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DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 1: PRO BLEMI…DI PANCIA!
Nel caso di Luna, in base ai riscontri ottenuti all’anamnesi, alla visita clinica e soprattutto
grazie all’ecografia addominale ed all’esecuzione di test sierici specifici (cPLI) la diagnosi
formulata è stata quella di pancreatite acuta.
La pancreatite acuta è una patologia molto seria con alto tasso di mortalità e richiede cure
intensive, mentre le forme più moderate possono essere gestite con fluidoterapia endovenosa
e analgesici.
La terapia classica della pancreatite acuta si basa sul mantenimento dell’equilibrio idrico ed
elettrolitico, nel controllo dei segni clinici, nell’analgesia ed in una corretta gestione
alimentare.
La FLUIDOTERAPIA ENDOVENOSA è un caposaldo della terapia, sia per correggere gli
squilibri elettrolitici e l’acidosi metabolica, dovuti al vomito e al sequestro di fluidi
all’interno del tratto gastroenterico atonico, e soprattutto per garantire un’adeguata
perfusione pancreatica che risulta di vitale importanza per prevenire l’ischemia che
contribuisce alla necrosi. La velocità e la quantità con cui i fluidi vengono somministrati
dipende dal grado di disidratazione riscontrato e dalle perdite del paziente. Generalmente si
utilizza Ringer Lattato oppure, nei casi più gravi, si può ricorrere ai colloidi, in questo caso
il plasma risulta il migliore, perché utile per reintegrare alfa1-antitripsina e alfa2-
macroglobulina , fornisce inoltre fattori di coagulazione e può essere associato a terapia
eparinica negli animali ad elevato rischio di DIC.
Gli ANTIEMETICI vengono utilizzati per la gestione del vomito acuto. Esso nei soggetti
con pancreatite è sia di origine centrale, per la presenza di agenti emetici circolanti, che di
origine periferica, a causa dell’ileo e la peritonite. Efficace risulta il maropitant, agonista del
recettore NK1, perché possiede sia attività centrale che periferica ed oltre a controllare
l’emesi viene bloccata anche la produzione di sostanza P. Viene somministrato alle dosi di
1mg/kg una volta al giorno fino a 5 giorni.
I GASTROPROTETTORI vengono utilizzati in corso di pancreatite acuta poiché c’è un
elevato rischio di sviluppo di ulcere gastroduodenali. Possono essere utilizzati inibitori
dell’acidita’gastrica come cimetidina, che però va evitata in soggetti con concomitante
epatopatia per i suoi effetti a carico del citocromo P450, ranitidina e la famotidina, o in
alternativa gli inibitori della pompa protonica (omeprazolo).
In genere la pancreatite del cane è sterile, tuttavia è comune la traslocazione batterica
secondaria alla compromissione gastrointestinale, di conseguenza va applicata la terapia con
ANTIBIOTICI ad ampio spettro e efficace nei confronti di batteri gram-negativi e anaerobi.
Un aspetto importante della terapia, è la somministrazione di ANALGESICI, poiché si tratta
di una condizione molto dolorosa, e si possono utilizzare morfina, fentanil o anche lidocaina
o ketamina. L’utilizzo dei FANS potrebbe essere controindicato sia perché aumentano il
rischio di ulcere gastroduodenali nei soggetti con pancreatite e sia perché alcuni FANS
possono far precipitare uno scompenso renale negli animali con ipotensione e /o shock.
Può risultare utile, anche la somministrazione di DOPAMINA, (5 µg/kg/min) poiché
migliora la perfusione pancreatica, riducendo la progressione della patologia.
In ogni caso, l’ALIMENTAZIONE, rimane l’aspetto fondamentale nella gestione di tali
pazienti. La gestione nutrizionale “classica” prevedeva la sospensione dell’alimentazione e
la fluidoterapia, per i primi giorni di terapia. Studi recenti, hanno invece messo in
discussione l’applicazione della sospensione alimentare, hanno dimostrato che risulta
migliore la somministrazione di una dieta altamente digeribile, priva o povera di grassi. Nei
soggetti che lo richiedano, per la somministrazione degli alimenti si può ricorrere alle sonde
rinogastrica, da esofagostomia, da gastrostomia o da digiunostomia.
Infine, non vanno trascurate le eventuali complicazioni che si possono verificare nei soggetti
con pancreatite acuta, e che andranno trattate di conseguenza (Tabella 7).
Tabella 7. Principali complicanze in corso di pancreatite acuta
Complicanza Descrizione
Ileo La pancreatite può causare ileo, regionale o
diffuso, attraverso vari meccanismi: la
peritonite può determinare una perdita della
motilità dovuta alla flogosi che si estende negli
altri organi come stomaco o duodeno. Può
provocare ileo anche la perdita di potassio
secondaria al vomito e alla diarrea profusi.
Infine, la stimolazione del sistema nervoso
simpatico (shock) può indurre perdita della
motilità intestinale.
Epatopatia Compare quando l’infiammazione pancreatica
si estende al fegato. Inoltre la flogosi può
estendersi anche al dotto biliare, portando ad
una ostruzione biliare extraepatica.
Coagulopatie/DIC Le proteasi libere attivano i sistemi della
chinina, della coagulazione, fibrinolitici e del
complemento.
Ipotensione Dovuta a vomito e diarrea e alla ridotta
assunzione di acqua.
Nel caso di Luna, in cui la pancreatite era in forma abbastanza lieve, l’approccio terapeutico ha
previsto:
- Dieta specifica a ridotto tenore di grassi, somministrata in piccoli pasti quattro volte al
giorno;
- Fluidoterapia endovenosa (Ringer lattato) per i primi giorni;
- Terapia antiemetica (maropitant 1 mg/kg/sc sid);
- Antibiotico-terapia (enrofloxacina 5mg/kg/sc sid );
- Analgesia (butorfanolo ,11 mg/kg sc bid) per i primi tre giorni.
Dopo una settimana, le condizioni di Luna sono migliorate notevolmente, con scomparsa del
vomito, del dolore addominale e della febbre, e riacquisizione dello stato di idratazione, mentre
la diarrea è scomparsa del tutto dopo qualche settimana.
DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 2: A VO LTE LA
DIAGNOSI È PIÙ SEMPLICE DEL PREVISTO…BASTA OSSERVAR E
BENE!
Nel caso di Chicco la diagnosi è stata ottenuta rapidamente grazie all’accurata osservazione
microscopica dello striscio di sangue periferico che ha permesso di evidenziare la presenza di
numerose morule di Anaplasma platys all’interno del citoplasma delle piastrine (figura 2). Le
principali alterazioni clinico-patologiche in corso di infezione sostenuta da A. platys sono descritte
nella seguente tabella (tab.3)
Tab.3. Principali alterazioni clinico-patologiche in corso di infezioni da A. platys. - Guideline for
veterinary practitioners on canine ehrlichiosis and anaplasmosis in Europe, 2015
Figura 1. Morule di A. platys all'interno di una piastrina
L’Anaplasmosi è trasmessa da zecche ed è sostenuta da Anaplasma phagocytophilum ed
Anaplasma platys, batteri gram negativi a localizzazione obbligatoria intracellulare (rispettivamente
granulociti neutrofili e piastrine). Anaplasma phagocytophilum è l’agente patogeno responsabile
dell’Anaplasmosi granulocitaria, il vettore è la zecca del genere Ixodes ricinus distribuita in tutte le
regioni italiane. Il periodo di incubazione dopo l’esposizione alla zecca è di circa 7-14 giorni.dopo
un pasto di sangue infetto i batteri penetrano all’interno della cellula ospite sottoforma di fagosomi
quindi si moltiplicano per scissione binaria formando grossi corpi inclusi (morule). La successiva
morte della cellula ospite causa il dissolversi della morula, la liberazione dei batteri nel sangue
periferico e l’infezione di altri granulociti neutrofili. La sintomatologia è associata alla fase acuta
dell’infezione caratterizzata dalla batteriemia. I sintomi più frequenti sono: febbre alta, letargia,
anoressia, dolorabilità muscolare, poliartrite e riluttanza al movimento, moderata o grave
trombocitopenia, raramente neutropenia, aumento dei livelli sierici della fosfatasi alcalina,
ipoalbuminemia ed iperfibrinogenemia. La fase acuta può decorrere anche in forma asintomatica e,
a differenza di quanto avviene nelle infezioni da Ehrlichia canis, non è descritta una fase clinica
subacuta-cronica. La diagnosi può essere ottenuta tramite: 1) esame citologico su strisci di sangue
periferico o liquido sinoviale ed identificazione delle morule all’interno del citoplasma dei
granulociti neutrofili durante la fase acuta dell’infezione; 2) test di immunofluorescenza indiretta
(IFAT) o ELISA per la ricerca di anticorpi anti- A. phagocytophilum; 3) PCR per identificare il
DNA del batterio. E’ dimostrato che la PCR eseguita su sangue può risultare negativa anche in
soggetti sani sieropositivi poiché il batterio può circolare in modo intermittente nel sangue
periferico. la PCR può essere utile per differenziare infezioni da Anaplasma da quelle sostenute da
Ehrlichia. Anaplasma platys è l’agente responsabile della Trombocitopenia ciclica infettiva, il
vettore sono zecche della specie Rhipicephalus sanguineus e Dermacentor reticulatus, distribuite la
prima su tutto il territorio italiano e la seconda in alcune aree del nord Italia. Dopo un pasto di
sangue infetto il batterio penetra all’interno delle piastrine per endocitosi, qui si moltiplica per
scissione binaria formando una morula. La successiva apoptosi delle piastrine infettate porta al
dissolvimento della morula nel sangue periferico e alla successiva infezione di altre piastrine. Il
tempo di incubazione varia da 8 a 15 giorni. Durante l’iniziale batteriemia è possibile riscontrare il
maggior numero di piastrine parassitate, pochi giorni dopo questa fase il conteggio totale delle
piastrine si riduce drasticamente e i batteri non sono più visibili all’interno delle cellule. Dopo la
scomparsa dei microrganismi il numero delle piastrine aumenta rapidamente tornando a valori
normali nell’arco dei 3-4 giorni. La parassitemia ed i successivi episodi di trombocitopenia si
ripetono ad intervalli di circa 1-2 settimane; mentre il primo episodio di piastrinopenia è causata
dall’azione diretta del batterio che replica all’interno delle cellule, gli episodi successivi sono
ascrivibili a meccanismi immuno-mediati. Con il passare del tempo solitamente gli episodi sono
meno frequenti e la trombocitopenia diventa lieve. La sintomatologia è legata alla fase betteriemica
ed alla trombocitopenia; generalmente i sintomi sono lievi. Segni clinici più gravi includono:
febbre, letargia, pallore delle mucose, petecchie, epistassi, uveite, linfoadenomegalia, grave
trombocitopenia (< 20.000 piastrine/µl) durante la fase betteriemica, aumento lieve o moderato
delle proteine della fase acuta e delle immunoglobuline. La diagnosi si ottiene attraverso: 1) esame
microscopico di strisci di sangue periferico ed identificazione delle morule all’interno delle
piastrine; 2) test di immunofluorescenza indiretta (IFAT) per la ricerca di anticorpi anti- A. platys
(frequente cross reattività con A. phagocytophilum); 3) PCR per identificazione del DNA del
batterio. Può essere utile per differenziare infezioni da A. platys e A. phagocytophilum. E’
importante considerare in corso di infezioni da A. platys , la diagnosi differenziale con Ehrlichiosi,
Leishmaniosi, Babesiosi.
Chicco è stato sottoposto a terapia antibiotica specifica. Il protocollo più utilizzato prevede la
somministrazione di doxiciclina alla dose di 5-10 mg/kg, per os, SID o BID, per 30 giorni. Il follow
up ad una settimana già permetteva di verificare il miglioramento delle condizioni cliniche:
scomparsa della febbre, miglioramento dell’uveite, riduzione di volume della milza e scomparsa
delle morule all’interno delle piastrine. Alla fine del trattamento le condizioni cliniche erano tornate
nella norma.
DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 3: SEGNI CLINICI
INSIDIOSI…
L’anamnesi e i segni clinici di Micia, la presenza di PU/PD, perdita di peso, il riscontro di anemia e
iperazotemia, oltre a proteinuria e alle marcate alterazioni evidenziate grazie all’ecografia
addominale, hanno permesso di formulare la diagnosi di malattia renale cronica.
