Quaderni Cds #1 - Un’esplorazione geostorica nel territorio della Circoscizione 7

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nel territorio della Circoscrizione 7 a cura del Laboratorio Geostorico Tempo Presente un’esplorazione geostorica Gavassa Massenzatico Centro Documentazione Storica di Villa Cougnet uaderno 1 2007 Mancasale Reggiane Santa Croce Pratofontana

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Curato dall’agenzia "Tempo Presente", con i testi di Antonio Canovi e Lorenzo Reggiani, il Quaderno ha rappresentato (nel 2007) la prima proposta del neocostituito Cds - Villa Cougnet, divenendone una sorta di manifesto programmatico: introducendo la metodologia di ricerca geostorica, ad intersecare saperi e discipline, in un ambito laboratoriale e a rete diffusa, si è dato vita ad un progetto teso ad essere luogo di riconoscimento oltre che di raccolta. L’esplorazione geostorica proposta origina dalla scelta di fare della memoria un bene partecipato ed interpretato, anche alla luce dei nuovi paradigmi di quella transizione sociale e culturale a cui Reggio Emilia si sta tuttora sottoponendo. Il Quaderno offre quindi un primo quadro dei riferimenti storici e geografici del territorio.

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Progetto culturale curato daLaboratorio Geostorico Tempo PresenteReggio Emilia, via del Guazzatoio 25/b

Elaborazione dei testiLorenzo Reggiani - [email protected] Canovi - [email protected]

Impaginazione e stampaCentro Stampa Comune di Reggio Emilia

Il volume è promosso dalla Circoscrizione 7in collaborazione con

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INDICE

Presentazione 7

I luoghi descritti 9

Santa CroceTra città e campagna: fine di una cesurasecolare 11Gettando lo sguardo oltre Porta Santa Croce 13Un territorio di frontiera 16“Nascita di una città”: con le “Reggiane”la campagna si fa periferia industriale 18Moderna, sempre in transizione...Insomma, è Santa Croce 39Villa Cougnet e l’Oratorio dello Zappello:due luoghi “adottati” nel paesaggio dell’oggi 48Beata Vergine della Neve, “madòna di calzètt”od Oratorio dello Zappello...? 49Villa Cougnet, l’ombelico di Santa Croce 52

Le OMI “Reggiane”; un profilo storico(1901-1951)Dalle origini al “biennio rosso” (1919-1920) 59Dalla conquista fascista all’eccidio del 28 luglio 1943 64Dai giorni del lutto alla riconversione mancata(1944-1951) 70

GavassaDalla dominazione romana all’evo moderno 79Il periglioso cammino di una Villa di campagna 86

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MassenzaticoVilla Crustunei 97Una Villa feudale 98Ancora sulla chiesa di San Donnino 108Massenzatico “rossa” 109Nel fuoco del Novecento 118

Pratofontana“Parto di Fontana in Crustulo Veteri” 126Note storiche 129Un episodio nella Resistenza 130La Scuola 133

Mancasale“Magnum Casale” 135La parrocchiale di San Silvestro e l’Oratoriodi San Michele in Bosco 139Mancasale: una periferia da esplorare 143

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PRESENTAZIONE

Con questo primo quaderno si dà il via al Centro diDocumentazione Storica di Villa Cougnet.

Dietro vi stanno diversi anni di lavoro didattico e culturalesvolto nell’ambito del progetto “Educa il Luogo”, un’esperienzache ha costruito sul campo sinergie associative prima inesplo-rate.

La metodologia di intervento mira ad intersecare saperie discipline nell’ambito geostorico (alla lettera: utilizzando lageografia e la storia, insieme). In tal modo, riunendo sul me-desimo piano buone prassi educative e percorsi scientifici diricerca, si è proceduto mettendo a punto repertori documenta-listici e didattici via via più affinati, se non proprio inediti.

Si è lavorato in modo laboratoriale, tessendo reti. La moledei materiali assemblati e un’attenzione crescente nei confrontidella documentazione ha fatto ora decidere per la creazione diun “nodo” reticolare di cui erano ormai in diversi – tra collabo-ratori e amici di “Educa il Luogo” – a lamentare la mancanza.

Il Centro di Documentazione Storica si propone d’altrondecome luogo di riconoscimento oltre che di raccolta. Archivia pervalorizzare, promuove per innovare. Queste, almeno, le inten-zioni che hanno trovato l’accordo unanime del Consiglio dellaCircoscrizione.

Guardando in giro, si trovano esempi stimolanti di orga-nismi del genere. La Città di Torino, in modo particolare, stadando forma ad un’articolata rete di Centri e iniziative denomi-nata Progetto Ecomuseo Urbano diffuso. Vi abbiamo trovato unpunto sostanziale di convergenza con quanto sinora sperimen-tato nella Circoscrizione 7: la scelta di fare della memoria unbene partecipato, che vive nel tempo presente e chiede perciòun percorso attivo di interpretazione. Crediamo che a Reggio,città che ha prodotto moltissimo sotto il profilo educativo comedella ricerca storica, vi siano ora le condizioni materiali per

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intraprendere un cammino ugualmente consapevole della tran-sizione in corso.

Con questo primo Quaderno si è inteso offrire un primoquadro geostorico di riferimento, non strettamente congiunturale.Verranno altre ricognizioni, da condursi con strumenti disciplinariancora diversi, ove continuare nello scandaglio dei giorni pre-senti.

Roberta Pavarinipresidente

Circoscrizione 7

Antonio Canovicoordinatore

Laboratorio GeostoricoTempo Presente

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Le “Reggiane” al massimo della produzione.

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SANTA CROCE

TRA CITTÀ E CAMPAGNA: FINE DI UNA CESURA SECOLARE

Nell’Italia comunale la distinzione tra spazio urbano erurale ricalcava altrettanti ambiti paesistici e identitari.

La città s’arrestava alle mura di cinta, un elemento ar-chitettonico ricorrente nel paesaggio urbano che – in molti casi– ha continuato a svolgere una funzione anche daziaria fino allaprima metà del XX sec. Sul lungo periodo, il segno fisico traun “fuori” e un “dentro” ha corrisposto ad un contrassegnoculturale.

Il fenomeno si attaglia bene al caso storico di Reggio. Leantiche mura di cinta che ne richiudevano l’abitato medievale– fatte riedificare dal duca Ercole II dopo la “tagliata” impostaalla metà del XVI secolo per adattarle alle nuove necessità didifesa – continuarono a rappresentare una frontiera indissolubilefino alla metà del XIX secolo. Nel 1848, in corrispondenza coni grandi moti insurrezionali europei, si procedette all’abbattimentodella cittadella gonzaghesca (situata dove oggi sorge il comples-so dei Giardini pubblici); qualche decennio più tardi, ad unifi-cazione avvenuta, la demolizione della cinta muraria assumeràil piglio della “modernizzazione” urbana.

Come ha ben riassunto Simonetta Sgobbi:

Fino all’inizio del XIX secolo Reggio Emilia ha mantenuto pres-soché inalterato il suo impianto medievale.Le mura testimoniavano una forte cesura tra la città, caratte-rizzata da un tessuto edilizio denso e compatto, e il forese chegiungeva fin sotto le mura. Questa contrapposizione derivavadal rapporto di subordinazione che legava il forese all’elementourbano, il quale rappresentava il centro di comando dellacampagna da cui, al tempo stesso, dipendeva economicamen-te.

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Reggio Emilia è rimasta interamente una città contadina pertutto il XIX secolo, mantenendo una struttura insediativa im-mutata in tutto il comune.Al 1884 (anno del primo rilievo cartografico IGM), la cittàmostrava, invece, già delle significative novità infrastrutturali apartire dal doppio tracciato ferroviario, quello principale dellalinea Bologna-Milano e quello secondario per Scandiano-Sas-suolo, che immettevano sul territorio nuovi rapporti e gerarchiefra le parti1.

Al progressivo dissolvimento delle mura fa da controcantoil segno forte della ferrovia nazionale (costruita nel 1856) a norddella città. La costruzione della stazione ferroviaria assume lavalenza di una vera e propria polarità urbana. Qui, in uno spazio“fuori porta”, vengono a costituirsi i primi insediamenti produttiviindustriali, cui si accompagnano aggregazioni operaie inedite perReggio. Nel volgere di qualche decina di anni, con un’accele-razione nel primo decennio del XX secolo, muterà radicalmentel’orizzonte dello sviluppo locale. Tra l’altro, l’asimmetria tra un“nord” di segno industriale e proletario ed un “sud” a carattereresidenziale ma anche più borghese – una polarizzazione oggieclatante nella vita del capoluogo – comincia a manifestarsi inquegli anni.

Bisogna anche dire che solo con gli anni quella trasfor-mazione finirà per assumere la dimensione epocale che gliriconosciamo nel presente.

Dal principio le mura sono abbattute per essere sostituitecon terrapieni e cancellate; tutt’attorno vi scorrono i viali dicirconvallazione. Su questo primo ring si affacciano villini bor-ghesi di respiro liberty, sovente dotati di ariosi giardini. D’altron-de, per costruirvi l’ippodromo, la città sceglie ancora un luogo“interno”: l’area della ex Cittadella; mentre la cancellata daziariarimarrà in vigore sino al 1926. Tutto sommato, bisognerà at-tendere gli anni Trenta e il decollo occupazionale delle “Reg-giane” perché la città si accorga intimamente di come il confine

1 S. Sgobbi, Trasformazioni urbane, mutamento sociale e politiche di piano, tesi di laurea, Venezia,Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.c. 2002-2003, p. 32.

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tra “cittadini” e “villani” si sia ormai spostato al di là dello storicoimpianto medioevale2.

Carta Topografica del Comune di Reggio Emilia dei primi del ’900 [Archivio dell’UfficioTecnico del Comune].

GETTANDO LO SGUARDO OLTRE PORTA SANTA CROCE

Ogni analisi storica che abbia come oggetto il territoriodella Circoscrizione 7 non può che partire dalla Porta di SantaCroce, passaggio obbligato per chi dalla zona nord del contadoreggiano volesse giungere in città o viceversa.

Collocata in corrispondenza dell’antico cardo romano, laPorta data al 1199, quando il libero Comune decise l’allarga-mento delle mura medioevali. Qui attorno, nei secoli a venire,prenderà vita un quartiere affollato e popolare, affatto distintonell’identità urbana che ha difeso strenuamente sino al “risana-mento” per ragioni di “igiene sociale” operato lungo il XX secolo:

2 Nel 1937 il poeta dialettale Amerigo Ficarelli compone una poesia dal titolo Da Santa Crous (verràpubblicata postuma in “Il Pescatore Reggiano”, 1938) dove collega in modo esplicito la radicaletrasformazione urbana e sociale in corso a Reggio Emilia alla forza di attrazione esercitata dalle“Reggiane” nei confronti di manodopera ben al di fuori della provincia reggiana.

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ci troviamo nel cuore del pòpol gióst, il “popolo giusto”3.

Unica tra le porte della cinta muraria, Santa Croce sopravvivenel XIX secolo agli abbattimenti “modernisti”. Viene anzirestaurata nel 1863, forse perché chiamata ad assolvere –guardando verso la ferrovia – alla funzione di sogliamonumentale, sopravvivenza della “vecchia” città murata cheguarda ad un mondo “nuovo” dove le antiche frontiere stavanorapidamente cadendo sotto l’avanzare dei treni a vapore. LaPorta ha così finito per dare il proprio nome al nuovo quartiereoperaio e industriale che inizierà a prendere corpo nei dintorni,tra viale Regina Margherita e viale Ramazzini: Santa CroceEsterna, per distinguerla dalla parte Interna.

Serve qui una digressione. Noi oggi identifichiamo SantaCroce con una storia che viene fatta corrispondere alla vita delleOfficine Meccaniche “Reggiane”, la fabbrica di carpenteriametallica nata nel 1901 e che a un certo punto – in corrispon-denza della seconda guerra mondiale – diventerà la più grandenella regione. Una storia, dunque, che sembra stare interamentedentro al XX secolo. In realtà, questo territorio presenta alcunielementi ben identificabili che ne caratterizzano la geografia giàprima della fondazione delle “Reggiane”. Primo tra questi, lapresenza del canale di Secchia, il quale – lungo la direttrice chedalla Porta Santa Croce conduce verso Novellara – ha favoritostoricamente la formazione di strutture protoindustriali.

Vediamo così la persistenza di parecchi mulini per lamacinazione di granaglie o la lavorazione di tessuti: il MulinoNovo e il Mulino del Panno, nelle vicinanze delle mura; il Mulinodella Nave, posto all’incrocio tra la strada per Novellara e viadel Chionso; il Follo (nome che ricorda la “follatura” della carta)in prossimità dell’incrocio tra via Adua, via Gramsci e vialeRegina Margherita; ancora più a nord, di fronte alla chiesa diMancasale, il mulino omonimo dove le granaglie venivanoscaricate dalle chiatte che risalivano il Canalazzo4. Lungo lamedesima direttrice prenderà vita, alla fine del XIX secolo, una

3 Antonio Canovi, Il popolo è giusto. Un mito di città, suppl. al n. 32 (83) de “Il Cantastorie”, ottobre-dicembre, 1988.

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tra le primissime fabbriche della città: la ditta di spazzole efiammiferi Agazzani.

Per il resto – se ci ponessimo nella prospettiva di unviaggiatore che vi arrivava ancora alle soglie del XX secolo –avremmo trovato campi coltivati, qualche edicola religiosa e casesparse. Poi, rapidamente, lungo l’asse di viale Ramazzini e viaVeneri, sorgeranno le prime abitazioni urbane: casette per iferrovieri e per gli operai delle “Reggiane”, qualche villino bor-ghese; quindi, entro il recinto della fabbrica, le case operaie del“Cairo”. Bisognerà attendere il 1917 per vedere costituirsi, at-torno al nuovo campanile di via Adua, in posizione piuttostoeccentrica, una nuova parrocchia (dedicata, ovviamente, allaInvenzione della Santa Croce). Mentre un cimitero in proprio,altro segno distintivo per ogni potestà frazionale e parrocchiale,non nascerà mai. Santa Croce Esterna, in tal senso, rappresentaa tutti gli effetti la prima periferia moderna del capoluogo: stafuori le mura, non è più campagna, qui prende corpo il mondo“nuovo”.

Pianta della città anni Venti.

4 Cfr. A nord della città. Una storia di acque nella Reggio che cambia, a cura di A. Canovi, Diabasis,2007.

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UN TERRITORIO DI FRONTIERA

Seguiamo la descrizione dei confini parrocchiali5:

Da Porta Santa Croce è linea di confine la cinta della città versoPonente, fino alla linea dei Canale di Secchia che esce dall’ortodei P.P. Cappuccini. Da questo punto il confine è lo stessocanale verso settentrione (non comprendendovi però la casaTerzi che parzialmente giace sul canale) fino allo sbocco inesso dell’altro canale verso Ponente. Prende per questo ramofino alla stradicciola dei Paradiso, percorrendola verso setten-trione fino al canale di Enza. Prosegue lungo questo canaleda ponente a levante, attraversando con esso la strada diMancasale davanti al Molino della Nave, continuando lungo ilpercorso del canale stesso, prima verso Nord-Est, poi versoSud-Est fino alla strada provinciale di Gavassa e Correggio,proseguendo al di là di questa fino al Rodanello. Percorre dettoRodanello fino alla strada dello Zappello, seguendo detta stradaProvinciale per Correggio, e per questo si riunisce col puntodi partenza a porta Santa Croce.

Una prima osservazione: scorrendo i toponimi si vedechiaramente come la parrocchia sia descritta tramite i propricaratteri rurali, mentre manca un esplicito riferimento agli inse-diamenti abitativi e produttivi che pure già esistevano. Proba-bilmente, ciò indica una difficoltà nel nominare il “nuovo” informazione. Certo, la geografia della parrocchia si estende inun territorio per una larga parte ancora contrassegnato dal reticolorurale a maglia larga, attraversato soprattutto da strade vicinali.Si evidenzia, tra queste, la strada vicinale detta delle Ortolane,la quale ha costituito a lungo la via di accesso alla città per lecampagne poste a nord della città (transitando su due varchid’acqua: il Rodano e il canale del Chionso). Questa via venneanche soprannominata strada dello “Zappello” o “Zappellaccio”,dalle buche fangose che punteggiavano il piano stradale.

Bisogna dire che la sovrapposizione – nelle carte comenegli usi quotidiani – tra i vecchi e i nuovi toponimi continueràa lungo nel corso del secolo: il viottolo del Lupo indicava una

5 A. Canovi, M. Mietto, M.G. Ruggerini, Nascita di una città, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 27.

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parte dell’odierna via Bligny, mentre la stretta via Mogadiscio –oggi un passaggio ciclopedonale – era detta viasòl dal Busìn(il viottolo del Buchino). Sentiamo una testimonianza, raccoltauna ventina di anni fa nell’occasione di una tra le prime pub-blicazioni dedicate a Santa Croce6:

C’era niente, in via Adua, c’era!lo mi ci ricordo molto bene, per dirla, ed lá dalla [oltre la]ferrovia non c’era niente, se non una due case dalla partedestra arrivare in fondo. Da questa parte di qua, c’erano altretre o quattro con l’angolo di via dal viasòl dal Lòv [viottolo delLupo], oggi via Bligny, che c’era una donna che conciava pelli;dalla parte di là c’era un contadino che si chiamava Lasagni,poi c’era la vecchia casa colonica, non colonica... era dopoquella di lotti, la via ed Mimìn. Al cosidèt casermòun ed Maiòun[il cosiddetto “casermone”], questa casa di gomma [ndr, cioè‘elastica’ perché sovraffollata] che ci si trova poi in quei tempiin tutte le frazioni.Oggi c’é il negozio lì di alimentari, di fronte, al villaggio Pistelliproprio, l’era una vecia cá dove la ginta se sposèven, andévenséimper déinter e mai a n’in gnìva fora, sèimper nasìva diragàs, eren ed cà casermoun tipo [era una vecchia casa dovela gente si sposava, andava sempre dentro e mai se ne andavavia, nascevano sempre dei bambini. erano di quelle case tipocasermone]. Davanti a villa Cougnet c’era la casa agricola, chec’era scritto in alto Zappello, che era una casa di lotti, poi c’erala casa di... Me le ricordo tutte come se fosse, no, un film:al casèin [il “casino”, si intende rurale, ndr] ed lulém, anchequello lì era un grosso agglomerato di pietre vecchie che poil’hanno abbattuto e dentro c’erano i cosiddetti casanti, i cam-baránt [i cameranti]. Erano della gente che andava in affitto...egh deven al cambri... al cambarànt perché a gh’cra la cambra[gli davano delle camere... camerante perchè aveva la camera].Un po’ più avanti di due o tre case e si andava al campovolo,da questa parte c’era villa Cougnet e c’era la chiesa di S.Croce”.

Cesare racconta di un paesaggio a maglie larghe, pun-teggiato di qualche vecchio edificio rurale. Con due presistenzeimportanti (le ritroveremo più avanti) che nell’ultimo lustro sonostate oggetto di un vero e proprio processo di risignificazione:l’Oratorio detto “Madonna della Neve” e “Villa Cougnet”.

6 Cesare, 1926, in Ibid., pp. 61-62.

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“NASCITA DI UNA CITTÀ”: CON LE “REGGIANE”LA CAMPAGNA SI FA PERIFERIA INDUSTRIALE

La nascita e lo sviluppo delle “Reggiane” – a Reggiochiamate non a caso la “Officina” – costituiscono il contrassegnodistintivo assunto nel corso del XIX secolo da questo vastoterritorio a nord della città che chiamiamo oggi Santa Croce.

La fabbrica, quando si installa tra viale Ramazzini e laferrovia nazionale, si fa indubbiamente portatrice di un progettodi modernizzazione economica che investe il capoluogo nel suocomplesso. Ma i cicli della sua vita finiranno per investire econdizionare la vita medesima della città, sotto il profilo urba-nistico non meno che da quello sociale.

Agli albori del XX secolo Santa Croce esterna è un’espres-sione nominalistica che ritroviamo accanto al nuovo respiro delleOMI “Reggiane”. Nelle cronache locali vi si parla di “sobborghiindustriali”, quando non di “suburbio”. Siamo ancora in unaporzione di territorio che non ha una sua autonomia ammini-strativa e partecipa della vita delle Ville circostanti: Ospizio, sullato sud-est a scavalco della via Emilia; Mancasale sul versantea nord-ovest, dove transita lo stradone per Novellara e vengonoincrociati i canali di Reggio, d’Enza, del Chionso.

Si trattava di un territorio ad uso prevalentemente agricolo,con poche abitazioni o pochi sobborghi rurali sparsi lungo assiviari di tipo tradizionale (viottoli, stradoni, carraie, canali), di cuila lunga via detta dello “Zappello” – traversante sull’asse nord-sud – costituiva l’elemento baricentrico più caratteristico. Siamo,per utilizzare una chiave interpretativa ripresa da diversi studiosi,in un territorio policentrico. Tra i punti di aggregazione ricono-scibili già agli albori di quella che diventerà Santa Croce Esterna,riconosciamo: l’agglomerato popolare del “Follo”, lungo lo stra-done per Novellara; la Cooperativa per le Case operaie di VillaMancasale in via Candelù; alcuni caseggiati e “castelli popolari”nella zona prospiciente il futuro Campo di Volo, con il castèl edMiera (Castello di Miari, dal nome del proprietario) in testa.

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Il casermone del Follo, fine anni ’70.

Il Follo, demolito intorno al 1980, era situato sulla stradaper Mancasale in prossimità del bivio per San Prospero (ora c’èuna grande rotatoria). Si trattava di un nucleo molto vecchio,preesistente alla nascita di Santa Croce e per la quale harappresentato il confine ad ovest. Era stato edificato in un luogomolto favorevole per alcune attività preindustriali, posto com’eraallo sbocco della città verso la bassa, in una zona ricca di acquee canali dove sorgevano diversi mulini (tra i quali, appunto,quello detto “del Follo”).

Sentiamo Aldo7:

Io sono nato a Santa Croce in quel casermone che hannoabbattuto lì, il Follo, che c’era in fondo all’incrocio dove hannomesso il semaforo adesso. Sono nato lì, dopo mi sono spo-stato, ho fatto tre traslochi ma sempre in questa zona perciòsono un santacrocino puro, diciamo. Sai, sessantun’anni! Miricordo fin da bambino i cambiamenti che sono stati fatti, anche,diciamo così come edilizia, mi ricordo ancora il canalazzoaperto, dal sottopassaggio fino lì alla Nave [...]. E’ quello cheprosegue dalla Nave dopo andar giù a Mancasale fino alleRotte di Bagnolo, quello era tutto un canale scoperto, l’hancoperto che ero un bambino appunto. E poi mi ricordo quando

7 Aldo, 1925, in Ibid. p. 49.

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hanno fatto il bacino della bonifica lì, ero piccolissimo però miricordo bene [...]. C’erano dal Follo, arrivare alla chiesa diMancasale, c’erano quattro mulini, che andavano ancora [...].Qua al Follo c’era il mulino Rossi, e poi qua dove c’è il magazzinodei formaggio ce n’era un altro lì che lo chiamavano al mulèindal Macagnàn e era di Dallari [...]. E poi c’era lì alla Nave ilmulino Giglioli e, lì di fronte alla chiesa di Mancasale, lì erail più grosso che era quello di Forti”.

Oltre ai molti mulini la zona ospitava – nella “bassa”argillosa che partecipava del territorio di San Prospero Strinati– un’altra manifattura di tipo tradizionale, dove molte erano ledonne ivi impiegate: la fornace dei mattoni.

Don Gaetano Incerti8:

Sino al novecento e anche dopo, nella parte bassa di Reggioc’erano ben 4 fornaci. Reggio è ubicata lontano da centri estrattividi marmo o sasso perciò l’architettura ha dovuto accontentarsidi “terre cotte”. Questa è l’ultima fornace abbattuta negli anni’50 quando già si amavano le cose passate. Era situata neipressi dell’attuale tribunale; per chi la ricorda l’interno era uncapolavoro di meandri che ventilavano continuamente l’ariacalda. […] Era un lavoro disagiato e da strozzini. Veniva infattiimpiegato quasi solo personale femminile e di buona stazzae mal pagata, ecco come: L. 19 per 1000 mattoni; L. 30 per1000 coppi e lambrecchie; L. 55 per 1000 laterizi vari il cuiprezzo di vendita non fosse inferiore a L. 80. Eravamo nel 1907.

Abitazione eretta nel 1908 dalla Cooperativa per le Case Popolari a propietà indivisadi via Candelù.

Il laghetto a tutt’oggi visibile, nell’area a sud dell’ipermer-

8 Don G. Incerti, Rivoluzione stradale. Piange… Santa Croce, Reggio Emilia, 2003, p. 21.

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cato “Ariosto”, costituisce il frutto residuo delle attività “estrattive”della vicina fornace.

Sempre nei pressi dello stradone per Novellara, sul latoopposto al “Follo” e in angolo con il canale del Chionso, nel 1908sorgono le “Case operaie di Mancasale”. Siamo in via Candelù,a pochi passi dal vecchio mulino (abbattuto nell’agosto 2005)della “Nave”. Si tratta di un borgo operaio che si aggrega attornoad una propria, distinta identità politica: sono operai socialistiche danno vita ad una cooperativa di abitazione a proprietàindivisa (tuttora attiva). Ne è stata offerta questa fotografia storica9:

La scelta dell’autorganizzazione contò probabilmente nella stessaopzione dell’area: fuori le mura ma vicino alla città, sufficien-temente lontana da altri grossi insediamenti e, particolare nonirrilevante, da qualsiasi parrocchia. Candelù viene a configurarsicome un piccolo borgo, attivo e dotato di una serie di serviziin grado di attirare la popolazione sparsa circostante (la fon-tana, in una zona senza acqua potabile; lo spaccio alimentarecooperativo). Un grosso centro sociale era l’osteria-bocciodro-mo, frequentata dai socialisti non solo di Santa Croce. Unanotevole capacità organizzativa, mantenuta sino ai giorni nostrie celebrata simbolicamente con la festa popolare. Prima laSagra - quella di Mancasale - tenuta in loco con tutti i di-vertimenti tipici [il ballo prima di tutto] e in alternativa allaparrocchia; nel dopoguerra, la festa dell’Unità. Risulta chiaroil tentativo di consolidare il proprio centro nei confronti del-l’esterno. Una preoccupazione di lungo periodo se ancora oggi“quelli di via Candelù” sono additati per la loro orgogliosaautonomia e il basso tenore degli scambi con altri centri diaggregazione sociale. L’unico termine di relazione realmentericonosciuto è la città. D’altronde – se non altro per fedeideologica – gli abitanti di queste case erano volti alla parte-cipazione ad una vita sociale ‘moderna’, propria del modellourbano.

