Numero zero_bozza

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Numero zero; autunno 2009 FoLLeLFo Rivista autoprodotta di racconti e sproloqui pseudo-letterari Non inquinare l’ambiente. Conserva la tua copia di Follelfo per sempre. www.follelfo.wordpress.com

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Il primo attesissimo numero di Follelfo, rivista di racconti e sproloqui pseudo-letterari.

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Numero zero; autunno 2009

FoLLeLFo Rivista autoprodotta di racconti e sproloqui pseudo-letterari

Non inquinare l’ambiente. Conserva la tua copia di Follelfo per sempre. www.follelfo.wordpress.com

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Follelfo si articola in un sito internet e in una rivista cartacea. Follelfo è racconti e disegni. Follelfo non ha un manifesto programmatico né una linea editoriale predefinita. Yabum: il mito della nascita di un rito è un racconto di Stefano Lazzari Erre è un racconto di Michele Turazzi Veduta d’invisibile è un racconto di Gianluca Senis Pantomima sardonica è un racconto di Matilde Quarti Figura uno e tre sono illustrazioni della Uendi Figura due, quattro e cinque sono quadri e schizzi di Alberto Condotta L’alpaca in copertina è a cura di Alberto Condotta Progetto “grafico” a cura di Michele Turazzi

[Milano, autunno 2009]

http://follelfo.wordpress.com

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YABUM: IL MITO DELLA NASCITA DI UN RITO

l piccolo Ikiki aveva appena sedici anni quando una donna, miss Sunena, dal fuoco negli occhi lo scelse come suo servitore.

Era sempre stato in mezzo alla strada, ove all’oscuro delle sue origini si arrabattava per pagarsi gli studi, che il più anziano degli orfanelli con cui viveva si ostinava a consigliargli come unica via di fuga. “Fuga da dove poi?” si chiedeva Ikiki perplesso senza però avere il coraggio o la codardia di dirlo ad alta voce. “Fuga dal nulla!” si rispondeva poi, quando chino sui libri capiva che il suo sforzo non era che un conato di un’infinitesimale potenzialità, il capriccio di una minima possibilità come il colpo di coda di un pesce che stanco del mare di strade salta per annaspare nell’aria, per farsi notare, quasi la sua esistenza dipendesse dall’esser visto compiere qualcosa di eclatante come scoprire un limite. Come quel pesce si sentiva in ogni strada che eleggeva a sua dimora. Lei non gli lasciò scelta, fu praticamente rapito dal deserto di povertà e scaraventato in un letto, un letto morbido e tutto suo. Solo per potersi permettere un letto con delle lenzuola così preziose avrebbe dovuto lavorare tutta la vita e anche un pajo dopo, le coperte erano così delicate che gli pareva di stare tra nuvole di petali, e i cuscini erano tanto morbidi che la sensazione avvolgente che lo circondava quando vi ci sprofondava non gli lasciava la possibilità di pensare a quel che capitava. Era finito dal mondo delle infinite possibilità irrealizzabili alla concreta realtà di una vita che non gli avrebbe lasciato scampo. Pian piano quei cuscini e le mollezze della sua nuova vita avrebbero smussato la durezza che l’umiltà aveva scolpito nel suo cuore. Il pesce che era in lui sarebbe soffocato nella ripetitività della nuova vita, come se la boccia di cristallo in cui era stato gettato divenisse sempre più piccola e opprimente ad ogni giro che egli era costretto a compiere su se stesso.

Era diventato il divertimento di quella donna che si nutriva delle sensazioni che gli strappava e sottomesso al lusso non ricordava la vita precedente e si era ormai convinto che quest’ultima non era più reale o più libera di quella: dai mille sogni che lo cullavano quando attraverso i libri sbirciava negli equiprobabili futuri era precipitato in uno cui si era facilmente adattato senza peraltro avere altre alternative. Stuprato senza peraltro soffrirne affatto, viveva in uno stato di semi coscienza costellato da picchi di estasi estrema in cui scordava chi era e scorgeva l’armonia d’ogni cosa; nei quali abbandonandosi diveniva puro piacere. Non conosceva né noja né divertimento, era un semplice animale da compagnia svuotato d’ogni aspirazione, che si lasciava usare in cambio di una vita agiata.

