Cloud in the USA. On the road tra startup e downtown

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Cloud in the USAOn the road tra startup e

downtown

Di Lucio Bragagnolo e Stefano Garavaglia

Introduzione

Che in America voglio andar

È ancora tempo del “viaggio in America” alla ricerca degli ultimis-simi aggiornamenti sulla frontiera della tecnologia? Mariano Cuni-etti (Responsabile Tecnico), Giuseppe Civitella (Sistemista e CloudArchitect) e Ivan Botta (Amministratore Delegato), tutti parte delteam di Enter, si sono posti non tanto questa domanda, ma unquesito più sfidante: in che direzione sta andando l’evoluzione delcloud? La risposta, che Bob Dylan si era limitato a collocare nelvento (Blowing in the Wind) e Douglas Adams aveva fissato in 42nella Guida Galattica per Autostoppisti, è stata dirigersiverso Openstack. Il viaggio è nato così.

Lungo (e durante) il percorso, la partecipazione a OpenstackSummit 2012 in quel di San Diego è diventata il nucleo centrale diun’esperienza più articolata e coinvolgente, fatta di persone,aziende, eventi, situazioni sicuramente diverse dall’epica dell’On the

Road e più adatte invece a tracciare un panorama di evoluzionetecnologica da fonti diverse dall’usuale.

Invece che feed RSS, gruppi di discussione, mailing list, newsletter ereti sociali, i nostri manager hanno fatto il punto sui propri progetti,andando a parlarne là dove i cambiamenti sono velocissimi, a voltetroppo persino per loro, e dove le persone, le idee, le startup as-sumono valore in modo diverso dal nostro. Non necessariamentemigliore, ma certo indispensabile se si voglia arricchire una esperi-enza professionale nella tecnologia di rete e di cloud, specialmentein tema di Infrastructure as a Service, il canonico IaaS degli ad-detti ai lavori.

Dal resoconto di questo viaggio non emergono solo le ultimissimedall'Openstack Summit 2012 o alcune esperienze sul cloud in-frastrutturale, sui cui Enter in questo momento sta concentrando lapropria attenzione. Ma anche una visione più globale di un panor-ama industriale e professionale che nemmeno la più evoluta dellereti sociali basterà a fornire.

Il viaggio in America è datato? Queste pagine sono l’occasione perpensarci su. E per (ri)pensare le nostre idee di cloud,evidentemente.

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1. Dope’n’Stack. QuandoOpenstack è business, passione edipendenza

Chiediamo scusa ai ragazzi di Piston Cloud, autori del “cloud an-them” presentato in anteprima al festival della canzone cloud di SanDiego. Il titolo di questo paragrafo prende un leggero spunto dalvostro lavoro, ma vi linkiamo.

1.1 Ma i numeri ci interessano?

Mariano

Ci interessano, leggiamo ricerche tutti i giorni. Ce n’è uno che nepubblica parecchi. È anche lo stesso che è stato preso in giro pertutto il Summit.

Eh sì: perché una tra le più note società di ricerche di mercato nelsettore ICT, Gartner, ha pensato bene di dire che Openstack “is notready for production”. Tutti quelli che hanno tenuto un keynotehanno commentato questa “offensiva” dichiarazione: il leit-motivdelle critiche è stato: “Guardate questa sala. Noi saremmo quelli chenon sono pronti?”. E se due anni fa eravamo in 85, oggi al Summitsiamo 1.500. Boati e tifo da stadio.

A parte gli scherzi, il panorama del cloud computing americano di-venta interessante se osservato non dal punto di vista del fatturatoad oggi generato, ma dalla prospettiva degli investimenti. Aziendecome HP, Dell, Cisco, Red Hat e IBM hanno speso, negli ultimi dueo tre anni, fondi sempre più cospicui in termini di marketing e svi-luppo per sostenere progetti open source. Di fatto hanno messosoldi nella community. Alcuni partecipano nel board della Open-stack Foundation, altri forniscono sviluppatori. Ma in generale, ilcoinvolgimento è sempre più intenso.

Ora che, da settembre, l’Openstack Foundation è diventata indi-pendente, si parla di 10 milioni di dollari di investimenti per iprossimi 3 anni.(Fonte Reuters)

La marcia in più di Openstack deriva dalla sua natura di movimentoopen source, molto simile al modello Linux (e infatti molti lo defin-iscono il “Linux del cloud”); c’è quindi molta partecipazione anchefilosofica ed emotiva al progetto.

Com’è ovvio, poi, nonostante le peculiarità open del software, alcunivendor cercano comunque di trascinare la soluzione in un’ “arenaproprietaria”: parlo di aziende come Citrix, Suse, ma anche Nebula ePistonCC.

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1.2 Ho preso un aereo e da Milano sono atterrato aSan Diego

Mariano

Sono partito con l’idea di andare a vedere il cloud in America. Viracconto le mie emozioni e le impressioni.

Primo, non mi aspettavo di trovare questa apertura e una cosìgrande partecipazione al progetto Openstack: chi collabora è vera-mente entusiasta.

Poi, un’altra forte sensazione: lavorare sul cloud riassume tutte letecnologie, le competenze e il modus operandi di un ISP. I vendorsono tendenzialmente più abituati a vendere hardware, difficilmentesi metteranno, per vocazione, a fare grosse sperimentazioni ar-chitetturali sui load balancer, i DNS, le reti a qualunque livello, ifirewall, i server fisici e virtuali: per padroneggiare il cloud comput-ing devi raggiungere un alto livello di conoscenza su ciascuno deilivelli interessati (hardware, software, rete): è uno sforzo non indif-ferente che non può prescindere da un bagaglio di competenze pre-gresse consolidate.

Giuseppe

Ero convinto che noi italiani fossimo indietro, avevo bisogno di veri-ficare. Di vederlo coi miei occhi e toccarlo con le mie mani.

Ero certo che in America ne sapessero molto di più, che fossero av-anti anni luce anche sul versante Openstack. Sono arrivato là perscoprire cosa succederà nelle prossime release del software, per ca-pire che direzione prendere nell’implementazione e nello sviluppodel “Nostro Cloud”. Ma mi sono reso conto che seguire il dibattito suTwitter, canali IRC e blog della community, per quanto dispendiosoin termini di tempo, permette di tenere il passo anche dall’Italia.Con questo non dico che il viaggio non sia servito, anzi, aa sottolineoil fatto che la community degli Openstack-lovers è più attiva eglobale che mai!

Ivan

Le mie aspettative prima della partenza non erano rivolte solo aOpenstack, ma più in generale al cloud made in USA. Sono partitocon l’obiettivo di incontrare le aziende per cercare collaborazioniutili ad accelerare e impreziosire lo sviluppo dei nostri servizi. Obi-ettivo centrato.

Volevo anche vedere come innovano oltreoceano le aziende che sioccupano di Software Defined Networking: abbiamo incon-trato Big Switch e Midokura.