La nefropatia cronica, o CKD (chronic kidney disease) è la più comune patologia renale che si
riscontra nel cane e nel gatto. Indipendentemente da quale sia la causa responsabile della perdita dei
nefroni, la CKD si caratterizza per la presenza di lesioni strutturali irreversibili, per cui, pur
eliminando la patologia primaria, persistono e le prospettive di miglioramento della funzionalità
renale sono scarse, sebbene i soggetti con CKD, se sottoposti ad una terapia di supporto adeguata,
possano anche sopravvivere per diverso tempo mantenendo una buona qualità della vita.
Sebbene ci siano dati limitati riguardo la prevalenza della CKD nel gatto, alcuni studi hanno
permesso di identificare due principali picchi di incidenza della malattia a seconda dell’età: un
primo, come nei cani, negli animali al di sotto dei 3 anni di vita, a causa di patologie di origine
congenita, e poi un picco di incidenza negli animali di età avanzata.
Spesso è una malattia tubulo-interstiziale cronica di cui non si conosce la causa primaria, la
responsabile dello sviluppo di CKD, sebbene esistano numerose condizioni che possono portare ad
una nefropatia cronica (Tabella 4).
Tabella 4. Principali malattie causa di CKD nel cane e nel gatto (modificato da Ettinger, 2008)
Patologie che possono causare CKD nei piccoli animali
Malattie familiari o congenite
Cane Amiloidosi (Shar Pei, Beagle)
Cistoadenocarcinoma (Pastore Tedesco)
Displasia renale (ShiTzu, Lhasa apso, Golden
Retriever, Chow Chow…)
Glomerulopatia (Dobermann pinscher, Bull terrier,
Samoiedo…)
Sindrome di Fanconi (Basenji)
Patologia policistica (Cairn terrier)
Gatto Amiloidosi (Abissino, Orientale a pelo corto)
Patologia policistica (Persiano, Himalayano)
Malattie acquisite
Infettive Batteriche
Micosi (blastomicosi)
Lepstospirosi
Leishmaniosi
Peritonite infettiva felina (FIP)
Neoplasie Linfosarcoma
Carcinoma delle cellule renali
Nefroblastoma
Altri
Ipercalcemia Neoplasie maligne
Iperparatiroidismo primario
Altre Esito dell’insufficienza renale acuta
Amiloidosi renale
Policistiche
Nefrolitiasi
Idiopatiche
I gatti con nefropatia cronica in genere hanno un’anamnesi che riferisce la presenza di poliuria e
polidipsia, perdita di peso, inappetenza e vomito, o, nei casi più gravi, improvviso peggioramento
dello stato clinico e collasso, qualora il soggetto sia in fase di crisi uremica. All’esame fisico sarà
possibile riscontrare uno scadimento delle condizioni generali, disidratazione, mantello in cattive
condizioni, reni piccoli e duri ed eventuali segni clinici riconducibili alla patologia primaria (ad
esempio nefromegalia in caso di linfoma renale, ecc.). Inoltre, non sono infrequenti complicanze
come perdita acuta della vista, ifema, in caso di ipertensione, e disturbi della minzione in caso di
infezioni del tratto urinario concomitanti.
La diagnosi di CKD, si raggiunge, oltre che considerando segnalamento, anamnesi e segni clinici,
l’ausilio delle indagini strumentali collaterali. In particolare andrebbero eseguiti:
- Esame emocromocitometrico, profilo biochimico, emogas;
- Esame delle urine e UPC;
- Misurazione della pressione arteriosa
- Radiografia e/o ecografia renale.
La biopsia renale e il conseguente esame isto-patologico, mettono in evidenza la perdita di tubuli
renali sostituiti da fibrosi, mineralizzazione, sclerosi e atrofia glomerulare, aree di infiltrazione
interstiziale di cellule mononucleate associata a sostituzione con tessuto fibroso cicatriziale. Tale
indagine è particolarmente utile qualora si sospetti che alla base della CKD ci sia una determinata
patologia (es. linfoma) che potrebbe richiedere una modifica del trattamento, altrimenti potrebbe
non essere necessario ricorrere alla biopsia per la diagnosi, anche considerati i rischi insiti nella
procedura, come l’emorragia, o la possibilità di compromettere ulteriormente la funzionalità
dell’organo.
Tra le alterazioni che è possibile riscontrare tramite indagini strumentali abbiamo: anemia
normocitica normocromica non rigenerativa, iperazotemia, iperfosfatemia, ipercalcemia,
ipokaliemia, riduzione del peso specifico urinario e proteinuria, acidosi metabolica. Radiografie ed
ecografie possono evidenziare reni di piccole dimensioni e aiutare ad escludere alcune condizioni
patologiche potenzialmente curabili, come pielonefrite e calcolosi. All’esame ecografico di norma
si rileva iperecogenicità della corticale renale (per la sostituzione dei nefroni con tessuto fibroso
cicatriziale), con perdita della linea di confine tra corticale e midollare renale.
Importante, sia ai fini terapeutici che prognostici, è la corretta differenziazione tra una condizione di
danno renale acuto (AKI, Acute Kidney Injury) e una nefropatia cronica (Tabella 5): di norma, i
gatti con danno renale acuto hanno un quadro clinico moto più grave a causa dell’iperazotemia, che
in genere è meglio compensata in quelli con patologia cronica.
Tabella 5. Diagnosi differenziale tra danno renale acuto (AKI- Acute Kidney Injury) e malattia
renale cronica (CKD- Chronic Kidney Disease) (modificato da Bo,2014)
AKI - Acute Kidney Injury CKD - Chronic Kidney Disease
Anamnesi Insorgenza improvvisa.
