L'argonauta n. 16
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Il dibattito su www.iltuoforum.net
Diamo spazio alle opinioni di tutti
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Numero 16 - Lunedì, 5 Dicembre 2011
Patet exitus: si pugnare non
vultis, licet fugere
Panoramica storica sul suicidio
Il dibattito sul suicidio ha visto
coinvolti nel corso della storia
numerosi filosofi e pensatori. La
liceità o meno dell’usare violenza
contro di sé, ed eventualmente
in quali circostanze l’uso della
violenza trovi una propria
motivazione etica fu oggetto di
dibattito filosofico fin dalla
Grecia antica.
Platone nel suo Fedone dice, per
bocca di Socrate: “Non è lecito
all’uomo sostituirsi al volere degli
dei”. Secondo Platone la non
liceità del suicidio deriva
dall’essere sulla terra come il
soldato di un posto di guardia,
posto dal quale non possiamo
allontanarci senza averne il
permesso. Sempre Platone
afferma la non disponibilità della
vita, che è affidata agli dei ai
quali si deve lasciare totale
arbitrio. L’uomo è subordinato al
loro volere e privo del diritto di
autodeterminazione della morte.
Lo stesso Platone però, più
avanti negli anni, nelle Leggi,
postula tre evenienze in cui si
può eccepire al divieto del
suicidio: se questo è ordinato
dallo Stato, per irreparabile
ignominia o per
un’insopportabile disgrazia.
Nell’ Etica Nicomachea
aristoteliana il suicidio è
condannato non solo come atto
di viltà, ma anche come crimine
vero la polis. L’individuo è parte
della società e non può,
suicidandosi, sottrarsi ai doveri
che gli derivano
dall’appartenenza alla polis, a
meno che non sia la città a
chiedergli il suo sacrificio.
Gli stoici hanno una concezione
decisamente tollerante circa la
possibilità di porre fine
liberamente alla propria vita,
purchè il suicidio sia attuato in
precise circostanze. Per gli stoici
la vita è solo il presupposto
dell’agire etico sintetizzato nel
“Patet exitus: si pugnare non
vultis, licet fugere”. Desperata
salus, il non ritenere più possibile
la salvezza, necessitas, l’essere
costretti al suicidio per ordine o
coazione (mors iussa o mors
coacta), furor o suicido per follia,
dolor nelle forme di impatienta
doloris o valetudinis, ovvero per
malattia fisica o mentale, pudor
ovvero per vergogna, execratio o
suicidio per vendetta, mala
coscientia ossia suicidio per
senso di colpa, tedium vitae
nell’anziano, per dolore fisico
intollerabile come avviene
nell’inpatientia, per devozione e
fedeltà come nelle devotio e
fides, o per iactation termine con
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cui si indicava raramente il
suicidio filosofico erano
comunemente accettati come
motivazioni al suicidio.
La categorica condanna al
suicidio si diffonde insieme al
Cristianesimo prima con
Agostino d’Ippona, per
estensione del V comandamento
– non uccidere – e
successivamente da Tommaso
d’Aquino nel Summa
Theologiae, come gesto diretto
contro la naturale tendenza
all’autoconservazione, contro la
società a cui appartiene il
singolo, contro il dono divino
della vita.
Il suicidio acquisisce la
connotazione del crimine, e si
passa dalla condanna del
peccatore alla sua
criminalizzazione, tanto che in
mancanza del reo a cui fare
scontare una condanna ci si
accanisce contro il suo cadavere
e la sua tomba, in una serie
lunghissima di vilipendi.
La trattazione del suicidio vedeva
però già nel Rinascimento
contrapporsi a questa visione
etico-religiosa un approccio di
carattere medico che pur
mantenendo al suicidio in sé un
carattere demoniaco mitigava la
colpa del suicida in quanto privo
per vizio di mente della
volontarietà di suicidarsi. E’
proprio nel Rinascimento,
seppure spesso col carattere di
una doppia morale (una
inflessibile che condannava il
suicidio delle classi povere e una
che invece tendeva a occultare e
a mitigare la responsabilità dei
suicidi appartenenti al clero o
alla nobiltà), che vengono ripresi
quei concetti di malattia già
dibattuti da Aristotele, Celso,
Galeno, Ippocrate. Da questa
dibattito si sollevavano voci a
favore di un atteggiamento di
maggiore pietà e comprensione
per il suicida.
L’Illuminismo criticò la durezza
delle leggi che colpivano il
suicida e la sua famiglia,
arrivando a giustificarne alcune
circostanze, riprendendo in
parte l’etica degli stoici, e
rivendicando il possesso della
propria vita contro il dispotismo
di Dio o dello Stato. Il dibattito si
svolse in gran parte attraverso
opere romanzate in cui la le
prese di posizione avvengono
per bocca dei personaggi (vedi
ad esempio I dolori del giovane
Werther).
