READER'S BENCH magazine - giugno 2014

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READER’S BENCH IL MAGAZINE DI RB CAMBIA VESTE, DICCI LA TUA! http://www.readers-bench.com/ 23 marzo 2014 magazine

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READER ’SBENCH

IL MAGAZINE DI RB CAMBIA VESTE, DICCI LA TUA! http://www.readers-bench.com/23 marzo2014

magazine

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S O M M A R I Og i u g n o 2 0 1 4

7Il mondo vuole novelle

scritte a macchina di Clara Raimondi

8Intervista a Stefania Manzi,

cover artist del numerodi Clara Raimondi

12Speciale premio strega

di Daniele Campanari

14Intervista a

Michele Smargiassadi Claudio Turetta

17Warhol

di Emanuela Ciacci

23Col nostro sangue hanno

dipinto il cielo di Valoentina di Martino

24Reader’s kitchen

di Clara Raimondi

26Evoluzioni stilistiche

di Danylù Louliette Kazhan

30Speciale scetticismo

a cura di Diego Rosato

36Little readers

di Clara Raimondi

38Self pub

di Claudia Peduzzi

40In guerra non ci sono mai stato

di Daniele Campanari

42 Cinema

di Francesca Cerutti

44Intervista a

Emanuela Papini di Daniele Campanari

47Magi

di Jessica Marchionne

48Intervista a

Fabiano Alborghettidi Simone di Biasio

52Finzioni

di Chiara Silva

E su http://www.readersbench.com/ READER' BENCH: TUTTO IL MONDO DEI LIBRI SU UNA PANCHINA

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54Intervista aN.K Jemisin di Valentina di Martino

trad. di Rocco Alessandro Mattei

56Tea partydi Nicoletta Tul

58Young writers

di Clara Raimondi

62Ebook

di Clara Raimondi

64Intervista a

Elisabeth Herrmanndi Claudia Peduzzi

68Intervista a

Marco Marroccodi Simone di Biasio

Direttore editoriale: Clara RaimondiDirettore responsabile: Simone di Biasio

Vicedirettore: Diego RosatoEditorial designer: Veronica di Biasio

Ufficio Stampa: Sara e Elena [email protected]

Segretaria di redazione: Cristina Monteleone

Cover Artist: Stefania Manzi

Redazione:Emanuela Ciacci

Marcello D’OnofrioClaudio Turetta

Rocco Alessandro MatteiNicoletta Tul

Daniele CampanariClaudio Volpe

Alessia SpinellaMattia Galliani

Danylù Louliette KazhamValentina Di Martino

Jessica MarchionneClaudia Peduzzi

Chiara Silva

Si ringraziano:Stefania Manzi

Michele SmargiassiFrancesca CeruttiEmanuela Papini

N.K. JemisinElisabeth HerrmannFabiano Alborghetti

READER’S BENCH: TUTTO IL MONDO DEI LIBRI SU UNA PANCHINA - Blog Letterario

Reader’s Bench è una rivista culturale senza scopo di lucro, pertanto non rappresenta una testa giornalistica in quanto i contenuti vengono aggiornati senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della

legge n.62 del 07/03/2001.Reader’s Bench is licensed under a Creative Commons. Attri-buzione- Non commerciale- Non opere derivate 3.0- Unported

License.Note Legali:

Clara Raimondi

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dicono della coverm a r z o 2 0 1 4

Clara Raimondi

Alle nuove sfide!Finalmente!!Cari Readers siamo online e sì se vi sta-te chiedendo il perché di questo ritardo

nonno avete seguite le ultime vicende della panchi-na. Un hacker si è impossessato e ha distrutto il no-stro spazio virtuale e questo ha allungato i tempi per l’uscita di questo numero.Stiamo già lavorando al nuovo blog e tra poco po-trete di nuovo accomodarvi sulla panchina e, nel frattempo, potete ingannare l’attesa con questo nuo-vo numero di Reader’s Bench Magazine.Continua il progetto grafico della nostra editorial designer, Veronica Di Biasio, e l’impegno nell’of-frirvi contenuti di qualità.Ritornano, come al solito, le interviste, le rubriche, gli approfondimenti che hanno fatto della panchina una delle webzine più lette ed apprezzate in Italia.Il cover artist di questo numero è Stefania Manzi, illustratrice de La Stampa che sta per arrivare in li-breria con una nuova edizione de le Novelle fatte a macchina di Gianni Rodari. Uno dei personaggi delle sue fantastiche storie si è accomodato sulla panchina per raccontarci la sua storia.