Possibile esposizione a sostanze
tossiche/farmaci
Oliguria o anuria
Esordio graduale. Segni compatibili
con nefropatia cronica, come
PU/PD, perdita di peso,
inappetenza, vomito
Poliuria
Visita clinica Condizioni generali buone
Possibile presenza di segni
correlati alla causa primaria
Reni dolenti ed eventuale
nefromegalia
Vescica può essere di dimensioni
molto ridotte
Condizioni generali scadenti
Disidratazione. Possibile pallore
delle mucose per la presenza di
anemia
Reni induriti e di piccole
dimensioni, in genere non dolenti
Spesso nella vescica non è presente
urina
Profilo ematologico e
biochimico
Emocromo di solito normale. Htc
aumentato per disidratazione
Azotemia e creatinina: aumento da
moderato a marcato
Fosfato: aumento da moderato a
marcato
Calcio: ipo- , normo- o
ipercalcemia
Potassio: aumento da moderato a
marcato
Anemia normocitica normocromica
non rigenerativa
Azotemia e creatinina: aumento da
lieve a moderato
Fosfato: aumento da lieve a
moderato
Calcio: normo- o ipercalcemia
(iperparatiroidismo secondario
renale)
Potassio: ipo- o normokaliemia
Esame delle urine Isostenuria (PS 1008-1015)
Cilindruria; cristalli di ossalato di
Isostenuria o perdita della capacità
di concentrare le urine (PS <1035)
calcio monoidrato
nell’avvelenamento da glicol
etilenico
Proteinuria e può essere presente
glicosuria
Sedimento inattivo a meno che non
sia presente concomitante UTI
Proteinuria
Radiografia/Ecografia Reni ingrossati o normali Reni piccoli spesso di forma
irregolare
I pazienti con CKD possono manifestare una sintomatologia acuta (nefropatia cronica scompensata)
qualora in un animale in precedenza stabile si instauri una crisi uremica. Tra le cause più comuni:
- Ipovolemia: sia per perdita (vomito, diarrea) o che per ridotta assunzione;
- Infezione delle vie urinarie o pielonefrite;
- Ipertensione;
- Altre malattie concomitanti (es. diabete mellito, odontopatie, neoplasie).
Una volta diagnosticata una CKD, risulta indispensabile stadiare la patologia, per attuare il migliore
protocollo terapeutico, e valutarne la progressione e la prognosi: a questo scopo, particolarmente
utili risultano le linee-guida fornire dall’IRIS. L’IRIS (International Renal Interest Society), è
un’organizzazione internazionale, composta da veterinari con specifiche competenze in materia di
nefrologia, e il cui principale obiettivo è quello di fornire ai colleghi professionisti un mezzo per
una migliore comprensione, diagnosi e trattamento della patologia renale nei piccoli animali. A tale
scopo, negli anni la società ha redatto delle linee-guida inerenti la diagnosi ed il trattamento
dell’insufficienza renale cronica nel cane e nel gatto. La stadiazione IRIS si basa principalmente
sulla misurazione della creatinina plasmatica, prevede una sottostadiazione mediante la valutazione,
prima, della proteinuria e, poi, della pressione arteriosa sistemica. In tal modo, ciascun caso di
insufficienza renale cronica viene inserito in una classe, a seconda del livello di creatininemia
(stadio I, II, III e IV), e in due sottoclassi, in base ai valori proteinurici (non proteinurico, borderline
proteinurico, proteinurico) e pressori (rischio minimo, basso, moderato e alto). Di recente, la
stadiazione IRIS è stata modificata, prevedendo l’aggiunta di un nuovo parametro, la SDMA: la
dimetilarginina simmetrica o SDMA, deriva dalla metilazione intranucleare della L-arginina, viene
rilasciata nel circolo dopo proteolisi ed eliminata a livello renale. La concentrazione plasmatica di
SDMA è legata primariamente al tasso di filtrazione glomerulare, di conseguenza essa è
considerata un marker precoce di funzione renale: l’incremento della SDMA si può osservare
prima dell’aumento della creatinina ed inoltre non risente, a differenza di quest’ultima, della massa
muscolare.
Di seguito, è riportata in breve la stadiazione IRIS per i gatti affetti da malattia renale cronica
(Tabella 6).
Tabella 6. Stadiazione IRIS nel gatto (modificato da IRIS, 2015)
STADIO CREATININA COMMENTI
A rischio
< 140 µmol/L
< 1.6 mg/dL
L’anamnesi suggerisce che l’animale presenta un
aumentato rischio di sviluppare IRC in futuro, a causa di
una serie di fattori (ad esempio, esposizione a farmaci
nefrotossici, razza, alta prevalenza di malattie infettive
nell’area, età avanzata)
Stadio 1 < 140 µmol/L
< 1.6 mg/dL
Non azotemico. Presenti alcune altre anomalie renali:
inadeguata capacità di concentrare le urine in assenza di
una causa non renale, riscontri anomali alla palpazione
renale o alla diagnostica per immagini, risultati anomali
alla biopsia renale, proteinuria di origine renale, aumento
dei livelli di creatinina in campioni raccolti
consecutivamente
Stadio 2 140- 250
µmol/L
1.6 - 2.8 mg/dL
Lieve azotemia renale (secondo alcuni laboratori, i valori
prossimi al limite inferiore di questo intervallo possono
ancora rientrare fra quelli normali)
Segni clinici di solito lievi o assenti
Stadio 3 251- 440
µmol/L
2.9 - 5.0 mg/dL
Moderata azotemia renale. Possono essere presenti diversi
segni clinici extra-renali
Stadio 4 > 440 µmol/L
> 5.0 mg/dL
Aumentato rischio di segni clinici sistemici e crisi
uremiche
SDMA
In base ai livelli di SDMA, vanno considerate alcune modifiche alla precedente classificazione:
- Se SDMA > 14 µg/dL, i gatti con valori di creatinina < 1.6 mg/dL vanno considerati allo Stadio
IRIS 1
- Se SDMA ≥ 25 µg/dL, i gatti inquadrati allo stadio IRIS 2 (e con basso BCS) vanno considerati
allo Stadio IRIS 3
- Se SDMA ≥ 45 µg/dL, i gatti inquadrati allo stadio IRIS 3 (e con basso BCS) vanno considerati
allo Stadio IRIS 4
UP/C* SOTTOSTADIO
< 0.2 Non proteinurico
0.2 - 0.4 Borderline proteinurico
> 0.4 Proteinurico
*Tale stadiazione andrebbe effettuata sulla base di almeno due campioni urinari raccolti in un
periodo di almeno due settimane
PRESSIONE SISTEMICA (mm hg) SOTTOSTADIO
<150 Normotensivo. Rischio di danno dell’organo
terminale assente o minimo.
