak... è evidente che l’au-tore di Millville crede nella nostra capacità di affascinare e divertire le altre razze dell’universo. Ma costituisce una va-riante intelligente e gradevole dello stesso fondamentale problema impostato da Oliver. E soprattutto, nessuno dei due autori pone in dubbio la necessità, quasi la fatalità, del-l'espansione dell’uomo nello spazio. E il nuovo orizzonte, un orizzonte che presto o tardi raggiungeremo.

Speriamo di avere proposto un confronto interessante, an-che se non è necessario per apprezzare una storia assoluta-mente simakiana, con una trovata ironica e gentile.

Una bella storia, di uno degli scrittori che più hanno dato al movimento fantascientifico.

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IL MONDO DELLE OMBRE

Mi buttai giù dal letto prestissimo, per poter dedicare un’ora o due di lavoro al mio settore del modello prima che Greasy preparasse la sbobba che lui chiamava colazione. Quando uscii dalla tenda trovai Benny, la mia Ombra, che mi stava aspettando. C’erano anche altre Ombre nei paraggi, ferme ad aspettare i loro umani. Una situazione che, se solo ci si soffermava a rifletterci un po’, era proprio da pazzi. Per fortuna, nessuno si prendeva il disturbo di farlo, visto che or-mai ci eravamo abituati.

Greasy aveva acceso la stufa della cucina da campo e si vedevano le spire di fumo uscire dal camino. Tra l’acciotto-lio delle stoviglie sentivo Greasy cantare appassionatamente. Quello infatti era il suo momento chiassoso. Per tutta la mat-tinata era chiassoso e molesto, ma verso metà pomeriggio di-ventava quieto come un topolino. Era allora che ricorreva al-l’intrusore, correndo un rischio davvero serio.

C’erano leggi che rendevano la vita molto dura a chi dete-neva un intrusore. Se Mack Baldwin, sovrintendente del pro-getto, avesse saputo che Greasy ne aveva uno, avrebbe fatto scoppiare un casino infernale. Ma io ero l’unico a saperlo.

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L’avevo scoperto per caso e nemmeno Greasy sapeva che ne ero al corrente, e avevo tenuto la bocca chiusa.

Salutai Benny, ma non mi rispose. Del resto, non lo faceva mai, non avendo la bocca per rispondermi. Immagino che non mi sentisse nemmeno, visto che non aveva nemmeno le orecchie. Quelle Ombre erano davvero dei tipi strampalati. Non avevano una bocca, non avevano orecchie, e non aveva-no nemmeno un naso.

Però avevano un occhio, piazzato nel bel mezzo della fac-cia, più o meno dove ci sarebbe dovuto essere il naso, se avessero avuto un naso. E quell’occhio compensava la man-canza di orecchie, di bocca e di naso.

Era quasi otto centimetri di diametro ed era fatto esatta-mente come un occhio; privo di iride e di pupilla, non era che uno squarcio di luce e di ombra che continuava a girare completamente, per cui non risultava mai uguale. A volte sembrava una tazzina di brodaglia schifosa già leggermente deteriorata, altre volte invece era sodo e splendente come l’obiettivo di una macchina fotografica; altre poi sembrava triste e solo, come l’occhio di un cane sofferente.

Be’, non c’è che dire, quelle Ombre erano proprio dei sog-getti bizzarri. Sembravano tante bambole di pezza prima che qualcuno avesse trovato il tempo di dipingerne i lineamenti. Erano umanoidi, ed erano forti e attivi, e fin dall’inizio ave-vo sospettato che non fossero affatto stupidi. Su quest’ultimo punto c’era qualche divergenza d’opinioni, e molti dei ragaz-zi continuavano a considerarli dei selvaggi ululanti. Tranne il piccolo particolare che non ululavano per niente... non aven-do la bocca per farlo. Niente bocca per poter urlare o man-giare, niente naso per poter annusare o respirare, niente orec-chie per poter udire.

Basandosi sulla statistica nuda e cruda, avremmo dovuto catalogarli tranquillamente tra le impossibilità assolute. Solo che loro esistevano, e, per questo, se la cavavano niente

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male. Anzi, se la cavavano proprio bene.Non indossavano indumenti. D’altronde, per quanto con-

cerne il pudore non avevano certo bisogno di coprirsi. Erano totalmente privi di organi sessuali, proprio com’erano privi di lineamenti. Non erano altro che un branco di bambole di pezza con un occhio enorme in mezzo alla faccia.

Però indossavano quella che avrebbe potuto essere una de-corazione, oppure un gioiello o forse l’emblema del Regno delle Ombre. Portavano anche una stretta cintura alla quale era appesa una borsa o un sacco dove tenevano una serie di gingilli che quando camminavano tintinnavano. Nessuno era mai riuscito a vedere cosa ci fosse in quei sacchetti. Dalla cintura salivano due bretelle che si incrociavano sul petto, gi-rando poi intorno alle spalle per formare quella che nel suo insieme non era che una semplice imbracatura con un’enor-me gemma incastonata nel punto d’incrocio delle bretelle. Fastosamente cesellato, il gioiello luccicava come un dia-mante, e chissà, avrebbe anche potuto esserlo, ma nessuno era in grado di affermare se lo fosse oppure no. Nessuno si era mai avvicinato abbastanza da riuscire a scoprirlo. Se solo ti azzardavi a fare la più piccola mossa verso il gioiello, l’Ombra spariva.

Sì, proprio così. Spariva.Salutai Benny che, naturalmente, non mi rispose; feci il

giro del tavolo e cominciai a lavorare al modello. Benny si sistemò alle mie spalle per osservarmi all’opera. Mostrava un grande interesse verso quel modello. Veramente sembra-va interessatissimo a tutto ciò che facevo; dovunque andavo, lui mi seguiva. Be’, dopotutto, era la mia Ombra.

C’era una poesia che cominciava così: Ho una piccola ombra... Mi era ritornata spesso in mente, ma non riuscivo a ricordare chi l’avesse scritta, né come continuava. Una poe-sia molto, molto vecchia, che leggevo da bambino. Chiuden-do gli occhi ricordavo ancora l’immagine che accompagnava

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le parole, la fotografia dai colori intensi di un bambino in pi-giama che saliva le scale con una candela in mano e la sua ombra riflessa sulla parete opposta, di fronte alle scale.

Mi dava una certa soddisfazione l’interesse di Benny per il mio modello, anche se ero perfettamente consapevole che forse non significava niente. Probabilmente si sarebbe dimo-strato altrettanto interessato se anziché lavorare al modello, avessi contato dei fagioli.

Ero orgoglioso di quel modello e vi dedicavo molto più tempo di quanto ne avessi a disposizione... da quando avevo scritto per intero il mio nome, Robert Emmet Blake, sulla base di plastica, e che tutta quella faccenda divenisse un po’ più ambiziosa di quanto avessi presupposto inizialmente.

Mi ero lasciato trasportare dall’entusiasmo, il che era più che comprensibile. A un ambientalista come me non capita-va ogni giorno l’opportunità di poter progettare da zero un pianeta completamente vergine, con le stesse caratteristiche della Terra. Il disegno si riferiva solamente a un piccolo set-tore del progetto iniziale ma includeva quasi tutti gli elemen-ti compresi nell’intera area ed ero stato io a inserirvi le opere di pubblica utilità... le dighe e le strade, i posti più adatti per gli impianti energetici e quelli per le fabbriche, i servizi per la gestione dei boschi e per la tutela delle acque, e tutto il re-sto.

Mi ero appena messo a lavorare, quando udii un gran trambusto proveniente dalla cucina da campo. Sentii Greasy imprecare, e dei rumori sordi, come delle randellate. Poi si spalancò la porta della cucina ed entrò un’Ombra, tallonata da Greasy. Quest’ultimo aveva in mano una padella e se ne stava servendo con una splendida ed efficace tecnica di rove-scio, davvero magnifica a vedersi. A ogni balzo sbatteva la padella in testa all’Ombra, con delle bestemmie da farti riz-zare i capelli.

L’Ombra se la diede a gambe attraverso il campo, con

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Greasy alle calcagna. Che strano, pensai guardandoli: un’Ombra che se solo provavi ad avvicinarti al gioiello spa-riva in quattro e quattr’otto, adesso se ne stava lì a subire quel trattamento da parte di Greasy.

Quando, fianco a fianco, si avvicinarono al mio tavolo da lavoro, Greasy, che non era al massimo della forma, rinunciò all’inseguimento.

Coi pugni sul fianco, in atteggiamento belligerante, si fer-mò accanto al tavolo; la padella, ancora ben stretta in mano, sporgeva, formando un perfetto angolo retto col suo corpo.

«Non ammetto che quel puzzone entri nella mia cucina,» dichiarò, respirando affannosamente. «È già una rottura ve-derlo gironzolare lì fuori che mi spia dalla finestra. E già una rottura cascargli addosso ogni volta che mi giro. Ma che ven-ga anche a ficcare il naso in cucina, be’, questo non posso proprio sopportarlo; caccia le dita in tutto quello che vede. Se fossi Mack metterei il diavolo alle costole di ognuno di quei puzzoni, se hanno delle costole, e li farei correre così in fretta e così lontano, da portarli...»

«Mack ha altre cose di cui preoccuparsi,» risposi, piuttosto brusco. «Con tutte le avarie che si sono verificate, il progetto è in notevole ritardo rispetto al previsto.»

«Sabotaggio, ecco di cosa si tratta,» mi corresse Greasy. «Puoi scommetterci il tuo ultimo dollaro. Sono loro, le Om-bre, che manomettono le macchine, te lo dico io. Se stesse in me le spedirei dritte dritte fuori dalla regione.»

«Ma è la loro regione,» protestai. «Erano qui prima ancora che arrivassimo noi.»

«Be’, il pianeta è grande,» aggiunse Greasy. «Potrebbero andarsene da qualche altra parte.»

«Ma hanno tutti i diritti di restare qui. Ricordati che questo pianeta è la loro casa.»

«Non hanno casa quelli,» ribatté Greasy.Si girò di scatto, dirigendosi verso la cucina. La sua Om-

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bra, che per tutto il tempo si era tenuta a prudenziale distan-za, si affrettò a seguirlo. A quanto pareva, non le importava niente delle botte ricevute. Ma non si poteva mai dire cosa potesse passare per la mente di un’Ombra, perché non mani-festava mai apertamente i propri pensieri.

Dicendo che non avevano una casa, Greasy non si era espresso correttamente. In realtà aveva inteso dire che non avevano un villaggio, che in pratica vivevano in gruppi, libe-ri da ogni preoccupazione, un po’ come degli zingari. A mio avviso, comunque, il pianeta era la loro casa e avevano tutti i diritti di andare ovunque volessero, servendosi a loro piaci-mento di ogni angolo di territorio. Se poi non si stabilivano in una zona particolare, se non avevano dei villaggi, e proba-bilmente neanche dei rifugi, né coltivavano i campi, non ave-va nessuna importanza.

Pensandoci bene, non avevano motivo di coltivare i campi, visto che non avevano una bocca con cui mangiare; ma se non mangiavano, come facevano a vivere? E se...

Capite come stavano le cose? È proprio per questo motivo che non valeva la pena stare troppo a pensare alle Ombre. Se solo tentavi di capirli, finivi per confonderti sempre di più.

Rivolsi con la coda dell’occhio un’occhiata furtiva a Ben-ny, per vedere come aveva preso il fatto che Greasy le avesse suonate al suo amico, ma Benny era lo stesso di sempre. Una bambola di pezza.

Gli uomini cominciarono a uscire dalle tende e le Ombre si misero al galoppo per raggiungerli, e ovunque andava un umano, la sua Ombra gli si trascinava dietro.

Il centro del progetto era situato in cima a quella collina e dalla mia postazione, accanto al tavolo del mio modello, lo vedevo spiegarsi e venire alla luce, come una cianografia.

Ecco, laggiù c’erano gli scavi per l’edificio amministrati-vo, e là i pali lucenti del centro commerciale, e al di là del centro commerciale i primi solchi irregolari che a tempo op-

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portuno si sarebbero trasformati in una strada fiancheggiata da ordinate file di case.