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Ogni tanto qualche lampo schiariva il suo animo lasciandogli intravedere,limpidamente, squarciatogli il velo di succubanza, che la sua vita veniva periodicamente succhiata e che la sua volontà veniva manipolata e fatta ripiegare sull’appagamento. Saltuariamente qualche pretesto, qualche piccolezza serviva da spunto per aprire uno spiraglio nella dolce nebbia che offuscava la sua mente: una volta vedendo due cani accoppiarsi aveva avuto conati di vomito ed era stato inservibile per la padrona per alcuni giorni e poco tempo addietro un altro episodio l’aveva sconvolto: sentendo la matrona parlare affettuosamente al suo sornione siamese si era sentito girare il capo senza sapere perché. All’inizio della sua sudditanza nonostante fosse contento di riposare la testolina e chiudere i libri per farsi viziare continuava a pensare che il suo compito era solo rimandato e che avrebbe presto ripreso a riempirsi di nozioni e storie, dopo poco non ritenendo neppure più un piacere aver sospeso gli studi smise del tutto di rivolgere ad essi la sua attenzione. La sensazione di libertà da ogni impegno che non fosse il soddisfare sessualmente la sua salvatrice lo pervadeva a tal punto da lasciarlo vuoto. Ma il fulmine squarcia il vuoto, l’aveva imparato quando era andato a mendicare in un monastero per entrare nel quale era stato rasato e vestito con strani ruvidi panni, era uno dei pochi periodi che la nuova vita gli concedeva di ricordare: non sapeva se quell’investitura fosse solo una prassi igienica dovuta ai suoi pidocchi o se nascondeva in realtà qualche altra implicazione. Verso il diciassettesimo anno d’età, avendo ormai trascorso un anno a contatto coi piaceri più perversi e sconvolgenti immaginabili da semplice oggetto che era inizialmente, totalmente impacciato, era divenuto tanto esperto nel controllare il suo corpo e tanto premuroso con la sua padrona che questa si era stancata di lui al punto da trascurarlo per settimane preferendogli altre più giovani ingenue e inesperte vittime.

Questi periodi di astinenza pur facendolo soffrire lo scotevano dal torpore in cui stava sopito il suo brillante animo. In queste pause risuonava come un mormorio di grilli d’estate l’antica vibrazione che spesso aveva pronunciato anch’egli. Gradualmente il mantra lo svegliava dal suo stato, lacerando il buio in cui annaspava e i pensieri invece che tornare a fluire come prima ingarbugliati e contorti seguivano ora una speciale melodia e prendevano a vorticare creando una spirale che svuotandolo lo colmava di senso. Raccolto nella posizione del loto quasi senza sapere perché, pronunciava Om Mani Pahdme Hum con ossessiva monotonia, con l’enfasi del pappagallo, quasi la formula tramutata in cantilena sola potesse dargli pace, era l’unico appiglio a cui poteva aggrapparsi per risalire, la corrente che poteva sfruttare per raggiungere la superficie e romperla. Si esercitava nell’immobilità che la padronanza del suo corpo gli permetteva; i suoi occhi divenivano allora di pietra, l’azzurro topazio sembrava scintillare spento. Nel più completo silenzio sentiva scorrere in ogni millimetro del suo corpo le ondate di sfrigolante energia che la padrona gli suggeva, gli pareva allora di sentire un fremito, come un formicolio che poteva dirigere a suo piacimento per intorpidire o far scattare in un tremolio le sue membra. Dal Tan-tien sviluppava il brivido che aveva imparato a far risalire sinuoso lungo la dorsale e che con la respirazione faceva giungere dritto in un flusso spiraleggiante nei sette centri. Quando Sunena lo trovò in quelle condizioni si sentì perduta, comprese in quell’istante d’aver imprigionato l’uovo di un pesce inadatto a qualsiasi acquario e si sciolse in un oceano di lacrime, riversò ai suoi piedi tutto l’amore che gli aveva rubato, che ancora aveva incastonato sotto le unghie e che gli aveva strappato vorace a morsi e con lo stesso farmaco con cui l’aveva avvelenato dilaniando il suo spirito si consacrò a lui in quell’atto che ormai aveva assunto la perfezione del rituale, quell’atto che aveva indissolubilmente legato le loro vite. Amen il Fulmine nel Vuoto Oscuro. ■