I più “grandi” in questo settore sono quelli di Nicira, azienda acquis-ita da VMware, ma non li abbiamo conosciuti. Un peccato, ma nonuna grande perdita. Secondo me sono fuori dal mercato; chi ragionaesclusivamente su soluzioni proprietarie dovrà fare i conti con lerichieste sempre più puntuali da parte della domanda.

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1.3 Gli amici che porterò sempre con me. Ma anchequelli che... “Mi raccomando, non perdiamoci divista”

Mariano

Ad un certo punto mi si avvicina un tale che assomiglia a JeffBridges e mi dice “Piacere, Simon”. Era Simon Anderson, CEOdi DreamHost. Nei quattro giorni dell’Openstack Summit abbiamoassistito ad alcuni loro keynote e abbiamo davvero apprezzato ladirezione tecnologica impressa alla loro infrastruttura. Non ho sen-tito i suoi discorsi lontani da quelli che facciamo nel quotidianoanche qui in Italia, parlare con lui mi ha fatto sentire “sul pezzo”.

Un personaggione poi è Boris Renski di Mirantis, un tipo russoche ha il senso dell’umorismo russo e parla come Borat. Ecco, lui hacapito come si vendono le soluzioni. Attenzione: non prodotti, masoluzioni! È entrato completamente nel progetto Openstack, tantoda poterlo prendere e ribaltare, montare e smontare in base alle pro-prie esigenze e a quelle dei suoi clienti. In poco tempo ha trasform-ato un’azienda IT/web tuttofare in una Openstack Company.Attualmente ha all’attivo qualcosa come 30 progetti di cloud pub-blico e privato basati su Openstack (e pare che fatturino anchemolto, tanto da dedicare uno speech al tema “How to Make MoneyWith Openstack“), tra cui l’implementazione di una piattaforma ob-ject storage di backend per Cisco Webex.Non solo ha fatto un’analisi precisissima del mercato Openstack edel suo valore attuale e futuro, ma ha dato coordinate precise suquando Openstack costituirà un valido sostituto per VMware in am-bito Enterprise negli anni a venire. Bellezza.

Poi ci sono i ragazzi di Scalr a cui spetta, pur non avendo alcun ruoloattivo nel Summit, il primo premio per la presentazione più in-teressante. Tra tutte le aziende che ho incontrato, sono quelli chefinora si sono spinti più avanti nella comprensione e nell’utilizzo delcloud come commodity.Sono poche persone, tutti giovani-giovanissimi, guidati da SebastianStadil, un francese laureato in economia e matematica finanziariache i numeri li fa girare davvero bene.Dal 2008 stanno lavorando su un software in grado di interfacciarsicon tutte le piattaforme cloud più note e di interagire con l’in-frastruttura virtuale dei clienti, fornendo servizi di autoscaling, faulttolerance, configuration management centralizzato, backup, libreriedi template, statistiche. Possono creare intere infrastrutture con bal-ancer, proxy, cache, front-end, application e database server con po-chi clic. Le stesse configurazioni vengono dispiegate con Chef sullemacchine, e non c’è bisogno nemmeno di loggarsi nel sistema pergestirle. E la cosa sorprendente è che questo software è completa-mente open source, non lo vendono... lo regalano! Come simantengono? Con le consulenze. Impressionante!Faremo un progetto con loro nei primi mesi del 2013.

Però, ad un certo punto dirai: “non può essere stato tutto bello, no?Avrai incontrato anche qualcuno che ti ha fatto dire ‘ma fammi ilfavore…’?” Sì, l’ho incontrato. CloudScaling, in particolare ilfounder e CTO Randy Bias.Il loro approccio è molto più chiuso. Avranno sicuramente unasoluzione straordinaria perché hanno contratti, tra gli altri, conKorea Telecom e Internap. Ma la sensazione è che puntino ai pescigrossi, alle grandi telco. Anche il loro modo di porsi è un pò distantedall’approccio più accogliente delle altre realtà che abbiamoincontrato.

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1.4 Il "Fuori Summit". Un aperitivo da raccontare

Mariano

Memorabile la serata all’Hard Rock Cafè di San Diego.Entro e mi siedo al tavolo con Giuseppe. Due nerd col cocktail inmano. Da soli, perché non conoscevamo nessuno. Ad un certo puntosi siedono vicino a noi due personaggi: uno lo riconosciamo subito, èla stella nascente dello sviluppo di Openstack, Eric Windisch.L’altro, di cui non ricordo il nome, attacca a parlare e dopo un po’ glichiedo “ma tu che lavoro fai?”. Lui, con estrema calma, risponde“ma niente... ho sviluppato la rete di iCloud”. E lo dice così, come seavesse preparato un piatto di patatine fritte.

Agli aperitivi e alle feste dell’Openstack Summit mi sono anche fattoun’idea degli operatori cloud e degli startupper tecnologici americ-ani: tutti ragazzini, davvero molto molto giovani. Giovanissimi emediamente alcolizzati.

1.5 Ma guarda un po’ questi scappati di casa

Mariano

Il titolo serio poteva essere “Italiani in America”. Sembra incred-ibile, ma lungo il nostro viaggio tempestato di incontri con dei nerdpazzeschi abbiamo incrociato anche qualche italiano. La maggiorparte erano turisti da shopping del sabato pomeriggio. Gli altri, po-chi (pochissimi) erano lì per il Summit o perché lavorano nel mer-cato cloud.

A San Diego tre, due italiani di Cloudbase e uno sviluppatore che la-vora per Dream Host in Italia ma è in attesa della carta verde pertrasferirsi in America. In Google abbiamo conosciuto un italiano diCaserta, anche lui scappato dall’Italia, che ci ha guidati in una sortadi tour aziendale.

Poi abbiamo incontrato Stefano Maffulli, su Twitter @smaffulli. Sidice che l’inferno è quel posto in cui c’è la polizia tedesca, la cucinainglese, la musica francese e il tutto è gestito da un italiano. E Ste-fano Maffulli è il community manager di Openstack!

1.6 In volo verso San Francisco

Mariano

La settimana a San Diego è volata, l’Openstack Summit mi ha datoparecchie soddisfazioni e conferme. Mi sono reso conto che abbiamocapito, che con il nostro cloud siamo sulla strada giusta. Siamo at-terrati in America con un’idea e ce la siamo portata a casa quasi cosìcom’era, abbiamo capito che è sostenibile.

Parlando con vari colleghi al Summit ci siamo stupiti piacevomentedel fatto che al momento non ci sono risposte certe. Tanti socratici,insomma, che sanno di non sapere. Openstack è un continuo “lavoroin corso”, forse perché le problematiche (oltre che le opportunità)sollevate dal cloud sono sempre nuove. Chi decide di utilizzarlo haesigenze sempre diverse, per le quali occorre trovare (-->sviluppare)una soluzione.Di fronte ad un dubbio che abbiamo voluto condividere con i nostriinterlocutori, l’approccio non è mai stato “mi aiuti a fare questacosa?”. Eravamo consapevoli che ci avrebbero risposto “che diavolovuoi? Anch’io sto provando a fare la stessa cosa. Easy man, abbiamolo stesso problema”.

