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1 International RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 85 –GENNAIO-APRILE 2015 This Review is submitted to international peer review ISSN:1121-6530

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International

RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 85 –GENNAIO-APRILE 2015

This Review is submitted to international peer review

ISSN:1121-6530

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Direzione Giovanni Invitto (Direttore, [email protected]) Daniela De Leo (Co-direttore - [email protected]) Comitato di Redazione Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile), Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina. Comitato scientifico Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3 (I);

Bruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone, Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera, Università di Bari (I); Claudio Ciancio,

Università del Piemonte Orientale (I);Françoise Collin, fondatrice di “Les Cahiers du Grif”(F); Umberto Curi, Università di Padova (I); Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti, Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto Maragliano, Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue University, West Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari (I); Pierre Taminiaux, Georgetown University (Usa); Christiane Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso (RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona (I). Staff di redazione Daniela De Leo (responsabile); Siegrid Agostini, Lucia De Pascalis; Maria Teresa Giampaolo. Sede Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce.

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Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche”con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. La versione elettronica della rivista Segni e Comprensione è disponibile ai seguenti indirizzi: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/segnicompr http: //www.segniecomprensione.it http://dipfil.unisalento.it/ http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione (1987-2009)” NOTE PER GLI AUTORI I contributi scientifici dal prossimo numero dovranno essere scritti in inglese, si richiede anche la versione in italiano. L’articolo deve riportare, prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito. Per la sezione “Saggi”i testi non dovranno superare le venti cartelle di 30.000 battute, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note”non si dovranno superare le 10.000 battute, spazi e note inclusi, con le medesime caratteristiche dei Saggi. I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: segniecomprensione@ libero.it e per conoscenza a [email protected]. I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo, e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. News di Redazione L'Anvur ha classificato la Rivista Segni e Comprensioni come Rivista scientifica nell'Area 11

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. INDICE

Saggi

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‘Etica senza politica’ versus ‘politica senza etica’: ancora valido un confronto con l’etica husserlina? Irene Angela Bianchi

35 La malattia epocale

Simone Weil e Georges Bataille di fronte al nazifascismo Matteo Canevari

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Paticità e bellezza Note sulla cristologia poetica

Pio Colonnello

53 Pouvoir du Background ou bio-pouvoir ?

Searle vs Foucault Filippo Domenicali

Note 62

Il problema ermeneutico: Segno e simbolo nella fenomenologia ermeneutica di P. Ricoeur

Lara D’Amore

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70 La relazionalità familiare

Daniela De Leo

Resoconti 78

Ermeneutica del disegno Progetto:Valutazione delle analisi su disegni infantili

Giovanna Durante

Recensioni 87

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‘Etica senza politica’ versus ‘politica senza etica’: ancora valido un

confronto con l’etica husserlina? Irene Angela Bianchi

Introduzione Ciò che ci conduce in questa riflessione e ci indirizzerà verso l’etica fenomenologica è una domanda che è doveroso porsi nuovamente alla luce della complessa situazione storica attuale, ovvero: che cosa ha da dirci la filosofia oggi, e ancor più la fenomenologia? Tentiamo di rispondere iniziando da ciò che Husserl scrisse per all’VIII Congresso Internazionale di Filosofia che si svolse nel 1934 a Praga: “La filosofia – scrive nella lettera a Radl - è l’organon di una nuova forma di esistenza (Daseins) storica dell’umanità, un’esistenza che si esprime nel suo spirito di autonomia […] L’autoresponsabilità filosofica si realizza necessariamente nella comunità di coloro che filosofano. Considerando tutto ciò come principio, la comunità filosofica e la filosofia sono il fenomeno originario e allo stesso tempo la forza viva operante […] la quale, partendo dalla mera intenzionalità attraverso la sua forza (Macht) ha creato e coltiva un’intenzionalità del tutto nuova, ovvero un’unione mediante lo spirito di autonomia”1. Ciò che Husserl propone, con riferimento alla funzione della filosofia nel 1934, coincide con la sua tesi, peraltro già conosciuta, in riferimento al processo di ‘positivizzazione’ della scienza in relazione con la crisi della cultura. ‘Positivizzazione’ che ha condotto ad un occultamento del ‘mondo della vita’ ed all’oblio della soggettività2. Deplorando la perdita di valore vitale, causata dall’aspirazione incessante a ridurre tutto ciò che si dà ad una natura calcolabile, Husserl ravvisa il pericolo di una visone ‘generale’ del mondo che domini la cultura e porti alla dispersione della stessa filosofia. “Questa è una questione pratica”sottolinea

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il Nostro, “Dunque la nostra influenza storica, e insieme la stessa nostra responsabilità etica, si estende perfino alla più remota lontananza dall’ideale etico”3. Ed è nel trattare il rapporto tra ontologia e fenomenologia che Husserl sviluppò un’etica fenomenologica seguendo proprio il suo stesso modello ontologico. Nella prima parte della sua riflessione etica, Husserl si occupa della refutazione dello scetticismo che si manifesta soprattutto nello psicologismo, al quale egli oppone l’unica alternativa possibile ovvero la filosofia fenomenologica. La risposta allo scetticismo consiste infatti nel riconoscere prima di tutto la validità, anche nell’etica, della rivendicazione del significato dei sentimenti morali, per dimostrare dopo, sistematicamente, la possibilità di un ruolo ‘obiettivo’ dell’etica; si tratta di una teoria formale dei valori che sarà ripersa nelle sue lezioni del 1920. Egli sviluppa quindi, inizialmente, un modello etico partendo dal presupposto che tra la ragione logico-teoretica e la ragione assiologico-pratica, ovvero tra l’idea della Verità e quella del Bene, esista un’analogia4; e sarà solo in un secondo momento che ad essa si collegheranno le ricerche sulla cultura e sulla storia, frutto anche del periodo di transizione inerente alla Prima Guerra Mondiale; transizione che consiste nel comparare criticamente quell’attualità ‘priva di senso’ con la pretesa razionalità di una cultura filosofica del periodo, in contrapposizione ad una motivazione che possa elevare al principio di responsabilità come condizione di possibilità di un ‘rinnovamento’ (Erneuerung) della vita individuale, e di una cultura in generale, a partire da un impianto teleologico dell’intenzionalità e della storia. Ne risulterà che il soggetto trascendentale non deve solamente ‘preservare’ il mondo da uno stato di caoticità, ma anche dare ‘forma’ all’esistenza secondo le supreme idee della ragione, difendendo così la vita dal caos che si presenta non appena la ragione si ritrae. Husserl svilupperà nei suoi ultimi scritti una concezione pratica della fenomenologia, nel senso in cui essa si rivela una riflessione che si conforma in un ‘ethos’, tramite il quale si costituisce una comunità, quella dei ‘funzionari dell’umanità’, ovvero dei filosofi, che vive dello spirito di autonomia ed indipendenza tipico della filosofia, il cui compito non si esaurisce nell’essere un gruppo di persone appartenenti ad una determinata cultura, ma diviene un compito infinito di tensione verso la ‘Verità’. Questo impegno etico, segnala Husserl, è insieme una nuova concezione della temporalità, in quanto l’autoresponsabilità del soggetto etico, costituisce la fenomenologia in una ‘filosofia del presente’, partendo da una tradizione fondatrice, in un orizzonte di un lavoro infinito da realizzarsi in ogni momento storico. Questo è inoltre lo sviluppo presente nella ‘Crisi delle scienze

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europee’, l’opera forse più conosciuta di Husserl, nella quale egli riferirà tutto al significato del problema del ‘mondo della vita’ (Lebenswelt), e proprio a partire da ciò si caratterizza l’etica fenomenologica come un nuovo sforzo per ridefinire la relazione tra teoria e prassi, il che porterà anche la fenomenologia a ricapitolare la relazione tra la filosofia trascendentale e la psicologia. Per una fenomenologia della morale I. Rivolgiamoci ora nuovamente ad Husserl la cui fenomenologia ci aiuta ad approfondire il significato della proposta di come il sentimento morale, quale punto di partenza del discorso etico, non solo non è una caduta nel relativismo, proprio dello scetticismo, ma al contrario permette di superarlo fino a riconoscere la sua stessa verità. Ricordiamo che nell’argomentazione di Husserl contro lo psicologismo, inteso come la forma più pericolosa dello scetticismo, ovvero contro quel verdetto di condanna sulla conoscenza e sulla logica che nega la possibilità stessa che esita una verità tanto nella logica come nella morale, occupa un luogo importante la critica a Kant e al razionalismo. Il formalismo kantiano non riconosce il significato ‘situativo’ del sentire e dell’atto del vivere, elementi di un’affettività invece richiesta dalla fenomenologia. Per Kant solo la retta intenzione ha un significato morale mentre sentimenti quali la gioia intimamente vissuta, è estranea al merito; tutt’al più può essere conforme alla morale e può ricondurvisi per ciò che in essa si rispecchia dell’immanente razionalità. Quindi la contraddizione dello scetticismo logico trova così un ‘analogon’ nel controsenso pratico in cui si dibatte ogni proposizione imperativa che ci inviti a considerare illegittima, dal punto di vista razionale, la pretesa racchiusa in un qualsiasi gesto di comando. Per Husserl appare chiaro che solo la filosofia può vincere lo scetticismo in tutte le sue forme, quali lo psicologismo, il naturalismo e insieme il positivismo scientifico in quanto inibitori, nella loro visione unilaterale, di un diverso sforzo di comprensione insito nella filosofia stessa, così come egli fortemente sottolinea proprio nella sua conferenza di Praga. Si tratta del ‘tragico della scienza positiva’, che si esplica nella dispersione, data dalla massiva specializzazione delle scienze naturali. L’iperspecializzazione delle scienze, la loro tecnicizzazione sempre più massiva, si scontra con un sentire più profondo ed inglobante, tipico dell’uomo, che si esprime nell’universo filosofico, portandolo verso la decadenza. Così facendo si deforma il concetto stesso di scienza; la tecnicizzazione e iperspecializzazione portano ad un risultato che, al di là delle sue positive scoperte, che non sono certo deprecate da Husserl, il fenomenologo è teso per lo più contro una

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superficiale arroganza data dal ‘finto’ potere della ‘macchina’ sull’uomo e non viceversa. Lo scetticismo quindi nella sua forma fondamentale, che coltiva una sorta di diffidenza in riferimento alla stessa filosofia, termina per essere l’oggetto della critica, la quale a sua volta motiva il significato radicale del compromesso etico della fenomenologia. Come sottolinea Ullrich Melle nella sua ‘Introduzione’ alle ‘Vorlesungen ueber Ethik’5, Husserl segue inizialmente, nelle sue prime lezioni sull’etica, lo stesso cammino del suo maestro Franz Brentano e delle sue lezioni sulla filosofia pratica. Anche per Brentano si tratta di chiarire come è possibile una considerazione dei sentimenti nel processo di fondazione etica, senza per questo cadere nel relativismo o nello scetticismo etico. Certamente l’etica tratta del sentimento morale, però non si chiarisce sul sentimento così come fa con il giudizio. Kant, per esempio, sottolinea Brentano, per arrivare alle sue conclusioni sulla morale determina il significato ultimo e la validità della morale stessa nella formalità dei principi, rifiutando tutta la partecipazione del sentimento e dell’esperienza nel processo della conoscenza e della motivazione dell’azione morale. All’altro estremo l’empirismo riconosce tutta la forza morale propria dei sentimenti; il principio nel quale però essi concludono non supera il livello di generalità di verità che in verità può darsi con l’induzione e con l’abitudine. Husserl argomenterà contro ambedue le posizioni; entrambe per un verso unilaterali, sottolineando però che l’empirismo ha ragione ad iniziare le sue analisi dai sentimenti e nel decidersi per l’esperienza viva nella quale si da a noi il fenomeno morale; ma è necessario accedere ad un’analisi intenzionale di questa esperienza viva del sentimento per poterlo includere nell’intuizione del valore e non semplicemente interpretarlo come se si trattasse di un dato naturale dell’esperienza interna6. Come per la logica anche per l’etica vale affermare che gli empiristi scoprendo l’intenzionalità nella loro analisi dell’esperienza interna, furono però ciechi ravvisando in essa solo il luogo della forma e della genesi in modo naturalistico, non ne intesero perciò il senso del trascendere del concetto di intenzionalità, del concetto stesso e del giudizio; ed è’ in questo senso che anche Kant interpreta il sentire, come lo stesso empirista, caratterizzando le sue analisi al modo di una specie di fisiologia naturalista del conoscere umano7. Alla fine però né Kant (nella deduzione trascendentale della prima edizione) né gli empiristi furono capaci, per Husserl, di esplicare e spiegare le scoperte dell’intenzionalità della coscienza per ritrovare in quella forma la struttura del sentimento, pienamente ‘vittime’ appunto del pregiudizio psicologista che guarda al sentimento solo come ‘dato’ naturale dell’esperienza interna. Nell’analisi intenzionale del vivente, si evidenziano nella loro originarietà i fenomeni morali come coscienza della situazione discernibile dal punto di

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vista morale, il che permette ad Husserl di distinguere, classificare e sistematizzare, tutti quegli atti che confermano una ‘fenomenologia della morale’. In questo aspetto più analitico che trascendentale dell’etica fenomenologica si può certamente accettare che Husserl sia superato da Max Scheler8. Come già si è tentato di dire, il punto cruciale dell’etica fenomenologica, si situa però non tanto nell’analisi etico-logica quanto nel passaggio dall’analisi intenzionale dei valori all’intenzionalità, intesa come responsabilità, e da qui all’etica come coscienza storica e culturale tanto dell’individuo come della società. In effetti Husserl stesso ammette che la dimensione formale dell’etica non coincide con l’etica stessa e il filosofo non avrebbe ancora assolto al suo compito quando avesse delineato in modo esaustivo il sistema delle leggi formali della ragione pratica; alla dimensione formale deve affiancarsi dunque una dimensione materiale dell’etica9. Infatti le sue lezioni sull’etica del 1914 si concludevano con una quarta parte dedicata alla ‘Pratica formale’ di cui l’ultimo paragrafo si intitola ‘Obiettività delle possibilità pratiche e la loro relatività al soggetto’10. In questo paragrafo si tematizza l’assunto della morale in relazione al soggetto dell’azione venendo così ad infrangere una certa forma analogica tra l’analisi intenzionale della morale con l’ambito logico, così come Husserl stesso scrive: “D’altro canto a una soggettività non può essere a priori richiesto nulla che non sia poi in suo potere raggiungere”11, e più avanti aggiunge: “Le nostre considerazioni [...] ci mostrano che [...] non è possibile cadere nell’errore di voler pre-delineare con il solito aiuto di un imperativo categorico, privo di contenuto, che cosa sia praticamente richiesto e che cosa sia dunque assolutamente dovuto nella situazione determinata di volta in volta presente. La logica formale con tutte le sue leggi non può metterci nella condizione di dedurre la più piccola verità fattuale. Essa abbraccia [...] solo le verità formali. [...] Lo stesso si può dire dell’assiologia e della pratica formali. [...] Sarebbero ora da definire le classi fondamentali dei valori e dei beni pratici per poi rendere oggetto di indagine le leggi della preferenza. [...] Che cosa dire dunque della valutazione di una persona in quanto essere razionale? [...] Di qui dunque muovono le linee che ci conducono verso l’etica in senso proprio, verso l’etica individuale e sociale”12. Che cosa significa dunque per l’etica questo ampliamento di analisi da parte di Husserl grazie al quale si scopre una nuova funzione della soggettività? Che cosa motiva quindi il cambio di prospettiva nella sua riflessione etica, ovvero il passare da un’analisi fenomenologica costitutiva del valore ad una riflessione sul soggetto che valorizza e che agisce sino a convertirsi in una ‘filosofia del presente’, così come il fenomenologo stesso la reclama alla fine della sua vita? Tentiamo di rispondere a queste domande analizzando il pensiero etico di Husserl degli anni venti13.

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Per Husserl la motivazione morale ultima, la quale accorda al sentimento un’autoresponsabilità radicale, forma parte della fenomenologia stessa che si inscrive in un particolare sentire culturale, davanti al quale il filosofo non può restare indifferente sin tanto che vuole autocomprendersi come 'funzionario dell'umanità’14. La particolare e tragica congiuntura storica presente in Germania nel periodo della prima guerra mondiale entra direttamente a far parte dell’evoluzione del ‘sentire’ etico da parte di Husserl tanto da promuovere una serie di tre lezioni per i soldati che ritornavano dal campo di battaglia. a seconda è intitolata: ‘L’ordine etico del mondo come principio creatore del mondo’15 Punto di partenza della lezione è la ormai nota diagnosi di Husserl in riferimento all’oblio della tradizione filosofica a causa del positivismo. Questa rimozione della filosofia in favore della scienza esatta farà esclamare ad Husserl che l’autogiustificazione farisaica della scienza è quanto mai inopportuna senza contare l’ingiustificata deprecazione da parte della filosofia per parte di coloro che sono educati alle scienze esatte e rigorose del tempo in cui viviamo. Per questo anche la stessa guerra può essere intesa come un tempo di rinnovamento sin dalla fonte di tutti gli ideali di forza, che fluisce verso il popolo stesso conservandone tutta la forza salvatrice. La caratteristica di questa forza della filosofia sta nel suo determinare il sentire della vita: “che può esser definita in funzione di un fine superiore della vita personale”16. Ed è solo questa teleologia propria della filosofia, ed intrinseca nella stessa soggettività, che si presenta come il fine etico superiore. Si tratta pertanto di una filosofia (e del sentire di una nuova metafisica) che trasforma eticamente l’umanità dove la persona diviene libera di agire, libera nel ‘sapere’ libero, facente parte di una società a sua volta libera. Husserl non si inclina, alla fine, verso una critica delle guerra ma della ‘retorica bellica’ puntando ad una posizione morale universalistica, così come scriveva a Ingarden nel 1917: “l’etica come tale è una forma transpersonale […] come la stessa logica, tanto che il materiale della nostra posizione etico-politica evidentemente non ne è poi tanto distante”17 Ma già alla fine della guerra il motivo etico si radicalizza tuttavia più verso il versante della critica alla cultura e alle sue diverse manifestazioni dove possiamo comprendere l’attitudine radicale della fenomenologia: “come una decisione che mira ad elevare la vita da un mero fatto di scambio e di produzione, attitudine che diviene una nemica mortale del capitalismo e di tutto un modo del tutto egoistico di accumulare dei beni che non hanno a che fare con l’elevazione morale della persona”18.

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Alla fine comunque la valutazione della guerra, da parte di Husserl, non potrebbe essere più negativa. Il fenomenologo sottolinea fortemente come questa metta allo scoperto un’indescrivibile miseria non solo morale e religiosa ed insieme filosofica dell’umanità. Tutto questo trasforma tutti i valori: “la scienza, l’arte e tutto ciò che sin ora si poteva considerare un bene spirituale assoluto, in oggetto di apologetica e nazionalista, di mercificazione, […] uno strumento di potere”19. L’effetto ideologico di questa trasmutazione di valori è palese: “La fraseologia e le argomentazioni politiche, nazionaliste e socialiste hanno potere sulla massa più delle argomentazioni della ‘sapienza umanitaria’”20. A questa critica corrisponde per altro, purtroppo, l’entusiasmo percepito da Husserl da parte dei giovani di ritorno della guerra verso questa stessa retorica ed una manipolazione propagandistica degli ideali filosofici e religiosi e nazionalisti che minano l’autonomia del lavoro accademico, che dovrebbe fondarsi in un ideale di un sapere fondamentale ed autentico. Con queste osservazioni, quali segno del tempo storico vissuto, Husserl pensava inoltre di iniziare il primo di una serie di articoli per la rivista giapponese ‘The Kaizo’, alla fine però preferisce tacere e cercando di staccarsi dalla polemica, sottolineando in altro modo il sentire tragico della situazione. Husserl inizia i suoi articoli appellandosi al rinnovamento come unica possibilità di fuoruscita dal tragico e tormentato momento storico. La guerra che dal 1914 ha devastato l’Europa e che dal 1918 non ha fatto che sostituire i mezzi di coercizione militare con quelli più raffinati della tortura psicologica e dell’indigenza economica, non meno depravata dal punto di vista morale, ha rivelato l’intima non verità ed insensatezza di tale cultura. “Proprio questa rivelazione però finisce per impedire che essa dispieghi appieno la sua autentica forza”21. Non è pertanto solo l’eco storica dell’accadere che motiva la riflessione filosofica su di una determinata azione ma la sua interpretazione culturale; infatti una nazione, sottolinea Husserl, un’umanità, vive e opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in se stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura. II. Verrebbe da chiedersi come sia possibile in verità pensare al rinnovamento di fronte ad una falsità del sentire, ad una stanchezza culturale così profonda; e la filosofia che tipo di competenze avrebbe dovuto avere in un momento storico così cupo? Diagnosticare la crisi per Husserl infatti non è sufficiente bisogna cercare anche una soluzione. Nei manoscritti sulle lezioni etiche degli anni venti, Husserl si pone questo problema ed insieme inevitabilmente analizza anche la differenza tra mondo dello spirito e mondo della natura;22. la distinzione tra le due differenti ‘regioni’, riguardanti ambedue in effetti il ‘mondo della vita’,

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permette di caratterizzare in maniera rigorosa (in opposizione al mero principio di causalità), il sentire profondo della motivazione quale perno per il regno universale dei fini che non è altro che lo stesso ‘mondo della vita’ nel quale riconosciamo la soggettività nel suo essere attiva da un punto di vista della comunità23. Da qui i valori positivi si vanno determinando a partire dall’autocoscienza, nella quale si manifesta la possibilità infinita dell’essere umano non solo come individuo ma come membro di un’unità culturale, dato che in essa si obiettiva l’unità della vita attiva, della quale l’umanità di un’epoca e di una nazione ne diviene una sorta di soggetto. Ma che cosa intende Husserl con l’uso della parola cultura o meglio di ‘unità culturale’? “Per cultura – scrive nel 1923 – non intendo nient’altro che l’insieme delle azioni e operazioni messe in atto da uomini accomunati nelle loro continue attività, operazioni che esistono e perdurano spiritualmente nell’unità della coscienza della comunità e della sua tradizione mantenuta sempre viva”24. La cultura quindi, che si esprime anche nell’espressione fattiva della creatività del singolo, e che può sempre di nuovo essere fonte di ispirazione fruitivo-creativa, dando così senso ad una continuità storica del farsi della cultura stessa, trascende la singolarità nella comunità pur creando della comunità un’unità di membri legati tra loro, intrecciati da atti sociali complessi, che uniscono spiritualmente una persona all’altra. In quest’ambito appare chiaro che l’etica individuale trova il suo senso in un’etica sociale; così come l’invocato ‘rinnovamento’ dell’uomo si realizza nel considerare l’individuo come parte integrante dell’umanità che diviene così il tema centrale dell’etica stessa. Questa concezione dell’etica significa che la filosofia morale può esserne solo una parte; mentre la morale regola il comportamento pratico, buono, razionale, dell’uomo in relazione all’altro, l’etica deve essere concepita necessariamente come la scienza della vita attiva, totale, della soggettività razionale, dal punto di vista della ragione, dirigendo unitariamente vita e totalità; pertanto il titolo di ragione deve, per Husserl, comprendere un sentire generale, di conseguenza:“la vita attiva di una comunità di un’intera comunità - quand’anche non fosse comparsa nessuna realtà storica – può assumere la forma unitaria della ragione pratica, la forma di una vita etica”25 Valori etici e comunità umane Per specificare maggiormente e qualificare questo suo sentire etico Husserl, nel terzo dei suoi articoli per il ‘The Kaizo’, si pone il problema, forse più importante dell’intera riflessione, su che cosa intendiamo quando parliamo di soggetto inteso come ‘persona libera’. Il punto di partenza per una così

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complessa ma essenziale analisi è la facoltà dell’essere umano, che appartiene alla sua stessa essenza, di avere un’autocoscienza, ovvero un sentire preciso dell’introspezione (inspectio sui) e della facoltà di prendere posizione e di agire; atti personali che si riferiscono riflessivamente alla propria vita e a se stessi; pertanto sembra chiaro che l’essenza stessa dell’uomo si incentri sulle capacità di rappresentazione, pensiero e di avvaloramento, in quanto atti singolari e valutazione dei propri atti, motivazioni e scopi, possibili o reali che siano; l’essere umano può quindi passare da una dimensione particolare ad un’universale, dalla forma dell’assoluto a quella del generale; egli può dunque far precedere ad ogni attività una valutazione e una libertà di scelta che nessun altro essere può esercitare. Di più, l’uomo ha la facoltà di inibire gli effetti delle proprie pulsioni e delle affezioni ‘passive’, di metterle in questione, di esaminarle; esso diviene così, in senso pregnante, soggetto di volontà che non segue il corso degli eventi ma prende da sé (e su di sé) le proprie decisioni. Una libera volontà che per Husserl si eleva nel momento che il soggetto stesso può far valere questa possibilità nel confronto tra altri atti liberi, dove porre una posizione critica ed esaminare l’intera questione riconfermando un’eventuale persa di posizione oppure rifiutandola e questo in un possibile continuo ‘Immer wieder’ che mi permette di liberarmi da catene causali negative e di ‘ri-cominciare’ ogni volta alla luce della ragione. Non posso revocare l’evento gia accaduto ma posso nel corso ulteriore della vita, a seconda dei casi, revocare, rivedere, rivalutare, i miei atti di volontà. 26 All’essenza della vita umana appartiene inoltre lo svolgersi costantemente nella forma dell’aspirazione:“e alla fine questa assume la forma dell’aspirazione positiva e che perciò è abbinata al conseguimento dei valori positivi”27. Questa ‘tendenza’ (Streben), che Husserl sembra riprendere dal pensiero fichtiano, è la tipica teleologia dell’intenzionalità, che alla fine non è altro se non la ragione stessa, nella quale l’autoregolazione del soggetto trova la sua genesi pre-riflessiva e il suo pieno significato come responsabilità personale e sociale. Questa caratteristica dell’uomo, conquistata con la descrizione fenomenologica, a partire dal concetto di ‘inspetctio sui’, può essere ampliata sia in riferimento all’auto-riflessione, il che significa ‘auto-referenzialità’ come struttura formale del soggetto, che all’attività libera come principio personale oltreché alla tendenza come sua dinamica materiale e infine alla razionalità come ‘Telos’ universale; tutte queste caratteristiche coniugandosi costituiscono, secondo Husserl, le competenze etiche del soggetto. Davanti ad un’etica del piacere, della tendenza materiale, si oppone un’etica della ragione, indipendente da tutte le tendenze materiali; l’uomo può così liberarsi da determinazioni eteronome per poter ‘auto-determinarsi’ al fine di