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ERRE

rre divide le persone in due categorie. Quelli che prendono i volantini mentre passeggiano e quelli che non li

prendono. Non è certo una divisione sistematica e metafisica, ma gli offre indubbi vantaggi pragmatici. Erre odia spendere fiato con persone che non meritano parole. Ecco perché parla solo con quelli che accettano il pezzo di carta stampata. Erre non si considera un bell’uomo. É magro, né alto, né basso. Il suo viso è ovale, un poco allungato e mette in risalto un naso leggermente più grosso del normale. Le labbra lunghe e rugose, perennemente screpolate dal vento, nascondono alla vista un neo nero che alloggia nella fossetta del mento. La voce, perennemente rauca ed abbassata, trasuda smog, nebbia e maltempo. Un rantolo di morte. Erre sente il rumore della pioggia sul vetro, sente la furia del vento sbattere contro le tapparelle verderamate. Erre si rigira nel letto, muove lentamente il piede destro, rimasto al

freddo senza coperta. Fa scricchiolare un dito, poi si rigira ancora, poi emette un mugugno distratto. Erre si rigira ancora nel letto, poi sbatte le palpebre e inizia a respirare lentamente. Cerca di riprendere sonno. Conta le pecore, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, cento, centotrentatre, poi si rigira nel letto. Erre ascolta il rumore del vento e appallottola il cuscino cercando di fargli prendere la forma del cranio. Erre si rigira nel letto, poi beve un goccio d’acqua. Il bicchiere è sul comodino. Erre accende la luce. Erre ha un’età indefinibile, tra i quaranta e i settanta. Lui stesso non ricorda la sua data di nascita. Quando gli vengono chieste informazioni personali, Erre racconta trame di libri letti. Parla di Parigi e Baltimora, Di Edimburgo o di Mosca. Venezia per lui è sempre Casanova e Dublino, Stephen Dedalus. Non ha una vasta cultura, i personaggi e le storie non variano mai. Ma col passare degli anni ha unito personaggi distinti in un unico

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disegno complessivo che unisce epoche e luoghi diversi. Narra sempre in prima persona. Tutti sono ora convinti che abbia assistito realmente alla congiura di Catilina e vissuto nella Londra vittoriana, che abbia passato un inverno sul lago di Walden e un estate tra i partigiani in Liguria. Erre si alza dal letto e lentamente si dirige verso la finestra, alza la tapparella e socchiude il vetro. Il vento scuote rami scheletrici, la pioggia colpisce i tetti delle auto parcheggiate. Uno scrosciare indistinto di suoni, sembrano urla di strega. Erre rapidamente richiude il vetro, quando una folata gelida, entrata per caso, gli gela le palle. Si sfrega le mani l’un l’altra e si dirige in cucina. Guarda l’orologio: le quattro del mattino. Erre sembra non riuscire a decodificare il significato di quelle lancette. Soltanto dopo un notevole sforzo semiotico si rende conto di avere dormito appena due ore. Erre è seduto in cucina, fissa il muro piastrellato verde ed ocra, ascolta il tictactictactictac della pendola, il plicplicplic della pioggia e il woooooo del vento. Si dirige verso un piccolo cubo poggiato sul comò; è un cubo di qualche centimetro di spessore, avvolto con carta di un quotidiano di qualche mese prima. Si legge ancora nel titolo: Scontri in Cadorna tra studenti e polizia. Poi beve un sorso di birra, è fresca, è in frigo. Erre è una creatura del quartiere, sempre c’è stato e mai se n’è andato. Lui e la chiesa di Santa Radegonda sono le uniche costanti che sono sempre esistite qui attorno. Le casette dai finestroni verdi sono ora attorniate da palazzi, discount e centri commerciali. Lo svincolo autostradale s’innalza imponente tra i grattacieli grigiastri anni settanta, ingombra il cielo e collega il quartiere alla metropoli lontana. Il campo da calcio dell’oratorio è ora un parcheggio e la tangenziale taglia a metà il paese. Il comune qualche tempo fa, dopo una petizione cittadina, ha inaugurato un ponte metallico pedonale che collega le due parti del quartiere scavalcando le sei corsie sottostanti. Sembra l’esoscheletro di qualche mutazione genetica. L’hanno dipinto di verde. Erre ha individuato alcuni motivi sottesi a questa scelta, ma l’unica cosa certa è che per qualche chilometro il ponte è rimasto l’unico essere di