Vedendolo così, non sembrava tanto un coraggioso inizio su un mondo completamente nuovo, ma entro breve lo sareb-be diventato. Lo sarebbe già stato fin d’ora, se non avessimo avuto tanta sfortuna. E se la sfortuna fosse da attribuire alle Ombre o a qualcos’altro era una questione che andava af-frontata, e in qualche modo risolta.

Era una faccenda della massima importanza. Perché su quel mondo l’uomo non aveva intenzione di ripetere i vecchi errori commessi sulla Terra. Su quel mondo, uno dei pochi pianeti scoperti finora con caratteristiche analoghe a quelle terrestri, l’uomo non avrebbe sprecato le preziose risorse, fa-cendole andare in fumo come aveva fatto sul vecchio pianeta natale. Avrebbe fatto un uso programmato dell’acqua e del suolo, del legname e dei minerali, con l’accortezza di resti-tuire quanto veniva prelevato. Quel pianeta non sarebbe stato depredato e prosciugato come la Terra. Sarebbe stato utiliz-zato con intelligenza e governato come un’attività ben gesti-ta.

Era bello starsene lì a contemplare le montagne lontane, oltre la valle e le pianure, pensando a che mondo magnifico sarebbe diventato per l’umanità.

Il campo ormai si stava animando. Davanti alle tende gli uomini erano intenti a lavarsi per la colazione tra uno schia-mazzo di grida amichevoli e scherzi scatenati. A un certo punto udii delle violente imprecazioni provenienti alla zona degli impianti e capii immediatamente cosa stava succeden-do. Le macchine, o perlomeno parte delle macchine, si erano messe di nuovo a fare i capricci e metà della mattinata sareb-be andata sprecata per le riparazioni. Era davvero strano, pensai: ogni notte che Dio mandava quelle macchine andava-no in tilt.

Dopo un po’ Greasy fece suonare la campanella della co-

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lazione e ognuno mollò quel che stava facendo per precipi-tarsi a mangiare, incalzato dalla propria Ombra.

Essendo più vicino alla cucina della maggior parte di loro, ed essendo tutt’ altro che una schiappa nella corsa, mi becca-vo sempre uno dei posti migliori nel grande tavolo all’aperto. E visto che si trovava subito fuori dalla porta della cucina, ero il primo a procacciarmi una porzione supplementare di cibo non appena Greasy la portava fuori. Mentre correvo al mio posto, m’imbattei in Greasy che, come sempre in quelle circostanze, stava farfugliando e brontolando, anche se a vol-te ero convinto che la sua fosse soltanto una posa per na-scondere la soddisfazione che provava nel constatare che la sua arte culinaria era ancora apprezzata.

Mi sedetti accanto a Mack, e un attimo dopo Rick Thorne, uno degli operai addetti alle macchine, conquistò l’altro po-sto libero al mio fianco. Di fronte a me c’era Stan Carr, un biologo, e in fondo al tavolo, dalla parte opposta, era seduto Judson Knight, il nostro ecologista.

Non perdemmo tempo in chiacchiere; ci buttammo sulle focacce di grano, sulla carne di maiale e sulle patatine fritte. In tutto l’Universo non c’è niente che riesca a stuzzicarti l’appetito come l’aria mattutina di Stella IV.

Una volta calmato l’appetito, potevamo anche passare il tempo in modo civile.

«E anche stamattina si è ripetuta la solita storia,» esclamò amareggiato Thorne, rivolgendosi a Mack. «Più della metà delle attrezzature è inutilizzabile. Ci vorranno ore prima di riuscire a ripararle.»

Continuò a ingozzarsi con aria imbronciata, masticando il cibo con superflua aggressività. Lanciando un’occhiata ar-rabbiata a Carr, seduto dalla parte opposta del tavolo, gli chiese, «Perché non cerchi di scoprire cosa succede?»

«Io?» esclamò Carr, sbalordito. «Perché proprio io? Non ci capisco niente in fatto di macchine, né mi interessa farlo.

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Per quanto valide possano essere, non sono che degli stupidi aggeggi.»

«Sai benissimo cosa intendo,» rispose Thorne. «La colpa non è delle macchine. Non si incasinano mica da sole. La colpa è delle Ombre, e visto che sei un biologo, è affar tuo, e...»

«Ho altro a cui pensare,» obiettò Carr. «Devo risolvere questo problema dei lombrichi, e non appena l’avrò risolto Bob vuole che mi occupi del modello comportamentale di una dozzina di diverse specie di roditori.»

«Spero che tu ci riesca,» osservai. «Ho la sensazione che non appena proveremo a metter mano ai raccolti qualcuna di quelle piccole canaglie possa crearci un sacco di guai. Vorrei sapere per tempo qual è il meccanismo che mette in moto queste creature.»

Era così che andava, invariabilmente, pensai. Potevi pren-dere tutte le precauzioni possibili, ma di problemi ne sbucava sempre fuori qualcuno da sotto un masso o un arbusto. Sem-brava proprio che non si riuscisse mai ad arrivare in fondo all’elenco.

«Non sarebbe poi tanto male,» si lamentò Thorne, «Se al-meno dopo aver eseguito il loro sporco lavoro le Ombre ci lasciassero riparare il danno in santa pace. Invece no. Sei lì che lavori e loro ti stanno col fiato sul collo, coi volti sepolti tra i motori fino alle spalle, e non appena ti muovi vai a sbat-tere contro uno di loro. Un giorno o l’altro,» continuò con aria feroce, «Prendo una chiave a rullino e faccio piazza pu-lita intorno a me.»

«Li preoccupa quello che potresti fare alle loro macchine,» rispose Carr. «Si sono prese a cuore quelle macchine proprio come hanno adottato noi.»

«Questo lo pensi tu,» ribatté Thorne.«Forse stanno cercando di studiare le macchine,» dichiarò

Carr. «Forse le manomettono apposta, in modo da poterle

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esaminare attentamente quando vai a ripararle. Finora non hanno trascurato un solo pezzo dei macchinari. L’altro gior-no mi spiegavi che c’è sempre qualcosa di diverso che non va.»

Con l’aria solenne di un gufo, Knight dichiarò: «Ho pensa-to molto a questa situazione.»

«Oh, davvero,» esclamò Thorne, e da come lo disse era chiaro che pensava che le riflessioni di Knight non potessero avere alcun peso.

«E credo di aver scoperto un possibile motivo,» spiegò Knight. «Perché se sono le Ombre a causare i guasti, dovran-no pure avere un motivo per farlo. Non lo credi anche tu, Mack?»

«Sì, suppongo di sì,» rispose Mack.«Per una qualche ragione,» continuò Knight, «Queste Om-

bre sembrano provare simpatia per noi. Ce l’hanno dimostra-to non appena ci siamo stabiliti qui, e da allora non si sono mai staccate da noi. Dal modo in cui si comportano è eviden-te che vogliono che restiamo qui, e forse è proprio per questo che manomettono le macchine... per costringerci a restare.»

«O per spingerci ad andarcene,» osservò Thorne.«Va bene,» intervenne Carr, «Ma perché dovrebbero desi-

derare che restiamo? Cos’è che li attrae in noi? Se solo riu-scissimo a capirlo, potremmo trovare il sistema di avviare con loro una qualche trattativa.»

«Be’, non saprei,» ammise Knight. «Potrebbero esserci un sacco di motivi diversi.»

«Indicane almeno tre,» lo sfidò perfidamente Thorne.«Con piacere,» rispose Knight, e lo disse come se stesse

infilzando un coltello sul lato sinistro dello stomaco di Thor-ne. «Forse stanno acquisendo qualcosa da noi; non chiedete-mi cosa però. O forse si preparano a ricattarci per qualcosa d’importante. Oppure contano di trasformarci, anche se non riesco proprio a immaginare cosa ci trovino di deplorevole in

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noi. O forse ci adorano. Oppure il loro comportamento po-trebbe essere dettato semplicemente dall’amore.»

«È tutto?» chiese Thorne.«Non è che l’inizio,» rispose Knight. «Forse ci stanno stu-

diando e potrebbero aver bisogno di più tempo per riuscire nel loro intento. Può darsi che ci stiano punzecchiando inten-zionalmente per ottenere una qualche reazione...»

«Studiandoci!» gridò, scandalizzato, Thorne. «Ma se non sono che una massa di pidocchiosi selvaggi!»

«Non la penso affatto così,» replicò Knight.«Non portano abiti,» tuonò Thorne, cacciando un pugno

sul tavolo. «Non hanno nessun attrezzo. Non hanno un vil-laggio. Non sanno costruire neanche una capanna. Non han-no un governo. Non sono nemmeno in grado di parlare o di sentire.»

Thorne mi aveva proprio disgustato.«Be’, con questo la faccenda è chiusa,» dichiarai. «Tornia-

mo a lavorare.»Mi alzai dalla panca, ma non avevo fatto più di un passo o

due quando dalla baracca delle comunicazioni vidi scendere con passo pesante uno degli uomini che agitava un pezzo di carta stretto in mano. Si trattava di Jack Pollard, l’addetto alle comunicazioni che svolgeva anche la mansione di esper-to in elettronica.

«Mack!» stava gridando. «Ehi, Mack!»Mack si alzò rumorosamente in piedi.Pollard gli porse il foglio di carta. «Stava arrivando quan-

do Greasy ha suonato il corno,» spiegò, ansimando. «Ho avuto dei problemi a riceverlo. Viene da molto lontano.»

Non appena Mack finì di leggere il messaggio, il suo volto si fece serio e scarlatto.

«Cosa succede, Mack?» volli sapere.«E in arrivo un ispettore,» spiegò, soffermandosi su ogni

parola. Era arrabbiato di brutto. E forse altrettanto spaventa-

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to.«Potrebbe essere un male?»«Probabilmente ci licenzierà tutti quanti,» affermò Mack.«Ma non può farlo!»«Questo lo dici tu. Siamo indietro di sei settimane rispetto

al programma e questo progetto scotta più di un rogo. I poli-tici terrestri hanno fatto un sacco di promesse, e se non sa-ranno mantenute si scatenerà un putiferio. Se non facciamo qualcosa, e la facciamo in fretta, ci licenzieranno, inviando una nuova squadra.»

«Ma, tutto considerato, non ce la siamo poi cavata così male,» osservò pacatamente Carr.

«Non fraintendere le mie parole,» spiegò Mack. «La nuo-va squadra non farà niente di meglio di quanto abbiamo fatto noi, ma per salvare l’apparenza dovranno dimostrare di aver fatto qualcosa, e alla fine a pagare saremo noi. Se almeno riuscissimo a risolvere questa faccenda dei guasti, ci reste-rebbe ancora una possibilità. Se potessimo dichiarare all’i-spettore: “Sì, certo, abbiamo avuto qualche difficoltà, ma ab-biamo risolto il problema e adesso tutto procede per il me-glio...” se gli potessimo dire così, allora potremmo anche riu-scire a salvarci la pelle.»

«Mack, sei convinto anche tu che sia colpa delle Ombre?» chiese Knight.

Mack allungò la mano per grattarsi la testa. «Devono esse-re loro per forza. Altrimenti, non saprei cos’altro pensare.»

Da un altro tavolo qualcuno gridò: «È chiaro che la colpa è di quelle maledette Ombre!»

Gli uomini si stavano alzando da tavola per venire a radu-narsi intorno a noi.

Mack sollevò le mani. «Voi tornate a lavorare. Se a qual-cuno venisse in mente qualche idea, venga da me nella mia tenda che ne parliamo.»

Cominciarono tutti a blaterargli qualcosa.

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«Idee!» ruggì Mack. «Ho detto idee! Se qualcuno dovesse presentarsi senza una valida idea, gli ridurrò lo stipendio per essersi allontanato dal lavoro.»

Si calmarono un po’.«Ah, un’altra cosa,» continuò Mack. «Niente maniere forti

con le Ombre. Continuate a comportarvi come avete sempre fatto. Chiunque provi a picchiarle, lo licenzio.»

«Andiamo,» ingiunse poi, rivolgendosi a me.Lo seguii, e Knight e Carr si unirono a noi. Thorne invece

non venne. Ero convinto che l’avrebbe fatto.All’interno della tenda di Mack ci sedemmo intorno a un

tavolo ingombro di cianografie, progetti e fogli pieni di nu-meri e grafici buttati giù estemporaneamente.

«Suppongo che la colpa debba essere attribuita alle Om-bre,» dichiarò Carr.