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evolversi positivamente. Questa capacità etica la si comprende poi come ‘auto- motivazione’, la quale a sua volta si relaziona con la ragione pratica. Una relazione che costituisce la possibilità di assumere l’imperativo categorico di ‘essere un uomo autentico’, nel senso di compiere il ‘meglio possibile’, di vivere una vita della quale si possa essere sempre auto-responsabili, una vita alla luce della ragione pratica in che significa volere il mio dovere28. In questa forma possiamo arguire che il primo successo della fenomenologia, nello spostare la riflessione sul modo di darsi dei valori e degli atti della volontà al soggetto della valorizzazione e dell’azione, consiste nel riscatto della persona morale, della sua attitudine etica, nel suo essere ‘buona moralmente’. Rimane però da risolvere la questione dell’etica individuale che deve essere in fondo un’etica sociale e culturale, quale lavoro comune che si costituisce in una forza culturale, che incide alla fine nel particolare stesso. A tal fine è necessario, prima di tutto, riconoscere il significato dell’appartenenza di ciascun uomo a una società, dato che ogni circostanza della sua vita, intergrata in una vita comunitaria, ha una sua conseguenza, conseguenza che determina così principalmente il suo comportamento etico, che lo caratterizza formalmente. In effetti il fatto di appartenere ad una società non solo mi permette di valutare gli altri come facenti parte del mio ‘mondo della vita,’ portatori di un valore particolare riconosciuto socialmente, un valore in sé che nulla ha a che fare con l’utile, un puro interesse etico, ma insieme come valore in riferimento alla società stessa, per questo la mia volontà etica deve essere diretta nel fare il possibile perché si realizzino i beni veri e autentici in ogni circostanza e nell’interavita in un effettivo impegno di volontà etica. Conseguentemente dovrebbe essere proprio della mia esistenza non solo lo sforzarmi per essere più buono ma arrivare a desiderare che anche l’altro lo sia per far sì che in modo concorde si possa conformare una società buona. Questo implica però che nella vita sociale si presentino, come del resto succede, dei conflitti; conflitti che Husserl crede di poter sciogliere tramite un mutuo intendimento etico che permetta soluzioni ‘migliori possibili’; e ciò nel costituirsi, alla luce di un tale intendimento, di un’organizzazione etica della vita attiva, nella quale le persone siano una di fronte all’altra, in continuo rapporto, sino a poter parlare di una ‘comunità della volontà’ che abbia un mutuo comune intendimento volontario. Per giungere alla conformazione di questa comunità dobbiamo sì pensare all’importanza del punto di vista personale, ma evitare una ristrettezza che non permetterebbe di procurare che i valori della società siano un obiettivo comune di coloro che la formano. In effetti l’appartenere ad una società non solo mi permette di apprezzare l’altro come parte integrante della mia stessa ‘Lebenswelt’ (fornito quindi di

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un particolare valore), ma anche come, insieme a me, facente parte dello stesso valore sociale libero da ogni utilitarismo, valido quindi come ‘valore in sé’; per questo è importante per me che anche l’altro realizzi la sua vita il più correttamente possibile con un forte impegno di volontà etica29. A questo punto l’intero livello di valore dato dal singolo dipende da quello della comunità e correlativamente la stessa comunità ha un valore che, pure essendo mutevole, ed eventualmente accrescibile in virtù della mutevolezza e dell’accrescimento del valore del singolo, via via accrescendosi dei singoli dotati di valore, può conquistare: “un valore come unità di una comunità di cultura e come ambito di valori fondati che non si risolvono nei singoli valori, ma sono fondati dal lavoro dei singoli, in tutti i valori legati alla loro singolarità e a questi conferiscano un valore più elevato, anzi incomparabilmente più elevato”30. La relazione di fondazione è così completa. Il fondato si costituisce a partire dall’atto del quale è fondamento, e la nuova realtà fondata non è semplicemente un risultato addizionale, sommatorio, di una serie di attitudini valori o azioni. La società acquisisce un sentire nuovo ed esplicitamente distinto dal mero integrarsi e conformarsi alla regola. L’importante significato che qui si vuole sottolineare è che la società non è semplicemente un insieme di singoli individui (così come la vita e l’agire comuni non sono un mero collettivo di vite e di azioni individuali), ma ogni singolo essere, ogni singola vita, sono ‘attraversati’ da un’unità di vita. Sebbene questa stessa unità rimanga fondata sulla singola vita, trascendendo il mondo circostante di ognuno di noi, e costituendosi in relazione costante con questo stesso mondo, la società emerge quindi come relazione. Resta pertanto chiaro lo specifico di una società fondata nel modo d’essere di differenti persone, nei loro progetti e nelle loro attitudini; ed anche il modo di essere della comunità, come costituita e fondata a partire dalle persone stesse, influisce a sua volta sul singolo, e ciò caratterizza il senso dell’appartenenza sociale. Si apre così una relazione biunivoca tra il singolo, eticamente orientato e la comunità stessa, che orientandosi eticamente su se stessa, in quanto comunità etica, si orienta sul singolo che ne è parte integrante. Inoltre è essenziale che tutte queste riflessioni si ‘socializzino’, che producano dei ‘movimenti sociali’ e che motivi e azioni sociali, corrispondenti al compromesso etico degli associati, siano orientati alla conformazione e rinnovamento della società autenticamente etica costituita perché: “una direzione della volontà che è tale in quanto propria della comunità stessa, e non è mera somma delle volontà dei singoli che la fondano”31. In questo complesso intreccio relazionale si inserisce così quel rinnovamento etico individuale, insieme a quello culturale, fondantesi sulla persona. In

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questo modo via via progredisce sia lo sviluppo culturale della società come di chi la compone. Il significato etico della comunità influisce in modo sostanziale nel comportamento dell’individuo, perciò l’eticità di un popolo deve essere preoccupazione della persona se questa nel suo proprio comportamento tiene ad una certa autenticità. Si tratta infatti, come abbiamo visto, di descrivere come una società passi dall’ essere una ‘mera comunità di vita’ per convertirsi in una ‘comunità di persone’, è per tanto necessario che la persona non solo abbia attitudine etica ma che si dia in essa un’idea della necessità di una cultura eticamente costituita. A partire da questa intenzionalità fondazionale della società etica si ha il compito formale di rinnovamento della comunità verso l’idea di un autentica umanità giusta ed equa razionalmente nei diversi ambiti della vita. La scienza sociale come forma culturale deve essere quindi intimamente relazionata con la filosofia quale organo di riflessione proposto al destino etico di una società. L’atteggiamento da assumere al fine di ottenere questa società e cultura etica passa attraverso la mediazione dell’educazione. La consolidazione di una cultura etica in un popolo porta a confrontare una comunità che si identifichi con l’idea di ragione e con valorizzazioni ad essa corrispondenti. Deve quindi esserci coscienza di scopi comuni, del patrimonio comune da incrementare di una volontà totale della quale tutti si sanno ‘liberi’ funzionari. In una nota al secondo articolo per il ‘The Kaizo’ Husserl scrive: “Vi è un legame universale di volontà che producono l’unità della volontà, senza che vi sia un’organizzazione imperialista”ed in nota alla pagina aggiunge: “Qui potremmo parlare anche di una unità comunista della volontà in opposizione ad una imperialista”32. Più avanti egli chiarirà l’uso di questi termini, che sono in verità estranei alla terminologia husserliana, riferendosi all’autorità del filosofo all’interno della cultura antica: “Se la comunità filosofica era per così dire comunista ciò non significa che l’idea di comunista fosse maneggiata per una particolare volontà sociale inglobante, ma bensì allora si intendeva la comunità corrispondente dei sacerdoti o dei filosofi dominati da una volontà unitaria”33. Ricapitolando la proposta è per tanto di una società fondata e guidata, per l’idea di filosofia e per il senso delle teleologia e dell’etica, dalla responsabilità. In questo tipo di società non solo si protegge la libertà della persona, ma la si arricchisce grazie al carattere etico della società stessa nella quale si promuovono i valori di una cultura ogni volta più umana. Questo è il significato pieno della cultura filosofica di una comunità in continuo progresso dove si sviluppa uno spirito etico comune che dà vigore all’idea etica di comunità e al carattere di un’idea teleologica di comunitaria. Questa forma di argomentazione si orienta dunque a mostrare come il patto

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etico del soggetto, fondato sulla autoriflessione, è proprietà intrinseca dell’intenzionalità quale responsabilità, capacità di autonomia e di autodeterminazione per ‘un imperativo categorico’ del ragionante. Per Husserl non sembra possibile separare autoresponsabilità e responsabilità storica e culturale, per ciò la possibilità del singolo di essere responsabile dei fini dell’umanità schiude l’orizzonte del singolo direttamente verso un compito storico in relazione con la cultura del ‘suo proprio popolo’ che è in personale relazione con l’altro. Questo aspetto della riflessione si accentua molto chiaramente in un testo del 1924, dove il fenomenologo lo ripete e lo chiarisce, così scrive: “Io posso assumere e ricercare un destino sociale e lo posso compiere in diversi modi, per questo destino io sono responsabile. Come la comunità, da un lato, non è una mera ‘serie’ di individui che si raggruppano insieme, ma al contrario una unificazione di questi individui per opera dell’intenzionalità interpersonale, un’unità fondata grazie alla vita, all’azione sociale, di uno nei confronti dell’altro, così come anche di uno contro l’altro, allo stesso modo l’autoresponsabilità, la volontà di autoresponsabilità, la riflessione razionale del senso e delle vie possibili di questa autoresponsabilità, per una comunità, non è una mera somma di varie autoresponsabilità [...], ma al contrario di nuovo una unificazione che tiene uniti intenzionalmente, una con l’altra, l’autoresponsabilità individuale e fonda tra queste un’unità interna”34 La citazione appartiene al testo che tanto impressionerà Habermas nel momento di proporre la trasformazione del suo iniziale modello filosofico; ovvero dalla filosofia della coscienza alla teoria dell’azione comunicativa, a partire dall’analisi del ‘mondo della vita’ e dell’intersoggettività in Husserl. “Husserl - scrive Habermas – conclude la sua riflessione guardando alla vita intenzionale come in continua universale relazione con la verità, [...] verso l’esigenza pregevole di una autoresponsabilità assoluta dell’umanità socializzata; Husserl non dubita nel designare questa problematica come etica e propone uno sviluppo razionale di questa tematica”35. Di fatto la stessa intenzionalità, intesa come tendenza verso la ragione e verso la verità, che si dà nella sua ‘struttura teleologica universale’, è la stessa ragione pratica. Rimane però aperta la domanda di come si dia nella soggettività il fenomeno stesso dell’intersoggettività, a partire dal quale appunto si apre e si costituisce originariamente la ‘regione’ dell’etico, come Husserl scrive sempre nel 1924: “La domanda è - parlando idealmente- come può una pluralità di persone [...] in una possibile relazione di comprensione, oppure attraverso relazioni personali, uniti tra loro in collettività, realizzarsi in una vita di assoluta responsabilità e condurre tale vita comunitaria, fatta di una comunità di volontà, dirigendosi verso questa responsabilità;

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[...] una tale premessa ci conduce verso la necessità di ricercare l’origine di questa idea, ovvero di un’idea di scienza critica ed ideale che si origini in ogni persona insieme al compito di conformarsi all’idea teleologica di comunità”36. Una ‘filosofia del presente’ I. Gli interrogativi che Husserl si pone nella sua conferenza del 1934, in merito alla ‘filosofia del presente’, ripetono quindi la domanda che orientava le sue riflessioni circa la prima guerra mondiale ovvero che significato dovesse avere la filosofia per una situazione di crisi come quella di allora e come quella a lui attuale, cioè degli anni del nazismo. Husserl sottolineava come si lavorasse nel giustificare l’assenza di significato di una cultura capace di produrre fatti come la guerra dove i risultati erano umilianti per tutti. Il ‘senza senso’ era però in netto contrasto con l’entusiasmo dei giovani nella ricerca di un rinnovamento culturale a partire dall’idea di filosofia. La situazione storica degli anni della prima guerra, che gli fece scrivere se mai nel corso della storia un popolo fosse stato così gravemente malato, se mai si fosse data sulla Terra una tale miseria,37 si ripetè, come Husserl stesso aveva previsto alla vigilia della seconda guerra mondiale, tanto che alla fine della sua conferenza a Vienna del 1935 egli scrive: “La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità dello spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa nello spirito della filosofia attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza: combattiamo contro questo pericolo [...] rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità [...] perché solo lo spirito è immortale.”38. Influenzata da tanta miseria spirituale la riflessione di Husserl sull’ideale della autoformazione e dell’autoperfezionamento acquisì una maggiore profondità tanto da usare, nel momento della crisi, termini come ‘decadenza dell’occidente’ e ‘barbarie’, (idealmente già proposti da altri studiosi del suo tempo come identificanti la situazione politica dell’Europa) per pronosticare al contrario un rinnovamento della cultura grazie all’ideale etico della filosofia. La ragione quindi si trasforma, in situazioni di crisi e di barbarie, in una razionalità strumentale o in una volontà di dominio, non tanto come deviazione ‘perversa’ rispetto alla vocazione fondamentale della ragione stessa, ma come esito della genesi ‘spuria’ della ragione; riflessioni queste che pur essendo in perfetta consonanza con Husserl vengono da un altro filosofo contemporaneo ovvero Michel Foucault che negli anni ottanta si occupò in modo più diretto di problemi etici. Egli, in una sua opera dal titolo ‘Was ist Aufklaerung’39 là dove riflette sul testo di Kant del 1798 ‘Il conflitto

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delle Facoltà40’, inclina le sue domande verso quella stessa problematizzazione posta da Husserl, ovvero che cos’è che nel presente produce ‘significato’ nella riflessione filosofica? Si tratta in verità di mostrare come il filosofo, che ragiona e riflette su un determinato processo, tenda a parlare sempre di qualcosa che lo colpisce, di qualcosa di cui egli stesso fa parte, e la filosofia ha la possibilità di problematizzare la sua stessa attualità: “attualità che si interroga come ‘evento’, evento del quale essa deve decidere il significato, il valore, la singolarità filosofica e nella quale essa incentra ogni volta la sua propria ragione di essere quale fondamento del suo stesso dire”41; è per questo stesso motivo che il filosofo deve interrogarsi in riferimento all’appartenenza al suo stesso presente, ad una certa cultura, dottrina o tradizione, appartenenza che non sarà mai scontata (o alla ‘semplice’ questione della sua appartenenza ad una comunità umana in generale) e così sino alla sua inerenza ad un ‘noi stessi’ che si riferisce ad un insieme culturale caratteristico del suo tempo.42 Io credo che la riflessione husserliana degli anni Venti-Trenta, di cui abbiamo parlato poc’anzi, abbia precisamente questa caratteristica, così come Husserl stesso si domanda nel 1923: “Dobbiamo lasciare passare su di noi come un ‘fato’ la decadenza dell’occidente? Questo ‘fato’ si dà solo se noi guardiamo passivamente [...]. Ma questo può anche non essere dato; noi siamo coloro che predicano il ‘fato’ stesso. Noi siamo uomini, soggetti di volontà libera che agiscono nel loro mondo circostante”43 Husserl qui sembra proprio applicare il ‘segno’ del tempo indicato da Kant nel suo il ‘Conflitto delle Facoltà’; l’uomo che è in costante progresso verso il meglio, ed è creatore libero di questo progresso, guarda all’evento storico come indicatore, come ‘segno storico’ (signum rememorativum, demostrativum, prognostikon)44, dove in questo caso il ‘segno’, l’impronta dell’attualità dimostrativa, non è più quello della rivoluzione francese, ovvero come scrive Kant il simbolo per eccellenza “di una partecipazione di aspirazioni che quasi sconfinò nell’entusiasmo […], partecipazione che dunque non può avere causa se non in una disposizione morale del genere umano”45 ma è divenuto con Husserl tutto il contrario, cioè la situazione di decadenza che causa la guerra e la condizione di crisi che si lascia già intravedere quale manifestazione di qualcosa di distorto nell’attualità e di una cultura che esige un rinnovamento. Dei segni temporali quello rimemorativo viene considerato in modo particolare, essendo dato dalla tradizione filosofica che trova la sua fondazione nel pensiero greco. Evento questo che aprì all’umanità un

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orizzonte infinito e diede un significato alla vita razionale e una pratica per l’ideale etico. Da ciò era possibile dedurre che un segno premonitore, nella situazione di crisi sottolineata da Husserl, poteva essere interpretato proprio partendo da un’idea di filosofia, negata nel momento presente dalla situazione storica, ma che però determinava la teleologia della storia dell’occidente; essa era stata portata al silenzio dagli ideali di decadenza e di barbarie, per questo il significato del rinnovamento è impegno e insieme una speranza. La fenomenologia inoltre può radicalizzare il modello di interpretazione che stiamo analizzando. Nella temporalità si danno il mondo e la storia nel contesto di una interpretazione del presente, a partire da una storia e nell’orizzonte di un futuro che impegna l’azione trasformatrice dell’uomo. In effetti l’esistenza nella fenomenologia non solo è uno spazio epistemologico ma è per lo più il ‘luogo della motivazione’. I fenomeni sono i motivi, i segni della realtà, che si manifesta in loro e che attraverso di loro ci permette di comprendere meglio, nel suo significato e nella sua genesi, la realtà stessa, e questo autoresponsabilizzandoci più coscientemente e razionalmente del valore di questi stessi fenomeni. Nel caso della crisi il ‘segno dimostrativo’ divenne il restringersi del campo della razionalità alla sola scienza della natura, il che comunque non ci impedisce di riconoscere una razionalità più completa nel mondo della vita, inteso come orizzonte degli orizzonti, congiunzione di pratiche diverse. Nel ‘mondo della vita’ infine posso accedere alle diverse culture, a diverse epoche, a diverse competenze, grazie appunto alla rimemorazione storica. La memoria storica mi permette di ricostruire la genesi del significato, di riconoscere la mia appartenenza a una tradizione che è più ricca del ‘mero presente’. Ricostruendo in questo modo il fenomeno esso si trasforma in ‘segno-predizione’ ed opera come motivo per una soggettività capace di assumere responsabilmente il compito di rinnovamento della cultura intesa come ideale filosofico. In questa prospettiva critica è chiaro che per Husserl la prima guerra mondiale, e le sue conseguenze, non possono essere considerate come una fatalità del destino, visto l’insieme dei suoi ‘segni dimostrativi’; essa fu un evento tragico che compromise la partecipazione stessa del filosofo. Allo stesso modo dieci anni dopo, la situazione di crisi in Europa sarà a sua volta da intravedersi in quel segno dimostrativo dato dalla razionalità che si è ‘ristretta’ la dove la ‘mera scienza di fatto’ produce solo ‘meri uomini di fatto’. Ed è la riduzione della fatalità a fatticità, grazie alla ‘prosperity’ della scienza e della tecnologia, a chiudere l’orizzonte, impedendo di riconoscere ciò che può essere segno e motivazione stessa del destino.

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II. Per comprendere la problematica è importante individuare la differenza tra le varie strategie argomentative di Husserl. Nel suo passo sulla fenomenologia dei valori e la critica alla cultura, nell’articolo per il ‘The Kaizo’, Husserl crede di poter spiegare il significato etico individuale e sociale basandosi sull’analisi della coscienza intenzionale, (quindi autoriflessione e autoresponsabilità) insieme all’analisi della costituzione del sociale a partire dall’interazione tra le persone. Qualche anno dopo nella riflessione a proposito della crisi della scienza europea Husserl scopre che non è possibile fare appello alla soggettività, o ad una coscienza sociale, in un società positivista, nella quale impera il naturalismo e l’obiettivismo della scienza e della tecnica. Il positivismo scientifico svaluta la filosofia, fomentando con questo nuove forme di scetticismo, fino ad occultare la genesi della scienza nel mondo e della vita, dimenticando la soggettività, la obiettiva come uno dei tanti oggetti della scienza. In conseguenza di ciò il significato della relazione kantiana a proposito della memoria tra il segno dimostrativo, rimemorativo e predittivo, assunto al fine di fare della filosofia una ‘ontologia del presente e dell’attualità’, permette ad Husserl di accentuare la sua critica al positivismo scientifico privo di ‘pathos’ etico. Parte determinante della cultura del momento, la cultura scientifica, ha perduto il suo interesse sulla riflessione in riferimento al suo significato come fattore culturale importante di una società. Questo spiega perché: “[...] il positivismo decapita, se così si può dire, la filosofia”46 Nell’‘Introduzione’ alla ‘Logica formale e logica trascendentale, Husserl traccia la seguente diagnosi: “L’uomo moderno di oggi, così come la moderna cultura da lui formata attraverso le sue stesse immagini, non sembra vedersi come un’autobiettivazione della ragione umana, in funzione di un’universalità, creata per l’umanità, perché sia possibile una vita veramente soddisfacente, ovvero una vita individuale basata sulla ragione pratica”47. Questa situazione porta alla conseguenza che il mondo della vita non si evolve in modo incomprensibile e noi ci perdiamo in esso: “chiedendoci invano la sua finalità, il suo significato, fino ad allora tanto indubitabile, perché era riconosciuto come comprensione e volontà”48. Per il fenomenologo questo problema ha una soluzione etica: “Non possiamo adottare ancora un’attitudine scettica, rispetto ad una cultura storico scientifica, senza pagarne le conseguenze, semplicemente perché noi non possiamo comprenderla; in altre parole perché siamo incapaci di esplorare razionalmente il suo significato e di determinarne la sua effettiva portata all’interno della quale possiamo giustificare e realizzare quel significato in un lavoro pre-riflessivo. Non ci basta la gioia di creare una tecnica teorica, di trovare teorie con le quali possiamo fare molte cose

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utili guadagnando così l’ammirazione del mondo. Posto che sia possibile separare l’autentica condizione umana dalla vita vissuta, con responsabilità radicale, con ciò non possiamo separare la propria responsabilità scientifica della totalità dalla responsabilità scientifica della vita umana, [...] così dobbiamo noi collocarci in riferimento all’intera vita e all’insieme della tradizione culturale, e attraverso una radicale riflessione cercare la possibilità e necessità ultima a partire dalla quale possiamo porre una posizione certa nell’esistenza, giustificandola e avvalorandola”49 Ed Husserl risponde a questo appello alla responsabilità della scienza con la riflessione (non soltanto come ‘inspectio sui’), diretta soprattutto al fondamento dell’esperienza della scienze stessa che si ‘disvela’ come ‘Lebenswelt’, l’orizzonte degli orizzonti della mia attività quotidiana, la molteplicità delle prospettive che compongono il mio essere ed operare nel mondo. Il ritorno al mondo della vita come correlato intenzionale universale della mia vita di coscienza, permette di caratterizzare la soggettività pre-riflessiva come trascendentale, ed è in questo senso che, grazie alla sua attività, si costituisce la sintesi ‘plurifacetica’ di tutto il mondano, arrivando ad avvalorare, verificare, spiegare, affermandone o negandone, i diversi aspetti a seconda appunto di come intenzionalmente mi riferisco al mondo stesso. Husserl insiste in questo ‘discoprimento’ del mondo della vita, come ambito di tutta la ‘praxis’. Il suo occultamento, la sua cosificazione e colonizzazione per uno sviluppo unilaterale della scienza e della tecnica si costituisce nella patologia della modernità che ha obliato il ‘mondo della vita’ stesso, si perde così il significato della soggettività e con questo l’interesse per la responsabilità. Allo stesso tempo la fiducia nella scienza come unica spiegazione dell’uomo e del mondo esercita una sorta di discredito nei confronti della filosofia e delle sue possibilità di rinnovare un significato dell’umanità quale ‘idea’ della ragione pratica. Questo è in un certo senso l’indebolimento dello scetticismo. E’ necessario volgere all’origine tanto della storia dell’occidente, come della soggettività e del mondo della vita, per ricostruire la genesi del significato e della ragione, nella quale possa rinnovarsi l’imperativo etico della filosofia, a partire dal quale ‘ri-acquisire’ la scienza positiva in senso relativo, per il benessere dell’umanità, intesa come articolazione della ragione sociale. Con la tematizzazione del mondo della vita come correlato necessario al raggiungimento della soggettività, l’etica fenomenologica guadagna tutta la sua radicalità. Un fatto storico positivo o negativo che sia può avere significato (signum demonstrativum) per la fenomenologia solo se si intraprende la sua ricostruzione genetica (signum rememorativum), ed è possibile solo se si dispone di una soggettività riferita originariamente al mondo della vita, suolo, fondamento e origine tutta l’esperienza. Questo