questo colore. Erre sostiene tuttora che sia un chiaro riferimento al partito secessionista padano. Erre finisce la birra e la getta nel bidone del vetro. Erre crede che la raccolta differenziata sia il personale aiuto di ogni essere umano alla salvezza del mondo. Poi ne prende un’altra. Spalanca la finestra e osserva una distesa di auto parcheggiate flagellate dalla fitta pioggia continua. Le lamiere colpite piangono d’un pianto esotico e lontano. L’asfalto dell’immenso parcheggio sembra nuotare e il rumore dell’acqua fa ricordare ad Erre perigliose avventure tra i mari del sud, avventure gratuite di immagini ed isole. Poi fissa i torrioni che sorgono dall’acqua e i palazzi che cingono i marciapiedi annegati. La luce aranciastra dei lampioni amplifica il riverbero della pioggia. La notte è gelida. La pioggia continua a cadere. Erre si infila il giaccone pesante, indossa un cappello d’altri tempi e d’altri luoghi e scende in strada. Prima, però, si ficca in tasca quel cubetto incartato. La mano destra di Erre, affondata nella tasca sfondata, stringe forte il pacchetto. Erre vive in una catapecchia che è sempre stata di Erre. É un parallelepipedo rossastro di diametro non superiore ai sei metri. I mattoni a vista a causa del tempo. Attorno alla sua proprietà una azienda edile della grande città ha costruito un complesso di tre torri e ottocento parcheggi. Una petizione del quartiere, unita a qualche raccomandazione dei soliti noti, ha permesso di evitare l’esproprio del terreno di Erre. Gli hanno addirittura concesso un piccolo sentiero sterrato che attraversa i posteggi e lo congiunge alla strada principale. Ciò nonostante, dal giorno dell’edificazione sulla casa di Erre non batte più il sole. D’altro canto il quartiere di Erre non è mai stato particolarmente gradito al carro di Apollo. La strada è un rigagnolo di liquido marrone ed ocra. L’acqua trasporta quotidiani del giorno prima, qualche bottiglia vuota, pacchetti di diana blu finiti e preservativi usati. Erre si fa strada sotto la pioggia e sotto la luce arancione. Erre segue la via centrale, vede il bar del Giamma, il tabacchi e il ferramenta. Poi costeggia tre call center e due ristoranti cinesi. La bottega del calzolaio e il pizza express. Erre si rende conto che le uniche due pizzerie ancora

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aperte sono entrambe gestite da egiziani. Si chiamano Italia mia e Bella Napoli. Erre pensa che siano nomi azzeccati. Erre cammina tra fanghiglia, spazzatura ed asfalto per qualche minuto. Erre arriva ad una piazzetta circolare di cemento bianco cinta da palazzoni circolari, ora vasca di pioggia. Tra i flutti vede un opuscolo fradicio di un rosa vibrante. Erre lo prende in mano e non può fare a meno di leggerlo. Erre legge tutto ciò che è scritto. C’è scritto: “La menopausa è un momento importante per la donna e può essere accompagnata dalla presenza di alcuni spiacevoli disturbi”. Il pezzo di carta continua elencando questi disagi: “Stati d’ansia, irritabilità, sonno disturbato, affaticabilità, lieve depressione”. Erre si domanda se esiste la parola “affaticabilità”, poi getta il foglio nell’acqua e si dirige verso la tangenziale. Le dita di Erre giocano con il pacchetto in tasca, lo accarezzano. Qualche anno fa il prete del quartiere è morto, un infarto – volontà del signore – l’ha colpito a metà della sua vecchiaia. Da allora la chiesa è abbandonata a se stessa e solo una suora spazza ancora il pavimento delle navate ogni tanto. Due volte al mese il parroco della parrocchia accanto dice messa anche nella chiesetta del quartiere, ma pure lui si sta avvicinando all’estrema unzione. Da quando il prete è morto, tutti gli anziani della zona si rivolgono ad Erre per ogni questione pratica o spirituale. Ad Erre non dispiace molto questo impegno perché gli permette di discorrere di problemi di scolastica e platonismo con ascoltatori attenti e inebetiti. Dopo qualche anno la comunità dei fedeli ha iniziato a lasciar delle libere offerte nella cassetta delle lettere di Erre. Ora è totalmente autosufficiente a livello finanziario e ha apposto una targhetta al campanello che dice: pastore di anime. Erre sente l’acqua nelle scarpe, le sente rotte e, come un brivido, si sente scosso da astratti furori. Erre giunge ad un muro alto e ruvido. Cela alla vista ciò che si stende al di là: le sei corsie di tangenziale. Erre scorge la scaletta metallica del ponte pedonale. Il verde della tintura si è spento in un monocorde rosso ruggine. Per un attimo Erre pensa alle molteplici implicazioni simboliche del rosso, poi scuote la testa e i pensieri. La pioggia