GIUGNO

Il numero si completa con le interviste a due ospite straniere: Elisabeth Herrmann e N.K. Jemisin, due grandi esclusive sulla panchina.Poi sarà la volta di Emanuela Papini, Michele Smar-giassi che gestisce il blog dedicato alla fotografia su Repubblica, Andrea Malabaila scrittore e direttore editoriale di Las Vegas Edizioni e di Fabiano Albor-ghetti, direttore di Atelier online.Due speciali, come ogni numero: uno dedicato allo scetticismo con recensioni e approfondimenti e uno con tutti i libri finalisti del Premio Strega e i nostri pronostici.E poi come al solito ci saranno le recensioni, le in-cursioni nel mondo del cinema, del fumetto e chi più ne ha ne metta.In attesa della ritorno del nostro blog, vi lasciamo alle pagine di questo nuovo numero.

Seguiteci sui nostri social con l’hashtag #RBMag

Io sono Clara Raimondi, vi aspetto sulla panchina e su [email protected]

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Nel turbinio della via moderna, nello squal-lore quotidiano di notizie poco confor-

tanti c’è bisogno di qualcosa che infonda speranza e voglia di con-tinuare a combattere.Non tanto per noi, abituati a tanto squallore, per i piccoli che devo-no imparare e crescere proprio in questo mondo voluto e costruito dai grandi.Ecco allora che arrivano provvi-denziali Le novelle scritte a mac-china di Gianni Rodari che stan-no per tornare in libreria (proprio questo luglio).Ritornano a farci compagnia e ad infondere una buon dose di otti-mismo personaggi come Carletto Palladino che non si scompone minimamente all’arrivo di un’a-stronave proprio davanti al suo banchetto di souvenir a Pisa.

Ed i racconti proseguono ed ar-rivano fino al Colosseo e a Ve-nezia e si insinuano nella vita di tutti giorni per far comprendere a grandi e piccini che poi il nostro pianeta non è così brutto come sembra e che la realtà può essere vista con occhi nuovi e che quello che conosciamo può subire stra-bilianti capovolgimenti dando li-bero accesso all’immaginazione.E così non tutto è perduto e la fan-tasia e l’humour ci permettono di scoprire il mondo al di fuori delle logiche che ci siamo imposti.Scoprire il fantastico e il suo rap-porto con il reale permetterà ai piccoli di comprendere meglio la realtà e a noi adulti offrirà una nuova chiave di lettura.Un classico della narrativa per ra-gazzi e non solo sta per tornare in libreria.Vogliamo perderlo?

IL MONDO VUOLE NOVELLE SCRITTE A MACCHINA

a cura di Clara Raimondi

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Illustratrice per La Stampa sta per arriva-re in libreria con una nuova edizione de Le novelle fatte a macchina di Gianni Rodari per Edizioni EL (in uscita il prossimo luglio). Una sfida non da poco, basti pensare ai giganti che l’anno preceduta (come Altan, ndr), che testimo-nia la volontà di Einau-di di puntare su un nuo-vo talento emergente. L’abbiamo scoperta in un’autoproduzione, ap-prezzata in un video di Clio Zammatteo (al se-colo Cliomakeup) e tra le pagine de La Stampa ed ora sulla cover di Reader’s Bench Maga-zine. Scopriamo chi è Stefania Manzi e come nasce il suo mondo fatto di immagini e colori e soprattutto: chi è il per-sonaggio che si è acco-modato sulla panchina?

