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DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 1: PROBLEMI…DI PANCIA! Nel caso di Luna, in base ai riscontri ottenuti all’anamnesi, alla visita clinica e soprattutto grazie all’ecografia addominale ed all’esecuzione di test sierici specifici (cPLI) la diagnosi formulata è stata quella di pancreatite acuta. La pancreatite acuta è una patologia molto seria con alto tasso di mortalità e richiede cure intensive, mentre le forme più moderate possono essere gestite con fluidoterapia endovenosa e analgesici. La terapia classica della pancreatite acuta si basa sul mantenimento dell’equilibrio idrico ed elettrolitico, nel controllo dei segni clinici, nell’analgesia ed in una corretta gestione alimentare. La FLUIDOTERAPIA ENDOVENOSA è un caposaldo della terapia, sia per correggere gli squilibri elettrolitici e l’acidosi metabolica, dovuti al vomito e al sequestro di fluidi all’interno del tratto gastroenterico atonico, e soprattutto per garantire un’adeguata perfusione pancreatica che risulta di vitale importanza per prevenire l’ischemia che contribuisce alla necrosi. La velocità e la quantità con cui i fluidi vengono somministrati dipende dal grado di disidratazione riscontrato e dalle perdite del paziente. Generalmente si utilizza Ringer Lattato oppure, nei casi più gravi, si può ricorrere ai colloidi, in questo caso il plasma risulta il migliore, perché utile per reintegrare alfa1-antitripsina e alfa2- macroglobulina , fornisce inoltre fattori di coagulazione e può essere associato a terapia eparinica negli animali ad elevato rischio di DIC. Gli ANTIEMETICI vengono utilizzati per la gestione del vomito acuto. Esso nei soggetti con pancreatite è sia di origine centrale, per la presenza di agenti emetici circolanti, che di origine periferica, a causa dell’ileo e la peritonite. Efficace risulta il maropitant, agonista del

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DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 1: PRO BLEMI…DI PANCIA!

Nel caso di Luna, in base ai riscontri ottenuti all’anamnesi, alla visita clinica e soprattutto

grazie all’ecografia addominale ed all’esecuzione di test sierici specifici (cPLI) la diagnosi

formulata è stata quella di pancreatite acuta.

La pancreatite acuta è una patologia molto seria con alto tasso di mortalità e richiede cure

intensive, mentre le forme più moderate possono essere gestite con fluidoterapia endovenosa

e analgesici.

La terapia classica della pancreatite acuta si basa sul mantenimento dell’equilibrio idrico ed

elettrolitico, nel controllo dei segni clinici, nell’analgesia ed in una corretta gestione

alimentare.

La FLUIDOTERAPIA ENDOVENOSA è un caposaldo della terapia, sia per correggere gli

squilibri elettrolitici e l’acidosi metabolica, dovuti al vomito e al sequestro di fluidi

all’interno del tratto gastroenterico atonico, e soprattutto per garantire un’adeguata

perfusione pancreatica che risulta di vitale importanza per prevenire l’ischemia che

contribuisce alla necrosi. La velocità e la quantità con cui i fluidi vengono somministrati

dipende dal grado di disidratazione riscontrato e dalle perdite del paziente. Generalmente si

utilizza Ringer Lattato oppure, nei casi più gravi, si può ricorrere ai colloidi, in questo caso

il plasma risulta il migliore, perché utile per reintegrare alfa1-antitripsina e alfa2-

macroglobulina , fornisce inoltre fattori di coagulazione e può essere associato a terapia

eparinica negli animali ad elevato rischio di DIC.

Gli ANTIEMETICI vengono utilizzati per la gestione del vomito acuto. Esso nei soggetti

con pancreatite è sia di origine centrale, per la presenza di agenti emetici circolanti, che di

origine periferica, a causa dell’ileo e la peritonite. Efficace risulta il maropitant, agonista del

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recettore NK1, perché possiede sia attività centrale che periferica ed oltre a controllare

l’emesi viene bloccata anche la produzione di sostanza P. Viene somministrato alle dosi di

1mg/kg una volta al giorno fino a 5 giorni.

I GASTROPROTETTORI vengono utilizzati in corso di pancreatite acuta poiché c’è un

elevato rischio di sviluppo di ulcere gastroduodenali. Possono essere utilizzati inibitori

dell’acidita’gastrica come cimetidina, che però va evitata in soggetti con concomitante

epatopatia per i suoi effetti a carico del citocromo P450, ranitidina e la famotidina, o in

alternativa gli inibitori della pompa protonica (omeprazolo).

In genere la pancreatite del cane è sterile, tuttavia è comune la traslocazione batterica

secondaria alla compromissione gastrointestinale, di conseguenza va applicata la terapia con

ANTIBIOTICI ad ampio spettro e efficace nei confronti di batteri gram-negativi e anaerobi.

Un aspetto importante della terapia, è la somministrazione di ANALGESICI, poiché si tratta

di una condizione molto dolorosa, e si possono utilizzare morfina, fentanil o anche lidocaina

o ketamina. L’utilizzo dei FANS potrebbe essere controindicato sia perché aumentano il

rischio di ulcere gastroduodenali nei soggetti con pancreatite e sia perché alcuni FANS

possono far precipitare uno scompenso renale negli animali con ipotensione e /o shock.

Può risultare utile, anche la somministrazione di DOPAMINA, (5 µg/kg/min) poiché

migliora la perfusione pancreatica, riducendo la progressione della patologia.

In ogni caso, l’ALIMENTAZIONE, rimane l’aspetto fondamentale nella gestione di tali

pazienti. La gestione nutrizionale “classica” prevedeva la sospensione dell’alimentazione e

la fluidoterapia, per i primi giorni di terapia. Studi recenti, hanno invece messo in

discussione l’applicazione della sospensione alimentare, hanno dimostrato che risulta

migliore la somministrazione di una dieta altamente digeribile, priva o povera di grassi. Nei

soggetti che lo richiedano, per la somministrazione degli alimenti si può ricorrere alle sonde

rinogastrica, da esofagostomia, da gastrostomia o da digiunostomia.

Infine, non vanno trascurate le eventuali complicazioni che si possono verificare nei soggetti

con pancreatite acuta, e che andranno trattate di conseguenza (Tabella 7).