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stesso mondo della vita però è ciò che si manifesta come dimentico, nel momento della crisi e della decadenza, della cultura fondata per la filosofia, nel contempo solo la prospettiva del futuro (signum prognosticum) può aprirsi, per un soggetto responsabile, in quanto riferito al mondo della vita nel quale si deve articolare il lavoro critico e pedagogico del filosofo e dei membri della comunità. Da qui il ritorno al mondo della vita diviene una riabilitazione della ‘doxa’, che si appoggia alla ‘skepsis’. Possiamo infine ‘accettare con il cuore’ lo scetticismo e riconoscerne la sua autenticità e il suo posto nel mondo della vita, rivolgendosi all’origine, e questo è il significato dell’epochè fenomenologica:“L’ultima e superiore responsabilità sorge nella conoscenza che si ottiene nell’attitudine trascendentale riferita all’ultimo apporto atto del sentimento e della volontà nella costituzione”50. III. In uno dei suoi primi scritti Jean Francois Lyotard, con termini molto simili a quelli di Husserl, pone un problema che si costituirà nel lavoro di tutta una vita, ovvero il riscatto dell’uomo da tutti i tipi di positivizzazione. Naturalmente questo riscatto inizia con il proporsi la ricostruzione dell’intima relazione tra fenomenologia e scienza positiva; per chiarire il significato di questa relazione alla fine del suo ‘La Phénoménologie’ scrive: “è evidente che la fecondità della fenomenologia non procede da quello che ostacola l’investigazione scientifica dell’uomo per suo conto, come gli argomenti insulsi e irrisori della teologia e della filosofia spiritualista. La ricchezza della fenomenologia, il suo lato positivo, è il suo sforzo per restituire, iniziando al di sotto degli schemi, l’uomo a sé stesso; obiettivo che non è possibile se non tramite la riscoperta della scienza antropologica (sia per l’uomo che per la fenomenologia) [...]. Il recupero di insieme dei dati neuro e psicopatologici, etnologici e sociologico-linguistico, storici, ecc…, contro l’oscurantismo o l’eclettismo corrente, e con l’aiuto di una solidità teoretica, […] risponde abbastanza bene alle esigenze scientifiche della filosofia corrente”51. Questo lavoro di recupero dell’autentico significato del ‘discorso contemporaneo’ in riferimento all’uomo concreto implica due momenti di cui uno negativo, come spiega Lyotard, nella sua denuncia radicale della performatività, della radicalizzazione inflessibile della modernità. In modo molto simile a come Husserl critica la positivizzazione della scienza anche Lyotard avanza, una volta ‘decostruito’ criticamente il positivismo, nel lavoro di ricostruzione dell’uomo. La domanda che permette di trovare una soluzione al cosiddetto ‘enigma della soggettività’ è tutta fondata sul come si dà fenomenologicamente il soggetto. Lyotard stesso riconosce il valore della fenomenologia nell’aver esplicitato il mondo della vita come luogo originario del soggetto e questo fa si che il mondo diventi poi il tema della

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fenomenologia. Il riconoscimento del mondo della vita come fondamento costitutivo della conoscenza scientifica, invece di negare il valore della scienza, deve esser ricondotto geneticamente al processo della sua produzione e al significato della sua applicazione restituendo così il suo più autentico significato. Per la fenomenologia, come ormai più volte sottolineato, l’oblio del mondo della vita, nel quale consiste la positivizzazione della scienza, significa la perdita della soggettività, la peggiore conseguenza sia pratica che teoretica. Il veritiero campo della decisione epistemologica e filosofica include insieme al significato più profondo dell’azione umana, la capacità di responsabilità della persona in riferimento a tutti i suoi atti. Per ‘ricostruire’ questo soggetto sono state fatte varie proposte: decostruirlo per volgersi al ‘Dasein’, comprendere la persona a partire da una ‘fenomenologia della percezione’, o nel superamento di tutto lo psicologismo passando per una psicologia fenomenologica, spiegando il significato di una soggettività trascendentale. Proprio questa spiegazione, che di tutte è la più critica, è ciò che ha guadagnato la fenomenologia husserliana da quando una soggettività trascendentale, riferita al mondo della vita, minaccia di colonizzarlo al modo dei grandi racconti, propri della modernità, occultando di nuovo il soggetto (e ora in nome della stessa oggettività) dietro il proprio e specifico della quotidianità riabilitando la ‘Doxa’, l’opinione, i molteplici punti di vista. Perché ciò non succeda sembra esser necessario volgersi verso ‘L’analisi sulle sintesi passive’, spiegata da Husserl negli anni venti52, per ricostruire in tutta la sua originalità una ‘fenomenologia della sensazione’. Io credo che sia possibile vedere in questo passaggio di Husserl lo stesso progetto proposto recentemente da Lyotard quando esige una ‘archi-epochè’ della sensazione, che poterebbe verso un minimo di soggettività, un ‘anima minima’, quale condizione minimale dell’estetica. Si tratta dunque di una epochè la più radicale e originaria possibile, che metta “in sospeso non solamente il pregiudizio del mondo e della sostanza, ma anche quello della soggettività e della vita”53. Si cerca però ora di volgere all’origine nel mondo della vita, senza obiettivarlo di nuovo opponendolo ad una soggettività già formata, secondo il pregiudizio della modernità. Ed è precisamente questa genesi che allo stesso tempo può esplicare il significato autentico di una soggettività, non ‘preoccupata’ per l’oggetto, per il concetto, l’idea e la rappresentazione, quella soggettività spontanea libera e creativa; creativa nella costituzione del significato, segno originario del mondo per la persona in formazione, in iterazione sociale, un processo di apprendistato, di esperienza del mondo obiettivo, non meno che la solidarietà e responsabilità nella società civile.

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Per una ‘ricostruzione’ della relazione tra teoria e prassi I. Nella ‘Crisi’ Husserl adotta una duplice strategia complementare per trovare una soluzione al problema della filosofia moderna che si è mossa dentro l’obiettivismo della scienza positiva e il soggettivismo di una filosofia trascendentale che non è riuscita a risolvere l’enigma della coscienza, nonché della psicologia che si converte ora nel ‘campo delle decisioni’ (Feld der Entscheidungen). Dopo aver stabilito la diagnosi, si deve inizialmente avviare il cammino verso la riflessione sul mondo della vita per chiarire la dimensione genetico-trascendentale del significato di obiettività della scienza. Husserl sa molto bene che la critica al positivismo scientifico può non essere compresa e mal interpretata se non se ne chiarisce il significato. In un testo del Luglio del 1937 intitolato ‘Teleologia e la storia della filosofia presente’ così egli scrive: “Ciò che qui deve essere voluto, ed è voluto, non si ottiene con argomentazioni loquaci e vuote sul significato più in voga sul radicalismo, metodismo, logicismo. Desiderando ciò che lo spirito del tempo chiama presente e che si esprime nella, particolarmente diffusa, letteratura quotidiana, e si va allontanando da un’idea di filosofia come scienza universale e che tutta la modalità di valutazione della teoria pura, cade in una certa svalutazione. Può essere che ora la filosofia sia diventata solo un titolo per una visione resa irrazionale e mistica della ‘Weltanschauungen’; questo però non può significare in nessun modo che si abbandoni le singole scienze né la scienza universale dandole un così basso valore quasi fosse solo tecnica […] dato che qui si deve concludere che si tratta di una dimensione necessaria della funzione della filosofia per tutta l’umanità. Così è il problema una radicale fondazione delle scienze che deve essere proposto sin dall’inizio come necessario […] fin tanto che non si incontra una chiarificazione e risoluzione adeguata”54. Al compito di superamento della crisi corrisponderà la conferenza di Vienna mentre alle difficoltà del cammino a rovescio della psicologia corrisponderà la conferenza di Praga ambedue del 1935. È necessario per tanto analizzare i testi per vedere quali soluzioni offra Husserl al problema della psicologia una volta refutato l’obiettivismo e riconosciuta appunto la ‘verità’ delle ‘skepsis’; e questo da un doppio punto di vista: da un lato in relazione con la morale, esaminando se è possibile una considerazione dei sentimenti morali che non tratti dell’uomo come mero oggetto, e dall’altro liberando dall’obiettivismo scientifico il soggetto della responsabilità morale, che in questo modo può affrancarsi dal solipsismo della coscienza riflessiva. Questo significherebbe che la psicologia potrebbe divenire il ‘principio-ponte’ nella fenomenologia, il che ci autorizza mediante un’intuizione valorativa a generalizzare il significato della morale presente nei sentimenti e ciò permette di giustificare il principio di responsabilità a partire da un soggetto coinvolto e motivato nel ‘mondo della vita’.

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II. Ciò che Husserl cerca di dimostrare nella conferenza di Praga è la possibilità di un avvicinamento tra la filosofia e la psicologia quale risultato di una filosofia trascendentale rinnovata nel suo stesso fondamento; “la filosofia trascendentale ci mostra come si implicano mutuamente, come in un destino comune, il problema di una riforma radicale della psicologia e di una riforma radicale della filosofia trascendentale”55. E’ necessario pertanto chiarire che la filosofia trascendentale non intende rendere comprensibile un’obiettività già costituita (come potrebbe essere per la proposta kantiana), sino ad offrire l’autentica fondazione di questa stessa obiettività mostrando come si questa si formi rispetto al suo significato (Sinn), in relazione con il suo riferimento di validità (Geltung). Più precisamente, la necessità di autoresponsabilizzarsi delle diverse forme di conoscenza e di giustificare razionalmente l’azione è ciò che muove la filosofia trascendentale stessa nella modernità. Contemporaneamente però possiamo chiederci perché, nel farsi dello sviluppo del trascendentale, si tenda a costituire facoltà trascendentali più o meno mitiche per risolvere i problemi che ci si prospettano, quando tutto questo si presenta in verità direttamente alla nostra vista per essere chiarito grazie ad una riflessione sulla vita quotidiana, sul suo trascorso e nel suo modo di darsi. Ed è precisamente in questo suo ‘darsi’ che la ‘cosa stessa’ si realizza in quella forma necessaria tramite la quale noi l’affrontiamo nell’esperienza quotidiana (come per esempio il soggetto naturale, la natura in generale, la cultura, la norma, ecc...) basandoci sulla ‘singolarità del suo apparire. “il reale è pieno senso del problema trascendentale (in senso humiano) del non sentirsi sicuro del suo compito nella comprensione e differenziazione tra l’obiettivo psicologico-obiettivo e quello trascendentale. da qui la spiegazione conseguente della riflessione trascendentale si complica in modo complesso e parossistico, e in particolare il rapporto tra psicologia e filosofia trascendentale, così come tra soggettività psicologica e trascendentale”56. Husserl non ignora certo la relazione con l’altro, tramite la comunicazione, quale possibile soluzione del paradosso proposto eppure egli sa anche che in ognuno di noi si nasconde il paradosso stesso della soggettività ovvero, come egli scrive: “non posso pensarmi senza l’altro, senza essere in comunità con esso. Nato all’interno di una comunità, sono debitore costante alla comunicazione con altri soggetti, del contenuto delle mie rispettive rappresentazioni del mondo. Per questo il mondo ha per me, come per l’altro, un senso originario come ‘mondo per tutti’. Dall’altra pero, perché non mi è cosciente, che ciò sia in senso ultimo, ovvero trascendentale, che l’altro abbia un senso e un significato per me. Dov’è la via trascendentale in me che mi porta verso

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l’altro e verso la comunicazione con esso? Com’è possibile (ed è possibile?) pensare questo cammino?”57. In verità né Kant né l’idealismo proposero e risolsero questo problema della intersoggettività che ha la sua origine nella sostanziale stranezza dell’identità e allo stesso tempo nella necessaria differenza, tra soggettività psicologica e soggettività trascendentale, di facoltà psichiche e trascendentali. Ed una delle cause che fece sì che non si potesse risolvere in modo soddisfacente questo paradosso è per il Nostro la fascinazione naturalista che da sempre attrae la psicologia che non ha potuto né saputo superarla. Allo stesso tempo tutto ciò ha avuto come conseguenza che la filosofia trascendentale, senza l’aiuto di una psicologia ‘non-positivista’, non ha potuto trovare una fuoriuscita dal suo solipsismo ed ha dovuto per tanto giungere ad una sorta di costruzione ambivalente. Per risolvere alla fine questo complesso intreccio è necessario, sottolinea Husserl, partire da un’interrogazione fondamentale ovvero: “Non sono io lo stesso sia come tema della psicologia che come ego trascendentale?”58 Certamente lo sono, e per ciò mi ritrovo in due differenti attitudini: in quanto essere con un sentire esterno, che si riflette anche nell’esperienza interna, e costituito obiettivamente a partire da essa, e in quanto capace di autoriflessione sulle operazioni della costituzione del sentire e sulla loro validità nel mondo. Sono lo stesso e mi propongo proprio per questo compiti diversi in relazione con me stesso o/e con l’altro, diverse azioni quotidiane e riflessioni sui motivi della ragione che per lo più mi muovono, i quali mi si danno nell’esperienza interna. Si tratta per tanto di capire la portata del trascendentale quale possibilità di riflettere e ricostituire metodicamente la costituzione del significato e la validità del nostro mondo, il quale certamente mi si presenta come ‘Altro’, già acquisito e valido prima della stessa riflessone, dall’intellettualità che lo costituisce. Questo fa sì che la psicologia si converta, come abbiamo gia detto, nel ‘vero campo della decisione’. Husserl, però, mette in risalto come, nonostante tutto, assistiamo comunque ad una crisi della psicologia, crisi che sembra aver poco a che fare con il compiacersi della psicologia stessa nelle sue certezze e dell’aver conquistato un posto in riferimento alle grandi istituzioni e quindi la possibilità di compararsi e competere definitivamente con le altre scienze naturali. Questo tipo di psicologia si caratterizza in quanto si occupa: “dell’anima come annesso reale del suo corpo (Leib), certamente con una struttura formale diversa di quella del suo corpo (Koerper); ovvero non come ‘res-extensa’, però si realizza in un significato uguale con il suo corpo (Koerper) ed in unione con le leggi della causalità, cioè in accordo teoretico con la stessa classe di quelli dei paradigmi della fisica”59.

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Senza dubbio in questo senso l’analisi offerta da Husserl nella conferenza di Praga non si distacca particolarmente da altri suoi scritti, ma la soluzione che egli tenta di offrire alla fine del testo (in un passaggio che sembra essere suggerito da Eugen Fink) promette di superare definitivamente la dicotomia tra i due ambiti tramite un nuovo ‘principio-ponte’ tra l’esperienza interna e la necessità di generalizzare certe regole della conoscenza e del comportamento umano. La crisi della scienza trova il suo fondamento ‘nella crisi dell’autocomprensione dell’uomo’60; per Fink come per Husserl, superare questa crisi significa assumere il problema dell’uomo ad un livello di intendimento molto più profondo. Ciò che dovremmo ottenere così è il superamento di un tipo di speculazione trascendentale della tradizione, che si presenta come un ‘sapere oscuro’, benché pieno di suggerimenti, in riferimento ad una profondità della vita del soggetto che nulla può avere a che fare con un’attitudine obiettiva che ‘metta tutto allo scoperto’. Questo significato del trascendentale è infatti per Husserl incline al fallimento dato che è privo di un vero metodo descrittivo. D’altra parte la nuova comprensione genetico-trascendentale, per poter rendere conto del suo contenuto, ovvero della dimensione spirituale, deve rinunciare alla fascinazione per l’attitudine obiettivante liberandosi così dalla prigionia metodica del paradigma delle scienze naturali. Questo permette di giustificare l’insuccesso della filosofia classica trascendentale e della psicologia scientifica e del loro impegno per comprendere l’uomo; esse “sembrano correre insieme su di un unico binario in verità restano permanentemente separate”61. Così posto il problema alla fenomenologia si presenta “‘eo ispso’ come il lavoro di liberare la psicologia dall’imbroglio dell’obiettivismo naturalista e di mettere in marcia la filosofia trascendentale tramite il metodo descrittivo, verso la questione concreta della esposizione della soggettività, tale come deve essere conformata ad una psicologia riformata”62. Si ricava in questo modo una comprensione dell’intenzionalità che utilizza tutti gli sforzi della psicologia, liberandola dall’esclusività del paradigma ‘naturalista–obiettivista’. Ciò equivale ad un riconoscimento radicale del significato dell’esperienza interna nella direzione suggerita per la ‘skepsis’ nella sua dottrina dell’uomo come misura di tutte le cose; che sarebbe l’autentica risposta al problema del trascendentale fondato da Hume. A questo punto possiamo così chiederci come sia possibile (e se è possibile) ricostruire, a partire da ciò che mi si dà nell’esperienza interna, il significato obiettivo del mondo della vita e di una pratica umana in esso, della quale

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essere in grado di responsabilizzarci radicalmente. In una inconfutabile analogia con l’ammirazione per ‘il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me’, che termina la ‘Critica della ragione pratica’ di Kant, Husserl e Fink concludono (e noi con loro) che il compito inalienabile della filosofia è, e rimane, l’auto-responsabilità dell’umanità: “Dal sapere sulla doppia possibilità di conoscenza dell’essenza dell’uomo, sorge non solo una nuova, fondamentale autocoscienza teoreticamente rinnovata, ma sorge soprattutto un nuovo sentimento vitale (Lebensgefuehl). L’universo nell’enormità della sua estensione spaziale con milioni di stelle, sotto le quali esiste un essere piccolissimo ed insignificante, questo universo immenso nella quale infinità l’uomo è minacciato di estinzione, non è altro che una costituzione di senso, una formazione resa valida dalla sua stessa vita umana, ovvero nella profondità della sua vita trascendentale. Così può ora la fenomenologia pronunciare il suo nuovo sapere, il sapere trascendentale sull’uomo che espresso in termini antichi e forse un po’ logori viene detto ‘anthropos metron panton’, l’uomo come misura di tutte le cose”.63 Possibili conclusioni La domanda che ci siamo posti all’inizio del nostro lavoro, ovvero che cosa abbia da dirci la filosofia oggi, ha aperto un’ampia serie di problemi; proveremo ora a riassumerli brevemente. Approdata alla temporalità del soggetto, quale ‘segno dimostrativo’ del suo presente, sospeso tra il passato (l’orizzonte di tutte le ritenzioni) di cui il sentire è segno rimemorativo, insieme al futuro (suo orizzonte protensionale) da cui traiamo le previsioni, e la nostra attualità (presente vivente) nel mondo della vita, siamo giunti ad includere l’etica fenomenologica nella tensione tra la soggettività trascendentale e il mondo della vita, intesa come attitudine della persona verso l’autorealizzazione e la forza di superare tutte le stanchezza, le incredulità, l’ agnosticismo o la fatalità, di un destino comune, tramite una tensione, che è prima di tutto un problema pratico, ovvero quello ‘Streben’ verso il meglio che Husserl auspica nella sua etica e che si esprime nella formula: “Fai il meglio tra ciò che di buono è raggiungibile all’interno della sfera pratica che di volta in volta ti si presenta”.64 A ciò si aggiungeva il problema del senso e del compito della filosofia (leggi fenomenologia); l’epistemologia, la teoria della conoscenza, la scienza e la tecnologia, quando, nei loro limiti, sono riuscite a captare il problema, sono ricorse alla ragione pratica pretendendo di risolvere la questione tramite la ragione stessa, così facendo hanno solo deformato il problema promuovendo uno scetticismo per il quale la filosofia non ha nulla da dire perché ciò che si può dire sul mondo è argomento della scienza, così allo stesso modo ciò che si può dire dell’uomo è argomento di ognuna di esse65.

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La tensione tra soggettività trascendentale e la situazione del mondo della vita, si manifesta così nella discussione tra un ‘ethos’ della cultura, che determina per la forza l’ermeneutica della tradizione, la responsabilità dei membri della società civile, che si pone contro il tradizionalismo e si appella ad un modello di universalità alla forza della riflessione soggettiva e del discorso intersoggettivo su proposta contrattualistica o comunicativa. La comunicazione, che Husserl ravvisa come conseguenza della scoperta della filosofia, e allo stesso tempo come fondamento della comunità, avviata nell’attitudine filosofica, si fa però impossibile quando si privilegia l’io della riflessione, cioè un dialogo con se stesso che critica, chiarisce e discerne, la diversità prospettica. Ovvero sussiste il rischio che il mondo della vita, aperto dalla fenomenologia, rimanga prigioniero dell’azzardo di rinchiudere di nuovo la soggettività riflessiva tutta nella filosofia della coscienza, orientandola verso la ragione monologica. La tensione pratica tra la soggettività e il mondo della vita sembra portare il soggetto e la filosofia verso la morale quale ‘Filosofia prima’, e Husserl descrive questa tensione come necessaria dato che il soggetto morale, sia esso singolare o plurale, non anela a trascendersi, sin tanto che non può uscire dall’esperienza ‘mondo vitale solipsistica’ verso l’altro. Husserl cerca di risolvere la tensione sia passando da una fenomenologia del mondo della vita ad un’etica comunitaria, il cui principale valore è il potere di contestualizzare culturalmente la pratica e motivarne l’azione sociale, sia volgendo, grazie, all’epochè, verso la situazione originaria nella quale l’equilibrio riflessivo costituisce il soggetto morale stesso. Un tentativo di soluzione che non rompe la tensione, a partire dal sentimento morale del mondo e dalla vita, sottomettendolo ad un’intuizione valorativa di stampo fenomenologico, per concludere in un ricorso soggettivo nella forma dell’identità personale, o della comunicazione pubblica o dell’argomentazione trascendentale. Il valore dell’etica universalista, basata sulla riflessione, la volontà e il discorso, seguendo in ciò la sua forza critica, rende però deboli le motivazioni, quali risposte che si possono contrapporre all’assolutismo della ragione. L’etica fenomenologica insiste nel conservare la tensione pratica tra soggettività e mondo della vita e ne riconosce la validità, fino al valore stesso della ‘skepsis’, che è ciò che la obbliga ad assumere la contingenza del mondo, origine infine di tutto il problema. Concludiamo sottolineando come una concezione fenomenologica della morale impedisce di polarizzarsi nell’ermeneutica, per privilegiare la relazionalità con il mondo della vita. La tensione tra soggettività e mondo della vita permette di scoprire come impegnarsi senza identificarsi; il compito è pertanto cercare una forma costruttiva che parta dal mondo della vita, nel

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quale si danno i segni del tempo, la comprensione di altre culture, punti di vista e le motivazioni, potendo prendere distanza critica che permetta di avvalorare, proporre, e/o criticare e interscambiare ragioni e motivazioni; il consenso non può e non deve essere sempre il fine e il dissenso nella morale talvolta è possibile ed anche desiderabile. 1 E. Husserl, An den Praesidenten der Internationalen Philosophen-Kongresses in Aufsaetz und Vortraege (1922-1937), Kluwer Acad. Publ., Dordrecht 1989, Hua XXVII, p.240. Una parte del volume XXVII è ora tradotto da C. Sinigaglia, cfr. E. Husserl, L’idea di Europa, Cortina, Milano 1999. 2 Il testo del 1934, in verità non è molto diverso dall’articolo apparso sulla rivista ‘Logos’ del 1911, intitolato ‘La filosofia come scienza rigorosa’, dove Husserl si riferiva, molto polemicamente, alla differenza tra la filosofia intesa quale scienza rigorosa e la pretesa visone d’insieme della ‘mera scienza’; tutto questo riguarda il destino stesso della persona, quale diverso senso dell’umanità e della storia nel senso di un diverso compito della cultura e con: “la possibilità di una realizzazione continuamente progressiva dell’idea di eternità dell’umanità ”, in Aufsaetz und Vortraege (1911-1921), M. Nijhoff, Den Haag 1986, Hua XXV, p.116. 3 E. Husserl, Die Krisis der Europaeischen Wissenschaftten und die traszendentale Phaenomenologischen Reduktion, M. Nijhoff, Den Haag 1959, Hua VI, p.100. 4 E. Husserl, Vorlesungen ueber Ethik und Wertlehre. 1908-1914, Kluwer Acad. Publ., Den Haag 1988 Hua XXVIII, p.29. 5 U. Melle, Einleitug des Herausgeber, in Hua XXVIII, p. XX . 6 E. Husserl, Hua XXVIII, pp.390-391. 7 E. Husserl, ‘ Phaenomenologische Aufklaerung del Doppelseitigkeit der Formalen Logik als Formalen Apophantik und Formaler Ontologie’ in Formale und Transzendentale Logik, M. Nijhoff, Den Haag, 1974, Hua XVII, p.100 e sgg. 8 M. Scheler, Il Formalismo nell‘etica e l‘etica materiale dei valori, Fratelli Bocca Milano, 1944. 9 E. Husserl, Hua XXVIII, p.140. 10Ivi, p.145 e sgg. 11 Ivi, p.149. 12 Ivi, pp.154-155. 13 Per un riassunto dei temi maggiori presenti nelle lezioni etiche di Husserl in quel periodo mi permetto di rimandare al mio ‘Etica husserliana’, FrancoAngeli, Milano 1999 Così Husserl scrive nel 1934 “Chiediamoci la filosofia del presente, è totalità che, come succede con la scienza positiva, collega tutta la sua analisi in un’unità grazie alla sua stessa finalità alla cui investigazione, intesa come un progresso infinito collaborano tutti i suoi ricercatori? C’è nella filosofia un metodo unitario, un sistema crescente di dottrine, che si unifichi tutta la teoria? Sono tutti i ricercatori uniti sotto la stessa

