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HERO CYCLE STEP IN STEP OUT a cura di ilaria gianni GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

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HERO CYCLE

STEP IN STEP OUTa cura di ilaria gianni

GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

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STEP IN STEP OUTa cura di ilaria gianni

HERO CYCLEGIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO

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HERO CYCLE - Gianluca e Massimiliano De Serio

A CURA DI / EDITED BYIlaria Gianni

TESTI / TEXTSLuigi FassiIlaria GianniAngela Haardt

TRADUZIONI / TRANSLATIONSOunet S.r.lDipartimento [email protected]

REVISIONE TESTI / TEXT EDITINGRoberta Ferlicca

PROGETTO GRAFICO / GRAPHIC DESIGNProduzioni Nero

CON IL SOSTEGNO DI / SUPPORTED BY

INDEX - ENGLISH VERSION

26 FOREWORD - THE KEY TO MEMORY by Ilaria Gianni

27 WAYS TO SEE, WAYS TO LOOK by Angela Haardt

30 FROM REALISM TO THE FLOW OF OPEN WORK by Luigi Fassi

31 INTERVIEW WITH GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO by Ilaria Gianni

39 BIOGRAPHY

40 PHOTO REFERENCES

INDICE - VERSIONE ITALIANA

4 INTRODUZIONE - LA CHIAVE DELLA MEMORIA di Ilaria Gianni

6 MODI DI VEDERE, MODI DI GUARDARE di Angela Haardt

9 DAL REALISMO AL FLOW DELL’OPERA APERTA di Luigi Fassi

12 INTERVISTA A MASSIMILIANO E GIANLUCA DE SERIO di Ilaria Gianni

38 BIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

LA CHIAVE DELLA MEMORIA - di Ilaria Gianni

Il secondo appuntamento con “Step in step out”, prosegue nell’analisi di quel-la che è stata definita l’arte dopo il cinema, proponendo il lavoro di Gianluca e Massimiliano De Serio. I cortometraggi degli artisti associano una ricerca sul mezzo cinematografico ad un confronto reale con i protagonisti e le storie da loro narrate. I soggetti dei film, spesso basati sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione sociale e più in generale della difficile ricerca di identità nella società contemporanea vengono raccontate in una maniera che si può de-finire del reale. Quest’ultima definizione, spesso sinonimo di documentario è, invece, nel cinema dei De Serio relativa alla loro metodologia di ricostruzione di una realtà, di ricreazione di esempi di storie vere di sradicamento, di dispe-razione, di isolamento, di solitudine, di sfruttamento, di perdita di riferimenti e di volontà di ritrovare se stessi. È la memoria a muovere il processo della messa in scena degli artisti. E’ at-traverso il ricordo di un fatto, di un gesto, di un dialogo che prendono avvio i film dei gemelli De Serio che lavorando insieme ai protagonisti, cercano di far emergere una realtà invisibile, o meglio ignorata. Un cinema che si interessa non solo alle tracce ma ai testimoni, la cui fragile memoria è ancora consulta-bile. La storia è esplorazione sentimentale del passato e strumento per una sua denuncia sociale ed esorcizzazione personale.Sempre più quelle che vengono definite “strutture documentarie” sono en-trate nella sfera dell’arte contemporanea. Se la cinepresa per un periodo è servita come documentazione di un atto artistico, ora, si presenta spesso come veicolo di informazione e strumento di denuncia sociale. Cercando di far fronte ad una mancanza di “posizionamento” personale nella società, alcuni artisti hanno voluto dimostrare la loro capacità di documentare o ri-flettere su qualcosa che altrimenti sarebbe rimasta ignorata o sottovalutata. Grazie anche alla possibilità di utilizzo delle nuove tecnologie da parte di un gruppo di persone sempre più esteso, torna alla ribalta il sogno zavattiniano del pedinamento del reale e del cinema dei tanti per tanti, ma è anche vero che bisogna essere in grado di saper guardare la realtà e di saper parlare con le immagini.

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Nel lavoro dei De Serio - circolato tra film festival e musei d’arte contempo-ranea - è infatti presente una profonda consapevolezza della valenza estetica ed evocativa dell’immagine filmica, una coscienza e una conoscenza del lin-guaggio cinematografico, un programma estetico oltre che etico.Essi si affacciano così al mondo dell’arte o del cinema con competenza, voglia e “bisogno” di fare; esiste un atteggiamento comune: quello del documentario come scelta intimamente morale da parte del regista1. Ne risulta un approccio documentaristico etico e poetico al tempo stesso. Quello dei De Serio è così il vero creative treatment of reality inteso da Grier-son2: un lavoro basato essenzialmente sulla “verità” che sulla strada del docu-mentario incontra quella della poesia.

1Della Casa, Stefano, La nuova stagione del documentario italiano, in AA.VV., A proposito del film documentario. Annali I, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Roma, 1998, p. 68-762Guy Gauthier, Le documentaire, un autre cinéma, Nathan, Paris, 1995

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MODI DI VEDERE, MODI DI GUARDARE - di Angela Haardt

Gianluca e Massimiliano De Serio hanno iniziato girando filmati nel loro am-biente quotidiano. Sono ritratti documentaristici di individui comuni, come se ne incontrano per le strade, senza conoscerne la storia o la vita; narrazioni fittizie che si orientano sullo sfondo di attuali discussioni politiche, avvenimen-ti documentati quasi giornalmente sui quotidiani che diventano esperienza direttamente vissute da un singolo individuo nei film. La narrazione lineare, rimane frammentata (solo nel caso di Maria Jesus possiamo riconoscere in parte la motivazione del suo agire). Le storie rappresentano un momento della vita del protagonista, un momento decisivo, impedendo allo spettatore di conoscerne il prima o il dopo.I film prendono dunque le sembianze di fotografie che riprendono un istante congelato rispetto ad un breve asse temporale. Un momento transitorio nel quale le note e rassicuranti strutture d’azione e di percezione hanno perso di valore e ogni identità deve essere nuovamente valutata. Un attimo impregna-to di grande solitudine, persino o specialmente, quando altre figure entrano in scena e agiscono nel film. Solamente nel film Zakaria, si parla di una nuova identità – affianco a quella vecchia – come un processo di conoscenza. Senza voler approfondire in questa sede l’analisi filmografica, mi pare tuttavia necessario mettere in rilievo specifiche questioni che distinguono una perce-zione cinematografica da una percezione museale. Nel film si pone in primo piano la narrazione, in particolare inevitabilmente se questa è più o meno lineare. La storia (aspetto letterario) è impregnata dalle immagini (aspetto visivo); queste ultime conferiscono alla trama, tramite una specifica sequenza o un particolare valore sensuale, il calore emozionale.Quando un film è proiettato in una galleria, specialmente un film a carattere narrativo, il concetto di percezione cambia radicalmente, in quanto solo rara-mente uno spettatore segue la proiezione dal suo inizio alla sua fine: spesso infatti egli sopraggiunge in un attimo casuale della proiezione e la sua atten-zione viene posta non sulla narrazione bensì su aspetti fisici o empirici della forma umana, sulla ricezione dello scorrimento delle immagini, su colori e rit-mi, infine sui singoli oggetti intorno al protagonista. Questo tipo di percezione è sempre stato un tentativo adottato nei film sperimentali dagli anni ‘50 e solo recentemente – grazie all’interesse crescente della scena artistica – ricono-sciuta da un pubblico più ampio. La cinematografia sperimentale, nel proprio ambito è stata infatti sempre seguita da un pubblico limitato ed esclusivo.

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La liberazione dalla narrazione comporta, nel processo percettivo, il nascere di concetti di lettura differenti da quelli abituali, ma non di minor valore. Nel caso della cinematografia dei De Serio, una chiave di lettura innovativa è offerta dal ritratto. Vediamo infatti, in tutti i film, piani ravvicinati di volti. L’evento in sé, si può leggere come un ritratto dipinto con accessori aggiunti per condurre nella direzione adeguata l’interpretazione. Si verifica quindi uno scambio tra il dipinto (ovvero il film) e lo spettatore, basato sugli orizzonti culturali di quest’ultimo. Come la decifrazione di un’opera figurativa medie-vale è resa possibile dagli strumenti culturali dello spettatore di quell’epoca (esegesi biblica e conoscenza dei codici simbolici), così nell’opera dei De Serio, un fruitore informato riesce a percepire e contestualizzare la situazione dei protagonisti (4 film - 4 lingue straniere! I sottotitoli decodificano l’ignoto) in base alla sua conoscenza della situazione degli immigrati. La percezione diventa così un processo doppio: apprendere l’informazione comunicata dal film e applicare ad esso le informazione di cui è già in possesso.Potremmo definire questa differenziazione una distinzione capillare, ma que-sto potrebbe essere un errore. Il cinema, la black box, necessita dell’immersio-ne totale dello spettatore nelle vicende, di giganti proporzioni, che prendono vita sullo schermo, dalle quali egli potrà riemergere e ritrovare se stesso solo nel momento in cui si riaccenderanno le luci in sala. La galleria, il white cube, al contrario non ferma il flusso di consapevolezza continuamente presente nella persona. Gli spettatori vengono, in ogni attimo, provocati dalle loro per-cezioni soggettive in modo da generare un movimento mentale che oscilla tra percezione ed elaborazione.Con Ensi e Shade, i De Serio lasciano il campo della fiction per addentrarsi nel mondo dell’installazione performativa. La fotografia è ridotta a tre cambi di angolazione e di ottiche: dal totale al piano americano fino a quando il pubblico si trova costretto a confrontarsi con il piano ravvicinato del volto del performer in azione. L’aspetto performativo è accentuato dal fatto che i due protagonisti sono situati su un palco in un teatro vuoto, privo di spettatori. La video camera riprende i protagonisti dal back-stage costruendo in tal modo un secondo teatro al quale fanno riferimento i due ragazzi. L’elemento narrativo si ritrae totalmente nella parola, nel duello verbale, nel TESTO, e noi, da spettatori, abbiamo il piacere di abbandonarci alla presenza fisica, alla visione dei corpi.