150-159 Borderline ipertensivo. Rischio di danno
dell’organo terminale basso.
160-179 Ipertensivo. Rischio di danno dell’organo
terminale moderato.
≥180 Gravemente ipertensivo. Rischio di danno
dell’organo terminale grave.
La terapia in corso di nefropatia cronica ha tre obiettivi principali:
1) Identificare, se possibile, la malattia primaria e trattarla (es. pielonefrite);
2) Controllare e trattare le anomalie biochimiche e funzionali (es. ipertensione, proteinuria)
3) Controllare i segni clinici (es. vomito)
Il trattamento specifico per la causa primaria di CKD, è attuato raramente; di conseguenza la terapia
è per lo più improntata a controllare segni clinici e alterazioni clinico-patologiche e a rallentare la
progressione del danno renale. A questo scopo, risultano particolarmente utili le indicazioni fornite
dalle linee-guida IRIS, che prevedono, a seconda dello stadio di CKD presente nel gatto, un
differente approccio terapeutico, di seguito brevemente riportato.
Stadio 1:
1. Dieta: utilizzare diete specifiche, caratterizzate da un ridotto apporto proteico (ma di migliore
qualità), ridotto tenore di fosfato e sodio, maggiore apporto vitaminico, presenza di antiossidanti,
maggiore apporto di potassio, più alto tenore energetico e aggiunta di acidi grassi polinsaturi
2. Interrompere la somministrazione di eventuali farmaci nefrotossici
3. Identificare e trattare ogni anomalia pre- o post-renale
4. Escludere e gestire eventuali condizioni concomitanti (es. pielonefrite)
5. Trattare la disidratazione: aumentare le fonti di acqua fresca e, se necessario, effettuare
fluidoterapia endovenosa (es. Ringer lattato)
6. Trattare l’ipertensione: è evidenziata la persistenza dell’ipertensione grazie all’esecuzione di
misurazioni multiple, essa va trattata con l’obiettivo di ridurre la pressione sistolica < 160 mm
Hg. I passi che si possono seguire nell’approccio terapeutico prevedono:
- Riduzione della quota dietetica di sodio
- Utilizzo di calcio-agonisti, come l’amlodipina (0.125-0.25 mg/kg/sid)
- Raddoppiare la dose di amlodipina (0.25-0.5 mg/kg/sid)
- Terapia combinata con un ACE-inibitore o un antagonista dei recettori dell’angiotensina e
un calcio-agonista.
I gatti con ipertensione richiedono in genere una terapia lunga e costanti monitoraggi per
adeguare la terapia. Dopo la stabilizzazione del paziente, il monitoraggio dovrebbe avvenire
almeno ogni 3 mesi. Una pressione sistolica <120 mm Hg, o segni clinici come debolezza o
tachicardia, sono indicativi di ipotensione, che va evitata.
7. Trattare la proteinuria: quando presente la proteinuria (UPC > 0.4) va trattata, mentre i soggetti
con valori borderline (UPC 0.2-0.4) richiedono successivi e frequenti monitoraggi. L’approccio
terapeutico prevede:
- Ricercare e trattare eventuali condizioni patologiche concomitanti
- Considerare la possibilità di eseguire una biopsia renale per identificare la patologia
sottostante
- Somministrare ACE-inibitori e dieta specifica renale (Considerare che l’uso di ACE-
inibitori è controindicato negli animali disidratati/ipovolemici)
- I gatti con proteinuria e ipoalbuminemia, sono a rischio di tromboembolismo: se i livelli
plasmatici di albumina <2 g/dl, si può somministrare aspirina (1 mg/kg ogni 72h)
Stadio 2:
Seguire tutte le indicazioni previste per lo Stadio 1, e in più, nei pazienti che lo richiedano:
1. Riduzione dei livelli di fosfati: mantenere i livelli di fosfati <1.5 mmol/l (ma non <0.9 mmol/l)
risulta benefico nei soggetti con CKD. E’ possibile:
- Restrizione dietetica (dieta renale)
- Se anche con la dieta i livelli di fosfati restano >1.5 mmol/l, si possono somministrare
chelanti intestinali dei fosfati (es. idrossido di alluminio) a un dosaggio di 30-60
mg/kg/die, ad effetto e monitorando costantemente i valori ematici del paziente.
2. Trattare l’acidosi metabolica: supplementazione orale di bicarbonato di sodio (o citrato di
potassio se ipokaliemico) ad effetto per mantenere i valori di CO2 totale nel range di 16-24
mmol/l
3. Trattare l’ipokaliemia: terapia con potassio gluconato o citrato di potassio fino all’effetto
desiderato (dosaggio 1-1 mmol/kg/die)
Stadio 3:
Seguire tutte le indicazioni previste per lo Stadio 2, e in più, nei pazienti che lo richiedano:
1. Trattare l’anemia: se i livelli di anemia sono tali da influenzare negativamente la qualità della
vita dell’animale (in genere Hct <20%), si può utilizzare eritropoietina ricombinante umana o la
darboepotina. Gli steroidi anabolizzanti potrebbero invece risultare controindicati.
2. Trattare il vomito/disoressia/nausea: utilizzare un inibitore di pompa protonica (es.
omeprazolo) e un antiemetico (maropitan oppure ondansetron)
3. Fluidoterapia: se necessaria per mantenere l’idratazione del paziente.
4. I farmaci che potrebbero danneggiare il rene a causa della loro clearance renale, andrebbero
utilizzati con cautela e il loro dosaggio andrebbe adeguato alle condizioni specifiche per evitare
fenomeni di accumulo.
Stadio 3:
Seguire tutte le indicazioni previste per lo Stadio 3, e in più, nei pazienti che lo richiedano:
1. Intensificare gli accorgimenti per prevenire l’eccessiva perdita di peso e la disidratazione:
considerare la possibilità di applicare un sondino naso-gastrico
2. Considerare la dialisi o il trapianto renale
Nel caso di Micia, è stato possibile effettuare tutte le indagini necessarie per la stadiazione IRIS
(creatinemia, UPC, misurazione della pressione arteriosa) eccezione fatta per il dosaggio della
SDMA, a causa dalla scarsa compliance dei proprietari. In base ai riscontri ottenuti, è stato possibile
classificare la CKD della paziente come allo stadio IRIS 2, proteinurica, borderline ipertensiva.