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motivazione, verso la ricerca in riferimento ad un unico fondamentale problema?”in Hua XXVII, p.184. 14 Guillermo Hoyo Vàsquez, Intentionalitaet als Verantvortung. Geschichtsteleologie und Teleologie der Intentionalitaet bei Husserl., M. Nijhoff, Den Haag, 1975, Phae 67. Desidero inoltre cogliere l’occasione per ricordare l’impegno del Prof. Vàsquez, dell’Università di Bogotà, che si occupa da anni degli stessi problemi fenomenologici e che, tramite uno scambio epistolare-telematico, è stato spesso fonte di buoni consigli. 15 E. Husserl, Hua XXV, p.267 e sgg. 16 Ivi, p.271. 17 E. Husserl, Briefe an Roman Ingarden., a cura di R. Ingarden, M. Nijhoff, Den Haag, 1968, p. XXXI. 18Così scrive Husserl ad Arnod Metzger; in Briefe, cit., p. XXX. 19 E. Husserl, ‘Beilage X’, Hua XXVII, p.122. 20 Ivi, p.117. 21 E. Husserl, ‘Fuenf Aufsaetze ueber Erinnerung’, Hua XXVII, p.3. 22 Cfr. I. A. Bianchi, Etica husserliana, cit., pp 163-175. 23 E. Husserl, Natur und Geist, Kluwer Acad. Pub., Dordrecht 2001, Hua XXXII ed anche Natur und Geist. Vorlesungen Sommersemester 1919, Kluwer Acad. Pub., Dorderecht 2002, Husserliana Materialien Bd IV. 24 E. Husserl, ‘Erneuerung als individualethisches Problem’, in Hua XXVII, p.21. 25Ivi, p.20. 26Mi si permetta di rimandare al mio articolo ‘Autocoscienza e libertà: le tesi husserliane sulla persona quali fondamento dell’agire etico’, presente negli Atti del convegni svoltosi a Verona nell’aprile del 2003 dal titolo ‘Etica e persona’, FrancoAngeli Milano 2004, (pp.111-133). 27E. Husserl, ‘Erneuerung als individualethisches Problem’, Hua XXVII, p.25. 28 Ivi, p.36. 29 Ibidem. 30Ivi, p.48. 31Ivi, p.49. 32Ivi, p.53 in nota. 33 E. Husserl, ‘Die Entwicklung der philosophischen Kulturgestaet’ in Hua XXVII, p.90 34 Id, ‘Meditation ueber die Idee eines Individuellen und Gemeinschaftslebens in Absoluter Selbstverantwortung’, in Erste Philosphie (1923/1924), M. Nijhoff, Den Haag 1949, Hua VIII, pp. 197-198 35J. Habermas, Vorstudien und Ergaenzungen zur Theorie des kommunikatives Handelns. Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1984, p.44 36 E. Husserl, Hua VIII, p.199 37 Id., Hua XXVII, p.114 38Cit. trad. it. E. Husserl, ‘Scienze della realtà e idealizzazione’, in La Crisi delle scienze Europee, Il Saggiatore, Milano 1987, p.358 39Cfr. M. Focault, Was ist Aufklaerung, in Magazine Littéraire, n.207, Paris, Mai 1984 40La riflessione viene da ciò che lo stesso Kant scrisse in riferimento alla Rivoluzione francese nel 1798 nel suo ‘Il conflitto delle Facoltà’, la dove da ultimo è alla politica che Kant affida il suo messaggio fondamentale ossia rivendicare alla Facoltà di Filosofia il ruolo di detentrice della legislazione di una unica ragione alla quale avrebbero dovuto conformarsi le altre Facoltà quali la teologia, medicina, scienza, ecc…, che dipendono

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nella loro ricerca da una legislazione ben più ampia ovvero quella della ragione stessa se avessero voluto progredire in modo armonico. Cfr I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1995. 41 M. Foucault, Was ist die Aufklaerung, cit, p.24. 42 Sulla concezione della relazione della filosofia con il suo presente, annota Habermas, in merito al pensiero di Foucault, che. “[...] il filosofo si converte al contemporaneo, sale dall’anonimato di una impresa personale e si fa conoscere come una persona in carne ed ossa, con la quale si deve realizzare tutta l’investigazione clinica che confronta il presente alla sua propria personalità”, in Vorstudien und Ergaenzungen zurTheorie des kommunikatives Handelns, cit., p.129. 43 E. Husserl, Hua XXVII, p.4. 44 I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, op. cit., p.228. 45 Ivi, p.229. 46 Ivi, p.7. 47 E. Husserl, Hua XVII, p.9. 48Ibidem. 49 E. Husserl, Hua VIII, pp.9-10. 50 Ivi, p.25. 51J. F. Lyotard, ‘La Phénoménologie’, P. U. F., Paris, 1969, p.122 e sgg. 52 E. Husserl, Analisen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs und Forschungmaskripten (1918-1926), M. Nijhoff, Den Haag 1966, Hua XI. 53J. F. Lyotard. Moralités postmodern, Galilée ed., Paris 1993, p.209-210. 54 E. Husserl, ‘Teleologie in der Philosophiegeschichte’(1937/’38), Hua XXIX, p. 400. 55 Id., ‘Die Psychologie in der Krisis der Europaeischen Wissenschaft’, Hua XXIX, p.109. 56 Ivi, p.117. 57 Ivi, pp.117-118. 58 Ivi, p.119. 59 Ivi, p.122. 60 Ivi, p.138. 61 Ivi, p.133. 62 Ibidem. 63 Ivi, p.139. 64 E. Husserl, Hua XXVIII, p.142 65 Cfr. Wolfgang Wieland, Aporien der praktischen Vernunft, Klostermann, Frankfurt a. M., 1989

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La malattia epocale Simone Weil e Georges Bataille di fronte al nazifascismo

Matteo Canevari

Il primo approccio L'analisi sul nazifascismo che Simone Weil e Georges Bataille svolgono nei primi anni Trenta è un punto cruciale per l'evoluzione del loro pensiero che vede alcune significative convergenze e importanti differenze. I due filosofi, pur avvertendo entrambi che tale fenomeno è un prodotto della crisi della cultura occidentale, la interpretano diversamente, riconoscendo ragioni differenti per la sua origine e soluzioni alternative alla sua degenerazione nel fascismo. Per la Weil, la drammatica situazione politica e morale in cui versano le masse europee è causata dal venir meno del differenziale metafisico, e dunque l’uscita dalla crisi potrà essere trovata solo in un rinnovato radicamento nei valori ideali. Il confronto con l'idolatria nazifascista, che di questo vuoto è un segno, la porterà a riconoscere il valore dell'ispirazione pura, orientata alla trascendenza, che contrapporrà all'adorazione della forza, propria delle masse fasciste. Al contrario, per Bataille la crisi dell'Occidente va compresa a partire dall'opportunità di emancipazione che essa offre – anche rispetto alle stesse idealità che la Weil vuole rifondare. Bataille vi riconoscerà la chance che, nell'incertezza angosciosa generata dal vuoto di senso del nichilismo, spinge l'uomo a godere dell'occasione entusiasmante per un ripensamento radicale. Della decadenza europea, i fascisti sono al tempo stesso un prodotto e un sintomo. Alle prese con l'ambiguità del nichilismo, in cui angoscia ed entusiasmo, perdita e creazione si mescolano, essi non riescono a sostenerne la sfida, espellendone la negatività all’esterno. I movimenti fascisti esprimono il vitalismo proprio delle forze basse e ignobili della sovversione e della disgregazione, del disordine sempre espulso ai margini del corpo sociale omogeneo. Ciò che va compreso, secondo Bataille, è come possa accadere che tali movimenti sovversivi si riconoscano come alleati delle forze della conservazione, rappresentate dalle istanze sociali superiori della sovranità imperativa, alta e nobile. Nel cuore di questo paradosso sta la chiave per comprendere tutta la portata di un fenomeno nuovo come il nazifascismo.

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Comunità d’assenza e assenza di comunità Blanchot sostiene che Bataille è colui che si è spinto più lontano nell’esperienza cruciale del destino moderno della comunità, ovvero fino a pensare il binomio tra comunità d’assenza e assenza di comunità.1 In Bataille la comprensione della doppia assenza che percorre la comunità moderna è il culmine della sua riflessione critica sul fascismo, tra le forme comunitarie possibili quella più avversa a questa assenza. Bataille giunge all’affermazione dell’ineluttabilità dell’assenza, cui attribuisce il senso positivo dell’apertura alla chance, partendo dall'analisi della mancanza su cui le istanze fasciste fanno leva. Il vuoto aperto dal primo Dopoguerra è al tempo stesso istituzionale e morale, e i due piani nell’analisi di Bataille sono continuamente intrecciati. Nessuna lettura esclusivamente politologica può dare conto della presa sulle masse del fenomeno fascista senza il confronto con le istanze morali e affettive profonde che vi si esprimono. Le dinamiche ansiogene che nascono dal confronto con l'assenza di senso determinano più di ogni altra cosa l’insorgere, il differenziarsi e l’instaurarsi di qualunque forma comunitaria. Il fascismo, che si presenta come una possibile risposta alla debolezza istituzionale, non fa eccezione: esso deve essere interpretato come una reazione all’incertezza diffusa, all’insoddisfazione per l’inefficacia della sfera politica, al sentimento di sfiducia nei fondamenti intellettuali e morali dell’epoca. Tuttavia, in quanto movimento sovversivo dell’ordine, il fascismo presenta anche un aspetto nuovo e ambiguo. Bataille mette in luce che nel frangente attuale qualunque nuovo movimento sociale pretenda di affermarsi, si deve confrontare con qualcosa di assolutamente contrario rispetto a quanto si è dato nel passato. Se nel passato era l’eccesso di autorità a divenire motivo di sovversione perché intollerabile, “dans la démocratie, c’est l’absence d’autorité”2 ad essere insostenibile. Il senso di inadeguatezza suscitato dalle istituzioni parlamentari borghesi della democrazia liberale ha generato nel corpo sociale il convincimento della loro inattualità rispetto momento storico, lasciando campo libero a un’ansia di cambiamento energica e rabbiosa che si rovescia tosto in un bisogno di sicurezza imprecisato. La debolezza dello Stato borghese è un evento di portata ben maggiore di quanto possa apparire per l’osservatore della sola sfera politica. Esso impone il ripensamento dell’intera gamma di significati in cui l'unità della società si identifica, di cui il “problema dello Stato”3 è un aspetto centrale. Bataille osserva che in questa crisi si affermano dei regimi forti a partire da movimenti irruenti che pongono all’attenzione di tutte le organizzazioni politiche il problema delle radici irrazionali del potere e del sentimento della coesione. Agendo su tali forze impulsive, questi movimenti ricompongono la compagine sociale e superano in senso autoritario il momento attuale della

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disgregazione promettendo (e in qualche modo riuscendovi) di tranquillizzare le inquietudini, di soddisfare il desiderio frustrato di novità e di soffocare i moti di dissenso. Bataille è drammaticamente consapevole del fatto che in questa tendenza violenta verso la chiusura totalitaria che attraversa l’Europa, si esprimono alcune delle forze vive dell’epoca.4 In esse si manifesta qualcosa di profondamente radicato nel sentimento collettivo che i movimenti fascisti colgono come energia potenziale diffusa in forma inespressa e disorganizzata sotto forma di bisogno, rinserrano nelle proprie organizzazioni e rendono effettuale, asservendolo agli scopi della ricomposizione sociale a favore delle vecchie élite e di nuovi soggetti di potere. Per comprendere come ciò avviene, ci si deve spostare sui fondamenti delle dinamiche psico-sociali del fascismo, quel godimento della dépense che sarà uno dei perni di tutto il pensiero batailliano5. Vous travaillez pour le fascisme! Com’è noto, Bataille si è spinto molto in là nel tentativo di comprendere intimamente i moventi del fenomeno fascista, fino ad affermare la necessità di appropriarsi in senso rivoluzionario dei suoi mezzi, cosa che gli attirò la famosa invettiva di Benjamin. Per afferrare cosa significa: “appropriarsi dei mezzi dei fascisti”, forse bisognerebbe prima chiedersi: chi sono i fascisti? Ovvero, qual è il sentimento profondo che spinge verso il fascismo e dal quale nessuno può dire di essere immune? Negli scritti degli anni Trenta, Bataille enuclea alcune caratteristiche essenziali dei movimenti organici cui appartiene il fascismo. Innanzitutto ne mette in evidenza il carattere attivo, di atti aggressivi scatenati contro l’ordine costituito che si mantengono riproducendo e perpetuando al proprio interno e attorno a sé l’eccitazione del terrore e della morte. In secondo luogo, un movimento organico “se développe indépendamment des cadres politiques établis”.6 Infine, terzo importante elemento, lo scoppio tumultuoso di un movimento organico non può mantenersi attivo se non organizzandosi in forma rigorosa ed estremamente disciplinata, in forma di unione militarizzata. Ma nel fascismo vi è più di questo; esso si impone con la forza di una fede religiosa, ed è quindi all’ambito del sacro che è necessario guardare per comprenderne la potenza. La fede fanatica è certamente un elemento che caratterizza in modo originale e nuovo queste formazioni. Ma limitare l’influsso della propaganda nazifascista a un semplice, per quanto pericoloso, sviamento dell’immaginazione sarebbe sembrato riduttivo a Bataille. Dopo la lezione di Durkheim, non è il caso di riproporre una facile distinzione tra fede autentica e fanatismo inautentico. La comprensione della dimensione religiosa del

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fascismo non è questione di contenuti, ma di forme attraverso le quali si esprimono dei bisogni reali. Ciò che interessa a Bataille sono le dinamiche psico-sociali dell’elevazione del potere sovrano e quelle corrispondenti dell’obbedienza volontaria. Innanzitutto, il problema è la servitù e il bisogno di servire. L'elevazione dell'istanza sovrana Per spiegare l'ambiguo legame tra le forze sovversive e le forze della conservazione che caratterizza il fascismo, dobbiamo considerare che il bisogno di servire si accompagna col desiderio di recuperare quel mondo perduto che dava pienezza alla vita.7 Su di esso convergono tanto le forze della reazione conservatrice quanto l’attivismo rivoltoso dei movimenti fascisti. La conservazione poggia sul recupero dei “valori fondamentali”che sono rianimati artificiosamente e assolutizzati. Sono soprattutto quelli immediatamente disponibili ad assumere un valore d’uso in funzione della ricomposizione sociale (nazione, patria, razza) ad essere più facilmente rivitalizzabili, perché è innanzitutto l’utilità della coesione il fondamento generale della forma sociale da recuperare e conservare. Con l’idea di utilità intercettiamo uno snodo nuovo della riflessione di Bataille che spiega la strana alleanza tra sovversione e conservazione. L'introduzione del criterio dell'utile attiva per contrasto il meccanismo dell’espulsione violenta dell’eterogeneo, la parte maledetta del sacrificio. In quanto parte inassimilabile, “morta”poiché non integrabile nello sforzo comune verso la coesione, essa è inutile e dunque si presenta come un’oscura minaccia rispetto al mito dell’omogeneità cui aspira il corpo sociale. L'attivismo vitalistico fascista relega la minaccia della morte al di fuori della propria cerchia, espellendola da sé sotto forma di violenza contro ciò che rischia di intaccarne l'integrità. In questa espulsione trova il motivo per la sua strana alleanza con le potenze conservatrici che ne irrigidiscono lo slancio nella tentativo di ricostituire l'ordine. La soluzione fascista si rivela in questo modo come un’alienazione della vita stessa di cui scinde l'intreccio di vita e morte in due istanze distinte e inassimilabili. Esso si distacca dal disordine vitalistico della dépense da cui traeva le sue energie originarie, che si esauriscono nello sforzo di espellere dall'esistenza ciò che è ritenuto inutile, basso e ignobile e dunque potenzialmente pericoloso per il nuovo ordine a cui esso aspira e idealizza come forma compiuta della pienezza della vita, finalmente liberata da ciò che la minaccia. Nella sua tensione verso l’elevazione ideale, il fascismo prende congedo da quello stesso vitalismo che l’aveva generato. Siamo all’ultimo passaggio dell’analisi. In effetti, il suo rapporto ambivalente con l’eterogeneo – nella metamorfosi che esso subisce nella relazione con

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l'omogeneo - illumina la dinamica più profonda che sta alla base dell’affermazione del fascismo. Come accade per la fede religiosa, esso scinde ciò che è altro dall’utile, l’eterogeneo e i sentimenti connessi, in due parti: un’eterogeneità bassa e inassimilabile e una alta e imperativa. Nel fascismo è la forma imperativa dello Stato, come vertice della società, a definire cosa è utile ai fini della conservazione sociale e quindi utilizzabile e cosa invece non lo è, e dunque destinato a soccombere. Quando lo Stato si costituisce come istanza sovrana eterogenea nella persona del Capo, esso stesso inassimilabile al resto della società, perché al di sopra di essa come sua ipostasi suprema degna d’adorazione, origine della forza e del comando, esso condensa in sé e a proprio favore le esigenze di affermazione dei singoli che si esprimevano nell'eterogeneità bassa, concentrandole in un solo oggetto d’amore a partire dal quale l’intera rete dei legami sociali si ridispone. L’inganno fascista passa per questa alienazione che promette la soddisfazione della libertà sovrana individuale, il godimento illimitato della parte maledetta, e ne sfrutta invece in senso conservatore la forza. Perciò, il potere sovrano dello Stato fascista non può essere definito troppo sbrigativamente come un semplice potere coercitivo. Esso incarna la possibilità da parte del vertice di esercitare una vera funzione plastica fondata sulla forza d’attrazione inconscia che l’istanza sovrana suscita negli elementi bassi della società e in ciascun individuo. Tre sono gli aspetti che fanno di una masnada disordinata dedita ad atroci delitti – espressione della più bassa eterogeneità – un gruppo temuto e rispettabile di uomini forti, innalzati a modello della vita libera: la funzione imperativa del Capo (il comando), la funzione attrattiva del Capo (il modellaggio), e la funzione plastica (l’organizzazione) del legame tra l’eterogeneità alta del Capo, la società omogenea e l’eterogeneità bassa. In questa dinamica di relazione col Capo, anche le forze più ignobili, sempre escluse dall’ordine dell’omogeneo, che Bataille conosce bene, possono trovare un riconoscimento, ma a patto di subire una metamorfosi. Esse sono indotte a collaborare alle finalità del potere a favore della struttura omogenea, scatenando la loro irruenza nel nome dell’istanza sovrana contro ciò che nel nuovo ordine resta inassimilabile. Da forze negative eterogenee e minacciose dell’ordine, rispetto al quale rappresentano la libertà sovrana dell’individuo che sfida la stessa morte fino al disordine estremo della perdita di sé, tipica dei moti rivoluzionari, esse divengono forze utili alla conservazione dell’unico individuo cui è concesso di essere tale: il Sovrano. Il fascismo non è un rivoluzione ma al contrario è una forma dell’esistenza eterogenea di tipo imperativo che rappresenta una particolare realizzazione della sovranità. Il giudizio di Bataille su di esso è inequivocabile; identifica questa evoluzione, insita nell’alleanza tra istanza sovrana imperativa,

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eterogeneità bassa e società omogenea, puramente e schiettamente come “le fondement de l’oppression”8. Ad essa, Bataille oppone l’idea della rivoluzione che per lui non si presenta semplicemente come il rovesciamento dei rapporti sociali di produzione ma coincide con l'emancipazione interiore dalle dinamiche che rendono possibile l’oppressione. La lotta contro il capitalismo, contro il moralismo e contro l’esasperazione del sentimento nazionale, razziale o patrio che caratterizza i regimi nazifascisti, divengono una sola battaglia per lui, contro una certa un’organizzazione affettiva che inevitabilmente mette capo a forme di oppressione sociale e a stili di vita inclini alla servitù. A questo rischio di asservimento deve essere contrapposto un rifiuto attivo fermo e deciso, un vero e proprio contrattacco deliberato. Secondo la sua analisi, è l’idea in sé del valore superiore che deve essere liquidata una volta per tutte. Il fascismo è solo l’ultima e più aberrante incarnazione del principio di valore fondato sul sentimento della superiorità, che ha come correlato il bisogno di servire. Esso deve essere combattuto in sé e sradicato dal consesso sociale e dall’animo. Una gravissima malattia epocale Il viaggio in Germania che la Weil compie nel 1932 è cruciale per l’evoluzione del suo pensiero. All’arrivo a Berlino, la Weil è colpita dall’impressione di arrivare in un altro mondo. Qualcosa impedisce a tutti di considerare la situazione con lucidità ed innalza a ruolo di guide coloro che sembrano muoversi con sicurezza nell’incerto. Tra questi sono i nazisti che la Weil chiama significativamente “des révolutionnaires inconscients et irresponsables”9. Al confronto con la realtà tedesca, segnata dall’esasperazione dello scontro politico, le sue categorie riflessive ancora radicate nel fiducioso razionalismo cartesiano, e in qualche misura ispirate alla sua militanza sindacale, entrano in crisi. Il fenomeno del fanatismo politico, non solo nazista, davanti al quale si troverà, le propone una costellazione di problemi nuovi che per lei si condenseranno nella nozione di idolatria. Alla luce dell’esperienza tedesca, la Weil avverte che le vecchie categorie politiche hanno cambiato di senso e si sono mutate in idoli, parole vuote il cui contenuto sostanziale è indeterminato. Durante il soggiorno tedesco il centro della sua riflessione si sposta dalla valutazione del contenuto delle contrapposte ideologie alla loro analisi formale che ne rivela, al contrario, un identico nucleo. In breve, le appare sempre più chiaro che nel mondo contemporaneo, di cui la Germania è uno specchio, le diverse ideologie tendono a identificarsi l’una con l’altra fino a divenire indistinguibili; e le ragioni di questo fatto risiedono altrove che nel loro contenuto. Questa intuizione è centrale per la sua riflessione, perché

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aprirà il suo discorso a nuove domande sull’origine, sulla forza e sugli effetti degli ideologismi imperanti e per quella via la porterà a mettere in luce i bisogni esistenziali cui gli idoli della modernità danno soddisfazione. La società tedesca è sconvolta da una crisi che la scuote da ogni parte. Non è solo in questione la congiuntura economica, e nemmeno solo l’agitazione politica esasperata. La Germania vive la fase acuta di una gravissima malattia epocale. Essa conosce in forma concentrata l'esperienza del dissolvimento che percorre l’intera Europa, esausta, e che sta intaccando i fondamenti stessi della cultura occidentale. La filosofa chiamerà questa condizione in cui versa l’epoca “sradicamento”: essa è caratterizzata dall'eclissi dei fondamenti razionali del sapere, causata dal venir meno nella modernità del principio differenziale della trascendenza che ha lasciato dietro di sé un immenso vuoto privo di senso. In questa vacuità, eclatante è l’evanescenza del linguaggio politico. Scrive Nevin che “secondo la Weil il fascismo, in Italia e in Germania, non uccideva il libero pensiero, ma nasceva invece dalla mancanza, in questi paesi, di un pensare chiaro, preciso. […] le parole […] diventavano rigide e statiche, prive di significato”10. La peculiarità dell’epoca quindi è una crisi epistemologica che precipita l’Occidente al “grado zero del simbolico”11:quella condizione indifferenziata in cui le parole, perduto il loro significato, divengono dei puri segni equivalenti e interscambiabili. La proliferazione in libertà di segni vuoti, che si trasformano in ogni sorta di nozioni dall'apparenza di ideali, che si ergono come surrogati della trascendenza, è una condizione “che troviamo realizzata alla fine, nella “deriva”del moderno”12: in una parola, nell'epoca del nichilismo. Ciò di cui la Weil fa esperienza in Germania, dunque, è il punto più avanzato della decadenza della civiltà occidentale. La giovane filosofia percepisce di aver raggiunto là il margine estremo dell'Europa dove lo spirito del mondo moderno si sta sfrangiando in forme degenerate, reagendo alla sua stessa morte con spaventose convulsioni. Di questo universo in agonia la colpiscono l’assurdità e la ferocia ma soprattutto l’irrappresentabilità. La decomposizione in atto in Germania non può essere compresa dalla ragione che la intende solamente come uno scacco provocato dalla sua mancanza di senso. Ma ciò che la sgomenta ancora di più è la prospettiva che le si para davanti, ovvero che, come sta accadendo in Germania, nella società futura il vuoto di senso lasciato dalla ritirata del pensiero sarà colmato dall’immaginazione, a cui già Spinoza, nella sua riflessione teologico-politica, riconosceva l'origine della superstizione prodotta dalle idee inadeguate che generano nell'animo quelle passioni del terrore e della speranza che da sempre il Sovrano usa nell’esercizio del suo potere, edificando idoli da adorare e creando nemici da odiare.13 Ciò che la Weil teme sopra ogni cosa dopo l’esperienza di Germania è che il mondo si stia avviando verso “un fanatisme

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soigneusement cultivé […] un mélange de dévouement mystique et de bestialité sans frein; une religion de l’Etat qui étoufferait toutes les valeurs individuelles”14. La violenza dei segni Se il futuro dell'Occidente è il fanatismo dell'idolatria, resta da chiedersi quali ne potranno essere le conseguenze. La Weil ha chiaro che la ferocia dell’idolatria risiede primariamente nella “violenza dei segni”15, vale a dire nella possibilità che essi hanno di occupare l’immaginario ponendosi come degli assoluti in virtù della loro mancanza di relazione con la realtà. La moderna arte combinatoria è improntata alla massima interscambiabilità. Di riflesso, l'esperienza di Germania le insegna che l’esplosione del senso per vie centrifughe genera per reazione nella società una forza impersonale, cieca e titanica, tesa a evitare la dissoluzione del corpo sociale. Il bisogno di unità contro l'imminente disgregazione porta ad esaltare l'aggregazione in quanto tale, purché sia. I segni che la esprimono assumono, allora, un valore assoluto. Essi valgono per la capacità che hanno di significarla, indipendentemente dal loro contenuto reale. Ciò che ne risulta, di riflesso, è che l’ideale finisce per perdere la sua distanza ontologica ricadendo nel fattuale, con cui è fatto coincidere a livello immaginario, generando idoli. Ciò che si impone di fatto, finisce per avere nella mente dei più una legittimità di principio. Il dato assume il valore di un principio assoluto incarnatosi, per volontà del destino, nella realtà materiale. Come la Weil comprende bene, sotto qualsiasi bandiera che si impone, in nome di un ideale che accende gli animi, a favore di un’insegna che soggioga, sta sempre una collettività che celebra il sentimento della propria forza: “idolo per eccellenza è sempre il sociale stesso, in cui l’infigurabilità delle relazioni favorisce l’adorazione della collettività come surrogato della trascendenza”16. La Weil vede in questa idolatria diffusa una reazione al nichilismo, che pretende di avere lo stesso potere di dare forma alle relazioni tra idea e realtà proprio solo del differenziale metafisico, ma che ne risulta invece una cattiva imitazione. Nel dominio dell’idolatria i principi trascendenti puri non sono più il punto di partenza per definire il reale, cosa che permetteva di intenderlo nei suoi limiti rispetto all’alterità dei primi. Al contrario, sono i fatti ad imporsi sul pensiero. Ritenuti portatori di un senso assoluto, i fatti stessi, presi in sé nel loro aspetto più superficiale e avulsi dai rapporti reali che li legano gli uni agli altri, sono elevati dall’immaginazione a criteri universali di giudizio, secondo un movimento contrario a quello del differenziale trascendente. I segni di questi pseudoconcetti fantasmatici assumono quindi una portata illimitata, indeterminata divenendo indefinibili

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nel loro contenuto reale; in questo modo costituiscono materiale utile per l'idolatria sotto forma di -ismi. Scrive Tommasi che “incapaci di pensare la relazione, pensiamo per assoluti: nella generale mancanza di senso, un segno qualsiasi […] può essere preso come un assoluto, come un’astrazione cristallizzata che […] può trasformarsi in valore a cui sacrificare ogni altro bene”17. Nel mondo contemporaneo siamo capaci di pensare solo per –ismi; generati dal vuoto di pensiero, sotto forma di idoli essi producono vuoto a loro volta poiché occupano impropriamente il posto riservato al differenziale metafisico, impedendone al pensiero la via d'accesso. Ciò che risulta dalla concezione del nichilismo della Weil è, quindi, l’immagine di un mondo in cui l’eclissi del senso della trascendenza ha provocato una sottrazione di realtà, ovvero di pensabilità del reale, sostituita da un insieme di fatti bruti che hanno una coerenza apparente poiché sono assunti come degli assoluti in sé, segni dotati di un significato superiore, immaginario e indeterminabile nel suo contenuto. Quello che si affaccia alla fine del moderno quindi, per la Weil, è un mondo più povero perché privato del vero. L’epoca della fine della modernità sprofonda nella miseria del dominio dell'immaginazione senza pensiero, e incapace di pensare il reale. Com’è noto, alla degenerazione in atto la Weil oppone l’urgenza della catarsi dell’immaginazione. Questa facoltà così intrecciata coi bassi aspetti corporali dell'esistenza dell'uomo dovrà essere staccata dalle lusinghe della sua radice egotica attraverso la dura disciplina della décreation. L'esistenza incarnata, allora, sarà così offerta in sacrificio alla trascendenza divina che si oppone all'adorazione della forza, cui l'immaginazione naturalmente inclina l'uomo, con l'alterità della sua debolezza radicale. Abbreviazioni: Georges Bataille, OC I: Œuvres Complètes, tomo I, Premiers écrits (1922-1940) – Histoire de l’œil – L’Anus solaire – Sacrifices- Articles, a cura di D. Hollier, con una prefazione di M Foucault, Gallimard, Parigi, 1970. Simone Weil, OC II: Œuvres Complètes, tomo II, volume 1: (Ecrits historiques et politiques), L’Engagement syndical (1927-1934), a cura di G. Leroy, Gallimard, Parigi 1988. Bibliografia: M. Blanchot, La comunità inconfessabile, SE, Milano 2002.