STEFANIA MANZI È IL COVER ARTIST DI QUESTO NUMERO

Ciao Stefania! Grazie di aver accettato di essere la cover artist di questo numero. Ti ho conosciu-to come artista sul capitolo II di Amenità, quello dedicato ai fantasmi e poi ti ritrovo illustratrice per la Stampa e non dimentichiamoci la tua col-laborazione per Cliomakeup.Chi sei Stefania? Raccontaci la tua storia e so-prattutto in quale di questi progetti ti riconosci di più?Ciao e grazie a voi per avermi introdotto nel vostro mondo. Sono Stefania, ho 28 anni, vivo a Torino dove lavoro come illustratrice freelance e ogni tan-to anche come cameriera.Da piccola ho sempre avuto la passione per il dise-gno, i libri e la carta in generale, che poi ho trascu-rato un po’ nell’adolescenza.Dopo il liceo linguistico, come tante persone, mi sono sentita disorientata, ho lavorato per qualche anno tenendo da parte un po’ di soldini e mi sono iscritta allo IED qui a Torino, dove ho frequentato il corso di illustrazione per l’infanzia, e da qui è partita la mia avventura.Finito il corso ho più che altro iniziato a lavorare a progetti personali per riempire il portfolio e dopo mi sono buttata; ho mandato mille mail e pubbli-cato le mie illustrazioni su tanti blog, soprattutto americani. Piano piano, con un po’ di fortuna, ho cominciato a

a cura di Clara Raimondi

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muovere i primi passi verso il mondo oscuro e te-nebroso dell’editoria…. scherzo, in realtà la mag-gior parte delle volte mi è capitato di lavorare con persone davvero gentili, disponibili e soprattutto oneste!Mi sono divertita tantissimo a lavorare in collabo-razione con Cliomakeup e con gli altri due ragazzi coinvolti. Credo che lavorare quando si ha carta bianca sia molto più divertente e stimolante piuttosto che do-ver seguire delle direttive precise, e poi si nota su-bito nelle illustrazioni se un lavoro è stato forzato o no.

Come definiresti il tuo stile? Chi o cosa ispira quotidianamente il tuo lavoro e come definiresti il tuo mondo immaginario?Personalmente non so come lo descriverei, tanti lo definiscono naifCerco di giocare molto sulle forme semplici e co-lori piatti. Uso pochissimo la prospettiva (anche perché non sono molto portata, ma non diciamolo a nessuno…)Quello che mi ha aiutato tantissimo all’inizio e che ha aiutato a formare il mio stile è stato ispirarmi alle atmosfere dei film o ascoltando delle canzoni particolari degli anni ‘50-’60.Per me la scelta e l’accostamento dei colori sono importantissimi e molto spesso sono quello che da carattere ad un’illustrazione e che la fa distinguere dalle altre.Ovviamente col passare del tempo è sempre più difficile mantenere viva la creatività e ad essere

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costantemente ispirati; cerco di guardarmi attorno, guardo film e serie tv, ascolto musica, ogni tan-to vado a qualche mostra e cerco di fare qualche piccolo viaggetto; poi e se proprio sono bloccata vado a farmi una passeggiata... il più delle volte funziona!Il personaggio accomodato sulla panchina è uno dei protagonisti di Novelle fatte a Macchi-na di Gianni Rodari. Chi è e soprattutto come è nata questa collaborazione con Einaudi? Vo-gliamo conoscere la data di uscita e qualche an-ticipazione e soprattutto le tue emozioni. Come ti senti a sostituire in un’impresa così impor-tante, artisti come Altan che prima di te hanno illustrato le novelle di Rodari?La collaborazione è nata abbastanza per caso. Quando mandi tante mail a tanti editori capita an-che che ti rispondano!Mi hanno proposto subito la realizzazione di una nuova edizione del volume “Novelle fatte a mac-china” di Rodari.Il mio primo vero e proprio libro illustrato, scritto da Rodari!! Lo stesso Rodari di cui imparavo a me-moria le filastrocche quando ero piccola!E’ stata per me un’emozione grandissima e anche una bella soddisfazione; allo stesso tempo però, come dici tu, ne deriva anche un grande senso di re-sponsabilità ad illustrare un autore così importante.In realtà poi ho lavorato con molta serenità e liber-tà, grazie anche alle persone della redazione che sono sempre state super gentili e disponibili.Il libro dovrebbe uscire a luglio.Il personaggio seduto sulla panchina è “Il pescato-re di Ponte Garibaldi”; lui ci prova ad acchiappare qualche pesce ma non gli riesce proprio!Il libro è pieno di personaggi davvero bizzarri e di situazioni improbabili ed è divertente da morire!