Con lo sviluppo delle scienze
sociologiche e della psicologia il
suicidio diventa una risposta
fortemente condizionata se non
addirittura coatta a un dolore
senza rimedio e senza uscita, un
percorso di comprensione che è
ancora in corso, che si propone
di analizzare quello che resta
comunque una decisione
multifattoriale e per molti versi
incomprensibile, che lascia solo
marginalmente aperto lo
spiraglio della volontarietà
dell’uomo.
Fulvia
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Schadenfreude
Cattiverie italo-tedesche, da
Schnellinger a Berlusconi
di Florian
Schadenfreude, ovvero il
“piacere provocato dalla
sfortuna dell’altro”, non è solo
uno di quei termini intraducibili
nella nostra lingua tipici del
vocabolario tedesco, ma anche
quello che più sottintende il
difficile rapporto tra Italia e
Germania. Una relazione spesso
proficua, ma tormentata da
stereotipi duri a morire, che
hanno trovato nuova linfa negli
ultimi decenni. Dalla
riunificazione delle due
Germanie all’avvento in Italia di
Silvio Berlusconi è possibile
parlare di una “estraniazione
strisciante” tra questi due Paesi
che non riescono più a
comprendersi forse perché da
tempo hanno smesso di parlarsi.
Le polemiche di questi giorni che
dividono l’opinione pubblica
italiana da quella tedesca in
merito all’Unione Europea, i
debiti nazionali e gli eurobonds
stanno rinforzando i detrattori
dell’asse italo-tedesco,
particolarmente agguerriti, nei
rispettivi Paesi. La polemica fra
Italia e Germania è di lunga data
e trova la sua ragion d’essere in
una contrapposizione sia
culturale che storica. Quella
culturale riguarda il contrasto tra
latinità e germanesimo che si
può far risalire a Tacito. Quella
storica invece si avvale del
risentimento italiano per la lunga
dominazione di popoli di lingua
tedesca e per le due guerre
mondiali che hanno visto i due
Paesi contrapposti. E’ inutile dire
che nel secondo di questi
conflitti l’alleanza nazi-fascista,
subìta più che accettata dalla
popolazione italiana, ha sparso
molto sale su di una ferita da
tempo aperta. Nel dopoguerra,
che per molti versi ha
rappresentato da ambo le parti il
tempo dell’oblio, Italia e
Germania (Federale) si sono
trovate dalla stessa parte nella
ricostruzione e nella Guerra
Fredda e attorno al mito
dell’unificazione europea si è
creato un nuovo clima positivo
tra le rispettive classi dirigenti.
Tuttavia il pregiudizio dell’uomo
comune era tanto resistente ed
indifferente ai doveri della
realpolitik che si è conservato
piuttosto bene ancora oggi ed è
giusto che il nostro breve viaggio
sulle cattiverie italo-tedesche
parta proprio da qui.
Un diffuso luogo comune vuole
gli italiani stimare i tedeschi ma
non amarli, e i tedeschi amare gli
italiani senza stimarli. Per gli
italiani che non hanno mai
visitato la Germania e ancor più
quelli che in Germania ci sono
andati per lavorare costretti, il
tipico tedesco è un personaggio
efficiente quanto ottuso e privo
del naturale calore latino.
Viceversa, per un tedesco che
non abbia mai oltrepassato a sud
le Alpi o per chi solitamente lo fa
d’estate per stabilirsi in una delle
tante località balneari della
nostra penisola, l’italiano medio
è persona tanto amabile quanto
disorganizzata. Già il sommo
Goethe al termine del suo
viaggio in Italia annotava:
“Cerchi invano la probità
tedesca; qui c’è vita e
animazione, non ordine e
disciplina; ciascuno pensa solo a
sé e diffida degli altri, e i reggitori
dello Stato, anche loro, pensano
a sé soli.”
Fin qui siamo ancora al riparo del
savoir faire. Quando invece gli
animi si surriscaldano, e non
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accade di rado, allora il tedesco
per l’italiano diventa subito un
sadico nazista e l’italiano per il
tedesco un perfido mafioso.
Nazismo e mafia: bisogna
ammettere che, malgrado gli
sforzi sinceri e ammirevoli degli
ammiratori reciproci, la “pancia”
dei due popoli ragiona ancora
così. Ce ne siamo accorti bene
quando il nostro premier
Berlusconi, al Parlamento
europeo, toccato sul vivo in
merito a giustizia e conflitto
d’interessi, ha replicato al
deputato tedesco dell’SPD
Martin Schulz con queste parole:
“So che in Italia stanno girando
un film sui lager nazisti. La
proporrò per il ruolo di Kapò”.
Pessima gaffe. E a nulla è valsa
l’indignazione di tanti italiani una
volta tanto solidali con un
crucco. Perché in Germania,
contrariamente a quanto
pensano molti di noi, Silvio
Berlusconi rappresenta il tipico
esempio di “arci-italiano”, in
possesso di tutte le
caratteristiche negative con cui si
usa malignamente tratteggiare il
nostro popolo: “scaltro e
invadente, chiassoso e
inaffidabile, un amorale
utilitarista che si crede al di
sopra del diritto e della legge”.