Bisogna comunque ricordare che il contesto “urbano” siadelle case popolari di Mancasale che del Follo, come delle primeattività artigianali e protoindustriali presenti in zona, si inserivanoancora in un contesto prevalentemente agricolo, fatto di grandi

9 A. Canovi, M. Mietto, M. G. Ruggerini, op cit., p. 47.

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spazi e orti dove i nuovi caseggiati costituiscono in effetti unelemento di rottura nel paesaggio. Qualcosa di ben identificabileagli occhi di chi vi abitava, come Vania, Elide, Tullio10:

[Vania, 1915] Quando sono venuta qui c’era un bel posto, quic’era campagna [...]. Non c’erano vie allora, c’era tutto aperto,era tutta campagna. C’erano poche case, diciamo non c’eraquel palazzo lì davanti, non c’era questo, c’erano i prati, gliorti, i giardini quelli che lo volevano fare, cosi [...]. Case popolaridi Villa Mancasale ecco, come adesso. Case popolari di VillaMancasale, però adesso abbiamo via Candelù, via Selo, viaFaiti che invece prima non c’erano le vie, c’era tutto cortile qui,orti, prati, c’era sì più spazio diciamo, meno case ma piùspazio.

La ex Cooperativa di consumo, oggi ristorante, in via Gramsci.

[Elide, 1916] Lì c’era un gruppo di socialisti allora, prampolinianinaturalmente che sono poi quelli... Una parte si sono resipromotori di costruire queste case. Le prime case sono sortesotto la cooperativa a proprietà indivisa, ecco e questa è statauna iniziativa grossa tenuto conto al periodo. Sono sorte perchél’iniziativa è venuta nell’otto, queste case sono state fatte nell’ottoe nel venti erano dieci anni che avevano iniziato. Non erano

10 Ibid., p. 48.

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neanche... erano parte finite sì e no [...]. E queste case si sonosalvate dalla violenza del fascismo perché erano ipotecate daidebiti, dalle banche.

[Tullio, 1923] Considerata la zona dove eravamo noi che erauna zona al centro della quale c’era questa cooperativa casepopolari, una vecchia cooperativa a proprietà indivisa, noi intornoa questa cooperativa avevamo tante piccole proprietà. Eravamonoi e tanti altri abitanti di questa zona, ma sì eravamo con-siderati un po’ un po’ la borghesia rispetto al nucleo delle caseoperaie [...], anche se dal punto di vista economico, l’anda-mento economico delle diverse famiglie era praticamente ugualea quello di questa gente.

Immagine della “Nave” prima della demolizione.

Abbiamo detto di un territorio policentrico. Il Follo e viaCandelù risultano senz’altro eccentriche rispetto al nuovo bari-centro industriale che ai primi del Novecento si va formando suviale Ramazzini e attorno alle “Reggiane”. Ma nel medesimotorno di tempo (tra il 1911 e il 1913) viene disegnata via Adua,un’asta lunga un km destinata a rivoluzionare – in un lungoprocesso storico tuttora in corso – le gerarchie urbane nell’interaarea. Via Adua ha infatti la particolarità di scorrere sulla direttriceest-ovest, praticamente in parallelo alla via Emilia, mentre le vie

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di comunicazione presistenti, grandi e piccole, correvano a rag-giera verso la città, dunque sulla direttrice nord-sud. Via Aduaè un grande, “nuovo” (come si sottolinea nella memoria) stra-done che porta a Correggio: sino alle soglie della seconda guerramondiale rimarrà tutto sommato uno spazio piuttosto sgombrodove fare ad esempio le corse in motocicletta. Al tempo stesso,lentamente, comincia ad urbanizzarsi: ai suoi lati vengono edificatiabitazioni residenziali e piccoli stabilimenti produttivi, poi – masolo dopo la seconda guerra mondiale – sarà la volta dei priminegozi. È insomma grazie a via Adua che un territorio dal carattereframmentario assume le sembianze di quartiere policentrico.

Carta della città (zona nord) 1942.

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Al momento della sua formazione, su via Adua insistonogiusto alcuni complessi rurali evidentemente presistenti. La me-moria locale ricorda – oltre alla già menzionata villa Cougnet– il caseggiato popolare detto della cà d’Maioun (si trovava difronte all’attuale villaggio “Pistelli”).

Werther ne traccia un affresco complessivo, suggestivonella descrizione infarcita di espressioni dialettali e pregnanteper la capacità a situarsi entro quel contesto geostorico ormairadicalmente mutato11:

Egh sun stè quarantasìnch, quarantùn àn e po’ dopa em sunspustè. Sèint metere adès stagh sèmper in via Adua listès, moluntàn sèint méter [Ci ho abitato quarantacinque, quarantunanni e poi dopo mi sono spostato di cento metri e adesso stosempre in via Adua lo Stesso lontano cento metri]. E’ stata unadelle prime case quella lì ed Maiòun, che... cuntèr al cà chegh’era alòra in via Adua, e gh’era dó, cola ed... trei, quaterquella di fronte alla chiesa, poi ce n’erano due vecchie qua,cola lè ed la Reggiana, sìnch, se, set cola lè ed Maiòun, colaed Barbieri lè in tal spìgh ed... còs, òt cola ed... nòv, dès,òndes, a gh’era dòdes cà in via Adua alòra [che... contare lecase che c’era allora in via Adua, ce n’erano una, due e quelladei... tre, quattro quella di fronte alla chiesa, poi ce n’eranodue vecchie qua, quella della Reggiana [la squadra di calcio],cinque, sei sette quella lì di Maioni, otto, quella lì di Barbierinello spigolo di... ‘coso’, otto quella di ... nove, dieci, undici,c’erano dodici case in via Adua allora]. Parlo dell’epoca deiventi ventuno ventidue, parlo di quell’epoca lì, micca... Ses-sant’anni, sessantun’anni fa anche. Via Adua la ciamèven alstradòun nòv alòra [la chiamavano lo stradone nuovo allora]perchè era appena stato fatto, non so se sia stato del dodicidel tredici o del quattordici. Chiesa e stradone. E lo stradone,e l’an ciamè... préma ed ciamèrel via Adua al ciamèven sèimpertót stradòun nòv, dalla Tripolitania al ciamèven [E lo ‘stradone’,lo hanno chiamato ... prima di chiamarlo via Adua lo chiama-vano sempre tutti stradone nuovo, dopo la guerra di Libia]. Epoi c’erano le vie laterali, c’era la via... Qui la chiamavano viadel Busìn, quella lì dove c’è la villetta della Reggiana, quellalì, era poi privata quella lì [...]. Anticamente era privata perchètante volte ci mettevano la catena. Po’ dopa gh’era via Blignyche la ciamèven via dal Lòv, e via dal SapèI che l’era via Veneri,cl’etra, cl’etra andèr in là era via delle Ortolane [Poi dopo c’era

11 Werther, 1915, Ibid., p. 60.

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via Bligny che la chiamavano via del Lupo, e via dello Zappelloche era via Veneri, quell’altra, quell’altra procedendo avanti eravia delle Ortolane]. Dalla parte di là, altre strade... Sempre aquell’epoca lì. Dopo è nato, coi quartieri nuovi, è poi nato dellestrade nuove”.

La Chiesa di Santa Croce, primi anni Venti.

E proprio lungo via Adua, ancora oltre la Ca’ d’Maiòun masul lato che guarda a sud, nel 1917 venne edificata in uno stileliberty piuttosto austero la chiesa di Santa Croce. La nascita diquesta parrocchia va correlata strettamente con lo sviluppoimpetuoso delle “Reggiane” registrato a ridosso e durante ilconflitto.

La presenza in fabbrica di oltre cinquemila operai (moltele operaie), nonché la presenza di forti nuclei operai sparsi sulterritorio, dovettero porre alla Curia il serio problema di comeprovvedere alla “cura delle anime” di tanta popolazione “nuova”.Negli anni Trenta, a fianco della chiesa (dove ora ha sedel’Oratorio diocesano), sorgerà poi il primo asilo nella zona, affidatoa personale religioso (il “Campi Soncini”, attualmente ubicato invia Veneri).

La nascita della nuova parrocchia (di cui si sono primamostrati i confini) costituisce una prima formalizzazione dell’esi-stenza di Santa Croce; nel 1921 diverrà finalmente distrettostatistico a se stante.

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Villa Chilloni in via Veneri.

Altro edificio rimarchevole, databile alla seconda metà delXIX secolo, è la villa Chilloni, in stile di casa padronale, su viaVeneri. Sulla medesima via, con caratteristiche di villino borghe-se “fuori porta” (dunque collocabile nell’epoca del liberty) si trovavilla Luigia, contornata di un ampio giardino.

Il Castello di Miari prima dell’abbattimento.

Veniamo ora ai “castelli popolari”, veri e propri formicaiumani per salariati agricoli e venditori ambulanti, miseri dicondizione. Tra questi, il più rimemorato è indubbiamente il“castello” detto di “Miari”. Sentiamo Dimma, Rameres, Werther12:

12 Ibid., p. 50.

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[Dimma, 1912] Io sono nata lì all’Ospizio. Egh gìven al castelloMiari [lo chiamavano il castello di Mari], tutte case vecchievecchie... molti... si andava molto d’accordo lì, sembrava tuttauna famiglia [...]. Eran lì al campovolo, beh allora non c’eranpoi tante case ... però dove abitavamo c’eran tutti ì negozi,c’era la osteria, c’eran i giochi da bocce che gli uomini an-davano a giocare lì, c’era una fornace dove abitavano... poic’eran tutti i contadini. Ah, c’eran tutti i contadini, ‘na mùciaed cuntadèin, insòma [un mucchio di contadini, insomma]Eravamo comodi [...]. Am ricòrd bèin al Castèl [Mi ricordo beneil Castello], sono ricordi che si ricordano, lo chiamavano castelloMiari perché proprietari erano molti dei Miari, allora c’han sempredetto al castello di Miari, acsè [così].

[Rameres, 1918] Oh mo l’era un lavòr! [Oh, ma era un lavoro!]Al castèl de Miera, una borgata di case che era tremenda,qualche cosa di orrendo a vederle, o ancora del Cairo comeabitazione civile [...]. Lì era la borgata dei comunisti, lì nonabitava nemmeno un fascista [...]. Loro avevano o una vita asé, era una seconda repubblica [...]. Al castèl de Miera c’hapiù storia, più storia del Cairo. Quelli che hanno sentito direme, al gh’à una storia cl’è memoràbil [ha una storia che èmemorabile].

[Werther, 1915] Era una borgata abbastanza grossa. Quandes rivèva da la streda là in che es curvèva per andèr a cl’etrastreda ed via Adua [Quando si a dalla strada là in fondo, chesi curvava per andare in quella strada, via Adua], lì in mezzoc’era un viottolo che c’era una cl’era ciamèe al castèl de Miera[che era chiamata il castello di E al castèl de Miera l’era unpopolo a sè, per dìr [così per dire], no per caratteristica, perchéerano allora quasi tót di ròs, ma di ròs, d’la ginta! che... [tuttidei rossi, ma dei rossi, della gente!]

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Il “Cairo” prima e dopo i bombardamenti

Con l’urbanizzazione di Santa Croce si diffondono tipo-logie abitative moderne, prima inedite alla città.

Il più noto è sicuramente il “Cairo”, il complesso di quattrocondomini operai sorti tra il 1911 e il 1913 come case operaieper le maestranze “immigrate” delle “Reggiane”. Si tratta dioperai provenienti da altri comuni nella pianura reggiana odanche – per via di una specializzazione professionale – dadestinazioni più lontane. Vi sono ad esempio modenesi, mar-chigiani, lombardi.

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Bisogna poi soffermarsi sul toponimo. Il nome “Cairo”nasce all’interno del medesimo gruppo di famiglie ivi residentie sta probabilmente ad indicare proprio la varietà delle recipro-che provenienze, in una convivenza affollata e promiscua. Maal di là di tutto, per chi vi abita “Cairo” diventa sinonimo di unaidentità sociale distinta e orgogliosa. Diverso il punto di vista dichi, dall’esterno, osservando questo strano agglomerato.

“Quelli del Cairo” hanno a lungo rappresentato una sortadi “corpo di fabbrica”, che nella realtà della fabbrica plasmavala propria vita e sostanzialmente refrattario a legarsi nella vitadi quartiere. Il Cairo infatti, occupava, fino agli anni sessanta,la porzione di terreno delle “Reggiane” che oggi è occupata daicapannoni occupati dalla ditta di trasporti Executive. Si trattavadi quattro lunghi “casermoni” edificati sulla proprietà delle “Reg-giane”, in un contesto di ampi prati – siamo nel secondo de-cennio del secolo scorso – chiusi tutt’attorno da una recinzione(da quanto si ricorda, prima era una siepe e poi un alto muro).Il solo collegamento diretto era con la fabbrica (all’epoca tuttadisposta lungo viale Ramazzini), tramite un viottolo non asfaltatolungo un centinaio di metri.13

Con lo sviluppo della fabbrica questi condomini ante lit-teram verranno raddoppiati in altrezza, arrivando ad ospitareciascuno un centinaio di persone. Sentiamo l’impressione diSonia, quando ragazza li vide per la prima volta:

Per me era un posto, faceva parte delle “Reggiane”, quindi leReggiane fino a quando non ci sono entrata le ho semprevissute con un certo distacco [...]. Era chiuso dentro questemura. Queste mura a me facevano un po’ effetto perché cioèmi sembrava che fosse un po’ una segregazione, un posto chela gente non dovesse uscire di lì [se non] con dei permessi[...]. Quindi vedere queste case cintate da queste mura, perme, per me era non una prigione ma quasi insomma, misembrava che le persone dovessero avere il permesso quindile guardavo con un certo occhio. Così, un’impressione che misono fatta io.

13 Sonia, 1921, Ibid., p. 46.

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Il “Cairo”, nella percezione degli altri abitanti in SantaCroce, rimaneva pertanto parte del paesaggio di fabbrica, unmondo a se stante. Eppure, in quanto elemento di rottura conle tradizionali aggregazioni urbane e rurali della zona, ne diventaanche elemento di riconoscimento verso l’esterno. Cesare14:

Ci andavano un po’ tutti, lì [alle “Reggiane”] noi del quartiere,il Cairo in particolare – perché Santa Croce Esterna la siindividuava nel Cairo. [...] lì c’erano quattro lunghe case, credoche fossero novantanove le famiglie che abitavano lì dentro,era il nucleo più vecchio di Santa Croce. Perché parlèr ed SantaCròs interna es perla ed Borgh Emilio, parlèr ed Santa Cròsesterna es perla dal Cairo [perché parlare di Santa CroceInterna si parla di Borgo Emilio, parlare di Santa Croce Esternasi parla del Cairo], come nucleo più importante”.

Le famiglie operaie vi stavano in piccoli appartamentisovraffollati – normalmente oltre ai genitori c’erano anche quattroo cinque figli – senza comfort e, almeno fino agli anni trenta,senza acqua in casa. Ma era la condizione di tanti lavoratori,per l’epoca. Anzi, si trattava di abitazioni nuove per edificazione,più salubri di tante altre nel centro storico. Simone15:

Eravamo novantasei famiglie in quattro case. Lì era tredicimilametri quadrati e cerano quattro case con un cortile… In unprimo tempo c’era il primo piano e un piano rialzato un secondopiano in un secondo tempo. Per il periodo di allora erano anchedelle case decenti: ci avevamo l’acqua in case perché in unprimo tempo ce l’avevamo solo in cortile; c’era una lavanderiae poi ognuno aveva il gabinetto in casa… erano delle caseabbastanza decenti per quel periodo. […] Avevamo il gabinettocol water, due camere da letto, una sala grande e uno sga-buzzino. Noi dormivamo in quattro in una camera… piuttostostretti ma comunque ci stavamo. […] Il pavimento era a mattonirossi, quelli alti di fornace. Era abbastanza decente tenendoconto che c’erano zone come quella di Borgo Emilio Franco-tetto e questi agglomerati qui erano molto peggio come case.

14 Cesare, 1926, Ibid., p. 46.15 Intervista a Simone Brega, in A. Canovi, La storia e la memoria: uso delle fonti orali nella ricerca

storica, tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Bologna, 1984, pp. 363-365.

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Il “Cairo” resisterà, pur uscendone malconcio, al bombar-damento del 1944. Ancora Simone16:

[…] Lì distrussero quattro metà. La prima metà siccome le caseerano tutte parallele, così… la prima metà, la seconda metà,la terza metà e la quarta. Distrussero poi anche tutta l’Aziendae siccome noi eravamo in un angolo praticamente eravamoincastrati dentro la fabbrica come case ma non ci fu neancheun ferito perché una parte era nei sotterranei cioè erano dellebuche a zig zag coperte con delle tavole e un po’ di terra sopra,e una arte era scappata dentro il ricovero delle Reggiane chequello era un ricovero vero, antiaereo, sotto la direzione. Lìc’era un grosso rifugio, andavano tutti lì sotto e… non ci funeanche un ferito perché poi le bombe sfiorarono la fossa manon la colpirono mai… tutti impolverati, ma non ci fu un ferito.

Il vecchio “Cantinone”, anni Novanta.

Dopo la guerra il “Cairo”, come buona parte delle abita-zioni in possesso delle “Reggiane”, passa all’Istituto Case Popolari,il quale continuerà a gestirlo sin quasi alle soglie dell’abbatti-mento, nei primi anni settanta. Con la sua distruzione spariràanche l’unico esempio di case operaie costruite direttamente da

16 Ibid. p. 365.

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un’azienda industriale nel Comune di Reggio Emilia. Diventaallora importante, in sede storica, ricostruirne i tratti antropologicie culturali. Circa l’identità politica, Simone lo rivendica apertamen-te: “In generale erano tutti di sinistra”: ricordando come non vifosse peraltro “una vera vita associativa”, la quale veniva svoltanelle “vecchie osterie”, queste sì poste al di fuori del “Cairo”.17

Dopolavoro “Reggiane”, via Agosti.

Il capitolo delle osterie sarebbe senz’altro lungo da rico-struire. Ve ne erano nei dintorni almeno due più memorabili dialtre. Su viale Ramazzini funzionava il “Cantinone”; comodo,proprio di fronte a quella che era la portineria dello stabilimento,era considerato un ritrovo tenuto sott’occhio dalle squadre fa-sciste. Nell’ordine: Medeo, Gualtiero, Rameres18.

[Medeo, 1915] Andando in via Ramazzini, voltando a destra,andando avanti un po’, c’è il Cantinone adesso. Non è piùl’osteria, non c’è più. C’è una trattoria, c’è la privativa, lì c’eranoi generi alimentari,c’era la privativa, c’era l’osteria, lì c’era ildeposito da biciclette.

[Gualtiero, 1906] Il Cantinone. Lì c’era un’osteria, il Cantinone,solo la parola Cantinone vuol dire che c’era una cantina, dove

17 Ibid., p. 370.18 A. Canovi, M. Mietto, M. G. Ruggerini, op cit., p. 73.

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si va giù c’era il deposito, c’era una cantina piena di botti, mauna cantina lunghissima di quei bottoni tutti che han la spina.Allora facevano il vino loro, era un cantinone. Davanti dove c’èil caffè adesso c’era l’osteria.

[Rameres, 1918] Beh, di fronte a Gallinari c’è il Cantinone [...].Ecco lì dentro c’era il covo dei fascisti [...]. Dentro al Cantinone,adesso c’è un bar, una trattoria, e... lì c’era il covo dei fascistidelle Officine Reggiane [...]. Cantinone adesso e Cantinoneallora [...]. Facevano i fascisti per mangiare, difatti facevanoi suoi affari perchè l’osteria era sempre piena, piena. Ah, unoche non era micca fascista andava micca lì allora. Venivano,era l’osteria più nera che ci fosse stata in tutta la provinciadi Reggio il Cantinone! Dove c’erano i più grandi picchiatori[...]. Venivano quelli della bassa plebe.

Per contro esistevano altre osterie dove gli avventori eranodecisamente schierati su posizioni antifasciste. Nell’ordine: Aldo,Norma, Wallì19:

[Aldo, 1925] Ce n’era una giù per via Mogadiscio là, la stradache va giù alla chiesa [...]. Sulla sinistra, l’unica casa che c’èlì [...], quella casa lì c’era un’osteria, al ciamèven da Ventura[...]. Era conosciuta,, molta gente che c’andava, perché c’eranoquei due gelsi grossi e nove all’ombra lì fuori. Allora sentivodegli anziani, dicevano: ‘vagli da Ventura! E vagh a magnèr quèle po’ e bóm du biciròt!’, vai? Vado da Ventura! Vado a mangiarequalcosa e i bevi bicchierotti!]. E allora sapevo che era lì.

[Norma, 1907] A metà di questo viottolo una casa, no, che c’eraun’ osteria, ch’egh given da Ventura [lo chiamavano Ventura],di soprannome. Si chiamava Montanari. Allora c’andava semprequel Lugli... che abitava in via Roma, che c’aveva una figliae un figlio suonavano il violino e po’ al mansèt [fisarmonica].Andavano tirèven tót chi òmen un po’ anzianòt [e poi si tra-scinavano quegli uomini un po’ anzianotti]. Allora era una famigliaun po’ grossa, c’avevano l’allevamento dei maiali e c’era tante,tante tante ma allora avevano messo un altro soprannome,‘andiamo a Mosca. Capisce? Dicevano così.

[Wallì, 1915] Sì c’era l’osteria di Ventura, che infatti era in quelviottolo lì che ci ho detto, che io facevo andare a lavorare.Ventura era molto conosciuta e caratteristica proprio, e lì

19 Ibid., p. 72.

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c’andavano gli operai a mezzogiorno, a mangiare, tanti operaiandavano lì a mangiare.

Altra osteria nota era la “Fonte”, posta in viale Ramazzininei pressi del passaggio a livello, dove attualmente si trova lapizzeria “La Tortuga”. Nel medesimo edificio, prima della costi-tuzione del grande polo in via Agosti alla fine degli anni Trenta,venne ospitato il “Dopolavoro” delle Reggiane.

La “colonizzazione” della “Reggiane” su quest’area si ritrovanella lunga teoria di capannoni ma anche in una serie di ca-seggiati dove trovarono posto operai ed impiegati. Accanto alsito dove sorgeva il “Cantinone”, c’è tuttora un ampio edificiosoprannominato il “Vaticano”. Don Gaetano Incerti20:

Oltre via Veneri esisteva un ampio riquadro, sul quale i dipen-denti delle Reggiane giocavano su sei campi da bocce. Oggivi sorge un condominio “ex Reggiane” dirimpetto al cosiddetto“Vaticano”, un enorme palazzone per dipendenti così battezzatonon si sa il perché. C’è chi dice, per ironia, perché nessuninquilino metteva piede in chiesa. Si racconta infatti che uninquilino, piuttosto faceto, canzonasse quanti entravano in chiesa:“Andate a vedere i burattini” – “Vieni anche tu a fare la partedel Sandrone”, gli rispose il cappellano don Lindner.

Magazzini Locatelli, visione d’insieme

20 Don G. Incerti, op. cit., p. 6.

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Più ad est su viale Ramazzini, in angolo con via FlavioGioia, si trovavano la stazione dei Carabinieri e il “DepositoAutomezzi Reggiane”. Mentre la prima urbanizzazione su viaBligny (ma era chiamata vicolo del Lupo) è opera della dittalombarda di formaggi “Locatelli”, che qui impiantò negli anniVenti i primi magazzini di stoccaggio del grana, con annessauna elegante palazzina liberty per i servizi impiegatizi e di custodia.Qui sorge ora il Centro Internazionale dell’Infanzia “Loris Ma-laguzzi”21.

Ma torniamo ora allo stradello dello “Zappello”, che ab-biamo visto essere la tradizionale via di collegamento tra SantaCroce e la campagna. Dopo la prima guerra mondiale, in re-lazione alla costruzione della stazione ferroviaria di Santa Croce(che verrà inaugurata il 30 ottobre 1926, in occasione della visitadel Duce alla neonata ferrovia Reggio-Boretto) la strada – ormaidedicata ad Antonio Veneri, personalità insigne della RepubblicaCispadana – vede sorgere una fitta ed ordinata teoria di casedestinate ad abitazione per i “ferrovieri”. Sono edifici che sidifferenziano, per tipologia ed anche per standard abitativo, daicircostanti. Sempre in quest’area, sul versante a fronte, sarà nona caso costruita anche la scuola elementare (oggi “Collodi”). Equi abitarono, tra gli altri, la futura presidente della Camera deiDeputati Nilde Jotti e l’artefice pedagogico delle scuole comunalidell’infanzia, Loris Malaguzzi.

C’è un bel racconto di Sonia che restituisce la “misura”di questo insediamento sotto il profilo della relazione sociale22:

Mio padre che lavorava sempre in ferrovia, allora lavorava neldeposito e Ferrovie reggiane lì al deposito che c’è in via Forzani.Lavorava lì e allora siamo venuti ad abitare a Reggio quandohanno fatto dei ferrovieri, la prima parte, cioè le case chec’erano davanti. erano su due schiere le case, le case chec’erano davanti erano costruite prima. Io non mi ricordo quan-do, mentre invece le altre siano andati a abitare noi, sono state

21 Sulla costituzione e organizzazione del Centro, cfr. “rechild” 2/2005, dicembre 2005.22 Sonia, 1921, in A. Canovi, M. Mietto, M.G. Ruggerini, op cit., p. 66.

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proprio finite di costruire nel ventisei, quando io sono venutaa abitare a Reggio. Mio padre ne aveva diritto in quanto ferrovieree in quanto abitava anche fuori zona. Insomma fuori territorioe credo che allora fosse l’obbligo di vivere nel comune dovesi lavorava.(…) Era molto abitata, per il fatto che c’erano diciotto… mi pareche fossero diciannove, le case dei ferrovieri. Per ogni casaabitavano due famiglie, quindi erano trentasei famiglie, si puòdire famiglie che i genitori avevano circa l’età dei miei e i figlierano tutti su per giù della nostra età, perciò ci trovavamo neicortile, ma c’era un... fra le case, proprio nel mezzo direi dellavia dove erano ubicate le case, c’era una grossa fontana conuna grossa vasca immensa. Io credo che adesso le misure...le cose viste da ragazzi e le cose viste dopo cambiano unpochino, quindi non vorrei dire. Però mi pare che fosse sui sei,otto metri per quattro ecco, perché era grande questa vasca.

Portandoci più a nord di via Adua si arriva al canaled’Enza, il quale funge su questo versante da confine “naturale”di Santa Croce Esterna: le sue rive erano costeggiate dal viottolodel Chionso, oggi trasformato in un raccordo importante tra laprovinciale per Correggio e quella per Bagnolo. Ancora Sonia,un “occhio” molto attento a registrare il paesaggio della propriainfanzia23:

Via del Chionso era una via direi prettamente secondaria.Prima di tutto quando io sono venuta ad abitare lì non eraneanche asfaltata. Il canale addirittura, che c’è il canale dibonifica che passa, era un grosso fosso più che altro, perchéè stato bonificato un pochino nel trentaquattro; nel trentaquattroinfatti han fatto il letto e le sponde in cemento. Però era rimastoaperto ed è rimasto aperto fino a due anni fa. Insomma erauna strada di campagna, si può dire. Anche il traffico eraconvogliato su via Adua.