Abbiamo conosciuto il tuo prossimo impegno ma siamo troppo curiosi di conoscere i proget-ti che bollono in pentola e soprattutto che cosa stai leggendo di bello.Per adesso sono impegnata settimanalmente con La Stampa, dove illustro la rubrica Cuori allo Specchio di Massimo Gramellini, e intanto lavoro ad altri piccoli progetti tra cui le illustrazioni per un festival per bambini che si terrà questa estate. Nessun grande progetto per il momento, ma quelli arrivano sempre quando meno te lo aspetti!Sul mio comodino al momento c’è “Follie di Bro-oklyn” di Paul Auster, e in contemporanea, fermo a 20 pagine dalla fine, “Gli uomini delfino” di Tor-sten Krol.

www.stefaniamanzi.com https://www.flickr.com/stefaniamanzi/

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Su i bicchieri: nasce il Premio StregaEra il 1944 e sarà stato l’inverno, la pri-mavera o l’estate. Non sarebbe cambiato niente. Maria e Goffredo Bellonci, insie-

me a Guido Alberti, si chiamano a raccolta. Tema dell’incontro: il futuro. Il futuro loro condannato in un dopoguerra che sembrava infinito. Si chiamano a raccolta, dunque. E con loro un gruppo di giorna-listi, scrittori, artisti, letterati, gente appartenente a partiti politici: un gruppo di Amici. Con la A maiu-scola, sì. Perché va dato merito a questo gruppo di squilibrati che nel 1947 battezza il Premio Strega. Come? Senza acqua religiosa, certo. Uno shot di Liquore e via alle danze letterarie che attendono il primo vincitore assoluto, un certo Ennio Flaiano che va in gol con il libro Tempo di uccidere. Gli Amici della domenica Dice: “È domenica!”. “Quindi?!”. “Dobbiamo es-sere amici”. Potrebbe essere andata così immagi-nando un dialogo tra due o più teste. Il fatto è che questi Amici non si sa se siano amici davvero. Di certo sarà difficile vederli pascolare su campi di calcetto il mercoledì, o al cinema per la nuova proiezione natalizia. Se non altro per la questione legata ai numeri. Sono quattrocento i giurati addetti a proporre titolati simpatizzati. Pur-ché facciano coppia. Già, perché per presentare un candidato devi essere accompagnato. Altrimenti la simpatia suscitata resta ancorata a impresari d’aiu-to che, stai a vedere, non arriveranno mai. Poi c’è la selezione indipendente al numero dei candidati. Che siano quattordici, venti o centocinquanta sa-ranno sempre 12 i sottoposti alla prima scrematura. Poi, a giugno, la cinquina delle opere finaliste. E alla fine ne resterà soltanto uno. Gli amici della polemica: Unastoria a fumetto Che tu sia nato oggi, da un mese o nascerai, sappi che sei e sarai soggetto della condivisione del ‘C’è sempre la prima volta’. Eccola qua, dunque, la pri-ma volta del Premio Strega. Dice: “Oh, sai che tra i dodici selezionati del 2014 c’è una graphic novel?”. “Una graficche?!”. Due-

L’OSCAR DELLA LETTERATURA

MA ANCHE DELLA POLEMICA

milaquattordici. Mica sessant’anni fa. Come a dire che tutto cambia, si aggiorna. Anche se i tempi, in superficie, la sanno corta. Il Premio Strega, essen-do il riconosciuto più importante tra i premi lette-rari, è un composto di polemica. Come ogni giudi-zio, come ogni aspettativa. Quest’anno la polemica tocca la presenza di que-sta benedetta graphic novel: un romanzo a fumetti. Niente di strano. All’apparenza. Perché? Perché prova a portare un fumetto a Villa Giulia (quartier generale della premiazione) e vedi che succede. Scatta la polemica, appunto. Ho sentito dire da uno dei ventisette candidati (ah, è un record) che il suo libro doveva arrivare alme-no ai dodici perché se è passato un fumetto, beh, doveva andarci pure il suo manoscritto. Però quan-do gli ho chiesto di condividere al megafono la po-lemica s’è rintanato: “Ti pare che io voglia essere intervistato per questa cosa?!”. Vabbè. Insomma la polemica: Gipi - Unastoria - Coconino Press. Eccolo il fattaccio, eccoli i processati: autore - li-bro - editore. Che tu sia poco avvezzo alla lettura del fumetto ci può stare. Ma ci sarà un motivo se Gianni Pacinotti, Gipi per tutti, ha venduto quaran-tamila copie con La mia storia disegnata male, uno dei precedenti pubblicati? Quarantamila caproni?

a cura di Daniele Campanari

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Può darsi. Fatto sta che tal Gipi non è lo sprovve-duto del lunedì. Figuriamoci se può esserlo della domenica. Dunque, dico, che la polemica si plachi. Perché lui è tra la dozzina. E l’altro no.