(1)
Tre anni più tardi la rivista
tedesca Der Spiegel rendeva la
pariglia ripubblicando
malignamente, in occasione dei
Campionati del mondo alle
porte, la vecchia copertina con la
pistola sul piatto di spaghetti.
Che se nel ’77 voleva alludere al
nostro terrorismo, nel 2006
l’intento era quello di dipingere i
nostri azzurri come capaci di
vincere coi soliti trucchetti.
Italia-Germania, la partita
infinita
Da quando gli europei hanno
smesso di farsi la guerra è il
gioco del calcio il teatro
privilegiato dei campanilismi, il
solo evento in cui è considerato
lecito far risuonare i tamburi
dell’orgoglio patriottico. E questo
in special modo per Italia e
Germania dove il nazionalismo è
diventato nel dopoguerra un
tabù politico e persino culturale.
L’artefice della rivalità italo-
tedesca sul tappeto verde fu, suo
malgrado, un oscuro terzino
tedesco, Karl-Heinz Schnellinger,
che per ironia della sorte giocava
allora in una squadra italiana, il
Milan. Quando centrò quasi per
sbaglio la porta del nostro
Albertosi, all’ultimo minuto della
semifinale dei Mondiali del ’70 i
suoi compagni italiani gliene
dissero di tutti i colori. Con una
vigorosa partita difensiva l’Italia
stava infatti portando a casa
senza troppi patemi d’animo una
striminzita vittoria per uno a zero
che significava pur sempre la
finalissima col Brasile di Pelè. Ed
ecco che un piede certamente
non sopraffino rimetteva tutto in
gioco portando le squadre ai
supplementari. Supplementari
che, come oggi tutti sanno,
faranno di quella partita una
leggenda e daranno modo agli
italiani, alla fine vincenti con un
rocambolesco quattro a tre, di
prendersi più volte sul rettangolo
di gioco quelle soddisfazioni che
in misura assai maggiore
arridevano ai tedeschi nella vita
di tutti i giorni. Quella mitica
giornata sportiva diede infatti
inizio ad una serie di rivincite che
la piccola Italia calcistica poteva
prendersi sulla grande Germania
economica. Vennero infatti la
vittoria “mundial” di Spagna ’82
e l’ultima, beffarda, a Berlino
2006 che permise agli azzurri,
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sempre in semifinale e sempre ai
supplementari, di superare i
panzer per sistemare quindi i
conti in finale con la Francia.
Ma se esiste una mitologia dei
vincitori ne esiste anche un’altra,
non meno efficace, a
disposizione degli sconfitti. Le
vittorie dell’Italia calcistica sulla
Germania sono state considerate
dal nostro popolo come la
predominanza dell’estro e della
fantasia sulla mera forza dei
teutonici. Questi ultimi, però,
hanno maturato un’opinione
piuttosto diversa di come sono
andate le cose. C’è una parola
che in Germania oltre a dar
conto del risultato avverso riesce
perfino a nobilitarlo e questa è:
“catenaccio”. L’Italia quadri-
campeon è risultata vincente
grazie al famigerato catenaccio,
termine oggi un po’ in disuso ma
che per decenni ha identificato
uno schema di gioco
particolarmente “abbottonato”
tipico del nostro calcio,
considerato scaltro e sparagnino
dalle pungenti critiche dell’intera
Europa sportiva. Nonostante gli
stessi tedeschi non abbiano quasi
mai offerto del calcio champagne
e nonostante abbiano studiato e
assimilato molti aspetti del
nostro calcio, in pubblico
bisognava denigrare il nostro
esasperato tatticismo come un
classico esempio di anti-
sportività. Vincere all’italiana,
ossia in “contropiede”, altra
parolaccia, fu considerato a
lungo un disonore… specie se ad
avvalersene erano gli undici di
Valcareggi, di Bearzot o di Lippi.