Si collabora: con Openstack ti senti meno solo e, allo stesso tempo,hai la sensazione di essere un apripista. Sai che dall’altra parte delmondo, dove sono notoriamente tre anni avanti, stanno facendo lestesse cose che fai tu in Italia.Questa consapevolezza è rassicurante e allo stesso tempo da brivido.È come entrare in cabina di pilotaggio e scoprire che non c’è

nessuno, o che ci sono tante persone che cercano di trarti in salvoma che non hanno ancora capito bene come fare.L’approccio di un vendor invece è totalmente diverso, con loro nonpuoi nemmeno entrare in cabina quindi non ti poni il problema. Saiche qualcuno penserà al posto tuo. E speriamo che pensi bene.

Rileggo e mi accorgo che ho dato un’immagine tutta “rose e fiori”.Non è affatto così, questa parte di viaggio mi ha riservato anchedelle delusioni profonde. La smoke free policy, ad esempio: per fu-mare devi stare almeno dieci metri lontano dagli ingressi di qualsi-asi edificio. Cose da pazzi! E poi, il ristorante afghano di fronte alnostro hotel: impraticabile! Direi che negli Stati Uniti si mangiaveramente male. In certi ristoranti con il conto ti portano anche laprognosi.

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2. What the f**k is Openstack?

Parliamo del software open source che ha rivoluzionato le fonda-menta del cloud infrastrutturale. Openstack è uno strumentoche permette di realizzare e utilizzare servizi cloud IaaS on demand,elastici, con accessibilità illimitata e possibilità di modificare lerisorse di calcolo in qualsiasi momento. Serve anche per renderepossibili, in modalità self-provisioned, quei servizi strutturali chesono da sempre patrimonio di competenze degli ISP.

2.1 Cosa cambia per chi sceglie Openstack?

Giuseppe

Anch’io ho seguito su twitter il dibattito generato delle dichiarazionidi Gartner. Il concetto era abbastanza semplice: loro dicono “Sì,Openstack è carino, ma non è un prodotto, non è una cosa fatta e fi-nita”. Forse è questa la differenza da interpretare: Openstack nonsarà mai un prodotto. È una Fabbrica del Duomo, è in continuaevoluzione, è un software per il cloud su cui mettono mano migliaiadi sviluppatori in tutto il mondo arricchendone quotidianamente lepotenzialità e rendendolo più stabile. Tutto in costante condivisionecon gli altri utilizzatori, tutto free. Openstack è filosoficamentelegato al concetto di cloud: cloud computing significa anche esoprattutto condivisione delle risorse.Le aziende che lavorano con Openstack sono sia quelle che vendonocloud pubblico (Rackspace e Cloud Scaling ad esempio) che quelleche scelgono di offrire soluzioni di cloud privato (ad esempio Nebulae Piston CC). Spesso chi usa Openstack è impegnato in prima per-sona nello sviluppo.

Usare soluzioni preconfezionate, standardizzate, proprietarie -usare quindi dei “prodotti” intesi come li intende Gartner - attiva unprocesso abbastanza vincolante, seppur rassicurante, secondo medestinato a (far) morire: io imposto per la mia azienda una soluzioneche si basa sulle specifiche del produttore di software. Quandoquesto produttore cambia le specifiche o rilascia l’aggiornamento,allora anch’io devo aggiornare i miei sistemi. Se c’è qualcosa che nonva, devo girare intorno al problema e aspettare (sperare) che chi mifornisce il software aggiorni al più presto e “pensi anche a me”.

Con le soluzioni open non è così: il cloud di Rackspace non aspettala prossima release di Openstack per aggiornarsi, è in continuo ag-giornamento. Niente più attese, lavoro direttamente io sul codice.Faccio le modifiche, poi ci sono i test e, se tutto va a buon fine, si vain produzione. Certamente, questo comporta un grande impegno.Ci tengo a spiegare più in concreto questo concetto: a San Diego ab-biamo incontrato un italiano di DreamHost, Rosario: ci ha spiegatocome la sua azienda ha modificato il sistema di billing per integrarsicon Openstack. Se avessero ragionato in “vecchio stile”, avrebberodovuto adattare ogni modifica del software ai loro sistemi perdendoun sacco di tempo. Hanno scelto, invece, di far parte degli svilupp-atori che si occupano del billing su Openstack, assicurandosi inquesto modo che il software sia sempre compliant con i lorosistemi.

Mariano

Giuseppe ha fatto degli esempi che riassumono un concetto più am-pio.Siccome io azienda, io sviluppatore, dovrò comunque mettere manoai miei sistemi per costruire un pezzo che quasi sicuramente manch-erà e che a qualcuno quasi sicuramente servirà, decido di svilup-pare direttamente in condivisione con gli utilizzatori diOpenstack. Ci sono 6700 developer che collaborano al progetto:se devi stare al gioco... allora gioca.E fallo con tutta tranquillità, Openstack concettualmente è comeLinux. Quindi è open e resterà tale.

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2.2 Liberiamo le reti. Cresce l’interesse per le SDN

Ivan

Le SDN (Software Defined Networks) sono una vera rivoluzione. Ilcloud non è nulla senza la rete e, in questo momento, la rete non èlibera. Per disegnare un’architettura di rete occorre scegliere a prioriuna tecnologia di un hardware vendor, concentrarsi sulla logica dis-tributiva che il vendor stesso consente e, solo successivamente,sull'aspetto funzionale della rete verso gli utenti. Questo avvieneperché, fino ad ora, abbiamo mentalmente delegato ai costruttori diapparati di routing e switching l'intelligenza che possiamo impie-gare nel disegnare logicamente e funzionalmente le reti.

Adesso è possibile disintermediare questo sistema che si poggiasu hardware con software embeddato proprietario.Esistono già in commmercio, a costi che iniziano ad essere conten-uti, apparati hardware in grado di calcolare routing e switching(quasi) infiniti a prescindere dal sistema operativo installato. Gli ap-parati hardware nei POP e nei NOC non avranno vincoli di licenza,quindi prevarrà l'intelligenza nel disegno della rete funzionale e lo-gica rispetto a quella fisica che la sostiene nel trasporto e nelcalcolo.

2.3 Openstack sembra una fissazione, quasi unamalattia. Garantiamo che esiste altro

Mariano

Alternative ad Openstack ce ne sono. Joyent, ad esempio, è un belprodotto creato da gente ex SUN e quindi Oracle. Chi lavora in Joy-ent ripete sempre come aneddoto che è come se un pullman di in-gegneri della Sun si fosse rovesciato in mezzo all’autostrada efossero arrivate macchine da tutte le aziende a raccogliere i feriti perportarseli via.Un gruppo di questi “incidentati”, guidati dal geniale Bryan Cantrill,ha messo in piedi una suite software che fa virtualizzazione e or-chestrazione con delle feature che altri sistemi basati su Linux nonhanno nativamente. Parlo di un file system a 128 bit (ZFS), di statsde di un modello di virtualizzazione del sistema operativo scritto daveri ingegneri del software.