C’è un Piccolo favorito Detto di Gipi, bisogna dire degli altri giocatori a comporre l’undici più uno in campo. Il favorito della lunga vigilia è Francesco Piccolo con Il desi-derio di essere come tutti (Einaudi) presentato da Paolo Sorrentino e Domenico Starnone. Già l’ap-poggio è da Oscar con La Grande Bellezza che ap-pare e resta ancorata sullo sfondo. Poi, dico, il tito-lo ha un aspetto invitante con quel desiderio legato al tutti. Ma proprio tutti. Due indizi non faranno una prova. Perché con lo Strega non si sa mai. L’antagonista è Antonio Scurati con Il padre infe-dele (Bompiani) presentato da Umberto Eco e Wal-ter Siti. Non ci sarà l’Oscar cinematografico. Ma certamente c’è quello letterario con due pezzi da novanta della nostra vita romanzata, uno dei quali, Siti, è il campione in carica. A un passo da questi ci sono Giuseppe Catozzella con Non dirmi che hai paura (uno dei due Amici è Roberto Saviano) edito da Feltrinelli e Marco Magini con Come fossi solo (Giunti). Tutte storie diverse, belle a modo loro. Se tanto mi dà tanto l’albo d’oro verrà aggiornato con uno di questi nomi.

Curiosità: le donne dello StregaAd oltre sessant’anni dall’istituzione, dieci donne han-no vinto il Premio: per prima, nel 1957, Elsa Morante, seguita da Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Lalla Romano, Fausta Cialente, la stessa Maria Bellonci,-Mariateresa Di Lascia, Dacia Maraini, Margaret Maz-zantini e Melania G. Mazzucco.

L’albo d’oro dal 2000 a oggi

I dodici finalisti del 20141. Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) di Giusep-pe Catozzella presentato da Giovanna Botteri e Roberto Saviano2. Lisario o il piacere infinto delle donne (Mon-dadori) di Antonella Cilento presentato da Nadia Fusini e Giuseppe Montesano3. Bella mia (Elliot) di Donatella Di Pietrantonio presentato da Antonio Debenedetti e Maria Ida Ga-eta4 Unastoria (Coconino Press-Fandango) di Gipi presentato da Nicola Lagioia e Sandro Veronesi5. Come fossi solo (Giunti) di Marco Magini presentato da Maria Rosa Cutrufelli e Piero Gelli6. Nella casa di vetro (Gaffi) di Giuseppe Mun-forte presentato da Arnaldo Colasanti e Massimo Raffaeli7. La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie) di Francesco Pecoraro presentato da Giuseppe An-tonelli e Gabriele Pedullà8. La terra del sacerdote (Neri Pozza) di Paolo Piccirillo presentato da Valeria Parrella e Romana Petri9. Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco Piccolo presentato da Paolo Sorrenti-no e Domenico Starnone10. Storia umana e inumana (Bompiani) di Giorgio Pressburger presentato da Gianfranco De Bosio e Sergio Givone11. Ovunque, proteggici (nottetempo) di Elisa Ruotolo presentato da Marcello Fois e Dacia Ma-raini12. Il padre infedele (Bompiani) di Antonio Scura-ti presentato da Umberto Eco e Walter Siti

2000 Ernesto Ferrero N. Einaudi2001 Domenico Starnone Via Gemito Feltrinelli2002 Margaret Mazzantini Non ti muovere Mondadori2003 Melania G. Mazzucco Vita Rizzoli2004 Ugo Riccarelli Il dolore perfetto Mondadori2005 Maurizio Maggiani Il viaggiatore notturno Feltrinelli2006 Sandro Veronesi Caos Calmo Bompiani 2007 Niccolò Ammaniti Come Dio comanda Mondadori2008 Paolo Giordano La solitudine dei numeri primi Mondadori2009 Tiziano Scarpa Stabat Mater Einaudi2010 Antonio Pennacchi Canale Mussolini Mondadori2011 Edoardo Nesi Storia della mia gente Bompiani2012 Alessandro Piperno Inseparabili Il fuoco amico dei Mondadori