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R. Esposito,”Politica dell'ascesi”, in Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1988. S.Facioni, Il politico sabotato. Su Georges Bataille, Jaca Book, Milano. 2009. T.R.Nevin, Simone Weil – Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, Bollati Boringhieri, Torino1997 R. Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012. W. Tommasi, Simone Weil: segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano 1994.

1 M. Blanchot, La comunità inconfessabile, SE, Milano 2002. 2 G. Bataille, Vers la révolution réelle, in OC I, p.417. 3 Id., Le problème de l’Etat, in OC I, p.413. 4 Id., Le problème de l’État, in OC I, p.332. 5R. Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 75. 6 G. Bataille, Vers la révolution réelle, in OC I, p.423. 7 Id., Chronique nietzschéenne, in OC I, p.479. 8 Id., La structure psychologique du fascisme, in OC I, p.355. 9 S.Weil, L’Allemagne en attente, in OC II, 1, p.124. 10 T.R.Nevin, Simone Weil – Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, Bollati Boringhieri, Torino1997, p.138. 11 W. Tommasi, Simone Weil: segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano 1994, p.117. 12 Id., Simone Weil: segni, idoli e simboli, p.135. 13 Sui rapporti tra SimoneWeil e il pensatore olandese vedi: R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1988, p.225. 14 S. Weil, Allons-nous vers la révolution prolétarienne?, in OC II, 1, pp.278 e 274. 15 W. Tommasi, Simone Weil: Segni, Idoli e Simboli, p.117. 16 Id., Simone Weil: Segni, Idoli e Simboli, p.135. 17 Id., Simone Weil: Segni, Idoli e Simboli, p.118.

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Paticità e bellezza

Note sulla cristologia poetica Pio Colonnello

Osservazioni preliminari Nel tornare su un tema chiave della nostra tradizione di pensiero, mi propongo di volgere l'attenzione a un particolare aspetto della questione del corpo, alla sua epifania nella dimensione della bellezza: un tema, questo, che non può prescindere dall'iniziale riferimento a due fondamentali paradigmi presenti nella nostra tradizione culturale, declinati in molteplici, e spesso divergenti, direzioni riflessive: uno proveniente dall'eredità greca, l'altro da quella cristiana; ovvero, per dirla con Schelling, si tratta dei due modi di manifestarsi dell'essere infinito della bellezza nel finito: o quest'ultimo raffigura l'infinito "essendolo", o il finito raffigura l'infinito "agendo"1. In questo secondo caso, l'esperienza del bello è ammantata, per così dire, di melanconia, laddove il bello denuncia la fragilità del bello, mostrando l'inesorabile finitezza. A partire da questa pista ermeneutica, è mia intenzione sottolineare maggiormente alcune caratteristiche-chiave della bellezza "cristiana", come l'esperienza patica e l'irrompere del tempo kairologico. Il cristianesimo, sin dall'inizio, scardina i canoni attribuiti alla bellezza dalle culture precedenti; infatti, il corpo par excellence, che costituirà il modello archetipico di ogni perfezione, inclusa quella estetica, è, già dai primordi, il corpo del Cristo, il Verbo fattosi carne, annunciato poeticamente nei Salmi come “il più bello dei figli degli uomini”2 e descritto nei vangeli come il “bel Pastore”. Tuttavia, prima di entrare nel merito di questa singolare concezione cristologica, occorrerebbe interrogarsi almeno sul significato intrinseco, per la filosofia, di una cristologia poetica e sugli echi e sulle risonanze che essa può suscitare in noi, lettori contemporanei. In altri termini: nella nostra età, l'epoca del "disincanto del mondo", che ha visto fiorire il pancristismo di Blondel e di Teilhard de Chardin, la teologia kerigmatica di Bultmann, il cristocentrismo di Karl Barth, le meditazioni di von Balthasar sul Cristo nella tomba, ha ancora senso la cristologia per la filosofia? Vero è che, anche dopo la teologia della morte di Dio, l'attrattiva cristologica continua ad esercitare pienamente la sua affascinante influenza: basti pensare, accanto al tentativo disperato di Hermann Braun, che sacrifica la cristologia all'antropologia, al Dio sofferente di Bonhoeffer o anche al "cristianesimo senza Dio" dei nostri tempi.

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Il bello che rapisce. La via cristica alla bellezza È appena il caso di ricordare che nell'esperienza cristiana, il corpo non riduce soltanto ad unità le membra che lo costituiscono3. Nel sottolineare la diversità della concezione cristiana da quella ebraica del corpo4 (bāśār o bśr), un riferimento va fatto, nondimeno, all'altro importante termine, strettamente collegato con bāśār, cioè a nephesh (o npš), espressione che ricorre spesso nell'AT. Se seguiamo le finissime analisi di Onians, va precisato che, sebbene appaia talora come “la designazione principale dell'io cosciente, che percepisce e pensa”5, nephesh è più volte strettamente associata con taluni degli elementi del corpo, ad esempio con il cuore6, ma più spesso con il sangue7; d'altra parte, “la sua radice rivela con chiarezza qualcosa della natura del “respiro”, qualcosa di “aeriforme”8. A parere di Onians, nephesh si avvicina molto, per taluni aspetti, alla concezione del thymos, “descritto come entità che sente e pensa: attivo nei polmoni (phrenes) o nel petto (stenos) della persona vivente, lo abbandona al momento della morte”9. Non si tratta, comunque, solo di precisazioni terminologiche. È evidente che la cultura ebraica doveva ricorrere a elementi corporei, come il cuore o il sangue, per identificare, con nephesh, ciò che nell'uomo è necessario alla vita e in stretta connessione con la vita. Riguardo al corpo dell'uomo, il crinale tra le due culture è contrassegnato anche dal diverso uso linguistico: il greco del NT ricorre a due termini distinti, sarx e soma per designare rispettivamente carne e corpo, a differenza dell'AT, dove essi sono indicati, come ho accennato, con l'unico termine bāśār. Vero è che, per il cristiano, la dignità del corpo, e di conseguenza la sua perfezione e bellezza, provengono dal fatto che il corpo è stato redento da Cristo, che ha assunto il “corpo della carne”10, assoggettandosi peraltro alla kenosi e alla morte. A partire da questo orizzonte tematico, diviene chiaro che la bellezza, cui fa appello la tradizione cristiana, è la bellezza che tollera in sé la rottura, che tollera e sopporta anche il disfacimento, l'annullamento e la morte. Ed è una bellezza che irrompe e rapisce, non è più essenzialmente contemplatio. Allora, l'evento di bellezza par excellence è il Cristo crocifisso, l'amore erompente nel silenzio della croce. La bellezza del Cristo comporta il rapimento e l'estasi11. Non intendo certamente affrontare, in questa sede, questioni teologiche. Senza volermi inoltrare negli impervi sentieri di teofanie, ierofanie e teopatie, devo nondimeno sottolineare l'interesse che il tema del corpo, legato all'epifania del Cristo, continua a suscitare nel pensiero contemporaneo12. In un volume, che non è certamente un saggio filosofico nel senso tradizionale del termine, Corpus, Jean-Luc Nancy, in polemica con le teorie del corpo della fenomenologia, che introducono una distinzione categoriale tra i corpi-

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oggetti e il corpo proprio, come organon, strumento per la coscienza del sé, riannoda non di rado il filo delle sue riflessioni intorno alla figura del corpo cristico: “Il Figlio è il Corpo dello Spirito che esala al cospetto del Padre, che si dissolve rivolto a Lui negli effluvi e nei flussi del sacrificio che lo santifica: sudore, acqua e sangue, lacrime, sospiri e grida. Qui, lo spirito che esala espone il proprio corpo nel modo più proprio: Ecce homo”13; “Da un lato, il corpo divino decomposto, putrefatto, pietrificato, faccia di Medusa e di Morte - e dall'altro, come l'altro lato della stessa morte di Dio, il corpo divino esposto, estensione della materia prima del mondo dei corpi, Dio infinitamente modificato […]. Questo è il duplice retaggio della gloria di Dio: la Morte, il Mondo. La putrefazione come mistero, l'argilla come materia, come ductus dei luoghi. Tutta l'ontoteologia è attraversata, tormentata da quest'ambivalenza della verità del corpo come corpo glorioso”14. A queste affermazioni si potrebbe aggiungere che tutta l'ontoteologia è altresì attraversata dalla verità del Corpo divino come epifania della bellezza. Ritorniamo, così, al tema del bello "cristiano", che comporta il rapimento e l'estasi. Non intendo qui riferirmi all'esperienza di quei mistici e soprattutto di quelle mistiche che hanno colto l'aspetto "carnale" della bellezza corporea del Cristo; è questo il caso di Getrude di Helfta (1256-1301 ca.), che si sente trascinare da “un torrente di voluttà divina”, quando l'immagine del Cristo, “amabile e delicato”, le si presenta in modo che ella lo desidera con i suoi “occhi di carne”; ed è anche il caso di Umiltà di Faenza (1226-1310), la mistica cui Cristo si presenta come uno “splendido fanciullo”, del quale Umiltà desidera “baciare i piedi”, “appropriarsi del suo fragrantissimo odore” ed “entrare nel giardino del suo amore ferace”. Non è da meno Ildegarda di Bingen, che tratteggia, con evidente sensualità, un'audace poetica mistica. Nella sua ricerca del divino, talvolta paradossale e iperbolica, tesa a immaginare le vie della redenzione, ella costruisce una “fisiopatologia immaginifica”, la cui struttura fondamentale è costituita, come ha osservato Aldo Trione, da un inventario fenomenologico di tutto ciò che attiene alla corporeità, come “gli umori del corpo, il calore delle viscere e delle vene, i nervi, l'ombelico, il cuore, i polmoni, lo stomaco, il fegato, i rapporti tra corpo e lussuria, gli esercizi necessari perché la carne diventi leggera”15. Da canto suo, Teresa D'Avila, nell'opera I pensieri sull'amore di Dio, considerata irriverente e scandalosa dall'Inquisizione spagnola, e fatta immediatamente scomparire, disegna - sulla scorta dell'immaginario erotico del Cantico dei cantici (“Mi baci con i baci della sua bocca!”16), - una sensuale "ontologia dell'amore", servendosi di termini "sensibili", "corporei",

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come godimento, delizie, carezze, mammelle, sacro costato, ecc., che producono l'effetto di un arabesco intessuto di seducente bellezza17. Intendo riferirmi, piuttosto, a un'altra dimensione del rapimento che comporta il corpo del Cristo crocifisso: è il momento in cui la creatura "colpevole", dinanzi alla bellezza dell'evento erompente della croce, non si copre la faccia, ma resta, per così dire, "rapita". Seguendo questa pista ermeneutica, possiamo comprendere il significato recondito dell’originale “cristologia poetica” di Miguel de Unamuno, imperniata sulla “concezione di un Dio di carne”. Va subito chiarito che nessuna volontà conciliativa e di annessione anima la riflessione di Unamuno; la croce di Cristo è pur sempre “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”, secondo l’espressione dell’apostolo Paolo, ed essa non cessa di essere segno profondo di contraddizione. L’immagine di Cristo è delineata da Unamuno tanto in prosa, ad esempio nell’opera maggiore Del sentimento tragico della vita, quanto in versi: basti pensare al poema lirico El Cristo de Velázquez, oltre che al componimento poetico sul Cristo giacente nella chiesa di santa Chiara in Palencia. Più che alla evocazione placata del Cristo de Velázquez, Unamuno sembra aderire maggiormente alla cristologia rovesciata del poema parossitico, El Cristo yacente de Santa Clara, composto dopo una visita alla Chiesa della Croce del monastero delle clarisse di Palencia, il 26 maggio 191318. Questo “poema feroce”19 si rivolge ad un Cristo tragico, un Cristo senza resurrezione. Unamuno non risparmia parole ripugnanti per qualificare “questo Cristo spagnolo che non visse, nero come il terriccio della terra”. Il poeta lo implora con una preghiera affannosa: “Oh Cristo pre-cristiano e post-cristiano, Cristo tutta materia, Cristo carogna arida e incrostata di sangue secco coagulato: il Cristo della mia gente è questo Cristo, carne e sangue fatti terra, terra, terra […]. La morte del tremendo Cristo che non si risveglierà sopra la terra, perché Egli, il Cristo di mia terra, è solo terra, terra, terra… E tu, Cristo del cielo, redimici dal Cristo della terra!”.20 Si pensi, d’altra parte, alla bellezza, come compimento del dono della salvezza, cui fa riferimento, nell'Idiota di Dostoevskij, il giovane Ippolit, malato di tisi e ormai prossimo alla morte, quando egli, com'è noto, interroga in modo insistente il principe Myškin. Le domande di Ippolit sono incalzanti, perché egli, che vive l'esperienza della sofferenza in prima persona, sembra rifiutare ogni bellezza che possa essere raffigurata come "redenzione" del dolore o come un'armonica conciliazione che sorvoli sullo scandalo del dolore umano: “Che bisogno ho io di tutta questa bellezza, quando a ogni minuto, a ogni secondo, devo e sono costretto a sapere che persino questo minuscolo moscerino che mi ronza adesso accanto in un raggio di sole partecipa anch'esso a tutto questo banchetto e a questo coro, conosce il

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posto che gli compete, lo ama ed è felice, mentre io, io sono solo un reietto e soltanto per la mia pusillanimità sinora non l'ho voluto capire?”21. In una lettera alla nipote Sofia Ivanova, datata 13 gennaio 1868, così si esprimeva Fëdor Dostoevskij: “Non vi è al mondo che una figura perfettamente bella, il Cristo, così che l'apparizione di questa figura incommensurabilmente, infinitamente bella è, a colpo sicuro, un miracolo infinito. (Tutto il Vangelo secondo san Giovanni va in questo senso; egli trova tutto il miracolo nell'incarnazione, unicamente nell'apparizione del Bello)”. Sebbene non sia qui possibile fare un riferimento più ampio alla cristologia presente in Dostoevskij, nondimeno va fortemente sottolineata la connessione da lui istituita tra il raccapriccio del venerdì santo e il trionfo della pasqua di resurrezione, tra il dardo della morte e lo splendore dell'immortalità. “Se la morte è così orrenda”, si legge ancora nell'Idiota, “e se le leggi della natura sono così forti, come fare a vincerle? Come vincerle, se non trionfò nemmeno colui che in vita sua trionfava anche della natura”?. Il Cristo è il cuore segreto dell'opera dostoevskijana, ha scritto Xavier Tilliette, l'immagine che si forma e si riforma in sovrimpressione22. Proprio la bellezza del Cristo sofferente, deposto dalla croce, ha colpito particolarmente lo stesso Dostoevskij. Si pensi all'episodio narrato dalla moglie Anna Grigorevna, cioè al rapimento estatico dello scrittore dinanzi al celebre quadro Discesa dalla croce di Hans Holbein, custodito nel museo di Basilea. E nell'Idiota Dostoevskij ci offre, tramite la descrizione del nichilista Ippolit, un "nostalgico di Cristo", come Raskol'nikov o Kirillov, una rappresentazione realistica del quadro di Holbein: “Nel quadro il viso era orrendamente sfgurato dai colpi, enfiato, con tremendi lividi sanguinolenti e gonfi, occhi dilatati, pupille stravolte; il bianco degli occhi, vasto, scoperto, luceva in un certo riflesso vitreo, cadaverico”. Fanno sorprendentemente da pendant alla concezione dostoevskijana le riflessioni svolte da Simone Weil nell'ultima parte del suo itinerario di pensiero: l'essenza del bello è contraddizione, contraddizione scandalosa, perché appunto inconciliabile. La bellezza, anziché armonia, è piuttosto "smembramento", in quanto rivela l'essenza stessa del reale come luogo in cui i contrari coesistono e si intrecciano tra loro. Se il momento iniziale dell'incontro di chi si pone in adorazione del corpo crocifisso del "bel Pastore" è rappresentato da un sentimento di raccapriccio, tale da generare l'idea di distogliere lo sguardo - “l'uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia”23 -, nondimeno da tale sentimento scaturisce la metanoia del cuore, che è fonte della pietas come giustificazione e perdono, raccoglimento e speranza, invocazione e appello; la pietas, tuttavia, non ha soltanto lo scopo di "riabilitare" il passato e di cancellare illusione e amarezza, semmai quello di trasformare il continuum temporale pietrificato

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nella necessità del già stato, aprendo nuove possibilità per il futuro, inaugurando così il nuovo, l'impensabile. In tale apertura al futuro, il “non più” e il “non ancora”, l’”essere-stato” e l’”advenire” si coappartengono sincronicamente, ma non nel modo banale di due momenti del tempo, che si relazionano tra loro e si unificano, semmai come due momenti che ricevono il proprio significato dall’evento della parousia - la quale lungi da intendersi come la “seconda venuta” di Cristo o come un secondo evento messianico che possa completare il primo o portarlo a perfezione, costituisce piuttosto l'orientamento della vita effettiva verso il kairos di questo giorno. Il problema del "quando" della parousia apre, così. ad un'inedita comprensione del tempo, grazie alla quale tutte le questioni nodali della temporalità seriale e cronologica ricevono chiarimento dalla dimensione esistenziale dell’”attimo”, che è la porta del tempo o, come si è espresso Walter Benjamin, “la piccola porta da cui entra il messia”24. Anche qui si ha una metamorfosi, ma l'uomo non è mutato in pietra, come nel caso della vista della Gorgone. La metamorfosi trasforma radicalmente il cuore di pietra del peccatore: dall'essere di "dura cervice"25 alla sensibilità commossa, all'adorazione, all'espiazione. Nella notte spirituale del Gethsemani, è forse questo l'ineludibile viatico per liberarsi dal dolore muto o dal “peso della pietra”, per dirla con Camus. Ed è così che l’amarezza del cuore è vinta da colui che, sebbene oppresso da profonda tristezza, non ne rimane soggiogato, passando così dalla “vittoria della pietra” e dunque dall’esistenza come peso che schiaccia all’esistenza come dono e speranza. Solo allora il “peso più grande” si tramuta in giogo dolce e in carico leggero26. Tuttavia, occorre prestare attenzione: Non solo il peccatore, la creatura "colpevole" resta "rapita" dinanzi alla bellezza del Cristo crocifisso. È Dio stesso che è rapito dalla sua creatura, che entra nella sua creatura; Dio entra in estasi. A partire da queste riflessioni, cioè dall'idea che la “bellezza che salverà il mondo” - cui allude la domanda di Ippolit al principe Myškin - è la bellezza che irrompe e rapisce, si può ipotizzare che proprio questa bellezza sia una risposta all'ambiguità dell'essere o all'idea della negazione in Dio, nel Dio che per amore sarebbe crudele fino alla morte del Figlio e all'annientamento di sé. È forse questa la via di uscita dal tragico e la risoluzione della stessa presunta contraddizione divina: la sofferenza che diviene bellezza partecipata, rapimento ed estasi, compenetrazione commossa, tra la creatura e il Creatore?

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1 F. W. J. Schelling, Filosofia dell'arte, a cura di A. Klein, Prismi, Napoli 1986, pp. 77 ss. 2 Sal., 45, 3. 3 I Cor., 12, 14-27. 4 «Il sostantivo bśr, i cui significati principali sono "carne" e "corpo". Compare nell'AT circa 270 volte […]. È attestato in tutti gli scritti veterotestamentari e in maniera particolare nel Pentateuco, in Ezechiele, Giobbe. Isaia, Salmi e Geremia» (cfr. Grande lessico dell'Antico Testamento, a cura di J. Botterweck e H. Ringgren, ed. it. a cura di A. Catastini e R. Contini, Paideia, Brescia 2008. 5 R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano 1998, p. 345. 6 Gs, 22, 5; 23, 14. 7 Gn, 9, 4, sg.; Lv, 17, 11 e 14. 8 Is, 3, 20; Ger, 15, 9; Gb, 11, 20; 41, 21. 9 R. B. Onians, cit., p. 124. 10 Col, 1, 22. 11 Su questi temi, cfr. B. Forte, La “pietas” del pensiero, in “Communio”, n. 136, luglio-ag. 1994, pp. 98-106; Id., L’essenza del cristianesimo, Mondadori, Milano 2002, in particolare il cap. Mortale, salvifica bellezza, pp. 137-145. 12 Cfr., M. Henry, Incarnazione. Una filosofia ddella carne, SEI, Napoli 2001; Id., L’essenza della manifestazione, Filema, Napoli 2009. 13 J.-L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 2007, p. 64. 14 Ivi, pp. 52-53. 15 A. Trione, Mistica impura, Il melangolo, Genova 2009, p. 78. 16 Ct., 1, 2. 17 Santa Teresa di Gesù, Pensieri sull'amore di Dio sopra alcune parole dei Cantici di Salomone, in Opere, Bompiani, Milano 2011. 18 M. de Unamuno, Obras completas VI, pp. 517-520 [trad. it. in A. Savignano, Il Cristo di Unamuno, Queriniana 1990, pp. 92-96]. 19 X. Tilliette, Il Cristo della filosofia, Morcelliana, Brescia 1997, p. 266. 20 M. de Unamuno, Antologia poetica, a cura di C. Bo, Firenze 1949, pp. 28-30. 21 F. Dostoevskij, L'idiota, parte III, trad. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1972, p. 378. 22 Cfr., a questo riguardo, X. Tilliette, Dostoevskij e il Cristo, in Filosofi davanti a Cristo, Queriniana, Brescia 1989, pp. 294-316. Cfr. anche Id., La Settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1992, pp. 13-14 e 114-115; I filosofi leggono la Bibbia, Queriniana, Brescia 2003, pp. 168-175. 23 Is.,53, 3. 24 W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 86. 25 Es, 33,3. 26 Mt 11, 29-30. A descrivere poi, in particolare, la condizione esistenziale dell'uomo del nostro tempo, animato dall'idea del "disincanto del mondo", spesso persuaso del dissolvimento di ogni forma di bellezza e di armonia nelle tenebre del nostro secolarizzato Gethsemani, vengono in soccorso le riflessioni del filosofo Pietro Piovani, laddove egli osserva che, grazie all'angoscia, ci «si risveglia nell'orto del Gethsemani, vicino come non mai all'estrema solitudine addolorata del Cristo. Morto il Dio di tutte le cosmogonie teologizzanti rinasce, nella comunanza sacrificale dell'agonia, il figlio dell'Uomo condannato all'infamia della Croce, indelebilmente segnato da esso,

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contrassegno di tutte le contraddizioni» (P. Piovani, Oggettivazione etica e essenzialismo, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1981, p. 124).