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La rinnovata attenzione del mondo dell’arte e delle gallerie, in particolare per lavori documentaristici (i cui aspetti narrativi sono spesso al giorno d’oggi calcati) o per fiction a sfondo documentario, è aumentata grazie all’inclusione della fotografia nella sfera artistica. Questa interrelazione tra i media è uno dei più importanti aspetti dell’arte odierna. Come esempio voglio citare il lavoro di Fiona Tan, Counteance (un 16mm), che presenta una tipologia di tedeschi della Germania dell’Est e dell’Ovest, un’opera stimolata dalla visione dell’immenso lavoro fotografico di August Sanders che ha ritratto la classe lavoratrice tedesca. Da citare anche Kutlug Ataman, le cui interviste su video rovinerebbero ogni evento cinematografico, data la loro lunghezza. Così, per esempio, l’ultimo lavoro presentato a Documenta 11, The four seasons of Veronica Read (quattro schermi montati in un quadrato che proiettano interviste sulla coltivazione di Amaryllis Hippeastrum, effettuate appunto da Veronica Read) o il succes-sivo Küba, che presenta, su 40 schermi, interviste di abitanti dell’omonimo quartiere di Istanbul. La galleria si trasforma in una stanza per percezioni visivo-uditive in cui si può apprendere qualcosa da persone a noi solitamente inaccessibili. Si potrebbe paragonare questo spazio ad un gabinetti di lettura del XVIII secolo trasportato su un medium audio-visivo: una stanza accessibile al pubblico che ridona alla TELEvisione una qualità che la televisione pubblica e privata ha perso totalmente.Questo processo di democratizzazione scorre in parallelo rispetto all’evolu-zione del genere documentario. Basandosi sulla scuola inglese degli anni ‘30, prima “persone ordinarie” e poi operai negli anni ‘50, diventano protagonisti delle riprese. Solo negli anni ‘70 è stato possibile trasmettere le loro storie in televisione, fino a quando questo sviluppo è giunto alla sua fine con format popolari come “Il Grande Fratello”. Nell’arte contemporanea, questa lunga storia del genere documentario è stata riscoperta e riportata in vita, natural-mente non più accompagnata dalle vecchie utopie socialiste, bensì da nuove questioni individuate nelll’identità, nel corpo, nella multiculturalità, ecc. Responsabile di questo spostamento di interesse è lo sviluppo della tecnolo-gia che permette ad ogni individuo di comprare e utilizzare lo strumentario audio-visivo in modo da farne uno strumento che non appartiene più ad un esperto specialista o esclusivamente a coloro che possiedono denaro. La galleria prende dunque anche le funzioni di un certo tipo di cinema, essendo quest’ultimo adattatosi (esclusi pochi cinema finanziati dallo stato) al gusto del grande pubblico e lasciando il nuovo lavoro audio-visivo al mondo dell’arte. Un presupposto essenziale per il mutamento è naturalmente l’attuale tec-

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nologia, la quale rende il film indipendente dal cinema, dal proiettore e dalla stanza buia.Vale la pena aggiungere che le gallerie non rimarranno incontaminate da questi cambiamenti. Fino ad ora ambiente dell’esclusività, dell’alta cultura e accompagnata da una grande reputazione – reputazione di cui i “filmmakers” approfittano in quanto esponendo in gallerie traggono un guadagno sia da un punto di vista economico che sociale – anche la galleria sarà progressiva-mente esposta ad un processo di democratizzazione, fino a diventare spazio profano.

DAL REALISMO AL FLOW DELL’OPERA APERTA - di Luigi Fassi

Una lettura analitica del lavoro di Gianluca e Massimiliano De Serio rivela tutta la complessità del loro rapporto umanistico e formale con l’idea di realismo. Le loro prime opere sono sorte come continui tentativi di mettere in luce le vicende dimenticate di figure marginali e periferiche, appartenenti di volta in volta a differenti comunità etniche e sociali. Il focus centrale è dato dall’identità dei personaggi in questione, di cui si mostra tutta la drammatica labilità, secondo una strategia narrativa fluttuante, che ritaglia e assottiglia i profili esistenziali dei protagonisti per meglio darne evidenza. In opere come Il giorno del Santo, Maria Jesus e Mio fratello Yang la sceneggiatura è sorta come accordo tra le intenzioni degli autori e la verità esistenziale dei protagonisti in questione, posti molto vicini alla pratica recitativa di se stessi. Tale strategia poetica e narrativa pone i tre film nel solco di un realismo mimetico, inteso come rappresentazione autentica di una realtà umana, in questo caso som-mersa e sfuggente. È un realismo talmente letterale nella sua grammatica argomentativa, da rivelare una sorprendente somiglianza con le pratiche an-tropologiche proprie dell’osservazione partecipante, stile di ricerca etnografico messo a punto dall’antropologo inglese Bronislaw Malinowski negli anni Venti. All’immersione nello specifico contesto umano osservato e alla restituzione mimetica delle sue dettagliate caratteristiche e sfumature psicologiche, i De Serio hanno aggiunto un fondamentale ingrediente di empatia con i sogget-ti coinvolti, caratterizzando il loro lavoro secondo una matrice fortemente umanistica. L’esito è una galleria di ritratti ideali, sottratti all’oscurità, mediante una volontà di illuminazione empatica. Se tale atteggiamento, è in buon parte

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assimilabile alla lunga vicenda storica del realismo occidentale, tanto in ambito letterario quanto cinematografico, sono i due ultimi lavori degli artisti, Lezioni di Arabo e Ensi e Shade a mostrare una sorprendente alternativa a questo schema narrativo, rivelando tutta l’originalità del loro operato artistico. In Lezioni di Arabo la vicenda offre uno spaccato sulla vita di un bambino ara-bo-torinese, Zakaria, posto sul crinale irrisolto tra conservazione impossibile della propria origine culturale e naturale e volontà di completa assimilazione del contesto quotidiano italiano. La sceneggiatura qui risulta più ondivaga e ambigua che nei lavori precedenti, lasciando aperto un forte margine di interpretazione personale allo spettatore. Non si presenta più una vicenda apertamente drammatica, come in Maria Jesus, ma un problema culturale sfumato e irrisolto. Se il recupero della propria tradizione pone Zakaria in una situazione di imbarazzo continuo, soprattutto linguistico, nei rapporti con gli appartenenti alla propria comunità, lo svolgersi del film si chiude su una dissolvenza emblematica e interrogativa, dove Zakaria canta speditamente una complessa preghiera coranica in arabo. Si tratta di un salto temporale in avanti in cui si mostra compiuta l’integrazione culturale con la comunità araba? O solo di un recitativo a memoria, senza reale comprensione dei contenuti? I due artisti sembrano sfumare e allentare il controllo sulla vicenda sino a interromperlo. In Lezioni di Arabo, tra realismo e realtà, la seconda pare dunque più forte del primo. Questo viraggio, umanistico e stilistico, destinato a mettere vieppiù in secon-do piano la rilevanza formale della sceneggiatura, trova piena realizzazione in Ensi e Shade, in cui compaiono due giovanissimi rapper della scena metro-politana torinese. Per la prima volta i De Serio non concertano e negoziano alcuno script con i due protagonisti, ma li sollecitano a un confronto serrato suggerendo alcuni temi, in una free session di un’ora in cui Ensi e Shade, questi i loro nomi d’arte, improvvisano mostrando il meglio delle proprie possibilità espressive. Il loro fraseggio flow spazia e si articola focalizzando elementi autobiografici e riflessioni sulla vita e la morte, rimanendo sempre teso e imprevedibile. E’ un documento sorprendente e inaspettato, tanto per gli spettatori quanto per gli autori che hanno filmato una materia polifonica, ambigua e indefinita. Ensi e Shade diventa una vera opera aperta in cui il sog-getto è la realtà stessa colta nel momento del suo farsi. Nel film, le caratteri-stiche proprie dell’estetica narrativa occidentale, quali simmetria, unitarietà e finalismo, non trovano spazio, consegnandolo dunque a un’indeterminazione essenziale che diventa la sua nuova vitalità strutturale. D’altro canto, Ensi e Shade è articolato in modo tale da rispettare la regola aurea dettata dalle