Se Joyent avesse rilasciato alla community il codice per tempoavrebbe superato Openstack. Invece hanno ripetuto lo stesso errorecommesso in passato con Open Solaris. Il sistema operativo è dav-vero potente e ben fatto, ma è stato reso open con cinque anni di ri-tardo. In cinque anni succedono molte cose, infatti il loro lavoro, perquanto perfetto, non ha avuto il successo che meritava. Lo avesserocondiviso prima, forse Linux non sarebbe diventato il fenomeno cheè diventato.

Giuseppe

Ci sembra interessante segnalare anche Cloudstack, il progettoCloud Citrix-based, scaturito dall’incubatore di Apache. Cos’ha dallasua? Il fatto che offre prodotti di gestione già pronti da amminis-trare e, soprattutto, la compatibilità con le API di Amazon. D’altrocanto, la user base non è ancora estesissima e ci sembra che la vis-ione strategica sia ancora un po’ acerba. Non vogliamo entrare nellaguerra dei numeri: lo terremo d’occhio con curiosità e ci sembra de-gno di nota perché, come Openstack, è un progetto Open.

E poi la grande madre: VMware. Lo/la utilizziamo, lo/la ven-diamo, ma...

Ne apprezziamo alcune caratteristiche: è leader di mercato, ha avutoun’evoluzione veloce che ha consentito all’azienda di sfruttare appi-eno il vantaggio della prima mossa, è un prodotto solido molto ad-atto ai contesti enterprise. In questo momento, a mio avviso, è infase di consolidamento: non vedo grosse rivoluzioni in pipeline, mapiuttosto l’aggiunta di nuovi servizi a contorno.D’altra parte ha ancora un punto debole (oltre alle problematichecommerciali relative al licensing e alla rivendibilità, che esulano dauna valutazione tecnica del prodotto, ma affliggono noi provider): lascarsa automazione delle configurazioni lato rete (VLAN e cosesimili). In questo senso, l’acquisizione di Nicira potrebbe assicurareuna buona spinta propulsiva in avanti.

In tutto questo excursus, un po' per vocazione, abbiamo preso inconsiderazione l’ambito di utilizzo del cloud che al momento ci vedepiù coinvolti, ossia l’Infrastructure as a Service.Altre valutazioni andrebbero fatte per il SaaS, che sta facendo regis-trare elevati tassi di sviluppo, e il PaaS, che sta viaggiando ab-bastanza bene a giudicare dai 30 piani di grattacielo di Salesforce.

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2.4 Amazon contro il resto del mondo?

Mariano

Sì, decisamente. Sono loro che dettano legge nel mercato IaaS pub-blico, sono loro che hanno stabilito lo standard delle API e sono loroad aver definito il modo di intendere l’infrastruttura cloud.Sono bravissimi. Peccato che il loro mercato possa solo scendere; almomento hanno la fetta più grossa della torta, ma il settore cloud èin continua espansione, nascono quotidianamente nuovi player cheandranno ad insediare il loro strapotere.

Qualcuno dice che anche Amazon ha momenti di down (5 in un an-no e mezzo, l’ultimo lunedì 22 ottobre, memorabile quello che hatrascinato giù Instagram, Netflix e Pinterest).A loro discolpa, hanno un’infrastruttura enorme e non è pensabileche facciano sempre backup di tutto, vorrebbe dire fare la copia delcloud.

Sono i clienti che non sempre sanno come sfruttare al meglio il po-tenziale che Amazon mette a disposizione e che non utilizzano cor-rettamente le Availability Zones. Si aspettano che, al verificarsi diproblemi, ci pensi sempre “mamma hosting provider” a sistemare lecose. È una situazione del tipo “mi si è rotto il gioco, ci hai pensatotu al backup dei miei dati e delle mie app?”. ”No, non hai firmato ilcontratto e quindi io non ho predisposto nessun backup”.

Ci sentiamo di dire che molti dei problemi che riguardano Amazonderivano da un utilizzo dei servizi, da parte della domanda, non

ancora del tutto maturo.Questo ci fa riflettere su una cosa. Distribuzione su vari datacenter,ridondanza e programmi/funzionalità di disaster recovery non van-no dati per scontati e spesso distinguono i servizi cloud reali daquelli soltanto proclamati come tali. Ma dobbiamo tutti fare ancoratanta evangelizzazione su come le applicazioni per il cloud siutilizzano, per coglierne al meglio tutte le opportunità, tra cui lasicurezza.

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3. E il Boss cantò a squarciagola...Cloud in the USA!

Mariano

Ho la sensazione che in America il concetto di cloud sia conosciuto,assodato e utilizzato. Almeno negli ambienti che abbiamo fre-quentato durante il viaggio. A differenza di quanto succede in Italia,sembra che là, quando si nomina il cloud, si sappia di cosa si staparlando. Da noi se ne parla, è l’hype del momento, ma per ora,nella sostanza, i passi da fare dalla virtualizzazione al cloud comput-ing sono ancora molti.

In USA il cloud è acquisito, c’è addirittura una logica “usa e getta”.Prendiamo ad esempio le startup: chi si butta in nuove idee habisogno di risorse pronte “presto e bene”, non ha interesse verso leinfrastrutture, vuole i servizi. Vuole pagare solo quello che consuma.E quando non consuma smette di pagare, arrivederci e grazie. Incasi come questi, il cloud computing è una risorsa oggettiva,utilizzabile e concreta, è una risposta ad un bisogno.In Italia questo bisogno si deve ancora manifestare su larga scala.Far sopravvivere le aziende viene prima della reale utilità o usabilitàdel prodotto che vendono.

3.1 Ma il cloud in America si vende?

Giuseppe

Pensavo che gli americani fossero più consapevoli di come vendereil cloud. Invece, mentre colossi come Rackspace e DreamHost sonogià avviati, sembra che gli intermedi non sappiano bene dovesbattere la testa. O meglio, evitiamo di essere così drastici: diciamoche i piccoli, medio-piccoli e gli startupper stanno perfezionandoidee e progetti, stanno innovando e istruendo i futuri clienti di ser-vizi cloud.

Una sera sono andato con Mariano ad una festa di Mirantis(l’azienda del russo fighissimo che parla come Borat) e lì abbiamoconosciuto i ragazzi di Swiftstack. Sapendo che li avremmo incon-trati a San Francisco qualche giorno dopo, anche se in veste più uffi-ciale, salutandoli gli abbiamo detto “dai allora ci vediamo poi nellavostra sede”; e il loro CEO, Joe Arnold, ci ha detto “see you soon,and please be aware that we’re gonna suck your brain”.Praticamente ci ha detto “voi venite a cercare di capire cosa ven-diamo noi? Ma anche noi cercheremo di capire cosa fate voi”.