Tuttavia per i tedeschi, gli italiani
del calcio, oltre che furbi e
fortunati, sono stati a lungo
considerati come dei grossi
imbroglioni. Una partita che gli
italiani non ricordano più, ma
che i tedeschi non hanno ancora
dimenticato fu quella che oppose
l’Inter e il Borussia
Moenchengladbach, quella che
passò alla storia come la “partita
della lattina”. Erano gli ottavi di
finale della Coppa dei Campioni
anno 1971/72 e a quel tempo il
‘Gladbach era una squadra
fortissima che grazie a campioni
come Netzer, Vogts e Heynckes
rivaleggiava in patria con il
Bayern di Beckenbauer, Mueller
e Maier. Anche l’Inter era allora
una signora squadra, tuttavia,
forse perché aveva preso
sottogamba l’avversario ancora
poco conosciuto all’estero, andò
presto in svantaggio. Sull’uno a
due Boninsegna venne colpito da
una lattina lanciata dagli spalti
tedeschi e allora gli interisti
chiesero a gran voce la
ripetizione della partita. L’arbitro
fece però continuare e il Borussia
dilagò su un avversario in crisi di
nervi che alla fine rimediò un
pesantissimo uno a sette. Dopo
di che ci fu una lunga battaglia
legale tra le due squadre con
quella italiana che pretendeva la
ripetizione dell’incontro anche se
le regole UEFA non lo
prevedevano. Alla fine, grazie ad
un cavillo, l’avvocato Prisco riuscì
a far ripetere il match e per
giunta su campo neutro. L’intera
Germania insorse contro gli
italiani accusati di
comportamento antisportivo, ma
alla fine la partita fu rigiocata e
terminò con un pareggio che
garantì la qualificazione alla
squadra italiana. Dinanzi ad un
avversario che sembrava vincere
le partite in sede legale o con
l’ausilio della monetina (Europei
‘68) si stagliava l’immagine
eroica dello sconfitto
incolpevole, di Sigfrido
incarnatosi in Kaiser Franz che,
lussatasi la spalla gioca, i
supplementari dell’Azteca con il
braccio legato al corpo. Mirabile
esempio di stoicismo che,
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associato ad un campione di
classe ed eleganza assolute,
alimenta la leggenda di chi è
stato sconfitto ma non vinto. Si
ritorna a Tacito, appunto.
Amore all’arrabbiata
Abbiamo citato solo alcuni
esempi che, dalla politica allo
sport, hanno caratterizzato negli
ultimi decenni la rivalità fra Italia
e Germania. E molti altri ancora
se ne potrebbero fare perché
come si è detto quella in gioco
tra i due Paesi è una partita
infinita. Ma sarebbe sbagliato
oltre che ingeneroso per chi si
prodiga in senso opposto,
guardare le relazioni italo
tedesche soltanto in chiave
negativa. Già nel 1976, in uno dei
suoi celebri “viaggi”, Enzo Biagi
poteva obiettare ai germanofobi
in servizio perenne effettivo che
esisteva anche una Germania
“buona” di cui era importante
parlare, non fosse altro per il suo
enorme contributo dato alla
civiltà europea e mondiale. Poi
venne un Ispettore dai toni
pacati e dallo sguardo
compassionevole, Stephan
Derrick, che ebbe non solo il
merito di essere protagonista di
uno dei più longevi e fortunati
telefilms, ma per quel che ci
interessa qui riuscì a modificare
in misura notevole la percezione
dell’uomo tedesco al di fuori dei
suoi confini. Gli italiani, e non
solo loro, apprezzarono quel
personaggio dai modi garbati,
“conservatore ma sagace” a
detta di Umberto Eco,
assolutamente distante dalla
stereotipata immagine nazista
che Hollywood aveva dei
tedeschi consegnato al cinema.
Negli anni Duemila fu poi un
pilota di Formula 1, Michael
Schumacher, a rinsaldare
l’amicizia tra italiani e tedeschi
grazie alla fantastica esperienza
con la Ferrari che ha garantito al
team del Cavallino ben cinque
titoli mondiali e consecutivi (!) Ed
in precedenza due campioni del
calcio, Karl-Heinz Rummenigge e
Rudi Voeller avevano lasciato
splendidi ricordi a Milano e a
Roma in virtù della loro umana
simpatia pur al seguito
d’un’esperienza particolarmente
sfortunata.
Allo stesso tempo in Germania il
rapporto con gli italiani si è visto
che può comportare non solo
una superficiale simpatia, ma
anche il rispetto. Imprenditori
come Luca di Montezemolo,
economisti come Mario Draghi e
politici come il nostro attuale
Presidente del Consiglio Mario
Monti sono particolarmente
stimati per la loro abilità,
competenza e affidabilità.
Questo ci dice che il cliché può
spiegarci qualcosa ma non tutto.
Che la schadenfreude di cui si è
discusso non è una particolare
forma d’odio e ovviamente
nemmeno di amore. Potremmo,
con qualche forzatura, e citando
il titolo di una delle tante
pubblicazioni tedesche filo
italiane, identificare questo
fenomeno come una sorta di
“amore all’arrabbiata”. In fondo
Germania e Italia sono nazioni
talmente speculari da poter
essere felicemente
complementari. E quando
l’europeismo ha avuto la meglio
sul ripiegamento nazionalistico
ne hanno guadagnato entrambe.
Valga ciò anche d’augurio.
Florian
(1) Siamo tedeschi perché non
siamo italiani, di Birgit Schoenau,
tratto da Limes 4/11 “La
Germania tedesca nella crisi
dell’euro”.