23 Sonia, 1921, Ibid., p. 67.

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Nilde Iotti inaugura la sezione PDS di Via Redipuglia il 23 maggio 1994.

Tribuna dell’ippodromo (poi Campo di Volo), anni Venti.

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Aeroporto.

Produzione velivoli “Reggiane”.

MODERNA, SEMPRE IN TRANSIZIONE...INSOMMA, È SANTA CROCE

Riprendendo via Adua verso est, si arriva in vista dell’ae-roporto cittadino “F. Bonazzi”. La sua costruzione tra il 1936 eil 1937 – realizzata d’urgenza come diretta conseguenza dellanuova produzione aeronautica delle “Reggiane” – ha indubbia-mente connotato, in modo a tutt’oggi indelebile, l’intero paesag-

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gio “periurbano” di Santa Croce. A partire dalla vicenda delCampo di Volo, in quanto “patrimonio” acquisito alla città, sipossono utilmente svolgere alcune considerazioni sui modi dellatrasformazione urbana a Santa Croce.

Abbiamo visto come, a partire dal nucleo industriale delle“Reggiane”, vada intessendosi una maglia urbana affatto origi-nale. Se ancora sino alla prima guerra mondiale si parla, perquesta area, di “sobborghi industriali”, con gli anni Venti – incorrispondenza con i primi tentativi di pianificazione urbanistica– la città tutta comincia a volgere il proprio sguardo sulla “fron-tiera nord”. A quell’epoca data infatti un primo tentativo compiutodi riorganizzazione territoriale.

Tra il 1924 e il 1927, sul terreno posto oltre lo sboccodi via Adua – all’incirca in corrispondenza dell’attuale interse-cazione tra l’area aeroportuale e quella ludico-sportiva del parco“Chiarino Cimurri” – viene realizzato dal Comune un modernis-simo campo polisportivo. Sull’evento – per la verità decisamentetrascurato dalla storiografia urbanistica locale – riproponiamouna considerazione di massima svolta ormai due decenni fa24:

Viene costruito il campo polisportivo in capo alla strada delleOfficine e sul terreno di proprietà di queste. L’area – oltre 15ettari – è interamente cintata da un muro costruito con blocchidi cemento e comprende: ippodromo – trottatoio con due granditribune in legno (per complessivi di duemilacinquecento posti asedere), campo di foot-ball con tribuna per trecento persone, duecampi per il tennis, terrapieno per corse auto, moto e cicli, vascanatatoria, servizi igienici e chalet con bar-ristoro. Per una seriedi motivi il complesso viene venduto nel 1927 al Comune fa-scista, quando ancora non è completamente terminato dopoavere ospitato importanti manifestazioni sportive (tra le quali unatappa del Giro d’Italia vinto da Binda). L’assicurazione fornitadall’acquirente è di migliorare l’attività sportiva ed educativa.

La vasta area del campo polisportivo, in sintonia conl’evolversi in senso aggressivo della politica estera del Regime,verrà destinata a scopi meno ludici. Con due successivi decretiministeriali (del 1930 e 1931) si sancisce l’istituzione a ReggioEmilia di un “campo di fortuna” che ricada sotto la giurisdizione

24 Ibid., p. 22.

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militare. L’area investita risulta peraltro ben più ampia di quellaoccupata in precedenza del campo sportivo. Santa Croce, laquale nel frattempo continua a crescere, si ritrova così al centrodella trasformazione sia industriale che urbana. Il fascismo localevi riserva attenzione ed energie, sino a farne la propria “vetrina”.

Viene così messo a punto l’esproprio di una vasta area,la stessa sulla quale insistono vecchi insediamenti popolari; traquesti il Castello di Miari, il quale – essendo considerato un“covo di rossi” – verrà volentieri raso al suolo, e le sue 45famiglie residenti alloggiate alla meno peggio in altri quartieripopolari della città.

Tutta l’area di Santa Croce Esterna, con il nuovo campodi fortuna, viene ora ricompreso – siamo nel 1936, quando vieneeffettuato un censimento straordinario dopo la proclamazionedell’Impero – nel nuovo e più vasto centro urbano. In realtà –come mostrerà la pianificazione messa a punto dall’ingegnerenovellarese, nonché esponente di primo piano del fascismolocale, Getulio Artoni – lo sguardo ordinativo del Regime sipreoccupa dell’area di diretta pertinenza delle “Reggiane” pertrascurare l’edificazione civile che pure le è connessa. Sonoquelli anni di crescita tumultuosa della città (che varcherà lasoglia dei 100 mila abitanti nel 1941), cui corrisponde un innal-zamento drammatico del tasso di sovraffollamento.

Ad ogni buon conto, con la prima stesura del PianoRegolatore territoriale (nel 1936), arriva anche un primo siste-matico “riordino” toponomastico: per Santa Croce, in linea coni tempi, viene adottata una toponomastica di tipo coloniale (tut-tora esistente) che le fa meritare l’appellativo di “quartiere etio-pico”. Le strade, spesso costruite ex novo, vengono asfaltatecon il cosiddetto “asfalto autarchico” o “macadam”.

È in questo periodo che le “Reggiane” praticamente rad-doppiano, con la costruzione del Reparto “Avio” sul nuovo eampio viale alberato dedicato a Vasco Agosti (l’ufficiale, originariodella frazione cittadina di San Prospero, decorato dal regime perla morte intercorsa nella campagna coloniale in Africa Orientale)25.

25 Vasco Agosti, secondo le notizie biografiche riportate all’epoca, muore in un’imboscata l’8 agostodel 1937; cfr. C. Iori, Reggio nella Memoria, Gianni Bizzocchi editorie, Reggio Emili, 2001, p. 227.

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Lapidi a martiri della Resistenza: Vittorio Bulgarelli – viale Ramazzini e UmbertoPistelli angolo via Cassala, via Gondar.

Tra il 1939 e il 1940, nell’area antistante al “Cairo”, vienecostruito il “quartiere operaio a carattere semi-rurale” FilippoCorridoni – poi “Pistelli”, dopo la guerra – su terreno di proprietàdelle Reggiane. Il “Corridoni” si inserisce nel progetto che vedel’edificazione di altri tre villaggi popolari ai quattro lati della città,tutti posti sotto la competenza dell’IFACP (Istituto FascistaAutonomo Case Popolari) e destinati ad ospitare esponenti delleclassi più povere della città (anche a seguito degli sventramenti“igienici” voluti dalla stessa giunta fascista nell’area di SantaCroce Interna).

C’è però una differenza tra questo e gli altri tre “Villaggi”– con i nomi attuali: lo “Stranieri”, il “Catellani” e il “Foscato”:qui si insedia una popolazione operaia anche di provenienzaextra regionale (oltre ai lombardi, arrivano ora dei piemontesi)strettamente collegata alle “Reggiane”. E che si trattasse di unprogetto speciale legato alla dimensione della nuova fabbricamodello del fascismo lo testimonia il fatto che – proprio accantoai 228 alloggi che componevano l’insediamento viene costruitoex novo il nuovissimo “Dopolavoro” delle “Reggiane”, dotato diun teatro, di campi sportivi e di bocciodromi. Inoltre, a pocadistanza, su via Adua veniva eretta la nuova casa del fascio –

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oggi occupata dalla caserma dei carabinieri – in sostituzione diquella collocata nel vecchio caseggiato del Follo.

Con la costruzione del quartiere “Corridoni” si può direcompiuto il grande periodo di espansione del quartiere, sullascorta dell’espansione della fabbrica.

Le vicende successive – a partire dal bombardamento del1944 per poi passare alla grave crisi del biennio 1950-1951 –segneranno il brusco arresto nello sviluppo di Santa CroceEsterna. Il decennio successivo vedrà anzi molti lavoratoridecentrati fuori regione o all’estero, in Francia e ancor più inSvizzera. Mentre il patrimonio edilizio legato alle “Reggiane”passa in blocco allo IACP, a fronte dell’impennata demograficadella nuova periferia residenziale a sud della città la popolazionedi Santa Croce esterna aumenterà solo del 6 per cento (pas-sando da 7.509 a 7.986 abitanti).

Si verifica anche uno spostamento nel baricentro internodi Santa Croce. La zona “industriale” del quartiere che ruotaattorno a viale Ramazzini, via Bligny e via Agosti perderà pro-gressivamente la propria centralità a favore della zona di viaAdua: questa, come tuttora si può osservare, diventa il nuovoasse d’espansione del quartiere. È a nord di questa direttriceche si concentra la nuova espansione urbanistica; la quale,certo, presenta ancora caratteri misti, tra edilizia civile e pro-duttiva, spesso senza soluzione di continuità.

Con gli anni Settanta si assiste poi all’esplosione dell’areaprospiciente l’autostrada (il casello data al 1959), lungo l’asseReggio-Bagnolo e in particolare a Mancasale, dove si concen-trerà il più vasto tra i quartieri industriali nel capoluogo. Nel 1965nasce così, su viale Regina Margherita, la nuova parrocchia diSan Paolo. Santa Croce Esterna si suddivide in due parrocchie:al censimento del 1972, la diocesi ne attribuisce 3128 a SanPaolo e qualcosa di meno, 3000, a Santa Croce.

La costruzione, tra il 1980 e il 1981, del cavalcavia a nord–est di Santa Croce stabilisce un nuovo, importante collegamentoal resto del territorio urbano; prima, ne esisteva uno solo – ilsottopasso di via Makallè – costruito nell’ormai lontano 1932.Tale opera – realizzata a distanza di un cinquantennio dall’altra,nell’ambito della nuova rete tangenziale, va anche letta, corret-

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tamente, come un sia pur tardivo sforzo per riportare la “frontieranord” a pieno titolo entro il processo urbano della città.

L’ex Centro Islamico di via Adua (2002).

Ingresso Chiesa Pentecostale di viale Ramazzini.

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Questa rapida esplorazione geostorica dentro e attornoa Santa Croce Esterna ha inteso portare qualche chiave inter-pretativa alla decodifica di un territorio che è divenuto periferiaurbana e, come tale, rappresenta una cerniera tra la città e lacampagna ma anche una frontiera posta nel cuore delle trasfor-mazioni socio-urbanistiche.

Come abbiamo visto si tratta di una trasformazione tut-t’altro che lineare e, in verità, ben poco pianificata: la solaeccezione è costituita dal tentativo assunto in epoca fascista,e con esso – di fatto – poi venuto a decadenza.

Oggi non è semplice ricomprendere sotto il medesimosguardo questa vasta area policentrica. Il viaggiatore che si trovia passare per le strade del quartiere troverà accostati, pratica-mente senza soluzione di continuità, tipologie urbanistichevariegate: una grande ex area industriale che ha le caratteri-stiche per diventare il più importante esempio di archeologiaindustriale della provincia; aree di tipo residenziale popolare;aree di tipo residenziale borghese; aree artigianali più o menorazionali rispetto al sistema del trasporto pesante; aree verdi;residui di aree agricole; aree di tipo commerciale a rilevanzalocale. Si potrebbe continuare. Santa Croce, per dirla conun’espressione in voga, ha l’aspetto di un mosaico. Ed è pro-babilmente sbagliato pretendere di riconoscervi alcunché diunivoco.

Va forse ricondotta ad una vocazione industriale, comela sua storia sembra dimostrare? È difficile crederlo, vista lavicinanza al centro storico ma anche l’incuranza che, di fatto,il distretto della PMI ha riservato alle produzioni di carpenteriasvolte dalle “Nuove Reggiane” e poi dalla “Fantuzzi-Reggiane”.

Si tratta di un area ormai guadagnata alla vocazione re-sidenziale? Forse, ma in questo caso l’assetto della viabilità edella dotazione urbanistica – così come sono stati pensati inquesti anni – dovranno subire ancora profonde modificazioni.Quello che è certo è che Santa Croce – come del resto tuttal’area nord della città – vuoi per la sua posizione geografica “aldi là” della ferrovia, vuoi per la sua vocazione poliedrica hasempre avuto la tendenza ad assumere un assetto autonomorispetto al resto della città. In buona sostanza, pur costituendo

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l’accesso a “nord” per il centro storico ne è anche un corposeparato, con pochi e selezionati “anelli” di compenetrazione neiconfronti del territorio comunale posto a sud della via Emilia.

Sentiamo le valutazioni offerte da Simonetta Sgobbi, nellasua bella tesi di laurea26:

[…] l’area di Santa Croce ricopre un importante ruolo relazio-nale all’interno dell’assetto territoriale reggiano. L’area costitu-isce la “porta” di Reggio Emilia verso la “Bassa”, cioè versola parte settentrionale della provincia. Gli appezzamenti agricoliresiduali, ancora presenti all’interno dell’area, testimoniano cometutt’ora Santa Croce rappresenti il punto di snodo tra la cittàe la campagna. Tuttavia, nel tempo si sono radicalmente tra-sformate le funzioni e le attività presenti nel quartiere. Nono-stante conservi ancora una forte rilevanza per l’assetto infra-strutturale/relazionale (l’asse di collegamento con la direttriceCorreggio-Carpi, oltre a quello già citato con il nord), l’area acavallo della Porta Santa Croce ha visto scomparire alcunefunzioni che in passato l’avevano contraddistinta quale “areadi transito” (su tutte, le osterie). Contestualmente, nell’area sisono progressivamente insediate diverse attività, come i par-cheggi e i distributori di carburante, generalmente presenti neiluoghi d’accesso di un’area urbana dinamica.Santa Croce, però, oltre a questi aspetti relazionali è da tempocaratterizzata da funzioni che le hanno conferito uno specifico“ruolo” all’interno dell’assetto urbano reggiano. Innanzitutto, ilruolo produttivo, strettamente legato alle fortune delle OfficineReggiane. Ancora oggi, nonostante il forte ridimensionamentodell’attività produttiva, quel che resta delle Reggiane trova sedeall’interno di Santa Croce, anche se a fianco di nuove funzioni.Diverso è il ruolo dell’artigianato locale che, nato spessodall’iniziativa di ex operai delle Reggiane, ha costruito negli anniun caratteristico mix con la residenza. Nel periodo più recentequeste attività manifestano una tendenza al decentramentodovuta al loro progressivo passaggio dalla dimensione dellaboratorio domestico a quella della piccola-media impresaartigianale.Un ulteriore ruolo che l’area di Santa Croce ha ricoperto inquesti anni – e che pare rafforzarsi nei progetti di prossimarealizzazione – è quello di polo ricreativo. Significativa è infattila permanenza di circoli ricreativi, e la presenza di altre struttureper il tempo libero: il Centro Tricolore (bocciofila di rilevanza

26 S. Sgobbi, op. cit., p. 84-85.

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regionale, se non nazionale), i campi sportivi tra via Adua evia Agosti (tuttora sede degli allenamenti della squadra di calciodella Reggiana), il teatro ReGiò, il Campo Volo, la discotecaMaffia e lo Stadio Giglio (del quale è previsto il potenziamento).Questo ruolo è senza dubbio da porre in relazione al radica-mento di alcune attività e alla tradizione di iniziative associative-aggregative tipiche del primo insediamento di Santa Croce. Nonè quindi solo per una questione di disponibilità di spazio cheil momento aggregativo più rilevante per l’area reggiana, laFesta de L’Unità di settembre, trova la sua sede nell’area diSanta Croce.

Qualcuno ha detto che “a Santa Croce c’è tutto”. Forsesì, ma se in alcuni casi c’è addirittura troppo, in altri troppo poco.

Nel corso dell’ultimo decennio il quartiere ha rappresen-tato una vera e propria sfida per l’Amministrazione Comunale.Il Programma di Recupero urbano varato nel 1998, con i diversiprogetti ad esso connessi, si era proposto lo scopo di attuareuna profonda trasformazione urbanistica dell’area di Santa Croce.Tuttavia, nonostante la buona volontà progettuale ed alcunerealizzazioni, permangono tre fuochi che accendono la sensi-bilità dei residenti: il carico eccessivo di traffico; il degradourbano; l’integrazione non sempre facile tra culture diverse perprovenienza.

Probabilmente è anche vero che per produrre ricadutebenefiche, ma anche solo per rendere intelligibili le scelte dilungo periodo, occorre tempo. Un caso eclatante, sopra gli altri:la forte contestazione operata da parte di alcuni comitati a seguitodella chiusura di viale Ramazzini e della realizzazione delparcheggio scambiatore nell’area ex Gallinari. Si tratta di dueprogetti i cui benefici risultano, a tutt’oggi, poco chiari a granparte dei residenti.

Altro discorso è quello dell’integrazione. Dalla secondametà degli anni ottanta in poi l’area di Santa Croce, confermandola propria vocazione di transito, è diventata punto d’arrivo e dipermanenza di numerose comunità immigrate (sia dalle regionidel Mezzogiorno d’Italia, sia, più recentemente, da paesi extraUE). Tanto che, sin dal 1990, il Comune di Reggio ha messoa disposizione in via Adua i locali di una ex officina, al fine diospitarvi il primo Centro Islamico.

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L’Oratorio della Beata Vergine della Neve (foto Leonardi, 1985).

L’Oratorio della Beata Vergine della Neve, all’angolo tra via Veneri e viale Ramazzini(foto GMPR Group, 2007).

VILLA COUGNET E L’ORATORIO DELLO ZAPPELLO:DUE LUOGHI “ADOTTATI” NEL PAESAGGIO DELL’OGGI

Per chiudere, e concludere con una nota in positivo,mettiamo l’accento su due luoghi che stanno ritrovando unapropria funzione – di memoria storica e di vita presente – nel

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contesto geostorico di Santa Croce Esterna. Un quartiere checostituisce un vero e proprio “sito” patrimoniale di esperienzeed epoche storiche che attendono l’indagine stratigrafica propriadell’archeologo della memoria. E per chi non l’avesse ancorafatto, consigliamo l’esplorazione di Santa Croce a partire dalParco “Chiarino Cimurri”: una posizione eccentrica – siamo nelterritorio della Circoscrizione 6 – che ne consente una primalettura in termini paesistici. Da questo angolo visuale – compresocom’è tra le piste di volo e la ferrovia nazionale, si possonotuttora scorrere “a volo d’uccello” i campanili e i tetti degli edificipiù importanti della città storica, ed in modo più ravvicinato lastazione ferroviaria e gli stabilimenti residui delle “Reggiane”.

BEATA VERGINE DELLA NEVE, “MADÒNA DI CALZÈTT”OD ORATORIO DELLO ZAPPELLO...?

Nel suo prezioso libro sulle tipologie architettoniche del-l’insediamento storico del Comune di Reggio Emilia, l’architettoWalter Baricchi (pur inserendolo nel territorio di Mancasale)recita a proposito dal piccolo oratorio posto all’incrocio tra VialeRamazzini e via Veneri:

Lungo la via delle Officine Meccaniche si sono rinvenute delletombe romane isolate ad inumazione. In angolo tra la via Veneri(antica strada vecchia di Reggiolo, nominata nel 1315, poi viadelle Ortolane) con via Ramazzini sorge un oratorio che nellecarte degli inizi dell’ottocento è indicato della Beata Verginedella Neve. In un disegno del XVII secolo è riportato un piccoloedificio detto dello “Zaldino” che probabilmente coincide conl’oratorio in esame. Questo presenta una facciata tripartita conparte centrale riquadrata da lesene binate e conclusa da unfrontespizio triangolare, il prospetto è rivolto a mezzogiorno27.

27 Insediamento storico e beni culturali del Comune di Reggio Emilia, a cura di W. Baricchi, Ibc, dossier22, Reggio Emilia, Amministrazione Comunale di Reggio Emilia e Istituto per i beni culturali dell’EmiliaRomagna, 1985 (cit. p. 103).

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A far data almeno dal XVII secolo – per quel poco chesi è ritrovato nei riferimenti documentari – l’Oratorio rappresentaun punto di riferimento nel paesaggio dell’area forese circostantePorta Santa Croce. Il nucleo primigenio, come ha mostrato unaccurato e recentissimo lavoro di restauro realizzato sull’edificio,va però retrodatato al XVI secolo28. Si trattava di un oratorio perdimensioni più piccolo, a navata unica; la pianta “a tre navate”data per l’appunto al XVIII secolo, mentre le decorazioni internevanno fatte risalire alla fine del XIX secolo (il restauro ha infattimesso in luce iscrizioni relative a due encicliche papali redatteda Leone XIII e al vescovo reggiano Vincenzo Manicardi). Vaanche detto che sono tuttora in corso valutazioni rivolte ad unpiù antico ciclo decorativo, di cui vi sono tracce visibili nel catinoe nell’abside.

Nel pur scarno contesto documentario, vi sono comunquedue utili riferimenti rintracciati dall’architetto Monica Zanfi, nelcorso delle ricerche svolte a sostegno dei lavori di restauro. Daun documento di matrimonio del 1784 si ha la prova dell’esi-stenza e del funzionamento di questo oratorio; parte di un fondoche rientra nella parrocchia di Mancasale, risulta essere diproprietà della famiglia Vallisneri. Nel 1937 si ha invece notiziadella sua cessione ai fini di abbattimento. La data è significativa:le “Reggiane” cominciano a produrre aeroplani da guerra eSanta Croce è un quartiere in via di urbanizzazione intensiva,dove si fanno le strade in macadam e il viale Ramazzini èattraversato da mezzi pesanti di trasporto. Probabilmente facomodo allargare l’imbocco con la già stretta via Veneri. L’ope-razione viene bloccata da un editto podestarile: all’Oratorio vienericonosciuto valore storico-artistico.

Ma la destinazione d’uso è ormai un’altra. Il centro urbanoha inglobato nella propria vita tumultuosa anche Santa CroceEsterna, spostando così più all’esterno l’antica soglia che distin-

28 Il restauro conservativo è stato realizzato tra il 2005 e il 2007 – per conto dell’immobiliare GMPRGroup – sotto la responsabilità degli architetti M. Zanfi, A. Bergianti, F. Bombardi, i quali hannosteso alcune, puntuali Note sui lavori di restauro.

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gueva la città dalla campagna. Bisogna infatti ricordare comela “Madonnina dello Zappello” (l’appellativo popolare) avessericoperto nei secoli la funzione di snodo geostorico tra gli usidei cittadini e quelli dei “villani”. Posto nelle vicinanze della porta,questo piccolo oratorio veniva usato dai contadini come puntodi sosta per pulirsi o infilarsi calzature pulite prima di entrarein città. Così si spiega il toponimo – la madòna di calzètt –invalso nella parlata dialettale e che si ritrova nelle memoriesoprattutto contadine.

Ricorda don Gaetano Incerti:

Le ragazze provenienti dalla campagna facevano sosta sulmuretto del piccolo Oratorio cinquecentesco per mettersi lecalze e scarpe sotto lo sguardo della Madonna che da quelgesto prende il nome di “Madonna dei calzétt”.[…] Sul lato sinistro (angolo via Veneri), la più vecchia espres-sione architettonica di Santa Croce: il cosiddetto “Chiesolino”dedicato come sopra si è detto alla “Madonna dei calzètt”. Èbisognoso di restauro a cui il Municipio dovrebbe provvedere29.

Pur sopravvivendo, nel dopoguerra il “chiesolino” è statoa lungo utilizzato per fini commerciali: sono in molti a ricordarne,tra gli anni Ottanta e Novanta, l’adattamento a piccolo magazzinodi ortofrutta. Più recentemente, con il riordino della viabilità con-nesso alle opere dell’Alta Velocità, insieme al sottopasso ciclo-pedonale è stato ristretto l’areale di ingresso all’oratorio: e cosìse ne sono partite, inopinatamente, con un atto di imperdonabiletrascuratezza burocratica, anche le storiche “pietre” sulle qualigenerazioni di contadini avevano provveduto a cambiarsi dicalzare. Che fungevano da luogo di sosta e “spogliatoio” (deipiedi!) per i contadini.

Il restauro conservativo intrapreso negli ultimi anni dallafamiglia Gualerzi (titolare di GMPR Group) costituisce, dopotanta incuria, uno sintomo significativo di riorientamento nellepratiche urbanistiche: ci dice che – dopo tanti abbattimenti “facili”– anche nella periferia nord si può, finalmente, riqualificare.

29 Don G. Incerti, op. cit., 2003, p. 3.

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Villa Cougnet e parco del Tasso

VILLA COUGNET: L’OMBELICO DI SANTA CROCE

Quest’edificio rappresenta un interessante esempio di villasignorile di campagna la cui costruzione può essere datata nellaseconda metà del Settecento.

Anche qui, ci permettiamo una piccola digressione. Neidintorni di Reggio Emilia sin dal XV secolo vengono fatte erigere– sulla moda rinascimentale – le prime ville di campagna destinateallo svago. Il prototipo ne è il “Mauriziano”, casino di campagnadei conti Malaguzzi che diventerà poi luogo memorabile per averospitato l’infanzia di Lodovico Ariosto.

Nel corso del Seicento, l’affermarsi del gusto barocco suquello più tipicamente rinascimentale porterà ad una evoluzionedelle caratteristiche architettoniche, mentre quelle correlate allascelta del luogo – secondo l’Alberti la villa non deve esseretroppo lontana dalla città e deve inserirsi in un bel contestopaesistico – rimangono pressoché inalterate. Abbiamo così chele ville sei-settecentesche, pur mantenendo spesso la piantaquadrangolare, presentano elementi che tendono a smussarnele rigidità geometriche; le murature si innalzano, quindi si fa

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ampio uso della torretta a colombaia posta alla sommità del tetto,sicuro indice della vocazione di questi edifici a focalizzarsi nelcontesto di campagna (esempi di questa evoluzione sono la Villad’Este a Rivaltella, la Villa Grasselli alla Pappagnocca e VillaRocca a la Rosta).

Villa Cougnet, tuttavia si discosta ancora da questo modello,presentando caratteristiche tipiche del gusto barocco del XVIIIsecolo30. Il modello di riferimento cui si sono richiamati gli studiosiè il Palazzo Estense di Rivalta: il prospetto di facciata distesoin lunghezza da est ad ovest, l’infittirsi di decorazioni plastichee, tra queste, la presenza alla sommità del corpo centrale diun elegante orologio.