Ivan

D’altra parte, le proiezioni di mercato sono abbastanza coerenti (ameno che i vari Istituti di Ricerca non si copino l’uno conl’altro): Forrester prevedeva l’anno scorso che nel 2020 il mercatocloud sarebbe arrivato a 241 billion $; le più recenti stime di MarketResearch Media sono ancora più ottimistiche: $270 billion entro il2020. Guardando poi ai tassi di crescita, Deloitte preannunciava unCAGR del 24% tra il 2008 e il 2013; The 451 Group conferma il datoanche se calcolato tra il 2010 e il 2015; Gartner rileva un 19,6% per il2012.

Barriere o no, tornando alla torta, è destinata a lievitare.

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3.2 Siamo sicuri che il cloud privato sia lasoluzione?

Ivan

È una questione di buon senso. Se non sei Google o un’aziendasimile, a cosa ti serve il cloud privato?

Il cloud computing si fonda sulle asimmetrie di consumo. Fac-ciamo un esempio: l’azienda X quante ore al giorno sfrutta i suoiserver? 8? 10? Perfetto. Se l’azienda X non sceglie il cloud, paga econsuma per 24 ore.

E se all’azienda X (dove X non sta per Google) proponessero di fareal suo interno un private cloud? Cambierebbe poco rispetto ad unscelta infrastrutturale tradizionale, essendo di dimensioni piccole omedie: non andrebbero ad ottimizzare lo sfruttamento delle risorsedi calcolo e della capacità di storage, perché continuerebbero ad al-ternare momenti di attività a tempi morti.

Ne sono convinto. Il cloud computing si fonda sulle asimmetrie diconsumo: se la tua azienda non le ha, le strutture non si consolidanoe quindi non si realizzano né vera efficienza né risparmio.Su cosa ti avvantaggia il vero cloud? Se scegli un sistema condiviso(cloud pubblico) pagherai un po’ di più il tuo costo/consumo, malo farai solo per le ore o addirittura i minuti di reale utilizzo e il con-sumo dei momenti di “fermo” non costerà niente. Il vero cloud con-sente di spegnere le macchine in qualsiasi momento e di smettere dipagare. In una cloud pubblica, se la tua macchina è spenta perinutilizzo (ad esempio di notte), saranno altri a sfruttarne le risorsedi calcolo e a pagare la propria parte.

3.3 Servizi cloud e mobile temo che non sianogarantiti a tutti i cittadini

Ivan

Mi ha colpito la diversa distribuzione dei servizi tra le grosse città eil resto.Ad esempio a San Francisco hanno tutti l’iPhone. C’è tanto WiFi,reti free ovunque anche se la connettività è di pessima qualitàsoprattutto nei locali pubblici. Il 4G è arrivato e navighi velo-cemente, ma appena metti il naso fuori dai grandi centri non c’è piùniente. Una domenica ho fatto un giro con Mariano: partendo dallaSilicon Valley siamo passati da Saratoga, nella parte interna, e poiSanta Cruz fino a San Francisco costeggiando l’oceano. Niente, ilcellulare non andava mai, non prendeva. Se buchi una gomma inquella zona devi aspettare che passi qualcuno, altrimenti sei fregato.Forse anche in America, quando si tratta di reti mobili, ci sono unpo' di problemi di digital divide.

4. Hackero ergo sum

Ivan

San Francisco è la patria della contestazione. E la rivoluzione piùimportante che ho visto non è tecnologica: si respira un’aria di cam-biamento, c’è voglia di stravolgere i sistemi. Il cloud computing perme non è solo un fattore tecnologico, è un fenomeno sociale chefa parte del processo di democratizzazione e disintermediazione deisistemi attuali.

Lì tutti parlano di hackerare quello che già esiste, di introdursi nelleabitudini della gente e creare una rottura che porti cambiamento.Perché Apple con iTunes ha rivoluzionato la musica? Perché hahackerato un apparato esistente, si è inserita nel processo consolid-ato di download di file audio via web. Si è insinuata nelle abitudinidegli utenti e ha reso la loro esperienza un processo legale e diffuso.Questa, prima di tutto, è una rivoluzione sociale che utilizza latecnologia, ma che NON nasce da essa.

Parto da questa osservazione per agganciarmi alla tematica delleStartup.Girando negli spazi di coworking e nelle aziende a San Francisco ho

notato che c’è molta attenzione degli investitori verso idee folli checercano di disintermediare qualcosa.

Mariano e Giuseppe hanno citato le dichiarazioni di Gartner. Se-condo me non è vero che Openstack non è pronto per il mercato, an-zi, io credo che questo software open sia un altro esempio di demo-cratizzazione: dei professionisti hanno deciso di non utilizzare piat-taforme proprietarie e di partecipare allo sviluppo di qualcosa dinuovo.

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4.1 Una strategia vincente: il fallimento

Ivan

Partiamo da un paradosso: in Italia se fai i soldi vivi nel lusso, senon li fai vivi normalmente (o almeno ci provi). In America deviguadagnare per accedere all’assistenza sanitaria e questo crea “os-sessione” per il vil (ma tanto utile) danaro. Dall’altra parte, però, perle persone che coltivano idee e provano a realizzarle non è mai parti-colarmente difficile trovare finanziamenti. Ma soprattutto non c’è ilminimo problema se poi il progetto si rivela un fallimento: tanto ilsistema compensa.A San Francisco ci siamo resi conto che, a differenza di quanto ac-cade qui da noi, è abitudine lavorare su una sola idea, non su unventaglio di progetti. Proprio per questo motivo gli startupper ri-escono a dedicarsi intensamente ad una cosa sola e a pensare ingrande.

Come campano quindi gli startupper e perché non hanno paura difallire?Il meccanismo delle startup in America si articola in fasi. Gli star-tupper, in genere, sono amici o colleghi che decidono di investire illoro tempo in un’idea folle. Se hanno già un contratto con qualcuno,si licenziano e usano i loro soldi per avviare le prime fasi del pro-getto.Trovano poi un primo finanziatore che li accompagna alla fase di“Exit”. Quel finanziatore riprende sicuramente i soldi investiti e ri-esce anche a fare margine. Una volta presentato il prototipo dellastartup su cui ha investito, arriva il venture capitalist che gli per-mette di commercializzare il prodotto, oppure arriva il Google diturno che investe sulle persone e le compra, addirittura

risarciscendo i finanziatori iniziali con un extra-bonus del 15-20%sull’investimento iniziale.