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unità aristoteliche, il decorso univoco del tempo in uno spazio omogeneo, su cui si è fondato il canone classico della drammaturgia occidentale. Nell’opera infatti, in pieno accordo con tali unità formali, il tempo dell’azione è raccolto nella medesima giornata, ed essa si dipana sempre nell’identico luogo, il palco di un cinema di periferia. In questa spiazzante dialettica fra tradizione e spe-rimentalismo è da individuarsi tutta la fertilità dell’opera, che diventa quasi un “meta-video”, una riflessione cioè sulla grammatica stessa del costruire un’opera visiva in movimento, a finalità narrativa. Così l’iniziale focus realista degli artisti termina la sua azione come metodo di indagine per slittare e collimare in toto con l’irriducibile polimorfismo del reale. E’ come se gli au-tori avessero compreso l’impossibilità di trovare costantemente un accordo strategico e narrativo con le vicende esistenziali dei soggetti da loro prescelti. Da tale scacco si genera uno sguardo artistico più ampio, una processualità aperta di tipo ermeneutico, di cui il ritmo ondivago e incalzante del flow di Ensi e Shade diventa metafora perfetta. E’ un’evoluzione fondamentale che segna l’inveramento di tutto il lavoro degli artisti, in un passaggio congeniale dallo stile all’esistente, dalla formatività all’emozione.

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INTERVISTA A GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO a cura di Ilaria Gianni

ILARIA: Raccontate delle storie. Narrate storie altrui ponendovi nel ruolo di mediatori, lasciando la parola ai protagonisti. È una narrazione di vissuti. Vissuti che volete denunciare e affrontare, vissuti a cui volete far partecipare un pubblico. Che importanza ha il racconto del sé nelle vostre storie? Come utilizzate lo strumento della narrazione e come lo collocate nel sistema co-municativo odierno?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: In realtà non lasciamo semplicemente le parole al diretto interessato. Tutto è, infatti, il frutto di un incontro e di uno scambio. La sceneggiatura finale nasce dunque dall’insieme della nostra sce-neggiatura - lasciata il più possibile aperta e fragile - e dal vissuto dei perso-naggi. In questo processo di co-scrittura il racconto è fondamentale, tanto che ogni film è preceduto, nel nostro lavoro di preparazione, della sceneggiatura e dello story-board, dalla registrazione video del racconto del protagonista. Abbiamo ore di materiale girato in forma di intervista-racconto che utilizzia-mo per la sceneggiatura. Lo strumento del racconto lo usiamo come base di partenza, su cui le immagini e il suono agiscono come punti di sutura, una

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Maria Jesus, 2003 / still da film, 35 mm

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cicatrice o un ricamo: Maria Jesus cuce all’interno dei suoi pantaloni, prima del suo viaggio clandestino verso l’Europa, dei numeri di telefono che, anche se non è svelato nel “racconto tout-court” del film, serviranno a salvarla al suo arrivo in Italia. Il racconto non è svelato, ma pulsa nel tempo del film, ininterrottamente.

ILARIA: I vostri lavori trasmettono un valore politico e sociale. La nostra società tende ad affrontare il “generale”, al contrario voi ponete lo spettatore davanti al caso specifico, davanti a “la situazione”. La nozione di politico mi sembra ipostatizzarsi in un singolo che lo rappresenti, rendendosi quindi un concetto primariamente sociale e di coscienza. Questo riflette un vostro “posizionamento” in prima persona all’interno della problematica trattata?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Il cinema e l’arte sono sempre “in prima persona”. Non facciamo altro che parlare di noi stessi.Il nostro “posizionamento” coincide con il film. Il politico non esiste se non nelle azioni e nei vissuti, e il mezzo audiovisivo è capace di restituirne i gesti, ovvero l’essenza, coniugando in maniera alchemica e misteriosa particolarità e universalità. Quello che facciamo, in fin dei conti, non è altro che riportare questi gesti in superficie, restituirgli importanza e valore.

ILARIA: Sono quindi le piccole azioni quotidiane ad interessarvi più dei grandi eventi...

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Per esempio Il giorno del santo, è stato scritto dopo la tragedia di qualche anno fa in cui morirono molti curdi non lontano dalle coste italiane, durante un viaggio clandestino. Ma è sempre l’incontro, non tanto con l’evento, quanto piuttosto con la persona e la sua storia che ci permette di fare andata e ritorno dal singolo alla collettività. Inoltre il rap-porto individuo-collettività è molto più forte quando si parla di individui e comunità di immigrati. Quando abbiamo girato Maria Jesus, abbiamo coin-volto all’ultimo momento un gruppo di ragazze peruviane per una scena ed è capitata una cosa interessante e significativa. Maria Jesus e le altre ragazze non si conoscevano fra di loro, dunque abbiamo chiesto loro di presentarsi e di raccontarsi la loro vita, la loro famiglia, il loro viaggio. Abbiamo registrato tutto con il microfono oltre che con la 35mm distante e discreta. In fase di montaggio abbiamo lasciato molti di questi pezzi che sono realtà, memoria, racconto. La cosa più sorprendente è invece che molte delle storie che veni-vano raccontate, si assomigliavano. Noi ne avevamo incontrata una, quella di Maria. Il titolo del film appare solo quando uno dei responsabili dei trafficanti di immigrati chiama da un fuori campo “Maria Jesus!”, scelta perché è arrivato il turno del suo viaggio.

Zakaria, 2005 / still da film 35 mm - cinemascope

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ILARIA: Noi esistiamo anche grazie alle nostre storie... se non venissero rac-contate e preservate forse non esisteremmo. C’è sempre una versione uf-ficiale, ma l’esistenza individuale è data dalla nostra singola storia orale, dalla nostra mitologia. Che valore attribuite alla memoria?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: La memoria è la chiave che muove il pro-cesso della nostra messa in scena. E’ attraverso di essa che cominciamo a lavorare con i protagonisti delle storie che raccontiamo. Quello che chie-diamo è sempre innanzitutto di ricordarsi un fatto, poi un dialogo, poi un gesto... Crediamo fortemente nel valore narrativo della memoria, ma anche alla sua forza catartica, tanto che a volte, il piano della memoria e quello del racconto si accavallano e si confondono, come nel finale di Maria Jesus. Quan-do la protagonista si ricorda del dramma che le è accaduto, in quello stesso momento lo sta rivivendo davanti alla macchina da presa e così lo esorcizza condividendolo con la troupe. La memoria, tuttavia, è anche il dispositivo che interviene a livello formale. Fissare nella memoria di uno spettatore un volto di una persona non è facile. In questo modo un piano sequenza diventa ne-cessario per aprire la strada di quel volto allo spettatore, consegnarlo al suo immaginario. E alla sua memoria.

ILARIA: Quanto è importante la dimensione dell’ascolto nel vostro lavoro?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: È molto importante. I film nascono da in-contri, cercati o accaduti per caso, che si trasformano in amicizie, frequen-tazioni, in cui l’ascolto non è a senso unico, ma un vero e proprio scambio. Per esempio in Lezioni di Arabo/Zakaria non solo abbiamo osservato Zakaria e ci siamo fatti guidare nel suo mondo, ma lui stesso ha capito che doveva rendersi partecipe delle nostre intenzioni: ha visto gli altri film, ha discusso con noi di cinema, ha partecipato alla scrittura del film. E come lui anche Serena, Yang, Maria Jesus... L’ascolto è un metodo, di cui cerchiamo di lasciare traccia nell’aspetto formale del film, aperto come un libro di domande, come un libro di preghiere.

ILARIA: Nei vostri lavori avete usato più possibilità narrative di associazione, di evocazione e di decostruzione per raggiungere un livello percettivo che coinvolgesse sia la sfera emotiva che quella razionale. Una tensione emotiva e concettuale, risultato di un’esperienza estetica che nasce anche dalla visua-lizzazione delle immagini. Quanto è importante lavorare con l’immagine in movimento per riuscire a veicolare una storia o un vissuto?

Zakaria, 2005 / still da film 35 mm - cinemascope

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18Zakaria, 2005 / still da film

35 mm - cinemascope

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Quello che cerchiamo di fare non è solo veicolare una storia ed un vissuto, ma costruire e restituire un immaginario “visibile”, che attinge da storie e vissuti “invisibili”. L’immagine in movimento sonora è la forma perfetta per dare volto, gesti, parole ed emozioni a queste storie. O viceversa.