2013 Walter Siti Resistere non serve a niente Rizzoliricordi

L’albo d’oro dal 2000 a oggi

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Dottor Smargiassi buongiorno, tu scri-vi su un blog di Repubblica chiamato Fotocrazia: come è nata questa idea?Avevo appena scritto un libro, Un’au-

tentica bugia, sulla storia della manipolazione in fotografia e sulla presunte “rivoluzione digitale”. Era ancora in tipografia e già avrei voluto cambiar-lo, correggerlo, aggiungere cose e riflessioni. Ho pensato che esiste - grazie alla “rivoluzione digita-le”.... - uno strumento che permette di scrivere una specie di libro “in progress”, e oltretutto di farlo assieme ai lettori. Ne ho approfittato. Velocemen-te, i temi del blog hanno poi scavalcato i confini del libro. E adesso forse è dal blog che potrebbe nascere un libro, ma vedremo.

Come detto l’idea principale del blog è crea-re una piazza dove discutere e parlare di fo-tografia: può essere definito un esperimento ben riuscito?In parte sì, senza eccessiva retorica. Più che una piazza un caffè dove il gestore porta un vassoio di cose in tavola e i clienti fanno le loro osservazioni. C’è chi critica la “lentezza” del blog (i commenti devono essere “moderati” da me, e questo com-porta attese da qualche minuto ad alcune ore) ri-spetto all’istantaneità dei social network. Di fatto, anche io discuto delle cose del blog su Facebook, ma credo che un po’ di tempo per riflettere meglio prima di scrivere non guasti mai. Lo dico anche a me stesso.

Da un blog ad un altro, oggi incontriamo Michele Smargiassi, giornalista che sulla piattaforma web del quotidiano Repubblica è autore di uno dei più autorevoli blog di fotografia in Italia, “Fotocrazia”.Andiamo a conoscere lui ed il suo blog.

a cura di Claudio Turetta

INTERVISTA A

MICHELE SMARGIASSI

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Cosa ne pensi dell’evoluzione della fotografia dalla pellicola al digitale?Se nessuno avesse inventato Internet, sarebbe uno dei tanti mutamenti tecnologici che hanno segnato al storia della fotografia, dalle emulsioni pancro-matiche all’esposimetro incorporato... Ciò che ha davvero fatto al differenza, e ha prodotto pratiche della fotografia che ne possono cambiare profonda-mente il carattere, è la possibilità della condivisione simultanea e della disseminazione universale.

L’evoluzione del mezzo fotografico e la nascita dei social network porta anche ad una evoluzio-ne del concetto di Fotografia?Appunto, dicevo. La fotografia sui Sn è qualcosa che non è mai esistito prima: se gli album di fami-glia erano la base per una conversazione, le foto-grafie condivise e disseminate sono quella conver-sazione, sono le parole di una conversazione mul-tilaterale e continua, fatta anche con le immagini. Credo che l’abitudine alla fotografia condivisa (che tutti in un modo o nell’altro frequentiamo) alla fine cambierà il nostro modo di pensare anche alle altre pratiche della fotografia. Di fatto, lo sta già cambiando.

Non credi che ultimamente la fotografia venga ingabbiata in cliché..Ultimamente, cioè da 170 anni. La fotografia ha sempre assorbito e rilanciato i luoghi comuni vi-suali delle sue diverse età. La nostra ha i suoi cli-ché: un certo uso dei colori, per esempio.

Esistono in Italia spazi e situazioni dove gli ap-passionati possano trovarsi a parlare di foto-grafia e dei suoi contenuti?Frequento spesso i festival fotografici e li trovo interessanti, anche se gli spazi di discussione che offrono sono molto spesso più quelli al bancone

del bar durante le pause che non quelli delle con-ferenze ufficiali. Credo che un ruolo importantissi-mo continuino a svolgerlo i circoli fotografici, che non sono più, almeno non tutti, quello che erano qualche decennio or sono. Credo molto nei circoli, sono il periscopio migliore nella cultura fotografi-ca diffusa.