La fortuna dei giovani americani sta tutta in questi concetti: lì non sipensa solo ai soldi, le idee e le persone hanno un valore enorme.Google l’anno scorso ha “comprato” centinaia di startupper, nontanto per lanciare i loro prodotti, ma perché li ha ritenuti in qualchemodo geniali e li ha voluti integrare nell’azienda.In Italia nessuno ragiona così. Se uno startupper americano fallisceuna volta, trova sicuramente i soldi per dare vita anche alle ideesuccessive.

Per qualche giorno abbiamo viaggiato con Matteo Roversi, CEO diNevergiveapp, una startup che ospitiamo al Covo, il nostro spaziodi coworking. Lui e il suo team hanno sottoscritto l’application formper Y Combinator, azienda che prende le startup e le porta alla faseprototipale, concedendo finanziamenti di almeno 20mila dollari.Nei moduli compilati da Matteo c’era una domanda in cui gli chie-devano quante volte fosse fallito. Lui ha scritto zero e per questo haincontrato qualche problema in più: in USA non aver collezionatonemmeno un fallimento è sinonimo di poca esperienza.

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4.2 Come pensa lo startupper: le cose per cuiringraziare nel 2012

Derek Andersen ha lavorato in Electronic Arts e ha fond-ato Commonred e poi Startup Grind, una catena di eventi in 35 cittàdi 15 Stati con l’obiettivo di formare, ispirare e collegare gliimprenditori.In occasione del Thanksgiving Day 2012 (la festa del Ringrazia-mento), Andersen ha scritto su TechCrunch un post dedicato alle 42cose per cui gli imprenditori possono ringraziare. È un documentosintetico eppure singolarmente rappresentativo della cultura dellastartup e degli startupper, che negli anni si è sviluppata negli StatiUniti e specialmente nelle aree oramai iconiche da questo punto divista, come la Silicon Valley.Per la nostra mentalità vi sono eccessi ed esagerazioni, così come in-tuizioni e indicazioni preziose. Ne presentiamo qui una versioneitaliana depurata da riferimenti locali poco indicativi, comunquepresenti nel testo originale.

1) Continua a piacermi una sessione di lavoro dopo l’una di notte.2) Il mio partner sostiene anche il sogno nonostante i rischi e l’in-certezza.3) Silicon Valley non riesce a stare dentro una fiction per la televi-sione.5) Finanziatori come Steve Blank, Naval Ravikant, MarkSuster, Fred Wilson, Paul Graham e Brad Feld6) Prodotti come Basecamp, Stripe, Github, SendGrid, Google Apps,MailChimp, Square, Eventbrite, MacBook, Microsoft Office e Gmail,che tengono in funzione le nostre attività.7) Non avere un impiego dalle nove alle cinque orario continuato.8) Assegni da incassare.9) Amici che tirano un osso alla tua startup quando ne hai unbisogno disperato.10) Posso dirigere un'azienda globale dal mio portatile.

11) Genitori orgogliosi della startup del loro figlio.14) Cofondatori che ti spingono a dare il meglio con il loro esempio.15) API (interfacce per la programmazione).16) Libertà di creare e curare un lavoro che ho scelto.18) Design profondo.19) Libri per imprenditori come Startup Communities, The StartupOwner’s Manual, Founders at Work e Steve Jobs.20) Fondatori di startup di tutto il mondo al lavoro incessante percostruire le loro comunità locali.22) Startup misurate non per il denaro che attirano ma per latrazione che suscitano.23) Ingegneri intelligenti.24) Uomini di azienda che lavorano come ingegneri.25) Investitori e azionisti capaci di capire che nessuno ha sempre ra-gione.27) Persone che danno senza aspettative o strascichi.28) Messaggi di ringraziamento dei tuoi clienti.29) Nessuna accusa di avere gonfiato la crescita della tua azienda.30) Risultati sopra ogni aspettativa.31) Clienti disposti a pagare per il tuo prodotto.32) Risorse che aiutano gli imprenditori come Kauffman Founda-tion, AngelList, Stanford, Startup School, SFciti e Startup Weekend.33) Bimbi che ti abbracciano anche se esci presto la mattina e tornitardi la sera.34) Lo stato mentale della Silicon Valley.35) Il tizio che vale cento volte l’altro tizio prende in mano il contosenza pause imbarazzanti.36) Prodotti su misura per il mercato.37) Milionari alla guida di vecchie auto da buttare.39) Clienti che facilitano la vita invece di complicarla.40) Fondatori che dormono in macchina o negli uffici di AmericaOn Line per farcela.41) Fondatori che non si arrendono mai.42) La mia startup è viva per battagliare un altro giorno, settimana,mese. Che altro potrei chiedere?

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4.3 Invitante, tagliente... splendido splendente

Ivan

Consigli per gli startupper non US: a volte basta dare una lucidataalla propria immagine per sembrare un gigante. È pazzesca la per-cezione che le aziende americane riescono ad imprimere nel nostroimmaginario. Funziona esattamente come nei telefilm: tu li guardi eriesci a farti un’idea molto forte di quello che è l’America. Poi ci vai eti rendi conto che è un po’ diversa da quello che pensavi.

Le imprese americane sono bravissime a comunicare il propriovalore reale o percepito: sembrano enormi, dei giganti. Poi vai là e tirendi conto che sono quattro gatti. Intelligenti, bravi e simpatici, macomunque quattro gatti. Big Switch, ad esempio. Ci aspettavamouna sede pazzesca e centinaia di dipendenti, ma erano in 30 o 40ficcati in una stanza da 10 persone.La stessa Apple è stata per anni un’azienda normale come ce nesono migliaia in Brianza. Solo che sono riusciti a riflettere un’imma-gine tale da diventare veramente impressionanti col passare deltempo.Immaginiamoci un signor “Grappeggia”, proprietario di un mobilifi-cio della Brianza, che colonizza il mondo e diventa l’uomo più riccodel pianeta. Proviamo a ipotizzare file di persone, magari anche aSingapore, tutte in coda per comprare i “mobili Grappeggia”.

Sarebbe mai possibile una cosa del genere in Italia?

4.4 Il coworking è figlio della mentalità cloud

Ivan

Gli startupper US sono abituati a lavorare in autonomia sui propriprogetti, per questo sfruttano molto gli spazi di coworking. In-teressante il fatto che per accedere ad alcuni di questi, tipo Rock-etSpace, NON devono essere finanziati dai genitori o da parenti diprimo grado. Altrimenti non entrano, non gli danno le scrivanie!

Abbiamo fatto un giro in un po’ di questi spazi. Premetto chetendenzialmente sono concentrati a SanFrancisco; nella Silicon Val-ley sono pochissimi e sono principalmente incubatori o acceler-atori. Abbiamo visto RocketSpace, The Hub (parente lontano diquelli di Milano) e The Intersection (Coworking per artisti). Reallycool.