Tabella 7. Principali complicanze in corso di pancreatite acuta

Complicanza Descrizione

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Ileo La pancreatite può causare ileo, regionale o

diffuso, attraverso vari meccanismi: la

peritonite può determinare una perdita della

motilità dovuta alla flogosi che si estende negli

altri organi come stomaco o duodeno. Può

provocare ileo anche la perdita di potassio

secondaria al vomito e alla diarrea profusi.

Infine, la stimolazione del sistema nervoso

simpatico (shock) può indurre perdita della

motilità intestinale.

Epatopatia Compare quando l’infiammazione pancreatica

si estende al fegato. Inoltre la flogosi può

estendersi anche al dotto biliare, portando ad

una ostruzione biliare extraepatica.

Coagulopatie/DIC Le proteasi libere attivano i sistemi della

chinina, della coagulazione, fibrinolitici e del

complemento.

Ipotensione Dovuta a vomito e diarrea e alla ridotta

assunzione di acqua.

Nel caso di Luna, in cui la pancreatite era in forma abbastanza lieve, l’approccio terapeutico ha

previsto:

- Dieta specifica a ridotto tenore di grassi, somministrata in piccoli pasti quattro volte al

giorno;

- Fluidoterapia endovenosa (Ringer lattato) per i primi giorni;

- Terapia antiemetica (maropitant 1 mg/kg/sc sid);

- Antibiotico-terapia (enrofloxacina 5mg/kg/sc sid );

- Analgesia (butorfanolo ,11 mg/kg sc bid) per i primi tre giorni.

Dopo una settimana, le condizioni di Luna sono migliorate notevolmente, con scomparsa del

vomito, del dolore addominale e della febbre, e riacquisizione dello stato di idratazione, mentre

la diarrea è scomparsa del tutto dopo qualche settimana.

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DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 2: A VO LTE LA

DIAGNOSI È PIÙ SEMPLICE DEL PREVISTO…BASTA OSSERVAR E

BENE!

Nel caso di Chicco la diagnosi è stata ottenuta rapidamente grazie all’accurata osservazione

microscopica dello striscio di sangue periferico che ha permesso di evidenziare la presenza di

numerose morule di Anaplasma platys all’interno del citoplasma delle piastrine (figura 2). Le

principali alterazioni clinico-patologiche in corso di infezione sostenuta da A. platys sono descritte

nella seguente tabella (tab.3)

Tab.3. Principali alterazioni clinico-patologiche in corso di infezioni da A. platys. - Guideline for

veterinary practitioners on canine ehrlichiosis and anaplasmosis in Europe, 2015

Figura 1. Morule di A. platys all'interno di una piastrina

L’Anaplasmosi è trasmessa da zecche ed è sostenuta da Anaplasma phagocytophilum ed

Anaplasma platys, batteri gram negativi a localizzazione obbligatoria intracellulare (rispettivamente

granulociti neutrofili e piastrine). Anaplasma phagocytophilum è l’agente patogeno responsabile

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dell’Anaplasmosi granulocitaria, il vettore è la zecca del genere Ixodes ricinus distribuita in tutte le

regioni italiane. Il periodo di incubazione dopo l’esposizione alla zecca è di circa 7-14 giorni.dopo

un pasto di sangue infetto i batteri penetrano all’interno della cellula ospite sottoforma di fagosomi

quindi si moltiplicano per scissione binaria formando grossi corpi inclusi (morule). La successiva

morte della cellula ospite causa il dissolversi della morula, la liberazione dei batteri nel sangue

periferico e l’infezione di altri granulociti neutrofili. La sintomatologia è associata alla fase acuta

dell’infezione caratterizzata dalla batteriemia. I sintomi più frequenti sono: febbre alta, letargia,

anoressia, dolorabilità muscolare, poliartrite e riluttanza al movimento, moderata o grave

trombocitopenia, raramente neutropenia, aumento dei livelli sierici della fosfatasi alcalina,

ipoalbuminemia ed iperfibrinogenemia. La fase acuta può decorrere anche in forma asintomatica e,

a differenza di quanto avviene nelle infezioni da Ehrlichia canis, non è descritta una fase clinica

subacuta-cronica. La diagnosi può essere ottenuta tramite: 1) esame citologico su strisci di sangue

periferico o liquido sinoviale ed identificazione delle morule all’interno del citoplasma dei

granulociti neutrofili durante la fase acuta dell’infezione; 2) test di immunofluorescenza indiretta

(IFAT) o ELISA per la ricerca di anticorpi anti- A. phagocytophilum; 3) PCR per identificare il

DNA del batterio. E’ dimostrato che la PCR eseguita su sangue può risultare negativa anche in

soggetti sani sieropositivi poiché il batterio può circolare in modo intermittente nel sangue

periferico. la PCR può essere utile per differenziare infezioni da Anaplasma da quelle sostenute da

Ehrlichia. Anaplasma platys è l’agente responsabile della Trombocitopenia ciclica infettiva, il

vettore sono zecche della specie Rhipicephalus sanguineus e Dermacentor reticulatus, distribuite la

prima su tutto il territorio italiano e la seconda in alcune aree del nord Italia. Dopo un pasto di

sangue infetto il batterio penetra all’interno delle piastrine per endocitosi, qui si moltiplica per

scissione binaria formando una morula. La successiva apoptosi delle piastrine infettate porta al

dissolvimento della morula nel sangue periferico e alla successiva infezione di altre piastrine. Il

tempo di incubazione varia da 8 a 15 giorni. Durante l’iniziale batteriemia è possibile riscontrare il

maggior numero di piastrine parassitate, pochi giorni dopo questa fase il conteggio totale delle

piastrine si riduce drasticamente e i batteri non sono più visibili all’interno delle cellule. Dopo la

scomparsa dei microrganismi il numero delle piastrine aumenta rapidamente tornando a valori

normali nell’arco dei 3-4 giorni. La parassitemia ed i successivi episodi di trombocitopenia si

ripetono ad intervalli di circa 1-2 settimane; mentre il primo episodio di piastrinopenia è causata

dall’azione diretta del batterio che replica all’interno delle cellule, gli episodi successivi sono

ascrivibili a meccanismi immuno-mediati. Con il passare del tempo solitamente gli episodi sono

meno frequenti e la trombocitopenia diventa lieve. La sintomatologia è legata alla fase betteriemica

ed alla trombocitopenia; generalmente i sintomi sono lievi. Segni clinici più gravi includono:

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febbre, letargia, pallore delle mucose, petecchie, epistassi, uveite, linfoadenomegalia, grave

trombocitopenia (< 20.000 piastrine/µl) durante la fase betteriemica, aumento lieve o moderato

delle proteine della fase acuta e delle immunoglobuline. La diagnosi si ottiene attraverso: 1) esame

microscopico di strisci di sangue periferico ed identificazione delle morule all’interno delle

piastrine; 2) test di immunofluorescenza indiretta (IFAT) per la ricerca di anticorpi anti- A. platys

(frequente cross reattività con A. phagocytophilum); 3) PCR per identificazione del DNA del

batterio. Può essere utile per differenziare infezioni da A. platys e A. phagocytophilum. E’

importante considerare in corso di infezioni da A. platys , la diagnosi differenziale con Ehrlichiosi,

Leishmaniosi, Babesiosi.