ILARIA: Un racconto scritto è meno evocativo di un film? O meglio rende meno l’idea di quello che si vuole comunicare?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: No, un racconto scritto è più evocativo. Il massimo è quando un film arriva ad ottenere la stessa capacità evocativa di un racconto scritto. Vuol dire che l’immagine ha raggiunto la stessa apertura, ieraticità, corposità della parola. Il movimento nel cinema è il movimento della parola, sinonimo di vita e umanità. Anche quando è muta... In mezzo al film Lezioni di arabo per un lungo tempo abbiamo inquadrato il Corano aperto, mentre l’Imam racconta a Zakaria/spettatore l’origine del testo e della religione musulmana. Tutto Zakaria è un viaggio nella parola e nel linguaggio. In Mio fratello Yang le “non-risposte” di Bing raccontano tutto il dramma che l’ “attrice” si porta dietro, come degli spazi vuoti in una pagina scritta, le luci a tratti in un tunnel. In Ensi e Shade i due protagonisti si raccontano le loro vite a colpi di frasi rimate e ritmate, come in una scrittura in fieri.Sono tutti tentativi, forse impossibili, di raggiungere questa capacità evoca-tiva.

ILARIA: Il linguaggio è quindi usato come testimonianza, come confronto, come tentativo di riappropriarsi della propria identità e come confessione. La parola, nei vostri lavori, assume lo stesso valore dell’immagine, se non addi-rittura tende a superarla. Sono poche le occasioni di assistere a video in cui l’udito gioca un ruolo così fondamentale. Che tipo di evoluzione ha subito il modo di lavorare e intendere il linguaggio nel vostro lavoro? Secondo voi la parola è più veritiera dell’immagine? Forse l’immagine può tradire più della parola?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Il linguaggio è l’umano. Parte tutto dal lin-guaggio, come conseguenza di uno spirito di sopravvivenza, di adattamento, di vita. Nei nostri film il linguaggio è la base: è espressione, denuncia, confessione, è dialogo, è incontro. È musica, è religiosità, è una preghiera. È una parola d’ordine, ma è anche un canto. È veicolo di conoscenza, di scoperta, da parte nostra, dei personaggi del film e delle persone che li interpretano. È mistero, perché è banale ed essenziale, ma anche emblematico e senza risposte: “non

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20Mio Fratello Yang 2004 / still da film, 35 mm 21

mi hai più detto come sei arrivata in Italia...”, o “Quanti anni hai?”, domanda Yang alla sua “nuova sorella”, senza ottenere risposte. Nei film il linguaggio ac-compagna il personaggio e l’immagine e la riflette, ne sottolinea il suo/nostro tentativo di raggiungere la dignità e la bellezza: il montaggio frammentato, i dettagli del corpo di Maria che cuce o di Zakaria di spalle che ascolta la sua lezione di arabo, il taxi che scandisce nomi e strade di vie e di piazze scono-sciute si compongono gradualmente nell’integrità del primo piano lungo o del campo lungo della preghiera sul tappeto della moschea. Il linguaggio gioca il ruolo realistico e visionario del cinema: diventa prima suono (in Maria Jesus, per esempio) o canto-preghiera (in Lezioni di Arabo), poi scritta, iscrizione, parola. È il testo del Corano che sottolinea la necessità di credere nell’Invisibile, oppure il cartello: “Maria Jesus attende di essere regolarizzata. Lavora come badante a Torino”. Il linguaggio diventa la persona, e viceversa: è la catarsi, la liberazione del dramma che passa attraverso una denuncia, un obiettivo raggiunto, o semplicemente il coraggio di re-interpretarlo. Per questo motivo forse il momento del “linguaggio” è creato a partire dal silenzio di un’attesa, dai rumori che avvolgono i visi, disorientandoli: un radio-taxi, la città ovattata al di là dei vetri di una finestra, o i clacson e il traffico urbano inghiottiti dal sifone di una vasca da bagno. Il linguaggio è dunque anche contraddittorio, un passaggio obbligato per il cambiamento del personaggio: diventa un insieme di parole legate al mercato, al prezzo e al nome delle cose, ad un’identità effimera, un elenco di strade sconosciute...

ILARIA: Mi ricordo una conversazione tra Liam Gillick e Laurence Weiner, in cui si diceva che una delle cose più difficili è proprio porsi nelle vesti di osservatori. Nei vostri lavori c’è un’osservazione multipla, più punti di vista che si incrociano: il vostro sguardo nei confronti del soggetto, di quest’ultimo verso se stesso e verso di voi e quello dello spettatore nei confronti della vostro codice di comunicazione ed elaborazione. Parlo di film come Il Giorno del Santo (2002), Maria Jesus (2003), Mio Fratello Yang (2004). Da osservatori e da osservati, secondo voi, quale meccanismo subentra nell’osservazione e nella conseguente interpretazione?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Non ci poniamo nelle vesti di osservatori. Lo siamo, come tutti. Osservare è una delle cose più naturali e più semplici.Come fra noi due, che siamo abituati a osservarci a vicenda, i nostri perso-naggi osservano se stessi e si cercano. Spesso restano soli davanti allo spec-chio, o uno di fronte all’altro, si imitano, si ripetono nei gesti... Siamo tutti alla ricerca di noi stessi. Tuttavia il nostro sguardo (nostro, di Yang, dello spettatore...) non è mai di-retto, ma c’è sempre qualche spigolo che lo dirige più in là, verso ciò che sta dietro, verso i confini dell’identità, dell’anima...

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ILARIA: C’è qualcosa di autobiografico nel vostro lavoro?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Nel nostro lavoro uno dei temi centrali è l’identità. In quanto gemelli, al di fuori di ogni stereotipo, è un tema che ci sta molto a cuore e che ha segnato tutti i nostri percorsi di crescita. Sia nelle scelte di vita che professionali. Tra di noi regna la confusione esistenziale. Sen-za scherzi. Siamo complementari e potremmo chiamarci con lo stesso nome. Nel film Zakaria il protagonista dice all’altro ragazzino più piccolo di lui: “Pia-cere, sono Zakaria”, e l’altro risponde: “Anche io sono Zakaria”. La coppia (maestra-allievo, ragazzo-ragazzo, trafficante-immigrata, fratello-sorella) è al centro dei rapporti di forza dei personaggi e ne permette l’esplicazione. Si può dire che i personaggi, sebbene avvolti da solitudine, siano anche forti per-ché appartenenti a una comunità, o ad un rapporto con l’altro. Essi si relazio-nano con l’altro ma restano spesso bloccati nelle contraddizioni culturali. In-terpretano i loro drammi attualizzandone il riscatto. Per noi fare film è anche mettere in gioco la nostra stessa personalità, è un modo di dialogare tra noi. Le corrispondenze tra noi sono maggiori delle divergenze, certamente. Lavo-rare insieme ci permette di non essere mai soli nelle scelte, di confrontarci, di non ricordarci a chi è venuta questa o quell’idea, di litigare molto e discutere

Mio Fratello Yang 2004 / still da film, 35 mm

prima del tournage, ma di arrivare sul set pronti ad accogliere i suggerimenti di tutti e a lavorare tenendo bene a mente le cose decise tra noi.

ILARIA: Come spiegate l’attenzione da parte delle istituzioni artistiche nei confronti del vostro lavoro? Come vi siete sentiti quando per la prima volta siete stati invitati a una mostra e avete visto un vostro film proiettato in una sala museale?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: La prima sensazione è stata di spaesamento, frammentazione, dispersione, tuttavia abbiamo presto capito che una visione fluttuante dei nostri lavori permette un nuovo sguardo sui gesti, sui corpi, sulle singole parole. Dona loro una nuova forza, inaspettata, un’universalità meno legata alla narrazione e più al dettaglio. In una certa maniera, lo spet-tatore è cosi portato a viaggiare da una storia all’altra, a migrare in diverse identità. Proprio come i nostri protagonisti.

ILARIA: In un’era in cui si parla di interazione, di sovrapposizioni di discipline, in cui vige l’indistinzione, ha senso, a vostro parere, parlare di un’effettiva differenza tra arte e cinema?