Purtroppo, non è stato possibile ricoverare Micia per eseguire fluidoterapia ed effettuare ulteriori
approfondimenti diagnostici (es. emogas) per meglio indirizzare la terapia, per cui l’iniziale
approccio ha previsto una dieta renale e la somministrazione di Ace-inibitore (benazepril O,25
mg/kg/sid). Era previsto un primo controllo a due settimane, ma la paziente è stata persa al follow-
up.
DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 4: STR ANI
COMPORTAMENTI…
Alla fine del lungo percorso diagnostico a cui è stato sottoposto Giulio si è raggiunta la diagnosi di
Psicodermatosi. Con il termine di psicodermatosi vengono definite tutte quelle condizioni in cui
l’animale, in assenza di una causa patologica identificabile, si procura autonomamente lesioni
cutanee.
L’origine di questi comportamenti è da ricercare nella presenza di disturbi psicologici ossessivi-
compulsivi che si manifestano con la ripetizione maniacale di comportamenti rituali e stereotipati.
Sono stati identificati tre fattori principali coinvolti nell’eziopatogenesi di questo disordine:
1) predisposizione di razza: razze nervose ed emotive (Doberman pinschers, Setter irlandese,
Labrador, Pastore tedesco)
2) abitudini di vita (condizioni di vita stressanti, noiose, assenza di compagnia umana/animale),
3) carattere individuale dell’animale (nervosismo, ansia, paura, timidezza).
La più comune psicodermatosi del cane è considerata la dermatosi da leccamento delle estremità.
Questo disturbo e’ più frequentemente apprezzabile in soggetti di taglia grande, con temperamento
ansioso, ed i maschi in particolare sembrano più predisposti delle femmine. La noia è considerata la
causa scatenante più comune soprattutto quando i soggetti vengono lasciati soli in box o in casa per
lunghi periodi. Talvolta un lieve trauma può rappresentare l’evento iniziale scatenante, per cui
l’animale inizia a leccarsi la parte senza più smettere.
Il cane manifesta clinicamente il disturbo mordicchiando e leccando nervosamente l’estremità
distale degli arti. Le lesioni sono spesso singole ed unilaterali. La cute della parte interessata è
inizialmente alopecica, ma successivamente, a causa del persistere dell’autotraumatismo, diviene
erosa, crostosa ed ispessita, sino alla formazione di placche e di noduli induriti ed essudanti. La
presenza di erosioni e di ulcere contribuisce ad aumentare la sensazione di prurito e fastidio e di
conseguenza aumenta il mordicchiamento ed il leccamento. Tutto ciò determina un circolo vizioso
dal quale è difficile uscirne. Le lesioni croniche sono rappresentate da placche di cute fibrotica ed
iperpigmentata spesso ulcerata, localizzate più sul carpo o sul tarso. Il sospetto diagnostico può
essere confermato solo dopo aver escluso la presenza di infezioni batteriche, fungine, allergie e
dolore articolare. La dermatite da leccamento delle estremità può essere una malattia molto
frustrante da trattare e di spesso difficile risoluzione. L’applicazione di un bendaggio o di un collare
elisabettiano è indispensabile per evitare che il cane continui a leccarsi e mordicchiarsi la parte. Se
le lesioni sono croniche quasi sempre è presente un’infezione batterica secondaria per la quale è
necessario somministrare una terapia antibiotica sistemica per almeno 6 settimane o sino a due
settimane dopo la risoluzione. Nei casi iniziali può essere utile l’applicazione topica di idrocortisone
acetato all’1% diluito in dimetilsuffosido o l’infiltrazione intralesionale di triamcinolone. In caso di
lesioni poco estese, quando possibile, l’asportazione chirurgica della cute può rappresentare la
scelta più efficace, seguita dal contenimento dell’animale per evitare la recidiva a partire dalla ferita
chirurgica. La semplice cura della lesione cutanea purtroppo non è sufficiente se la causa primaria
che induce il cane all’autotraumatismo non viene eliminata. Solitamente si consiglia al proprietario
di attenuare qualsisia fattore ambientale stressante, evitando di lasciare il cane solo per lunghi
periodi, aumentando la frequenza e la durata delle passeggiate, evitando il confinamento in gabbia e
considerando l’introduzione di un altro animale, sebbene ciò potrebbe in alcuni casi avere un effetto
dannoso piuttosto che benefico. Se non si riesce ad identificare e correggere facilmente la causa
sottostante, il soggetto dovrebbe essere riferito ad un medico veterinario comportamentista. Nel
breve periodo potrebbe essere necessario usare una terapia farmacologica per interrompere il ciclo
del comportamento ossessivo, che può essere successivamente sospesa se si individuano le cause
sottostanti. Se non si eliminano i fattori causali sottostanti, potrebbe essere necessario proseguire la
terapia. Gli antidepressivi triciclici e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)
sono efficaci nel trattamento della dermatite da leccamento delle estremità. Farmaci e dosaggi
vengono elencati nella tabella seguente (Tab.4).
Tabella 4. Trattamento farmacologico dei disturbi psicogeni
Antidepressivi triciclici
Clomipramina 1-3 mg/kg p.o. q 12h
Amitriptilina 1-3 mg/kg p.o. q 24h
Doxepina 3-5 mg/kg p.o. q 12h
SSRI
Fluoxetina 1 mg/kg p.o. q 24h
Antagonisti narcotici
Naltrexone 2 mg/kg p.o. q 24h
Per trattare la dermatite da leccamento delle estremità è stato impiegato con successo anche
l’antagonista narcotico naltrexone, che antagonizza l’effetto degli oppioidi endogeni e aumenta
quindi la percezione del dolore, sebbene il suo uso sia ancora controverso.