«Qualche effetto particolare dovuto alla gravità?» suggerì Knight. «Qualche singolare aspetto delle condizioni atmosfe-riche? Un effetto distorsivo legato alle radiazioni cosmiche?»

«Può darsi,» rispose Mack. «Mi sembra tutto un po’ trop-po forzato, ma sono pronto ad aggrapparmi a qualsiasi pa-gliuzza vogliate porgermi.»

«Quel che mi lascia perplesso,» dichiarai, «È che la squa-dra che ha effettuati i rilievi non abbia fatto alcun accenno alle Ombre. Erano convinti che il pianeta non fosse abitato da nessuna forma di intelligenza. Non hanno trovato nessuna traccia di cultura. Il che era positivo, perché significava che il progetto non sarebbe stato intralciato da dispute legali per l’acquisizione dei diritti essenziali. Eppure, nell’attimo stes-so in cui abbiamo messo piede sul pianeta, le Ombre si sono precipitate da noi, come se ci avessero avvistati da un bel pezzo, e non stessero che aspettando il nostro atterraggio.»

«Un altro fatto curioso,» osservò Carr, «È come si siano immediatamente accoppiati con ognuno di noi... un’Ombra

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per ogni uomo, come se avessero già programmato tutto quanto, come se ci avessero sposati, o qualcosa del genere.»

«Dove vuoi arrivare?» sbottò Mack.«Mack, dov’erano le Ombre quando è venuta la squadra di

rilevamento?» chiesi. «Siamo perfettamente sicuri che siano nativi di questo pianeta?»

«Se non lo sono,» domandò Mack, «Come hanno fatto ad arrivare fin qui? Non hanno nessun apparecchio, non usano macchinari, non possiedono neppure gli attrezzi più elemen-tari.»

«Però hanno quella specie di sacca dalla quale non si sepa-rano mai, e quelle loro gemme non hanno un aspetto natura-le,» osservai. «C’è qualcosa di discordante in tutta questa faccenda, è vero, e non riesco a pensarci chiaramente.»

Le mie parole non interruppero il filo del ragionamento principale.

«C’è un altro particolare nel rapporto della squadra di rile-vamento che mi ha lasciato perplesso,» affermò Knight. «L’avete letto anche voi...»

Annuimmo. Non solo l’avevamo letto, l’avevamo studiato e imparato a memoria. Durante il lungo viaggio verso Stella IV avevamo vissuto letteralmente giorno e notte con quel rapporto in mano.

«Il rapporto di rilevamento parlava di sagome a forma co-nica,» spigò Knight, «Disposte in fila, quasi a costituire una linea di confine. Ma non le hanno avvistate se non da note-vole distanza. Non avevano idea di cosa fossero. Si sono li-mitati a registrarle come un particolare privo di effettiva im-portanza.»

«Hanno registrato un sacco di cose come prive di effettiva importanza,» dichiarò Carr.

«In questo modo non approderemo a nulla,» si lamentò Mack. «Stiamo solo facendo delle chiacchiere accademiche.»

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«Se solo riuscissimo a comunicare con le Ombre,» osservò Knight, «A qualcosa potremmo approdare.»

«Ma non possiamo!» ribatté Mack. «Ci abbiamo provato, senza nessun risultato. Ci abbiamo provato col linguaggio dei segni, con la mimica, riempiendo risme di carta di grafici e disegni, e a cosa siamo approdati? A nulla. Jack ha monta-to quel trasmettitore elettronico, provandolo su di loro. Con che risultato? Nessuno: raggianti e cordiali, sono rimasti a guardarci con quel loro occhione, ed è finita lì. Abbiamo per-fino tentato con la telepatia...»

«Qui ti sbagli, Mack,» obiettò Carr. «Con la telepatia non ci abbiamo provato, perché non ne capiamo niente. Ci siamo solo seduti in cerchio, tenendoli per mano e pensando inten-samente a loro. E, naturalmente, il risultato si è rivelato un fiasco. Probabilmente le Ombre avranno pensato che fosse un gioco.»

«Sentite,» osservò Mack, perorando la propria causa, «Fra circa una decina di giorni quell’ispettore sarà qui. Qualcosa dovremo pure escogitare, quindi veniamo ai fatti.»

«Se riuscissimo a far scappare le Ombre da qualche parte,» suggerì Knight. «Se potessimo spaventarle, costrin-gendole a fuggire...

«Tu sai come si fa a spaventare un’Ombra?» chiese Mack. «Hai un’idea di cosa riesca a spaventarle?»

Knight scosse la testa.«Il nostro primo compito è quello di scoprire come sia fat-

ta esattamente un’Ombra. Dobbiamo capire che tipo di ani-male sia. Sappiamo che è un animale strambo, senza bocca, né naso, né orecchie...»

«È assurdo,» affermò Mack. «Non esistono animali del ge-nere.»

«È un essere vivente,» rispose Carr, «E se la cava anche piuttosto bene. Dobbiamo scoprire come si procura il cibo, come comunica, quali possano essere i suoi limiti di soppor-

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tazione, quali siano le sue risposte ai vari stimoli. Finché non sapremo con chi abbiamo a che fare, non potremo prendere nessuna iniziativa riguardo le Ombre.»

Knight concordò con lui. «Avremmo dovuto cominciare settimane fa. Sì, ci abbiamo provato, ma non ci siamo mai impegnati seriamente. Eravamo troppo ansiosi di avviare il progetto.»

«Per quel che ci è servito!» esclamò astiosamente Mack.«Per poterli esaminare, dovremmo avere a disposizione un

esemplare,» precisai, rispondendo a Knight. «Penso che do-vremmo trovare il modo di catturare un’Ombra, il che non è facile, visto che non appena provi ad avvicinarti spariscono.»

Ma nel momento stesso in cui lo dicevo, mi resi conto che non era del tutto vero. Mi era tornato in mente Greasy che, uscito come una furia dalla sua cucina, inseguiva la sua Om-bra, colpendola con la padella. E mi era tornato in mente qualcos’altro che mi aveva fatto venire un sospetto... e aveva fatto scattare nella mia mente un’intuizione grandiosa, ma avevo paura di parlarne. Per il momento non osavo nemme-no ammettere con me stesso di averla avuta, quell’intuizione.

«Dobbiamo trovare il sistema di coglierne uno di sorpresa e metterlo fuori combattimento prima che abbia modo di sparire,» suggerì Carr. «E dovremo andare a colpo sicuro, perché se ci proviamo una volta e facciamo fiasco, indurre-mo le Ombre ad alzare la guardia e non avremo mai più un’altra possibilità.»

«Assolutamente no. Niente maniere forti,» avvertì Mack. «Finché non conoscerete bene la creatura, non dovrete ricor-rere alla violenza. Niente uccisioni, finché non sarete sicuri che l’eventuale vittima non possa reagire, uccidendovi a sua volta.»

«Niente maniere forti,» concordò Carr. «Se un’Ombra è in grado di manomettere le parti interne di quelle enormi mac-chine per il movimento di terra, non vorrei proprio vedere

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quel che potrebbe fare a un corpo umano.»«Bisogna agire in fretta e a colpo sicuro,» osservò Knight,

«E finché non ne avremo la certezza non dobbiamo nemme-no cominciare. Se colpiamo un’Ombra alla testa con una mazza da baseball, ritenete che la mazza rimbalzi, o che rie-sca a spaccarle il cranio? Al momento è così che dobbiamo soppesare ogni idea che ci viene in mente.»

Carr annuì. «Giusto. Non possiamo usare il gas, perché le Ombre non respirano.»

«Potrebbero respirare attraverso i pori,» suggerì Knight.«Certo, però dovremmo saperlo prima di ricorrere al gas.

Potremmo tentare con un’iniezione, ma con quale sostanza? Prima bisogna trovare il modo di mettere fuori combattimen-to un’Ombra. Si potrebbe provare con l’ipnosi...»

«Ho i miei dubbi che l’ipnosi possa funzionare,» osservò Knight.

«E se ci rivolgessimo al Doc?» chiesi. «Se riuscissimo a mettere fuori combattimento un’Ombra, pensate che il Doc le darebbe un’occhiata? Se ben conosco il Doc, sono convin-to che solleverebbe un casino del diavolo, sostenendo che trattandosi di esseri intelligenti, visitarne uno senza il suo consenso costituirebbe una violazione all’etica medica.»

«Tu beccane uno,» asserì arcigno Mack, «Che all’etica professionale del Doc ci penso io.»

«Farà un sacco di storie.»«Al Doc ci penso io,» ripeté Mack. «L’ispettore sarà qui

fra una settimana circa...»«Per allora bisogna che sia tutto sistemato,» dichiarò

Knight. «Se riusciamo a dimostrare all’ispettore di essere sulla buona strada, che stiamo facendo dei progressi, può darsi che ci consenta di restare in gioco.»

Ero seduto dando la schiena all’ingresso della tenda e sen-tii qualcuno che armeggiava con i teli.

Mack dichiarò: «Entra, Greasy. Hai in mente qualcosa?»

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Greasy entrò, avvicinandosi al tavolo. Come sempre, quando non lavorava, aveva il fondo del grembiule infilato nella parte posteriore dei calzoni, e teneva in mano qualcosa, che gettò sul tavolo.

Era una delle borse che le Ombre tenevano appese alla cintura!

Trattenemmo tutti il respiro, e a Mack si rizzarono i capel-li.

«Dove l’hai presa?» domandò.«Dalla mia Ombra, mentre non mi stava guardando.»«Mentre non ti stava guardando!»«Be’, vedi Mack, è andata così. Quell’Ombra ficca sempre

il naso dappertutto. Dovunque vado me la ritrovo tra i piedi. E stamattina, mentre aveva la testa infilata per metà dentro la lavastoviglie, vedendo la borsa appesa alla cintura, non ho fatto altro che afferrare un coltello spaccaossa e l’ho stacca-ta.»

Quando Mack si alzò in piedi, rizzandosi in tutta la sua al-tezza, era evidente quanto gli costasse tenere le mani lontano da Greasy.

«E così non hai fatto altro,» osservò in tono basso, minac-cioso.

«Certo,» rispose Greasy. «Non è stato per niente difficile.»«Sì, non hai fatto altro che vuotare il sacco! Non hai fatto

altro che rendere praticamente impossibile...»«Forse no,» si affrettò a interromperlo Knight.«Visto che il danno è fatto,» osservò Carr, «Tanto vale che

diamo un’occhiata. Nella borsa potremmo trovare un indi-zio.»

«Non riesco ad aprirla,» brontolò Greasy. «Ci ho provato in tutte le maniere possibili, ma non si riesce ad aprirla.»

«E mentre cercavi di aprirla,» chiese Mack, «Cosa faceva l’Ombra?»

«Oh, quello. Non se n’è neanche accorto. Aveva ancora la

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faccia dentro la lavastoviglie. È stupido come...»«Non dire mai più una cosa del genere! Non voglio che

nessuno li giudichi degli stupidi. Può anche darsi che lo sia-no, ma finché non ne saremo sicuri è insensato pensarlo.»

Knight aveva raccolto la borsa e se la stava rigirando tra le mani. Qualunque fosse stato il contenuto, ogni volta che la girava e la stringeva si sentiva un tintinnio.

«Ha ragione Greasy,» dichiarai. «Mi sembra che non ci sia modo di aprirla.»

«Tu esci di qui!» gridò Mack, rivolgendosi a Greasy. «Toma al tuo lavoro e non azzardarti mai più a far qualcosa a un’Ombra.»

Greasy se ne andò, ma appena uscito dalla tenda lanciò un urlo tale da far rizzare i capelli.

Nel precipitarmi a vedere cosa stava succedendo, rovesciai quasi il tavolo.

Quel che stava succedendo altro non era che un chiaro, so-lenne, atto di giustizia.

Greasy stava correndo al meglio delle sue possibilità, se-guito dall’ombra con un padella in mano, e a ogni passo di Greasy l’Ombra gli assestava una padellata in testa, dimo-strando a ogni colpo la stessa perizia messa in mostra prece-dentemente da Greasy.

Greasy girava in cerchio agitando le braccia, cercando di ritornare nella cucina da campo ma l’Ombra continuava a in-seguirlo, costringendolo a cambiare continuamente direzio-ne.