tamburella sulla scaletta metallica e crea cascate d’acqua che discendono uno scalino dopo l’altro. Un cartello dice: ponte pedonale, zona15. Erre intraprende l’ascesa. Si aggrappa ben forte al corrimano e sfida il vento. Sorride e osserva la strada sotto di lui. Alcune auto zigzagando sotto la pioggia, slittano sul fiume che scorre tra le varie corsie. Erre, novello Prometeo. Il nome del quartiere ormai si è perso nel tempo, i navigatori e tuttocittà lo chiamano zona 15. Il suono di quel nome antico non sopravvive neppure nelle memorie dei vecchi. Ogni uomo apporta una variante diversa e nessuno è mai riuscito a stabilire un’esatta gerarchia di valori tra le varie testimonianze. Al bar della piazza si discute costantemente del mistero del nome. Talvolta i disputanti più infervorati – o forse solamente quelli di una gradazione alcolica superiore – giungono alle mani. Erre sostiene che ormai è inutile parlarne. Ciò che non si riesce a tramandare è già morto, sostiene. La storia è scritta dai vincitori, dice, e chi ne perde persino il ricordo non può che essere un vinto. Erre si è spesso questionato sulle molteplici accezioni della parola “vinto”. Erre non si considera un vinto.

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Erre ferma le gambe che camminano al centro esatto del ponticello metallico. La pioggia stride. Erre si appoggia alla ringhiera e volge lo sguardo all’orizzonte. Tra nuvole e grigio, Erre riesce a vedere le corsie sottoscorrenti snodarsi verso lo svincolo autostradale. In trenta minuti di coda il quartiere si collega così alla grande città. Erre ricorda il momento in cui l’asfalto è stato drenato tra i sorrisi laccati di imprenditori e politici corrotti. Erre ricorda le ruspe e le gru e gli operai e gli scavatori e i rumori e gli schiamazzi. Le grandi opere pubbliche. La costola rancida di tangentopoli. Lo svincolo sopraelevato riposa sotto catinelle battenti, solcato da qualche lumino che si perde tra le lamiere. Erre straccia la carta che copre il cubetto, ancora in tasca. Poi la mano destra afferra il cubo spoglio, lo afferra con forza virile. Il cubo è nero, plasticosamente opaco. Al centro un pulsante tondo, rosso. Le quattro rughe verdognole della fronte di Erre s’inaspriscono un poco, mentre le dita giocherellano con l’oggettino. La lingua di Erre accarezza le labbra, articolando voci non proprie. “O madre ti prometto che compierò l’impresa, la porterò all’ultimo effetto. Nulla mi interessa del mio tristo padre, egli rivolse per primo la mente verso il nostro male” Erre ruota all’improvviso i bulbi degli occhi e rivolge nervosamente lo sguardo al cubetto. Erre sente il vento, la pioggia e qualche ululato di auto. Poi sente pure il cubo sussurrare: “Ed ecco che venne Urano, il grande, recando la notte. Bramava d’amore e subito si gettò su Terra, su di lei si distese. Crono impugnò, con la mano destra, la tremenda falce lungodentata e al padre di colpo recise le palle”. Erre pensa al significato di quei fonemi oscuri, ci pensa talmente intensamente che preme il pulsante. Diruptio, onis è il lemma latino che indica un’esplosione. Fragor, oris, ne designa il rumore. Queste le uniche nozioni che s’inseguono per il cervello di Erre mentre il cavalcavia all’improvviso esplode. Cavalcavia, invece, non ha nessuna traduzione latina. Svincolo autostradale, neppure. Il boato è

assordante, il fumo grigiastro s’allunga all’insù e detriti di ogni dimensione volano in cielo. Erre, ritto, immobile al centro del ponticello pedonale, osserva la diruptionem che ha generato un semplice pulsante rosso. Il rumore del botto si disperde. Erre percepisce ora uno sciabordare di sirene impazzite. Le riconosce una ad una, quelle della polizia, quelle dei carabinieri, quelle dei pompieri e quelle dell’ambulanza. Il latrato dei cani rinchiusi in monolocali asfissianti accompagna il suono ininterrotto degli antifurti impazziti. L’aria è tersa, pesante, la pioggia non cessa. Il fumo soffocante un poco s’attenua e permette ad Erre di osservare il panorama novello. Lo svincolo autostradale è distrutto, pezzi d’asfalto e cemento ricoprono le corsie di tangenziale. Sembrano tasselli di un puzzle monocromo. Erre non sa cosa pensare. Pensa solo di non essere pronto per una tale visione, non riesce a smettere di sbattere le palpebre. Un brivido freddo scuote i nervi delle gambe, attanaglia il busto e la schiena e si propaga tra collo e mandibola. Erre crede di comprendere il senso di quel tremore. Il brivido che accomuna il demiurgo e il distruttore è gelido. Tra le corsie annegate galleggiano residui grigiastri. Inebriato dal fumo catramoso, Erre rivolge nuovamente lo sguardo al pulsante rosso. Il cubo risponde agli occhi posati e sembra declamare con voce da baritono queste parole: “E le vergogne, già recise col ferro, Crono scagliò lontano nell’ondisono mare. Esse errarono per lungo tempo tra i flutti, la bianca schiuma sorgeva attorno all’immortale carne. Una fanciulla ne fu nutrita. E la Dea veneranda a Cipro sorse dal mare e crebbe erba morbida sotto i suoi piedi. Lei, la bella, è chiamata Afrodite. La chiamano Afrodite gli Dei e la chiamano Afrodite gli uomini.” Erre stringe con forza il plasticoso aggeggio tra le dita e con gesto deciso lo lancia tra le onde del mare d’asfalto e detriti. Erre si aggiusta il cappello e si siede per terra, le ginocchia leggermente sollevate. Erre chiude gli occhi e ascolta le gocce di pioggia colpire i pezzi annegati là sotto. Poi sussurra lentamente: “Afrodite”. ■