Vida Borciani ne ha tracciato una sapiente descrizione31:

La villa si presenta con una elegante architettura settecentesca.Perpendicolarmente al corpo longitudinale si articola un’alacentrale sopraelevata, in aggetto sul prospetto settentrionale.Essa è conclusa superiormente da una loggetta a triforebalconata su entrambi i fronti. La struttura del complesso ri-manda alla tipologia della residenza signorile di villeggiaturacon caratterizzazioni stilistiche rapportabili prevalentemente alXVIII secolo, sebbene alcuni elementi denuncino un’origine piùantica (ad esempio lo sprono più marcato dei muri esterni)mentre altri, come le soffittature, rimandino a ristrutturazioni dietà successive.Al gusto tardo barocco è da riferire la facciata, vivacizzata dalladistribuzione delle aperture regolare e simmetrica; esse sonoincorniciate da decorazioni a mascheroni e conchiglie in rilievo,dalla presenza della balconata nella facciata principale e, sullastessa facciata, dall’orologio nel corpo centrale. É da segnalareche fino agli inizi di questo secolo il cornicione del prospettoera arricchito dall’innesto, sullo spiovente del tetto, di unabalaustra ornata di statue. Il salone principale al piano nobileè arricchito da otto tempere su muro inserite entro cornici distucco, raffiguranti paesaggi e rovine da assegnarsi al tardosettecento, scuola locale.

Per quanto riguarda le informazioni di carattere storico,il più antico referto che attesti la presenza di Villa Cougnet, nel

30 Per queste notizie, cfr. V. Borciani, Villa Cougnet, Parma, Università degli Studi di Parma, 1999.31 Ibid., p. 10.

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luogo detto “Zappello”, risale al 1786 e riguarda il censimentogenerale voluto dal duca Ercole III, in cui è registrata comeproprietà del conte Giambattista Capiluppi. Nel 1877 dai Capi-luppi l’edificio passa in eredità ai Vezzani-Protonieri. Nel 1878diviene proprietà Vergnani e nel 1880 viene venduta a CarloCougnet – commerciante nizzardo trasferitosi a Reggio, noto allecronache sportive come il creatore del primo “giro d’Italia” inbicicletta – alla cui famiglia la villa rimarrà fino al 1908, quandoviene acquistata dalle “Officine Reggiane”.

Dopo essere passata in possesso della S.I.A. (SocietàImmobiliare Anonima), viene nuovamente acquistata dalle “Reg-giane” e poi, nel 1961, da queste ceduta allo IACP che la tennefino al 1971, anno nel quale fu ceduta alla Curia vescovile. Nel1983 la villa passa all’Amministrazione comunale di Reggio Emiliache vi ospita per oltre un decennio il teatro di figura di OtelloSarzi. Dopo il 1996 – anche a causa del violento terremoto del15 ottobre che ne causa la parziale inagibilità –, Sarzi si tra-sferisce a Bagnolo in Piano e la villa viene sottoposta a lavoridi restauro che permetteranno il trasferimento, nel 2003, dellasede della Circoscrizione 7 e l’inaugurazione della nuova Biblio-teca decentrata di Santa Croce.

Come si evince da questa breve scheda storica, la villanel corso degli oltre duecento anni della sua esistenza ha subitodiverse destinazioni d’uso che l’hanno portata ad intergire inmodo differente con un territorio in costante e profonda trasfor-mazione urbanistica e sociale. In modo particolare, a seguitodel primo acquisto da parte delle “Reggiane” lo stabile vedràmutare ripetutamente la propria vocazione abitativa.

Sonia32:

Quando si va verso la chiesa appunto c’era questo… Allorac’era pochissimo. C’era Villa Cougnet che era la villa degliimpiegati delle Reggiane, dietro a Villa Cougnet c’era unambulatorio e poi dopo da quelle parti lì anche via Adua eraabbastanza deserta insomma. C’erano quelle ville che ci sonoancora adesso sulla strada. Là dietro era tutta campagna,invece che adesso vediamo che dietro è tutto costruito.

32 Sonia, 1921, in A. Canovi, M. Mietto, M. G. Ruggerini, op. cit., p. 62.

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La costruzione conferma, in un primo tempo, le propriecaratteristiche di pregio. La prossimità con le “Reggiane” mutala destinazione d’uso della struttura che – da villa signorile , conqualche espediente razionale si trasforma in alloggio borgheseper i nuovi “colletti bianchi”. Con gli anni, le mutate esigenzeabitative comporteranno una “proletarizzazione” della villa; e sonodi fatto le persone a dover trovare un adattamento a questi spaziinusuali.

Sentiamo di nuovo Cesare, all’epoca minore di una fa-miglia di contadini di Mandrio di Correggio trasferitisi a SantaCroce per diventare operai33:

Siamo venuti in villa Cougnet, questa villa patrizia che adessoha acquistato il Comune. Noi abitavamo su al secondo pianodove c’è il grosso terrazzo che guarda dietro al bocciodromo,che guarda verso alle “Reggiane”, in un grosso appartamento,mi ricordo, con dei casermoni enormi senza riscaldamento,quindi freddo cane d’inverno.Qui era circondato da un parco enorme, una villa bellissima,mi ricordo delle grosse piante che noi ragazzi salivamo d’esta-te... Delle stanze enormi c’erano in questa villa, non dellecamerette delle dimensioni delle nostre oggi, quattro per quattro,tanto che noi vivevamo in una camera. Erano tutte camerepassanti, con due letti, noi ragazzi, due letti matrimoniali, eranograndi stanze, nella villa patrizia dì quel genere Molto alti divolte con tutti i dipinti.

Alla “Officina”, come venivano popolarmente chiamate le“Reggiane”, il giovane Cesare entra nel 1939; abitare a VillaCougnet, nel raggio di poche centinaia di metri, è una bellacomodità. La locazione popolare, d’altronde, comporterà trascu-ratezza verso la struttura e il suo progressivo decadimento.

Sono anche anni nei quali Reggio denuncia una carenzadrammatica di alloggi. Proprio a cavallo della guerra imminenteverrà edificato nei pressi, secondo la definizione originaria, un“villaggio operaio a carattere semi-rurale” con 228 alloggi; in-titolato a Filippo Corridoni, dopo la Resistenza diventerà per tuttiil “Pistelli” (dal cognome di un giovane partigiano ivi residente).

33 Cesare, 1926, Ibid., p. 53.

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34 Cfr. Rogito redatto dal notaio Nello Bigi registrato l’11 novembre 1971, Archivio ACER di ReggioEmilia.

La situazione incontrerà poi un aggravamento ulteriore in cor-rispondenza del disastroso bombardamento del 7-8 gennaio1944: Villa Cougnet, come altri edifici sopravvissuti, dovrà af-frontare per un certo numero di anni l’emergenza del sovraf-follamento.

Una volta passata sotto la proprietà dello IACP, questostato di cose non si modifica. Anzi. I bassi servizi – posti a pochimetri ad est della villa – saranno negli anni Sessanta abbattutia causa dello stato di degrado al quale erano pervenuti. L’interoimmobile verrà così ceduto (nel 1971) alla Curia di Reggio perla cifra di 17 milioni di lire34. Dodici anni più tardi, in condizionistatiche non certo ottimali, arriva la cessione al Comune diReggio Emilia. Passato anche il terremoto, l’AmministrazioneComunale ha poi impresso una svolta decisiva, con il recuperodella struttura ai fini di uso pubblico. Certo – come molti nonsanno – rovesciando di fatto l’orientamento dell’edificio: seall’origine vi si accedeva da sud, tramite uno splendido vialedelimitato da lunghi filari di pioppi cipressini – ed infatti la facciataprincipale, con l’elegante orologio, guarda alla città – ora è davia Adua, a nord, che vi si entra.

Sotto ogni profilo, nei criteri architettonici e per la collo-cazione urbanistica, questa villa “fuori porta” testimonia al megliola complessità, ricca e contraddittoria, della Circoscrizione cheè stata oggi chiamata a rappresentare.

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Parco della Resistenza.

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LE OMI “REGGIANE”: UN PROFILO STORICO(1901-1951)

Le OMI Reggiane in costruzione agli inzi del Novecento.

Uscita operai “Reggiane”, primi anni del XX secolo.

DALLE ORIGINI AL “BIENNIO ROSSO” (1919-1920)

Alla fine del XIX secolo Reggio Emilia presenta un tassodi industrializzazione quasi trascurabile. Le poche attività sonoper lo più collegate all’agricoltura o comunque alle risorse della

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terra: la filatura della seta, la lavorazione delle carni, il lattiero-caseario, la concia delle pelli, la fabbricazione del gesso e deimattoni.

Il richiamo alle ragioni di uno sviluppo “modernamente”industriale la si ritrova nelle ripetute perorazioni di parte socia-lista, un discorso che era poi parte del giubilo rivolto ai “bor-ghesi”, ritenuti inetti a soddisfare nella popolazione operaia ilbisogno primario al lavoro. In tal senso, la Reggio post-unitariaè una città di primati in negativo: si raggiungono cifre come le12 mila persone sostenute, a vario titolo, dalla beneficenza ocome l’opzione crescente dell’emigrazione (nell’anno 1900 sonooltre 5 mila emigranti). In un simile contesto, la Cassa di Ri-sparmio locale promuove alcune iniziative industriali, stanziandoinvestimenti a fondo perduto. E se le migliori aspettative riguar-davano, ancora, il settore tessile – per via del collegamento conl’allevamento dei bachi da seta –, di fatto sarà dalla metallurgiache verrà fuori la più grande sorpresa.

Già il 7 ottobre del 1900 era uscito un appello sul fogliodella «L’Italia Centrale», che recitava in questo modo: «Nonpotrebbe la Cassa di Risparmio offrire un premio di qualchedecina di mille lire a quel privato, non importa se reggiano oforestiero, o a quella società seria e solvibile che impiantassein Reggio uno stabilimento industriale di importanza? Non potrebbeanche il municipio concorrere con l’offrire l’area occorrenteall’impianto di tale industria? Allettati da questi premi ed age-volezze, non credete che qualche intraprendente capitalista oqualche società non preferirebbe l’impianto di una industria quida noi piuttosto che altrove?». La perorazione sarà presto accolta.Lo stanziamento iniziale di 50 mila lire per la creazione diun’officina meccanica che occupasse “almeno 50 operai” dataal gennaio 1901; ne usufruisce l’ingegner Romano Righi, ori-ginario di Modena, il quale dà vita ad una fonderia con annessaofficina meccanica. 62 sono gli operai; 25 i reggiani, ma benpresto si arriverà a 200.

Specializzatasi nella costruzione di carri ferroviari, l’officinasi troverà ben presto nella necessità di ingrandirsi e, nel con-tempo, aumentare il capitale investito. Qui entra in campo il

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massimo esponente del capitalismo finanziario a Reggio Emilia:il cav. Menada, originario di Alessandria, collegato alla BancaCommerciale Italiana ed esponente politico di primo piano delmoderatismo liberale.

È il salto di qualità atteso. Il primo dicembre 1904 sicostituiscono le «Officine Meccaniche Reggiane»: il complessosi disloca su di un’area di mq. 4000, dei quali 1250 coperti, edispone di una forza motrice di 50 HP. Se le dimensioni sonoancora modeste, la preminenza nella produzione delle commes-se ferroviarie – sostanzialmente pubbliche – ne fa già, in nuce,una industria a tutti gli effetti “nazionale”.

Produzione ferroviaria “Reggiane”

Spinte dalla politica di rinnovamento e ammodernamentodel materiale ferroviario nazionale intrapresa ad inizio secolodalle FF.SS., le piccole “Officine Righi”, poi “Officine MeccanicheReggiane”, si troveranno a vivere una fortissima fase di espan-sione. In soli due anni, dal 1904 al 1906, il personale impiegatonella fabbrica passa dalle 200 alle 800 maestranze. Nel con-tempo nasce anche, collegata alla Camera del Lavoro, la primalega dei metallurgici; una concentrazione operaia che, per lavariegata provenienza geografica e per il radicalismo proletario,

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esprimerà in più occasioni indirizzi ideologici difformi rispetto allapresa esercitata dal riformismo prampoliniano.

Pur tra alti e bassi, semmai a fianco di altre produzionicivili (molini, ecc.), il comparto ferroviario rimarrà una costantenella vita delle “Reggiane”. L’altra grande filiera è quella con-nessa alla produzione militare. Lo scoppio del primo conflittomondiale – ed è un fenomeno che investe l’industria siderurgicanel suo complesso – riorienta le “Reggiane” verso le commessebelliche. Ciò comporta una riconversione nei metodi di lavoro.E poi entrano in fabbrica le donne: saranno impiegate massic-ciamente nella produzione dei proiettili, cui vengono destinatinuovi grandi reparti. Vengono anche costruiti i primi aeroplanimodello “Caproni 600 Hp”.

Il numero degli operai sale nel 1917 a cinquemila unità,cifra che non verrà più eguagliata fino al 1939, quando alle portevi sarà un nuova guerra mondiale. È nel vivo dell’“immaneconflitto”, come ebbe modo di annotare R. Bachi1, che si forgial’industria metallurgica e meccanica italiana: tra il 1913 e il 1918questa filiera produttiva vede passare le società anonime (equi-valenti alle attuali società per azioni) da 13 ad 801.

Ovviamente, come ci si può immaginare, una volta ter-minata la guerra vi sarà da gestire una nuova riconversione, resatanto più difficoltosa nel contesto di una pace che sembrascontentare quasi tutti: combattenti e antimilitaristi, reduci e operai,giovani e padri di famiglia. Il sentimento diffuso di frustrazionetrova colorazioni radicali: la rivoluzione d’ottobre pare a moltil’annuncio di un mondo nuovo, ma già rullano i neri tamburi dellacontrorivoluzione di classe…

In città le “Reggiane” costituiscono l’epicentro del conflittosindacale. Nel gennaio del 1919 la parte operaia avanza unaserie di rivendicazioni: riconoscimento delle commissioni interne,sabato inglese, aumenti salariali, riduzione dell’orario in caso dideficienza di lavoro, allontanamento dei carabinieri regi dallo

1 R. Bachi, L’Italia economica nel 1918, Città di castello, 1919, p. 47. Nella stessa Reggio Emilia sorseun altro stabilimento per costruzioni meccaniche la Società ing. Glauco Greco e C., sorta nel gennaio1918.

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stabilimento. La direzione, in buona sostanza, accoglie. Nell’ago-sto vi sono nuove agitazioni in solidarietà con i lavoratori ligurie lombardi, contro agli industriali che negavano loro un minimoaumento di paga. Dopo 52 giorni di lotta la proprietà capitolaai dimostranti: i lavoratori eleggono la Commissione Interna esi sfila per la città cantando al suono della Fanfara Rossa.Nazionalizzazione delle industrie e appropriazione dei mezzi diproduzione appaiono all’ordine del giorno.

Nell’agosto dell’anno seguente si arriva al confronto fron-tale; a settembre le fabbriche più importanti del Paese – “Reg-giane” comprese – vengono occupate dalle maestranze. Ogniaccesso allo stabilimento è presidiato dalle “guardie rosse”. Neiprimi tempi basta la solidarietà popolare, con il sostegno delmondo cooperativo; poi la situazione prende a complicarsi, siavverte scarsità di materie prime, le linee di credito sono bloc-cate, la gestione tecnica difetta di ingegneri. Il 19 settembre,grazie ad una mediazione del Governo Giolitti, si raggiunge unaccordo economico che trova 1225 voti favorevoli e 496 con-trari2.

Ma è solo un armistizio. Arturo Bellelli, segretario dellaCamera del Lavoro di Reggio Emilia, interviene di persona perproporre al senatore Pini, presidente della società OMI, di cederela fabbrica agli operai riuniti in cooperativa. Sembra il conigliocavato dal cappello. Il 17 ottobre 1920 la direzione riformistadella Camera del lavoro riunisce in assemblea i lavoratori e fadare a Bellelli il mandato per portare avanti le trattative. Ma almomento di votare, il 27 gennaio 1921, l’opzione cooperativaviene clamorosamente bocciata dagli operai – riuniti per l’oc-casione al Politeama Ariosto – per una ventina di voti.

A causare l’incredibile bocciatura del piano riformista fula frattura avvenuta con l’ala massimalista in seno al gruppodirigente socialista a Reggio. Decisivo nel far pendere il piatto

2 Cfr. in argomento il contributo di C. Reggiani, Conflittualità e rappresentanza nell’industria metal-lurgica alle Officine Meccaniche Italiane Reggiane, a Reggio Emilia e a Modena nel biennio 1919-1920, in Un territorio e la grande storia del ‘900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, vol. I,Dalle origini del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici all’avvento e consolidamento delfascismo, Ediesse, Roma, 2002.

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della bilancia risulta l’intervento apertamente critico di un espo-nente di prima fila del gruppo “ordinovista” torinese: il “rivolu-zionario di professione” Umberto Terracini.

DALLA CONQUISTA FASCISTA ALL’ECCIDIO DEL 28 LUGLIO 1943

Il 1921 è un anno di crisi verticale: rimangono inutilizzatigli impianti di guerra, per primi gli hangars in muratura per ivelivoli; il macchinario deperisce; lo stato reclama la tassazionesui profitti di guerra. Assieme al lavoro che manca, il portafogliotitoli si deprezza e ne fanno le spese le maestranze: molti sonoi licenziamenti e le sospensioni dal lavoro, cui si succedonoimprovvise reimmissioni a termine a fronte di specifiche com-messe, soprattutto nel comparto ferroviario. Il numero degli addetti– che era di 1887 (1763 operai e 124 impiegati) nel 1922 –scende a 1242 (1164 operai e 78 impiegati) nel 1923 ed ancoraa 1086 (1008 operai e 78 impiegati) nel 1924, per risalire a 1647(1458 operai e 189 impiegati) nel 19253.

Va anche precisato che – nonostante la situazione eco-nomica fortemente depressiva e il controllo politico esercitatodal fascismo – gli operai delle “Reggiane” saranno gli ultimi adessere vinti sul terreno sindacale (esprimendo la propria pre-ferenza per la FIOM). Molti saranno i quadri militanti costrettia fuggire in esilio, sotto le bastonate e la somministrazionedell’olio di ricino. Altri ancora continueranno a subire angheriedi ogni genere. C’è un episodio destinato a divenire aneddoticonella memoria collettiva operaia: il funerale dell’operaio PietroLorenzani. Nativo di Cavriago, lavora come calderaio alle “Reg-giane” e va ad abitare nelle case operaie del “Cairo”. Nel 1929i compagni in emigrazione gli fanno pervenire, dalla Francia, deivolantini affinché possa distribuirli dentro la fabbrica. Il gesto glicosta l’arresto e tante botte da ridurlo in pochi mesi alla morte.I compagni di lavoro e di fede antifascista gli organizzano un

3 Per questi e altri dati successivi, cfr. la biografia aziendale composta da S. Spreafico, Un’industria,una città. Cinquant’anni alle officine “Reggiane”, Il Mulino, Bologna, 1968.

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funerale laico proprio al “Cairo”, dove spuntano garofani rossi.Seguono nuovi arresti ma la vicenda passa di bocca in boccae Lorenzani diventa “corpo” simbolico della resistenza operaiaal fascismo4.

Pietro Lorenzani, martire antifascista del “Cairo”.

Bollettino della “Fratellanza Reggiana” in Parigi. Tra i sostenitori l’ex operaio“Reggiane” Biagio Iemmi.

4 Per la vicenda di Lorenzani, cfr. A, Canovi, Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni, Comunità, Memorie,Comune di Cavriago, Istoreco, Reggio Emilia, 1999.

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La situazione occupazionale vedrà qualche incrementonegli anni seguenti, ma è solo una boccata d’aria. Nell’ottobre1929 il crollo della Borsa a Wall Street apre un lungo ciclo dicrisi internazionale. Basti un raffronto: se nel gennaio 1930 iltitolo OMI Reggiane vale quota 96, nel 1934 lo ritroviamo sinoad un minimo di 13,5.

Lo stato interviene con nuovi strumenti diretti di interventofinanziario ma anche gestionale: prima l’IMI, Istituto MobiliareItaliano, con l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Italiana. Segnalipiù certi di ripresa cominciano ad arrivare nel 1935: le “Reg-giane” aderiscono al consorzio nazionale fra i costruttori e ri-paratori di materiale ferroviario (UCRIMM), contemporaneamen-te si dà l’inserimento nel Gruppo Caproni.

Il Dopolavoro “Reggiane”.

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La “M” della palazzina direzionale in una pubblicazione del 1940 e in una fotodel 2007.

Le “Reggiane” rientrano in questo modo tra le dittebeneficiarie dei nuovi investimenti bellici voluti dal Duce per fareil fascismo “imperiale”. Prende il via la filiera produttiva aero-nautica, destinata a riposizionare strategicamente le “Reggiane”nel contesto nazionale. I primi aerei vengono realizzati a partiredal 1936, su progetti di altre aziende (tra le quali Piaggio, Fiated ovviamente Caproni).

Negli anni seguenti verrà edificata a questo scopo, daimprese lombarde, una vasta area urbana, sempre compresanel quartiere di Santa Croce Esterna: è il cosiddetto «RepartoAvio». La direzione medesima delle “Reggiane” viene spostata

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su via Vasco Agosti. Toponimo e disegno architettonico sonorivelatori dell’epoca storica: la palazzina dirigenziale ha la formadi «M», in onore di Benito Mussolini; quanto ad Agosti, si trattadella figura di un tenente dell’esercito italiano, nativo della frazio-ne cittadina di San Prospero e caduto nel 1937 a Moggia, inAfrica Orientale Italiana. Il Duce nel 1940 avrà così modo dicompiere uno dei suoi atterraggi a “sorpresa” (le virgoletted’obbligo!) proprio nel nuovo Campo di Volo, cui far seguire lavisita ai nuovi reparti produttivi e una scorribanda in via Romaper visionare di persona il “risanamento” edilizio deciso nelquartiere del “popolo giusto”.

Sono anche anni di fortissima immigrazione: parecchi itecnici e gli operai specializzati provenienti dalle aree industrialidi Milano e Torino, moltissimi anche gli operai generici e i giovaniapprendisti che dalle campagne o dall’Appennino cercano at-traverso la grande “Officina” un destino lontano dall’agricoltura.Viene decisa all’uopo l’istituzione di corsi di formazione profes-sionale che confluirono poi in una efficiente «Scuola ApprendistiReggiane».

Vede così la luce, sotto la direzione dell’ingegner RobertoLonghi, il primo aeroplano interamente progettato e costruitodalle “Reggiane”. È il RE 2000, un apparecchio intercettore eda caccia che incontra subito l’interessamento della RegiaAeronautica. In quel brodo di coltura trova nuovo alimento l’or-goglio di essere un “operaio Reggiane”: è una fabbrica impostatasu di un’organizzazione del lavoro prefordista, dove si imparail mestiere secondo i canoni tradizionali dell’apprendistato. Celatotra le pieghe di quella trasmissione, nonostante la militarizza-zione della fabbrica, passano anche i valori dell’antifascismo: lomostrano le cicliche retate della polizia politica, come le notiziepreoccupate di sospetti atti di sabotaggio sui nuovi velivoli.

Al RE2000 si affiancano il RE2001 Falco II, di cui l’Ae-ronautica italiana chiederà ben 200 esemplari; poi sarà la voltadi 198 RE2002, 200 RE2003, ben 400 tra RE2005 e «Sagittario»(un velivolo ritenuto eccezionale dagli esperti).

Nel monte della produzione complessiva, la quota bellicadiventa preponderante e spinge ancor più su il numero deglioccupati. Nel 1941 – anno di massima espansione produttiva

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della fabbrica di via Agosti – il fatturato raggiunge i 567 milionidi lire; al settembre 1942 le maestranze schizzano a 13.452 unitàproduttive. Le OMI “Reggiane” diventano la prima aziendametallurgica in Emilia Romagna.

“Scuola Apprendisti Reggiane”, fine anni Trenta.

Produzione aeronautica “Reggiane”. RE2000 catapultabile.

Il 1943, anno XXI dell’Era Fascista, sarà anche quello chesancisce la caduta del regime. Il 25 luglio Benito Mussolini vienedestituito dalla maggioranza dei componenti il Gran Consiglio

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del Fascismo. Quella che a Roma sembra risolversi come unacongiura di palazzo assume ben altra consistenza, e tragedia,a Reggio Emilia come a Bari. Il 28 luglio si affollano davantial reparto “Avio” migliaia di lavoratori gridando slogan inneggiantial “pane” e alla “pace”; alcuni portano cartelloni con il ritrattodel re Vittorio Emanuele III. Ma non si può uscire. Un repartodei bersaglieri ha l’ordine di bloccare il cancello; l’ufficiale fasparare ad alzo zero ed è una carneficina. Cadono morti ottouomini e una donna gravida. Molti altri, feriti, eviteranno di ri-volgersi agli ospedali per tema di rappresaglie. Un furioso ac-quazzone disperde ogni tentativo di ulteriori sortite.

La censura cade sull’episodio. Le autorità badoglianemettono Reggio Emilia, con un deciso anticipo sui mesi dell’oc-cupazione nazi-fascista, sotto il regime del coprifuoco serale. Manon c’è colpo di spugna che possa cancellare un tale misfatto:lo sanno entrambe le parti che poi, all’8 di settembre, si ritro-veranno a farsi la guerra sui due fronti opposti. Il 28 luglio puòessere a pieno titolo considerato come l’inizio, a Reggio Emilia,della Resistenza.

DAI GIORNI DEL LUTTO ALLA RICONVERSIONE MANCATA (1944-1951)

Già al momento dell’occupazione, i nazisti reputano laposizione geografica delle “Reggiane” troppo esposta agli attac-chi aerei. Ha osservato al proposito Sandro Spreafico5:

La presa di posizione tedesca [...] costrinse i dirigenti, già delresto propensi a sbloccare una situazione che si era fatta criticaper i mancati rifornimenti di materiali e per difficoltà finanziarie,a decidere, nella seduta dell’1 ottobre 1943, il nuovo destinodello stabilimento.Fu avviato, d’accordo con le autorità germaniche, il trasferimen-to della maggior parte possibile del macchinario e degli impiantiper le lavorazioni aeronautiche in alcune zone del nord Italia(ex stabilimento Cantoni di Besozzo, stabilimenti Snia di Cocquio

5 Ibid., p. 236.

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e Filanda di Gavirate). In queste zone decentrate dovevanoessere organizzate le lavorazioni di particolare interesse peri tedeschi, e cioè del RE. 2002 e (secondo quanto lasciavasperare un rapporto del 23 settembre 1943 del generale Lucht)anche dei motori P. XI bis e P. VII, la cui produzione era statasospesa nello stabilimento di Reggio Emilia. Nelle officine diReggio sarebbero continuate le lavorazioni nei settori ex-SAMLe ferroviario, mentre, consentendolo le circostanze belliche,grosse quantità di materiali greggi e prodotti finiti e il macchi-nario adibito alle lavorazioni aeronautiche cessate dovevanoessere decentrati in alcune zone circostanti la città.

Iscrizioni di propaganda fascista negli stabilimenti “Reggiane”.

Bombardamenti sulle “Reggiane”.

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Bombardamenti sulle “Reggiane”.