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Non sono un malato di
mente
Di Eric Draven
Anders Behring Breivik, l'autore
della strage di Oslo del 22 luglio
scorso, contesta le conclusioni
del rapporto degli psichiatri che
lo hanno definito "schizofrenico
paranoico" e, pertanto, non
penalmente responsabile del
massacro di 77 persone. Con un
colpo di scena, Breivik - per
bocca di uno dei suoi avvocati -
nega di essere "malato di
mente". Il legale ha esaminato
per ore buona parte del rapporto
con il suo assistito che ha
ravvisato "errori, fraintendimenti
e frasi fuori contesto".
Non credo sia necessario fare
una ricostruzione dettagliata del
personaggio Anders Breivik: è
negli occhi e nelle menti di tutti
noi il ricordo del massacro di
Utoya.
A pochi mesi da allora,ci
troviamo in una situazione
paradossale: Breivik è pazzo e
quindi merita di essere
ricoverato a vita in un
manicomio giudiziale oppure è
un criminale lucido e quindi
(secondo la legge norvegese) tra
poco più di 20 anni può tornare
libero?
La questione non è solo
squisitamente di diritto o di
psichiatria forense, ma anche di
scelte politiche. Vogliamo
credere che Breivik sia un orco
solitario cresciuto e sviluppatosi
nell'indifferenza generale, ma
che resta sostanzialmente un
corpo estraneo alla
tollerantissima società norvegese
oppure vogliamo considerarlo
come la punta di un Iceberg che
invece è ben presente nel paese
dei fiordi?
La scelta degli psichiatri fa
propendere per la prima
opzione: cerchiamo di capire
quali siano le conseguenze di una
scelta simile.
Considerare Breivik un folle
solitario è molto autoassolutorio,
per la Norvegia.
Significherebbe che il sistema
tutto sommato funzione e che
una sola pecora nera non inficia
il progetto. Ma significherebbe
anche che il sistema di polizia
non funziona.
Perchè un singolo è stato in
grado di progettare e realizzare
un massacro senza che nessuno
se ne accorgesse.
Quindi se ne deduce che i
norvegesi sono quantomeno dei
superficiali.
E che in ogni caso hanno bisogno
di più prevenzione.
Perchè non condividere questa
impostazione? perchè vorrebbe
dire che non si è compreso nulla
di quanto accaduto a luglio.
Breivik sia nei suoi scritti che
nelle sue azioni denuncia una
lucida determinazione e una
notevole capacità organizzativa.
Progettare e realizzare un'azione
diversiva come la bomba ad
Oslo,atta a distrarre la polizia
norvegese e farla convergere in
città, sguarnendo il vero
obbiettivo di Breivik è di solito
sinonimo di grande lucidità
mentale.
Mi piacerebbe capire come ciò
sia compatibile con una
diagnosia di delirio schizofrenico
paranoico.
Forse la quantità di odio che
emerge dalle sue idee e da ciò
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che scriveva?
Se così fosse, dovremmo temere
di moltissima gente che va in giro
per i fora su internet e scrive
cose anche più deliranti di quelle
di Breivik.
Probabilmente l'obiezione
principale che viene fatta da chi
sostiene la pazzia di Breivik è il
fatto che la legge norvegese
prevede una pena onestamente
ridicola per quello che ha fatto il
massacratore di Utoya.
Quindi meglio tenerlo in
ospedale psichiatrico a vita.
Ma un ospedale psichiatrico non
può fornire le garanzie detentive
di un carcere; Breivik potrebbe
fuggirne, ha dimostrato un
ottimo livello di addestramento
militare e una determinazione
feroce; inoltre la polizia
norvegese non è armata.
Che certezze potremmo avere
sul fatto che costui non se ne
andrebbe quando vuole?
La seconda obiezione che
potrebbe essere mossa è che
Breivik vuole andare in galera e
non essere dichiarato pazzo per
poter sfruttare mediaticamente
la sua detenzione.
In pratica, vorrebbe passare da
prigioniero politico, costretto in
ceppi da coloro che vogliono
indottrinare all'immigrazionismo
forzato e all'annullamento
dell'identità europea....insomma
quelle cose che andava
predicando su internet e non
solo prima di luglio.
Beh...onestamente la trovo una
scusa infantile.
Se non una paura di non sapere
come smontare le sue tesi. Il che,
se mi permettete, mi fa ancora
più impressione di Utoya.
Quest'uomo ha massacrato
scientemente 77 giovani
norvegesi, colpevoli solo di non
pensarla come lui.
Se non siamo in grado di far
passare questo messaggio, allora
Breivik ha vinto.
E non vale nemmeno la pena di
processarlo; perchè quelli da
processare saremmo noi
occidentali ed il nostro pensiero
e sistema di valori, così deboli e
difficili da difendere che può
bastare un lupo solitario per
sbranarli.
Anders Breivik va processato e la
Norvegia ha il dovere di
adeguare le sue leggi, penali e
civili, ai rischi che il suo caso ha
evidenziato.
Soprattutto, da Breivik si deve
partire per mettere a nudo tutto
il mondo che l'ha partorito,
nutrito, educato e sostenuto
sulla strada di Utoya.