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VEDUTA D’INVISIBILE

uella volta fu diverso; sapeva di epilogo, di perfetto non ritorno. Il Guercio aveva davvero superato se stesso. Erano ormai

diversi anni che Dafne si spostava alla locanda per aiutare il nonno durante il periodo di fiera, quando la città si animava follemente d’ogni più varia stravaganza; la settimana della fiera era eccitante, divertente, e Dafne trovava ogni anno stimoli eccellenti per nutrire la propria vorace curiosità. E lo spettacolo del Guercio era qualcosa di imperdibile. Il Guercio era artigiano del posto; età indecifrata ma non troppo in là, passato burrascoso, mani e volto segnati, scarsa presenza scenico mondana. Le prodezze del Guercio erano sempre le più attese alla fiera perché, tutti dicevano, era un artista. Forse il

più grande marionettista che mai avesse dato anima a pezze e legno, il più stupido ottuso maestro della dedizione, il più incredibile beone che conservasse sconosciuta lucidità quando il momento era quello giusto. Il Guercio non dava confidenza a nessuno, al massimo prorompeva in un riso sardonico; ma era maledettamente eccellente. E Dafne amava le meraviglie che erano e inventavano quelle marionette, e perciò amava quella fiera. Il Guercio univa con naturalezza la tradizione occidentale a quella orientale, non preoccupandosi di un’esistenza forse ingiustamente troppo sola. Il Guercio era sempre in cammino, e Dafne ne aveva sempre avvistato le orme; forse non tutti, forse pure il nonno, lei quasi certamente.

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Tuttavia quella volta seppe di non ritorno, di epilogo; fu perfettamente diverso. Lo spettacolo fu terribilmente preciso, bello, grandioso. Non sembrò altro. Per questo Dafne aspettava con trepidazione che il Guercio giungesse alla locanda, per poter scrutare nei suoi occhi bui il motivo di quella scelta. Che fosse il canto d’addio? Certo il Guercio al bancone non sembrava turbato, piuttosto rassegnato; solo beveva, mormorava, sghignazzava, pareva infastidito e beato. Per lui, probabilmente, quella volta fu perfettamente uguale, forse lo era già da tempo. Probabilmente. Dafne pareva rassegnata a non capire. E sebbene fosse fiera, fosse gioia e fosse baccano, la locanda cadde d’un tratto in silenzio di cimitero. Che diavolo, chi diavolo come e quando e che ardire! Nessuno volle credere a quel che vide, molti nemmeno seppero e tacquero comunque, e quelli che sapevano non fecero altro, se non carpire le reazioni del Guercio. Era diverso tempo che il bombarolo non si vedeva in città, perciò molti nemmeno lo conoscevano. Il Guercio lo sentì arrivare, ma non si scompose dalla sua posa quasi estatica vicino al bancone. Il bombarolo avanzava sprezzante, grattandosi la barba con la mano sinistra, mostrando candidamente quell’ arto mancante di alcune falangi. La gente ora bisbigliava, mugugnava, s’interrogava; un tempo il Guercio ed il bombarolo furono amici. Si conobbero durante gli studi, qualcuno diceva che furono naturalmente spiriti affini, e insieme presero a creare meraviglie. Poi un giorno la rottura insanabile; il bombarolo decise d’ andarsene, iniziando ad esercitare come dinamitardo. Da qui bombarolo e quant’altro, si diceva vivesse l’esistenza come una missione. Improvvisamente il Sopravvissuto, dopo l’ennesimo starnuto, picchiò violentemente il volto contro il bancone, lacerandosi la pelle del naso e prorompendo in copiosi schizzi di sangue brillante. Il nonno gli porse un fazzoletto di bassa levatura, ch’egli afferrò di mala voglia uscendo dal locale bestemmiando forse in esperanto.