Il colpo di grazia allo stabilimento arriverà con il doppiobombardamento alleato del 7 e 8 gennaio 1944: con l’80 percento degli impianti fissi colpiti e il 30 per cento del macchinariodistrutto non sarà più possibile riprendere in loco la produzione.Vari reparti saranno così trasferiti in provincia di Varese, a Cocquio,Gemonio e Besozzo; produzioni più limitate e siti di immagaz-zinaggio verranno invece sparpagliate tra le province di Reggioe Modena.

Fu un colpo sentito da tutta città, non fosse altro che perle 266 vittime civili ed il numero ancor più alto di feriti (in granparte dislocati proprio a Santa Croce). Quindi, a partire dalleamputazioni subite, si aprì sulla stampa quotidiana – per quantopossa apparire paradossale, vista la continuazione dello statodi occupazione e di guerra – un appassionato dibattito tra tecnicidel settore circa le linee-guida su cui avrebbe dovuto impostarsila ricostruzione del centro urbano6.

Nel frattempo una parte consistente di lavoratori rimaneinoccupata. Su di essi pende il rischio di trasferimento forzatoin Germania; come in effetti accade ad alcune decine di operai

6 A. Canovi, Il mattone della concordia. Dopoguerra a Reggio Emilia. Le case e la città, l’ammini-strazione e la politica, Tecnograf, Reggio Emilia, 1990.

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che si ritrovano – a loro insaputa, e tragicamente – inseriti dentrole liste stese dalla direzione delle “Reggiane” ad uso deglioccupanti nazisti. Un numero importante di lavoratori, all’indo-mani dell’8 settembre, prende poi parte alle fila della Resistenza;ciò che si ritroverà all’indomani della Liberazione, quando lemaestranze delle “Reggiane” si proporranno come un vero eproprio presidio antifascista, in grado di mobilitare all’istantemigliaia di persone.

La congiuntura della Ricostruzione vede così due grandiquestioni sul tappeto. In primo luogo, c’è da rimettere insiemei pezzi di uno stabilimento che aveva subito danni ingenti agliimpianti e la dispersione di molti macchinari. Sarà questa un’operastraordinaria di collaborazione tra le parti: lo sforzo generoso deilavoratori – ora riuniti di concerto in seno ad una nuova figurasindacale: il Comitato di Gestione – troverà come contraccambioil “blocco dei licenziamenti”, negoziato a livello nazionale con laConfindustria dalla Cgil. Quel determinato clima di collaborazio-ne sociale ricalcava in buona sostanza il quadro politico diconcertazione instaurato tra i grandi partiti sotto il marchio unitarioantifascista del Comitato di Liberazione Nazionale.

Ma non erano tutte rose. Prima ancora che si andassea sancire la fine politica della “concordia nazionale” – con lafuoruscita delle sinistre dal governo a guida DC nel 1947 – siimpone all’attenzione delle parti sociali e politiche la questionedella riconversione bellica delle grandi imprese siderurgiche emeccaniche. Non si poteva continuare a produrre armi, e certonon in quella misura. Le “Reggiane” erano d’altronde una azien-da “tuttofare”, con un sapere tecnico e operaio di altissimo livelloma anche con una consapevolezza morale del proprio ruolo di“avanguardia” rispetto ad una provincia ancora fortemente agricolae rurale come quella reggiana ed emiliana più in generale.

Così si fa strada a Reggio, la questione del “trattore”:diverrà il simbolo operaio e contadino di un modo di sviluppofinalmente popolare, alternativo alle guerre e vicino al sentiredei lavoratori.

Per costruirlo servono però investimenti: e i finanziamentidel Piano Marshall, nell’ambito della divisione internazionale dellavoro ora imposta dagli Stati Uniti, prevedono altre produzioni.

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Il Trattore R60

Non solo. Alle “Reggiane” – come per la verità in moltealtre grandi aziende del nord – vi sono troppi comunisti e partigianiperché possano essere considerate politicamente “affidabili”. Epoi vi è un ulteriore elemento “ambientale” che è sfavorevole:l’essere inseriti in una regione “rossa”. Così all’Emilia-Romagnaarriverà lo 0,60 per cento dei fondi per la ricostruzione destinatiall’Italia...7

Con queste premesse, la vicenda delle OMI “Reggiane”arriverà ad essere caricata – al di là del merito, già spinoso –di attese medianiche e frustrazioni insolvibili. Ciò che accadeal suo interno assume valenze generali. E questo complica dimolto le cose.

7 Cfr. in argomento, P. P. D’Attorre, Novecento padano. L’universo rurale e la grande trasformazione,Roma, Donzelli, 1998.

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Lo si vede sin nell’estate 1945, con l’omicidio non riven-dicato del direttore Vischi; un omicidio che, quando non siadirettamente collegabile a odi maturati nel corso della guerra,viene inscritto al perdurare nella provincia emiliana di uno “statodi guerra”. Il delitto intorbidì indubbiamente la discussione allorain atto attorno ai destini produttivi delle “Reggiane” e al cosid-detto “piano Alessio” ideato sin dal 1944 come piano ricostruttivodell’azienda8. Tra il 1947 e il 1949, quando oltre al quadro politicova in frantumi l’unità della Cgil, saranno numerosissime le vertenzeaziendali, per non parlare di tutta la lotta bracciantile inauguratacon gli “scioperi a rovescio”. Ma il segnale generale d’allertaarriva dalle “Reggiane”. Di fronte all’annuncio di licenziamentida parte della direzione, come ha scritto Nicola Brugnoli9:

La desistenza sindacale chiude definitivamente un ciclo edinaugura, con la vertenze delle OMI, una nuova fase di lotta.

La vertenza delle “Reggiane” diede insomma il “la” ad unastagione di grave crisi economica e sociale per l’intera provincia,punteggiata di scontri sindacali e dove furono all’ordine del giornoi licenziamenti per motivi politici.

Alle “Reggiane” si vide che, nonostante gli accordi stipulatiin precedenza tra il Comitato di fabbrica e la direzione, la logicapolitica dello scontro era in ultima analisi più forte di ogni altratrama negoziale. Tra scioperi a intermittenza, lettere unilateralidi licenziamento, nuovi scioperi generali di risposta si arriveràalla richiesta da parte della direzione (il 12 ottobre 1950) diorganizzare un presidio armato attorno alla fabbrica. Ciò cheequivaleva a porre in stato di assedio un intero quartiere operaioche vi stava addirittura dentro (come il caseggiato del “Cairo”)o dirimpetto (il villaggio “Pistelli”).

8 A. Alessio, Luci ed ombre della rinascita, Reggio Emilia, 1945.9 N. Brugnoli, Le OMI Reggiane. Crocevia di modernizzazione e la società contemporanea, in, Un

territorio e la grande storia del ‘900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, vol. II, Dal secondodopoguerra ai primi anni ’70, a cura di Luca Baldissara, Myriam Bergamaschi, Antonio Canovi,Alberto De Bernardi, Adolfo Pepe, Reggio Emilia, Ediesse, 2002, pp. 75.

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La risposta sarà appunto la più lunga occupazione – oltreun anno la sua durata – tra le pur numerose che l’Italia conobbein quel torno di tempo. La vicenda è stata studiata ampiamente.Basti sottolineare, in questa sede, la valenza infracomunitariache la lotta sindacale assunse per tutta la provincia: la “salvezza”delle “Reggiane” diventerà l’equivalente della lotta per il “lavoro”,per la “pace”, per il “progresso”. Una lotta per la vita, dunque,il cui epicentro ricadrà nel quartiere operaio cittadino per anto-nomasia: Santa Croce.

L’esito della vertenza – un esito annunciato, viste lepremesse – assumerà così il valore di uno schiaffo dato allacittà, alla sua storia e al suo sapere: la chiusura delle OMI“Reggiane” il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratori. Lariapertura di alcuni reparti e la riassunzione di qualche centinaiodi lavoratori, sotto la pena di una pesante discriminazione politica– qualche mese più tardi, sotto l’egida di “Nuove Reggiane” –non farà altro che gettare nuovo sale sulla ferita. Nella memoriacollettiva, a Reggio Emilia, la chiusura della storica “Officina” hafatto da spartiacque. Da parte della Cgil venne definita una“sconfitta sindacale ma una vittoria politica”, nel senso che l’unitàdei lavoratori a sinistra non verrà meno. Da parte di chi di sinistranon era, il fiorire successivo del distretto industirale sarà impu-gnato, altrimenti, come prova testimoniale a favore di quellachiusura.

La “vulgata” che si è instaurata a Reggio Emilia – conil senno di poi di un benessere economico diffuso – è quelladi una città che, di fronte alla crisi e nel bisogno, ha saputorimboccarsi le maniche e costruirsi ugualmente la propria “for-tuna”. Da questo punto di vista, Reggio ha saputo fare aggiosulla crisi storica delle “Reggiane” per accrescere enormementela propria reputazione in quanto “sistema locale” affluente. Ciòche è un valore ma chiede anche un contesto storico di rife-rimento. La chiusura delle “Reggiane” coincide, per un discretonumero di lavoratori, con l’espulsione dal mercato del lavorolocale; da cui storie di emigrazione od anche, più drammatica-mente, di crisi soggettive e familiari. Negli anni Sessanta, ilcambio di fase e la formazione di una periferia residenziale a

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sud della via Emilia comportano di fatto (e sono conseguenzeche all’epoca non vennero prese in considerazione), l’emargi-nazione fisica dalla vita cittadina della ormai “decaduta” SantaCroce Esterna.

Manifestazione di solidarietà con gli opersai in lotta. Parla il segretsrio della CGILDi Vittorio

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GAVASSA

La Chiesa di Gavassa, 2005.

DALLA DOMINAZIONE ROMANA ALL’ EVO MODERNO

Ci lasciamo alle spalle le “Reggiane” – la fabbrica, ilquartiere, l’aeroporto – per dirigerci in direzione nord-est, sullastrada per Correggio, sino a Gavassa.

Qui, passati gli svincoli della tangenziale, oltre il confinenaturale costituito dal canale d’Enza e dal torrente Rodano, sipresenta ai nostri occhi un paesaggio tuttora contrassegnatodall’agricoltura; al punto che Gavassa è divenuto, nell’immagi-nario dei reggiani “di città”, sinonimo della “campagna”.

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In realtà Gavassa cresce nei numeri demografici e simodifica in senso urbano-industriale non molto diversamente daquanto accade alle altre frazioni nel Comune. La percezionerurale deriva dall’attaccamento che, da queste parti, gli abitantimostrano per la conservazione di un certo impianto abitativo:strade a carreggiata ridotta, case sparse, vaste coltivazioni a vitee cereali. Non a caso la Villa è sede di un’affollatissima festaagricola detta della “Batdùra” (la mietitura delle messi, nel mesedi luglio).

La floridezza “ubertosa” di questi terreni testimonia altresìdel grande sforzo profuso dai suoi abitanti per strappare questaterra ai pantani acquitrinosi che, fin dal periodo preistorico,caratterizzavano il paesaggio padano.

Come ha avuto modo di sottolineare Mario Iotti nel recentesaggio sulla storia della frazione1:

Il territorio di Gavassa, durante il periodo della protostoria, nonera altro che una zona attraversata da diversi corsi d’acquanon regolamentati che, saltuariamente si trasformava in vastepaludi. Gli studiosi di etimologia ritengono che il toponimo diGavassa derivi, appunto, dalle caratteristiche del suo territorio.All’origine del toponimo sta molto probabilmente il Gava o Gabadelle parlate mediterranee preindoeuropee, che serviva perindicare un corso d’acqua, o meglio una bassura.

Le prime informazioni di sicuro contenuto storico cheriguardano gli insediamenti umani nell’area di Gavassa, riguar-dano il gruppo celtico dei Cenomani, provenienti dall’area pa-dana tra Verona e Brescia. Pur non avendo testimonianze direttedi tipo storico o archeologico è lecito ipotizzare contatti tra questogruppo celtico e le popolazioni etrusche che storicamente sispinsero in territorio emiliano. La successiva conquista e colo-nizzazione romana (190-170 d.C.) fece delle aree circostanti lavia Emilia, ed in particolar modo dei principali centri posti lungo

1 M. Iotti, Gavassa nei secoli, Reggio Emilia, Soc. Daino-Gavassa, 1992, pp. 1-2. Lo Iotti riportainformazioni ricavate dal dattiloscritto di Riccardo Bertani, Antichi Toponimi Reggiani, ReggioEmilia, 1992.

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il suo tragitto, uno fra i territori privilegiati di assegnazione deiterreni agli ex-legionari (distribuzione viritaria). A quella congiun-tura, infatti, vanno ascritte le prime opere di bonifica della pia-nura.

Per la verità nell’area di Gavassa rimane poco di quellapresenza: un solo reperto vi fa capolino nella monumentaleopera di catalogazione del Mommsen. Durante il periodo delladominazione Longobarda (VII-VIII sec. d.C.) Gavassa fece partedelle terre arimanne, poste lungo l’asse Reggio-Correggio.Secondo Iotti era quello un tempo in cui la proprietà terrierarisultava molto frazionata. Bisognerà attendere la comparsa diSigifredo, feudatario imperiale della famiglia degli Attoni – lamedesima da cui discende Matilde di Canossa –, affinché ilnuovo signore si appropri di parte dei territori a nord di Reggioe ridimensioni la proprietà fondiaria2.

Il periodo “arimanno” della storia di Gavassa, coincidentecon la fase di conversione al cristianesimo del dominatore lon-gobardo, segna anche la nascita del tempio locale dedicato aSan Floriano. Ancora Iotti3:

San Floriano era un santo caro ai Longobardi perché nato emorto nella loro terra d’origine, soldato di stanza nel NoricoRipense (territorio compreso fra l’Austria e la Stiria) era unodei tanti “barbari” che militavano nelle legioni romane al tempodell’Imperatore Diocleziano (284-305). Morì martire della fededurante una delle ultime persecuzioni contro i cristiani. Quandoi longobardi e i Bizantini nel 600-700 si fronteggiarono lungoi confini orientali della nostra provincia, tutte le chiese a lorosoggette erano dedicate rispettivamente a Santi Longobardi oortodossi.

Il primo documento in cui si cita la chiesa di San Florianodi Gavassa è dell’estate del 1073, quando Gandolfo, vescovodi Reggio conferma la possessione di certi beni al monastero

2 Ibid., p. 3. Lo Iotti, per questa sua prima analisi della struttura fondiaria mediava le si serve dellavoro di L. Bonilauri, la diffusione dell’azienda curtense nel territorio reggiano nei secoli VIII-IX,in «Bollettino Storico Reggiano» n. 36, Reggio Emilia, 1977.

3 M. Iotti, op. cit., p. 26.

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di San Prospero (fra questi un manso) a Floriano. L’esistenzadella Villa viene documentata già prima, tra il IX e il X secolo.Nel suo Dizionario topografico degli Stati Estensi, lo storicoTiraboschi annota alla voce «Gavassa»4:

Villa e parrocchia nel Reggiano poco distante dalla Città versoModena, è nominata fin dall’anno 857, in un diploma di Lo-dovico II, e in un altro di Carlo il Grosso dell’anno 883 in favoredella Chiesa di Reggio e poscia in più altri documenti in cuisi annoverano i beni della chiesa medesima e del Monasterodi S.Prospero. La Corte di Gavassa era uno de’ beni, checomponevano il patrimonio della Contessa Matilde e perciòGuelfo VI, Duca di Spoleto e Marchese di Toscana di lei nipoteed investito del patrimonio medesimo l’anno 1166, diede l’in-vestitura della Corte di Gavassa a Gherardo Rangone in premiode’ molti servigi ad esso prestati, e de’ fedeli consigli co’ qualil’avea sempre assistito.Egli poscia cedette l’anno 1176 alla Chiesa di Reggio alcunide’ beni che avea in Gavassa, cioè quatto iugeri di terra collametà di quella Corte, come ci mostra il documento, che neabbiam pubblicato, e come anche raccogliesi da una bolla diAlessandro III del 1178. Anzi da una controversia che la suddettaChiesa ebbe a sostenere verso il 1195 per difendere la pro-prietà de’ terreni che aveva in Gavassa, sembra raccogliersiche egli si fosse spogliato di ogni diritto, che la suddettainvestitura gli aveva recato.Nulla più d’interessante ci offre questa Villa. Solo nell’ArchivioSegreto Estense conservasi un decreto del duca Ercole I del28 di luglio del 1486 con cui accorda alcune esenzioni a’ terreninella Villa di Gavassa acquisiti da Niccolò Ariosto, padredell’immortale Lodovico. La Chiesa di San Floriano di Gavassain una carta del 1302 è annoverata tra quelle del Capitolo diReggio. E con questo nome esiste tutt’ora nel Vicariato diMassenzatico.

La proprietà della Corte di Gavassa oscilla dunque, nelperiodo pre-comunale, tra la Chiesa di Reggio e la famiglia degliAttoni. Se infatti il padre di Beatrice – con l’uso disinvolto delsistema delle «permute» – aveva incamerato notevoli quantitàdi terre ecclesiastiche, la Contessa sua figlia attuerà dopo la

4 G. Tiraboschi, Dizionario topografico storico degli stati estensi, rist. anast. eseguita sulla edizionedel 1821-1825, Bologna, Arnaldo Forni, 1963, pp. 335-336.

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morte del padre (1052) una politica di segno decisamente opposto,concedendo numerose donazioni ad enti ecclesiastici e hospitalisu tutto il territorio di sua potestà.

Alcuni di questi benefici riguardano terreni situati nell’areadi Gavassa; tra i beneficiari, v’è appunto il famoso monasterodi San Prospero5 che – circa duecento anni prima – era già statoinvestito di terre locali da parte dell’Imperatore Carlo il Grosso.In tal modo gli enti religiosi divennero ben presto i principaliproprietari terrieri della zona.

Mario Iotti6:

Alla fine del 1100 buona parte del territorio di Gavassa appar-teneva ad Enti religiosi, fra cui il Duomo di Reggio con i suoicanonici e i monasteri di S.Prospero e di S.Tommaso. I rapportifra canonici e monaci, ma spesso fra gli stessi monaci, nonfurono sempre buoni. La riforma di Papa Gregorio VII, voltaa normalizzare il clero secolare e regolare, non diede subitorisultati apprezzabili. I religiosi, sempre più ricchi di terreni,erano portati ad interessarsi più dei beni materiali che delleopere spirituali.Fra i terreni che spesso erano causa di contese, c’erano anchequelli di Gavassa. La zona di Gavassa, dal Medio Evo in poi,è sempre stata di interesse rilevante. La fertilità del terreno ela vicinanza di un mercato importante come quello di Reggiole conferiva un alto valore economico e ai suoi proprietari unragguardevole prestigio. Tutta la Reggio che contava, religiosao laica, si era sempre distinta per le possessioni poste neisobborghi della città.

La presenza della città a pochi chilometri dalla villa e laconcentrazione di tanta terra nelle mani di enti ecclesiasticivarranno a Gavassa, per l’appunto, una condizione di storicasubalternità. Nel periodo che corre approssimativamente tra ilXII e il XIII secolo – quello più classico di espansione del “libero”comune – a Gavassa risulta esservi un «consul» chiamato

5 Cfr. O. Rambaldi, Il monastero di San prospero di Reggio Emilia, Modena 1982, regesto n. 110,p. 205.

6 M. Iotti, op. cit., p. 4. Si veda anche Brunetto Carboni, Anno 1196: dal «lodo» dell’Abate Prosperoemerge la testimonianza della realtà socio-ambientale del territorio dell’immediato suburbio set-tentrionale di Reggio, in Bollettino Storico Reggiano n. 77, Reggio 1992.

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Jacopinus; con ogni probabilità, svolgeva il ruolo di rappresen-tante della comunità agli occhi del Comune di Reggio. Altra figuradi spicco nella comunità, oltre a quella del parroco ovviamente,era quella del mugnaio, “Bonifacius de Palmeris”, esponentedella famiglia che dalla prima metà del duecento gestiva il mulinolocale per conto dei Canonici del Duomo7.

Il periodo comunale è un periodo espansivo, sotto i diversiprofili politico, economico e sociale. D’altra parte, ripetuti furonoi fatti d’arme tra Reggio e i Comuni vicini come,e all’interno delmedesimo Comune, fra le varie fazioni (Nobili e Popolani, Guelfie Ghibellini). In queste vicende, con il loro contorno di ruberiee violenze da parte dei mercenari impiegati nei vari conflitti,rimasero impigliate le Ville del contado. Gavassa, per la suacollocazione, si trovò in modo particolare coinvolta a più ripresenelle scontro con i Da Correggio. Le “croniche” locali ricordano,tra i più gravi, il saccheggio subito dal contado reggiano nel1371, quando – nel corso della guerra che vedeva opposti iVisconti ad una lega tra i potentati della Pianura Padana (Verona,Mantova, Carrara, Modena e Venezia) – le truppe di Lucio diLando, capitano di ventura al soldo degli Estensi, misero tuttoa ferro e fuoco per ben per venti giorni (dal 2 al 22 di maggio).

Vi sono poi le alluvioni. Memorabile quella del Crostoloe del Rodano del 1276. Fulvio Azzarri ne trasse una descrizioneapocalittica8:

Dal marzo del 1276 fino a S. Giovanni (24 giugno) piovve incontinuazione; il Crostolo ruppe, allagando la zona nord doReggio; il Rodano sommerse per diversi mesi le campagne diS. Maurizio, Gavassa e Penizzo. I danni furono enormi perl’impossibilità di seminare e per la morte di numerose bestie.

7 Cfr. F. S. Gatta, Liber grossus Antiquus Comunis Regii, Reggio 1944, Vol. III alla data 22 marzo1238.

8 F. Azzarri, Cronache della città di Reggio, ripreso in Mario Iotti, op. cit , (p. 42); per una più completainformazione sul corso antico del Crostolo si veda anche Rino Rio, Vestigia Crustunei, Reggio,1931.

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Il ponte delle assi.

Sbarramento del Rodano presso la Chiusa di Villa Curta

L’azione incessante di questi torrenti – a cui va aggiuntoil Tresinaro che scorreva molto più a ovest del corso attuale– per secoli contribuirà a plasmare, assieme ed a volte inconcorrenza all’incessante lavorio dell’uomo, l’assetto dell’interoterritorio a nord della città. Del resto, la presenza nel territoriodi due importanti corsi d’acqua come il Rodano e il Crostolo –il cui letto, o meglio, i cui letti in passato interessavano anchei territori di Pratofontana e Massenzatico – ha fatto sì che le

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terre a nord del capoluogo presentassero nei secoli una ele-vatissima fertilità, tale da spingere per generazioni i contadinidel luogo a un’estenuante lotta al fine di bonificare queste terre.Lotta che, iniziata proprio in periodo comunale, troverà conclu-sione all’inizio del secolo scorso.

Un passaggio decisivo si ha con la costruzione del canaled’Enza o canale Ducale, il quale attraversa il territorio provincialeda Ciano a Correggio e la cui asta passava anche per la Villadi Gavassa. Gli accordi che ne regolamentano gli usi delle acquedatano al luglio 1462 e prendono il nome di Capitolazione Borsiana(dal nome di Borso d’Este, terzo signore estense di Reggio eprimo ad essere insignito del titolo di Duca di Modena e Reggio).

Tipologie rurali

IL PERIGLIOSO CAMMINO DI UNA VILLA DI CAMPAGNA

L’entrata nel XVI secolo vede l’Italia presa nella guerracontinentale combattuta tra Francia e Spagna. Le “croniche”locali, sempre attente ai fatti d’arme, narrano di una città che,mentre vede svilupparsi l’arte della seta, si ritrova a più riprese,inusitatamente, vittima civile di questa o quell’altra disputa.

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Particolarmente disastrosi per il contado reggiano furono isaccheggi intrapresi dalle truppe pontificie (bisogna ricordareche gli Estensi erano alleati dei Francesi). Terminato nel 1523il controllo pontificio su Regio, nel 1527 sarà la volta del pas-saggio dei Lanzichenecchi guidati dal generale imperiale Fron-dsberg (tra l’altro apportatori del morbo della peste).

La forte instabilità del momento sembra trovare confermanella rapida successione di quattro parroci in trentadue anni (dal1529 al 1561); e siamo in anni dove, più che delle anime, cisi occupa dei benefici parrocchiali. Altre notizie, sempre luttuose,le ritroviamo nel secolo successivo: in corrispondenza della pestedel 1630-1631 (quella di “manzoniana” memoria) e del breveassedio spagnolo nel marzo 1655. Tuttavia, quale risposta allacorruzione diffusa nel mondo ecclesiastico, sono quelli gli anninei quali prendono piede anche nuove forme di aggregazionereligiosa. Inoltre il rinnovato fervore religioso fece sorgere ovun-que le confraternite religiose, contribuendo a sviluppare un nuovospirito di solidarietà tra la gente.

Mario Iotti ha descritto in particolare il fenomeno delleConfraternite9:

Tra il ‘500 e il ‘600, sorsero in tutte le parrocchie le Confraternitedette pure Compagnie o Consorzi. Esse avevano per fonda-mento una grande forza: la solidarietà e l’aiuto vicendevole.Nei loro statuti troviamo sempre associati culto e carità. Gliscopi che si proponevano, oltre alle pratiche religiose, eranoquelli dell’assistenza agli infermi, ai poveri “vergognosi”, i suffragiper i defunti, le donazioni a ragazze povere […].I soci delle confraternite erano gli uomini e le donne dellaparrocchia, ma solo i primi avevano il diritto di voto per eleggerei reggitori della compagnia o per deliberare su fatti importanti.Le elezioni per la nomina dei due Massari e del Tesoriere(cassiere), si tenevano ogni due o tre anni, con l’imbossola-mento delle fave bianche (approvazione) e delle fave nere(disapprovazione). La carica di priore spettava di diritto ad unprete che, nel caso di Gavassa, era sempre il parroco protempore.

9 M. Iotti, op. cit., pp. 53-54.

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Tra le confraternite nate a Gavassa se ne ricordano diverse:la prima e più importante – del Santissimo Rosario – vienefondata verso la fine del XVI secolo; una seconda, detta delSantissimo Sacramento, nasce dopo la grande peste del 1630.Si ha poi notizia di una ulteriore confraternita fondata il primogennaio 1894 dal vescovo Vincenzo Manicardi nella chiesa diSan Floriano, dedicata a Maria Vergine Addolorata. Sempre aGavassa, prenderà ad operare il Terzo Ordine Francescano.

L’importanza d queste congregazioni per la vita socialedi Gavassa è facilmente intuibile e si pensa che esse agironoin periodi in cui pochi erano gli strumenti a disposizione dellacomunità della Villa per assicurare le “opere di bene”.

Altri spunti in argomento provengono dalle note di cronacastese da don Antonio Baldasserini, rettore della parrocchia diSan Floriano dal 1694 al 1741. Così viene ad esempio descrittal’occupazione francese della città10:

[I francesi che occupavano Reggio] impongono contribuzioni diogni genere, aggravate sempre più da nostri stessi concittadini,e da scorrerie fatte tutti i dì da francesi… e in una delle qualimi fu involato tutto il mio fieno del Beneficio colla sola monetadel gratis (et anco contentarsi) e ciò il 11 luglio 1703… Cre-sceva vi è più la nostra miseria perché le scorrerie de’ francesi,e tedeschi ci facevan desiderare più tosto la morte, che goderquesta si infestata vita… si fuggiva da una parte, or da un’altracon l’abbandono delle cose e di quanto vi era».