23Il Giorno del Santo, 2002 / still da film, 35 mm

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Il Giorno del Santo, 2002 / still da film, 35 mm

Ensi e Shade, 2006, still da video, DV

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Probabilmente no. In entrambi gli ambienti si trova un’apertura che ci premette di “sforare”. Ma anche chiusura e pre-giudizi: «questo è cinema “indipendente”, non è arte, questo è cinema “da esposizione”, non è facile proporlo ad un pubblico da cinema etc etc...». Ma alla fine tutto funziona dappertutto. Le differenze ci sono sicuramente, ma bisogna sempre vedere quali sono gli obiettivi che ci si prefigge. Per noi non ha importanza esporre in una galleria piuttosto che in occasione di un festival, l’importante è che il film venga visto. Pensiamo che il cinema, inteso come “processo” e come “lavoro”, abbia il fascino dell’azione collettiva che manca un po’ nell’intimismo dell’arte, anche se ormai i confini non esistono e si possono fare film con pochi soldi e una piccolissima troupe (se non da soli) e opere d’arte che richiedono la presenza e la competenza di strumenti, linguaggi e persone più numerosi di una troupe cinematografica. Le cose più forti crediamo siano comunque quelle slegate da schemi produttivi e alternative al sistema. Quello che conta, alla fine, è il rigore delle proprie scel-te artistiche e etiche. Abbiamo avuto modo di partecipare a diversi festival internazionali di cinema, e i più importanti sono di solito i più aperti a questa sovrapposizione tra cinema, documentario, video arte, cinema sperimentale, ecc. (Rotterdam, Oberhausen, Stuttgart, ecc.).

ILARIA: La video arte è passata dalla documentazione di performance a vei-colo di informazione e strumento di denuncia sociale nell’opera di molti artisti. C’è stata infatti ultimamente la tendenza a lavorare all’interno di quel-le che chiamerei “strutture documentarie”. Cercando di far fronte ad una mancanza di cultura e “posizionamento” sociale, alcuni artisti hanno voluto dimostrare la loro capacità di documentare o riflettere su qualcosa che altri-menti sarebbe rimasta ignorata o sottovalutata. Voi come vi ponete davanti a questa tendenza?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Per noi la riflessione su realtà altrimenti ignorate non vuole essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza per poi parlare di paradossi dell’animo e più in generale di identità. È la forma che determina l’aspetto politico di un’opera, mai il suo contenuto.

ILARIA: Secondo voi, l’arte ha il potere di cambiare qualcosa? L’artista può porsi in ruolo antagonista rispetto al sistema culturale dominante?

GIANLUCA e MASSIMILIANO: Non abbiamo la presunzione di fare dei film per cambiare il mondo, ma neanche per non cambiarlo. Semplicemente (ci) poniamo delle domande.

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ENGLISH VERSION

INTRODUCTION

THE KEY TO MEMORY - by Ilaria Gianni

The second appointment of “Step in step out”, continues in the analysis of what has been defined art after film, presenting the work of Gianluca and Massimiliano De Serio. The artist’s short films link a research on the cinematic language to a real confrontation with the protagonists and the stories narrated by them. The subjects of the film, often based on the theme of immigration, social integration and more in general research of identity in the contemporary society, are narrated in a way that can be defined du reél. This last definition, often synonymous of documentary, in the De Serio brothers’ cine-ma, concerns their methodology of reconstruction of reality: examples of real stories of eradication, hopelessness, isolation, solitude, exploitation, of loss of reference and will to search for one selves personality and roots. It is memory that moves the process of the mise en scéne of the artists. It’s thanks to the remembrance of a word, a gesture or an action that the films by the De Serio’ s generate themselves. While working with the protagonists they try to make an in-visible, or ignored reality emerge. It’s a kind of cinema that is not only interested in traces but especially in the witnesses, whose fragile memory is still alive. The story is a sentimental exploration of the past and an instrument for its social accusation and personal recollection.More and more often those that are defined “documentary structures” have entered the contemporary art scene. If the film camera once served as documentation of an artistic performance, it is now used as a vehicle for information and instrument of social protest. Trying to address a lack of personal positioning artists have sought to prove their ability to document or reflect upon something that would otherwise be ignored or underestimated. Thanks to the possibility of the use of new technologies used by more and more peo-ple, Zavattini’s dream of the tailing of the real and of a cinema of everyone for everyone, comes to life. None the less it is also true that one has to know how to look at what is going on and know how to speak with images. In the work of the De Serios’ – circulated in film festivals as well as in contemporary art museums and galleries – a deep consciousness of the aesthetical and evocative value of the filmic image as well as an extreme consciousness and knowledge of the film langua-ge is present. We are wittnesses of an aesthetical programme besides an ethical one.They look at the art/film world with ability and will, and as a “necessity” for the expo-

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WAYS TO SEE, WAYS TO LOOK - by Angela Haardt

Gianluca and Massimiliano De Serio have started out making films in their surrounding environment. These are documentary-style portraits of individuals, like thousands one might pass in the street without knowing anything about their history or their life. They are fictional narratives set against a background of current political discussions. Events or statistics that we can read about almost every day in our newspapers, become the experiences of an individual in the film. The linear narration remains fragmented (only in the case of Maria Jesus, we can recognize to some extent the motivation behind her behaviour).The stories present one moment in the life of the protagonist, however a decisive one, without letting the viewers know anything of the before and after.The films thus resemble photographs of a moment frozen in a short time span. A tran-sient moment that is in which the familiar and reassuring structures of action and per-ception have lost all validity, and in which identity must be assessed anew. A moment pregnant with great solitude, even or especially when other figures enter the scene and act in the film. Only the last film Zakaria talks about a new identity – alongside the old one – as a learning process.While this is neither the place nor the time to deepen the cinematographic analysis, it is however necessary to highlight specific moments that distinguish cinematographic perception from perception in an art gallery. In cinema, narration is in the foreground, almost inevitably when it is more or less linear. The story (literary aspect) is impregna-ted by the images (visual aspect), their arrangement and their sensuality give the story the emotional temperature.

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sure of an idea. A common attitude exists: that of documentary as an intimate moral choice made by the director2. What results is a documentaristic approach which is ethical and poetical at the same time.That of the De Serio is a real creative treatment of reality as defined by Grierson2: a work based essentially on a “truth”, which on the path of documentation encounters that of poetry.

1Della Casa, Stefano, La nuova stagione del documentario italiano, in AA.VV., A proposito del film documentario. Annali I,

Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Rome, 1998, p. 68-762Guy Gauthier, Le documentaire, un autre cinéma, Nathan, Paris, 1995

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When films are screened in an art gallery, especially narrative-based films, the concept of perception changes radically, since only rarely does a viewer follow the screening from start to finish. Indeed, the viewer often arrives at a random moment and his/her attention is drawn not to the narration but to the faces, the physical and sensual appea-rance of the human body, drawn to the fluidity of the images, their colours and rhythms and to the objects surrounding the protagonist.This kind of perception has often been an endevour in experimental film since the 1950s. It is only now - and thanks to the growing interest of the art scene - recognized by a broader audience, in the context of cinema experimental film has always been followed solely by a small, exclusive public.Freedom from narration brings with it, in the perceptual process, the emergence of different and equally valid possibilities of readings. In the case of the cinematography of the De Serios, i.e. the portrait. We see in all the films close-ups of faces. The surroun-ding events could be read like a painted portrait, with its additional accessories to lead interpretation in the right direction. There is thus an exchange between the painting (respectively the film) and the viewer, based on his/her cultural horizon. In this way, for example, a Medieval viewer could decipher and contextualize a painted portrait of the times thanks to his/her knowledge of the Bible and the symbolism of plants and animals present in the painting. The same also holds here, when an informed viewer can feel and contextualize the situation of the protagonists (4 films - 4 foreign languages! The subtitles decode the unknown) based on the knowledge of the immigrants’ situation. Perception thus beco-mes a double-sided process: learning from the information given by the film as well as layering the film with the information one has already.One could now define this differentiation as a hair-splitting distinction, but that would be a mistake. The cinema, the black box, needs total immersion by the viewer into the over-sized events on the screen, from which the viewer can only re-emerge and find her/himself when the lights come back on. The gallery, the white cube, instead does not stop the flow of awareness constantly present in the person. Viewers are continually provoked by their subjective perceptions, causing a mental movement that oscillates between perception and processing.With Ensi and Shade the De Serios’ exit the realm of the fictional and cross the divide to performative installation. The part of cinematography is reduced to three changes in camera angle and lens: from wide shot to american until the audience is confronted with the face of the respective performer in a close up.The performative aspect is accentuated as the two protagonists are situated on a stage in front of an empty auditorium. The movie camera views the protagonist from back-stage thus constructing a second auditorium, to which those depicted refer. The narrative element has withdrawn into the word, the language, the verbal sparring, the TEXT; and we, as viewers, have all the leasure to indulge into the physical presence, into the appearance of the bodies.The interest by galleries in documentary work (the narrative aspects of which are,