Perchè perdonatemi per la
supponenza, ma cercare di farmi
credere che Breivik abbia fatto
tutto da solo (e non mi riferisco
alle azioni di luglio, quanto alla
loro preparazione non solo
militare) è un'offesa alla mia
intelligenza che non tollero.
Eric Draven
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Caruso, Calderoli &
Cantalamessa
Chi protesta, chi contesta e chi
conta
di Florian
Vi ricordate di Francesco Saverio
Caruso, il no-global napoletano
che con i suoi espropri proletari
aveva messo in imbarazzo la
sinistra di governo? Ecco, il
signor Caruso è l'emblema di una
cultura radicale, figlia dell’agiata
borghesia occidentale, tanto
marginale in politica quanto
influente sul piano delle idee. E'
infatti come minimo dal
Sessantotto che il signor Caruso,
definitosi “sovversivo a tempo
pieno”, riesce ad imperare in
filosofia come in sociologia, in
antropologia come in psicologia,
finendo col dire la propria
persino in economia e in
religione, ambiti in cui pure non
è particolarmente ferrato. Nel
complesso non c'è materia in cui
questo signore non abbia messo
becco e che non sia riuscito ad
indirizzare almeno in parte nella
direzione a lui più gradita.
Dinanzi a tale protervia è
naturale che qualcuno pure
reagisca. Ed ecco venire avanti il
prode Roberto Calderoli, che per
la sua presenza fino a ieri nel
governo Berlusconi è figura
maggiormente discussa. Anti-
Caruso per eccellenza,
d’estrazione più piccolo che
borghese, quest’altro curioso
campione del dibattito
contemporaneo è il sempiterno
portavoce di chi, allergico alla
messa in discussione delle
tradizioni, “quando sente parlare
di cultura, mette mano alla
pistola”. Sebbene questa
contrapposizione viscerale sia al
fondo più sottintesa che reale, in
quanto nel regno fatato del
signor Calderoli le idee di Caruso
hanno notoriamente poca presa,
essendo tutte le "Padanie"
nient'altro che province nordiste,
mentre il radicalismo, per sua
natura metropolitano, ha
acquisito col tempo una
caratterizzazione sudista,
terzomondista, filoaraba.
Tuttavia, in mancanza di meglio,
è il populismo panciuto e beota
del signor Calderoli a far da
contrappasso alla colta perfidia
radicale di Caruso & Co. E' la
cosiddetta destra nazionalista ad
attrarre buona parte di quel ceto
minuto e benpensante che un
tempo votava per le élites
conservatrici prima che queste
diventassero semplicemente
“moderate”.
In fondo cos'è il moderatismo se
non il pragmatico slittamento a
sinistra nel confronto delle idee
da parte di un ceto medio
ridottosi a perseguire
individualmente il proprio
tornaconto? Il superaffollato
centro, crocevia di tutti gli affari,
non ha altro pensiero che la
difesa del ricco portafogli, del
resto gli importa poco. Come
ama dire, laissez-faire, laissez-
passer. All’interno della grande
palude non si comprano libri,
non si frequentano dibattiti,
ragion per cui non si prende
posizione alle vivaci dispute
culturali che costantemente
oppongono il signor Caruso e il
signor Calderoli. Si supporta
svogliatamente l'uno o l'altro a
seconda solo di chi fa più chiasso
e rovina così la quiete.
Questo signore, che per fin
troppo ovvie ragioni oseremmo
chiamare Cantalamessa, è
l’emblema delle oscillazioni
politiche di chi spesso si
nasconde dietro l’abito talare
non avendo convinzioni e ancor
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meno tradizioni da rispettare.
Per lui vale unicamente il parere
della pubblica opinione e come
una leggera banderuola oscilla
ad ogni refolo di vento,
convincendosi così d'esser al
passo dei tempi, sempre oltre, da
onesto progressista quale ama
presentarsi.
La vecchia generazione preferiva
spezzarsi piuttosto che piegarsi -
dura, arcigna, avvinghiata ad
usanze e convinzioni finite con
essa nella tomba della Storia. Il
presente e il futuro è dei signori
Caruso e Calderoli ai quali tutti i
Cantalamessa del mondo
saranno grati di lasciare libertà di
parola per poter contare
silenziosamente i propri
quattrini. L'unica cosa che li
abbia mai per davvero
interessati.