Chicco è stato sottoposto a terapia antibiotica specifica. Il protocollo più utilizzato prevede la

somministrazione di doxiciclina alla dose di 5-10 mg/kg, per os, SID o BID, per 30 giorni. Il follow

up ad una settimana già permetteva di verificare il miglioramento delle condizioni cliniche:

scomparsa della febbre, miglioramento dell’uveite, riduzione di volume della milza e scomparsa

delle morule all’interno delle piastrine. Alla fine del trattamento le condizioni cliniche erano tornate

nella norma.

DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 3: SEGNI CLINICI

INSIDIOSI…

L’anamnesi e i segni clinici di Micia, la presenza di PU/PD, perdita di peso, il riscontro di anemia e

iperazotemia, oltre a proteinuria e alle marcate alterazioni evidenziate grazie all’ecografia

addominale, hanno permesso di formulare la diagnosi di malattia renale cronica.

La nefropatia cronica, o CKD (chronic kidney disease) è la più comune patologia renale che si

riscontra nel cane e nel gatto. Indipendentemente da quale sia la causa responsabile della perdita dei

nefroni, la CKD si caratterizza per la presenza di lesioni strutturali irreversibili, per cui, pur

eliminando la patologia primaria, persistono e le prospettive di miglioramento della funzionalità

renale sono scarse, sebbene i soggetti con CKD, se sottoposti ad una terapia di supporto adeguata,

possano anche sopravvivere per diverso tempo mantenendo una buona qualità della vita.

Sebbene ci siano dati limitati riguardo la prevalenza della CKD nel gatto, alcuni studi hanno

permesso di identificare due principali picchi di incidenza della malattia a seconda dell’età: un

primo, come nei cani, negli animali al di sotto dei 3 anni di vita, a causa di patologie di origine

congenita, e poi un picco di incidenza negli animali di età avanzata.

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Spesso è una malattia tubulo-interstiziale cronica di cui non si conosce la causa primaria, la

responsabile dello sviluppo di CKD, sebbene esistano numerose condizioni che possono portare ad

una nefropatia cronica (Tabella 4).

Tabella 4. Principali malattie causa di CKD nel cane e nel gatto (modificato da Ettinger, 2008)

Patologie che possono causare CKD nei piccoli animali

Malattie familiari o congenite

Cane Amiloidosi (Shar Pei, Beagle)

Cistoadenocarcinoma (Pastore Tedesco)

Displasia renale (ShiTzu, Lhasa apso, Golden

Retriever, Chow Chow…)

Glomerulopatia (Dobermann pinscher, Bull terrier,

Samoiedo…)

Sindrome di Fanconi (Basenji)

Patologia policistica (Cairn terrier)

Gatto Amiloidosi (Abissino, Orientale a pelo corto)

Patologia policistica (Persiano, Himalayano)

Malattie acquisite

Infettive Batteriche

Micosi (blastomicosi)

Lepstospirosi

Leishmaniosi

Peritonite infettiva felina (FIP)

Neoplasie Linfosarcoma

Carcinoma delle cellule renali

Nefroblastoma

Altri

Ipercalcemia Neoplasie maligne

Iperparatiroidismo primario

Altre Esito dell’insufficienza renale acuta

Amiloidosi renale

Policistiche

Nefrolitiasi

Idiopatiche

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I gatti con nefropatia cronica in genere hanno un’anamnesi che riferisce la presenza di poliuria e

polidipsia, perdita di peso, inappetenza e vomito, o, nei casi più gravi, improvviso peggioramento

dello stato clinico e collasso, qualora il soggetto sia in fase di crisi uremica. All’esame fisico sarà

possibile riscontrare uno scadimento delle condizioni generali, disidratazione, mantello in cattive

condizioni, reni piccoli e duri ed eventuali segni clinici riconducibili alla patologia primaria (ad

esempio nefromegalia in caso di linfoma renale, ecc.). Inoltre, non sono infrequenti complicanze

come perdita acuta della vista, ifema, in caso di ipertensione, e disturbi della minzione in caso di

infezioni del tratto urinario concomitanti.

La diagnosi di CKD, si raggiunge, oltre che considerando segnalamento, anamnesi e segni clinici,

l’ausilio delle indagini strumentali collaterali. In particolare andrebbero eseguiti:

- Esame emocromocitometrico, profilo biochimico, emogas;

- Esame delle urine e UPC;

- Misurazione della pressione arteriosa

- Radiografia e/o ecografia renale.

La biopsia renale e il conseguente esame isto-patologico, mettono in evidenza la perdita di tubuli

renali sostituiti da fibrosi, mineralizzazione, sclerosi e atrofia glomerulare, aree di infiltrazione

interstiziale di cellule mononucleate associata a sostituzione con tessuto fibroso cicatriziale. Tale

indagine è particolarmente utile qualora si sospetti che alla base della CKD ci sia una determinata

patologia (es. linfoma) che potrebbe richiedere una modifica del trattamento, altrimenti potrebbe

non essere necessario ricorrere alla biopsia per la diagnosi, anche considerati i rischi insiti nella

procedura, come l’emorragia, o la possibilità di compromettere ulteriormente la funzionalità

dell’organo.

Tra le alterazioni che è possibile riscontrare tramite indagini strumentali abbiamo: anemia

normocitica normocromica non rigenerativa, iperazotemia, iperfosfatemia, ipercalcemia,

ipokaliemia, riduzione del peso specifico urinario e proteinuria, acidosi metabolica. Radiografie ed

ecografie possono evidenziare reni di piccole dimensioni e aiutare ad escludere alcune condizioni

patologiche potenzialmente curabili, come pielonefrite e calcolosi. All’esame ecografico di norma

si rileva iperecogenicità della corticale renale (per la sostituzione dei nefroni con tessuto fibroso

cicatriziale), con perdita della linea di confine tra corticale e midollare renale.