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Pouvoir du Background ou bio-pouvoir ? Searle vs Foucault

Filippo Domenicali L’ontologie du pouvoir de John Searle Dans l’ontologie sociale de Searle le phénomène du pouvoir est présenté comme une “forme spécifique de réalité sociale “. Il en décompose la notion en trois typologies, c'est à dire pouvoir déontique, pouvoir politique et pouvoir dit du Background / Network. La première forme de pouvoir (deontic power) est analysé dans ses recherches sur l’ontologie sociale (notamment The Construction of Social Reality)1 tandis que le pouvoir politique est étudié de la façon la plus approfondie dans l'article Social Ontology and Political Power2. Pour ce qui concerne le pouvoir du Background, il s'agit d'une nouveauté dans la théorie de Searle, qui a été intrduite avec son dernier Making the Social World3. Dans ce texte en effet Searle nous propose un large examen non seulement des deux précédentes formes de pouvoir, mais aussi de ce troisième concept original, auquel j'entends maintenant dédier mon attention. Le pouvoir: définitions et analyses Contrairement au pouvoir déontique et au pouvoir politique, qui sont des formes de pouvoir explicites et codifiées, le pouvoir du Background est défini par Searle dans ces termes: “there is a type of power in society that is not codified, is seldom explicit, and may even be largely unconscious “4. Searle assimile cette forme de pouvoir à une “pression sociale “(social pressures), c’est à dire au pouvoir qu’une société dans son ensemble exerce sur ses membres. Il faut spécifier que le concept général de pouvoir assumé par lui est emprunté aux travaux des sociologues politiques comme Steven Lukes5 et de Valeri G. Ledyaev6 (1997), et s'explique comme l’habileté de faire agir les individus contre leur volonté. Cette conceptualisation n'a rien de neuf, dès qu'il s’agit d’une théorie bien connue de la sociologie du pouvoir, qui ne crée, du point de vue théorique, aucune difficulté. Des problèmes surgissent, au contraire, autour de la question du comment on exerce tel pouvoir: c'est-à-dire qu'ils concernent ses modalités concrètes de fonctionnement. Le pouvoir du Background se configure, selon Searle, comme un “cas spécial “de la règle générale du pouvoir dont nous avons dit. Il est modelé sur la vision tridimensionnelle du pouvoir donnée par Lukes, c’est-à-dire “la capacité de s’assurer l’acquiescement à la domination par le modelage des désirs et des croyances, en imposant des liens intérieurs”7. Pareillement,

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Searle remarque que “the agent can exercise power by presenting the options he or she wants as the only options available, thus leading subjects to want something they would not have wanted had they known other options were available”8. Le pouvoir, en définitive, c'est plus précisement “the power of manipulating the subject's perception of available options”9. Le pouvoir du Background, comme le pouvoir tridimensionnel, agit sur nos perceptions, en nous soufflant certains parcours d’action déterminés. C’est un pouvoir “motivationnel”qui est capable de créer des raisons pour agir indépendantes des désirs des sujets. Du point de vue épistémologique, pour ce qui concerne les conditions minimales d'une analyse descriptive du pouvoir, Searle soutient qu'il faut respecter trois liens (constraints): 1) Lien d’intentionnalité (intentionality constraint): nous devons être en mesure de définir le “contenu intentionnel “du pouvoir, c’est-à-dire de spécifier exactement ce que l’agent veut que l’autre fasse; 2) Lien d’exactitude (the exactness constraint): nous devons être capables de dire “qui exactement a le pouvoir “et “sur qui il exerce ce pouvoir “; Enfin, 3) Le pouvoir doit être exercé à travèrs des “actes linguistiques directeurs permanents “(speech acts […] standing Directives). Dans le panorama de la réflexion philosophique contemporaine, Searle a reconnu trois antécédents théoriques à son concept de pouvoir du Background, c'est-à-dire: 1) Le concept de pouvoir tridimensionnel décrit par Lukes, dont nous avons dit; 2) Le concept de pouvoir télique (Telic Power) élaboré par la chercheuse suédoise Åsa Andersson: il s'agit d'un pouvoir qui donne aux agents des raisons pour agir qui dépendent des idéaux, ou des standards, par rapport auxquels ils veulent être à la hauteur. C’est une forme opaque de normativité de laquelle, généralement, nous ne sommes pas du tout conscients10; Enfin, 3) Le concept de biopouvoir défini par Foucault dans ses recherches, notamment à partir de 1976. Searle critique du biopouvoir Par rapport à ces antécédents, Searle concentre sa critique surtout sur le concept foucauldien de biopouvoir, dont il fournit une analyse que dans les lignes qui suivent je chercherai d'approfondir pour en donner une lecture critique. Le terme de “biopouvoir “, comme on sait, apparaît pour la première fois à l'intérieur des recherches de Foucault liées à La volonté de savoir, pour se référer, d'une façon très générale, à un “pouvoir sur la vie“11. À partir de cette œuvre, capitale pour le développement de la pensée de Foucault, le concept de biopouvoir subit une série de remaniements, qui se concluent avec l’abandon du terme au profit de celui de “gouvernement“, jugé plus

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opérationnel. Au bout de ce processus de rectification, dans son cours au Collège de France de 1980, Foucault définit le biopouvoir comme un forme de “gouvernement des vivants “qui fonde son efficacité sur une relation singulière étabile entre subjectivité et vérité. À la question concernant comment concrètement peut fonctionner le biopouvoir, Foucault répond à travers le concept de gouvernement par la vérité. Il s'agit d'une manière originale de lier pouvoir, vérité et subjectivité. Foucault en effet soutient que plus un gouvernement indéxera son action à la vérité, moins il y aura a gouverner. Si la vérité peut arriver à constituer le “climat commun “au gouvernants et aux gouvernés, l’exercice du pouvoir ne sera que l’indicateur de la vérité, et les deux seront en quelque sorte co-auteurs simultanés d’une pièce qu’ils jouent en commun. C’est l’idée d’un gouvernement selon les règles de l’évidence12. Il ne s’agit pas ici d’un gouvernement entendu seulement dans son sens politique, parce-que chaque société possède en effet sa “politique générale de la vérité “13 constituée par les discours qu’elle accueillit et fait fonctionner comme vrais. La thèse de Foucault implique le fait que la subjectivité des individus se construit par rapport au discours vrai auquel ils ont accès. Le biopouvoir / gouvernement donc se configure comme un régime de vérité en mesure d’orienter les processus de subjectivation des individus. Il s’agit d’un pouvoir subjectivant (parce qu’il produit des sujets “dociles“) et anonyme (parce que c’est l’évidence même, le discours accueilli comme vrai, qui gouverne). Searle, on le sait, n’est pas un professionel de la pensée de Michel Foucault, et il dit explicitement qu'il n'entend pas se soumettre à la charge d’offrir une lecture critique générale de l'œuvre du philosophe français14. Il cherche, de façon plus restreinte, d’analyser un concept foucauldien (le biopouvoir) pour en mettre au jour certaines difficultés théoriques, notamment le non-respect des liens d’exactitude et d’intentionnalité: “we cannot say who exactly is exercising power over whom exactly and what exactly is the intentional content of the exercise“15. L’opération accomplie par Searle se présente alors comme un essai de rectification conceptuelle: “conceptions like is [Foucault] can be made intellectually respectable to the extent that they can conform to the exactness constraint and intentionality constraint“16. Des pouvoirs normalisateurs D'un certain point de vue, la concepton de Searle se présente come une extension de ses travaux précedents de philosophie de l'esprit. Il faut donc souligner que les concepts de Background et de Network proposés par Searle ne sont pas des néologismes dans son vocabulaire. Ils apparaissent déjà au cours de ses recherches sur le statut de l’intentionnalité et se

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caractérisent comme un ensemble de présuppositions liées à la nature sociale de l’homme. En fait, le phénomène du pouvoir est constitué de pratiques et d'actions qui requierent une forme d’intentionnalité de part des agents impliqués. Les états intentionnels, caractérisés par la directivité des états mentaux17, ne fonctionnent pas indépendamment les uns des autres, mais sont placés dans un Réseau (Network) constitué d’autres croyances ou désirs qui précedent. Pareillement, l’Arrière-plan (Background) est défini comme “un ensemble de capacités mentales lequel ne consiste pas en soi d’états intentionnels (représentations), mais qui néanmoins forme la pré-condition pour le fonctionnement des états intentionnels eux-mêmes“18. Ainsi Searle insiste sur la nature pré-intentionnelle de l’Arrière-plan (pre-intentional Background). Une géographie minimale du Background devrait comprendre, a ses yeux, un “Background profond”(deep Background) “which would include at least all of those Background capacities that are common to all normal human beings in virtue of their biological makeup“19 et un “Background local”(local Background) constitué des “local cultural practices“20. Bref, les états intentionnels sont une multiplicité et forment un Réseau (Network) complexe, lequel à son tour s’évanouit dans un Arrière-plan (Background) qui est la condition de possiblité des états intentionnels eux-mêmes (sans toutefois pervenir à les déterminer du tout). Pour révenir à nôtre enquête, le fait fondamental est que le Background et le Network contiennent un ensemble de “normes de comportement “(norms of behavior: habitudes, usages, pratiques) qui constituent en même temps des “normes de la communauté “(norms of the community). Le Réseau et l’Arrière-plan, donc, sont porteurs d'un pouvoir normalisateur qui est en mesure d’induire les individus, non pas à travers une loi ou une constriction, mais grâce à la perception ou à la menace de sanctions informelles (par exemple: la désapprobation des autres membres de la communauté) à se conformer aux standards de la société ou du groupe auquel ils appartiennent. Le concept de pouvoir du Background donc se clarifie si on l'admet que: 1) Le lien d’intentionnalité est satisfait par “un acte linguistique directeur permanent “(standing Directives) qui a la forme de l’ordre “conforme-toi ! “(Conform!). Il s’agit d’un contenu intentionnel implicite soutenu par la connaissance des sanctions; 2) Le lien d’exactitude est satisfait si nous admettons que, dans des cas pareils, “qui que ce soit peut exercer le pouvoir sur qui que ce soit”(anybody can exercise power over anybody)21 à condition qu’il partage les normes du même groupe social. Le résultat du pouvoir du Background, comme du biopouvoir, est le conformisme et la normalisation des sujets: “on crée des sujets humains qui peuvent être contrôlés “. On passe ainsi du contrôle (extérieur) au contrôle de soi, dès que le lien ne doit plus être imposé du dehors, mais il est

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intériorisé et naturalisé en tant que lié aux capacités d’agir des sujets eux-mêmes. Il s’agit donc d’une forme de pouvoir introjectée à partir du processus d’acculturation (il concerne, de ce point de vue, ce que Searle appelle Arrière-plan “local “). Il nous fait agir en nous donnant des raisons pour l’action dépendant de motivations induites. L’Arrière-plan fonctionne comme un sélectionneur incorporé en définissant l’espace des possibles avec l'aide de la vigilance des autres membres du groupe social. Searle et Foucault: une lecture croisée À l'interieur des conceptions de Searle et de Foucault on a sûrement des présupposés communs, comme il y a des éléments divergents qui rendent enfin inconciliables leurs respectives conceptions du pouvoir. Les deux auteurs convergent sur certains aspects, par exemple: 1) Le concept général de pouvoir. Le biopouvoir de Foucault, en effet, ainsi comme le pouvoir du Background de Searle, s’exerce à travers “un mode d’action qui n’agit pas directement et immédiatement sur les autres, mais qui agit sur leur action propre. Une action sur l’action, sur des actions éventuelles, ou actuelles, futures ou présentes […] C’est un ensemble d’actions sur des actions possibles”22; 2) L’effet normalisateur: il s'agit de formater des sujets. Dans le cas de Foucault, le concept de normalisation est emprunté à l’œuvre de Georges Canguilhem, selon lequel “normaliser signifie imposer une exigence à une existence”23, tandis que Searle suit d'autres références. Mais plus intéressant, pour fournir une lecture critique des positions de Searle, c'est éclaircir les aspects sur lesquels le deux philosophes divergent – et donc les discriminants qui contribuent à définir la spécificité du concept de pouvoir du Background par rapport au biopouvoir. Ils nous semblent essentiellement deux, et concernent leures réspectives conceptions de l'égalité et de la liberté des sujets. Searle, en effet, tend à situer les acteurs sociaux sur un plan de parfaite égalité: comme nous avons souligné, à l’intérieur des situations décrites par l'auteur, “qui que ce soit peut exercer le pouvoir sur qui que ce soit”(anybody can exercise power over anybody). Toutefois il faudrait se demander: dans la pratique quotidienne du pouvoir, en va-t-il vraiment ainsi? L’hypothèse selon laquelle n’importe quel membre de mon groupe (même, par exemple, un enfant?) peut exercer un pouvoir sur moi-même et influencer ma conduite, est-elle vraisemblable? Ou n’apparaît-il pas, au contraire, plus plausible (comme Searle lui-même paraît l’admettre dans un passage de son argumentation) que ma connaissance des sanctions me fasse sentir en subjection seulement par rapport à quelques-uns des membres du groupe

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auquel j'appartiens (parce-que il y a toujours une hiérarchie, si bien qu'informelle), et précisément à ceux “que je sais avoir la possibilité de m’imposer des sanctions”?24. À partir de ces considérations, il nous semble pourtant qu'on pourrait limiter la critique de Searle au lien d’exactitude et soutenir que nous sommes sujets au pouvoir des autres individus qui, tout en faisant partie de notre groupe social, occupent, à l’intérieur de contextes différenciés, un rôle ou une position qui peuvent user de sanctions, avantages ou désavantages, par rapport à nos objectifs ou idéaux. Il s'agit d'une idée qui a été clairement mise en lumière (par exemple) par Pierre Bourdieu quand il soutient que la structure de la distribution des formes de pouvoir ou des espèces de capital n'est pas immuable et qu'il y a toujours une topologie des positions sociales par rapport au pouvoir qui s'exerce à l'intérieur d'un certain champ déterminé25. Pareillement, si l'on se tourne à l'oeuvre de Foucault, on peut constater qu'il a donné plus d’attention aux contextes historiques et sociaux. À ses yeux, il faut chaque fois recommencer l'analyse depuis le début, pour cartographier les rapports de force à l’intérieur d’un champ envisagé dans sa spécificité locale (micro-physique), parce-que il faut toujours différencier les positions de pouvoir des acteurs impliqués dans chaque situation historique assumée en toute sa singularité. Foucault donc, contrairement à Searle, ne présuppose pas le fait (utopique!) que les acteurs sociaux soient placés sur un plan de parfaite égalité. Je pense que ce fait sans doute puisse aider à une plus correcte attention à la complexité des phénomènes sociaux. Il y a en outre, à mon avis, aussi un second point controversé de la théorie de Searle, qui est lié aux conséquences de son hypothèse, et enfin affecte la tenue du concept de liberté qui est présupposé par son conception du pouvoir. Si nous nous demandons comment on se libère du pouvoir du Background – ou comment on en échappe –, nous obtenons une réponse élémentaire, dans sa simplicité. Searle soutient en effet que “pas toutes les capacités du Background sont une question de pouvoir […] jusqu’à ce que nous ne sommes obligés à faire ce que nous ne voulons pas faire […] aucun pouvoir n’est exercé “(“Not all Background capacities are matters of power […] As long as one is not constrained from doing what one wants to do, and as long as one is not constrained to do something one does not want to do, then no power has been exercised”)26. De cette façon, Searle paraît identifier volonté et liberté, en ouvrant ainsi la voie à une sorte de régression à l’infini. Quelle garantie avons-nous que ma volonté soit libre, et que ce que j’entends avec le terme “libre”ne soit que le résultat d’une socialisation influencée à son tour par la commune acceptation d’un certain Background? Foucault problématise de façon différente le statut de la liberté, laquelle est pensée comme le présupposé du pouvoir (différemment de la domination, où

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il n’y a pas du tout de liberté). Le concept de liberté se qualifie en tant que possibilité de choisir une conduite alternative à l’intérieur d’un éventail d’options possibles. Il y a toujours une chance de se subjectiver autrement à l’intérieur des conditions données par un régime de pouvoir-vérité. De ce point de vue la liberté coïncide, ou peut coïncider, avec une pratique éthique27. Le rapport de pouvoir produit des espaces – configurations possibles de la relation subjectivité / vérité – qui peuvent être interprétés activement grâce à la création d’un style autonome de subjectivation. Néanmoins, il s’agit d’une autonomie seulement relative. À différence de Searle, la liberté n’est pas posée chez Foucault au début, dans le niveau neurobiologique de la conscience28, mais plutôt au terme d’un processus de subjectivation singulier. Cette solution a l’avantage de dépasser l’alternative nature / culture, en présentant un concept de liberté entendue comme une pratique réfléchie de modification de soi. Il y a toutefois un prix à payer: l’amère constatation qu’il n’y a pas un “dehors”de la relation de pouvoir. Conclusions Pour conclure, Searle et Foucault nous offrent deux concepts fondamentaux pour la compréhension de l’exercice des pouvoirs “informels”dans la société contemporaine. Tous les deux nous aident à définir les lignes directrices d'une analyse pragmatique du pouvoir: non plus “ce qu’il est “dans son essence, mais comment effectivement il s’exerce. Malgré tout, nous pensons que les objections de Searle par rapport à Foucault n’atteignent pas leur but. En effet, par rapport à des formes de pouvoir particulièrement opaques, comme nous avons cherché de le montrer, l’identification du lien d’exactitude s'avère bien problématique. L’hypothèse de Foucault, selon laquelle à un certain niveau analytique l’intentionnalité se dissout à la faveur de structures anonymes de pouvoir (régimes de vérité / subjectivation) nous semble plus vraisemblable; Searle, néanmoins, nous aide à nous dégager de l’idée d’un pouvoir omniprésent, en constituant un bon antidote contre tous les formes de paranoïa politique29.

1 J.R. Searle, The Construction of Social Reality, New York, Free Press, 1995 [tr. fr. La Construction de la réalité sociale, Gallimard, Paris 1998].

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2 J.R. Searle, Social Ontology and Political Power, in Socializing Metaphysics: The Nature of Social Reality (ed. F. F. Schmitt) Lanham, Rowman & Littlefield, 2003, p. 195-211. 3 J.R. Searle, Making the Social World: The Structure of Human Civilization (2010) Oxford University Press, Oxford 2010. 4 Ivi, p. 155; tr. fr. : il s'agit d'un type de pouvoir dans la société qui n’est pas codifié, rarement est explicité et qui pourrait rester largement dans l’inconscience “. 5 S. Lukes, Power. A Radical View, Palgrave Macmillan, New York 2e éd. 2005. 6 V.G. Ledyaev, Power: A Conceptual Analysis, Commack, Nova Science Publishers Inc., 1997. 7 S. Lukes, Power, cit., p. 143. 8 J.R. Searle, Making the Social World, cit., p. 147; tr. fr. : “ l’agent peut exercer le pouvoir en présentant comme disponibles seulement les opérations qu’il veut, en induisant celui qui est sujet au pouvoir à vouloir quelque chose qu’il n’aurait pas voulu s’il avait su qu’existaient d’autres choix à disposition “. 9 Ivi, p. 149; tr. fr. : “ le pouvoir de manipuler les perceptions du sujet au regard des choix qu’il a à sa disposition “. 10 Voir Åsa Andersson, Power and Social Ontology, Bokbox Publications, Malmö 2007. 11 M. Foucault, La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976, p. 182. 12 M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France (1979-1980), Paris, Gallimard / Seuil, 2012. 13 M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault (1977) in Dits et Écrits, II, Gallimard / Seuil, Paris 2001, p. 158. 14 En effet, Searle lit Foucault en traduction et à travers les extraits d'une anthologie, celle éditée par J. D. Faubion (M. Foucault, Power, 2000). En outre, il n’examine qu’un seul texte (Foucault 1982). La littérature critique prise en considération se borne uniquement à l'étude de Lukes (2005), avec laquelle il paraît être d’accord. 15 J.R. Searle, Making the Social World, cit., p. 154 ; tr. fr. : “ nous ne pouvons pas dire exactement qui est en train d’exercer le pouvoir ni quel est le contenu intentionnel de l’exercice du pouvoir “. 16 Ivi, p. 154-155 ; tr. fr. : “ des conceptions comme la sienne [de Foucault] peuvent être rendues intellectuellement respectables en faisant l’effort de les rendre conformes aux liens d’exactitude et d’intentionnalité “. 17 “ Intentionality is that property of many mental states and events by which they are directed at or about or of objects and states of affairs in the world “ (J.R. Searle, Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind, New York, Cambridge University Press, 1983, p. 1) [tr. fr. L'intentionalité : essai de philosophie des états mentaux, Paris, Minuit, 1985]. 18 Ivi, chapitre 5 : The Background (p. 141 et suiv.). 19 Ivi, p. 143-144 ; tr. fr. : qui comprend toutes les capacités d’arrière-plan communes à tous les êtres humains en vertu de leur conformation biologique”. 20 Ivi, p. 144 . 21 J.R. Searle, Making the Social World, cit., p. 158. 22 M. Foucault, Le sujet et le pouvoir (1982) in Id., Dits et Écrits, II, Gallimard / Seuil, Paris 2001, p. 1055-1056. 23 G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, Presses Universitaires de France, Paris, p. 177.

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24 Ivi, p. 157 : “ with those who have the perceived option of imposing the sanctions “. 25 Cf. l'article essentiel Espace social et champ du pouvoir, in Id. Raisons pratiques. Sur la théorie de l'action, Seuil, Paris 1994. 26 Ivi, p. 160. 27 Cf. M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté (1984) in Id., Dits et Écrits, II, Paris, Gallimard / Seuil, 2001, p. 1527-1548. 28 Cf. J.R. Searle, Liberté et neurobiologie : réflexions sur le libre arbitre, le langage et le pouvoir politique, Grasset, Paris 2004. 29 Je me référe ici librement au considerations de D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, Laterza, Roma-Bari 2007.

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Il problema ermeneutico: Segno e simbolo nella fenomenologia ermeneutica di P. Ricoeur

Lara D’Amore L’Ermeneutica si propone di comprendere un testo a partire dalla sua intenzione, cioè sulla base di ciò che esso vuole dire. Inizialmente posto nei limiti dell’esegesi, ben presto si è presentato come un problema ermeneutico, cioè un problema di interpretazione, perché ogni lettura di un testo si fa sempre all’interno di una comunità, di una tradizione o di una corrente viva di pensiero. Nel dibattito filosofico l’esegesi implica tutta una teoria del segno e della significazione, in quanto, se un testo può avere parecchi sensi, è necessario ricorrere ad una nozione di significato molto più complessa di quei segni cosiddetti univoci1. Si tratta quindi di fondare l’Ermeneutica nella Fenomenologia. Paul Ricoeur descrive la realizzazione di questo innesto attraverso due vie:

- la via corta, basata sulla Heideggeriana ontologia della comprensione, collocata «sul piano dell’ontologia dell’essere finito, per ritrovarvi il comprendere non più come un modo di conoscenza, ma come un modo d’essere»2. Il problema ermeneutico diviene Analitica del Dasein, cioè esserci nell’atto di comprendere. Questo comporta la necessità di dover scegliere tra ontologia della comprensione ed epistemologia dell’interpretazione.

- La via lunga, che il Nostro propone per condurre una riflessione al livello di una ontologia, ma attraverso il piano della semantica prima, e della riflessione poi. «Comprendere, allora, non è più una forma di conoscenza, ma la forma di questo essere che esiste nell’atto di comprendere»3. In altri termini si tratta di passare dal comprendere come forma di conoscenza , al comprendere come forma di essere. Il piano semantico rappresenta l’aspetto “archeologico” nell’interpretazione di un testo, inteso come espressione di un vissuto, che comporta un trasferimento di una molteplicità di sensi; l’elemento comune è un’architettura di senso il cui ruolo è quello di mostrare nascondendo (opacità del sé). Queste espressioni multivoche sono definite da Ricoeur simboliche. La simbolica riguarda ogni apprensione della realtà fatta per mezzo dei segni: percezione, mito, arte, scienza. Il simbolo, non ridotto ad analogia, assume senso più ampio: «Chiamo simbolo ogni struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa per sovrappiù un altro senso indiretto, secondario,

NO

TE

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figurato, che può essere appreso soltanto attraverso il primo».[…] l’interpretazione è il lavoro mentale che consiste nel decifrare il senso nascosto nel senso appartenente, nel dispiegare i livelli di significazione impliciti nella significazione letterale»4 Secondo l’ottica “riflessiva”, l’interpretazione di un testo/vissuto sposta l’origine del senso non più dietro al soggetto, ma davanti ad esso. Ogni figura trova il suo senso in quella che segue, la coscienza è trascinata davanti a sé in una teleologia che si costituisce nella dinamica dell’interpretazione che comprende una figura per mezzo di un’altra figura. Ricoeur riconosce il valore permanente del simbolo in quanto testimonianza dell’opacità del sé, la deviazione attraverso le mediazioni culturali stesse, e il radicamento delle culture nel mondo-della-vita che testimonia dello scaturire del linguaggio dal mondo e della trasmissione di questo radicamento con la trasmissione stessa del linguaggio. In altre parole, è il carattere simbolico del linguaggio che ne salvaguarda lo spessore ontologico. Testimoniando del fatto che il linguaggio può rinviare al mondo perché viene dal mondo, oggettivandosi poi come segno e come testo, rende in fondo possibile qualcosa come il riferimento al mondo, sia del segno che del testo. In altre parole, è il darsi del simbolo alla e nella coscienza a legittimare l’intera filosofia ricoeuriana richiedendo il superamento dell’atteggiamento filosofico tipicamente moderno che si fonda, da Descartes a Husserl, sulla trasparenza del Cogito5. E’ proprio questo carattere simbolico del linguaggio che ne salvaguarda lo spessore ontologico: « …l’interpretazione dei simboli non costituisce l’interezza dell’ermeneutica, ma io continuo a tener fermo che è il punto di condensazione e, se così posso dire, il luogo della più grande densità, in quanto è nel simbolo che il linguaggio è rivelato nella sua più intensa forza e nella sua più intensa pienezza. Esso dice qualcosa indipendentemente da me e dice più di quanto io posso comprendere. Il simbolo è sicuramente il luogo privilegiato dell’esperienza del surplus di significato»6. Il simbolo nel contesto della coscienza simbolica In apertura de Le symbole donne à penser, il Nostro si pone una questione filosoficamente decisiva: sollevare il problema del simbolo significa procedere dalla pienezza del linguaggio nel quale ci troviamo situati e che abbiamo ricevuto. Significa procedere a una coscienza già da sempre costituita e tramandata, una coscienza simbolica che, in quanto tale, è intrecciata con il sacro, con il sogno, la storia e l’immaginazione poetica, e che sa che il filosofare non è porre un cominciamento assoluto, dopo aver fatto tabula rasa