Giulio è stato trattato con antibiotici e collare elisabettiano. Ha inoltre cambiato le sue abitudini di
vita trascorrendo molto più tempo in compagnia del proprietario, dorme in casa e non più da solo in
giardino. Il proprietario ha da poco adottato una femmina per dare una compagnia a Giulio durante
le ore in cui si assenta da casa. Il disturbo di Giulio è notevolmente migliorato ma non ancora
definitivamente superato, per questo motivo recentemente è seguito anche da una medico
veterinario comportamentalista.
DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 5 : QUA NDO IL
PROPRIETARIO MENTE…
L’approccio terapeutico nei soggetti con DKA, deve essere quanto mai tempestivo e richiede
un’ospedalizzazione del paziente ed il monitoraggio costante dello stesso. Gli obiettivi terapeutici
principali, sono la risoluzione della disidratazione e dell’ipovolemia, il ripristino del normale
equilibrio acido-base e dei livelli di elettroliti, e la normalizzazione, graduale, della glicemia.
Inoltre, in caso di patologie concomitanti, vanno anch’esse trattate adeguatamente per assicurare
una corretta risposta del paziente.
Fluidoterapia: fondamentale per sopperire alle carenze di liquidi e mantenere un normale
equilibrio idroelettrolitico. La scelta della soluzione da utilizzare, è sempre conseguente alla
valutazione dello stato idroelettrolitico dell’animale, comunque, la soluzione elettiva è il cloruro di
sodio allo 0,9%, per la frequente presenza in questi pazienti di iponatremia, oppure è possibile
utilizzare anche Ringer Lattato. In ogni caso la quota di fluidi da somministrare andrà calcolata
considerando la disidratazione del soggetto, la quota di mantenimento e le eventuali perdite, in
modo da ripristinare l’idratazione nelle prime 12 h.
Supplementazione elettrolitica: la maggior parte dei soggetti con DKA ha inizialmente
concentrazioni di potassio normali o diminuite, per cui può essere necessaria un’integrazione. E’
bene considerare che durante la terapia le concentrazioni di potassio tendono ad abbassarsi per la
reidratazione, la correzione dell’acidemia e per la captazione cellulare del potassio insieme al
glucosio e mediato dall’insulina. Una complicazione comune secondaria alla terapia è proprio una
grave ipokaliemia che si sviluppa nelle prime 24-36 h. Di conseguenza, può essere utile
l’integrazione del potassio, in genere basandosi sulle sue concentrazioni sieriche, o, quando ciò non
è possibile, inizialmente si possono aggiungere 40 mEq di KCl per ogni litro di liquidi
somministrato. Anche il fosfato può richiedere un’integrazione nella terapia, soprattutto quando la
concentrazione sierica di fosforo è < 1,5 mg/dl, e la velocità iniziale di infusione è di 0,01-0,03
mmol/kg/h, monitorando ogni 8-12 h la concentrazione di fosforo sierico, fino a sospendere
l’infusione nel caso compaia ipocalcemia.
Terapia alcalinizzante: in genere, la fluidoterapia e la correzione dell’ipovolemia risolvono anche
l’acidosi metabolica, per cui la somministrazione di bicarbonato può non rendersi necessaria, o,
talora, essere addirittura controproducente se l’alcalinizzazione avviene in maniera troppo rapida.
La sua integrazione va effettuata se la concentrazione plasmatica di bicarbonato scende sotto i 12
mEq/l o la concentrazione venosa totale di CO2 è inferiore a 12 mmol/l. La quota di bicarbonati da
fornire, secondo formula (Figura 3), va somministrata nei liquidi nell’arco di 6 ore, e la terapia va
ripetuta solo se, dopo nuova valutazione dell’emogas, risulti ancora necessaria.
Figura 3. Integrazione di bicarbonati
Insulinoterapia: la terapia con insulina va iniziata 4-6 ore dopo l’inizio della terapia reidratante, e
prevede l’utilizzo di un’insulina ad azione rapida e di breve durata (cristallina, regolare), in modo
da consentire aggiustamenti della dose e della frequenza di somministrazione (Tabella 6). Esistono
due possibili protocolli di impiego: la somministrazione intramuscolare intermittente (dosaggio
iniziale di insulina di 0,2 U/Kg, seguita da 0,1 U/kg ogni ora) oppure l’infusione continua (dosaggio
iniziale di insulina di 0,05-0,1 U/Kg/h). Entrambi i protocolli prevedono precisi ed accurati
monitoraggi, al fine di consentire eventuali aggiustamenti dei dosaggi. L’obiettivo principale della
terapia insulinica è quello di determinare un abbassamento graduale della glicemia (circa di 75
mg/kg/h) al fine di evitare squilibri osmotici. Quando i livelli di glicemia scendono al di sotto dei
250 mg/dl, i liquidi endovenosi somministrati andrebbero integrati con glucosio in modo da
ottenere una soluzione glucosata al 5%, per da mantenere la glicemia tra 150-300 mg/dl, fino alla
stabilizzazione del paziente e alla ripresa dell’alimentazione spontanea.
Tabella 6. Caratteristiche delle insuline in uso in medicina veterinaria
Terapia sintomatica: essa va adeguata alle specifiche condizioni del paziente (ad esempio
antiemetici, antibiotici ad ampio spettro..) e soprattutto deve essere volta ad eliminare eventuali
patologie concomitanti la cui persistenza può inficiare la corretta risposta terapeutica.
Nel caso di Aaron, la terapia iniziale, ha previsto, secondo protocollo:
- Fluidoterapia endovenosa (sodio cloruro 0,9%) e integrazione di Kcl
- Antiemetico (maropitant 1 mg/kg sc)
- Insulina regolare cristallina in infusione continua, dopo le prime 4 ore
- Terapia antibiotica ad ampio spettro (enrofloxacina 5 mg/kg)
Nonostante gli sforzi terapeutici, le condizioni del paziente sono rapidamente peggiorate e entro
poche ore il soggetto è andato incontro a decesso.
DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 6: AIU TO, SI E’
GONFIATO IL CANE!