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today, quite often underlined) or documentary fiction, has been enhanced by the in-clusion of photography in the art sphere. The criss-crossing between the media is one of the important features of the arts today. As an example I want to mention Fiona Tan’s work, Counteance, (a 16mm film) - a typology of Eastern and Western Germans which was caused by her experience when seeing August Sanders’ photographic series of working men. Also noteworthy is Kutlug Ataman, whose video interviews would ruin any film event, given their length. Thus, for example, the last work presented at Documenta 11, The four seasons of Veronica Read, (four screens mounted in a square, showing interviews on the individual sections about the cultivation of Amaryllis Hippeastrum, conducted with Veronica Read) or a subsequent work Küba, which presents on 40 monitors interviews with inhabitants of an Istanbul neighbourhood that gives the documentary its name. The gallery is transformed into a room for visual-auditory perceptions in which one can gain individual knowledge of people usually inaccessible to us. It could be compa-red with a reading cabinet (from the 18th century) moved to an audio-visual medium, a room accessible to the public, that restores to TELEvision a quality that public or private television has completely lost.This democratization process can be followed via the development of the documen-tary film. Based on the British school of the 1930s, “simple people” and then labourers in the 1950s became protagonists of documentary films. It wasn’t until the 70s that it became possible to broadcast their stories on television, where this development came to its end with plebeian shows such as “Big Brother.” In contemporary art this long history of documentary work is now discovered and made up for, obviously no longer accompanied by the old socialist utopias, but instead by new questions about identity, the body, multicultural diversity, etc.Technological development is responsible for this shift of interest, as it allows each individual to purchase and use the audio-visual instruments. They do not any longer belong to the experts or money owners.The gallery thus also takes on the functions of a specific kind of cinema, as the latter has adapted (aside from a few state funded cinemas) to the taste of the public at large and leaves the new audio-visual works to the art field.One essential prerequisite for the shift is of course the current technology, which makes the film independent of a movie theatre, of the projector and the black box.It is worth adding that the gallery will not remain uncontaminated by these changes. Until now bedded in a setting of exclusiveness, high culture and a good reputation in today’s society - of which “filmmakers” are taking advantage, since they gain both eco-nomically and socially by exhibiting in galleries - the gallery will also be democratized.It will become more profane.

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FROM REALISM TO THE FLOW OF OPEN WORK - by Luigi Fassi

An analytical reading of the work of Gianluca and Massimiliano De Serio reveals the full complexity of their humanistic and formal relationship with the idea of realism. Their early works emerged as constant attempts to bring to light the forgotten vicissitudes of marginal and peripheral figures, from time to time belonging to different ethnic and social communities. The central focus is on the identity of the characters in question, of which they show the full dramatic instability using a fluctuating narrative strategy, that trims and compresses the existential profiles of the protagonists to provide better evidence. In works such as The Day of the Saint, Maria Jesus and My Brother Yang, the screenplay arose as an agreement between the intentions of the authors and the exi-stential truth of the protagonists in question, placed very close to the practical acting of themselves. This poetic and narrative strategy places the three films in the class of a mimetic realism as authentic representation of a human reality, in this case submerged and elusive. It is a realism so literal in its argumentative grammar that it reveals a sur-prising resemblance to the anthropological practices inherent in participant observation, a style of ethnographic research developed by the British anthropologist Bronislaw Malinowski in the 1920s. To immersion in a specific observed human context and the mimetic and detailed reporting of its characteristics and psychological nuances, the De Serios have added an essential ingredient of empathy with the subjects involved, cha-racterizing their work within a strongly humanistic matrix. The result is a gallery of ideal portraits removed from obscurity by a desire of empathic illumination. While this atti-tude may largely be assimilated with the long history of western realism, both literary and cinematographic, the two most recent works by the artists, Arabic Class and Ensi and Shade show a surprising alternative to this narrative scheme, revealing the full ori-ginality of their artistic production. In Arabic Class, the event offers a glimpse of the exi-stence of an Arab-Turinese child, Zakaria, who lives on the unresolved edge between the impossible preservation of his cultural origins and the natural desire to be fully assimilated into the everyday Italian context. The screenplay here is more fluctuating and ambiguous than in previous work, leaving a wide margin of personal interpretation by the viewer. There is no longer an openly dramatic event, as in Maria Jesus, but a nuanced and unresolved cultural problem. While recovering his traditions places Zaka-ria in a situation of continuous embarrassment, especially linguistic, in relation to those who belong to his community, the film closes on an emblematic, questioning dissolve, where Zakaria quickly sings a complex Koran prayer in Arabic. Is this a jump forward in time, showing complete cultural integration with the Arab community? Or simply a re-citation from memory, without any real understanding of the content? The two artists seem to blur and loosen their control over the situation until they interrupt it. In Arabic Class, between realism and reality, the latter seems stronger than the former.This humanistic and stylistic pirouette, which certainly pushes the formal significance of the screenplay into the background, is fully realized in Ensi and Shade, starring two very young rappers of the Turin urban scene. For the first time the De Serios’ did not

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agree upon or negotiate any script with the two protagonists, but urged them to a close confrontation by suggesting a few topics, in a free session of one hour in which Ensi and Shade (their stage names) improvise, showing off the best of their expressive capabilities. Their flow phrasing focuses on autobiographical elements and ideas on life and death, while always remaining tense and unpredictable. It is a surprising and unexpected document, both for the viewers and the authors alike, who had filmed a polyphonic, ambiguous and undefined subject. Ensi and Shade becomes a truly open work in which the subject is reality itself, captured while it is in the making. In the film, the typical characteristics of western narrative aesthetics such as symmetry, unity and finality go missing, leaving it to an essential indeterminacy that becomes its new structu-ral vitality. On the other hand, Ensi and Shade is structured so as to uphold the golden rule dictated by the Aristotelian units, the single unravelling of time in a homogeneous space, on which is established the classic canon of western dramaturgy. In the film, in full accordance with such formal units, the action time all took place on the same day, and always in the identical place, the stage of a suburban cinema. In this disarming dialectic between tradition and experimentalism we can see the full fertility of the work, which becomes almost a “meta-video,” thus a reflection on the very grammer of making a moving visual work for narrative ends.Thus the initial realist focus of the artists terminates its action as a method of investi-gation, to slide and become whole with the irreducible polyform nature of reality. It is as though the authors understood the impossibility of constantly coming to a strategic and narrative agreement with the existential experiences of their chosen subjects. This checkmate leads to a broader artistic gaze, an open hermeneutic process, of which the fluctuating and urgent rhythm of the flow of Ensi and Shade becomes a perfect me-taphor. It is a fundamental evolution that marks the realization of all of the artists’ work, in a congenial passage from style to existence, from formation to emotion.

INTERVIEW WITH GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO - by Ilaria Gianni

ILARIA: You tell stories. You mediate the stories of others, leaving the interested party to speak. It is a narration of real-life stories that you would like to make known, for an audience to participate to and to face. Of what importance is self-narrative in your stories? How do you use the instrument of narration and where do you place it in the everyday system of communication?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: In truth, we don’t just simply leave the interested party speak. Everything is, in fact, the result of an encounter and an exchange. The final film-script is born from the fusion of our script, which is left in its most open and fragile state possible, and the stories of the people involved. In this co-writing process the nar-rative is of fundamental importance to the point that every film is preceded by, along

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with our preparatory work of the film-script and creation of the storyboard, the video-recording of the protagonist’s narrative. We have hours of material shot in the form of narrative-interview which we use to compose the film-script. We use the narrative as a point of departure upon which the images and sounds act as stitches, so to speak, of a scar or an embroidery: Maria Jesus, before clandestinely escaping to Europe, sews telephone numbers on the inside of her pants which, even though it is not revealed in the simple narrative of the film, will save her upon her arrival in Italy. The story is not revealed, yet it pulsates within the rhythm of the film without interruption.

ILARIA: Your work transmits political and social value. While our society always deals with the “general,” you place the viewer in front of a specific instance, before “the situation”. The protagonists of your films talk about their experience in the first person. The political seems the result of a view of a person who represents “the political,” a social politics of conscience. Does this reflect your “personal position” within the problem addressed?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: Cinema and art are always “personal”. All we do is talk about ourselves.Our “position” matches that of the film. The political does not exist except within actions and experiences, and the audiovisual medium can restore its gestures, thus its essence, combining the particular and the uni-versal through a mysterious alchemical process. What we do, essentially, is simply bring these gestures to the surface, restoring their importance and value.

ILARIA: So it is the smaller everyday happenings which interest you more than larger occurrences...

GIANLUCA and MASSIMILIANO: For example The Day of the Saint was written after the tragedy, a year or so ago, in which many Kurds died not too far from the Italian shores during a clandestine escape. However it is always the encounter with the per-son and their story, and not so much the event, which allows us a “roundtrip” from the individual to the collective consciousness. Furthermore, the relationship between the individual and the collective consciousness is much stronger when one refers to individuals and communities of immigrants. When we filmed Maria Jesus, at the last minute we decided to incorporate a group of Peruvian girls into one of the scenes. An interesting and important thing happened. Maria Jesus and the other girls did not know each other, but we asked them to introduce themselves and to tell about their lives, their families, and their trip. We recorded everything with a microphone and in parts with the 35mm lens, which is distant and discreet. During the editing phase, we chose to include many of these parts which are reality, memories, narrative. The most surprising element is that many of the stories that were told were similar. We had encountered one story, Maria’s. The film title only appears when the person in charge

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of trafficking the immigrants calls from off-camera: “Maria Jesus!”, who has been chosen because it is her turn to embark on her trip.