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Importante, sia ai fini terapeutici che prognostici, è la corretta differenziazione tra una condizione di

danno renale acuto (AKI, Acute Kidney Injury) e una nefropatia cronica (Tabella 5): di norma, i

gatti con danno renale acuto hanno un quadro clinico moto più grave a causa dell’iperazotemia, che

in genere è meglio compensata in quelli con patologia cronica.

Tabella 5. Diagnosi differenziale tra danno renale acuto (AKI- Acute Kidney Injury) e malattia

renale cronica (CKD- Chronic Kidney Disease) (modificato da Bo,2014)

AKI - Acute Kidney Injury CKD - Chronic Kidney Disease

Anamnesi Insorgenza improvvisa.

Possibile esposizione a sostanze

tossiche/farmaci

Oliguria o anuria

Esordio graduale. Segni compatibili

con nefropatia cronica, come

PU/PD, perdita di peso,

inappetenza, vomito

Poliuria

Visita clinica Condizioni generali buone

Possibile presenza di segni

correlati alla causa primaria

Reni dolenti ed eventuale

nefromegalia

Vescica può essere di dimensioni

molto ridotte

Condizioni generali scadenti

Disidratazione. Possibile pallore

delle mucose per la presenza di

anemia

Reni induriti e di piccole

dimensioni, in genere non dolenti

Spesso nella vescica non è presente

urina

Profilo ematologico e

biochimico

Emocromo di solito normale. Htc

aumentato per disidratazione

Azotemia e creatinina: aumento da

moderato a marcato

Fosfato: aumento da moderato a

marcato

Calcio: ipo- , normo- o

ipercalcemia

Potassio: aumento da moderato a

marcato

Anemia normocitica normocromica

non rigenerativa

Azotemia e creatinina: aumento da

lieve a moderato

Fosfato: aumento da lieve a

moderato

Calcio: normo- o ipercalcemia

(iperparatiroidismo secondario

renale)

Potassio: ipo- o normokaliemia

Esame delle urine Isostenuria (PS 1008-1015)

Cilindruria; cristalli di ossalato di

Isostenuria o perdita della capacità

di concentrare le urine (PS <1035)

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calcio monoidrato

nell’avvelenamento da glicol

etilenico

Proteinuria e può essere presente

glicosuria

Sedimento inattivo a meno che non

sia presente concomitante UTI

Proteinuria

Radiografia/Ecografia Reni ingrossati o normali Reni piccoli spesso di forma

irregolare

I pazienti con CKD possono manifestare una sintomatologia acuta (nefropatia cronica scompensata)

qualora in un animale in precedenza stabile si instauri una crisi uremica. Tra le cause più comuni:

- Ipovolemia: sia per perdita (vomito, diarrea) o che per ridotta assunzione;

- Infezione delle vie urinarie o pielonefrite;

- Ipertensione;

- Altre malattie concomitanti (es. diabete mellito, odontopatie, neoplasie).

Una volta diagnosticata una CKD, risulta indispensabile stadiare la patologia, per attuare il migliore

protocollo terapeutico, e valutarne la progressione e la prognosi: a questo scopo, particolarmente

utili risultano le linee-guida fornire dall’IRIS. L’IRIS (International Renal Interest Society), è

un’organizzazione internazionale, composta da veterinari con specifiche competenze in materia di

nefrologia, e il cui principale obiettivo è quello di fornire ai colleghi professionisti un mezzo per

una migliore comprensione, diagnosi e trattamento della patologia renale nei piccoli animali. A tale

scopo, negli anni la società ha redatto delle linee-guida inerenti la diagnosi ed il trattamento

dell’insufficienza renale cronica nel cane e nel gatto. La stadiazione IRIS si basa principalmente

sulla misurazione della creatinina plasmatica, prevede una sottostadiazione mediante la valutazione,

prima, della proteinuria e, poi, della pressione arteriosa sistemica. In tal modo, ciascun caso di

insufficienza renale cronica viene inserito in una classe, a seconda del livello di creatininemia

(stadio I, II, III e IV), e in due sottoclassi, in base ai valori proteinurici (non proteinurico, borderline

proteinurico, proteinurico) e pressori (rischio minimo, basso, moderato e alto). Di recente, la

stadiazione IRIS è stata modificata, prevedendo l’aggiunta di un nuovo parametro, la SDMA: la

dimetilarginina simmetrica o SDMA, deriva dalla metilazione intranucleare della L-arginina, viene

rilasciata nel circolo dopo proteolisi ed eliminata a livello renale. La concentrazione plasmatica di

SDMA è legata primariamente al tasso di filtrazione glomerulare, di conseguenza essa è

considerata un marker precoce di funzione renale: l’incremento della SDMA si può osservare

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prima dell’aumento della creatinina ed inoltre non risente, a differenza di quest’ultima, della massa

muscolare.

Di seguito, è riportata in breve la stadiazione IRIS per i gatti affetti da malattia renale cronica

(Tabella 6).

Tabella 6. Stadiazione IRIS nel gatto (modificato da IRIS, 2015)

STADIO CREATININA COMMENTI

A rischio

< 140 µmol/L

< 1.6 mg/dL

L’anamnesi suggerisce che l’animale presenta un

aumentato rischio di sviluppare IRC in futuro, a causa di

una serie di fattori (ad esempio, esposizione a farmaci

nefrotossici, razza, alta prevalenza di malattie infettive

nell’area, età avanzata)

Stadio 1 < 140 µmol/L

< 1.6 mg/dL

Non azotemico. Presenti alcune altre anomalie renali:

inadeguata capacità di concentrare le urine in assenza di

una causa non renale, riscontri anomali alla palpazione

renale o alla diagnostica per immagini, risultati anomali

alla biopsia renale, proteinuria di origine renale, aumento

dei livelli di creatinina in campioni raccolti

consecutivamente

Stadio 2 140- 250

µmol/L

1.6 - 2.8 mg/dL

Lieve azotemia renale (secondo alcuni laboratori, i valori

prossimi al limite inferiore di questo intervallo possono

ancora rientrare fra quelli normali)

Segni clinici di solito lievi o assenti

Stadio 3 251- 440

µmol/L

2.9 - 5.0 mg/dL

Moderata azotemia renale. Possono essere presenti diversi

segni clinici extra-renali

Stadio 4 > 440 µmol/L

> 5.0 mg/dL

Aumentato rischio di segni clinici sistemici e crisi

uremiche

SDMA

In base ai livelli di SDMA, vanno considerate alcune modifiche alla precedente classificazione:

- Se SDMA > 14 µg/dL, i gatti con valori di creatinina < 1.6 mg/dL vanno considerati allo Stadio

IRIS 1

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- Se SDMA ≥ 25 µg/dL, i gatti inquadrati allo stadio IRIS 2 (e con basso BCS) vanno considerati

allo Stadio IRIS 3

- Se SDMA ≥ 45 µg/dL, i gatti inquadrati allo stadio IRIS 3 (e con basso BCS) vanno considerati

allo Stadio IRIS 4

UP/C* SOTTOSTADIO

< 0.2 Non proteinurico

0.2 - 0.4 Borderline proteinurico

> 0.4 Proteinurico

*Tale stadiazione andrebbe effettuata sulla base di almeno due campioni urinari raccolti in un

periodo di almeno due settimane

PRESSIONE SISTEMICA (mm hg) SOTTOSTADIO

<150 Normotensivo. Rischio di danno dell’organo

terminale assente o minimo.

150-159 Borderline ipertensivo. Rischio di danno

dell’organo terminale basso.

160-179 Ipertensivo. Rischio di danno dell’organo

terminale moderato.

≥180 Gravemente ipertensivo. Rischio di danno

dell’organo terminale grave.

La terapia in corso di nefropatia cronica ha tre obiettivi principali:

1) Identificare, se possibile, la malattia primaria e trattarla (es. pielonefrite);

2) Controllare e trattare le anomalie biochimiche e funzionali (es. ipertensione, proteinuria)

3) Controllare i segni clinici (es. vomito)

Il trattamento specifico per la causa primaria di CKD, è attuato raramente; di conseguenza la terapia

è per lo più improntata a controllare segni clinici e alterazioni clinico-patologiche e a rallentare la

progressione del danno renale. A questo scopo, risultano particolarmente utili le indicazioni fornite

dalle linee-guida IRIS, che prevedono, a seconda dello stadio di CKD presente nel gatto, un

differente approccio terapeutico, di seguito brevemente riportato.

Stadio 1:

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1. Dieta: utilizzare diete specifiche, caratterizzate da un ridotto apporto proteico (ma di migliore

qualità), ridotto tenore di fosfato e sodio, maggiore apporto vitaminico, presenza di antiossidanti,

maggiore apporto di potassio, più alto tenore energetico e aggiunta di acidi grassi polinsaturi

2. Interrompere la somministrazione di eventuali farmaci nefrotossici

3. Identificare e trattare ogni anomalia pre- o post-renale

4. Escludere e gestire eventuali condizioni concomitanti (es. pielonefrite)

5. Trattare la disidratazione: aumentare le fonti di acqua fresca e, se necessario, effettuare

fluidoterapia endovenosa (es. Ringer lattato)

6. Trattare l’ipertensione: è evidenziata la persistenza dell’ipertensione grazie all’esecuzione di

misurazioni multiple, essa va trattata con l’obiettivo di ridurre la pressione sistolica < 160 mm

Hg. I passi che si possono seguire nell’approccio terapeutico prevedono:

- Riduzione della quota dietetica di sodio

- Utilizzo di calcio-agonisti, come l’amlodipina (0.125-0.25 mg/kg/sid)

- Raddoppiare la dose di amlodipina (0.25-0.5 mg/kg/sid)

- Terapia combinata con un ACE-inibitore o un antagonista dei recettori dell’angiotensina e

un calcio-agonista.

I gatti con ipertensione richiedono in genere una terapia lunga e costanti monitoraggi per

adeguare la terapia. Dopo la stabilizzazione del paziente, il monitoraggio dovrebbe avvenire

almeno ogni 3 mesi. Una pressione sistolica <120 mm Hg, o segni clinici come debolezza o

tachicardia, sono indicativi di ipotensione, che va evitata.

7. Trattare la proteinuria: quando presente la proteinuria (UPC > 0.4) va trattata, mentre i soggetti

con valori borderline (UPC 0.2-0.4) richiedono successivi e frequenti monitoraggi. L’approccio

terapeutico prevede:

- Ricercare e trattare eventuali condizioni patologiche concomitanti

- Considerare la possibilità di eseguire una biopsia renale per identificare la patologia

sottostante

- Somministrare ACE-inibitori e dieta specifica renale (Considerare che l’uso di ACE-

inibitori è controindicato negli animali disidratati/ipovolemici)

- I gatti con proteinuria e ipoalbuminemia, sono a rischio di tromboembolismo: se i livelli

plasmatici di albumina <2 g/dl, si può somministrare aspirina (1 mg/kg ogni 72h)

Stadio 2:

Seguire tutte le indicazioni previste per lo Stadio 1, e in più, nei pazienti che lo richiedano:

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1. Riduzione dei livelli di fosfati: mantenere i livelli di fosfati <1.5 mmol/l (ma non <0.9 mmol/l)

risulta benefico nei soggetti con CKD. E’ possibile:

- Restrizione dietetica (dieta renale)

- Se anche con la dieta i livelli di fosfati restano >1.5 mmol/l, si possono somministrare

chelanti intestinali dei fosfati (es. idrossido di alluminio) a un dosaggio di 30-60

mg/kg/die, ad effetto e monitorando costantemente i valori ematici del paziente.

2. Trattare l’acidosi metabolica: supplementazione orale di bicarbonato di sodio (o citrato di

potassio se ipokaliemico) ad effetto per mantenere i valori di CO2 totale nel range di 16-24

mmol/l

3. Trattare l’ipokaliemia: terapia con potassio gluconato o citrato di potassio fino all’effetto

desiderato (dosaggio 1-1 mmol/kg/die)

Stadio 3:

Seguire tutte le indicazioni previste per lo Stadio 2, e in più, nei pazienti che lo richiedano:

1. Trattare l’anemia: se i livelli di anemia sono tali da influenzare negativamente la qualità della

vita dell’animale (in genere Hct <20%), si può utilizzare eritropoietina ricombinante umana o la

darboepotina. Gli steroidi anabolizzanti potrebbero invece risultare controindicati.

2. Trattare il vomito/disoressia/nausea: utilizzare un inibitore di pompa protonica (es.

omeprazolo) e un antiemetico (maropitan oppure ondansetron)

3. Fluidoterapia: se necessaria per mantenere l’idratazione del paziente.

4. I farmaci che potrebbero danneggiare il rene a causa della loro clearance renale, andrebbero

utilizzati con cautela e il loro dosaggio andrebbe adeguato alle condizioni specifiche per evitare

fenomeni di accumulo.