Non meno tragica della permanenza francese fu quellaimposta dall’esercito tedesco nell’ottobre del 1706, quando doven-do procacciarsi foraggio per i propri animali trasformarono il «fo-raggio in un aspro saccheggiato», portandosi via proprio di tutto11.

Al di là delle calamità contingenti, di ordine bellico oderivanti dall’azione degli agenti atmosferici, pesavano le “ga-belle” imposte dal governo estense. A distanza di oltre due secolivi è ancora chi, come Mario Iotti, vuole indignarsi contro iltrattamento a suo tempo imposto ai “villani”:

10 Mss. don Antonio Baldasserini, Memorie, anno 1703, Archivio Parrocchiale d Gavassa.11 Ibid.

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I duchi estensi, Rinaldo I (1694-1737) e Francesco III (1737-1780), durante il loro lungo governo rinunciarono alla riscos-sione diretta delle imposte e tasse, preferendo incassarleattraverso gabellieri privati. Questi appartenesti a piccole fa-miglie borghesi (Marchetti, Cugini, Re, Paradisi e Borrini), inbreve tempo, con la loro fiscalità esosa e rapace, accumularonoingenti beni mobiliari.I duchi di Modena sanzionarono il loro operato nominandoli tutticonti!12

Siamo ormai a ridosso del periodo napoleonico: ed è quiinteressante sottolineare come – in una congiuntura critica peri poteri costituiti e di mobilizzazione delle libertà locali – la partenord del forese si renda protagonista di un percorso di auto-nomia territoriale.

Nel 1804, assieme a Massenzatico e al Penizzo, Gavassaviene accorpata al neonato Comune di Budrio (una frazione diCorreggio). Mario della Palude, che faceva parte di una ternaproposta dal Prefetto del Dipartimento ne risulta sindaco; FilippoCasali e Ippolito Malaguzzi, fra i ricchi possidenti del comune,sono nominati Consiglieri Anziani. Il Comune di Budrio dureràpoco più di un anno. Con Regio decreto 6 giugno 1805 vienedefinito l’assetto dei comuni nel Dipartimento del Crostolo e Gavassafarà così ritorno al proprio “ovile” di sempre: il Comune di Reggio.

Le novità profonde importate dalla Francia furono altre,destinate a toccare Reggio e Gavassa come tutto il Regno diItalia: l’adozione (nel maggio 1805) del Codice Napoleonico, conil quale vennero aboliti tutti i diritti feudali e i benefici ecclesiastici,misura che comporterà una generale requisizione da parte dellostato dei beni fino ad allora appartenuti alla Chiesa. Ne con-segue, come conseguenza non secondaria, una forte accele-razione nei processi di capitalizzazione fondiaria. Famiglie dicoloni che da generazioni lavoravano i fondi ecclesiastici, inmezzadria od anche in terzeria, di punto in bianco si ritrovaronoescomiate13. Prende corpo in quegli anni la costituzione di quel

12 M. Iotti, op. cit., (p. 14).13 Cfr. F. Spaggiari, La distribuzione delle proprietà fondiarie nella pianura reggiana (1791-180-1814),

in «Reggio e i territori estensi dall’antico regime all’Età napoleonica», Parma 1979, Vol. I, pag. 210.

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ceto bracciantile – casanti, cameranti e più genericamente salariatistagionali “senza terra” – destinato a diventare un soggettosociale decisivo nello scontro di classe lungo i due secolisuccessivi. A fianco di questo – e non meno sconvolgente perla popolazione contadina, allocata in una posizione perifericarispetto ai centri urbani del potere – si registra l’introduzione dellaleva militare obbligatoria.

Sono dunque, quelli, ancora anni nei quali mentre la guerrasi porta via uomini e risorse accadono altre calamità. All’alluvionedel 1815 fa seguito una grave epidemia di tifo petecchiale;seguono stagioni di raccolti scarsi e inconsistenti, la morte mietepiù che mai tra i bambini.

Mario Iotti ha reperito alcune dati14:

A Gavassa, nel 1832, su 37 nati, 14 morirono prima di avercompiuto l’anno, con una mortalità infantile pari al 37,83%.Questa percentuale si mantenne anche quando le nascite siriducono fortemente nelle annate che seguono carestie edepidemie. È noto che nelle campagne i contadini rimandavanole nozze nelle annate di crisi. L’anno nero della mortalità infantilefu il 1822: su 18 defunti ben 15 erano bambini. Ancora nel 1831,su 30 nati muoiono 7 bambini, cioè il 23,33%.

La popolazione della Villa continuerà comunque a cresce-re, passando dagli 800 abitanti del 1814 ai 1200 del 1860. Traquesti, sempre più numerosi, la categoria dei contadini poverio, come vengono classificati ufficialmente a partire dal censi-mento del 1860, dei “casanti” e “cameranti”: in quell’anno sono388, pari al 31 per cento della popolazione di Gavassa15.

La commistione tra proletarizzazione della condizionecontadina e tendenze reazionarie del locale governo “austroe-stense” non contribuirà evidentemente a formulare gli interventiattesi di perequazione sociale; sola misura intrapresa per fron-

14 M. Iotti, op. cit. (p. 18).15 L’origine del nome va ricercata nella condizione abitativa: famiglie numerose – anche se più ridotte

dei mezzadri, strutturati stabilmente su più generazioni – ristrette in povere abitazioni costituiteda pochi vani angusti, facenti parte di complessi più grandi, spesso denominati “castelli popolari”.

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teggiare la piaga sociale della povertà, di stampo paternalistico,sarà l’istituzione dei Monti Frumentari per contenere le specu-lazioni sul mercato dei cereali durante le annate di carestia. Daparte dei ceti sociali più miseri arriverà una risposta che con-trasta con la vulgata corrente di un Risorgimento tutto borghese.Sono ben sei i patrioti gavassesi partecipanti alla seconda guerrad’Indipendenza: Giacomo Anceschi, Giovanni Bertani, GiovanniCamellini, Luigi Costi, Luigi Gandini e Prospero Rurabbi16.

La mobilitazione delle campagne troverà poi un punto disfida aperta attorno alla tassa sul macinato imposta (nel 1866)dal nuovo governo regio dei Savoia. Per dare la misura dell’entitàdell’ammontare del balzello: si trattava di 2 lire per quintale,quando un operaio guadagnava 50-60 centesimi al giorno!Gavassa, come numerose altri nuclei contadini, vedrà manife-stazioni di strada e alcuni cittadini condannati durante la repres-sione che ne seguì.

Un buon osservatorio per capire che cosa stesse succe-dendo nelle campagne reggiane viene fornito dai dati contenutinell’inchiesta agraria promossa nei primi anni Ottanta del XIXsecolo da Stefano Jacini. I relatori per Reggio Emilia furonoAndrea Balletti e Guido Gatti. Per quanto attiene Gavassa, ritornaulteriormente rafforzato il peso specifico acquisito dai casanti;una classe sociale vista peraltro come il fumo negli occhi daiproprietari terrieri, in quanto ritenuta causa principale del diffon-dersi dei “furti campestri”17.

Uno studioso come Mario Iotti ha preferito porre l’accentosugli anni successivi, nei quali – sulla scorta del gran lavoro diinnovazione impostato da Antonio Zanelli presso la Regia Scuolache prenderà poi il suo nome – la produttività agricola conosceràun incremento senza precedenti18:

16 Cfr. U. Dallari, Il 1859 nei ducati dell’Emilia, Reggio Emilia, 1911.17 Cfr. Atti della giunta per la Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, relazione del

Commissario, marchese Luigi Tanari, senatore del Regno, sulla sesta circoscrizione, vol. II, t. 1,Roma 1881.

18 M. Iotti, op. cit., p. 22

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Agli albori di questo secolo, Gavassa si inserisce sempre più nelprocesso tecnico-agricolo. Un piccolo podere del Prof. AntonioZanelli, l’insegnante Direttore della Regia Scuola di Zootecnicae Caseificio di Reggio, situato nel territorio di Gavassa, diventaun punto di riferimento per tutti gli agricoltori della zona.La produzione agro-zootecnica è in costante sviluppo; nel 1914,alla vigilia della prima guerra mondiale, a Gavassa si contanocinque caseifici per la produzione del formaggio grana. La pro-duzione dell’uva, secondo prodotto in ordine di importanza, sul-l’esempio della vicina Villa di Massenzatico, veniva orientata sullaLancellotta, varietà che per le sue indiscusse qualità era richiestasu tutti i mercati. Dopo le tensioni sindacali dei primi anni del ‘900,i rapporti fra gli imprenditori agricoli ed i coloni si erano fatti piùtranquilli. Quella «seria speranza» auspicata dal Balletti [nell’in-chiesta Jacini, ndr] sembrava vicina, quando si abbatté anchesulla comunità di Gavassa la guerra mondiale del 1915-1918.

Il richiamo dello studioso alla “scure” della Grande guerratrova riscontro nei numeri impressionanti, in termini di vite umaneusate e buttate, prodotti da quell’evento: 140 furono gli uominirichiamati al fronte (le classi dal 1878 al 1899); in numero di42, pari ad uno su tre, non fecero ritorno. Si aggiunga la dif-fusione del morbo dell’epidemia cosiddetta della” spagnola”: nel1918, l’anno di maggiore virulenza, il numero dei decessi rad-doppia sulla media degli anni immediatamente precedenti eseguenti. Sono altri 40 i gavassesi che se ne vanno.

Monumento ai caduti

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Un punto di distinzione importante, nel panorama politico-sociale reggiano dominato dall’influenza del “socialismo evan-gelico” professato da Camillo Prampolini, è il peso specificoassunto in Gavassa dal movimento cattolico. A livello locale,persino anticipando lo spirito sociale dell’enciclica “RerumNovarum” (1891), sorgono i primi comitati parrocchiali19. Nel1899 vedrà qui la luce la prima cooperativa di consumo diispirazione cattolica nella provincia, poi trasformata (nel 1902)in Unione Agricola Cooperativa Cattolica di Consumo di Gavas-sa. Sono infatti alcuni contadini proprietari (Andrea Borghi, AlbertoCocchi, Giuseppe Davolio Marani, Primo Varini, Zefirino Motti,Luigi Ruozi, Luigi Spaggiari, Diego Poli, Davide Radighieri) adispirarne le linee guida, almeno sino all’avvento del fascismo conl’imposizione di un unico ente agricolo provinciale (il ConsorzioAgrario Provinciale).

Che a Gavassa l’associazionismo cattolico fosse forte eattivo lo mostra bene il fatto che, nel 1903, la “Società di Contadini”di ispirazione socialista chiese senza successo di unirsi allaCooperativa Cattolica. Il motivo del rifiuto è spiegato nel verbaledel Consiglio di amministrazione della Cooperativa Cattolica20:

[…] dopo varie discussioni… delibera di non unirsi perché laSocietà di Contadini è di carattere opposto alla nostra, e dichiaradi accettare i membri come soci purché ottemperino in tuttoe incondizionatamente al nostro statuto.

19 S. Spreafico ha voluto ricordare i nomi di alcuni tra i protagonisti di quel movimento: FerdinandoBortolotti, Federico Attolini, Fortunato Rovacchi, Giulio Simonazzi e Agostino Borghi ; cfr. La chiesaitaliana fra antichi e nuovi regimi, Bologna, Cappelli, p. 338.

20 Archivio Famiglia Borghi. Verbali del Consiglio di amministrazione della coop. cattolica di Consumocostituita con rogito del dr. Emilio Del Rio del 7 giungo 1902, in Ibid.

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Palestra U.S. Daino, Cantina Sociale, alloggi Acer, Pista ciclopedonale dal centroverso il Campovolo.

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Gavassa oggi: Scuola primaria, Scuola materna.

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MASSENZATICO

Massenzatico. Antico arazzo.

VILLA CRUSTUNEI

Proseguendo nel nostro cammino all’interno della Circo-scrizione 7, si disegna un leggero arco verso nord-ovest perarrivare a Villa Massenzatico, più elevato rispetto al territoriocircostante,

L’ingegner Rino Rio, nel suo pregevole “Vestigia Crustu-nei” del 1931, ha messo in luce la relazione tra la nascita diMassenzatico e le migrazioni dell’alveo del Crostolo. Qui scor-reva infatti il suo corso principale, detto “Crostolo Magnus” e

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la borgata che sorse alle rive prese per l’appunto il nome di “VillaCrustunei”.1 Il primo nucleo abitato, in particolare, sorse in formadi corte o castello su di un dosso – in posizione sopraelevatarispetto ai terreni circostanti – formato dai precedenti detriti delRodano.

La dipendenza delle acque – con il costante rischio dialluvioni: le cronache locali ne ricordano una spaventosa nel1276 – sarà una costante nella vita di Massenzatico, almenosino alle grandi bonifiche promosse tra il XVI e il XVII secolo.

UNA VILLA FEUDALE

Così recitava – siamo alla fine del XVIII secolo – laCorografia del Ricci2.

MASSENZATICO, Villa del distretto di Reggio sotto quell’Ar-chivio. Ha per confine a lev.[ante] Lemizzone e Prato,mez.[zogiorno] Gavassa e Mancasale, pon.[ente] Prato Fonta-na, set.[tentrione] Budrio e Fosdondo. È soggetta alla Comunitàdi Reggio ed ha una parrocchiale plebana col titolare SanDonnino Martire di sette Figliali. È posta nel paino ed è distanteda Reggio 4 miglia, da Modena 15. Ha un estensione di 5384biolche e una popolazione di 1051 abitanti.Fu già un feudo più specialmente degli altri addetto al Vescovodi Reggio, il quale vi conservava un proficuo diritto sullesuccessioni ed era prevenuto al Vescovato nelle permute fattecol Marchese Bonifazio, padre della Contessa Matilde.

La sua vocazione rurale – è Villa vitivinicola per eccellenza– sarebbe anche alla base del suo nome. Massenzatico deri-verebbe, secondo una parte della storiografia, da “masseria”,ovvero corte agricola. C’è però chi, in maniera un po’ romantica,farebbe risalire il toponimo Massenzatico addirittura all’impera-tore Massenzio, rivale del più noto Costantino e da lui sconfittonella famosa battaglia di Ponte Milvio nel 313 d.C.

1 R. Rio, Vestigia Crustunei, Reggio Emilia, 1931.2 L. Ricci, Corografia dei territori di Modena, Reggio e degli altri stati appartenenti alla casa d’Este,

Aedes Muratoria, ristampa anagrafica, 1988, Modena.

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La leggenda affonda, probabilmente, in una certa fierezzadi questa frazione che – come vedremo – ha inteso difenderenel corso dei secoli un certo livello di autonomia. Alcuni ritro-vamenti romani hanno fatto il resto. Il sacerdote reggiano Fran-cesco Giuseppe Franchi, nelle sue Memorie di Reggio di Lom-bardia, riportando lo schizzo di una lapide romana scrive inun’annotazione3:

Questo sasso di pietra macigna fu ritrovato nell’escavamentodi un cantina nel Palazzo del Vescovo feudo suo di Massen-zatico sotto terra Braccia 3. L’anno 1702, sotto al capo di unmorto in cassa di mattoni murati, con questa iscrizione, comesi vede, mandatami da don Antonio Baldassarini Rettore diGavassa.

Oggi di quella lapide ritrovata a Massenzatico non sitroverebbe traccia nel Museo Archeologico cittadino, ma gli zelantiautori di Massenzatico, un millennio, un secolo, hanno rilevatonel Corpus Inscriptiorum Latinorum del Mommsen a p. 179 (n.1000) la seguente citazione4:

1000 sasso macigno. Ritrov. Nell’escavamento d’una cantinanel palazzo feudo suo di Massenzatico l’a. 1715 sotto al capodi un morto in cassa di mattoni murati.

IATOC.N.B.S.

Queste due testimonianze archivistiche, riferite alla stessalapide, sembrano confermare il fatto che già in periodo romanoMassenzatico sia stata interessata dalla presenza di un inse-diamento civile – probabilmente di tipo rurale, una villa appunto– di una certa importanza. A confortare questa ipotesi sta anchel’altro reperto di tipo epigrafico ritrovato ai suoi confini versoGavassa, nei pressi di “Castello Motti”.

3 F. G. Franchi, Memorie di Reggio di Lombardia, manoscritto , 1700, Misc. Regg. C. 71, BibliotecaMunicipale “Panizzi”.

4 Mommsen, C.I.L., XI, 1000, Berlino, 1888, p. 179.

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La traccia romana

Che Massenzatico fosse parte della centuriazione roma-na, nel territorio a nord della via Emilia, viene attestato anchedagli studi riportati dall’ingegner Otello Siliprandi nel suo Segnidella centuriazione romana nel territorio reggiano5:

Oltre il cardine e il decumano che passavano per l’abitato, sipossono ora individuare:a) un cardine a oriente del medesimo, nella strada che iniziavaa nord di Massenzatico, tra Bagnolo e Budrio; passando alevante della chiesa di Massenzatico, toccava Villa Curta, sidirigeva alla Via Emilia che attraversava a levante di SanMaurizio, nei pressi del Ritiro, per proseguire per Gavassetoe raggiungere l’attuale provinciale per Scandiano ai piedi dellacollina.

Gli sconvolgimenti seguiti alla caduta dell’Impero Romanospiegherebbero, nella zona presa in esame, le ragioni della

5 O. Siliprandi, Segni della centuriazione romana nel territorio reggiano, estr. dal periodico “Studie documenti”, Reggio Emilia, Tip. Costi, 1941 , p .6.

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scomparsa di evidenti tracce di centuriazione, quali pure siritrovano in altri contesti comunali (Villa Bagno) e della provincia(tra Poviglio e Brescello).

Ulteriori informazioni risalgono poi al periodo carolingio.Ne scrive con dovizia il Tiraboschi6:

Mazinzaticum o Maxenciatica, Massenzatico Villa e ChiesaPievana col titolo di S. Donnino nel Reggiano, era fin dalprincipio del nono secolo almeno della Chiesa di Reggio.L’Imperadore Lottario I con quella facilità che allora aveasi adonare l’altrui, insieme con Luzzara, di cui già si è detto, donòin Beneficio a un certo Riccardo la Corte di Massenzatico collaCappella in onore di S.Donnino. E per quanto i Vescovi diReggio se ne dolessero, non poterono riaverla fino all’anno 840,in cui, morto Riccardo, la stesso Lottario con suo diplomarendettela al Vescovo Vitale. E ivi ancora l’Imp. Lodovico IIdonò l’anno 857 qualche terreno al Capitolo della Chiesamedesima. Quindi di Massenzatico si fa menzione in tutti idocumenti, ne’ quali si annoverano i possedimenti del Vescovo,e i beni del Capitolo di Reggio, ed esso è pur nominato tra’luoghi ne’ quali il Vescovo nel secolo XI teneva presidio. IlComune di Reggio però credeva di poter sopra quella Terraesercitare la sua giurisdizione, e perciò nel 1329, essendo statorappresentato che la Terra di Massenzatico a cagion delleguerre era rimasta del tutto disabitata e che se la Torre di quellaChiesa fosse stata fortificata, avrebbon potuto gli uomini collelor bestie tornare ad abitarvi fa ordinato che a spese de’ terrazzanidovesser farvisi le proposte fortificazioni. Contuttociò i Vescovidi Reggio ne ritennero il dominio e quando nel 1361 il VescovoBartolommeo diede a Feltrino Gonzaga l’investitura di quasitutti i Castelli della sua Chiesa, ne eccettuò Massenzatico.Nel 1465 Paolo II con sua Bolla segnata agli 3 dì Gennajo,e diretta al Proposto di S.Prospero, la qual si conserva nel-l’Archivio Segreto della Città di Reggio, ad istanza del VescovoGiambattista Pallavicini unì la Chiesa di S.Donnino di Mas-senzatico alla Mensa Vescovile di Reggio.

Una prima fonte indiretta del rapporto che lega Massen-zatico ai vescovi reggiani, in realtà, andrebbe fatta risalire al 774d.C., l’anno in cui Carlo Magno – valicate le Alpi – scende in

6 G. Tiraboschi, Dizionario topografico storico degli stati estensi, rist. anast. eseguita sulla edizionedel 1821-1825, Bologna, Arnaldo Forni, 1963, pp. 38-39.

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Italia per annettere il territorio governato dai Longobardi. CarloMagno, durante la sua opera di dissoluzione di quel che restavadell’amministrazione Longobarda, farà prigionieri i vescovi diLucca, Pisa e Reggio.

Quest’ultimo, di nome Apollinare, risulta liberato per in-tercessione del pontefice Adriano I e reintegrato nella sua caricae nei suoi possessi con diploma del 781, redatto a Pavia. Sequesto documento non cita espressamente la Villa, quello diLotario conferma ciò che già Carlo Magno e Ludovico I avevanorestituito ad Apollinare, tra cui appunto Massenzatico e la chiesadi san Donnino. Il possesso del feudo di Massenzatico ai vescovireggiani verrà poi reiterato da re Berengario (898) e dagliimperatori Ottone II (980), Federico I (1160), Enrico VI (1196)e Federico II (1224).

Tornando al testo del Tiraboschi, esso ci descrive in modosintetico le vicende della Villa per un arco di circa sei secoli,le quali ruotano – come si è visto – attorno al rapporto “esclusivo”che già dal IX secolo si instaura tra Massenzatico e la Curiadi Reggio. Tanto che il vescovo, in diverse occasioni, difendestrenuamente i propri diritti esclusivi sul feudo di Massenzaticocontro gli altri potentati locali: i Canossa prima e il Comunecittadino poi.

Rossana Maseroli Bertolotti7:

[...] ai primi del Mille, la vita della città di Reggio e delle suecampagne è in buona parte legata alla Curia Vescovile, formatadi da membri del clero, funzionari della corte episcopale, giudicie monaci. Curia dotata di un grande potere se, in un conten-zioso sulla divisione dei beni contro Bonifacio di Canossa,padre di Matilde, il Vescovo di Reggio si rifiuta di cedere proprioMassenzatico che verrà, anzi, da lui fortificata. Così come il6 maggio del 1189, quando il Vescovo Pietro (1187-1210)concorda col Comune di Reggio di pagare un certo canoneper tutte le terre che aveva nel Vescovado e di sottoporre aservizio militare i suoi uomini, esentando però Massenzaticoda questi oneri.

7 R. Maseroli Bertolotti, Massenzatico, documenti per mille anni di storia, Ed. Componendo, ReggioEmilia, 2000, p. 23.

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Con questo atto il vescovo di Reggio afferma di voleresercitare un dominio esclusivo su terre che, evidentemente,dovevano costituire una fonte di introiti notevoli per la Curia.Questo particolare legame al territorio di Massenzatico si rtirovanei secoli successivi: ancora nella seconda metà del XIII secolo,il Vescovo si opporrà al tentativo dei possidenti di Massenzaticodi accrescere la propria autonomia per avvicinarsi al liberoComune.

Ne ha scritto estesamente la Maseroli8:

Nella popolazione di Massenzatico, però, il desiderio di auto-nomia si fa sempre più pressante tanto che nel 1265 prestagiuramento alla città di Reggio pensando di trovare maggiorelibertà nell’ambito della giurisdizione comunale. Ma il vescovo,il battagliero ed energico Guglielmo Fogliani, reagisce pronta-mente minacciando di scomunicare Martino de Clechis e altrisette anziani del Comune che avevano accolto il “sequimen-tum”. Minaccia che sortisce il suo effetto ed il 13 febbraioUgolino Fugazia, che aveva accettato di essere podestà diMassenzatico, si sottomette al Vescovo che ritira così lascomunica. [...] Il 14 aprile del 1265 una delegazione di ventiuomini si reca nel palazzo vescovile per ricevere il perdono“sub giuramento ne cetero sequimentum facient”. Il giorno dopo,nella chiesa di San Donnino si riuniscono quaranta capifamigliache giurano di sottomettersi all’autorità del vescovo per otte-nere il perdono; la cerimonia è officiata dal “presbiter ecclesiaeMasenciatici” di nome Gerardo.

Le diatribe con il Comune di Reggio non finiranno qui,stante la volontà del Vescovo di non cedere in alcun modo lapropria podestà sul feudo9:

Il Comune di Reggio, però, credeva di poter sopra quella Terraesercitare la sua giurisdizione, e perciò nel 1329, essendo statorappresentato che la Terra di Massenzatico a cagion delleguerre era rimasta del tutto disabitata, e che se la Torre diquella Chiesa fosse stata fortificata, avrebbon potuto gli uominicolle lor bestie tornare ad abitarvi, fu ordinato che a spese de’

8 Ibid., p. 24.9 N. Tacoli, Memoriali, Tomo I, Reggio Emilia, pag. 338.

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terrazzani dovesser farvisi le proposte fortificazioni. Con tuttociò i Vescovi di Reggio ne ritennero il dominio; e quando nel1361, il vescovo Bartolommeo diede a Feltrino Gonzaga l’in-vestitura di quasi tutti i Castelli della Sua Chiesa, ne eccettuòMassenzatico.

Il rapporto tra Curia e Villa resisterà così nella temperiedelle successive guerre tra le diverse signorie in disputa per ildominio sulla terra reggiana (in particolare tra i Gonzaga, gliEstensi ed i Visconti).

Riproduzione del Liber Focorum

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Ma vediamo qualche dato sulla consistenza demograficadi Villa Masenzatico. Secondo il Liber focorum – l’elenco dei“fuochi” redatto nel 1315 per censire la popolazione del distrettodi Reggio Emilia – a Massenzatico vi erano circa una quarantinadi famiglie, ai quali se ne debbono aggiungere venti in localitàPenizzo. Nell’ipotesi di circa sei persone per “fuoco”, si arrivaa 360 “anime”. La peste, di lì a poco, ne farà scempio. Occorreràoltre un secolo, e l’introduzione di coltivi innovativi, per ritrovareun certo equilibrio.

Ne racconta ancora la Maseroli10:

Se confrontiamo il numero degli abitanti del 1458 con quellodel 1315, vediamo come, nel sec. XV, gli stessi siano statifalcidiati. Infatti, il morbo semina morte nel 1429, 1438, 1449,1450; anni di carestia furono il 1432, 1442, 1443; di carestiae di epidemia il 1463, in cui si persero i grani seminati nel-l’autunno e l’abbondanza delle nevi non permise di seminarea primavera; lo stesso fu nel 1471 e nel 1476. Anche il Vescovodi Reggio, dunque, a causa della peste e della fame, e quindidi un calo di popolazione, è costretto a disfarsi di parte dellesue terre, o a fare permute. La scarsità di mano d’opera avevafatto salire il valore del lavoro e per non perdere i censuarii, fu necessario, anche per lui, tornare agli affitti ereditari, chetrattenevano i contadini sulla terra, oppure pluriennali o a vita.A datare, però, dalla seconda metà del secolo, inizia per l’eco-nomia del contado un periodo di progressiva ripresa; nelle terreafflitte dalla “fame di uomini” si diffonde l’uso del trifoglio e simigliora la tecnica della coltivazione della vite. Nelle piccoleaziende prevale la cerealicoltura ed in particolare la coltivazionedel frumento. La Villa, in breve, riprende vitalità, ed i suoiabitanti possono godere di un periodo di tranquilla pace, al-lietata da un fatto che la rende importante agli occhi dell’interoducato.