Ognuno degli uomini aveva smesso di lavorare per assiste-re alla scena. Alcuni gridavano dei consigli a Greasy, altri in-citavano ad alta voce l’Ombra. Mi sarebbe piaciuto restare a guardare, ma deciso ormai a seguire la mia intuizione, capii che non avrei più avuto un’occasione migliore per farlo.

E così mi voltai, dirigendomi velocemente verso la mia tenda, dove entrai furtivamente per prelevare la borsa dei

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campioni e tomai fuori.Notai che Greasy era diretto verso la zona degli impianti e

che l’Ombra, distanziata di un passo, continuava a reggere con notevole perizia la padella, visto che quest’ultima non aveva mancato un solo colpo.

Corsi fino alla cucina e davanti alla porta mi fermai per guardarmi alle spalle. Greasy si stava arrampicando su una torre di trivellazione con l’Ombra che da terra agitava la pa-della come se volesse sfidarlo a scendere e ad affrontarlo da uomo a uomo. Erano tutti accorsi ad assistere alla scena ed ero sicuro che nessuno mi avesse notato.

Aprii allora la porta della cucina da campo ed entrai.La lavastoviglie stava terminando il suo ciclo e tutto il re-

sto era calmo e tranquillo.Temevo che avrei avuto delle difficoltà a trovare quello

che stavo cercando, invece lo trovai nel terzo posto in cui cercai... sotto il materasso del lettino di Greasy.

Tirai fuori l’intrusore, lo infilai nella borsa e uscii il più in fretta possibile.

Mi fermai alla mia tenda, gettai la borsa in un angolo, la ricoprii con alcuni vecchi panni e tomai fuori.

La baraonda era finita. L’Ombra stava ritornando verso la cucina con la padella sotto il braccio, mentre Greasy stava scendendo dalla torre. Gli uomini erano tutti radunati intorno alla torre, facendo un baccano infernale, e pensai che ci sa-rebbe voluto molto, molto tempo prima che Greasy riuscisse a far dimenticare quello che era successo. Anche se, pensai, se l’era cercata.

Tornai alla tenda di Mack dove trovai gli altri. Erano tutti e tre accanto al tavolo con lo sguardo abbassato sugli oggetti sparsi sul ripiano.

La borsa era sparita, e al suo posto c’era un mucchietto di cianfrusaglie. Guardando meglio, notai che erano tutte ripro-duzioni in miniatura delle padelle, dei pentolini e di tutti gli

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altri utensili usati da Greasy. E dalla pila sporgeva anche una piccola statuetta di Greasy.

Allungai la mano per raccogliere la statuetta. Non c’era la minima imperfezione... era Greasy tale e quale. Ricavata, ap-parentemente con lo scalpello, da qualche tipo di pietra, era di una finezza che aveva dell’incredibile. Esaminandola da vicino riuscii perfino a notare le rughe del volto di Greasy.

«La borsa è sparita,» spiegò Knight. «Quando siamo corsi fuori era lì sul tavolo, e quando siamo tornati era sparita; al suo posto c’era tutta questa cianfrusaglia.»

«Non riesco a capire,» esclamò Carr.E aveva ragione. Nessuno di noi ci riusciva.«La cosa non mi piace,» osservò, con calma, Mack.Neanche a me piaceva. Mi metteva troppi dubbi in testa e

qualcuno di quei dubbi si stava trasformando in un orribile sospetto.

«Stanno facendo delle copie della nostra roba,» affermò Knight. «Perfino bicchieri e cucchiai.»

«Di questo non mi preoccuperei più di tanto,» osservò Carr; «È piuttosto la riproduzione di Greasy che mi mette in agitazione.

«Adesso sediamoci,» consigliò Mack, «E vediamo di non partire per la tangente. Sta capitando esattamente quello che dovevamo aspettarci.»

«Cosa intendi dire?» chiesi.«Cosa facciamo di solito quando ci imbattiamo in una cul-

tura aliena? Facciamo esattamente quello che stanno facendo le Ombre. In maniera diversa, ma l’obiettivo è lo stesso. Cer-chiamo di imparare il più possibile su questa cultura aliena. E cercate di non dimenticare che per le Ombre non solo sia-mo una cultura aliena, ma una cultura aliena che ha invaso il loro pianeta. Pertanto, se solo hanno un po’ di buon senso, si daranno da fare per scoprire nel più breve tempo possibile tutto quel che possono su di noi.»

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Indubbiamente era sensato. Ma quel fatto di creare dei mo-delli mi sembrava andasse ben oltre il necessario.

E se avevano fabbricato delle riproduzioni dei bicchieri e dei cucchiai di Greasy, della lavastoviglie e della caffettiera, allora dovevano aver creato anche altri modelli. Dovevano possedere dei modelli dei terrestri, degli escavatori, e via di-cendo. E se avevano una riproduzione di Greasy, allora do-vevano averne anche una di Mack, e di Thorne, e di Carr, e di tutto il resto della squadra, me compreso.

Ma quanto saranno stati fedeli quei modelli? Al di là del-l’apparenza fin dove si spingeva la loro somiglianza con l'o-riginale?

Provai a smettere di pensarci, visto che l’unico risultato era di spaventarmi a morte.

Ma non ci riuscivo. E così continuai a pensarci.Avevano manomesso le attrezzature costringendo gli ope-

rai a smontare le macchine per poterle rimettere in funzione. Apparentemente le Ombre non avevano alcun motivo per fare una cosa del genere, se non quello di scoprire com’erano fatte le parti interne delle macchine. Mi chiesi se i modelli delle attrezzature fossero fedeli all’originale non solo este-riormente, ma in ogni dettaglio, compresi i particolari più complicati delle apparecchiature.

E in questo caso, quanto fedelmente la statuetta di Greasy corrispondeva all’originale? Aveva anche cuore, polmoni, vasi sanguigni, cervello, sistema nervoso? E allora, che po-tesse esserci racchiusa anche la vera essenza del carattere di Greasy, che specie di animale era, i suoi pensieri, la sua mo-rale?

Mack allungò un dito e colpì il mucchietto di cianfrusa-glie, disseminando le miniature per tutto il tavolo.

Poi raccolse di scatto qualcosa e il suo volto avvampò di rabbia.

«Che cos’è?» chiese Knight.

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«Un intrusore!» rispose Mack con voce stridula. «C’è an-che il modello di un intrusore!»

Rimanemmo tutti a bocca aperta, e mi resi conto che stavo sudando freddo.

«Se Greasy ha un intrusore,» esclamò rigido Mack, «Gli spezzo quel suo collo secco!»

«Dai, stai calmo, Mack,» provò a dire Carr.«Ma lo sai che cos’è un intrusore?»«Certo che so che cos’è un intrusore.»«Hai mai visto gli effetti che ha su chi lo usa?»«No, non l’ho mai visto.»«Io sì.» Mack rigettò il modello dell’intrusore sul tavolo,

si voltò, e uscì dalla tenda, seguito da tutti noi.Greasy stava tornando indietro, seguito da alcuni degli uo-

mini che lo prendevano in giro per essere stato costretto dal-l’Ombra ad arrampicarsi sulla torre.

Mack rimase ad aspettarlo con le mani sui fianchi.Greasy ci aveva quasi raggiunto, quando Mack gli urlò:«Greasy!»«Sì, Mack?»«Stai nascondendo un intrusore, per caso?»Greasy batté le palpebre, ma non mostrò la minima esita-

zione. «No, signore,» rispose, mentendo spudoratamente. «Se me ne mostrassero uno non saprei nemmeno riconoscer-lo. Ovviamente ne ho sentito parlare.»

«Senti, voglio fare un patto con te,» asserì Mack. «Se ne hai uno, dammelo, che lo spacco; ti multo con un mese di paga e poi non ne parliamo più. Ma se mi racconti delle balle e scopriamo che ne tieni nascosto uno, ti licenzio in tronco.»

Trattenni il respiro. Quel che stava succedendo non mi piaceva affatto. Possibile che quello schifoso imprevisto do-vesse succedere proprio quando avevo fregato l’intrusore? Comunque, ero piuttosto sicuro che nessuno mi avesse visto sgattaiolare in cucina... o almeno così pensavo.

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Greasy continuò caparbiamente a mentire. Scuotendo la testa, ripeté, «No, non ce l’ho, Mack.»

Il volto di Mack si fece serio. «E va bene. Andiamo a con-trollare.»

Si diresse verso la cucina da campo, e Knight e Carr lo se-guirono; io invece m’incamminai verso la mia tenda.

Conoscendo Mack, sapevo che non trovando l’intrusore in cucina avrebbe perquisito l’intero accampamento. Se volevo tenermi lontano dai guai, avrei fatto bene a uscire veloce-mente dal campo, portandomi appresso lo strumento incrimi-nato.

Benny mi stava aspettando acquattato fuori dalla tenda. Mi aiutò a prendere fuori il compressore. Presi poi la borsa dei campioni con dentro l'intrusore e la infilai nel portabagagli del veicolo.

Salii sul compressore e Benny montò sul portapacchi die-tro di me; cominciò a fare lo sbruffone, tenendosi in equili-brio... come un bambino che va in bicicletta senza mani.

«Vedi di tenerti stretto,» lo avvertii in tono brusco. «Se cadi, questa volta non mi fermo a tirarti su.»

Sono sicuro che non mi aveva sentito ma, per un qualche motivo, mi cinse la vita con le mani e un attimo dopo erava-mo partiti, in una nuvola di polvere.

Se non avete mai guidato un compressore, non potrete dire di aver realmente vissuto. E come una montagna russa che corre su un piano. Ma è abbastanza sicuro e ti porta dove vuoi. È costituito semplicemente da due grossi pneumatici di gomma con un motore e un sedile, e se si presentasse l’occa-sione, potrebbe arrampicarsi su un granaio. È troppo rumoro-so da guidare nel mondo civilizzato, ma è esattamente quel che ci vuole per un pianeta alieno.

Attraversammo a razzo la pianura dirigendoci verso le lon-tane colline. Era una bella giornata, ma, d’altronde, ogni giorno era bello su Stella IV. Era il pianeta ideale: simile alla

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Terra, con bel tempo praticamente sempre, pieno di risorse naturali, privo di specie animali nocive o di virus letali... Un pianeta dove qualcuno sarebbe stato virtualmente disposto a tutto pur di andarci a vivere.

E a tempo debito sarebbe arrivata anche la gente. Una vol-ta eretto il centro amministrativo, costruite le ordinate file di case, una volta insediato il centro commerciale e terminate le dighe, completati gli impianti elettrici... allora sarebbe arri-vata anche la gente. E negli anni a venire, settore dopo setto-re, un progetto comunitario alla volta, la razza umana si sa-rebbe disseminata sulla superficie del pianeta. Ma lo avrebbe fatto in armonica progressione.

Non ci sarebbero stati disadattati, alcolizzati o drogati ab-bandonati a se stessi, sbattuti, volenti o nolenti, nei territori di frontiera, la terra degli incubi o delle morti repentine; niente più speculatori, né procacciatori di facili guadagni, né sconsiderati pronti a rischiare il tutto per tutto. Non ci sareb-bero state frontiere, ma un insediamento sistematico. E, una volta tanto, un pianeta sarebbe stato trattato in modo equo.

Ma c’era dell’altro, mi dissi.Se l’Uomo voleva continuare a percorrere lo spazio,

avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di fare un uso adeguato delle risorse naturali che vi avrebbe trovato. Il solo fatto che potessero essercene in grande quantità, non era una scusa valida per dilapidarle. Non eravamo più dei bambini, e non potevamo più prosciugare ogni mondo come avevamo fatto con la Terra.

Quando un’intelligenza progredisce al punto da poter con-quistare lo spazio, deve per forza crescere. Ed era arrivato il momento che la razza umana dimostrasse di essere diventata adulta. Non potevamo andare in giro a saccheggiare la Ga-lassia, come una banda di bambini golosi.

Ero convinto che quel pianeta potesse essere uno dei tanti banchi di prova sui quali la razza umana si sarebbe dovuta

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confrontare per dimostrare il proprio valore.Però, se volevamo portare a termine il nostro compito, se

volevamo dimostrare qualcosa, c’era prima un altro proble-ma che dovevamo affrontare e risolvere. Se erano le Ombre a causarci tutti quei guai, allora in un modo o nell’altro dove-vamo metter fine a quella storia. E non semplicemente met-terci fine, ma cercare di capire le Ombre e i loro problemi. Perché, mi dissi, non si può combattere qualcosa che non si conosce.