Stadio 3:

Seguire tutte le indicazioni previste per lo Stadio 3, e in più, nei pazienti che lo richiedano:

1. Intensificare gli accorgimenti per prevenire l’eccessiva perdita di peso e la disidratazione:

considerare la possibilità di applicare un sondino naso-gastrico

2. Considerare la dialisi o il trapianto renale

Nel caso di Micia, è stato possibile effettuare tutte le indagini necessarie per la stadiazione IRIS

(creatinemia, UPC, misurazione della pressione arteriosa) eccezione fatta per il dosaggio della

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SDMA, a causa dalla scarsa compliance dei proprietari. In base ai riscontri ottenuti, è stato possibile

classificare la CKD della paziente come allo stadio IRIS 2, proteinurica, borderline ipertensiva.

Purtroppo, non è stato possibile ricoverare Micia per eseguire fluidoterapia ed effettuare ulteriori

approfondimenti diagnostici (es. emogas) per meglio indirizzare la terapia, per cui l’iniziale

approccio ha previsto una dieta renale e la somministrazione di Ace-inibitore (benazepril O,25

mg/kg/sid). Era previsto un primo controllo a due settimane, ma la paziente è stata persa al follow-

up.

DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 4: STR ANI

COMPORTAMENTI…

Alla fine del lungo percorso diagnostico a cui è stato sottoposto Giulio si è raggiunta la diagnosi di

Psicodermatosi. Con il termine di psicodermatosi vengono definite tutte quelle condizioni in cui

l’animale, in assenza di una causa patologica identificabile, si procura autonomamente lesioni

cutanee.

L’origine di questi comportamenti è da ricercare nella presenza di disturbi psicologici ossessivi-

compulsivi che si manifestano con la ripetizione maniacale di comportamenti rituali e stereotipati.

Sono stati identificati tre fattori principali coinvolti nell’eziopatogenesi di questo disordine:

1) predisposizione di razza: razze nervose ed emotive (Doberman pinschers, Setter irlandese,

Labrador, Pastore tedesco)

2) abitudini di vita (condizioni di vita stressanti, noiose, assenza di compagnia umana/animale),

3) carattere individuale dell’animale (nervosismo, ansia, paura, timidezza).

La più comune psicodermatosi del cane è considerata la dermatosi da leccamento delle estremità.

Questo disturbo e’ più frequentemente apprezzabile in soggetti di taglia grande, con temperamento

ansioso, ed i maschi in particolare sembrano più predisposti delle femmine. La noia è considerata la

causa scatenante più comune soprattutto quando i soggetti vengono lasciati soli in box o in casa per

lunghi periodi. Talvolta un lieve trauma può rappresentare l’evento iniziale scatenante, per cui

l’animale inizia a leccarsi la parte senza più smettere.

Il cane manifesta clinicamente il disturbo mordicchiando e leccando nervosamente l’estremità

distale degli arti. Le lesioni sono spesso singole ed unilaterali. La cute della parte interessata è

inizialmente alopecica, ma successivamente, a causa del persistere dell’autotraumatismo, diviene

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erosa, crostosa ed ispessita, sino alla formazione di placche e di noduli induriti ed essudanti. La

presenza di erosioni e di ulcere contribuisce ad aumentare la sensazione di prurito e fastidio e di

conseguenza aumenta il mordicchiamento ed il leccamento. Tutto ciò determina un circolo vizioso

dal quale è difficile uscirne. Le lesioni croniche sono rappresentate da placche di cute fibrotica ed

iperpigmentata spesso ulcerata, localizzate più sul carpo o sul tarso. Il sospetto diagnostico può

essere confermato solo dopo aver escluso la presenza di infezioni batteriche, fungine, allergie e

dolore articolare. La dermatite da leccamento delle estremità può essere una malattia molto

frustrante da trattare e di spesso difficile risoluzione. L’applicazione di un bendaggio o di un collare

elisabettiano è indispensabile per evitare che il cane continui a leccarsi e mordicchiarsi la parte. Se

le lesioni sono croniche quasi sempre è presente un’infezione batterica secondaria per la quale è

necessario somministrare una terapia antibiotica sistemica per almeno 6 settimane o sino a due

settimane dopo la risoluzione. Nei casi iniziali può essere utile l’applicazione topica di idrocortisone

acetato all’1% diluito in dimetilsuffosido o l’infiltrazione intralesionale di triamcinolone. In caso di

lesioni poco estese, quando possibile, l’asportazione chirurgica della cute può rappresentare la

scelta più efficace, seguita dal contenimento dell’animale per evitare la recidiva a partire dalla ferita

chirurgica. La semplice cura della lesione cutanea purtroppo non è sufficiente se la causa primaria

che induce il cane all’autotraumatismo non viene eliminata. Solitamente si consiglia al proprietario

di attenuare qualsisia fattore ambientale stressante, evitando di lasciare il cane solo per lunghi

periodi, aumentando la frequenza e la durata delle passeggiate, evitando il confinamento in gabbia e

considerando l’introduzione di un altro animale, sebbene ciò potrebbe in alcuni casi avere un effetto

dannoso piuttosto che benefico. Se non si riesce ad identificare e correggere facilmente la causa

sottostante, il soggetto dovrebbe essere riferito ad un medico veterinario comportamentista. Nel

breve periodo potrebbe essere necessario usare una terapia farmacologica per interrompere il ciclo

del comportamento ossessivo, che può essere successivamente sospesa se si individuano le cause

sottostanti. Se non si eliminano i fattori causali sottostanti, potrebbe essere necessario proseguire la

terapia. Gli antidepressivi triciclici e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)

sono efficaci nel trattamento della dermatite da leccamento delle estremità. Farmaci e dosaggi

vengono elencati nella tabella seguente (Tab.4).

Tabella 4. Trattamento farmacologico dei disturbi psicogeni

Antidepressivi triciclici

Clomipramina 1-3 mg/kg p.o. q 12h

Amitriptilina 1-3 mg/kg p.o. q 24h

Doxepina 3-5 mg/kg p.o. q 12h

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SSRI

Fluoxetina 1 mg/kg p.o. q 24h

Antagonisti narcotici

Naltrexone 2 mg/kg p.o. q 24h

Per trattare la dermatite da leccamento delle estremità è stato impiegato con successo anche

l’antagonista narcotico naltrexone, che antagonizza l’effetto degli oppioidi endogeni e aumenta

quindi la percezione del dolore, sebbene il suo uso sia ancora controverso.