Florian
Liberalizzazioni
all'amatriciana
Di Sounasegasusughi
Colpa delle liberalizzazioni. La
CGIA di Mestre sembra
finalmente avere trovato il
colpevole: se gli italiani sono ogni
giorno sempre più vessati, la
colpa è del libero mercato, che
negli ultimi anni avrebbe
letteralmente fatto impennare i
prezzi di alcuni dei beni e servizi
più comunemente richiesti ed
utilizzati da noi tutti nel nostro
vivere quotidiano. Ma se ci
fermiamo un attimo ad
analizzare i settori toccati dallo
studio della CGIA, i conti
sembrano non tornare: dalle
ferrovie alle poste passando per
le banche e le assicurazioni, pare
davvero difficile poter parlare di
libero mercato. Non basta la sigla
SpA a cancellare il fatto che si
tratti sempre e comunque di
società controllate dallo Stato o
che dallo Stato sono
pesantemente vincolate e
regolamentate: basti pensare
alla RCauto, talmente libera da
essere obbligatoria per legge! A
contare non dovrebbero essere
soltanto le sigle o gli azionisti, ma
il vero ed effettivo grado di
apertura dei mercati oggetto di
analisi, che era e resta – a voler
essere benevoli - estremamente
ridotto. Quanto all’impennata
dei prezzi, è necessario poi
chiarire un ulteriore equivoco:
che la concorrenza sul libero
mercato (quello vero) porti in
generale ad una riduzione dei
prezzi è vero, ma trattasi
appunto di una tendenza
generale, non di una certezza.
Nei settori in cui lo Stato
mantiene i prezzi
artificiosamente bassi, è
plausibile infatti che un’apertura
del mercato faccia registrare al
contrario un aumento degli
stessi, il che – lungi dall’essere
un male per i consumatori –
costituirebbe la sana espressione
di quello che resta l’unico
sistema veramente capace di
allocare in modo efficiente ed
equo le risorse scarse che
abbiamo a disposizione. Prezzi
ballerini e società libera sono un
binomio inscindibile, a meno che
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l’obiettivo non siano le code per
il pane come in URSS.
Condivisibile invece l’appello che
la stessa CGIA rivolge al Governo
Monti: attenzione a porre in atto
nuove ed ulteriori
liberalizzazioni. Se fatte ancora
una volta all’italiana, sarebbe
l’ennesima – e forse ultima –
occasione sprecata.
Sounasegasusughi
Riflessioni sulle parole di
Travaglio in tema di suicidio
Di Fulvia
La morte di un uomo per suicidio
lascia sempre in chi resta la
sensazione dell’evitabilità e dello
spreco, oltre che dell’angoscia, e
molto meno, forse perché
condizionati dal pensiero di non
essere i depositari della nostra
vita, una sensazione di rispetto,
pietà e perfino compassione. La
morte di Lucio Magri per suicidio
assistito ha portato in questi
giorni molte persone a dibattere
e confrontarsi sia sul suicidio per
sé che sul suicidio assistito.
Indubbiamente se il tema
suicidio affrontato in senso
storico è affascinante, diventa
meno affascinate e più doloroso
quando conosciamo il suicida.
Chiunque abbia vissuto il suicidio
di una persona conosciuta sa che
la domanda che ci si pone in
maniera ossessiva è quella se si
sia stati capaci o meno di capire
il disagio dell’anima di chi ha
scelto di “levar la mano su di sé
[cit]”. Attribuiamo la causa del
suicidio alla perdita di lucidità e
della padronanza di sé, come
dimostra il suo stesso gesto.
Ancora, esperienza comune è
quella di riconoscersi come
“l’ultimo uomo”, ovvero di
immaginarsi nella circostanza di
intervenire all’ultimo minuto per
fermare il suicida. Chi di noi non
taglierebbe la corda o
trascinerebbe fuori dall’acqua un
aspirante suicida, e quanta gente
ha sacrificato addirittura la
propria vita per salvare da morte
autoinflitta un perfetto
estraneo? Che cosa ci spinge a
volere la salvezza fisica
dell’uomo, se non la perfetta
immedesimazione in noi,
istintuale o meno, che ci porta a
immaginare lo stesso desiderio di
vivere nostro nell’altro, il nostro
volere essere salvati nell’altro, la
nostra alienazione alla morte
nell’altro?
Magri muore in modo non
diverso da Socrate, colla
moderna cicuta che ora ha il
nome chimico di un medicinale.
Muore in modo diverso solo nei
fatti , come muoiono migliaia di
persone che si lanciano nel
vuoto, magari abbracciando i
propri bambini nella folle pretesa
di portarli con sé o allontanarli
dal dolore del mondo, o che
seduti ordinatamente su una
strada in posizione di preghiera si
lasciano ardere vivi per un
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motivo ideologico. Muore in
modo diverso solo perché è
diversa non la morte ma l’ultimo
pezzo della vita. Magri prende un
treno e paga una clinica, Primo
Levi si lancia dalla bella tromba
delle scale col mancorrente in
ferro battuto e legno della sua
casa torinese pur essendo
sopravvissuto al i lager, Monicelli
non aspetta magari quel
pochissimo tempo che era logico
aspettarsi dai i suoi
novantacinque anni e si butta
dalla finestra dell’ospedale dove
era ricoverato. I commenti che
ho sentito sul suicidio di Magri
vertono su due principali punti:
perché non si sia ad esempio
buttato dalla finestra ma abbia
scelto un modo quasi elitario di
uccidersi, quello del suicidio
assistito, con relativa analisi della
vigliaccheria di Magri, e quello
della curabilità della
depressione. Magri era depresso,
dicono. Curabile, si dice. Eppure
io non riesco a trovare una via di
uscita dalla riflessione che se da
un lato la depressione è causa di
suicidio, la natura stessa della
depressione si riconosce
attraverso il pensiero suicidario o
l’azione o il tentativo suicidario.