Fu come una scena teatrale a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo, un dialogo sibillino che Dafne interpretò a suo modo; ognuno carpiva delle parti, ed immaginava quel che restava sotteso, attimi sottratti al flusso del tempo. <Sei invecchiato, ed anche finito. Il tuo spettacolo di oggi nulla lasciava all’immaginazione. Sei al fine giunto laddove non volevi si dovesse arrivare. Lavoratore infaticabile> <Sfacciato come sempre, misero sobillatore. Dimmi, che ti porta dopo tanto tempo, lontano dai tuoi biechi impieghi, con che coraggio vieni per guardarmi negli occhi? Tempo fa stringemmo un patto silenzioso, inutile sarebbe stata ogni parola. Tu hai rinnegato con la tua vita quel che insieme scovammo, ed ora non credo che qualsivoglia tua giustificazione possa avvicinarci di nuovo. Sai bene anche tu che non è più possibile.> Discorsi pacati. <Sai, stupido Guercio, non per te io vengo, per me piuttosto. Nulla più mi interessa della tua famosa dedizione, guarda dove ti ha portato! Tu stesso sei diventato schiavo di quel che cercavi, logoro ed ottuso, ingenuo artigiano… Assaggio la rassegnazione che pervade il tuo corpo, ed assaporo intensamente la tua resa. La tua perseveranza è stata certo encomiabile, non lo nego. Tuttavia la freddezza si è impadronita del tuo genio, la tua arte è diventata talmente perfetta da risultare noiosa. Per quanto lontanamente affascinante, sei gravato dal peso del tuo piedistallo. Addio vecchio amico, non più di te il mondo ha bisogno… Ma non con questo volevo stupirti…> <Mai potrò negare che anche una natura malvagia porti con sé grande saggezza, piccolo collega. Gli anni indigesti non ti hanno certo istupidito, il tuo acume è tuttora intatto, la sapienza molto maggiore. Tuttavia, l’ingordigia si è impadronita del tuo genio, la tua arte è divenuta talmente prorompente da risultare dannosa. Non nego certo d’aver sbagliato, d’aver perso la ragione. Ma il mio monito resterà ancora, il mio sforzo non sarà del tutto vano. Sempre combatterò le generazioni d’accidiosi, coloro i quali s’affidano alla pura estasi contemplativa. Quell’ attimo estatico che tu persegui, quell’ istante di disgregazione che

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prepara alla rigenerazione, mai rappresenterà la liberazione dell’individuo dalle catene con cui il mondo moderno imprigiona l’uomo. Non ci si può sottrarre al flusso del tempo, e non c’è bisogno vincenti improvvisati e maldestri. Benvenuto ingenuo amico, non più di me sei ammirevole.>

Parole delicate, estate serena. Dafne dondolava felice, accovacciata vicino al bancone, sperando che non arrivasse mai la sera. <Guercio, Lidia è morta. L’hanno ritrovata senza vita giovedì sera, in un canale di scolo, a Marsiglia. Pare un suicidio, aveva il volto sereno. Per questo son venuto, pensavo dovesse interessarti.> Il Guercio fu percorso da un fremito interminabile: <Infatti, credo debba interessarmi.> Accanto al corpo senza vita di Lidia fu trovato un biglietto, in bella scrittura, che riportava poche curiose parole: “Purtroppo ancora desidero entrambi, ma non voglio nessuno. Non credo di far torto, chiedendo poche sincere parole. L’unica scusa per colui che fa una cosa inutile, è che egli l’ammiri intensamente. Temo che quell’ arte sia perfettamente inutile”