Giulio è stato trattato con antibiotici e collare elisabettiano. Ha inoltre cambiato le sue abitudini di

vita trascorrendo molto più tempo in compagnia del proprietario, dorme in casa e non più da solo in

giardino. Il proprietario ha da poco adottato una femmina per dare una compagnia a Giulio durante

le ore in cui si assenta da casa. Il disturbo di Giulio è notevolmente migliorato ma non ancora

definitivamente superato, per questo motivo recentemente è seguito anche da una medico

veterinario comportamentalista.

DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 5 : QUA NDO IL

PROPRIETARIO MENTE…

L’approccio terapeutico nei soggetti con DKA, deve essere quanto mai tempestivo e richiede

un’ospedalizzazione del paziente ed il monitoraggio costante dello stesso. Gli obiettivi terapeutici

principali, sono la risoluzione della disidratazione e dell’ipovolemia, il ripristino del normale

equilibrio acido-base e dei livelli di elettroliti, e la normalizzazione, graduale, della glicemia.

Inoltre, in caso di patologie concomitanti, vanno anch’esse trattate adeguatamente per assicurare

una corretta risposta del paziente.

Fluidoterapia: fondamentale per sopperire alle carenze di liquidi e mantenere un normale

equilibrio idroelettrolitico. La scelta della soluzione da utilizzare, è sempre conseguente alla

valutazione dello stato idroelettrolitico dell’animale, comunque, la soluzione elettiva è il cloruro di

sodio allo 0,9%, per la frequente presenza in questi pazienti di iponatremia, oppure è possibile

utilizzare anche Ringer Lattato. In ogni caso la quota di fluidi da somministrare andrà calcolata

considerando la disidratazione del soggetto, la quota di mantenimento e le eventuali perdite, in

modo da ripristinare l’idratazione nelle prime 12 h.

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Supplementazione elettrolitica: la maggior parte dei soggetti con DKA ha inizialmente

concentrazioni di potassio normali o diminuite, per cui può essere necessaria un’integrazione. E’

bene considerare che durante la terapia le concentrazioni di potassio tendono ad abbassarsi per la

reidratazione, la correzione dell’acidemia e per la captazione cellulare del potassio insieme al

glucosio e mediato dall’insulina. Una complicazione comune secondaria alla terapia è proprio una

grave ipokaliemia che si sviluppa nelle prime 24-36 h. Di conseguenza, può essere utile

l’integrazione del potassio, in genere basandosi sulle sue concentrazioni sieriche, o, quando ciò non

è possibile, inizialmente si possono aggiungere 40 mEq di KCl per ogni litro di liquidi

somministrato. Anche il fosfato può richiedere un’integrazione nella terapia, soprattutto quando la

concentrazione sierica di fosforo è < 1,5 mg/dl, e la velocità iniziale di infusione è di 0,01-0,03

mmol/kg/h, monitorando ogni 8-12 h la concentrazione di fosforo sierico, fino a sospendere

l’infusione nel caso compaia ipocalcemia.

Terapia alcalinizzante: in genere, la fluidoterapia e la correzione dell’ipovolemia risolvono anche

l’acidosi metabolica, per cui la somministrazione di bicarbonato può non rendersi necessaria, o,

talora, essere addirittura controproducente se l’alcalinizzazione avviene in maniera troppo rapida.

La sua integrazione va effettuata se la concentrazione plasmatica di bicarbonato scende sotto i 12

mEq/l o la concentrazione venosa totale di CO2 è inferiore a 12 mmol/l. La quota di bicarbonati da

fornire, secondo formula (Figura 3), va somministrata nei liquidi nell’arco di 6 ore, e la terapia va

ripetuta solo se, dopo nuova valutazione dell’emogas, risulti ancora necessaria.

Figura 3. Integrazione di bicarbonati

Insulinoterapia: la terapia con insulina va iniziata 4-6 ore dopo l’inizio della terapia reidratante, e

prevede l’utilizzo di un’insulina ad azione rapida e di breve durata (cristallina, regolare), in modo

da consentire aggiustamenti della dose e della frequenza di somministrazione (Tabella 6). Esistono

due possibili protocolli di impiego: la somministrazione intramuscolare intermittente (dosaggio

iniziale di insulina di 0,2 U/Kg, seguita da 0,1 U/kg ogni ora) oppure l’infusione continua (dosaggio

iniziale di insulina di 0,05-0,1 U/Kg/h). Entrambi i protocolli prevedono precisi ed accurati

monitoraggi, al fine di consentire eventuali aggiustamenti dei dosaggi. L’obiettivo principale della

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terapia insulinica è quello di determinare un abbassamento graduale della glicemia (circa di 75

mg/kg/h) al fine di evitare squilibri osmotici. Quando i livelli di glicemia scendono al di sotto dei

250 mg/dl, i liquidi endovenosi somministrati andrebbero integrati con glucosio in modo da

ottenere una soluzione glucosata al 5%, per da mantenere la glicemia tra 150-300 mg/dl, fino alla

stabilizzazione del paziente e alla ripresa dell’alimentazione spontanea.

Tabella 6. Caratteristiche delle insuline in uso in medicina veterinaria

Terapia sintomatica: essa va adeguata alle specifiche condizioni del paziente (ad esempio

antiemetici, antibiotici ad ampio spettro..) e soprattutto deve essere volta ad eliminare eventuali

patologie concomitanti la cui persistenza può inficiare la corretta risposta terapeutica.

Nel caso di Aaron, la terapia iniziale, ha previsto, secondo protocollo:

- Fluidoterapia endovenosa (sodio cloruro 0,9%) e integrazione di Kcl

- Antiemetico (maropitant 1 mg/kg sc)

- Insulina regolare cristallina in infusione continua, dopo le prime 4 ore

- Terapia antibiotica ad ampio spettro (enrofloxacina 5 mg/kg)

Nonostante gli sforzi terapeutici, le condizioni del paziente sono rapidamente peggiorate e entro

poche ore il soggetto è andato incontro a decesso.

DIAGNOSI, TERAPIA E DISCUSSIONE FINALE CASO 6: AIU TO, SI E’

GONFIATO IL CANE!