Nel 1444, alla nomina del nuovo vescovo di Reggio –marchese Battista Pallavicino – la relazione tra Massenzaticoe la Curia reggiana si fa, se possibile, ancora più stretto. Il PapaEugenio IV, con bolla in data 1465, concede di unire la chiesadi San Donnino di Massenzatico ed i suoi beni alla Mensa

10 R. Maseroli Bertolotti, op. cit., p. 38.

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Episcopale. Con il Vescovo Ugo Rangone (1510-1540) si giun-gerà all’edificazione del palazzo episcopale, a ridosso dellaparrocchiale. Si trattava di un palazzo adibito ad uso estivo, inbello stile rinascimentale; alcune tracce sono tuttora visibili sullato destro della facciata, mentre all’interno è ancora visibile ungrande camino in marmo rosso di Verona con l’iscrizione “1548GE. AN. EPC. REG. ET PRINC. POSUIT”.

Pianta del Palazzo vescovile

Alla metà del Cinquecento risale poi l’incorporazione dellachiesa di San Martino e della popolazione del “Penizzo”, unapiccola comunità posta tra Massenzatico e Pratofontana (se ne

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hanno notizie fin dall’XI secolo). L’annessione porta in dotenuove terre, arricchendo in questo modo il già ricco patrimoniovescovile di San Donnino. La fertilità delle terre, unita alla si-tuazione di autonomia derivante dalla diretta potestà ecclesia-stica, hanno fatto così parlare di Massenzatico come di un “feudofelice”. Difficile, in verità, pensare ad una migliore condizionedelle condizioni di produzione e riproduzione per quanto riguar-dava il contado; mentre è vero che sino alla fine del XVIII secoloil Duca continuerà nella politica di esenzione fiscale per le renditedel Vescovo.

Lo stato di cose muta, evidentemente, con l’avvento diNapoleone. Nel 1808 la Villa viene aggregata al comune diReggio e, su decreto del Podestà di Reggio, cessano alcuneprerogative amministrative assunte dalla parrocchia di Massen-zatico. L’anagrafe, in modo particolare, passa all’Ufficio di statocivile del Comune. Nonostante la successiva Restaurazione,un’intera epoca finisce. Nel 1866, con la definitiva messa inliquidazione degli enti religiosi, la borghesia urbana farà il proprioingresso nella proprietà fondiaria locale.

La Chiesa di Massenzatico agli inizi del Novecento.

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La Chiesa parrocchiale agli inizi del XX secolo

ANCORA SULLA CHIESA DI SAN DONNINO

Le notizie a noi più note sull’attuale chiesa di San Donninoriguardano il periodo che coincide con la fabbricazione del palazzovescovile e la coeva ricostruzione della chiesa medesima. Ilprimo intervento vescovile risale al 1615, con il vescovo ClaudioRangoni; di qualche decennio successivo è quello, più radicale,del vescovo Ottavio Picenardi (1701-1722).

Picenardi amplia la chiesa quindi ne farà atterrare ilcampanile, per ricostruirlo separato, nella posizione attuale. Vieneinoltre concepita l’abitazione parrocchiale. Nel settembre 1721sono poi collocate le due campane, una delle quali da lui stessorifusa nel 1705.

Nel 1866, con vicario Don Mauro Cavezzani, la chiesaparrocchiale fu fatta decorare dal pittore Geremia Lanzini chesi occupò delle pitture ancora oggi osservabili nelle cappellelaterali e alla base della facciata. Quest’ultima sarà nuovamenterifatta nel 1871, con l’edicola in posizione centrale (vi è tuttora)contenente la statua del Redentore.

Interventi successivi – come si vede nelle cartoline d’epo-ca – hanno rimesso mano, in diverse riprese, agli spazi circo-stanti la chiesa.

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Teatro Artigiano; inaugurazione cooperativa “Braguzza”, 1893.

MASSENZATICO “ROSSA”

Con l’Asta dei beni ecclesiastici (legge del 7 luglio 1866)cambia radicalmente la storia di Massenzatico. Qui troverannoterreno fertile, per una serie di condizioni storiche favorevoli el’“apostolato” dei primi socialisti – Camillo Prampolini in testa,la cui madre, una Paglia, era della Villa – e i primi istitutiassociativi e sindacali dei lavoratori.

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Su quel passaggio epocale si è concentrato un figlio diquesta terra: il contadino e quadro comunista Aldo Ferretti, meglionoto con il nome partigiano di “Toscanino”11:

Il comune di Reggio aveva allora poco più di 50 mila abitanti,dei quali circa 21 mila nel centro cittadino. Massenzatico sicalcolava contasse intorno alle 2500 unità che saliranno intornoal ‘900 a poco meno di 3 mila, per arrivare al 1919 a 3089.In questa frazione prevaleva la piccola e media azienda con-tadina condotta per lo più a mezzadria, anche se incomincia-vano a diffondersi l’affittanza e la coltivazione diretta da partedei proprietari stessi. La più grande proprietà agraria capitalistaera quella denominata «Cort dal Genvèis» (Corte del Geno-vese), situata ad est del centro e confinante con Lemizzone,frazione del comune di Correggio. Vi erano anche altre grosseproprietà come quelle dei Levi, dei Camuncoli, della vedovaGatti, dei Ferrari, dei Righi, dei Paglia (nonni di Prampolini),ecc., ma erano quasi tutte suddivise in poderi concessi amezzadria. I rispettivi padroni abitavano in città e solo alcunivenivano in Villa a «far campagna» nel periodo estivo.

Soffermiamoci ora su Camillo Prampolini, universalmentereputato l’ispiratore del “metodo reggiano” che connoterà sulpiano nazionale il movimento socialista locale e la stessa Villa“rossa” di Massenzatico.

Camillo Prampolini, giovane “profeta” socialista

11 A. Ferretti, Massenzatico nella Reggio Rossa, Edizioni Libreria Rinascita, Reggio Emilia, 1973, pp.5-8.

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Nasce a Reggio Emilia il 27 aprile del 1859. La sua origineè borghese: il padre, ragioniere, era un impiegato del comune;la madre era figlia del medico Paglia, il quale aveva alcuni poderia Villa Massenzatico. I familiari e i parenti più prossimi eranotutti conservatori e credenti, ma di idee liberali e patriottiche. Inquesto ambiente il piccolo Camillo cresce e viene educatoall’osservanza di principi sociali, morali e religiosi rigidamentepraticati con onestà, lealtà e convinzione.

Massenzatico vi riveste un ruolo importante, in quanto lacasa dei nonni materni diviene la dimora delle sue estati, e quipuò osservare la vita nelle campagne e la condizione socialedei contadini. Aldo Ferretti ne ha tracciato un ritratto quasiagiografico12:

In gioventù abitò spesso, specialmente nei mesi di buonastagione, presso i nonni materni che risiedevano al centro dellaVilla di Massenzatico in una casa signorile dove oggi vivonoi contadini Poli. Essi ebbero gran parte nella sua educazione,soprattutto la nonna che veniva considerata donna intelligentee buona. Camillo era di costituzione gracile e forse proprio perquesto il nonno, dottore, gli faceva fare spesso dei bagni disole ritenuti, allora, una cosa fuori da tutte le consuetudinimediche.Prampolini visse dunque a Massenzatico insieme ai ragazzi deicontadini diventati via via sempre più suoi amici e, dopo glistudi, suoi compagni di fede e di lotta. Perciò Massenzaticosi può ritenere, a buon diritto, la sua «Villa Materna».Egli da ragazzo osservò e praticò, da convinto credente, gliinsegnamenti religiosi, ma verso i 12 13 anni cominciarono asorgere in lui i primi dubbi sulla fede religiosa, pur mantenen-dosi fermo nelle idee liberal conservatrici e ligio ai doveri chequeste comportavano; tanto da confessare. più tardi, ad uncompagno di liceo che non avrebbe esitato a fare anche il boiase fosse stato « necessario all’ordine sociale ». Ultimati gli studiliceali si trasferì all’università di Roma continuando, comefacevano in generale tutti gli studenti, la sua vita di giovaneborghese.Fu proprio a Roma che ebbe inizio la sua rivoluzione interiore;assistendo ad una lezione udì l’affermazione, fatta e sostenutadal suo professore con rigore giuridico, che il diritto di proprietà

12 A. Ferretti, op. cit., pp. 11-13.

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escludeva il diritto al lavoro. Perché argomentavano del restotutti i conservatori del tempo ammettere il diritto al lavorovorrebbe dire negare il diritto di proprietà che sta alla base ditutta la società e dell’«ordine» costituito. Pertanto concludevanoil diritto al lavoro non è mai esistito, non esiste e non potràmai esistere.Questa tesi apparve subito allo studente Prampolini unamostruosità, perché negando il diritto al lavoro si negava ildiritto alla vita per la maggioranza dei componenti della società.La teoria del solo diritto di proprietà scatenò nella mente delgiovane Prampolini come una tempesta al termine della qualesi trovò illuminato da una luce nuova e con idee del tuttodiverse: solo il diritto al lavoro può esistere, perchè «il dirittodi proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli interessie la volontà delle masse, e perciò deve fatalmente cadere».Questo fu l’argomento sostenuto con forza nella sua tesi dilaurea presentata all’università di Bologna, nella quale si eratrasferito e dove si laureò a pieni voti con lode.«La questione del diritto al lavoro dirà Zibordi – fu come l’aper-tura di una finestra su tutto il panorama delle iniquità delsistema capitalista». Avendo ben presente questo panoramae la necessità di sostituire il regno delle ingiustizie con quellodella giustizia, egli sviluppa tutta la sua concezione del socia-lismo gradualista. Tornato nella sua Reggio e nella sua Mas-senzatico, con tutto l’entusiasmo del neofita, comunica a tuttigli amici ciò che già da Bologna aveva scritto al padre: labellezza dell’ideale socialista che fatalmente si concretizzeràin un prossimo mondo di pace, di giustizia, di uguaglianza edi fratellanza. Da qui l’urgente necessità di far conoscere laverità, di espanderla, di propagandare l’idea socialista. In questaprima fase la cosa più importante è la propaganda orale escritta: predicare a tutti gli assetati di giustizia il verbo dellanuova fede.

Castello popolare Arbizzi.

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A Massenzatico prende corpo una prima Società di Mutuosoccorso (1884), cui segue – in risposta – la Congregazionedei Sacerdoti Missionari. Il conflitto tra socialisti e cattolici si fainfatti radicale ed investe – a differenza di quanto si predicavanei testi marxisti – proprio le campagne. I riflettori, e qui sta lagrande novità introdotta dai socialisti, vengono accesi fuori dallecittà. Prampolini fonda persino un quotidiano, “La Giustizia”, ilcui sottotitolo porta la dizione “organo degli sfruttati” e dove si“suonano” sinfonie di questo genere13:

A Massenzatico, signor Benevelli pagava, prima dello sciopero,i suoi braccianti a lire 1,25 al giorno. Dopo lo sciopero, si èmesso anche lui a non pagarli che un franco. Siccome ilBenevelli gode fama essere un buon uomo, così i bracciantidella villa assicurano che questo ribasso gli è stato impostoda una camorra di tre o quattro proprietari che si sono con-certati per non dare ai poveri braccianti neppure un centesimodi più. Simili concerti sono proibiti dal Codice Penale; ma voletescommettere che l’autorità, tanto feroce contro gli scioperanti,non se ne occuperà? – Ai padroni - dice un contadino – è lecitofare accordi per metterci il laccio al collo, a noi non è lecitounirci per tirarlo via. Noi dobbiamo lasciarci strangolare!”; e piùsotto: “Arbizzi. Arbizzi Domenico, un al capo maestro arricchitocol lavoro de’ suoi ex compagni di fatica, tanto per aiutare lasua ari per risparmiare qualche centesimo fa lavorare damuratore un contadino, suo genero, che venire tutte le mattinesino da Massenzatico (salvo errore) e che paga non sappiamocon quanti centesimi!”.

Sempre nel 1886 nasce a Massenzatico la Cooperativadi consumo detta “l’Artigiana”, una delle prime della provincia.La dirige Alfonso Salsi e vi è collegata la Lega di resistenzadei lavoratori, diretta da Spero Casoli assieme agli stessi fratelliSalsi, a Giacomo Fontanesi, ai fratelli Giuliani e ad AlfonsoDavoli.

La cooperativa allora occupava una piccola casa rettan-golare nei pressi delle attuali scuole elementari (sorte nel 1908),vicino alla casa dei contadini Losi ed ebbe come suo primo

13 “La Giustizia”, 26 aprile 1886.

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presidente l’ingegnere socialista Pier Giacinto Terrachini. Lapresidenza fu poi assunta anche dallo stesso Prampolini, quindidal noto pittore Cirillo Manicardi14.

Nel 1893 verrà poi inaugurata la nuova sede – come“Casa del Popolo” – in centro a Massenzatico (spazio che occupatuttora). Le cronache dell’epoca ricordano una grande manife-stazione, alla presenza dei parlamentari socialisti Camillo Pram-polini, Filippo Turati, Enrico Ferri e del dirigente belga Vander-velde. La cooperativa, nel volgere di pochi anni, diverrà perordine di grandezza la seconda in Provincia (dopo quella diFabbrico).

Teatro Artigiano, oggi.

14 Cfr. A. Ferretti, op. cit., pp. 30-31.

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Cooperativa “Braguzza”, oggi.

Il nome popolare della cooperativa (la “Braguzza”), derivadallo scutmaj, il soprannome imposto al vicepresidente dellastessa Giacomo Fontanesi, detto “Bragúz” per via dei calzonilarghi da contadino che usava portare. Fontanesi sarà di fattoil vero dirigente della cooperativa, essendo più nominativa chereale la presidenza assunta via via dai vari Terrachini, Pram-polini, Manicardi.

A lato della Cooperativa, fu inaugurato anche il TeatroArtigiano, splendido esempio di edificio in stile liberty che unasciagurata ristrutturazione “modernista” ha privato, nel secondodopoguerra, della sua magnifica facciata originale. Nel 1901 èpoi la volta della Latteria sociale cooperativa (dove attualmentec’è il distributore Tamoil), la quale fungerà da “incubatore” perdiversi quadri cooperatori. Quindi nel 1902, alla costituzione trai contadini della Cooperativa Provinciale di Miglioramento, nesarà nominato presidente ancora un socialista di Massenzatico,Pietro Fantuzzi (da cui discende una genealogia di uomini politici:Silvio, senatore della repubblica e Giulio, sindaco di Correggioe Reggio Emilia quindi parlamentare europeo).

Ma nella famiglia socialista di Massenzatico non eranotutte rose e fiori. Nel 1904 – annus orribilis per il socialismoreggiano, sconfitto alle elezioni amministrative dalla “Grande

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armata” liberal-conservatrice e a quelle politiche dal neo costi-tuito asse cattolico-conservatore – si consuma a livello localeuna rottura insanabile. Spero Casoli, a capo di un folto gruppodi dissidenti, esce dal partito in polemica con Fontanesi e fauna cooperativa in autonomia dal nome decisamente accattivan-te: la “Chicchera”. Lo racconta, con arguzia, il “Toscanino” 15.

Ma le cose erano arrivate a un punto tale che non era piùpossibile: casoliani e fontanesiani, come «guelfi e ghibellini»si facevano una vera e propria «guerra» senza esclusione dicolpi; tanto che i casoliani decisero e costruirono, in brevetempo, una nuova cooperativa che chiamarono «Amore eLibertà» e che in gergo paesano sarà chiamata «Chicchera»,perché pare che nella cena della sua inaugurazione i sociavessero dato di gomito al “chicchero” (al bicchiere).Da qui la definizione di “chiccheriani” ai frequentatori di questacooperativa, ai quali si contrapponevano i “braguzziani” fre-quentatori dell’altra. La costituzione della nuova cooperativaindicava come ormai non vi fosse più nessuna possibilità dirisolvere la brutta questione e la « Giustizia » fu indotta a fareuna dura requisitoria contro i secessionisti casoliani; requisitoriache per la sua forma, la sua sostanza, la sua chiarezza e lasua fermezza merita di essere qui riportata per esteso, perchémeglio di qualsiasi altra argomentazione chiarisce tutta laquestione.«Come è noto inizia il lungo articolo il dissidio fra i casolianie i fontanesiani chiamiamoli così per intenderci – anzichédiminuire, si era acutizzato al punto, che i casoliani avevanodeciso di istituire in Massenzatico un’altra cooperativa di con-sumo.Fu allora che la Camera del Lavoro intervenne proponendo cheuna Commissione di arbitri da essa nominata dovesse decidereuna volta per sempre e inapellabilmente la controversia. Mamentre i fontanesiani, cioè i componenti il Circolo socialista diMassenzatico, accettarono di buon grado l’onesta PraticaProposta, i casoliani invece la respinsero.[…] Così i casoliani, in onta all’invito della rappresentanza ditutte le organizzazioni proletarie della nostra provincia, e quan-tunque seguitino a chiamarsi socialisti, si procurano un pezzodi terra, vi fabbricano una casa facendola costruire da unappaltatore e in quella casa si aprirà la bottega della lorosedicente cooperativa!

15 A. Ferretti, op. cit., pp. 82-88.

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Ad aggravare la situazione per i socialisti di Massenzatico,oltre alla nascita della Cooperativa di consumo scissionista detta“Chicchera” diretta dal Casoli, avvenne che proprio nel 1904 –vuoi perché i tempi erano maturi, vuoi per approfittare dellesventure degli avversai politici – anche i cattolici fondarono laloro cooperativa, la “Cattolica” (posta nell’attuale via Beethoven,nei pressi del Centro sociale “La Paradisa”).

Massenzatico, manifestando un tasso di mobilitazione conpochi pari, si trovò così con tre luoghi “sociali” tra loro incompetizione politica. Ciascuno dei quali - l’Artigiana, la Cattolicae la Chicchera – svolgevano attività di aggregazione culturale,con filodrammatiche, spettacoli teatrali, feste di ballo ma anchecorsi scolastici per alfabetizzare i contadini e far loro acquisireil diritto al voto.

Di fatto – per quanto si comprende dalla cronaca storicache ne ha fatto il “Toscanino” –, in un paese circoscritto comeMassenzatico la connotazione politica tra parti distinte, lungi dalrimarcare una indifferenza reciproca, finirà per divenire il “sale”di un sistema locale fortemente coeso.

Il Campanile della Chiesa con la lapide ai caduti della Prima Guerra Mondiale.

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NEL FUOCO DEL NOVECENTO

La prima guerra mondiale ha lasciato un lungo elenco dicaduti. Se ne serba memoria (ed è questa una particolarità) indue luoghi distinti: sulla lapide marmorea, ormai stinta dal tempoe dal sole, posta sul lato che volge a sud del campanile dellachiesa; ai piedi del bronzo scultoreo elevato con stile “guerriero”nei pressi (lato strada) delle scuole elementari di “MassenzaticoCentro”.

Questo l’elenco dei quaranta nomi, tra morti e dispersinativi della Villa16:

MORTI: Enrico Ferretti, Cesare Salsi, Enrico Valentino, Ade-odemo Turci, Giuseppe Lasagni, Italino Bigi, Ildebrando Boselli,Luigi Casoli, Roberto Fantuzzi, Camillo Incerti Burani, GiuseppeMagnani, Socrate Pergetti, Clodoveo Piccinini Donnino Ronzo-ni, Armando Tirelli, Aronne Zanichelli, Angelo Ronzoni, DarioForacchi, Giuseppe Guerrieri, Valentino Galeotti, AristodemoAnceschi, Luigi Bolognesi, Taddeo Bruschi, Oreste Cocconcelli,Domenico Lanzoni, Domenico Magnani, Umberto Menozzi,Vando Pezzi, Ettore Rabitti, Afro Salsi, Roberto Valentini, CirilloPezzi, Antonio Rustichelli, Senen Rinaldi, Giacomo Bondavalli,Alfredo Montanari, Alessandro Diacci;DISPERSI: Alfonso Ortolani, Roberto Fantuzzi, Ildebrando Cilloni,Camillo Bergetti.

A Massenzatico la fine della guerra porta la colomba dellapace stretta in seno al partito socialista tra l’Artigiana e laChicchera (riunita nella cooperativa “Amore e Libertà). Ma ilpasso della rivoluzione bolscevica porta a nuove scissioni.Massenzatico ha la sua cellula comunista. Tra i primi ad aderirvi:Narsete Delmonte, Oreste Corbelli, Rino Vergnani, Venuto Badodie poi Rovacchi, Ronzoni, Fontanesi, Bagnacani, Gozzi, NelloReverberi e Riziero Vecchi. Quest’ultimo risulta essere tra i primiaggrediti dal fascismo nascente: un fascista di Massenzatico lotrae fuori dall’Artigiana, nel giugno 1921, quindi viene bastonato,mentre un colpo di pistola viene sparato in aria a mo’ di av-vertimento generale.

16 R. Maseroli Bertolotti, op. cit., p. 216.

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L’episodio, al di là della dinamica dei fatti, rivela la capacitàdi penetrazione del nuovo pensiero totalitario in una comunitàche, pure, il fascismo non riuscirà mai davvero a conquistare.Certo le ferite vi furono, e laceranti. Il primo segretario del Fasciolocale sarà Enea Casoli, figlio del socialista Spero, il fondatoredella “Chicchera”. Con lui, secondo quanto riportato dal “Tosca-nino”: Gemmi (Rampèin), Donato Veroni, Alberto Bertani, AlfredoBigi, Guido Formentini, Francesco Losi, Ettore Miselli, LindoVezzani.

L’attacco alla Massenzatico “rossa” vede, in quella primafase ancora instabile di “conquista” fascista, una serie di inter-venti collegati alla vita civile della comunità locale. Scendono incampo anche i cattolici. Nel 1924 il Comune – da cui i socialistisono stati cacciati ma dove non ha ancora fatto il suo ingressola figura del Podestà – inaugura le case popolari, costruite nelpiccolo viottolo a fianco del Castello Arbizzi. La gestione vieneaffidata a don Anselmo Morsiani, coadiuvato da alcuni volontaridell’Unione Popolare. Questa associazione era nata nel 1913,per volere di Paride Lanzoni con lo scopo di realizzare i valoricristiani in tutti i settori della vita individuale ed associata. L’annoseguente vengono poi inaugurate – nella palazzina posta difronte al Teatro Artigiano – la farmacia e, al suo fianco, una filialedella Banca Commerciale. Sarà poi la volta, in occasione del“decennale della Marcia su Roma”, di una casa del Fascio nuovadi zecca, costruita proprio a fianco dell’Artigiana con le sovven-zioni “volontarie” (virgolette d’obbligo!) imposte alle famiglie diMassenzatico.

Casa Littoria a Massenzatico, oggi parcheggio.

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Ex Casa Littoria, oggi parcheggio.

Ma era al “cuore” cooperativo di Massenzatico che ilfascismo mirava. L’episodio forse più clamoroso – balzato allecronache con l’epiteto dei “fatti di Massenzatico” – riguarda leelezioni alla Latteria Sociale svoltesi nel 1929 (l’anno del primoPlebiscito). In quell’occasione ebbe la meglio, con grande scornodei fascisti, la lista degli antifascisti, con a capo FrancescoFranchi. Le elezioni vengono fatte annullare. Quindi vi è l’omi-cidio eccellente, quanto confuso nella sua dinamica, di CelsoLasagni, il proprietario terriero che aveva capeggiato la listaavversa. Ovviamente vengono arrestati, con lo stesso Franchi,alcuni “sovversivi”. Cui seguono condanne, peraltro miti dalmomento che non esiste alcuna concreta prova a carico; i veriresponsabili, tutti squadristi di Villa Sesso, verranno fermati l’annoseguente. Dopo di che il fascismo locale prende atto che, pergovernare Massenzatico, oltre all’olio di ricino serve una politicadi negoziazione con la parte che fascista non sarà mai. E saràquesta, sotto la guida di Pietro Fantuzzi, a rivincere nel 1933le elezioni nella Latteria Sociale.

Passati gli anni della depressione economica, nel vivodell’esaltazione “imperiale”, si tornerà ad utilizzare la leva deigrandi investimenti economici. Nel 1937 viene costruita unanuova, imponente cantina sociale; a visitarla, nel 1939, verràpure il ministro dell’agricoltura bulgaro. Inopinatamente anche

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questa struttura – simbolo di una fase storica nella vita diMassenzatico: dopo la Liberazione era per tutti “la Grande” –è caduta di recente sotto le ruspe. Ma ancora una voltaMassenzatico darà prova della propria dialettica cooperativa epolitica: nel 1938, in risposta, viene inaugurata la cantina socialeMassenzatico “Centro”.

Nel frattempo, di tanto in tanto, giovani e meno giovani– con una fortissima prevalenza tra di essi della componentecomunista – finiscono nelle retate: tra di essi, contiamo diversitra i futuri quadri della Resistenza e poi della vita politico-sin-dacale negli anni della Repubblica. Oltre ai nomi sopra citati -i Fantuzzi, i Ferretti, gli Zaccarelli - basti ricordare Walter Sacchettie Celso Giuliani. Con loro, furono numerosi i contadini dispostia rischiare la vita prestando la propria casa per usi di “latitanza”.

Tra tante sofferenze imposte dalla guerra “in casa”, nonvanno dimenticati coloro che caddero su altri fronti. Tra di essi,tantissimi furono i “dispersi”, soprattutto in Russia. Li ricorda unalunga stele di nomi, a corredo del monumento resistenzialeposto nel dopoguerra a fianco dell’altro – ma stavolta senzaretorica guerriera – nei pressi della scuola elementare.

I Funerali di “Mauser”, 1945.

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Monumenti della 1a e 2a Guerra Mondiale davanti alla scuola elementare.

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La chiesa della Madonna dell’Olmo vista anche dall’interno.

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Centro Sociale “La Paradisa”.

Casa protetta “I tulipani”.

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PRATOFONTANA

Canale dei Ronchi a Pratofontana.

Ponte della Sbarra.

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Bocche del Rodano

“PARTO DI FONTANA IN CRUSTULO VETERI”

La più piccola tra le Ville del forese della Circoscrizione7 è Pratofontana, compresa tra Mancasale a ovest, Massenza-tico a est e Bagnolo a nord.