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di tutto quanto ne ha preceduto il punto di partenza, ma significa guardare avanti a sé ricordandosi di sé, procedendo «dal centro della parola». Il simbolo spezza l’unità dell’io e del sé a favore dell’opacità di quest’ultimo, dove la Lebenswelt Husserliana si impone accennando uno strato di esperienza anteriore al rapporto fra soggetto e oggetto, e si apre ad un’esegesi in cui il sé è chiamato a comprendersi. La ripresa del simbolico segna il passo nei confronti di una questione ben più ampia rispetto allo stile filosofico menzionato, ha a che fare con il riconoscimento di qualcosa che inizia a guardare al moderno come qualcosa che si ha alle spalle: se solleviamo il problema ora, in questo periodo della storia, è in connessione con certi tratti della nostra “modernità”, e appare come una risposta a questa stessa “modernità”. Il momento storico della filosofia del simbolo è quello dell’oblio e anche della restaurazione. […] Non siamo quindi animati dal rimpianto delle Atlantidi sprofondate, ma dalla speranza di ricreare il linguaggio; al di là del deserto della critica, vogliamo di nuovo essere interpellati7. Il simbolo trova quindi la sua ripresa e la sua fecondità nel momento in cui la modernità prende coscienza di sé come tempo dell’oblio, ossia della decostruzione che fa dimenticare il Sacro o meglio che segna «la perdita dell’uomo stesso in quanto appartenente al Sacro». Si tratta della secolarizzazione che rappresenta la cifra della modernità dal punto di vista del suo compimento, così come si poteva osservare alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, che andava di pari passo con l’affermazione della tecnica come soddisfazione dei bisogni dell’uomo attraverso il dominio della natura. La soluzione tecnica dei problemi dell’uomo esigeva l’oblio del suo radicamento nel Sacro. L’univocità puramente formale e vuota di un simbolismo logico-matematico è produzione artificiale, convenzionale, seriale, astratta e, pertanto, perfettamente riproducibile, senza alcuno scarto o eccedenza. Ma il campo d’indagine di una modernità che, da un lato, esplorava il Sacro, il sogno e l’immaginazione poetica, e che, dall’altro, ricercava l’univocità formale, porta Ricoeur a sfruttare quest’ambiguità, e inaugura l’ermeneutica come tentativo di rispondere al processo dell’oblio secolarizzante, con l’interpretazione recuperatrice o restauratrice della pienezza del linguaggio trasmessa dai simboli8. Struttura di senso del simbolo

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Se si abbandona il rigore fenomenologico e si analizzano i simboli nel loro originario, confuso e non dominabile debordare di senso, ma nella loro radicale realtà, si scopre che il linguaggio più primitivo e meno mitico è già un linguaggio simbolico […] la coscienza di sé sembra costituirsi nella sua profondità attraverso il simbolismo, elaborando solo in seconda istanza una lingua astratta per mezzo di un’ermeneutica spontanea dei simboli primari9. È questo il luogo a partire dal quale risulta possibile vivere quella seconda ingenuità, come atteggiamento correlato alla seconda rivoluzione copernicana, che vede nel simbolo primario l’emergenza del senso linguistico; inoltre, la possibilità di portare alla riflessione questo strato costitutivo e preteorico del linguaggio ha la fondamentale funzione di mostrare il radicamento di ogni discorso nel mondo10. I simboli cosiddetti autentici, nei quali si radica la relazione fra il cosmo, la psiche e il sorgere del linguaggio comprendono la ierofania, il sogno e l’immaginazione poetica. Le ierofanie sono le manifestazioni del sacro, concretizzate nel profilo simbolico delle cose. Gli elementi cosmici come il cielo o l’acqua si manifestano in una relazione intenzionale in cui il valore simbolico dà luogo ad una sovrabbondanza di senso, una sovra-determinazione che si dà insieme alla percezione delle cose stesse. «La concretezza della cosa, manifestandosi nella propria potenza sacrale, fa esplodere una molteplicità di significati che andranno poi a essere distinti e definiti nell’astrazione del linguaggio concettuale, fissandosi all’interno di un vocabolario che, pur sempre, porterà con sé le tracce di un radicamento cosmico che ancora si affaccia nella polisemanticità e nell’inesauribilità semantica dei simboli primitivi (il cielo, l’acqua, la terra, l’albero, l’orso, il sole …). Estendendosi, attraverso il rito, all’azione umana, la simbolicità cosmico-sacrale andrà a determinare, in modo indelebile, lo spazio della religione, dell’etica e della politica. L’aspetto sociale dell’antropologico è simbolico: il mondo umano è un mondo comunque simbolico»11. Il Sogno, o Onirico è la seconda dimensione del simbolo considerata da Ricoeur: il simbolo è elemento strutturante della psiche dell’uomo, che attraverso l’indagine sull’onirico, si trova a costituirsi sulla base del simbolico, che manifesta il sacro del cosmo. L’uomo, pensato nella sua totalità cosmica e psichica dei simboli e dei sogni, si esprime attraverso la terza modalità: l’ Immaginazione poetica. Il simbolico si esprime nella modalità dell’immagine-verbo, cioè nello stato nascente del linguaggio, nel suo emergere, facendo di noi ciò che esso dice. Il simbolo espresso in queste tre dimensioni va compreso nella stessa struttura costitutiva, e questa molteplice manifestazione che «rinasce

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nell’immaginazione poetica è la stessa struttura simbolica che abita i sogni più profetici del nostro intimo divenire e sorregge il linguaggio del sacro nelle sue forme più arcaiche e stabili »12. Caratteristiche e interpretazione del Simbolo Occorre sottolineare che il simbolo si differenzia dal segno, dall’allegoria, dal mito e dai caratteri della logica simbolica, pur appartenendo alla classe dei segni. Un segno presenta, da un lato, la relazione tra il segno sensibile e il senso che quel segno esprime e, dall’altro, la relazione intenzionale tra il segno sensibile e la cosa cui quel segno si riferisce. Il simbolo invece presenta una duplicità proprio al livello dell’intenzionalità, per cui esso offre un’architettura di relazioni: quella che dal senso primario, usuale, conduce alla cosa corrispondente, e quella che da quel senso apre a un altro piano di senso; è proprio a questo livello che interviene l’atto dell’interpretazione. Un simbolo, benché sia una cosa sensibile, un elemento dell’universo, si manifesta come tale solo nel momento in cui viene detto, raccontato, comunicato in un qualche modo. In altri termini, il simbolo instaura un legame analogico tra un senso e un altro che comporta un essere come, una sorta di ampliamento dell’ontologia che Ricoeur non si stancherà mai di ribadire attraverso il detto aristotelico l’essere si dice in molti modi e che troverà nella riflessione sulla metafora un passaggio decisivo del proprio sviluppo. Ricoeur parla di una partecipazione assimilante al senso simbolico, che dona l’analogo senso ulteriore. Tale dinamica manifesta la caratteristica essenziale dell’opacità, correlata alla profondità e all’inesauribilità, che differenziano il simbolo da ogni segno univoco e trasparente. In secondo luogo, il simbolo si caratterizza differenziandosi dall’allegoria, che è il risultato di un’interpretazione, mentre il simbolo precede e suscita un’interpretazione. Si pensi alla donna bendata con la bilancia in mano: è l’involucro sensibile, l’ornamento con cui si vuole rappresentare l’idea della giustizia, che si è perfettamente in grado di cogliere, indipendentemente dalla figura. Nell’allegoria, tra i due piani di senso vi è una sufficiente esteriorità, mentre il simbolo dischiude la propria dimensione ulteriore in enigma, ossia suggerendola. In quest’ultimo caso, quindi, il primo livello di senso non può essere mai accantonato o dichiarato inutile. Il simbolo tiene sempre insieme i due piani, o almeno richiede un mutuo riconoscimento. Un ulteriore confronto è quello che Ricoeur istituisce rispetto ai caratteri utilizzati dalla logica simbolica in cui forma e contenuto sono svincolati fra loro. Al contrario, nel linguaggio simbolico i sensi risultano essere vincolati in forza del legame analogico. In questo senso Ricoeur, pur non disprezzando il

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momento scientifico dell’analisi, riconduce il linguaggio entro un momento di dialettica più ampio, in cui esso sorge dal mondo nell’atto del discorso, della parola. Infine, il confronto col mito. Ne La simbolica del male, Ricoeur afferma che i simboli assumono «un valore euristico, giacché conferiscono universalità, temporalità e portata ontologica alla comprensione di noi stessi. […] Così, è il simbolo stesso che, sotto la sua forma mitica, incita all’espressione speculativa; è il simbolo stesso che è aurora di riflessione»13. Fenomenologia ed ermeneutica del simbolo Ricoeur articola la filosofia del simbolo in tre fasi:

- La fase Fenomenologica, in cui si comprende un simbolo collocandolo nell’orizzonte della totalità simbolica, concepita come una rete di rinvii di senso;

- La fase Ermeneutica, che si innesta sulla fenomenologia dei simboli permettendo il «ricaricarsi del pensiero nei simboli», aprendosi all’età post-critica, nella quale è possibile attingere alla pienezza dei simboli, recuperando quella funzione che in precedenza era svolta dalle ierofanie.

- L’ultimo momento è rappresentato dalla Riflessione, cioè l’atto di riappropriazione del nostro desiderio e dello sforzo di esistere. Questo momento, propriamente filosofico, conduce all’acquisizione della coscienza del sé meno dominabile, che si manifesta attraverso l’opacità, la contingenza e la problematicità del pensiero che procede dal simbolo. Nel 1974 Ricoeur pubblica un articolo, Manifestation et Proclamation , dedicato al tema del Sacro, nel quale ripercorre le tappe che, attraverso l’ermeneutica del linguaggio religioso giunge all’esplorazione della fenomenologia del sacro, affrontando una tensione, una polarità che conduca ad una mediazione fra un’ermeneutica della proclamazione e la fenomenologia del sacro14. Ma che cosa si intende per ermeneutica del linguaggio religioso? C’è ermeneutica dove si pone l’accento sulla scrittura, la parola; quindi il Verbo. Questo è particolarmente presente nelle religioni come il Giudaismo, l’Islam e il Cristianesimo. Inoltre c’è ermeneutica laddove l’accento è posto sulla storicità della trasmissione, come anche nell’attività propria di interpretazione, che è incorporata nella costituzione stessa della tradizione.15 L’insieme di questi tratti sono denominati da Ricoeur col termine di proclama-zione.

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Prima di giungere a ciò, è necessario percorrere i tratti del sacro che non passano attraverso un’ermeneutica della proclamazione, ma che possono chiamarsi fenomenologia della manifestazione del sacro, organizzata secondo i cinque tratti già elencati nel precedente capitolo 1: - potenza, che non è esperienza inscrivibile nelle categorie del Logos ma che è l’Efficacia per eccellenza;- ierofania, che essendo “nouminosa”, quindi non inscrivibile come tale, può essere solo descritta nelle sue manifestazioni; - il legame fra sacro e rito,che non si mostra solo nei segni, ma anche nei comportamenti significativi; - cosmo, che concerne il ruolo della natura, producendo di fatto una distanza fra manifestazione e proclamazione; - logica del senso dell’universo sacro, e il suo sistema di corrispondenze, che con la parola, la parabola ed il discorso accentuano quell’antinomia fra ierofania e proclamazione, opponendosi polarmente a quella delle corrispondenze nell’universo sacro. Ricoeur mantiene i due discorsi cercando una mediazione fra queste due polarità da lui stesso definite: il discorso iconoclastico e quello dell’ascolto. Anche se l’autore preferisce il secondo, non trascura il primo, considerandolo possibile, da solo, in una cultura come quella attuale, desacralizzata. Inoltre, è proprio il mondo sacro che si ritira da noi, dove certe espressioni sono segno di una configurazione culturale costituita dalla degenerazione del sacro: il nichilismo. Il Nostro riconsidera le antinomie sulle quali aveva costituito la sua analisi. Afferma che non potrebbe esservi ermeneutica senza proclamazione, se la parola non fosse potente, cioè non avesse il potere di spiegare. Una parola indirizzata a noi che la parliamo, una «parola che parla», non afferma il sacro nell’atto di abolirlo?16

1 P. Ricoeur, Le conflit des interprétations. Essais d’herménetique, Seuil, Paris, 1969, trad. it. Il conflitto delle interpretazioni, ed. Jaca book, Milano 1995, pp. 17-18. 2 Ivi, p. 20. 3 Ivi, p. 21. 4 Ivi, p. 26. 5 P. Ricoeur, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit, Paris, 1995, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, ed. it. a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1998. 6 Ihde D., Hermeneutic Phenomenology. The philosophy of Paul Ricoeur, Northwestern University Press, Evanston 1971, pp. xiii-xvii, in part., pp. XVI-XVII. 7 P. Ricoeur, Le symbole donne à penser, Esprit 27, 1959, n°7-8 , trad. it. Il simbolo dà a pensare, a cura di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2002. Quest’argomentazione è stata ripresa in Finitudine e colpa, cit., pp. 623 e ss. e in Il conflitto delle interpretazioni, cit., pp. 303 e ss.

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8 M. Salvioli, Il simbolo nella fenomenologia ermeneutica di Paul Ricoeur, Una proposta di ripensamento nel paradigma della traduzione, in Divus Thomas 112,. 2(2009)pp.23-24h https://www.academia.edu/3836204/Il_simbolo_nella_fenomenologia_ermeneutica_di_Paul_Ricoeur 9 P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, II. La symbolique du mal, Aubier, Paris, 1960, trad. it. Finitudine e colpa, di M. Girardet, Il Mulino, Bologna 1970. p. 253. 10 M. Salvioli, Il simbolo nella fenomenologia ermeneutica di Paul Ricoeur, cit., p. 26. 11 Ivi p.28. 12 P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, cit., p. 14. 13 Id., Il conflitto delle interpretazioni,cit., p. 49. 14

E. Bugaitè, Linguaggio e azione nelle opere di Paul Ricoeur dal 1961 al 1975, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 2002. 15P. Ricoeur, Manifestation et Proclamation, cit., p. 57. 16Ivi, p.74.

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La relazionalità familiare Daniela De Leo

Il presente intervento si inserisce in un contesto di riflessione sulla famiglia in un momento in cui i riflettori si sono riaccesi su questa dimensione, anche grazie all'apertura, voluta da Papa Francesco in Vaticano dal 5 al 19 ottobre, del Sinodo dedicato alle sfide pastorali sulla famiglia. Come obiettivo primario si è proposto di indagare l'ambito familiare dal punto di vista filosofico, non soltanto proponendo i percorsi argomentativi di alcuni filosofi, ma rielaborando una filosofia della famiglia che ne delinei la dimensione identitaria della stessa. La famiglia luogo unico del legame relazionale L'etimologia della parola famiglia è da ricondursi al termine osco faama - casa, da cui il latino famīlia, cioè l'insieme dei famŭli (moglie, figli, servi e schiavi del pater familias il capo della gens). Pertanto, famiglia in senso stretto ed originario, significa piccola comunità di "persone che abitano nella stessa casa", in senso ampio, l'insieme di persone legate da vincoli di sangue, da rapporto di parentela o affinità o da vincoli religiosi e/o legali quale il matrimonio. Tutti comunque inseriti in una sorta di struttura piramidale al cui vertice è posto il capo famiglia, il pater familias. Da questa prima immagine di famiglia, emerge il concetto di legame tra i componenti e di situatività degli stessi in una dimora comune. Per l'antropologia e la sociologia moderne, la famiglia è un gruppo sociale fondato sul legame matrimoniale. Ha come nucleo i coniugi e i loro figli, ma può estendersi anche ad altri parenti. Si caratterizza per l'esistenza di una rete di vincoli, divieti e diritti affettivi, legali, economici. La definizione stretta di famiglia, usata in demografia nei censimenti, comprende i parenti che coabitano con la famiglia nucleare. Resiste ancora in certe zone e in certe classi sociali la tradizione della famiglia patriarcale, in cui diverse generazioni di parenti abitano sotto lo stesso tetto. La mobilità geografica e sociale, il mutamento del ruolo della donna, l'aumento dei costi della gestione familiare, la crisi della natalità e il divorzio stanno creando oggi nuovi tipi di famiglia.

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L'immagine di famiglia diventa così poliedrica e sfaccettata: dalla famiglia di fatto formata da genitori non legalmente sposati, alla famiglia monoparentale o spezzata composta da un solo genitore e dai figli; dalla famiglia multipla che può comprendere i coniugi, i figli nati dal loro matrimonio e quelli nati da altre relazioni precedenti a quella in cui si aggiungono gli ex coniugi e i loro partner attuali. Il legame familiare che un tempo si presentava sviluppato in verticale, ora trova la sua estensione in orizzontale, in quanto la famiglia nucleare monogamica di tipo occidentale, a prevalenza maschile o ad autorità paritaria, dunque, non è, oggi, l'unico modello familiare esistente. Occorre pertanto, dinanzi a questo smarrimento semantico del termine famiglia, pervenire ad una chiarezza identificativa, nella convinzione che la famiglia, nella storia, ha mutato tantissime volte le sue forme, ma il suo DNA è rimasto uguale. Certamente siamo dinanzi ad un passaggio storico, quasi epocale. Riconosciamo che la famiglia abbia avuto problemi in passato, ma mai era stato messo in forse, come oggi, quel plesso originario che univa matrimonio, famiglia e vita. Nella società odierna, in un tempo di egolatria, infatti, tale plesso viene scomposto e destrutturato, con la conseguenza che tutto ciò che riguarda il "noi" diminuisce sempre più nella considerazione della cultura, del diritto e della legislazione. Dunque, su quali fondamenti possiamo erigere la struttura familiare? Dall'etimologia del termine abbiamo rilevato due significati di contesto: legame e dimora. Il legame risulta alla base dell'identità familiare, persino nel linguaggio scientifico, famiglia è un'unità di classificazione di organismi che appartengono allo stesso ordine e ad uno o più generi simili. In senso più largo, in chimica, famiglia designa elementi che hanno legami affini; in matematica si parla di famiglia nel caso di enti, come curve o superfici, che dipendono da un certo numero di parametri variabili. Infine, appartengono alla stessa famiglia le lingue che hanno origine comune, come le lingue romanze, che derivano tutte dal latino e le parole che hanno la stessa radice. Anche nella riflessione filosofica è rilevante la relazionalità all'interno della famiglia. Per Aristotele costituisce il punto di inizio della società naturale. In Hobbes si eleva la famiglia a oggetto di interrogazione analitica in relazione al potere paterno, e questo, che nello stato di natura era derivato, nello stato civile è il fondamento della famiglia. L'evoluzione del legame familiare verso il privato ha una tappa importante nel pensiero di Locke. Anche Locke, come Hobbes, compie una ridefinizione del potere paterno che non è più paterno, ma parentale, e non è propriamente un potere ma piuttosto un dovere.

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Nella definizione di famiglia è rilevante, anche, il termine "luogo", non intesto in senso generico, ma luogo unico. Quel «“luogo” unico, che rende possibile il patto d'amore» come ha insistito Papa Giovanni Paolo II nella Esortazione Apostolica Familiaris Consortio. L'unicità non è data dalla coabitazione, ma dall'appartenenza allo stesso ceppo, dal nucleo originario dal quale scaturisce la stirpe generazionale. Quindi il luogo diventa unico, in quanto identitario. Ed è nel concetto di generatività il fondamentale collegamento estensionale del termine famiglia. Generatività sociale Con generatività non si deve intendere la semplice riproduzione, generare non è riprodurre, questo è tipico del mondo animale, suo fine è il mantenimento della specie, l'unicità del singolo svanisce. L'interpretazione ermeneutica di generare è dar vita a una persona, potenziare un essere unico, che ridà volto nuovo a patrimoni ricevuti, porta il peso di antichi fardelli, fa nuovi incontri e può decidere, nonché mutare il corso degli eventi. È interessante osservare che una comune matrice semantica accomuna le parole "generare", "genere" e "generazione", è a dire che generare suppone e contiene in un surplus di significato: i generi (la loro differenza e comunanza), il prodotto del loro incontro (ciò che è generato) e il riferimento alla stirpe e genealogia (il passato) entro la quale si situa la possibilità di identità del nuovo che ha visto la luce. In termini familiari il nuovo è un neo-nato presente nella unicità del suo essere al di là dei ruoli e dei compiti che è chiamato a svolgere. La persona ha valore in sé, è irripetibile, non è passibile di valore d'uso (anche se ciò può accadere ed è, appunto, una forma degenerativa) ed è da subito essere in relazione, originato da una relazione e bisognoso di relazione. Come dire che è la cultura, e non il puro "bagaglio biologico", a fare la differenza di specie e a determinare la caratteristica fondamentale dell'homo sapiens. Fa parte essenziale di tale specificità-valore il bisogno essenziale dell'altro. Il farsi della persona è intimamente legato all'interesse-cura altrui e la prova della riuscita di tale processo sta nel desiderio-impegno di prendersi cura dell'altro. La procreazione assume così, nella specie umana, il carattere di fatto generativo. Nella recente Enciclica Lumen Fidei, Papa Francesco, parla della famiglia quale luogo di dilatazione della vita, puntando l'accento su di un tema molto importante quale quello di cura e donazione. La generatività è un valore self-trascendent, non è un "tutto pieno" ed è nel riferimento e nell'elaborazione di ciò che manca che va rinvenuta la sua

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spinta vitale. Le forme di generatività favoriscono l'accettazione della morte facendo maturare l'amore per la vita. Ed è per questo che il familiare include vivi e morti, generazioni presenti, passate e da venire. Nel tema della generatività è così inclusa anche la produttività e la creatività personale e la cura-investimento nelle generazioni sociali, incentivandone lo sviluppo e impegnandosi a trasmettere loro il nutrimento valoriale che dà significato e speranza alla vita - generatività sociale. Chi sa porsi in una genuina prospettiva familiare, pensa per generazioni, vede il succedersi delle generazioni e sa essere generativo, cioè si adopera affinché la generazione successiva possa essere a pieno titolo generazione, cioè possa sentirsi generata e desiderosa di generare. Nell'atto generativo sono presenti sia aspetti di espansione, la cosiddetta agency - l'istanza narcisistica di creare qualcosa a propria immagine - ma anche aspetti di cura come dono per la nuova generazione, la communion - che può implicare anche il sacrificio di sé a favore dell'altro - finalizzata a render la persona capace e responsabile nei confronti delle generazioni a venire. La famiglia si delinea, così, quale luogo identitario di generatività sociale, è una rete di relazioni, anzi nella sua essenza sociale è un tipo specifico di relazione sociale. “La famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa e ad armonizzare i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fondamento della società” (Gaudium et Spes 52). È pertanto un fenomeno sociale totale, perchè si presenta come una messa in comune degli aspetti indifferenziati della vita quotidiana che sono sempre, e in modo mai completamente scindibile, allo stesso tempo aspetti economici, morali, politici, religiosi, giuridici. Ed è da intendersi anche come istituzione non residuale, nel senso che le sue funzioni non possono essere intese come compiti delegati dalla società che possono essere inclusi o tolti a discrezione. Dunque, la famiglia è una società relazionale. E la stessa non può essere compresa al di fuori di questa logica relazionale. Seguendo questo sentiero, si mette in primo piano l'inquadratura di una famiglia come esistenziale: preso atto delle forme differenziate di coppia, e dell’affermarsi crescente del single come ideale di vita, ancora oggi si può parlare di famiglia, intendendo con essa un tratto costitutivo del vivere umano, quella comunità in cui si può custodire la genealogia della persona. Dunque, da questa analisi sul legame familiare è emerso che la familiarità è costitutiva dell'essere dell'uomo, perché solo grazie all'esperienza della familiarità l'uomo acquisisce la sua identità soggettiva, e dunque nel riconoscer-si riconosce l'altro, e si schiude così la dimensione della socialità.