ILARIA: We exist also thanks to our stories... if they were not told and preserved we would not exist. There is always an official version, but individual existence comes from our individual oral history, our mythology. What value do you assign to memory?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: Memory is the key that moves the process of our mise-en-scéne. It is through memory that we begin working with the protagonists of the stories we tell. What we ask is always first of all that they recall a fact, then a dialogue, then a gesture... We strongly believe in the narrative value of memory, but also in its cathartic power, to the point where at times the level of memory and that of the story overlap and blur, as at the end of Maria Jesus. When the protagonist remembers the drama that has happened to her, at that very moment she is re-experiencing it in front of the camera, and thus exorcising it by sharing it with the troupe. However, memory is also the device that intervenes at the formal level. It is not easy to fix a person’s face in someone’s memory. Thus a sequence shot becomes neces-sary to open the way to that face for the viewer, give it to his/her imagination. And to memory.

ILARIA: How important is the dimension of listening in your work?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: It is very important. Film are born of meetings, deliberate or accidental, that become friendships, acquaintanceships, where listening is not one-way, but a real exchange. For example, in Arabic Class/Zakaria, not only did we observe Zakaria and let him lead us through his world, but he himself understood that he had to enter into our intentions: he saw the other films, he talked about cinema with us, he helped write the film. It was the same for Serena, Yang, Mary Jesus... Listening is a method, of which we try to leave a trace in the formal aspect of the film, open like a book of questions, like a book of prayers.

ILARIA: In your work you have used multiple narrative modes of association, evocation and deconstruction to achieve a perceptive level that involves both the emotional and rational spheres. An emotional and conceptual tension, the result of an aesthetic expe-rience born of visualized images. How important is it to work with the moving image as the vehicle for a story or experience?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: What we are trying to do is not just carry a story and an experience, but construct and restore a “visible” imagery that draws on “invisi-ble” stories and experiences. The moving image with sound is the perfect form to give a face, gestures, words and emotions to these stories. Or vice-versa.

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ILARIA: Is a written story less evocative than a film? Or does it not render as well the idea of what you want to communicate?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: No, a written story is more evocative. The best is when a film manages to achieve the same evocative capacity as a written story. I mean that the image has achieved the same openness, solemnity, substantiality of the word. Movement in cinema is the movement of the word, synonymous with life and humanity. Even when it is mute... In the middle of the film Arabic Class we focused on the open Koran for a long time, while the Imam tells Zakaria/viewer the origin of the text and the Muslim religion. Zakaria is all a journey into the word and language. In My Brother Yang, the “non-responses” of Bing tell the entire drama that the “actress” carries with her, like the empty spaces in a written page, the banks of lights in a tun-nel. In Ensi and Shade, the two protagonists tell each other about their lives in bursts of rhyming, rhythmic phrases, like a writing in progress.These are all attempts, perhaps impossible, to achieve this evocative capacity.

ILARIA: Language is therefore used as a testimonial of experiences, as a comparison, as a password to search for ones identity and as a confession. The spoken word acquires the same value as the image in your works, if it indeed does not surpass it. It is quite rare to find a mainly visual work in which the sense of hearing plays such a fundamental role. What type of evolution has your method of handling and understanding language undergone throughout the course of your work? Can the image deceive where langua-ge cannot? In your opinion, is language more truthful than imagery?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: Language embodies humanity. Everything starts from language, as a consequence of a spirit of survival, of adaptation, of life. In our films, language is the base: it is expression, an accusation, a confession; it is a dialogue, an encounter. It is music, religion; it is a prayer. It is a command, but it is also a chant. It is a vehicle of knowledge and discovery on our part, that of the film’s characters as well as those people who interpret those characters. It is mystery because it is common and essential, but it is also emblematic and without answers: “you still haven’t told me how you arrived in Italy....,” or “How old are you?” Yang asks her “new sister”, without obtaining a response. In films, language accompanies the character and the image and it reflects them; it underlines their/our attempt to reach dignity and beauty: the fragmented editing, the close-ups of Maria’s body as she sews or of Zakaria’s shoulders as he listens to his Arab lesson, the taxi which scans names of unknown streets and squares, these all gradually compose the entirety of the long-held close-up shot or of the wide view of the prayer on the mosque’s carpet. Language plays a realistic and visionary role in cinema: it first becomes a sound (in Maria Jesus, for example) or a prayer-chant (as in Arabic Class)

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then it is written, an inscription, a word. It is the text of the Koran which underlines the necessity of believing in the Invisible, or the sign: “Maria Jesus is waiting to be naturali-zed. She works as a caretaker in Turin.” Language becomes the person and vice-versa: it is the catharsis, the liberation of the drama which passes through an accusation, a rea-ched goal, or it is simply the courage to reinterpret the goal. It is perhaps for this reason that language’s “moment” is created by starting from the silence of a period of waiting, from the sounds which surround faces, thus disorienting them: a taxi, the sounds of the city muffled by the glass of a window, or of car horns and city traffic stifled by a bathtub drain. Language is therefore also a contradiction, it is a necessary path for the evolution of the character : it becomes a mixture of words tied to the marketplace, to the prices and names of things, to an ephemeral identity, a list of unfamiliar streets....

ILARIA: I remember a conversation between Liam Gillick and Laurence Weiner in which they said that one of the most difficult situations is the one of observation. In your films there is a criss-crossing and stratification of observation and points of view: your glance towards the protagonist, the latter towards him/herself and towards you, and the viewer towards your way of communicating what you have heard and obser-ved. I am talking about films such as The day of the Saint (2002), Maria Jesus (2003), My Brother Yang (2004). As observers and the observed, what mechanism do you think comes into play in the process of the gaze and its subsequent interpretation?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: We don’t put ourselves in the role of observers. We just are, like everyone else. Observing is one of the most natural and simplest things there is.Just as between us, used to watching each other, our characters observe themselves and seek themselves out. Often they are alone in front of a mirror, or in front of each other, they imitate each other, repeat their gestures... We are all looking for ourselves. However our gaze (ours, Yang’s, the viewer’s...) is never direct, but there is always some edge that directs it further, towards what is behind towards the boundaries of identity, of the soul...

ILARIA: Is there an autobiographical element present in your work?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: One of the central themes in our work is the issue of identity. Since we are twins, aside from the common stereotypes, it is a theme which is close to our hearts and which has followed us throughout all of our “growing up” and which now, more than ever continues to be present in our lives, both in our life choices and our professional careers. Existential confusion truly reigns over us, joking aside. We are complementary and we could even share the same name. In the film Zakaria the protagonist tells the other child, who is younger than he is, “ Pleased to meet you, I am Zakaria,” and the other responds, “I am Zakaria too.” The idea of the

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“pair” (teacher-student, teenage boy-teenage boy, trafficker-immigrant, brother-sister) is at the centre of the characters’ need-based relationship and allows for this idea to be further explained. One can say that the characters are enshrouded by loneliness but they are also strong because they are part of a community or because of their relationship with another character. They relate to each other but often remain stuck in their cultural contradictions. Through the interpretation of their drama they are able to obtain their freedom. For us, making films means to put our own personality into play, it is a way for us to communicate with each other. The points of conformity between me and him and him and me number far more than our divergences, certainly. Working together allows us to never be alone in making our decisions, and allows us to compare our ideas and to forget who came up with this idea or that one. It also permits us to argue as well as discuss more before filming, but ultimately to arrive on the set ready to welcome suggestions from everyone and to work while keeping in mind things which we have already decided amongst ourselves.

ILARIA: How do you explain the attention by artistic institutions toward your work? How did you feel the first time you were invited to an exhibition and saw a film of yours projected in a museum hall?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: The first sensation was disorientation, fragmenta-tion, dispersal. However, we soon understood that a fluctuating view of our work allows a new gaze on the gestures, bodies, and individual words. It gives it a new, unexpected force, a universality less tightly linked to narration and more to detail. In a certain sense, the viewer is thus led to travel between stories, to migrate through various identities. Just like our protagonists.