E nella tenda avevamo stabilito che per capire le Ombre dovevamo prima scoprire che genere di creature fossero. E per poterlo scoprire, dovevamo prima catturarne una per esa-minarla. E quella cattura doveva essere effettuata in modo perfetto, perché se il tentativo fosse fallito e li avessimo mes-si in stato di all’erta, non ci sarebbe più stata una seconda opportunità.

Però, mi dissi, l’intrusore avrebbe potuto quantomeno con-sentirci di effettuare un tentativo senza correre rischi. Se avessi tentato con l’intrusore, e non avesse funzionato, nes-suno sarebbe venuto a saperlo. Il fallimento sarebbe passato completamente inosservato.

Benny e io attraversammo sul compressore la pianura, di-rigendoci verso i piedi delle colline. Ero diretto verso un luo-go che chiamavo il Frutteto, non perché fosse un vero e pro-prio frutteto, ma perché in quella zona c’erano tantissimi al-beri da frutto. Non appena arrivato, avevo intenzione di ef-fettuare dei controlli, per verificare se qualcuno di quei frutti fosse stato commestibile per la razza umana.

Raggiunto il Frutteto, parcheggiai il compressore e mi guardai intorno. Mi accorsi immediatamente che era succes-so qualcosa. La volta precedente che ero stato lì, circa una settimana prima, gli alberi erano carichi di frutti non ancora del tutto maturi, ma adesso i frutti erano completamente spa-riti.

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Scrutai sotto gli alberi per vedere se i frutti erano caduti da soli, ma non era così. Eh sì, sembrava proprio che qualcuno fosse venuto a raccoglierli.

Mi chiesi se fossero state le Ombre a raccoglierli, ma mi resi immediatamente conto che non era possibile. Le Ombre non mangiavano.

Non tirai fuori subito l’intrusore, ma rimasi seduto sotto un albero a riflettere un po’, trattenendo quasi il respiro.

Dalla mia posizione riuscivo a scorgere il campo e mi do-mandai come avrebbe reagito Mack scoprendo che l’intruso-re non c’era. Suppongo fosse incavolato nero. E immagino anche la reazione di Greasy, indubbiamente sollevato, ma nello stesso tempo curioso di sapere che ne era stato dell’in-trusore, e deciso probabilmente a far pesare a Mack il fatto di aver preso un simile abbaglio.

Avevo la netta sensazione che forse avrei fatto bene a star-mene alla larga per un po’. Almeno fino a metà pomeriggio. Per allora forse Mack si sarebbe calmato un po’.

E pensai alle Ombre.Thorne le aveva definite dei pidocchiosi selvaggi. Invece

erano tutt’altro che dei selvaggi. Erano dei perfetti gentiluo-mini (o gentildonne, Dio solo sa di che sesso fossero, sempre che avessero avuto un sesso) e un vero selvaggio non è affat-to un gentiluomo sotto molti, fondamentali aspetti. Le Om-bre erano pulite, sane, ed educate. Sembravano possedere una certa padronanza culturale. Ecco, erano paragonabili a un gruppo di campeggiatori civilizzati, privi però del tradi-zionale equipaggiamento da campeggio.

Ci stavano accuratamente esaminando... su questo non c’e-ra dubbio. Stavano cercando di imparare il più possibile su di noi. Ma qual era il motivo del loro interesse? Cosa se ne sa-rebbero fatti di stoviglie, e tegami, ed escavatori e tutto il re-sto?

Oppure ci stavano solo prendendo le misure prima di ba-

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stonarci ben bene?Per non parlare poi di tutti gli altri quesiti.Dove abitavano?Come facevano a sparire, e quando sparivano, dove anda-

vano?Come facevano a mangiare e a respirare?Come comunicavano?Insomma, guardando in faccia alla realtà, dovetti ammette-

re che le Ombre ne sapevano su di noi molto più di quanto noi ne sapessimo su di loro. Perché se provavamo a mettere nero su bianco quel che sapevamo su di loro, non ne saltava fuori praticamente nulla.

Restai un altro po’ a sedere sotto l’albero, coi pensieri che continuavano a frullarmi per la testa, ma senza approdare a nulla. Allora mi alzai in piedi, raggiunsi il compressore e presi l’intrusore.

Era la prima volta che ne prendevo in mano uno, ed ero curioso, e anche leggermente preoccupato. Perché c’era poco da scherzare con un intrusore. Guardandolo così, era sempli-cissimo... simile a un binocolo dalle lenti asimmetriche, con un sacco di bottoni selettori in cima e su ognuno dei lati.

Ci guardavi dentro e giravi i bottoni, finché non ottenevi quello che desideravi, e a quel punto appariva un’immagine. Ci entravi dentro e potevi far parte della vita di quello scena-rio... un genere di vita che eri tu stesso a scegliere orientando i bottoni. Ed erano tante le vite da scegliere, perché i bottoni potevano essere regolati su milioni di combinazioni e i com-ponenti dello scenario potevano variare dagli elementi più frivoli ai più abissali orrori.

Ovviamente l’intrusore era stato dichiarato illegale... era considerato più deleterio dell’alcolismo, peggiore della dro-ga, il vizio più insidioso che avesse mai colpito l’umanità. Conficcava i suoi ami psicologici nel profondo dell’animo umano, penetrandolo in modo definitivo. Una volta presa l’a-

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bitudine, ed era facile assuefarsi, non c’era più modo di libe-rarsene. Si passava il resto della vita a cercare di separare la propria esistenza dalle tante esistenze fantastiche, allonta-nandosi nel contempo sempre più dalla realtà, fino a quando di reale non restava più niente.

Mi acquattai accanto al compressore, cercando di capire il funzionamento dei bottoni. Ce n’erano trentanove, ognuno numerato, dall’uno al trentanove e mi domandai cosa signifi-casse quella numerazione.

Benny mi raggiunse e si acquattò al mio fianco con la spalla contro la mia, per osservare quel che facevo.

Riflettei a lungo sulla numerazione, ma non servì a nulla. C’era solo un modo per scoprire quello che cercavo. E così riportai sullo zero tutti i bottoni e feci avanzare il No. 1 di una tacca o due.

Sapevo che non era il modo giusto di adoperare un intru-sore. Per usarlo correttamente bisognava regolare ciascun bottone su posizioni diverse, mescolando i numerosi compo-nenti in varie proporzioni, ottenendo così il tipo di vita che si voleva sperimentare. Io però non stavo cercando una vita. Quel che volevo era scoprire quale componente veniva con-trollato dai singoli bottoni.

E così, feci avanzare il No. 1 di una tacca o due, sollevai l’intrusore, lo sistemai sul volto, ed ecco che ero ritornato sul prato della mia infanzia... il prato più verde che avessi mai visto, con un cielo azzurro come l’antica seta marezzata, e un ruscello, e tante farfalle.

E, la cosa più importante... il prato di un giorno che non sarebbe mai terminato, un luogo che non conosceva il tempo, e una luce che era l’intenso riverbero della felicità di un bim-bo.

Rammentavo perfettamente la sensazione di quell’erba sotto i piedi nudi, così come ricordavo la luce del sole che veniva riflessa dalle acque del ruscello increspate dal vento.

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Fu la cosa più difficile che avessi mai fatto in vita mia, ma riuscii ad allontanare l’intrusore dagli occhi.

Rimasi acquattato là, con l’intrusore in grembo. Le mani erano malferme, bramose di risollevare l’intrusore perché potessi di nuovo contemplare lo scenario scaturito da una fanciullezza da tanto perduta, ma mi costrinsi a non farlo.

La manopola No. 1 non era quella che volevo, pertanto ri-portai l’indice sullo zero, e dal momento che la No 1 era tut-to l’opposto di quello che cercavo, feci avanzare il bottone 39 di una tacca o due.

Avevo già sollevato per metà l’intrusore, quando mi sentii afferrare da una paura tremenda. Lo riappoggiai finché non potei fare nuovamente affidamento su tutto il mio coraggio. Allora tornai a sollevarlo e infilai il volto in un autentico or-rore che allungò la sua mano, cercando di tirami dentro con sé.

Non saprei descrivere lo scenario che mi si parò davanti agli occhi. Perfino ora non riesco a rammentare che isolati frammenti di ciò che avevo visto. Più che visioni, erano sem-plici sensazioni e realistiche emozioni... una specie di rap-presentazione surreale di quanto di più disgustoso e repellen-te potesse esistere, ma in qualche modo dotata di un fascino ipnotico che ti impediva di allontanarti.

Scosso, strappai l’intrusore dal volto, e rimasi seduto lì, come paralizzato. Per un attimo ebbi la mente completamen-te vuota, attraversata da sporadici, orripilanti guizzi.

Poi i guizzi poco a poco svanirono e mi ritrovai acquattato sul versante della collina con l’Ombra chinata al mio fianco, la sua spalla contro la mia.

Un gesto orribile, pensai, un’azione che nessuno avrebbe dovuto commettere, nemmeno nei confronti di un’Ombra. Spostato soltanto di una tacca o due, l’effetto dell’intrusore era stato raccapricciante; regolato alla massima potenza avrebbe mandato in tumulto un cervello.

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Benny allungò la mano per prendere l’intrusore. Lo allon-tanai di scatto, ma lui continuò a mettermi le mani addosso per impossessarsene, dandomi tempo di riflettere.

Era esattamente quello che volevo che accadesse, pensai. Con la sola differenza che Benny stava rendendo molto più facile l’esecuzione del mio piano.

Pensai a tutte le cose che dipendevano dalla cattura di un’Ombra da potere esaminare. E pensai al mio lavoro, e al colpo che avrebbe subito il mio cuore se quell’ispettore aves-se deciso di licenziarci tutti spedendoci via, con equipaggi diversi. Non capitava tutti i giorni di trovare un pianeta da organizzare. Probabilmente non avrei mai più avuto un’occa-sione del genere.

E così sporsi il pollice e girai il bottone 39 fino all’ultima tacca, lasciando che Benny prendesse l’intrusore.

E mentre glielo porgevo mi domandavo se avrebbe real-mente funzionato o se la mia non era che una vana speranza. E possibile che non funzioni, pensai, visto che si tratta di un meccanismo umano, progettato per la razza umana, adattato al sistema nervoso umano e alle sue risposte.

Subito dopo mi resi conto che mi sbagliavo, che l’intruso-re non funzionava soltanto in virtù del suo meccanismo, ma ad opera del cervello e dell’organismo di chi lo usava... non era che un meccanismo di innesco che liberava la grandiosità e la bellezza e l’orrore contenuti nel cervello di chi lo utiliz-zava. E l’orrore, se anche poteva assumere sembianze e for-me diverse, restava pur sempre un orrore, sia per un’Ombra che per un umano.

Benny portò l’intrusore vicino al grande occhio e si piegò in avanti, appoggiando il volto al visore. Il suo corpo comin-ciò a contorcersi, poi s’irrigidì e quando cominciò a barcolla-re lo afferrai, adagiandolo a terra.

Fermo davanti lui, provavo una sensazione di trionfo, e di orgoglio... e anche di pietà... dover fare una cosa del genere a

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un tipo come Benny! Giocare un simile tiro alla mia Ombra, che solo un attimo prima mi era seduta accanto, spalla contro spalla.

M’inginocchia e lo rigirai. Non sembrava molto pesante e ne fui contento, perché avrei dovuto caricarlo sul compresso-re e poi sfrecciare verso il campo alla massima velocità, non sapendo per quanto tempo Benny sarebbe rimasto privo di conoscenza.

Raccolsi l’intrusore e l’infilai nella borsa dentro al porta-bagagli, poi cercai una corda o del fil di ferro per legare Ben-ny, perché non cadesse.

Non so se udii un rumore oppure no. Sarei propenso a pen-sare di non aver udito nulla... che fosse stato una specie d’i-stinto naturale a farmi voltare.

Benny si stava afflosciando e per un attimo fui colto da un panico violento all’idea che potesse morire, che non fosse riuscito a sopportare lo shock suscitato dalle immagini orri-pilanti scaturite dall’intrusore.