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Per completare la fisionomia dell'identità familiare, occorre però riflettere su tre principi costitutivi della stessa: il principio organizzativo, il principio simbolico e il principio dinamico. I principi categoriali del familiare Possiamo dire che, per quanto vi siano differenze nelle forme familiari, vi è un principio organizzativo comune che qualifica l'identità della famiglia. Essa infatti è quel peculiare "organizzatore relazionale" che tratta una triplice differenza, tra generi, generazioni e stirpe. Dove è finita la genealogia familiare, la funzione materna e paterna, il peso delle famiglie d'origine sono scomparse? Certamente no. Piuttosto sono finite nell'ombra, andate in latenza, devalorizzate. Nella storia e nella cultura la genealogia del familiare ha subito e subisce costantemente, valorizzazioni e devalorizzazioni. Confrontando la cultura occidentale, con quella africana, si nota che nella prima il bambino è ampiamente valorizzato e ha una posizione centrale nella sua famiglia e nella società, appartiene ai genitori e in particolare alla madre, mentre nella seconda esso è uno straniero che abbisogna di affiliazione e di "nominazione", cioè di ricevere un nome che lo identifichi e gli dia significato. Tale "nominazione" gli è fornita dal lignaggio. In questo caso è il lignaggio (antenati, famiglia allargata, stirpe) che è valorizzato, è il lignaggio che propriamente genera. Una differenza sostanziale di approccio valoriale al legame genitori e figli, ma quante volte nella nostra società i figli diventano solo un possesso, e non un essere al quale prestare cura, e quante volte si assiste al sovvertimento della relazione, e i figli fanno le veci dei genitori? E di contro invece l'"estraneo" della cultura africana, diventa l'altro degno di rispetto? Osservando i nostri mutamenti culturali si può notare, inoltre, che per lungo tempo è stata devalorizzata la reciprocità tra maschi e femmine e tra mariti e mogli ed è stato sminuito il valore del bambino come soggetto in crescita e i suoi bisogni largamente sottovalutati. Oggi tutto ciò è certamente valorizzato e siamo molto più sensibili agli aspetti di costrizione del legame, anche se falliamo culturalmente quando non ne vediamo l'altra faccia e cioè la risorsa oltre che il vincolo. Diamo valore al figlio, ma non ne curiamo il legame di valore. Quel legame intergenerazionale che ha una duplice natura; esso riguarda sia la relazione genitori-figli, sia le relazioni con le stirpi di appartenenza. La cura della responsabilità riguarda la componente simbolica del legame genitori-figli e la cura dell'eredità riguarda la componente simbolica del legame tra

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stirpi. La componente simbolica della genitorialità si può riassumere con l'espressione "cura responsabile". che è un compito congiunto della coppia. Possiamo simbolicamente connettere il polo affettivo alla funzione materna e il polo etico a quella paterna. Questa distinzione era stata messa in risalto anche nella filosofia kantiana: le relazioni familiari non sono semplicemente riducibili a rapporti consensuali: il rapporto coniugale, escluso o marginalizzato da Hobbes e Locke, salta finalmente in primo piano. La famiglia esce dallo schema che, per la polemica antipatriarcalista, metteva a fuoco sempre e solo il rapporto parentale e diviene una sfera speciale, dotata di un suo proprio fondamento giuridico. Il concetto di diritto è quello di una relazione reciproca tra esseri ragionevoli nella quale ciascuno limita la propria libertà mediante il concetto della libertà altrui. Questa definizione è raggiunta con un processo deduttivo che dall'individuo, attraverso il riconoscimento, arriva alla comunità. Come la comunità giuridica è costituita da più individui, allo stesso modo la comunità matrimoniale è costituita dai due sessi. Anche tra i sessi agisce una struttura intersoggettiva che non coincide con la loro differenza e complementarità naturale, ma è posta in essere dal loro agire libero, come rapporto di riconoscimento. Le facoltà della riproduzione –quella biologica e quella educativa- vengono ripartite tra i sessi, nella donna l'istinto sessuale prende una forma non passiva ma attiva: l'amore. L'attribuzione dell'amore alla natura femminile, e in modo secondario e derivato a quella maschile, produce le importanti conseguenze di mantenere il dualismo tra amore sessuale e spirituale e di stabilire un'asimmetria di posizione tra uomo e donna nel rapporto coniugale. Al matrimonio viene comunque attribuita una funzione di educazione morale fino ad affermare che la moralizzazione del genere umano può essere realizzata solo a partire da esso. Fiducia e speranza sono l'elemento cardine della funzione materna, sono infatti il corrispettivo psichico del dare e trasmettere la vita. Non si tratta solo dell'ingrediente affettivo delle cure rivolte al neonato, ma anche di una risorsa inestinguibile cui attingere nel corso della vita per contrastare l'angoscia e affrontare le difficoltà. Fiducia e speranza esprimono bene l'aspetto incondizionato, il dono, della relazione familiare, aspetto che è particolarmente evidente nella relazione tra madre e figlio. Il figlio che è il destinatario della cura, è degno di fiducia e speranza. L'altro polo della relazione genitoriale è quello etico. Esso è l'elemento cardine della funzione paterna, che, anche etimologicamente, è legata al patrimonio (patri-munus), alla titolarità dei beni e alla trasmissione di beni materiali e morali. Vi opera la giustizia quando la responsabilità genitoriale

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non viene esercitata o viene invertita, come nel caso di un figlio che deve assumere la parte del genitore in tempi inadatti o che diventa il partner di uno dei genitori. Vi opera anche la lealtà nel senso di sentirsi connessi e appartenenti alla storia familiare con le sue risorse e i suoi dolori. Fiducia e speranza, giustizia e lealtà, polo etico e polo affettivo, si richiamano vicendevolmente e fanno di due uno, non solo, richiedono anche che ciascuno dei generanti (madre e padre) se ne occupi. La famiglia, quale luogo relazionale è così espressione simbolica del principio organizzativo dell'unione tra poli o funzioni, quella materna e quella paterna. Va peraltro notato che oggigiorno è la funzione materna a farla da padrone: essa è collegabile al grande rilievo assunto dalla dimensione sentimentale/affettiva nella famiglia contemporanea poiché sentimenti e affetti nella cultura occidentale sono stati prevalentemente, se non esclusivamente, riferiti alla figura femminile. La cultura familiare ha via via incrementato così il valore degli affetti e ridotto il valore dell'impegno e del vincolo. trovare l'armonia tra i valori è la sfida di sempre Nella famiglia odierna non si sono persi i valori, che a volte sembrano essere addirittura posizionati su di un piedistallo, osannati in eccesso, ma si è perso l'impegno verso di essi, il riconoscimento e l'attuazione dei ruoli genitoriali e l'equilibrio della relazione di fatticità dell'essere genitore. È la cura dell'appartenenza che deve essere considerata, quella capacità dei genitori e delle loro famiglie di origine di creare legami unici con ciascun nuovo nato e così identità diversificate. Si tratta di una vera e propria capacità relazionale che permette ai fratelli di sentire l'appartenenza alla famiglia sia negli aspetti che li accomunano, sia in quelli che li rendono unici. Possiamo dire in proposito che è l'attribuzione di valore a ciascun figlio da parte dei genitori e della parentela a costituire la matrice ideale di un legame fraterno positivo. La rigida differenza tra i fratelli fa da matrice a sentimenti di rivalità, di ingiustizia, di rancore e a vissuti persecutori. La positività, di contro, è in grado di creare un codice fraterno che riguarda non solo la relazione familiare ma anche quella sociale. È infatti questo codice che permette di creare e alimentare il legame sociale. Sul riconoscimento del valore sociale alla famiglia, importante è la riflessione hegeliana. Nel Sistema dell'eticità, Hegel lega l'individuazione strettamente alla sessuazione, poiché quello tra individui di sesso opposto è il primo rapporto intersoggettivo. Nel rapporto sessuale, infatti, ciascuno dei due sessi sente nell'altro non una esteriorità estranea, ma se stesso o il genere comune ad entrambi. Il rapporto sessuale è, quindi, il punto più alto della natura vivente.

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La famiglia è l'unica struttura intersoggettiva nella quale c'è un'identità che però non è formale, non dà luogo a relazioni giuridiche. Delle tre potenze –natura, diritto, eticità- la famiglia è collocata nella seconda, luogo della società civile1. Nella Fenomenologia l'eticità però viene cercata fuori del rapporto naturale: il rapporto tra fratello e sorella è la relazione etica pura perché priva di naturalità. In questo, l'unico scritto in cui il rapporto coniugale viene messo in secondo piano, Hegel vuol dare una presentazione della famiglia che non sia fondata sull'amore ma trovi altrove il suo senso etico e la famiglia come discendenza prevale sulla famiglia come matrimonio. La famiglia è così collocata in uno "spazio intermedio" tra individuo e contesto socio-culturale; essa, insomma, avrebbe una funzione di mediazione degli scambi che intercorrono tra la persona e il contesto socio-culturale. Il movimento dalla famiglia alla comunità è all'insegna di un processo generativo quando il sentimento del legame tra le generazioni appreso in famiglia diventa interesse e cura del futuro della società. Quello che avviene tra le generazioni nelle famiglie influenza quello che avviene tra le generazioni nella società e viceversa. La famiglia quale nucleo basilare dell'ordinamento sociale è riconosciuto dall'articolo 29 della nostra Costituzione, in cui si sancisce che i membri della famiglia sono soggetti a specifici diritti e doveri, tra questi l'obbligo dei coniugi di salvaguardare l'unità familiare, nella reciproca assistenza e l’obbligo del mantenimento e dell'educazione comune dei figli fino alla maggiore età. La famiglia è riconosciuta legalmente quale soggetto economico con appositi istituti giuridici. 1 "La famiglia, acquista un interesse etico [...]. L’eticità, collegata con la generazione naturale dei figli - e che era stata posta come primaria nello stringere il matrimonio - si realizza nella seconda nascita dei figli, cioè nella loro nascita spirituale: l’educazione di essi a persone autonome. Mediante codesta autonomia, i figli escono dalla vita concreta della famiglia, cui originariamente appartengono: diventano esseri per sé, destinati per altro a fondare una nuova famiglia reale. Lo Stato è il momento dell'eticità assoluta e la famiglia, comunità etica naturale, è il momento in cui la coscienza sperimenta l'unicità nella forma dell'immediatezza. Si definisce così, tra famiglia e organizzazione politica, un rapporto di reciproco rimando. Tra natura ed eticità è così stabilita una frattura. Dunque il comportamento etico della famiglia coincide con la vita affettiva e le attività ispirate dall'amore –la cura reciproca, la gestione del patrimonio e l'educazione dei figli", G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, a cura di G. Marini, con le Aggiunte di E. Gans, Ed. Laterza, Milano 2012.

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Ermeneutica del disegno

Progetto:Valutazione delle analisi su disegni infantili Giovanna Durante

Il presente elaborato è un resoconto dell’attività di ricerca del progetto formativo svolto presso l’Istituto Comprensivo di Porto Cesareo, nello specifico trattasi dell’ermeneutica di alcuni disegni. Scenario Il disegno è uno degli strumenti d’ indagine più originali che ci permette di comprendere il “magico” mondo infantile. Con il disegno il bambino rappresenta la sua interiorità. L’ azione del disegnare nasce in maniera spontanea nel bambino e proietta all’esterno i ricordi di ciò che egli prova e sente. Attraverso l’ uso della mano , con la prensione il bimbo avvia la capacità di organizzare, strutturare , ordinare il mondo. Il segno è una fotografia sullo stato affettivo del bambino e sulla sua salute psichica. Bisogna tener presente che la personalità è frutto della combinazione tra fattori biologici , cognitivi e socio-cognitivi. Sono soprattutto le esperienze e l’educazione ricevuta durante i primi anni di vita che permettono uno sviluppo armonico della personalità. Un‘educazione positiva aiuterà l’ individuo ad essere singolo e sicuro delle proprie potenzialità. Un adulto equilibrato è stato un bambino armonico, che è cresciuto con genitori capaci di fargli scoprire il mondo senza procurargli paure. Tali genitori hanno collaborato alla crescita emozionale permettendo delle sperimentazioni “ in sicurezza”. Ciò comporta sia benessere psicofisico e la crescita intellettuale. L’attività dei bambini cambia durante la propria crescita , i livelli di espressione sono molteplice tra i quali troviamo :

- Azione, - Narrazione - Scrittura figurativa

Con l’ ingresso nella scuola primaria, poi il disegno si fonderà con le parole.

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Fin da piccoli i bambini avvertono l’ esigenza di disegnare e sfogare le loro emozioni. In particolare bambini che sono circondati da stimoli “positivi” iniziano a disegnare intorno ai 2 anni e danno vita a ciò che connotiamo con il nome dello “ scarabocchio”. Lo scarabocchiare è un’attività a cui il bambino si dedica prima ancora di parlare, è un’attività non razionale ma piena di significati e risulta essere uno strumento prezioso in quanto è in grado di fornirci indicazioni sul mondo interiore ed affettivo dei bambini. È a partire dallo scarabocchio che il bambino inizia a costruire il linguaggio scritto ossia la comunicazione, egli dialoga con il mondo degli adulti. Il bambino per poter scarabocchiare deve aver raggiunto un certo grado di maturazione del sistema nervoso che gli permetta la capacità di muovere la mano con la penna sul foglio, infatti tutta la muscolatura ed il sistema neurologico devono esser armonicamente accordati per produrre un “segno” . ll segno è considerato nella semiotica un’unità di significato, ossia un sistema composto da un segno, un referente e una referenza che rimanda al senso ( contenuto). A tal proposito prendiamo in considerazione il triangolo semiotico di Peirce.

Tuttavia tale maturazione segue tappe ben definite ma lo sviluppo di queste attività può avvenire precocemente in alcuni bambini ed in ritardo in altri. Il lavoro di analisi ha preso in considerazione la soglia di età compresa tra i 5 e i 6 anni, in quanto il disegno ed il colore assumono significati e non sono più fine a se stessi come accade nella fase dello “ scarabocchio” . Report di ricerca Lo scenario preso in considerazione al fine di realizzare tale progetto è stata la fascia di età tra 5 e i 6 anni. In questa fase emergono le prime forme di figura umana. Il bambino si addentra nella fase figurativa. Da tener conto che

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dallo scarabocchio però hanno origine sia il disegno che la scrittura. Disegnando la figura umana il bambino proietta in modo inconscio se stesso, infatti, è possibile, notare delle somiglianze tra la figura rappresentata e le caratteristiche del bambino stesso. Egli esprime la percezione del proprio corpo ed attraverso il disegno della figura umana si potrà valutare il livello di maturità emotivo-affettiva del bambino, cioè la sicurezza e la stabilità che caratterizzano la sua vita . Inoltre avremo un’ idea del livello di evoluzione grafica e quindi lo sviluppo cognitivo raggiunto dal bambino , infatti, il disegno segue gli stadi evolutivi secondo l’età. Già dai 3 anni in poi viene rappresentato l’ uomo “girino “, lo schema corporeo non ha ancora raggiunto la maturazione adatta e la strutturazione della figura umana è decisamente parziale , infatti , la percezione che il bambino ha di se stesso è quella di essere principalmente una testa. In questa età, infatti, egli impara a chiudere il cerchio che nel disegno è la testa nella quale poi inserirà gli occhi come elemento di definizione. A 4 anni iniziano ad essere rappresentate alcune parti del corpo , le gambe e le braccia sono disegnate con tratti uguali attaccate alla testa. Entrambe sono percepite dal bambino come le braccia dell’ adulto che lo proteggono . A 5 anni il disegno della figura umana assume le caratteristiche di una persona e l’omino appare completo, le gambe e le braccia vengono collocate al punto giusto , vengono rappresentati il naso , la bocca , i capelli , le orecchie , i piedi . A 6-7 anni nel disegno si aggiungeranno altri elementi realistici come le dimensioni. Il disegno infantile permette di disegnare ciò che i bambini percepiscono come un pittore dipinge ciò che prova. Il disegno è arte ed ha un senso: quel senso in atto, quel senso più segreto di un vissuto. Il disegno diviene così la chiave d’ accesso del mondo interiore del bambino. Il bambino dice Lipman :è un essere creativo e non una “tabula rasa” ma un essere già pieno di teorie sul mondo , che sono ragionevoli nella misura in cui sono cariche di significati2. Altro elemento di analisi è stata la proporzione e la posizione con cui i bambini hanno rappresentato gli oggetti e le persone sul foglio. Sicuramente è un modo di attirare l’attenzione di chi guarda il disegno Nel disegno il bambino avverte il bisogno di aprire l’oggetto e applicare la tecnica “dell’ appiattimento”, animando gli oggetti. Il disegno infantile e un’arte perché utilizza un linguaggio grafico proprio e si fa carico di messaggi comunicativi. Un altro oggetto di analisi è il colore, l’effetto del colore ha un valore psicologico rilevante. Tra gli oggetti disegnati è risultato che la casa è quello più ripetuto. Il disegno della casa ha un importante contenuto emotivo in quanto essa è il luogo dove il bambino vive e cresce, in cui vive le sue gioie e le sue paure. A 4- 5 anni il disegno della casa è definito con particolari rilevanti ossia porte e finestre. A 5-6 anni la casa è rappresentata con

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maggiori particolari come le dimensioni. Successivamente i particolari disegnati aumentano e si aggiunge il paesaggio, quindi il sole, le nuvole, gli alberi ecc. .L’ espressione del mondo interiore infantile è il disegno. Con il disegno il bambino rappresenta il suo livello psico-fisico. Il lavoro di analisi ha considerato la soglia di età tra i 5-6 anni Il bambino inizia a disegnare le figure umane. Il bambino inizia a rappresentare “l’uomo girino” già dai 3 anni. La percezione che il bambino ha di se stesso è quella di essere principalmente una “testa”, le braccia e le gambe sono disegnate con tratti uguali e attaccati al corpo. I bambini iniziano a collocare il naso , la bocca , i capelli e il vestiario solo successivamente. Nel disegno il bambino sente il bisogno di aprire l’oggetto e disegnarlo con la tecnica “ dell’appiattimento”. Importante è l’ animismo che caratterizza gli oggetti . Analisi L’ analisi condotta mette a confronto disegni realizzati sia da bambini di sesso maschile e femminile, compresi tra i 5- 6 anni come fascia di età , su tematiche come la famiglia e la percezione che i bambini hanno di se stessi. È stato richiesto agli insegnanti di mettere a disposizione il materiale per la realizzazione dei disegni. I bambini sono stati divisi da me in gruppi da 11-12 componenti. Come metodologie sono state usate: l’osservazione partecipante. Le seguenti categorie interpretative sono state prese in considerazione:

- la collocazione del tratto grafico nello spazio. Lo spazio del foglio indica il modo con cui il bambino si pone nei confronti di se stesso e dell’ ambiente.

Sono stati presi in considerazione i quattro vettori elaborati da Max Pulver3 dai quali possiamo ricavare importanti informazioni : - Alto : lo spirito , la mete , l’ ideale , l’ immaginazione , l’ aspirazione - Basso: l’ inconscio , l’ istinto ,la sessualità , la nutrizione , la motricità , il sogno - Sinistra : la madre , il passato , l’introversione , la regressione , la repressione . - Destra : il padre , l’ avanti , la progressione , gli altri , l’ altruismo , l’ attività , l’ aggressività . - Spazio troppo riempito o vuoto al centro ( rappresentazione di sé ) . - Spostamento verso l’ alto ( gli ideali , le aspirazioni , la sublimazione degli istinti , la valorizzazione della sensibilità ) - Spostamento verso il basso ( rapporto con la materia , istinto vitale e sessuale , l’ inconscio) - Spostamento verso sinistra : (rapporto con il passato : esperienze , vicende

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piacevoli o spiacevoli - Spostamento verso destra : ( verso il futuro , progetti , programmi , le conquiste )

Collocazione spazio-temporale Nell’ osservare i disegni e gli oggetti, risulta che il 90% occupano la maggior parte del foglio. Inoltre risulta che le bambine tendono ad occupare di più gli spazi del foglio rispetto ai maschi. Lo spazio è stato occupato secondo le seguenti percentuali: 55% la figura è stata collocata al cento: dall’ermeneutica di tali disegni la lettura che ne deriva è che il bambino che si colloca sul foglio in questo modo ha un comportamento egocentrico e auto- centrato; 30% la figura di sé è stata collocata nella parte alta del foglio: ne deriva una rappresentazione che schiude la fantasia e i sogni; 5% la figura è stata collocata in basso: indice di insicurezza;

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5% la figura è stata collocata nella parte sinistra: rimando alla figura materna, dunque all’indipendenza; 5% la figura è stata collocata vero il lato destro: ne rappresenta il tendere verso il futuro, quindi l’atteggiamento di estroversione.

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Tratto

Il tratto ci fa comprendere la personalità del bambino . Se il tratto è sicuro e fluido , ci troveremo di fronte ad un bambino aperto , socievole , oppure potremo avere un tratto incerto e tremolante con chiaro- scuri e ciò sta a significare che il bambino necessita di rassicurazioni ed incoraggiamenti soprattutto di fronte a prove che per lui risultano difficoltose. Tale bambino può aver timore dell’incontro con gli altri e del confronto con l’ ambiente circostante.

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La pressione , infine, esprime la sua struttura psicofisica e il temperamento del proprio carattere . Una pressione forte e marcata indica un bambino che ha determinazione . Al contrario, il bambino che preme poco sul foglio, che ha, quindi, una pressione debole e leggera, possiede una personalità sensibile ed una bassa tolleranza alle frustrazioni. Proporzioni

Nei disegni analizzati le proporzioni della case o dei soggetti sono per la maggior parte grandi . Le proporzioni grandi, inoltre, prevalgono più nelle bambine che nei bambini.

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Il colore

Con una percentuale del 90% il colore blu è presente nei disegni, sottolineando la rappresentazione di serenità e di proiezione.

1 Filosofia e formazione , 10 anni di Philosophy for Children in Italia ( 1991-2001), a cura di A. Cosentino, Liguori Editore, Genova 2002. 1 Max Pulver , La simbologia della scrittura ,Boringhieri, Torino 1983.

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L’anima in scena

Antonio Stanca David Grossman è uno dei maggiori autori contemporanei, ha prodotto in molte direzioni, è molto tradotto e molti riconoscimenti ha ottenuto. È nato a Gerusalemme nel 1954, ha sessant’anni e vive con la famiglia nei pressi di questa città, a Mevasseret Zion. All’Università di Gerusalemme ha studiato Filosofia e Teatro. Ha cominciato a lavorare come corrispondente e attore radiofonico per la radio israeliana dove è stato anche presentatore di programmi per bambini e conduttore di altre serie fortunate. Ai primi anni ’80 risale l’inizio della sua produzione che dai romanzi si estenderà a libri per bambini, a saggi e al teatro. Sempre successo avrà con i suoi lavori qualunque sia il loro genere. Grossman diverrà una figura di primo piano nell’ambito della contemporanea cultura ebrea e mondiale, un intellettuale di rilievo anche perché non è rimasto lontano dai gravi problemi attraversati dal suo paese, dalle guerre alle quali Israele si è trovato continuamente esposto. Tramite saggi, conferenze e interventi pubblici di ogni genere ha sempre preso parte a quanto avveniva, ha esortato a cercare soluzioni pacifiche, ha invitato a non procedere solo in nome delle proprie pretese ed a far posto anche alle volontà, ai bisogni degli altri. Solo se si recuperano i valori, i principi più veri, più autentici, quelli dell’anima, dello spirito, solo se si guarda in se stessi, ha sempre sostenuto, si può sperare d’incontrarsi con gli altri, di scambiare, corrispondere con loro. Un nuovo umanesimo è quello perseguito dal Grossman nonostante i tempi siano contrari a tali messaggi. Maggiormente impegnato nei suoi programmi si è fatto vedere da quando, nel 2006, ha perso uno dei tre figli, Uri, nella guerra israelo-libanese. Il pensiero dell’amore, della pace, del bene, è costitutivo della sua personalità, è quello che lo ha indotto a scrivere libri per bambini e che emerge da ogni sua opera narrativa. Non solo l’attivista e il saggista ma anche lo scrittore vuole dar voce ai richiami interiori, ai sentimenti, vuole annullare le differenze, le distanze, le fratture. Vedi alla voce:amore, il romanzo del 1986, dove racconta la Shoah attraverso gli occhi di un bambino, divenne un caso letterario. E’ unanimemente considerato il suo capolavoro e servirebbe a mostrare come il Grossman scrittore abbia proseguito nella stessa direzione degli altri suoi impegni, come sia giunto ai giorni nostri ed abbia pubblicato Applausi a scena vuota,1 un’altra ampia storia dell’anima.

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Singolare è il procedimento seguito dal Grossman in questo romanzo rispetto agli altri. Dalla prima all’ultima pagina unico è il protagonista, il cinquantasettenne ebreo Dova’le Greenstein, che nell’Israele dei tempi moderni vive facendo cabaret. E’ piccolo, basso, con il volto pieno di brufoli, gli occhiali dalle lenti molto spesse. Era stato così fin da bambino quando era figlio unico di una famiglia di lavoratori. In casa aveva subito la violenza del padre, fuori lo scherno e i maltrattamenti dei coetanei e dei compagni di scuola. La madre gli era stata l’unica persona vicina, cara e per lei aveva cominciato ad esibirsi in casa quando stavano soli, ad improvvisare piccoli spettacoli comici, ad imitare scene comiche viste al cinema, a camminare capovolto, sulle mani. « Io recitavo sketch, mi esibivo in imitazioni, cantavo con una scopa a mo’ di microfono. Per anni, ogni sera, ho fatto un intero spettacolo. Papà non ne sapeva nulla, non ci ha mai colti in flagrante.»2

L’immagine della madre che lo guarda, lo applaude, lo incoraggia, gli fa pensare di valere, di essere importante, gli fa superare quella condizione d’inferiorità, d’isolamento, di esclusione che ovunque ormai lo segue. Ma quando aveva quattordici anni, mentre con i compagni di scuola era in un campeggio paramilitare per svolgere degli addestramenti, aveva perso la madre ed era rimasto solo con il padre. Aveva lasciato la scuola e cominciato a vivere di espedienti di ogni genere fino a pensare di recuperare, di coltivare quella precedente sua disposizione allo spettacolo che tanto faceva divertire la madre. Come aveva fatto ridere lei così pensa di poter far ridere degli spettatori nei locali pubblici, nei teatri e in questi comincia a fare l’intrattenitore, il barzellettiere, il comico, il buffone. Di uno di questi spettacoli narra Applausi a scena vuota, di quello offerto da Dova’le in un teatro della sua città, Netanya, la sera del suo cinquantasettesimo compleanno. Del lungo, interminabile soliloquio tenuto quella sera da Dova’le si compone l’opera. Sarà interrotto solo da qualche breve scambio con qualcuno degli spettatori ma sarà generalmente Dova’le a parlare, a non fermarsi mai e non solo per far ridere come era conosciuto ma anche per dire di sé, della sua vita, della sua storia, dei suoi cinquantasette anni che erano stati pure quelli dell’Israele del primo’900. Attraverso il racconto delle sue vicende farà scorrere un’epoca intera, farà sapere quanto è avvenuto, è cambiato durante tale periodo, quanto era stato difficile per lui, che già veniva da un’infanzia sofferta, trovare una collocazione in ambienti dove col procedere dei tempi moderni sempre più ridotto diveniva lo spazio per chi aveva problemi interiori. Ancora più escluso si era sentito Dova’le né lo aveva aiutato la comicità scelta come mestiere. Anche quella sera a Netanya il pubblico, che era venuto per divertirsi, per assistere ad uno spettacolo di cabaret, non mostrerà di apprezzare Dova’le che vuole ricordare la sua vita, i suoi drammi. Egli si accorgerà e cercherà di rimediare

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inserendo nel lungo discorso momenti comici, facezie, barzellette, facendo il buffone con le parole e con i gesti, giungendo a dividersi tra il tragico e il comico, il pianto e il riso e mostrandosi capace di saper interpretare le due parti, di saper essere doppio. Ma la situazione, pur se durerà per qualche tempo, tornerà a farsi unica, cioè tragica, e il pubblico scontento, irritato, comincerà ad abbandonare la sala fino a lasciarlo con pochissimi spettatori e alla fine soltanto con due suoi coetanei, la donnina gobba e il compagno di scuola diventato giudice. Completamente “vuota” è diventata la “scena”, solo è tornato Dova’le nelle pagine finali della narrazione. Il ricordo dei suoi tormenti, la loro comunicazione non sono serviti a riscattarlo. Quando sono dell’anima i problemi non finiscono mai: il romanzo si conclude dopo aver mostrato quanto sia vera questa regola, quanto sia stato abile l’autore a rappresentarla in tal modo, a costruire intorno ad un luogo comune una vicenda così eccezionale, ad esprimerla con un linguaggio così ricco, così sicuro da non trascurare nessun particolare fosse della realtà o dell’idea, del corpo o della mente. Tutto ha fatto dire Grossman dal suo buffone, lo ha fatto uomo più degli altri, lo ha arricchito di capacità, conoscenze, verità, con lui ha dimostrato che dallo spirito insieme alle pene vengono pure le qualità.

1 In Italia il romanzo è stato pubblicato a Novembre 2014 dalla casa editrice Mondadori di Milano. La traduzione è di Alessandra Shomroni (pp.176). 2 Ivi, p.142.