Il bombarolo se ne andò, silenzioso e inviso come se n’era venuto; il Guercio rimase

immobile, bevendo beato ed infastidito. La fiera poté ricominciare, per tutti. Dafne corse di

sopra, e scrisse felice: voglio essere un ragno, voglio ricamare il silenzio. ■

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PANTOMIMA SARDONICA

a tigre e il pianista fissano perplessi la bussola, chini sul tavolo seguono con pupille roteanti la lancetta rossa che gira

gira gira vorticosamente. Silenzio. Fuori il bianco riveste la terra, gli alberi, le tombe. La tigre e il pianista non lo notano neanche, continuano a seguire il vorticoso moto della bussola. Il pianista trema, le sottili labbra tese. Si alza, sbatte un pugno sul tavolo. La bussola viene scossa leggermente, continua a girare. “Si calmi, la prego” bisbiglia la tigre con una vocetta acuta e stridula. “Ma non si ferma mai, non si ferma mai, da anni, da secoli!” grida il pianista scagliando la bussola contro il muro. Ma questa ricade sul pavimento e la lancetta continua a girare. Il pianista si accascia a terra, con le unghie si aggrappa alle travi del pavimento, trema più forte. “Nord – Sud – Nord – Sud – Nord – Nord – Nord. Cosa cambia in fondo?” mormora la tigre. Ride sardonico, Lui, glacialmente bianco. Afferra la baracca, lecca via un po’ di neve dal tetto e con una leggera pressione delle lunghe dita affusolate riduce in polvere il delirio spaziale della tigre e del pianista. Gli basta il pensiero, gli basta una leggera inclinazione del capo alieno e scavato per distruggere o nutrire la fantascienza interiore di coloro che si perdono nel suo sguardo serpentino. “Mi amate? Mi amate? Ma certo che mi amate. Mi amate e perite per me. Appassionatamente, pateticamente, inevitabilmente, inesorabilmente”. Continua a ridere, Lui, consapevole del morboso dolore che crea. Potrebbe farlo cessare strizzando un occhio, ma non lo fa. Non adesso, non ancora. Vuole ridere ancora un po’, Lui. Vuole ridere, perché dopo sarà solo deserto. E poi arrivo io. La tigre riesumata dalle gioie di un tempo mi fissa vitrea, il collo stanco, la coda ricucita. “Non canti più?” chiede. “Non ho mai cantato” rispondo. Cerco il vecchio pianista tremante, per dargli una bussola che non gira e la mia benedizione. E cerco Lui, per arrabbiarmi, per amarlo, per sgridarlo ancora e ancora con quanto fiato avrò nei polmoni e

niente potrà esserci di più bello. Cresce il pathos, i violini incalzano. La tigre e il pianista si rincorrono lungo il perimetro del palco. Il pubblico ride. Dame imbellettate di bianco e di rosso spilluzzicano violette caramellate offerte da bellimbusti in parrucca. La brutta figlia del conte è accerchiata da donnaioli impenitenti, vogliono la dote, eviteranno il letto. La prostituta, resa cinerea dal morbo, si affaccia dalla balconata, ha il cuore d’oro di monete tintinnanti, con la dote della brutta figlia del conte comprerà dei corsetti nuovi e preziose essenze esotiche. Anche la cocotte e l’ereditiera ridono alla pantomima che si svolge sul palco. Anche i dongiovanni e i giovanotti innamorati ridono: un pianista che non suona il pianoforte e una tigre che parla con una vocetta affettata. Ma la tigre e il pianista provengono da lande innevate e tra le pieghe del sipario non riescono a trovare la bussola. E improvvisamente compare Lui. In mezzo al palco, con scoppi di petardi e nuvole di fumo grigio da gran cabarettista. Indossa un completo da uomo buono per un gigolò anni ‘40. “Camicia bianca e cravattino nero…fuori luogo in un simil contesto” commenta sdegnata la tigre. Resta pietrificata. Un patetico felino marmoreo. Sulla sala cala il silenzio. Le labbra delle cortigiane da ridenti che erano si serrano con timore. “Buh!” sussurra Lui con espressione spaventevole. Il pubblico di puttane e cavalieri fugge in un turbinio di crinoline. Nel teatro ormai vuoto la tigre torna di carne e muscoli. Lui getta la bussola ai piedi del pianista. Ricomincia l’eterna pantomima del tempo e dello spazio. Non sono più la bussola. La fisso anch’io con la tigre e il pianista mentre Lui continua a ridere stringendomi per le spalle. “Non ne hai abbastanza?” mi chiede Lui. “No. Reciterò ancora”. Lui sogghigna. E’ troppo tardi. E allora leviamo leviamo i calici. Nel teatro vuoto, con la tigre e il pianista e la bussola e Lui che stringe con le belle dita il Santo Graal. E’ troppo tardi. Prosit! ■

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L’alpaca è mezzo pecora e mezzo lama. La lana di alpaca non contiene lanolina, non infeltrisce e non dà allergie. L’alpaca non è una specie considerata in via d’estinzione per quanto sia diffusa soltanto in alcune zone montuose dell’America meridionale.

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