E mi rammentai di quello che aveva detto Mack: «Niente uccisioni, finché non sarete sicuri che l’eventuale vittima non possa reagire, uccidendovi a sua volta.»

Se Benny era morto, si sarebbe probabilmente scatenato l’inferno contro di noi.

Be’, se era morto si comportava davvero in modo curioso. Continuava ad afflosciarsi, lacerandosi in diversi punti, e si stava trasformando in una specie di polvere, che però non era polvere, finché... finché non ci fu più nessun Benny. Era ri-masta soltanto l’imbracatura con la borsa e il gioiello, e dopo un po’ sparì anche la borsa lasciando al suo posto una man-ciata di cianfrusaglie.

E c’era qualcos’altro.C’era ancora l’occhio di Benny. L’occhio faceva parte di

un cono situato precedentemente nella sua testa.Ricordai che la squadra di rilevamento aveva visto altri

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coni come quello senza però riuscire ad avvicinarsi.Ero talmente spaventato che non riuscivo a muovermi. Re-

stai lì a guardare con la pelle d’oca.Perché Benny non era un alieno. Benny non era che il

mandatario di un qualche altro alieno che non avevamo mai visto, e della cui esistenza non avevamo mai avuto neanche un sospetto.

Cominciarono a passarmi per la mente le congetture più strampalate, ma non erano che suggestioni provocate dal pa-nico; continuavano però a passare con una tale velocità, che non riuscii a fermarmi a valutarne seriamente nessuna.

Ma una cosa era chiara come il sole... l’abilità di questi alieni ai quali le Ombre facevano da paravento.

Così abili da affrontarci soltanto per mezzo di entità dal-l’aspetto vagamente umano... entità per le quali potevamo provare pietà, simpatia, o addirittura insofferenza, ma che mai sarebbero riuscite a metterci paura. Piccole figure pieto-se che erano la caricatura delle nostre, e talmente stupide da non poter nemmeno parlare. E sufficientemente aliene da la-sciarci confusi, sconcertandoci su così tanti punti fondamen-tali da spingerci a mollare, in preda a un totale smarrimento, qualsiasi tentativo atto a condurci alla risoluzione dell’enig-ma.

Diedi una rapida occhiata alle mie spalle, restando acquat-tato, e se avessi visto muoversi qualcosa mi sarei messo a correre come un coniglio spaventato. Ma non si mosse nien-te. Nemmeno una foglia. Non c’era niente di cui aver paura, se non, forse, dei pensieri che mi frullavano per la testa.

Ma provai il forte impulso di andarmene da lì, e mi misi carponi per raccattare quello che era rimasto di Benny.

Raccolsi il mucchietto di cianfrusaglie e il gioiello e li in-filai nella borsa insieme all’intrusore. Poi tomai a prendere il cono; l’occhio continuava a guardarmi, ma si vedeva che era morto. Il cono era scivoloso, e non sembrava di metallo, ma

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era molto pesante, e duro, e difficile da afferrare, facendomi perdere parecchio tempo. Ma riuscii finalmente a infilarlo nella borsa e mi avviai verso il campo.

Volai come un pipistrello scappato dall’inferno. La paura si era appollaiata sulla mia spalla, ma riuscii ugualmente a far filare il compressore.

Con una brusca sterzata entrai nel campo e mi diressi ver-so la tenda di Mack, ma prima di arrivarci vidi praticamente l’intera squadra addetta al progetto impegnata sulla struttura pii! folle che si potesse immaginare. Un ammasso di ingra-naggi e camme, ruote e altri oggetti del genere, che si esten-deva disordinatamente su quello che sulla Terra sarebbe stato considerato un appezzamento di terreno piuttosto ampio e non riuscivo a immaginare un solo motivo per costruire una stramberia del genere.

A una certa distanza dalla struttura vidi Thorne che sovrin-tendeva i lavori, gridando a questo, a quello e a qualcun al-tro, e mi accorsi subito che si stava divertendo. Thorne era uno di quei tipici idioti con la vocazione del boss.

Fermai il compressore lì accanto, tenendomi in equilibrio con una gamba.

«Cosa sta succedendo?» chiesi.«Stiamo fornendo loro qualcosa che li stordirà un po’. Li

faremo ammattire.»«Loro? Intendi dire le Ombre?»«Cercano delle informazioni, giusto?» domandò Thorne.

«Ci sono stati d’intralcio notte e giorno, sempre tra i piedi, e così abbiamo deciso di dar loro qualcosa che li tenga occupa-ti.»

«Ma a cosa serve?»«A niente,» rispose Thorne, con un sorrisetto beffardo. «È

proprio lì il bello!»«Be’,» esclamai, «Suppongo tu sappia quel che stai facen-

do. Mack ne è al corrente?»

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«Mack, Carr e Knight sono i cervelloni che hanno escogi-tato questa trovata,» spiegò Thorne. «Io sto semplicemente eseguendo gli ordini.»

Proseguii verso la tenda di Mack; dalle vivaci discussioni capii che Mack era presente e parcheggiai il compressore.

Presi la borsa, entrai e marciai dritto verso il tavolo dove rovesciai l’intero contenuto della sacca.

Mi ero completamente dimenticato che nella borsa fra le altre cose c’era anche l’intrusore.

Ormai non potevo più farci niente. L’intrusore era lì, in bella vista sul tavolo, in un silenzio glaciale, e capii che da lì a un secondo Mack avrebbe fatto esplodere i suoi razzi.

Prese fiato per urlare, ma fui più svelto di lui.«Stai zitto, Mack!» sbottai. «Non voglio sentirti dire nean-

che una parola!»Dovevo averlo colto di sorpresa perché espirò lentamente,

guardandomi con un’espressione strana, mentre Knight e Carr erano rimasti praticamente impalati. All’interno della tenda era calato un silenzio mortale.

«Quello era Benny,» spiegai, indicando il ripiano del tavo-lo. «Tutto quello che è rimasto di lui. È bastata un’occhiata all’intrusore.»

Carr si rilassò leggermente. «Ma l’intrusore! Abbiamo guardato dappertutto...»

«Sapevo che ce l’aveva Greasy e, avendo avuto una specie di presentimento, l’ho rubato. Se ricordate, stavamo discu-tendo su come catturare un’Ombra...»

«Ti denuncerò!» urlò Mack. «Farò in modo che la tua pu-nizione serva da esempio agli altri. Io...»

«Tu chiuderai il becco,» esclamai. «Te ne starai buono ad ascoltare o ti sbatterò fuori di qui e per sfamare il tuo appeti-to sarai costretto a chiedere l’elemosina.»

«Per favore!» supplicò Knight. «Per favore, signori, vo-gliamo comportarci civilmente?»

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Be’, quella era proprio bella... Knight che ci chiamava si-gnori.

«A mio parere,» osservò Carr, «La questione dell’intruso-re è irrilevante, se Bob se n’è servito per uno scopo profi-cuo.»

«Mettiamoci seduti,» suggerì Knight, «E magari contiamo fino a dieci. Poi Bob potrà spiegarci che cos’ha in mente.»

Era un buon consiglio. Ci mettemmo tranquilli e potei spiegare cos’era successo. Rimasero ad ascoltare, guardando le cianfrusaglie sparpagliate sul tavolo, e soprattutto il cono, appoggiato di lato all’estremità del tavolo dov’era rotolato, che ci stava fissando dal suo occhio morto col suo sguardo da pesce.

«Le Ombre,» conclusi, «Non sono affatto degli esseri vi-venti. Non sono che dei congegni mandati da qualcun altro per spiarci. Ora non dobbiamo far altro che attirare le Om-bre, una per una, e farle guardare nell’intrusore col bottone 39 sintonizzato sulla massima potenza e...»

«Non sarebbe una soluzione definitiva,» osservò Knight. «Non appena distrutte, ne manderebbero della altre.»

Scossi la testa. «Non credo. Per quanto in gamba possa es-sere questa razza aliena, non ritengo siano in grado di creare e governare le Ombre con un semplice contatto mentale. De-vono essere implicate anche delle macchine, e quando di-struggeremo un’Ombra, ho il vago presentimento che faremo fuori anche una macchina. E se ne faremo fuori parecchie, procureremo un tal mal di testa a quegli individui, che proba-bilmente saranno costretti a uscire allo scoperto, e allora po-tremo anche trattare.»

«Temo che tu abbia torto,» dichiarò Knight. «Se quest’al-tra razza rimane nascosta, avrà i suoi validi motivi. Forse ap-partengono a una civiltà sotterranea e non si avventurano mai in superficie perché l’ambiente potrebbe avere effetti de-leteri su di loro. Ma è presumibile che si tengano al corrente

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di quel che succede quassù per mezzo dei coni. E quando siamo comparsi noi, hanno modificato i coni, dando loro una sembianza vagamente umana, per essere certi che li avrem-mo accettati. Poi li hanno mandati in superficie perché potes-sero esaminarci da vicino.»

Mack cominciò a sfregarsi la testa con entrambe le mani. «Questo fatto che stiano nascosti non mi piace affatto. Mi piace veder le cose alla luce del sole dove posso attaccarle apertamente e loro possono attaccare apertamente me. Avrei di gran lunga preferito che i veri alieni fossero stati le Om-bre.»

«Non condivido affatto la tua ipotesi di una razza che vive sottoterra,» affermò Carr, rivolgendosi a Knight. «Non credo che vivendo nel sottosuolo si possa sviluppare una civiltà del genere. Si resterebbe esclusi da ogni fenomeno naturale. Non si potrebbe...»

«E va bene,» scattò Knight, «Sentiamo la tua idea.»«Può darsi che riescano a teletrasportare la materia... a dire

il vero ne abbiamo la certezza... o per mezzo di macchine o attraverso la mente, il che significa che non sono costretti a circolare sulla superficie del pianeta, ma possono spostarsi da un posto all’altro nel giro di un secondo. Però vogliono ugualmente sapere cosa succede, e così usano i loro occhi e le loro orecchie come una sorta di apparecchiatura radar e te-levisiva...»

«Ma volete smettetela di girare intorno al problema?» sbottò Mack. «Tanto non sapete come stanno realmente le cose.»

«Suppongo che tu lo sappia,» ribatté Knight.«No, non lo so,» rispose Mack. «Ma almeno sono abba-

stanza onesto da dire chiaro e tondo che non lo so.»«Credo che Carr e Knight si siano lasciati trasportare un

po’ troppo dall’immaginazione,» asserii. «Forse questi alieni vogliono soltanto restare nascosti finché non scopriranno che

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tipi siamo... se possono fidarsi di noi o se non farebbero me-glio a farci scappare dal pianeta.»

«Be’,» dichiarò Knight, «Comunque la pensiate, dovete ammettere che probabilmente sanno praticamente tutto quel che c’è da sapere su di noi... conoscono la nostra tecnologia, i nostri scopi e i nostri comportamenti, sanno che genere di animali siamo, e probabilmente hanno già imparato perfino la nostra lingua.»

«Sì, sanno decisamente troppo,» osservò Mack. «Comin-cio ad aver paura.»

Si udì raspare alla tenda, poi Thorne mise dentro la testa.«Ehi, Mack,» annunciò, «Mi è venuta una bella idea. Che

ne diresti di piazzare dei fucili in quell’aggeggio là fuori? Quando le Ombre si raduneranno intorno...»

«Niente fucili,» asserì con fermezza Mack. «Niente missi-li, né trappole elettroniche. Limitati a fare quello che ti ab-biamo detto. Fagli fare tutti i movimenti che ti vengono in mente e fai in modo che sia il più appariscente possibile. Ma vedi di limitarti a questo.»

Thorne si ritirò con aria imbronciata.Knight mi spiegò: «Non ci aspettiamo che duri a lungo,

ma potrebbe tenerli occupati per una settimana circa, dando-ci modo di poter portare a termine qualche lavoro. Quando ci renderemo conto che non funziona più, escogiteremo qual-che altro espediente.»

Chissà, avrebbe anche potuto funzionare, ma non la trova-vo una grande idea. Al massimo ci avrebbe concesso un po’ di tempo e nient’altro. Sì, soltanto un po’ di tempo, e sempre ammesso che le Ombre avessero abboccato. Non so perché, ma avevo la sensazione che non saremmo riusciti a imbro-gliarle. Sarei stato disposto a scommetterci dieci contro uno che nell’attimo stesso in cui il congegno si fosse messo in moto avrebbero subodorato l’imbroglio.