L’origine di Pratofontana si lega strettamente, al pari diMassenzatico, alle migrazioni del Crustulus Magnus: in undocumento del 1057, per indicare un alveo del Crostolo cheanticamente passava per la Villa, viene riportato il toponimo“Crustulo Veteri”1.

L’insediamento originario, tra l’altro, era denominato “Par-tofontana”: sembra a causa di un documento medievale (del1066) dove viene riportata la dicitura “parto de fontana propeCastellaro et fluvio Rodano”. Il “Castellaro” in questione coincidecon la località “Castello”, come ancora oggi viene chiamato ilquadrilatero formato dalle case del borgo centrale della frazione.L’ipotesi più verosimile è che si trattasse di una postazione, sotto

1 Cfr. W. Baricchi, Insediamento storico e beni culturali del Comune di Reggio Emilia, a cura del-l’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia e IBC della Regione Emilia Romagna, Reggio Emilia,Tecnograf, 1985, p. 141.

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la potestà di Reggio, in difesa della “Vecchia strada per Reg-giolo”. Di qui, attraversando il Rodano, ci si portava sulla diret-trice medievale corrispondente alle attuali via Petrella, via delleOrtolane, via Veneri. Quanto al passaggio sul Rodano (il cuialveo, lo ricordiamo, venne spostato nel XV secolo), risultatuttora agibile per via ciclopedonale o con mezzi trattoristici ilPonte della Sbarra, un suggestivo manufatto a schiena d’asinoche risale al XVIII secolo (porta al centro un’iscrizione del Comunedi Reggio Emilia, datata al 1871).

Quanto alla “fontana” compresa nel toponimo, fa senz’al-tro riferimento ai numerosi affioramenti d’acqua presenti nellazona. Si tratta di fenomeni risorgivi dovuti alla presenza di gasche, dal sottosuolo, spinge il liquido verso la superficie.

Tipologia abitativa rurale

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La Chiesa

Il Cimitero

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NOTE STORICHE

Paolo Diacono, storico di Matilde di Canossa, narra di ungrande fatto d’arme che sarebbe avvenuto proprio nei pressi diPratofontana. Siamo nel 956: a contendersi lo scettro d’Italiasono l’Imperatore Ottone I di Sassonia e Berengario, duca dellaMarca del Friuli. Lo scontro, favorevole all’imperatore, segneràla fine delle velleità italiane di crearsi un regno indipendente dallaGermania.

Secondo una credenza popolare, il nome delle “Rotte” –che dal XV secolo sta ad indicare la confluenza del Rodano nelNaviglio, dove sono tuttora visibili alcuni resti di un manufattoin cotto – deriverebbe in origine proprio dalla località in cuiavvenne quella sconfitta2.

Le notizie reperite non dicono per la verità molto della vitacivile di Pratofontana. Nel 1315 (Liber Focorum) la Villa è citatacome “pendice” del Comune di Reggio, con 22 fuochi (circa 150abitanti); alla fine del XVIII secolo, secondo altre fonti, si sarebbeportata a 399 abitanti. Durante il periodo della RepubblicaCispadana, Pratofontana si trova sballottata tra i Comuni vicini:aggregata prima al territorio di Bagnolo, poi a quello di Correggio,nel 1801 diviene parte integrante del Comune di Reggio.

L’edificio storico più antico visitabile a Pratofontana è lachiesa parrocchiale. Sorge a sud-ovest del “Castello”, sulla stradache porta al Ponte Alto sul Naviglio, nei pressi del vecchio alveodel Crostolo. L’edificio risale alla prima metà del settecento evenne elevato sopra i resti di una cappella privata, donata dauna coppia di proprietari terrieri al Monastero di San Prospero.Consacrata alla madonna fin dal 1091, diviene parrocchia nel1590. Ricostruita per l’appunto nel 1723, è stata successivamen-te restaurata nel 1820 e poi nel 1931.

2 Sull’esigenza di studiare approfonditamente questi manufatti ha richiamato l’attenzione N. Cassone,a seguito di un recentissimo rilevamento affidatogli dal Comune di Reggio Emilia nell’ambito delleopere collegate all’Alta Velocità (Km 129 Reggio Emilia Territorio Esteso).

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Lapide ai caduti di tutte le guerre

UN EPISODIO NELLA RESISTENZA

Aldo Ferretti “Toscanino” ha ricordato un episodio colle-gato alla Resistenza nella Villa: il disarmo degli avieri avvenutonell’agosto 19443.

Due parole a parte merita il disarmo del presidio di Pratofon-tana, per la qualità delle armi trovate e per il modo in cuiandarono le cose.Ad un certo punto parve che alcuni avieri fossero disposti acollaborare con noi nell’azione di disarmo, ma non si decide-vano mai. Disponemmo di dare ugualmente il colpo. La famigliaCattani ci fornì le più dettagliate informazioni.Facemmo il piano che non fu diverso da altri, il presidio, tral’altro, non aveva nessuna sentinella esterna; era però benguardato e difeso all’interno. Si sapeva che gli avieri stavanotutti sul ponte delle scuole a chiacchierare con alcune ragazze

3 A. Ferretti, Ricordi e lotte antifasciste, in “Quaderni del Cinquantenario del Pci”, 1971, Ed Rinascita,Reggio Emilia, p. 147-149.

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fino all’ora della ritirata, perciò bisognava prenderli sul ponteun attimo prima che si ritirassero. Per la sera decisa le braveragazze, sorelle e cugine Cattani, Baricchi, Rossini ed altreorganizzarono una conversazione speciale con gli avieri perintrattenerli fino al nostro arrivo.Furono mobilitati un distaccamento GAP e tre di SAP: quellodi Mancasale aveva il compito di tagliare i fili del telefono edi bloccare la strada proveniente da Reggio; con gli altri trel’appuntamento era fissato ai confini del poderetto dei Cattaniun quarto d’ora prima della ritirata.In quattro (Luigi, Brenno Fulmine, Toscanino) si portarono nellevicinanze di Pratofontana la notte precedente. La sera succes-siva ci recammo all’appuntamento. Ci incamminammo versole scuole convinti che saremmo stati raggiunti dagli altri […].Di fronte a noi gli avieri conversavano con le furbe ragazzeche tenevano loro compagnia. Erano tutti disarmati. Nonpotevamo lasciarci scappare l’occasione. Quando sentimmoqualcuno dare la “buona notte”, saltammo di fronte a lorospianando le armi, intimando “alto le mani” e aggiungendocategoricamente: “Non muovetevi perché ci sono dietro glialberi cento fucili puntati su di voi!”. Nessuno si mosse. Facemmoallontanare rapidamente le ragazze.Mancavano però il tenente e il sergente; stavano chiacchie-rando sul ponte della casa vicina. Rapidamente due di noi,Brenno e Fulmine, andarono a catturarli. Si sollevò un certobattibecco perché il tenente (un meridionale) per una questionedi onore non voleva alzare le mani. L’ufficiale mi disse: “Sentacomandante, per una questione di dignità non mi faccia alzarele mani. Per il resto venite dentro e prendete quello che volete”– “D’accordo risposi, a condizione che nel presidio entriamoprima noi e ci sia l’impegno d’onore da parte sua di mantenerefermi e disciplinati i suoi uomini”.[…] nel frattempo erano arrivati i distaccamenti e sbucavanopartigiani da tutte le parti […]. Entrammo e lavorammo tuttala notte per portare solo a pochi km di distanza, in rifugid’emergenza, l’ingente quantità di materiale che vi trovammo[…].Nel corso dell’operazione il tenente,tiratomi in disparte, miespresse il desiderio di andare in montagna con tutti i suoiuomini. Lui si impegnava a non fare rappresaglie ed io dovevoimpegnarmi nel giro di 10-12 giorni a portargli tutte le istruzioniper la partenza. Stabilimmo una parola d’ordine di riconosci-mento nel caso che non potessimo ritornare noi personalmente.Dopo di che, rivolto un amichevole discorso ai soldati, ce neandammo. Tutti eravamo contenti del ricco bottino, che perbuona parte fu poi trasferito in montagna. […]

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Circolo Arci “la Fontana”

Scuola dell’infanzia Centro Verde “C. Prampolini”

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LA SCUOLA

In accordo con i principi illuministici e democratici del-l’istruzione pubblica estesa alle campagne, diffusa a Reggiodagli amministratori socialisti, anche Pratofontana – nonostantela dimensione ridotta della Villa – nel 1915 arrivò a dotarsi diuna propria scuola elementare autonoma.

Si trattava di pluriclassi, cioè di classi frequentate con-temporaneamente da scolari di diversa età. L’ubicazione vennescelta nei pressi del “Castello”, proprio di fronte al bel caseificioa pianta esagonale restaurato negli ultimi anni per accogliereil locale circolo Arci “La Fontana”.

Durante la seconda guerra mondiale l’edificio si trovò adospitare un distaccamento militare tedesco. A partire dagli anniCinquanta, la scuola diventerà testimone melanconico dello spo-polamento delle campagne: le famiglie mezzadrili si scompon-gono in nuclei unifamiliari e le case sparse sono abbandonateper inurbarsi nel centro urbano od in centri comunque maggiori.Tale fenomeno, comune a tutto il forese ma a Pratofontanapersino più accentuato, porterà negli anni Settanta alla chiusuradella scuola elementare; un evento che ha generato una rifles-sione critica sui destini di questa piccola Villa. Si è così deciso,in accordo con l’Amministrazione comunale, di riqualificare il sitosalvaguardandone la vocazione originaria. Oggi la struttura èdivenuta un punto di riferimento educativo nel territorio. Ospitala scuola comunale dell’infanzia “C. Prampolini” e funge daCentro Verde; al piano superiore è visitabile una raccolta etno-grafica permanente dedicata alla civiltà contadina.

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La fermata della linea storica Reggio-Bagnolo.

La nuova fermata della Metropolitana di Superficie.

Pratofontana. Cantiere nuovo insediamento CCFS.

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MANCASALE

Parrocchia di Mancasale, anni Sessanta.

“MAGNUM CASALE“

Come le Ville limitrofe, anche Mancasale trova la suaorigine nell’alto medioevo (VIII-X sec.) in un periodo in cui – dopol’abbandono del territorio seguito alla caduta dell’Impero Roma-no e alle invasioni barbariche – lentamente l’uomo riprendel’opera di conquista della pianura paludosa a nord della città.

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In realtà questa zona – pur insalubre e soggetta a fre-quenti inondazioni nelle stagioni più piovose – vanta da tempiremoti l’ingresso di gruppi umani. A Mancasale, ad esempio,sono state rinvenuti reperti (per l’esattezza pugnali) della tardaetà del bronzo, in epoca cosiddetta “civiltà terramaricola” (XV-XIII sec. a.C.). Un altro reperto archeologico – un ago crinalein bronzo, ritrovato in località “Fornace” – va fatto risalire all’etàdel ferro. Sono tracce di una presenza antropica molto antica,precedente alla colonizzazione da parte di popolazioni megliodocumentate quali gli etruschi (sempre a Mancasale è statoritrovato un corredo funerario di grandissimo valore), i gallicenomani, i romani.

Con l’insediamento romano, l’area di Mancasale vieneinteressata alle classiche procedure di bonifica e centuriazione.Del resto questa porzione di territorio si è trovata, proprio tral’età romana e l’alto medioevo, ad essere compresa tra due degliantichi alvei del torrente Crostolo: il Crustulus Scauri e il Cru-stulus Magnus (come li ha nominati nel proprio studio all’iniziodello scorso secolo Rino Rio). Mancasale si collocava proprioai limiti occidentali dell’antico e vastissimo specchio d’acquadenominato Bondenum, in una posizione relativamente più di-fendibile dalle alluvioni rispetto agli insediamenti limitrofi; ancoraoggi, leggendo una carta storica del territorio, si ritrova con unacerta precisione la sua posizione rispetto alla maglia ortogonalecenturiata. Siamo in sostanza proprio sull’asse Reggio-Bagnolo-Novellara che costituiva il prolungamento dell’antico cardomassimo della città: una direttrice fondamentale per ogni suc-cessiva parcellizzazione del territorio. Non è quindi difficileimmaginare come, già in epoca imperiale, vi potesse qui essereimpiantato un qualche insediamento significativo.

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Corte Rocca Saporiti oggi.

Arnaldo Tincani, nella sua opera di “cronica” storica dedicataalla Villa di Mancasale, riporta con dovizia di particolari le primedocumentazioni storiche riferibili al toponimo. A suo parere, ilprimissimo documento alto-medievale in cui viene nominato illuogo – come “Magnicasale” – risale all’inizio della dominazionefranca nell’Italia settentrionale, ovvero al decennio 781-791.Secondo quanto riportato nel cosiddetto “Inventario della cortedi Milliarina”, il Monastero di Santa Giulia aveva qui potestà su

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di un «complesso poderale e boschivo di 4300 iugeri sottrattoal bosco pubblico reggiano (gagium regiense)»1.

“Magno Casale” consisteva in una grande estensionepoderale, probabilmente costituita da aggregazioni sparse co-stituenti la pars massariciae, ovvero quelle non di diretta per-tinenza del signore della “corte” (la pars dominica)e. Erano insostanza terreni a conduzione autonoma, gestiti da uomini liberi.Il fatto che nel testo del documento si citi la parola “vico” hafatto ritenere che Magnicasale fosse più di una semplice aziendaagricola ma già si conformasse con l’aspetto di un piccolo centroagricolo.

La seconda citazione documentata precede di poco l’annoMille (è datata 7 marzo 989) e tratta di una permuta di terreniposti in Magnocasale, avvenuta tra la Canonica di Santa Mariae San Michele con la potentissima Canonica cittadina di SanProspero. Sempre soggetto a San Prospero, in questa area, erail villaggio con annessa cappella di Vico Disbragato (la cui col-locazione è stata ipotizzata in corrispondenza della PossessioneRocca Saporiti, nei terreni costeggianti via Petrella fino a viaCavallotti). Quanto alla possessione detta de Il Paradiso, si puòcollocare in corrispondenza dell’antico viazzolo del Paradiso che,dalla zona prospiciente Porta Santa Croce, arrivava – costeg-giando i terreni agricoli tra Mancasale e San Prospero – fin quasialla chiesa di Mancasale. Mentre più a sud di Vico Disbragato,tra il Naviglio e la località Sant’Omobono (più a est, all’imboccodel Chionso con la strada per Massenzatico, c’è tuttora unaedicola che ne porta il nome) correva l’antico Vico Mozzozore,nominato nelle carte fin dal 1006.

1 A. Tincani, Mancasale, Reggio Emilia, 1984. pp. 10-11; vi si recita: “habet domo cultele casas invico qui nominatur Magnicasale cum terra et vineas et abet massarii V…”.

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Chiesa di Mancasale prima del restauro.

LA PARROCCHIALE DI SAN SILVESTROE L’ORATORIO DI SAN MICHELE IN BOSCO

Stretti, se non strettissimi, furono i rapporti intrattenuti nelperiodo alto medievale tra la Villa e il grande monastero di SanProspero fuori le mura. Ed è sui terreni del monastero che risultapresente, fin dal 1057, un manso con annessa cappella dedicataa San Silvestro.

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La parrocchia, essendo soggetta al monastero di SanProspero, non possedeva un rettore fisso ma l’abate, il qualeassolveva le funzioni di arciprete e nominava direttamente unmonaco o un prete per i servizi parrocchiali. Come raccontaTincani, San Silvestro non era – fino a quando la parrocchianon verrà affidata alla famiglia Zoboli, nel XV secolo – che «unapallida emanazione del monastero di San Prospero»2. Gli Zobolierano una ricca famiglia reggiana, sin dal XIII secolo censuariadel Monastero di San Prospero. Il rapporto con il monastero ela famiglia fu intenso e fruttuoso, soprattutto per gli Zoboli chene ottennero in cambio benefici e terre. Nel 1431, in modoparticolare, un pesante debito contratto con Francesco Zobolivenne ricambiato con la cessione di possessioni proprio aMancasale. In questo modo ricaddero sotto la loro diretta in-fluenza sia San Prospero che San Michele in Bosco; nell’arcodi qualche decennio, grazie anche all’assenso del nuovo abatedi San Prospero – il quale, guarda il caso, portava il cognomeFilippo Zoboli - papa Pio II acconsentì all’unione dei due benefici.In tal modo il parroco di Mancasale divenne rettore di SanSilvestro e San Michele3.

L’assetto definitivo della parrocchia di Mancasale data alXVI quando – dopo la “Tagliata” imposta dagli Estensi nel 1551– ai possedimenti che facevano capo a San Silvestro, SanMichele in Bosco, Vico Disbragato venne unita parte della zonasuburbana della parrocchia di San Biagio, la cui chiesa si trovavaappena fuori la Porta Santa Croce.

Ancora qualche notizia sui due edifici di culto.L’attuale chiesa di San Silvestro risulta riedificata nel 1793,

su precedente progetto dell’architetto reggiano Piero Armani(l’impianto precedente, molto degradato, datava al XV secolo).Il cimitero sarà poi completato nel 1840, mentre il restauro dellacanonica (ad opera di don Luigi Cervi) data al 1909.

2 Ibid., p. 20.3 Il Tincani racconta come, a titolo di beneficio perpetuo, gli Zoboli dovettero al monastero di San

Prospero, sino alla sua cessazione nel 1783, 5 libbre di cera bianca lavorata.

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Cimitero con monumento seconda guerra mondiale.

Quanto alla chiesetta di San Michele – che si trova a nord-ovest della zona industriale, in posizione oggi decisamentedecentrata rispetto alla parrocchiale – la sua esistenza accertatadata al 1150 ma pare risalire ad un periodo ancora antecedente.Sentiamo Tincani4:

[…] I vari cronisti della storia reggiana ritengono ben più antica,facendola risalire addirittura, secondo la leggenda, al periododel primo vescovo di Reggio. S.Prospero, il quale vi si recavaa pregare, lasciando le impronte delle ginocchia su di una pietraa forma di piccolo altare.

Si tratta di un oratorio prezioso, abbellito di affreschi eristrutturato sempre dagli Zoboli nella prima metà del XV secolo,a lungo meta di pellegrini – per l’occasione della festa dell’8maggio – provenienti da contrade anche lontane. Le fonti ec-clesiastiche testimoniano di un culto proseguito in modo affe-zionato sino al XVIII secolo, quando ancora si ha notizia direstauri e interventi di riparazione.

4 A. Tincani, op. cit., p. 50.

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All’inizio del secolo scorso il rettore don Eligio Bedognivendette il beneficio di San Michele al senatore Alberto Pansa,proprietario della splendida villa settecentesca già appartenutaai Calcagni e ai Guicciardi (poi nota come villa Prampolini) sullastrada per Bagnolo. Oggi l’oratorio, ulteriormente ridimensionatorispetto alle modifiche secentesche, è affidato alle cure di donErcole Artoni, fondatore della comunità terapeutica per tossico-dipendenti Giovanni XXIII.

Gli impianti di sollevamento di Mancasale e della “Nave”.

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Il Mulino di Mancasale, ieri e oggi.

MANCASALE: UNA PERIFERIA DA ESPLORARE

Si tratta di un territorio agricolo che ha cominciato atrasformarsi in periferia industriale a partire dalla fine degli anniCinquanta, quando – con la costruzione dell’autostrada A1 –venne scelto per il posizionamento del Casello di Reggio Emilia(proprio nei pressi della sua parrocchiale, dove è rimasto sinoal 2006).

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Aggirarsi per Mancasale significa fare esperienza, ad ognipasso, della transizione nella modernità. Vediamo di individuarealcuni “luoghi di memoria”.

Il primo, baricentrico alla vita di Mancasale, è l’anticoMulino Zoboli. Come sappiamo dal libro Memorie del Tacoli, ilmulino era di proprietà degli Zoboli addirittura per atto di infeu-dazione. Il 9 luglio del 1357, grazie ad un privilegio accordatodall’imperatore Carlo IV a Francesco Zoboli (furono numerosii membri della famiglia a fregiarsi di questo nome) fu loro concessopleno iure – con facoltà di poterne costruire altri e con dirittodi irrigazione delle proprie terre di Mancasale – il mulino diMancasale sul Naviglio nei pressi della chiesa di San Silvestro.Il privilegio sarà poi esteso ai loro successori.

Con l’epoca moderna avvengono mutamenti nella strut-tura proprietaria. Alla fine del XIX secolo il mulino di Mancasalerisulta di proprietà del Conte Guicciardi. Nella prima metà delXX, la sua conduzione passa alla famiglia Forti; vi rimarrà finoalla fine della seconda guerra mondiale, quando volge al terminel’attività molitoria e la struttura inizia un declino inarrestabile.

Castello Brado, abitato storico di Mancasale.

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La fermata ferroviaria.

La Scuola “Balletti”.

Attorno al mulino e alla chiesa si è via via sviluppata lafrazione. Senza quasi soluzione di continuità, verso sud, c’è laLumaca, agglomerato di case che rappresenta un po’ il centrodella Villa. Qui, passato un piccolo ponte sul Naviglio, si trovauno splendido casello a pianta quadrata con luci a traforo inlaterizio.

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Lungo via Cavallotti, a poche decine di metri dal mulino,troviamo il cosiddetto “castello” di Mancasale, detto altrimentiBrado dagli anziani del luogo. Si tratta di uno fra i tanti castellipopolari che costellavano le Ville del forese: una lunga teoriadi edifici, tra di essi collegati senza soluzione di continuità. Quiabitavano i cosiddetti casànt, avventizi, braccianti e salariatiagricoli dalle famiglie spesso numerose e costretti a vivere stipatiin stanze senza servizi igienici. Presso il “castello” si collocavapoi tutta una serie di piccole attività artigiane e commerciali, lequali contribuivano a dargli l’aspetto di un vero centro di aggre-gazione sociale.

Oggi l’agglomerato – pur avendo conservato il medesimoprofilo rettangolare, estendendosi lungo l’asse est-ovest – risultaristrutturato per usi esclusivamente residenziali. A poche decinedi metri, la vecchia Latteria sociale è stata trasformata in unamoderna azienda di confezioni.

Oltrepassato il passaggio a livello – dove un piccolo casottofunge da fermata ferroviaria, lungo la linea Reggio-Guastalla –si incontra un paesaggio misto di case rurali, capannoni, pioppeticoltivati. La commistione tra tipologie edilizie, qui così spiccata,rinvia alla peculiarità di questa come una frazione di transito.Tra i diversi edifici, sempre su via Cavallotti, merita una scorsail severo edificio della scuola elementare “Balletti”. Costruita nelsecondo decennio del XX secolo, questo edificio si inserisce nelpiano di alfabetizzazione delle campagne promosso all’inizio delsecolo dalle prime amministrazioni socialiste.

Ritornando ora verso il centro della Villa, un breve cennova dedicato all’Impianto di sollevamento della Bonifica Parmi-giana Moglia-Secchia costruita negli anni Trenta sul Canale Na-viglio.

Il suo scavo fu decisivo, in epoca comunale, per attirarviil flusso dei transiti tra la pianura e la città, prima imperniatosulla Strada Vecchia per Reggiolo (lungo la direttrice tra SantaCroce e Pratofontana, traversante le attuali via Veneri, via delleOrtolane, via Petrella). La rilevanza assunta dalla nuova via dicomunicazione, in comunicazione diretta con il territorio soggettoai Gonzaga, venne confermata dalla decisione – operata dal

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libero Comune, all’inizio del XIV secolo – di far erigere una“rosta” difesa da uomini armati al livello della chiesa (utilizzandol’elevamento del campanile).

La messa in opera del grande Canale consentì infattil’introduzione per il trasporto della tecnica detta dell’alaggio, conla strada alzaia usata per il traino dei barconi carichi di merci.Sempre a questo scopo, nel XV secolo, il duca Borso fecedeviare il corso del Rodano – dove confluiscono risorgive attiveanche durante l’estate – più a sud, dalle Rotte di Bagnolo allalocalità oggi conosciuta come le Bocche del Rodano (al confinetra Pratofontana e Mancasale). Con ciò, nonostante le molteenergie investite nei secoli dalla città di Reggio, il Naviglio reggianonon riuscirà mai a divenire una via stabile di trasporto fluviale.

La storia di Mancasale in quanto crocevia di comunica-zioni si arricchirà di un nuovo capitolo nel 1888, con l’attraver-samento ad opera della tratta ferroviaria Sassuolo-Reggio-Guastalla. Quanto al casello autostradale (il completamento deltratto Parma-Reggio sulla A1 data al 1959), la sua prossimitàsi rivelerà decisiva nella scelta – completata tra gli anni Sessantae Settanta – di costruire sul lato nord il più vasto Villaggioindustriale del capoluogo.

Con la diffusione, insieme, dell’industria e dell’automobileMancasale cambierà drasticamente la propria fisionomia. Sel’area a nord è stata prescelta in modo univoco per ospitare leindustrie, la sezione più a sud – compresa tra la Chiesa e la“Nave”, lungo via Gramsci – ha visto cambiare negli anni leproprie destinazioni d’uso. Prima i vecchi castelli popolari sonocaduti per far posto ai capannoni; poi vi si è inserita, valicandoli,la nuova tangenziale; mentre in anni più recenti sono stati edificatialberghi e centri direzionali (il più noto prende il nome dalleCantine Riunite che vi avevano posizionato lo stabilimentoprincipale).

L’ultima “grande opera” prevista a Mancasale – ed è storiain corso – sarà la nuova stazione mediopadana posta sulla lineaferroviaria dell’Alta Velocità (TAV).

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Stadio Giglio, cantiere 2007.

Mancasale. Il ponte di Calatrava.

Mancasale. Stadio Giglio, 2007.

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Ferraroni Carlo(capogruppo Laborato-rio per Reggio)Franzoni Alfonsina(consigliera)Molteni Riccardo(capogruppo LegaNord)Orlandini Marco(responsabileComm.ne Urbanistica,Ambiente)Pellini Alfredo (capo-gruppo PDCI)Reggiani William(responsabileComm.ne Sanità eSicurezza Sociale)

Ruggiero Pierluigi(capogruppo AN)Scardova Franco(consigliere)Spaggiari Leda(responsabilecomm.ne Scuola)Spaggiari Marina(consigliera)Tapognani Silvano(capogruppo Uniti peril Centrosinistra)Valeriani Maria Teresa(capogruppo PRC)Violi Shira(consigliera)

ROBERTA PAVARINI(presidente)Benedetti Mario(consigliere)Bertani Fernandodetto Pippo(consigliere)Bigi William(consigliere)Bozza Giovanni(consigliere)Catellani Fabio(consigliere)Cenini Daniele(responsabileComm.ne Cultura,Sport, Tempo Libero)

Hanno collaborato i consiglieri eletti nella Circoscrizione 7 per la legislatura2004-2009

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Centro di Documentazione StoricaCircoscrizione 7Villa Cougnetvia Adua, 5742100 Reggio EmiliaTel. 0522 516860 Fax 0522 [email protected]