Abbiamo sviluppato nel tempo la
convinzione che la cura della
depressione sia arrivata alla
guarigione della malattia in tutti i
casi. Non è così. Una depressione
radicata e inveterata può non
giovarsi di un trattamento
farmacologico o psicanalitico.
Dalla depressione si può anche
guarire, ma come sempre non è
detto.
Invece, ho trovato interessanti le
parole di Marco Travaglio sul
suicidio assistito paragonato
all’omicidio del consenziente.
Anche se mi trovo in disaccordo
perché mi sembra tratti della
questione in modo molto
forzato e confusionario, Marco
Travaglio analizza per punti una
serie di circostanze, prime tra
tutti l’aiuto al suicidio. Travaglio
sostiene che accettando per
legittima la disponibilità della
propria vita l’essere assistiti nel
suicidio in realtà contraddice il
presupposto delegando la
propria vita ad un altro. Credo
che Travaglio non abbia le idee
veramente chiare su che
significhi suicidio assistito.
Significa sic et simpliciter fornire
i mezzi e la conoscenza. Come
dire, insegnare a fare un cappio a
chi si vuole impiccare, in modo
che questo cappio non si sleghi.
Non significa iniettare(azione
attiva) un veleno. Io non mi
sento di chiamare quello di
Magri omicidio del consenziente,
perché Magri aveva ogni
attitudine fisica per il tipo di
suicidio che ha messo in atto e
per me Magri si è ucciso da solo,
pur se un altro essere umano
gliene ha fornito gli strumenti
fossero questi il know-how della
scienza o un poco di penthotal.
Invece mi domando se la pietas
estrema possa essere motivo
valido per aiutare una persona
che non ha la capacità fisica di
arrivare al suicidio, fatti salvi tutti
i tentativi di convincimento,
ovvero se esista una liceità nel
suicidio assistito. E’ un aspetto
che mi lacera enormemente, e
credo che in questo caso solo
una persona cara possa , volendo
e avendone la forza, aiutare
qualcuno a togliersi la vita e
assumersi stante le leggi vigenti il
carico penale che da questo
consegue. Pensandoci, la
cronaca ci offre periodicamente
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storie simili in cui si intrecciano
l’omicidio del consenziente e il
suicidio. In questi casi mi sento di
dire che il suicidio possa in
qualche modo essere il prezzo
del sangue dell’omicidio del
consenziente, o che almeno
questo è un sentire comune che
mi pare di cogliere.
Sempre sul Fatto si accenna a
quel pendio scivoloso che
sempre compare in tutti i
dibattiti etici: se si fanno delle
eccezioni potremmo trovarci a
rendere etici, e quindi leciti,
comportamenti che non lo sono
per calo dell’attenzione, per
progressivo allargamento dei
limiti. Si certo che è vero, il
rischio esiste. Però a mio avviso
ogni pretesa di inquadrare in
materia di etica medica qualsiasi
comportamento con una legge
rigida e dogmatica è destinato al
fallimento. Intanto, nessuno può
essere fatto vivere per legge, e
dubito esista un aspirante suicida
che si sia fermato temendo di
finire processato. Invece si sono
fermati o hanno assunto
comportamenti assolutamente
privi di requisiti scientifici e
perfino umani tanti medici
costretti a una medicina di
difesa, che si trovano a navigare
a vista nel mare magno del fine
vita col timore di essere
condannati per non avere messo
un sondino nasogastrico a un
93enne in coma irreversibile. Da
un pendio scivoloso all’altro, solo
che il secondo pendio scivoloso
viene vissuto come valenza
positiva perché tutela la vita
cronologica (ma non quella
biologica e men che meno di
relazione).
Concordo invece sull’analisi che
fa Travaglio sulla mancata
relazione tra grado di libertà di
un paese e felicità. Solo che lo
scopo ultimo della vita privata
può essere indubbiamente la
ricerca della felicità, laddove
invece uno stato quale che sia ha
il dovere, nella mia opinione
s’intende, di perseguire il
raggiungimento del massimo
grado di libertà possibile. Anche
quando questa libertà non piace.
Io credo che chiunque di noi se
vedesse una persona apprestarsi
al suicidio farebbe qualcosa per
fermalo. Quello che mi chiedo è
cosa fare per chi non vuole
essere fermato. Mi chiedo se si
può imporre la vita fino alla
morte, o se molto
semplicemente, non si debba
chinare il capo nel silenzio e nel
rispetto di chi ha fatto una scelta
forse ponderata, pagandola solo
e comunque con la propria vita,
anche e soprattutto quando la
nostra scelta sarebbe stata
diversa dalla sua.
Di Fulvia