Mack si alzò in piedi e si portò dalla parte opposta del ta-

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volo. Raccolse il cono e se lo infilò sotto il braccio.«Porterò quest’aggeggio in officina,» spiegò. «I ragazzi

riusciranno forse a scoprire di cosa si tratta.»«Posso dirtelo subito,» dichiarò Carr. «È il meccanismo

col quale gli alieni controllano le Ombre. Ricordi i coni avvi-stati dalla squadra di rilevamento? È uno di quelli. Sono con-vinto che si tratti di una specie di segnalatore in grado di tra-smettere delle informazioni alla base, dovunque si trovi.»

«Non importa,» esclamò Mack. «Lo smonteremo e vedre-mo cosa riusciremo a scoprire.»

«E l’intrusore?» domandai.«Di quello me ne occupo io.»Allungai la mano e l’afferrai. «No, non lo farai. Sapendo

che razza di fanatico sei, so già che lo porteresti via per farlo a pezzi.»

«Ma è illegale,» dichiarò Mack.Carr prese le mie parti. «Non più. Adesso è uno strumen-

to... un’arma di cui potremo servirci.»Lo porsi a Carr. «Tienilo tu. Mettilo in un posto sicuro.

Prima che tutta questa storia sia finita, potremmo averne nuovamente bisogno.»

Raccolsi la cianfrusaglia trovata nella borsa di Benny, poi presi il gioiello e lo infilai nella tasca della giacca.

Mack se ne andò col cono sotto il braccio. Uscii dalla ten-da insieme agli altri e ci fermammo là fuori per un po’, final-mente rilassati dopo tanta concitazione.

«Mack concerà Greasy per le feste,» affermò, preoccupa-to, Knight.

«Gli parlerò io,» dichiarò Carr. «Gli farò capire che Grea-sy potrebbe averci fatto un favore nascondendo l’intrusore.»

«Forse farei bene a spiegare a Greasy che ne è stato del-l’intrusore,» consigliai.

Knight scosse la testa. «Lascia che sudi per un po’. Gli farà bene.»

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Tornato nella mia tenda mi apprestai a lavorare ad alcuni incartamenti, ma non riuscivo a concentrarmi. Suppongo fos-si troppo eccitato, e che sentissi, temo, anche la mancanza di Benny, e continuavo a scervellarmi cercando di capire come stessero realmente le cose riguardo le Ombre.

Le avevamo decisamente chiamate col nome giusto, visto che erano poco più che ombre... ideate per seguire le nostre mosse. Pur sapendo che non erano che congegni camuffati ad arte per spiarci mi riusciva ancora difficile non pensare a loro come a degli esseri viventi.

Ovviamente, non erano altro che dei coni, coni che, plausi-bilmente, non erano altro che unità di osservazione per conto dei veri alieni nascosti in qualche punto del pianeta. Per mi-gliaia di anni erano forse rimasti a osservare il mondo, men-tre quella razza se ne stava nascosta chissà dove. O forse avevano fatto ben più che osservare. Forse i coni erano dei seminatori e dei coltivatori... forse dei cacciatori... che ripor-tavano ai loro padroni nascosti il bottino raccolto nel territo-rio. Era più che probabile che fossero state proprio le Ombre a raccogliere tutti i frutti del Frutteto.

E se esisteva una civiltà, se c’era un’altra razza con dei di-ritti legittimi sul pianeta, che ne sarebbe stato delle rivendi-cazioni accampate dalla Terra? Significava forse che dopo tutto saremmo stati obbligati ad abbandonare quel mondo... uno dei pochi pianeti simili alla Terra scoperti dopo anni di esplorazioni?

Rimasi seduto alla scrivania a pensare agli studi, al lavoro, ai soldi spesi per quel progetto che, anche così, non erano che una gocciolina in confronto a quello che sarebbe stato speso per trasformare il pianeta in un’altra Terra.

Perfino nel nostro centro di progettazione non eravamo che agli inizi. Nel giro di qualche settimana le navi avrebbe-ro cominciato a portare l’occorrente per la costruzione delle acciaierie, e già quello sarebbe stato un compito decisamente

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arduo... trasportare il materiale, assemblarlo, estrarre il mine-rale necessario, e finalmente metterlo in funzione. Ma infini-tamente più semplice e più facile che importare dalla Terra tutto l’acciaio necessario alla costruzione del progetto.

Non potevamo mandare a monte tutto quanto. Dopo tutti quegli anni, dopo tutti gli studi e il lavoro sostenuti, davanti all’estremo bisogno della Terra di altro spazio vitale, non po-tevamo rinunciare a Stella IV. Ma non potevano neanche ne-gare i legittimi diritti dei suoi abitanti. Se quegli esseri, quan-do si fossero finalmente decisi a farsi vedere, avessero di-chiarato di non volerci sul loro pianeta, non avremmo avuto scelta. Saremmo stati costretti a sloggiare.

Ma ovviamente, prima di cacciarci fuori, ci avrebbero completamente derubati. La maggior parte di ciò che posse-devamo doveva avere ben scarso valore per loro, ma poteva sempre esserci qualcosa che avrebbero potuto utilizzare. Dal contatto con una razza diversa, ogni razza non può che arric-chire se stessa e la propria cultura. E dal contatto con noi, quegli alieni ricavavano un tornaconto del tutto a senso uni-co... lo scambio infatti fluiva esclusivamente nella loro dire-zione.

Forse quelli non erano altro che una banda di rapinatori cosmici, mi dissi.

Tolsi di tasca la cianfrusaglia contenuta nella borsa di Benny, la rovesciai sulla scrivania, e cominciai a metterla a posto. C’erano il mio settore del modello e il compressore, la scrivania, e la mia piccola fila di libri, gli scacchi tascabili e tutto gli altri oggetti di mia appartenenza.

C’era tutto, tranne me.L’Ombra di Greasy aveva una sua statuetta, ma non ne

trovai nessuna e provai un po’ di risentimento verso Benny. Avrebbe anche potuto fare lo sforzo di procurarsi una mia statuetta.

Feci rotolare sulla scrivania gli oggetti col dito, doman-

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dandomi per l’ennesima volta fino a che punto quei modelli fossero conformi agli originali. Che anziché delle semplici riproduzioni fossero dei veri e propri schemi di riferimento? Forse, mi dissi, lasciandomi trasportare dall’immaginazione, forse ognuno di quei modellini conteneva, in una specie di codice, l’analisi e la descrizione completa dell’articolo origi-nale. Un uomo per studiare ed analizzare un oggetto avrebbe scritto pagine e pagine di appunti, racchiudendo l’essenza del soggetto in una pagina o due di simboli. Forse quei mo-dellini erano l’equivalente di un taccuino di appunti, il siste-ma di scrittura degli alieni.

E mi domandai come facessero a scrivere, come costruiva-no i modelli, ma senza riuscire ad ottenere nessuna risposta.

Abbandonai l’idea di lavorare e uscii dalla tenda, arrampi-candomi lungo la piccola altura fino al punto dove Thorne e gli uomini stavano costruendo la loro trappola moschicida per gli alieni.

Vi avevano dedicato parecchio impegno ed ingegnosità fa-cendone scaturire un’opera assolutamente assurda... il che poi rispondeva esattamente alle aspettative.

Se fossimo riusciti a tener occupate per un po’ di tempo le Ombre, curiose di scoprire cosa potesse essere quel conge-gno, forse ci avrebbero lasciati in pace per quel tanto neces-sario a portare a termine qualche lavoro.

Thorne e la sua squadra avevano prelevato dall’officina una mezza dozzina di motori di ricambio e li avevano instal-lati per usarli come forza motrice. A quanto pareva si erano serviti di quasi tutti i pezzi che erano riusciti a trovare, per-ché c’erano aste, ingranaggi, camme e ogni sorta di dispositi-vi, uniti insieme a formare una creazione del tutto assurda. E qua e là avevano installato quelli che sembravano dei pan-nelli di comando, tranne il fatto che non comandavano asso-lutamente niente; erano però pieni zeppi di luci lampeggianti e altri aggeggi del genere, tanto da sembrare degli alberi di

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Natale.Rimasi nei dintorni a osservare, finché Greasy non suonò

il campanello della cena. Allora ci lanciammo tutti in una corsa frenetica per l’accaparramento dei tavoli.

Tra chiacchiere e scherzi, c’era uno schiamazzo infernale, ma nessuno perse troppo tempo a mangiare. Trangugiarono la cena e tornarono in fretta e furia alla trappola moschicida.

Quando, poco prima del tramonto, la misero in moto, po-temmo assistere alla serie più strampalata di movimenti sen-za senso mai visti in vita nostra. Aste che giravano vorticosa-mente, un milione di ingranaggi apparentemente in perfetta presa fra loro, le camme che sussultavano con colpi costanti, irregolari, mentre i pistoni continuavano ad andare su e giù, su e giù.

Era perfettamente lucido e scintillante, e procedeva più li-scio di un fischio, producendo esclusivamente del moto; ma aveva un gran fascino... perfino per un umano. Mi ritrovai impalato in un angolino ad ammirare stupito la scorrevolez-za, la precisione, e la spietata mancanza di finalità di quel bizzarro congegno.

E i finti pannelli di comando non smettevano di risplende-re e lampeggiare, con le minuscole lampade che si accende-vano e si spegnevano in una serie di piccole file irregolari; e ti girava la testa a guardarle, cercando di scoprirvi un qual-che criterio di funzionamento.

Da quando erano iniziati i lavori alla trappola, le Ombre erano rimaste nei dintorni a guardarla a bocca aperta, si fa per dire, visto che di bocca non ne avevano nemmeno l’om-bra, ma adesso si erano avvicinate tutte insieme formando un cerchio serrato e solenne intorno al congegno, e non si mos-sero più.

Mi voltai, e dietro a me c’era Mack. Soddisfatto, si stava fregando le mani e il suo volto era tutto un sorriso.

«Piuttosto ingegnoso,» esclamò.

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Mi dichiarai d’accordo con lui, ma continuavo ad avere dei dubbi che però non ero in grado esprimere a parole.

«Appenderemo alcune luci,» spiegò Mack, «Così potranno guardarlo notte e giorno, e resteranno inchiodati lì una volta per tutte.»

«Pensi che resteranno lì?» chiesi. «Che a un certo punto non mangeranno la foglia?»

«Neanche per sogno.»Tornai alla mia tenda e mi versai un drink piuttosto forte,

poi mi misi a sedere su una sedia davanti all’ingresso.Alcuni degli uomini stavano appendendo dei cavi, altri

stavano montando delle luci a batteria. Dalla cucina sentivo Greasy che cantava, ma era un canto triste. Provai dispiacere per Greasy.

Dovetti ammettere che forse aveva ragione Mack. Proba-bilmente avevamo costruito una trappola che avrebbe rotto le uova nel paniere alle Ombre. Se non altro, il fascino di tutto quel movimento li avrebbe plausibilmente tenuti impalati lì. Aveva un effetto ipnotico perfino su un umano, e non si po-teva mai dire l’effetto che avrebbe potuto produrre su una mente aliena. Nonostante l’evidente padronanza della tecno-logia da parte degli alieni, era perfettamente possibile che la tecnica delle loro macchine si fosse sviluppata su linee total-mente diverse dalla nostra, e che pertanto quella ruota che girava sul proprio asse, il pistone che andava su e giù, e il bagliore fluido e levigato del metallo, costituissero per loro un’assoluta novità.

Provai a pensare a una tecnologia in grado di far funziona-re una macchina senza bisogno di moto, ma era un pensiero decisamente inconcepibile per la mia mente. E, proprio per quel motivo, pensai, l’idea di tutto quel movimento poteva risultare altrettanto inconcepibile a un intelletto alieno.

Spuntarono le stelle mentre me ne stavo seduto là, senza nessuno intorno che chiacchierava, e mi andava benissimo

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così. Ero più che felice di essere lasciato in pace.Dopo un po’ rientrai nella tenda, mi versai un altro drink,

e decisi di andare a dormire.Tolsi la giacca e la gettai sulla scrivania. Quando l’indu-

mento colpì il ripiano si udì un tonfo, e non appena lo udii, capii di cosa si trattava. Era stato il gioiello di Benny che avevo infilato nella tasca della giacca, dimenticandolo lì.