ILARIA: What are the differences which you have found between the art world and the film world? But most of all, in an era in which there is often talk of interaction between, as well as overlap of, media, an era in which indistinction reigns, is there really even an effective difference between art and film?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: Perhaps there is not much difference between the two worlds. In both of these environments there is an aperture which allows us to peek into both fields. However there is also, in a certain sense, a “closure” as well as prejudices: <<This is “independent film, it is not art, yet film which is intended to be exhibited, and is therefore not simple to present to a film-viewing audience.>> And so on. But in the end, everything works everywhere. There are certainly differences, but it is also important to see which objectives one pre-establishes. For us, it is not important whether our film is exhibited in a gallery rather than a film festival, as long as the film is viewed. We believe that cinema, intended to be interpreted in this case as a “process” as well as a “work”, should possess the allure of the collective action

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which we feel is lacking in the Intimism present in art, even if by now there really are no borders and one can make films with little money and the tiniest of crews (if not alone) and works of art can require the presence and participation of instruments, languages, and people and one (if not more) film crews. The strongest works, I believe, are those which are not bound by production schemes and traditional alternatives to the system. What really matters in the end is the rigour towards one’s artistic and ethical choices. We have had the opportunity to participate to various international film festivals, and the most important works are those which seem to be the most open to this overlap between film, documentary, video art, and other experimental notions etc. (such as in Rotterdam, Oberhausen, Stuttgart etc.)

ILARIA: Video art has gone from documentation of performance to a vehicle for in-formation and instrument of social protest used by many artists. Lately there has even been a tendency for some artists to work within what I would call “documentary structures”. Trying to address a lack of culture and “position”, they have sought to prove their ability to document or reflect upon something that would otherwise be ignored or underestimated. Where do you stand in relation to this trend?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: For us, reflecting on realities otherwise ignored is not intended as a point of arrival, but a starting point for discussing paradoxes of the soul and the identity more generally.It is the form that determines the political aspect of a work, never its content.

ILARIA: Do you think art has the power to change something? Does the artist have the ability to have an antagonistic relationship with the dominant cultural system?

GIANLUCA and MASSIMILIANO: We aren’t presumptuous enough to make movies to change the world, but neither do we make them not to change it. We simply ask (ourselves) some questions.

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Gianluca e Massimiliano De Serio sono nati a Torino nel 1978. Vivono e lavorano a Torino. Massimiliano è iscritto al dottorato in Storia della Critica d’Arte a Parigi, mentre Gianluca si è laureato in Storia e Critica del cinema a Torino. Lavorano insieme dal 2000 e negli anni hanno prodotto vari film tra i quali ricordiamo: Neverending Maria Jesus; Stava; Ensi e Shade (2006); Zakaria; Lezioni di arabo (2005); Mio Fratello Yang; Accordi (2004); Maria Jesus (2003); Il giorno del santo (2002); Poche Cose (2001); Il fiore (2000). I loro lavori sono stati selezionati per vari festival cinematografici. Ricordiamo: Zaka-ria, candidato al David di Donatello, 2006; Oberhausen Film Festival, 2006 (menzione Speciale della Giuria e Premio della Cinema Jury); Edimburgh Film Festival, 2006 (PRIX UIP, miglior film europeo + candidatura al European Film Award 2006); Torino Film Festival, 2005 (Kodak Short Film Award); Siena International Short Film Festival, 2005 (Miglior Regia). Mio Fratello Yang, candidato a Cannes, 2005 (Kodak European Showca-se); David di Donatello, 2005; Rotterdam Film Festival, 2005; San Paolo Int. Film Festival, 2005; Vendome Film Festival, 2005 (Migliore regia); Torino Film Festival, 2004 (Premio Kodak European Showcase come Miglior Film Italiano in Pellicola e Menzione Speciale della Giuria). Maria Jesus, candidato al Globo d’Oro, 2004; Huesca International Film Festival, 2004 (Primo Premio e preselezione automatica agli OSCAR, 2005); N.I.C.E. (New Italian Cinema Event), New York – San Francisco, 2004; Nastro d’Argento, 2004 (Miglior Corto Italiano). Il giorno del Santo, candidato all’Open Roads, 2006; Cologne International Short Film Festival, 2003; Santa Barbara Film Festival, 2002. Nel 2006 la loro prima mostra personale, Massimiliano et Gianluca De Serio, cinéma, identité et immigration, Insitute d’Histoire de l’Art, Parigi. Sempre nel 2006 hanno partecipato alle mostre collettive, Report #1, Video in onda dall’Italia, Galleria Comunale di Monfalcone (ottobre 2006); Neverending Cinema, Galleria Civica di Trento; Maison Rouge, Parigi, (nell’ambito della mostra Xavier Gautier et Sung-A Yoon). Nel 2005, T1. La Sindrome di Pantagruel, Torino; XII Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterrraneo, Castel Sant’Elmo, Napoli. Nel 2004, MakingMovies, Galleria Franco Soffiantino, Torino.

BIOGRAFIA

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BIOGRAPHY

Gianluca and Massimiliano De Serio were born in Turin in 1978. They live and work in Turin. Massimiliano is completing a Phd in History of Art Criticism and Gianluca obtained a degree in History of Cinema and Film Criticism at the University of Turin. They have been working together since 2000 and during the years they have produced numerous films among which: Neverending Maria Jesus; Stava; Ensi and Shade (2006); Zakaria; Arabic Class (2005); My Brother Yang; Accordi (2004); Maria Jesus (2003); The Day of the Saint (2002); Less things (2001); The Flower (2000). Their works have been selected for various Film Festivals among which: Zakaria, nominated at the David di Donatello, 2006; Oberhausen Film Festival, 2006 (Special Mention of the Jury and Cinema Jury Prize); Edimburgh Film Festival, 2006 (PRIX UIP, Best European Film + nomination at the European Film Award, 2006); Torino Film Festival, 2005 (Kodak Short Film Award); Siena International Short Film Festival, 2005 (Best Direction). My Brother Yang, nominated at Cannes, 2005 (Kodak European Showcase); David di Donatello, 2005; Rotterdam Film Festival, 2005; San Paolo Int. Film Festival, 2005; Vendome Film Festival, 2005 (Best Direction); Torino Film Festival, 2004 (Kodak European Showcase Prize for Best Italina Film) and Special Mention of the Jury). Maria Jesus, nominated at the Globo d’Oro, 2004; Huesca International Film Festival, 2004 (First Prize and auto-matic pre-selection for the 2005 OSCAR’s); N.I.C.E. (New Italian Cinema Event), New York – San Francisco, 2004; Nastro d’Argento, 2004 (Best Italian Short Film). The Day of the Saint, nominated at Open Roads, 2006; Cologne International Short Film Festival, 2003; Santa Barbara Film Festival, 2002. In 2006 their first solo exhibition: Massimiliano et Gianluca De Serio, cinéma, identité et immigration, Insitute d’Histoire de l’Art, Parigi. In 2006 they also participated in the group exhibitions Report #1, Video in onda dall’Italia, Galleria Comunale di Monfalcone (ottobre 2006); Neverending Cinema, Galleria Civica di Trento; Maison Rouge, Parigi, (in the frame of the exhibition Xavier Gautier et Sung-A Yoon). In 2005, T1. The Pantagruel Syndrome, Turin; XII Biennale of Young Artists of the Mediterranean, Castel Sant’Elmo, Naples. Nel 2004, MakingMovies, FrancoSoffiantino Gallery, Turin.

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PAG. 12 - 13 Maria Jesus, 2003, film still, 35 mm

PAG. 15 - 18 Zakaria, 2005, film still, 35 mm - cinemascope

PAG. 20 - 22 My Brother Yang, 2004, film still, 35 mm

PAG. 23 - 24 The Day of The Saint, 2002, film still, 35 mm

PAG. 24 Ensi and Shade. 2006, video still, DV

PHOTO REFERENCES

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Un ringraziamento particolare a Antonio e Angela De Serio, Michela Farò, Piero Basso, Stefano Cravero, Rodrigo De Maio, Francesco Bottai e a Arthur Moll e Ilaria Marra per il loro aiuto nelle traduzioni / A special thank you to Antonio and Angela De Serio, Michela Farò, Piero Basso, Stefano Cravero, Rodrigo De Maio, Francesco Bottai and to Arthur Moll and Ilaria Marra for their help on the translations

Catalogo pubblicato in occasione della mostra Hero Cycle di Gianluca e Massimiliano De Serio, nell’ambito della rassegna “Step in step out”, a cura di Ilaria Gianni presso la Fondazione Adriano Olivetti, Roma, 14-20 Settembre, 2006 / Catalogue published on the occasion of Gianluca and Massimiliano De Serio’s exhibition Hero Cycle, in the frame of “Step in step out”, curated by Ilaria Gianni at the Adriano Olivetti Foundation, Rome, September 14-20, 2006

Edito da / Published by

Produzioni Nero s.c.r.l. - Via dei Giuochi Istmici 28 - 00194 Roma Tel/Fax +39 06 97271252 [email protected] - www.neromagazine.it

Stampato per conto della casa editrice Produzioni Nero presso la tipografia OK Print srl Via Paolo Mercuri 6 00193 Roma / Italia - nel mese di Settembre 2006 // Printed for Pro-duzioni Nero by OK Print srl - Via Paolo Mercuri 6 , 00193 Rome / Italy - on September 2006

Albo Coop. n. A116843

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