Le strutture sono davvero pazzesche.Sorprendenti i cubicle per telefonare: la privacy di una call siesaurisce in una cabina telefonica dove stai a malapena seduto.Ergo: telefoni e poi sloggi lasciando il posto ad un altro e ritorni a la-vorare al tuo posto. Questa cosa è educativa, ti dà anche la misuradel tempo che impieghi al telefono inutilmente; se lo devi fare in uncubicle invece che con i piedi sulla scrivania, stai tranquillo che ticoncentri sulle cose importanti e al telefono non perdi tempo.I separè per delimitare i vari spazi sono in genere fatti di vetro etutti possono scriverci sopra.Le sale riunioni si chiudono spesso con saracinesche che, se nonfosse per la trasparenza, ricorderebbero quelle dei garage.Ci sono lavagne ovunque, plexiglass colorati e marker (viola fluo!)attaccati ai muri. Chi lavora negli spazi coworking li usa per farsi

capire meglio dai colleghi ma poi, a riunione terminata, li lasciacome stanno e questo crea macchie di colore davvero belle davedere.Il WiFi è free dappertutto. In alcuni posti per collegarti al web seiobbligato a rispondere alle survey o a guardare un video pubblicit-ario, ma nella maggior parte dei casi accedi senza ostacoli o perditedi tempo.La sicurezza in queste location è ai minimi storici, si limitano alcheck-in/check-out.Per agevolare il networking organizzano pranzi gratis a base di in-salate, ovviamente nelle kitchen e nei salotti creati appositamenteall’interno del coworking.Tutto molto minimale. Anche i tavoli da lavoro sono stretti e lunghi,hanno le ruote per agevolare gli spostamenti, la corrente arrivadall’alto e a terra non c’è nulla. In questo modo è facile ribaltaretutto in poco tempo, creare spazi per eventi, essere più dinamicipossibile.

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Conclusioni

Certamente non occorreva scoprire di nuovo l'America per aggiorn-arsi sullo "state of the cloud". Lo ha spiegato bene Giuseppe,come il dispiegamento di siti, servizi e reti (social e non solo) offrauna visibilità quasi completa degli andamenti delle cose anche dallapropria italica scrivania.

Esiste peraltro una consapevolezza delle cose più fisica, che nessunattuatore saprà mai riprodurre a distanza. La mentalità e il ritmo diuno spicchio di società dove la startup è normalità quotidiana, peresempio. Il valore posto nella combinazione sempre peculiare dellapersona e della propria idea: l'obiettivo è ogni volta dare vita a unprogetto in cui si crede, prima del posto sicuro e prima delle garan-zie. Che ci vogliono e sulle quali il Vecchio continente è qualchepasso avanti sul nuovo, intendiamoci.Parlando e condividendo la giornata con molti ventenni, tuttavia, sitrova più naturale vederli creare nuove opportunità, più chechiedere un paracadute. E impressiona la naturalezzadell'ecosistema dei finanziamenti, nonché la positività che vienericonosciuta ai fallimenti. Se hai sbagliato prima, hai certamente im-parato cose che ora ti aiuteranno a fare meglio e le tue probabilità diricevere fondi aumentano: un paradigma su cui l'Italia da rilanciarein produttività e crescita potrebbe interrogarsi con profitto.

Maggiormente in tema con le ragioni di questo viaggio, siamo tor-nati più che mai convinti della strada che abbiamo tracciato per

Enter e che abbiamo potuto saggiare a contatto con "quelli che con-tano". Openstack è creatura vivissima e dannatamente inevoluzione, che avrà un impatto crescente. Il cloud come industriaarriverà in tempi non lunghissimi a distinguere scelte lungimiranti eaperte da approcci più estemporanei e di imitazione. Con le nostreiniziative già in corso, siamo a cavallo di tendenze come il cowork-ing, un cambio di mentalità carico di grande potenziale e grandi ef-fetti trasformativi, sul lavoro e sulla società. Abbiamo toccato conmano l'evoluzione più avanzata del coworking e siamo convinti diessere sulla giusta direzione, così come pensiamo che il nostro la-voro teso a tessere legami tra i provider europei contribuisca a rag-giungere quella dimensione di rete continentale che per l’America èquotidiana da secoli.

Certamente, non c'era bisogno di riscoprire l'America. Questa esper-ienza ha invece aggiunto molto alla narrazione basata sulla tras-formazione del nostro lavoro. È l'intera industria IT che il cloud po-trebbe trasformare, spostandone la centratura dagli asset ai servizi,dall'on-premises all'on-demand.

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Post scriptum

Quest'opera è distribuita con licenza Creative Commons At-tribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia

Enter è un Internet Service Provider che opera dal 1996 ed attual-mente sta effettuando significativi investimenti in ambito cloud. Nelmaggio 2012 ha lanciato Cloudup, il primo servizio IaaS di cloudserver basato su Openstack. Tra i vari progetti in questo ambito, èanche impegnata nel far crescere Enter the Cloud, un blog in cui siparla di cloud a 360°.

Making of

Questo eBook è frutto di uno sforzo collettivo di persone, hardwaree software.

Ringraziamo Mariano Cunietti e Giuseppe Civitella per avere rac-contato on demand la loro esperienza ogniqualvolta servisse; IvanBotta per il prezioso insight sui temi di cloud, SDN e connettività;Martina Casani per il coordinamento e per avere reso disponibilitutte le risorse necessarie, anche in termini di caffè e coworking;Manuela Misani per avere dato un aspetto umano al nostro testoche, da solo, avrebbe saputo di argilla primordiale; Matteo Roversiper averci accompagnati in alcuni degli incontri più interessanti.iPhone, iPad, Galaxy S3, MacBook Pro 17” e iMac 21” hanno fornitoil substrato hardware.Il testo è stato raccolto collaborativamente su Google Drive e lapostproduzione è stata effettuata su Sigil. Foto e materiali vari sonostati condivisi attraverso Dropbox.

Lucio Bragagnolo, Stefano Garavaglia

Dicembre 2012

Protagonisti

Ivan Botta

Di pura razza piemontese, CEO di Enter, si occupa da sempre di In-ternet Service Providing. Sull'isola deserta, porterebbe un Mondriane il suo cavallo. < back

@ivanbotta

Mariano Cunietti

Responsabile Tecnico in Enter, già sistemista Linux, chitarrista clas-sico, tennis wannabe, ambizioso sempre più del giusto, soddisfattomai. < back

@mcunietti

Giuseppe Civitella

Sistemista, si occupa di sistemi Gnu/Linux, virtualizzazione e cloudcomputing. Da grande metterà la testa a posto aprendo il birrificiodei suoi sogni. < back

@gcivitella

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Autori

Lucio Bragagnolo

Ha iniziato a scrivere sulla gomma. Oggi lo fa anche su vetro, dis-truggendo intanto numerose tastiere in plastica.

@loox

Stefano Garavaglia

29 anni, è Digital PR manager di Enter e blog-ger di Enter the cloud. Sport praticati: reggae,rum e ottimismo. Non ricorda i nomi dinessuno.