Infilai la mano in tasca per estrarre il gioiello, temendo per tutto il tempo di averlo rotto. E c’era qualcosa che non anda-va... non so come ma si era smontato. La gemma si era stac-cata dal resto e allora mi resi conto che il gioiello non era che il coperchio di un contenitore a forma di scatola.

Lo appoggiai sulla scrivania e tolsi completamente la gem-ma e lì, dentro al contenitore, trovai me stesso.

La statuetta era annidata dentro uno strano congegno ed era una magnifica opera d'arte, proprio come la statuetta di Greasy.

Provai una vampata di orgoglio e di soddisfazione. Dopo-tutto, Benny non si era dimenticato di me!

Restai a lungo a contemplare la statuetta, cercando di ca-pirne il meccanismo. Dopo aver studiato attentamente il gio-iello, capii finalmente di cosa si trattava.

Il gioiello non era affatto un gioiello; era una macchina fo-tografica. Solo che anziché produrre fotografie bidimensio-nali, le faceva a tre dimensioni. Era ovviamente quello il mo-tivo per cui le Ombre costruivano i modelli. O forse, anziché dei semplici modelli erano dei veri e propri schemi di riferi-mento.

Finii di svestirmi e andai a letto. Rimasi sdraiato sul letti-no a osservare i teli della tenda, finché tutti i pezzi non co-minciarono a incastrarsi, e fu magnifico. Intendiamoci, ma-gnifico per gli alieni. Noi ne uscivamo come un branco di imbecilli.

I coni erano usciti per sorvegliare la squadra di rilevamen-

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to, impedendole di avvicinarsi, ma si erano fatti trovare pre-parati al nostro arrivo. Avevano camuffato i coni, dando loro una parvenza che non potesse incuterci paura; meglio anco-ra, che suscitasse la nostra ilarità. Il travestimento più sicuro che si potesse adottare... una sembianza che la vittima avreb-be potuto giudicare un tantino comica. Nessuno infatti si la-scerebbe turbare più di tanto dalle eventuali azioni di un pa-gliaccio.

Ma le Ombre erano state caricate ad arte, pronte ad esplo-dere, e al momento opportuno ci avrebbero detto il fatto loro; e, stando alle apparenze, quando avessimo aperto gli occhi ci saremmo ritrovati infilzati e contrassegnati con un cartellino.

E adesso cos’avrebbero fatto? Sarebbero rimasti nascosti dietro il loro paravento, continuando a osservarci per pro-sciugarci di tutto ciò che avevamo da offrire?

E una volta pronti, quando avessero ottenuto tutto ciò che volevano o che ritenevano di poter ottenere, sarebbero usciti allo scoperto e ci avrebbero annientati.

Ero spaventato e furioso allo stesso tempo, sentendomi un totale imbecille, e quel semplice pensiero era decisamente e irrevocabilmente frustrante.

Mack poteva anche ingannare se stesso, convincendosi di aver risolto il problema con la sua trappola moschicida, ma restava pur sempre un grosso compito da portare a termine. In un modo o nell’altro dovevamo snidare quegli alieni, e mandare a monte il loro bel giochino.

A un certo punto riuscii ad addormentarmi e fui svegliato all'improvviso da qualcuno che mi scuoteva, gridandomi di alzarmi.

Mi sollevai di scatto sul letto e vidi che era Carr a scuoter-mi. Stava letteralmente farfugliando, indicando l’esterno del-la tenda e balbettando qualcosa su una strana nuvola. Fu tut-to quello che riuscii a capire.

Sgusciai allora dentro i calzoni e le scarpe e uscii con lui;

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ci dirigemmo di corsa verso la cima della collina. Era appena spuntata l’alba e le Ombre erano ancora radunate intorno alla trappola moschicida, oltre la quale si era raccolta una nutrita schiera di uomini, intenti a guardare verso est.

Ci facemmo strada a spintoni tra la calca, per portarci più avanti e lì vidi la nuvola di cui aveva blaterato Carr. Adesso però era molto più vicina e attraversava la pianura fluttuan-do, lentamente, maestosamente, e sopra di lei era sospesa una piccola sfera d’argento che lampeggiava e luccicava sot-to i primi raggi del sole.

La nuvola sembrava un ammasso di cianfrusaglie, dalla quale spuntava una torre di trivellazione, e qua e là quella che sembrava una ruota. Cercai di capire cosa potesse essere, ma non ci riuscii, mentre la massa si avvicinava sempre più a noi.

Dissi qualcosa a Mack che si trovava alla mia sinistra, ma non mi rispose. Esattamente come Benny... non era in grado di rispondermi. Sembrava ipnotizzato.

Più la nuvola si avvicinava, più sembrava fantastica ed in-credibile. Perché a quel punto non c’era più dubbio che si trattava di un enorme marchingegno, proprio come la struttu-ra che avevamo costruito noi. Cerano trattori, escavatori, pale e dozzine di altri attrezzi, e in mezzo a questi pezzi più grandi c’era ogni sorta di piccoli oggetti.

Nel giro di cinque minuti era arrivata quasi sopra di noi e stava cominciando lentamente ad abbassarsi. Mentre l'osser-vavamo si adagiò a terra, delicatamente, quasi senza un sob-balzo, nonostante si estendesse per due o tre acri. Accanto alla grossa struttura c’erano tende, bicchieri, cucchiai, tavoli, sedie, panche, una scatola o due di whisky e qualche attrez-zatura di rilevamento... se non mi sbagliavo, c’erano pratica-mente tutti gli oggetti contenuti nel nostro campo.

Quando si fu completamente adagiata, cominciò a scende-re anche la piccola sfera d’argento, fluttuando lentamente

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verso di noi. Si fermò a una certa distanza e quando Mack si avviò per raggiungerla, lo seguii. Con la coda dell’occhio vidi che anche Carr e Knight ci stavano venendo dietro.

Fermandoci a poco più di un metro dalla sfera, scoprimmo che altro non era che una tuta protettiva, dentro la quale c’era un piccolo, pallido umanoide. Non era umano, ma perlome-no aveva due gambe, due braccia e una testa. Dalla fronte spuntavano delle antenne, le orecchie erano lunghe e appun-tite, ed era totalmente privo di capelli.

Mentre stabilizzava a terra la sfera, ci avvicinammo un al-tro po’, piegandoci per metterci al suo stesso livello.

Puntò il pollice alle sue spalle, indicando l’ammasso di og-getti che aveva portato.

«Compenso,» gridò, con voce stridula.Costretti a deglutire per la sorpresa, non riuscimmo a ri-

spondere subito.«Compenso per cosa?» riuscì finalmente a chiedergli

Mack.«Per divertimento,» rispose la creatura.«Non capisco,» dichiarò Mack.«Noi facciamo uno di ogni cosa. Noi non sappiamo cosa

volete, così noi facciamo uno di tutto. Sfortunatamente man-cano due pezzi. Forse incidente.»

«I modelli,» esclamai, rivolgendomi agli altri. «Ecco di cosa sta parlando. I modelli erano delle riproduzioni, e man-cavano quelli dell’Ombra di Greasy e di Benny...»

«Non tutti,» aggiunse la creatura. «Altri vengono subito.»«Ehi, aspetta un attimo,» protestò Carr. «Mettiamo in

chiaro questa faccenda. Sostieni che ci stai pagando. Ma pa-gando per cosa? Cosa abbiamo fatto esattamente per te?»

Prima che potesse rispondere intervenne Mack, chieden-dogli bruscamente: «Come sei riuscito a fare questa roba?»

«Una domanda alla volta,» li pregai.«Macchine possono fare,» rispose la creatura. «Sapendo

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come, macchine possono fare tutto. Macchine molto buone.»«Ma perché?» tornò a chiedere Carr. «Perché hai fatto tut-

to questo per noi?»«Per divertimento,» spiegò con calma la creatura. «Per ri-

dere. Per guardare. È una parola difficile, non riesco...»«Spettacolo?» provai a suggerire.«Giusto,» rispose la creatura. «Spettacolo è la parola. Ab-

biamo molto tempo per spettacolo. Stiamo in casa e guardia-mo lo schermo degli spettacoli. Ma ci hanno stancati e cer-chiamo qualcosa di nuovo. Voi qualcosa di nuovo. Molto in-teressanti. E vogliamo pagarvi per questo.»

«Oh Santo Cielo!» esclamò Knight. «Adesso comincio a capire. Rappresentavamo una novità, un evento straordina-rio, e così hanno mandato i coni a riprenderci. Mack, ieri sera hai guardato dentro al cono?»

«Sì, l’abbiamo fatto,» rispose Mack. «L’ipotesi più atten-dibile è che fosse un trasmettitore televisivo. Ovviamente non come i nostri... ci sono delle differenze lampanti. Co-munque riteniamo si tratti di un apparecchio di trasmissione dati.»

Mi rivolsi all’alieno, all’interno della sua sfera scintillante. «Stammi bene a sentire,» dichiarai, «Veniamo ai fatti. Siete disposti a pagarci in cambio dello spettacolo che vi fornire-mo?»

«Con piacere,» rispose la creatura. «Voi continuate a in-trattenerci e noi diamo quello che volete.»

«Anziché una copia di ogni oggetto, potreste farcene tante di un singolo oggetto?»

«Voi mostrate a noi l’oggetto,» spiegò la creatura. «E fate sapere quanti.»

«L’acciaio?» chiese Mack. «Siete in grado di produrre l’acciaio?»

«Non conosco questo acciaio. Voi mostrare. Come fatto, come grande, quale forma, e noi facciamo.»

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«E noi in cambio vi facciamo divertire?»«Giusto,» affermò la creatura.«Affare fatto?» chiesi.«Affare fatto,» rispose la creatura.«Da questo momento in poi, senza interruzioni?»«Finché continuerete fare noi felici.»«Ci vorrà del bello e del buono,» mi disse Mack.«No, non è vero,» risposi.«Tu sei pazzo!» gridò Mack. «Non ce li daranno mai!»«Oh, sì che lo faranno,» risposi. «La Terra farà di tutto per

assicurarsi questo pianeta. Ma non ti rendi conto? Con que-sto scambio avremo una drastica riduzione dei costi. La Ter-ra non dovrà fare altro che inviarci un solo esemplare di ciò che ci serve. Un solo esemplare, e il gioco è fatto. Una trave a doppia T, e loro ce ne costruiranno un milione. E il miglio-re affare che la Terra abbia mai concluso.»

«Noi faremo nostra parte,» assicurò, felice, la creatura. «Finché voi farete vostra.»

«Invierò l’ordine subito,» annunciai rivolgendomi a Mack. «Lo compilerò e dirò a Jack di trasmetterlo immediatamen-te.»

Mi raddrizzai e feci per tornare al campo.«Ecco il resto,» dichiarò la creatura, indicando qualcosa

alle sue spalle.Mi girai di scatto e guardai.Un altro mucchio di roba, arrivato in volo, si stava già ab-

bassando. E questa volta si trattava di uomini... un compatto plotone di uomini.

«Ehi!» gridò Mack. «Questo non potete farlo! Non si può!»

Non ebbi bisogno di guardare. Sapevo esattamente cos’era successo. Gli alieni non solo avevano duplicato le nostre at-trezzature, ma anche gli uomini. Quella schiera di individui era costituita dai duplicati di ognuno di noi... o meglio, da

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tutti i duplicati, tranne il mio e quello di Greasy.Per quanto potessi essere inorridito, indignato, come lo sa-

rebbe stato qualsiasi essere umano, non potei fare a meno di figurarmi alcune delle situazioni che avrebbero potuto verifi-carsi. Ve lo immaginate? Due Mack che pretendono entram-bi di dirigere le operazioni! Due Thorne che provano ad an-dare d’accordo tra di loro!

Non restai lì ad aspettare. Lasciai che fossero Mack e gli altri a spiegare perché gli uomini non andavano duplicati. Seduto nella mia tenda, compilai un ordine imperativo, con precedenza assoluta, tassativo: la richiesta urgente di cinque-cento intrusori.

CLIFFORD D. SIMAK

Shadow World, di Clifford D. Simak, Copyright © 1957 by Galaxy Publishing Co., da Galaxy. Traduzione di Leila Moruzzi.