Alla luce dei dati anamnestici e clinici, dell’assenza di alterazioni clinicopatologiche, è stata quindi

formulata una diagnosi di sospetto edema localizzato di natura infiammatoria. Con il termine di

edema si intende un accumulo abnorme di liquidi nel compartimento intercellulare, nel connettivo

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interstiziale dei tessuti o in cavità naturali. Si distinguono essenzialmente due tipi di edema:

sottocutaneo o periferico e intracavitario con particolare riferimento a quello addominale, toracico e

pericardico. A livello di ipoderma l’edema si osserva in aree più abbondanti e ricche di tessuto

connettivo: esso si rende manifesto quando localmente il suo volume aumenta di circa il 10%.

Dell’edema sottocutaneo bisogna considerare i seguenti caratteri: distribuzione (sede), entità,

consistenza, temperatura, colore della cute, durate e, infine, eventuale associazione ad altri sintomi

e/ o segni. Per quanto riguarda la sua distribuzione l’edema può essere generalizzato o distrettuale.

Quando è diffuso a tutto o quasi il tessuto connettivo sottocutaneo, si parla di anasarca, con

coinvolgimento prevalente delle zone declivi degli arti, del collo, della testa e del ventre. Quando si

riscontra edema sottocutaneo generalizzato o distrettuale è buona norma ricercare l’eventuale

presenza di versamenti nelle grandi cavità sierose (pleurica, pericardica e peritoneale). Le cause più

frequenti di edema sono riportate nella seguente tabella (Tab.3).

Tabella3.. Cause più comuni di edema

Scompenso cardiaco congestizio

Cuore tamponato

Epatopatie

Nefropatie

Enteropatie proteinodisperdenti

Sindromi da malassorbimento

Malnutrizione

Processi locali di natura infiammatoria, traumatica o neoplastica

Tromboflebiti localizzate

Linfangiti e/o ostruzioni linfatiche localizzate

Nel caso di insufficienza cardiaca congestizia si parla di edema da stasi, in cui si osserva

incremento della pressione venosa per difettoso svuotamento sistolico e aumentata pressione

telediastolica ventricolare, cui seguono incremento della pressione idrostatica a livello dei capillari,

riassorbimento tubulare di acqua e sodio, ipervolemia e trasudazione dei liquidi verso il comparto

extracellulare. Nel casi di grave ipoalbuminemia secondaria a nefropatie, epatopatie ed enteropatie

croniche, si parla di edema discrasico, in cui si assiste a riduzione della pressione colloidosmotica

ed eventualmente della volemia sistemica. In ambedue i casi l’accumulo di liquido ha generalmente

le caratteristiche del trasudato e non riguarda solo il sottocute ma anche le cavità naturali come

quella pericardica, pleurica o addominale (ascite). Gli edemi distrettuali possono colpire qualsiasi

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regione del corpo; nei piccoli animali generalmente si localizza agli arti, allo scroto e al prepuzio.

Esso è secondario a fenomeni compressivi di varia natura, a grave ipoalbuminemia o scompenso

cardiaco. Edemi improvvisi di natura allergica possono colpire la testa oppure zone circoscritte

come nel caso dell’orticaria. L’’entità dell’edema può essere lieve (subedema), evidente o

imponente e la regione colpita può essere più o meno tumefatto, tesa, con scomparsa di pieghe

cutanee e difficoltà a sollevare la cute in pliche. La consistenza può essere molle-pastosa oppure

dura come in corso di processi cronici di natura infiammatoria. Una manovra importante per

definire la natura della tumefazione sottocutanea è quella della compressione con il polpastrello che

può portare alla comparsa della fovea (impronta). La fovea è presente in corso di edema da stasi, in

caso di edema discrasico o linfedema; non si riscontra in caso di mixedema, negli stati infiammatori

o quando è presente pneumoderma. Il mixedema è un particolare tipo di edema, tipico in corso di

ipotiroidismo, in cui si osserva accumulo interstiziale di mucopolisaccaridi, che legano le proteine

plasmatiche filtrate, impedendone la rimozione da parte della circolazione linfatica; si localizza

principalmente al viso, facendo assumere all’animale (cani in particolare) una facies leonina o

tragica. Per quanto riguarda la temperatura essa può variare negli stati infiammatori a cui si

associano le caratteristiche del processo flogistico localizzato (rubor, tumor, dolor, color e functio

lesa); si riscontrano quindi arrossamento della cute (eritema), turgore diffuso, aumento della

temperatura locale e dolore alla palpazione. Tra gli edemi infiammatori si ricordano quelli in cui

non si ha aumento della temperatura come i cosiddetti edemi freddi (legati a germi delle gangrene

gassose, superata la fase acuta) e quelli caratterizzati da infiltrazioni essudative-purulente,

denominati flemmoni sottocutanei. A livello sottocutaneo è possibile osservare anche raccolte

gassose riconoscibili durante l’esame della palpazione in cui la presenza di gas produce una

sensazione di crepitio.

Nel caso di Lian, data la repentina formazione dell’edema (2 giorni) e le caratteristiche della lesione

e dell’essudato è stata formulata una diagnosi di flemmone sottocutaneo molto probabilmente

causato da un evento traumatico. La presenza infatti della piccola lesione da cui gemeva materiale

essudatizio-purulento ha fatto fortemente sospettare che l’evento traumatico fosse stato il graffio di

un gatto con cui Lian condivide il giardino di casa. Le unghie del gatto possono veicolare numerosi

batteri, P. multocida è il più comune microorganismo isolato in coltura da cani e gatti con lesioni da

morso o da graffio, altri microrganismi coinvolti sono: S. intermedius, Streptococchi β-emolitici,

Fusobacterium spp., Bacteroides spp., Clostridium spp., Peptostreptococcus spp., Porphyromonas

spp. I batteri presenti nel terreno e sugli artigli vengono quindi iniettati nel sottocute attraverso una

ferita piccolissima che si chiude molto velocemente; l’infezione locale generalmente si sviluppa

nell’arco di 2-4 giorni. Il trattamento di prima scelta è il drenaggio chirurgico e la pulizia locale con

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lavaggi a base di clorexidina o soluzione salina. In alternativa, soprattutto nei casi in cui la lesione

presenta una rottura da cui fuoriesce materiale, si può velocizzare la guarigione somministrando un

antibiotico per via sistemica. Nel caso descritto e’ stata somministrata amoxicillina e acido

clavulanico alla dose di 20 mg/kg ogni 12 ore per 7 giorni, ottenendo la completa risoluzione

clinica.