@enter_the_cloud

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Note

La rete si fa software

Big Switch Network si autodefinisce leader nell’open SoftwareDefined Networking (SDN). Una architettura di rete Open SDN im-piega un protocollo software standard industriale che che astrae ilpiano dei dati sulla rete dal piano di controllo e rende così indi-rizzabile e programmabile da software esterno la struttura di retesottostante. Per Big Switch, presso la quale lavorano alcuni membridel team che ha progettato inizialmente il protocollo OpenFlowpresso la Stanford University, il networking definito via softwarerappresenta il movimento più rivoluzionario negli ultimi vent’annidi sviluppo del settore. A fine ottobre 2012 Big Switch ha ottenutoun secondo finanziamento di 25 milioni di dollari cui hanno con-tribuito, tra le altre, Goldman Sachs e Index Venture.

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Una visione concreta del virtuale

Midokura vede un futuro di infrastruttura di rete più flessibile, per-sonalizzabile e adattabile per mezzo della virtualizzazione di rete eha realizzato uno strato di software dedicato espressamente a questafunzione, MidoNet. Questa soluzione fornisce lo strato di softwaredirettamente all’interno degli apparecchi fisici di rete, oggi poco effi-cienti e poco scalabili. Al contrario, attraverso l’implementazione di

Midokura la macchina fisica diviene una piattaforma virtuale,scalabile anche verso centinaia di migliaia di porte.

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L’hosting con la acca maiuscola

DreamHost è in attività da quindici anni, ere geologiche in questosettore dove ogni giorno germoglia una startup. Naturalmente erauna startup anche la loro, quella di quattro studenti di ComputerScience al college californiano Harvey Mudd di Claremont. Capitaledi partenza: un server web con processore Pentium 100 e bandacondivisa su una linea T1 concessa gratuitamente da un amico.

Oggi i server sono 1.500 con un milione di dominî amministrati.DreamHost ama ricordare in particolare il mezzo milione abbond-ante di blog e siti basati su piattaforma Wordpress e ospitati sullaloro piattaforma. L’abuso di acqua di colonia a DreamHost èpassibile di licenziamento, sostiene il management, oppure – conmaggiore aderenza alla realtà – causa di otto ore abbondanti disfottò.

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La multinazionale di Openstack

Mirantis ha sede in Mountain View, uno dei tipici non-luoghi dellaSilicon Valley, lo stesso di Google e Adobe. Sostiene ufficialmente dibasare il proprio business sulla trasparenza: implementazioni cloudindipendenti dal vendor, senza compromessi rispetto ad agganciopachi o impacchettamenti proprietari.

Chi cercasse il bacino più ampio di esperienza ingegneristica ri-guardante OpenStack, dovrebbe bussare alla porta di Mirantis,eventualmente quella delle sedi distaccate in Russia e Ucraina.

Se avete bisogno di farvi amico Boris Renski, provate ad attaccarebottone con i modellini radiocontrollati di elicotteri.

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Massimo rendimento, minimo sforzo

Scalr fa grandi cose con una piccola struttura, che al momentomisura diciassette persone, ed è guidata da un amministratore cheha in testa il pensiero fisso di massimizzare e minimizzare quantoumanamente possibile.

Nel coltivare sogni di grandezza futura come ogni startup che sirispetti, Scalr riesce nell’impresa di avere un flusso di cassa positivograzie al servizio Scalr.net.

La loro pagina About Us sembra l’annuario del liceo e non per l’im-postazione grafica.

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Uno che sa presentarsi (e presentare)

Sebastian Stadil prosegue la tradizione di imprenditori e business-man francesi che hanno varcato l’oceano Atlantico e si sono accasatiprofessionalmente in riva al Pacifico, nonostante l’offertatransalpina di buoni formaggi sia infinitamente superiore a quellacaliforniana.

A portare avanti il sogno inseguito da nomi prestigiosi del passatorecente come Jean-Louis Gassée (ex Apple) e Philippe Kahn (fond-atore di Borland) ha iniziato da giovanissimo, al termine del suocorso di studi presso la Scuola superiore di Commercio di Lille. Scalrnon è la sua prima impresa; è stato precedentemente coinvolto inCloud In Code, Intalio e Swophit.

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Un altro che non le scala prima di mandarle a dire

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Randy Bias non è esattamente un ragazzino perché bazzica l’Inform-ation Technology dagli anni novanta; un aneddoto apocrifo narrache la sua prima frase pronunciata da piccolissimo sia stata twenty-four/seven.

Randy si attribuisce il merito del primo framework al mondo per lagestione di cloud multipli e cloud multipiattaforma. The Next Weblo ha considerato nel 2011 uno dei primi venticinque personaggi in-fluenti che twittano in materia di cloud. Riconoscimento un po’ ba-rocco, certamente non facile da ottenere. Non fategli notare chenella classifica è “solo” quindicesimo.

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Quando nasce una stella

Eric Windisch è l’attuale Systems Engineer di Cloudscaling e, nono-stante la giovanissima età, ha già 10 anni di esperienza nel campodella virtualizzazione e della billing automation. È fondatoredell’hosting provider GrokThis.net. Attento utilizzatore di Open-stack fin dalla prima release, Austin, è parte attiva del progetto dalrilascio di Cactus.

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Il progetto che compete con Openstack

Questo l’annuncio che il 26 novembre abbiamo letto sul blog diApache: “The Apache CloudStack project is pleased to announce the4.0.0-incubating release of the CloudStack Infrastructure-as-a-Ser-vice (IaaS) cloud orchestration platform.”In principio, Citrix sembrava aver deciso di portare avanti un forkparticolare di Openstack. Poi ha cambiato rotta.Dall'acquisizione di Cloud.com da parte di Citrix nel 2011, la com-munity open source CloudStack.org ha visto moltiplicarsi il coinvol-gimento degli utenti.

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Citrix ha inoltre presentato Citrix Cloud Community Program, cheintroduce un set di prodotti e servizi Citrix Ready verificati perl'integrazione con le soluzioni cloud di Citrix.Anche in questo caso, si inizia a parlare di un “ecosistema” di servizicloud; anche in questo caso, si parla di cloud open source.

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Il fattore Y

Y Combinator ha messo a punto nel 2005 un nuovo modello di fin-anziamento delle startup, articolato in due fasi annuali di investi-mento a pioggia, su un gran numero di nuove nate (nell’ordine delledecine) per piccoli importi, con una media di 18 mila dollari. Lestartup si trasferiscono in Silicon Valley per tre mesi, durante i qualivengono curate e messe in perfetta forma e immagine per il DemoDay, nel quale ciascuna startup si presenta a una platea di invest-itori “veri”.

Le aziende finanziate da Y Combinator sono finora più di 460, tra lequali AeroFS, Airbnb, Cloudkick, Disqus, Dropbox, Justin.tv, Red-dit, Scribd, Songkick, Stripe, Weebly e ZumoDrive.

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