Alla luce dei dati anamnestici e clinici, dell’assenza di alterazioni clinicopatologiche, è stata quindi
formulata una diagnosi di sospetto edema localizzato di natura infiammatoria. Con il termine di
edema si intende un accumulo abnorme di liquidi nel compartimento intercellulare, nel connettivo
interstiziale dei tessuti o in cavità naturali. Si distinguono essenzialmente due tipi di edema:
sottocutaneo o periferico e intracavitario con particolare riferimento a quello addominale, toracico e
pericardico. A livello di ipoderma l’edema si osserva in aree più abbondanti e ricche di tessuto
connettivo: esso si rende manifesto quando localmente il suo volume aumenta di circa il 10%.
Dell’edema sottocutaneo bisogna considerare i seguenti caratteri: distribuzione (sede), entità,
consistenza, temperatura, colore della cute, durate e, infine, eventuale associazione ad altri sintomi
e/ o segni. Per quanto riguarda la sua distribuzione l’edema può essere generalizzato o distrettuale.
Quando è diffuso a tutto o quasi il tessuto connettivo sottocutaneo, si parla di anasarca, con
coinvolgimento prevalente delle zone declivi degli arti, del collo, della testa e del ventre. Quando si
riscontra edema sottocutaneo generalizzato o distrettuale è buona norma ricercare l’eventuale
presenza di versamenti nelle grandi cavità sierose (pleurica, pericardica e peritoneale). Le cause più
frequenti di edema sono riportate nella seguente tabella (Tab.3).
Tabella3.. Cause più comuni di edema
Scompenso cardiaco congestizio
Cuore tamponato
Epatopatie
Nefropatie
Enteropatie proteinodisperdenti
Sindromi da malassorbimento
Malnutrizione
Processi locali di natura infiammatoria, traumatica o neoplastica
Tromboflebiti localizzate
Linfangiti e/o ostruzioni linfatiche localizzate
Nel caso di insufficienza cardiaca congestizia si parla di edema da stasi, in cui si osserva
incremento della pressione venosa per difettoso svuotamento sistolico e aumentata pressione
telediastolica ventricolare, cui seguono incremento della pressione idrostatica a livello dei capillari,
riassorbimento tubulare di acqua e sodio, ipervolemia e trasudazione dei liquidi verso il comparto
extracellulare. Nel casi di grave ipoalbuminemia secondaria a nefropatie, epatopatie ed enteropatie
croniche, si parla di edema discrasico, in cui si assiste a riduzione della pressione colloidosmotica
ed eventualmente della volemia sistemica. In ambedue i casi l’accumulo di liquido ha generalmente
le caratteristiche del trasudato e non riguarda solo il sottocute ma anche le cavità naturali come
quella pericardica, pleurica o addominale (ascite). Gli edemi distrettuali possono colpire qualsiasi
regione del corpo; nei piccoli animali generalmente si localizza agli arti, allo scroto e al prepuzio.
Esso è secondario a fenomeni compressivi di varia natura, a grave ipoalbuminemia o scompenso
cardiaco. Edemi improvvisi di natura allergica possono colpire la testa oppure zone circoscritte
come nel caso dell’orticaria. L’’entità dell’edema può essere lieve (subedema), evidente o
imponente e la regione colpita può essere più o meno tumefatto, tesa, con scomparsa di pieghe
cutanee e difficoltà a sollevare la cute in pliche. La consistenza può essere molle-pastosa oppure
dura come in corso di processi cronici di natura infiammatoria. Una manovra importante per
definire la natura della tumefazione sottocutanea è quella della compressione con il polpastrello che
può portare alla comparsa della fovea (impronta). La fovea è presente in corso di edema da stasi, in
caso di edema discrasico o linfedema; non si riscontra in caso di mixedema, negli stati infiammatori
o quando è presente pneumoderma. Il mixedema è un particolare tipo di edema, tipico in corso di
ipotiroidismo, in cui si osserva accumulo interstiziale di mucopolisaccaridi, che legano le proteine
plasmatiche filtrate, impedendone la rimozione da parte della circolazione linfatica; si localizza
principalmente al viso, facendo assumere all’animale (cani in particolare) una facies leonina o
tragica. Per quanto riguarda la temperatura essa può variare negli stati infiammatori a cui si
associano le caratteristiche del processo flogistico localizzato (rubor, tumor, dolor, color e functio
lesa); si riscontrano quindi arrossamento della cute (eritema), turgore diffuso, aumento della
temperatura locale e dolore alla palpazione. Tra gli edemi infiammatori si ricordano quelli in cui
non si ha aumento della temperatura come i cosiddetti edemi freddi (legati a germi delle gangrene
gassose, superata la fase acuta) e quelli caratterizzati da infiltrazioni essudative-purulente,
denominati flemmoni sottocutanei. A livello sottocutaneo è possibile osservare anche raccolte
gassose riconoscibili durante l’esame della palpazione in cui la presenza di gas produce una
sensazione di crepitio.
Nel caso di Lian, data la repentina formazione dell’edema (2 giorni) e le caratteristiche della lesione
e dell’essudato è stata formulata una diagnosi di flemmone sottocutaneo molto probabilmente
causato da un evento traumatico. La presenza infatti della piccola lesione da cui gemeva materiale
essudatizio-purulento ha fatto fortemente sospettare che l’evento traumatico fosse stato il graffio di
un gatto con cui Lian condivide il giardino di casa. Le unghie del gatto possono veicolare numerosi
batteri, P. multocida è il più comune microorganismo isolato in coltura da cani e gatti con lesioni da
morso o da graffio, altri microrganismi coinvolti sono: S. intermedius, Streptococchi β-emolitici,
Fusobacterium spp., Bacteroides spp., Clostridium spp., Peptostreptococcus spp., Porphyromonas
spp. I batteri presenti nel terreno e sugli artigli vengono quindi iniettati nel sottocute attraverso una
ferita piccolissima che si chiude molto velocemente; l’infezione locale generalmente si sviluppa
nell’arco di 2-4 giorni. Il trattamento di prima scelta è il drenaggio chirurgico e la pulizia locale con
lavaggi a base di clorexidina o soluzione salina. In alternativa, soprattutto nei casi in cui la lesione
presenta una rottura da cui fuoriesce materiale, si può velocizzare la guarigione somministrando un
antibiotico per via sistemica. Nel caso descritto e’ stata somministrata amoxicillina e acido
clavulanico alla dose di 20 mg/kg ogni 12 ore per 7 giorni, ottenendo la completa risoluzione
clinica.