Occorre essere bravi nel raccontare o l’impor-tante è avere qualcosa da raccontare?Con le fotografie? Non vedo la differenza fra le due cose.Puoi darci il nome di un fotografo che negli ul-timi anni ti ha sorpreso?Mi hanno sorpreso le fotografie dei bambini e dei ragazzini. C’è moltissimo da imparare sulla foto-grafia sfogliando l’album Facebook di un adole-scente.

Ti viene in mente qualche post che ha provocato più reazioni polemiche rispetto ad altri?Accidenti, sì. Ogniqualvolta tocco alcuni tasti de-licati, si alzano grida: il copyright, la condivisione e la citazione delle immagini sul Web, le fotografie di matrimonio (sono suscettibilissimi, i “matrimo-nialisti”...), la presunzione dell’autore, che a mio parere la fotografia mette in crisi... Se fossi inte-ressato al click-teasing, parlerei solo di questi ar-gomenti.

Sul blog si parla spesso di libri: qual è la fonte da cui prendi spunto?Be’, per parlare di libri è abbastanza importante leggerli, prima.

Di recente una nota showgirl ha pubblicato un libro che racconta la sua vita attraverso le foto: è il solito prodotto di autocelebrazione oppure può essere valutato come un prodotto che rac-conta uno spaccato o una generazione?Non so a chi si riferisce, ma capire come una pro-

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fessionista dell’immagine passa dall’altra parte bdella lente, che cultura visuale ha assorbito, qua-li modelli riproduce o contesta, a me incuriosisce molto.

Consiglieresti qualche libro in particolare ai nostri lettori?Be’, tanti. Fondamentali per me sono stati Foto-grafia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari ne Per una filosofia della fotografia di Vilém Flusser. Mi è capitato di consigliare molto spesso L’infinito istante di Geoff Dyer, i libri di Fred Ritchin, quelli di Ariella Azoulay (purtroppo non tutti tradotti in italiano), ma raccomanderei a tutti di cominciare con i classici, senza paura di apparire “vecchio sti-

le”: Barthes, Sontag, Benjamin... E di non leggere solo libri di fotografia.

In chiusura, qual è il consiglio spassionato per chi ama la fotografia?Non smettere di fotografare, ma prima di ogni scatto chiedersi “perché faccio questa foto?”.

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Lo ammetto: sono una persona recidiva. Non c’è altra spiegazione. Perché il mio spirito classico cozza non poco con l’arte contemporanea. Ma puntualmente, per

qualche oscura ragione, mi ritro-vo incastrata fra le spire di qual-che mostra dedicata. E cedo. So-prattutto se mi regalano biglietti! Qualche anno fa mi regalarono dei biglietti per la mostra sulla Pop Art e coinvolsi, suo malgra-do, un povero ingegnere tontolo-ne trascinandolo per le orecchie alle Scuderie del Quirinale. Sta-volta l’invito ad essere presente il giorno dell’inaugurazione della mostra dedicata interamente ad Andy Warhol nelle sale di Pa-lazzo Cipolla mi è arrivato via e-mail. Ma ho abilmente evitato di trascinarci qualcuno e di mie-tere un’altra vittima. Peccato, però. L’ipotetica vitti-ma si è persa un’esposizione di circa 150 capolavori curata da Peter Brant, noto collezionista, grande amico dell’artista nonché presidente della Fondazione da cui provengono le opere. La col-lezione nasce nel 1967, quando lo stesso Peter, poco più che venten-ne, decise di comprare per la prima volta un disegno della celebre Campbell’s Soup. E continuò a farlo creando una delle più importanti collezioni di arte contemporanea sul globo. Le ope-

ANDY WARHOL È ARRIVATOA ROMA!

«Non è forse la vita una serie di immagini che cambiano solo nel

modo di ripetersi?»(A.W.)

a cura di Emanuela Ciacci

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re esposte raccontano non solo l’attento ed inten-so scambio culturale fra l’artista ed il collezioni-sta. Ma anche lo sviluppo artistico e professionale di un uomo che ha collaborato a modificare a suo piacimento la concezione dell’arte. In fondo, prima della Pop Art, chi avrebbe potuto immaginare che una bottiglia di Coca-Cola, simbolo per eccellenza della società capitalistica americana, sarebbe potuta diventare un’icona dell’arte? Il termine “Pop” non è altro che la contrazione del-la parola anglosassone “popular”. Ma attenzione: non è un’arte del o per il popolo: è un’arte di massa prodotta in più copie, in serie. I critici inglesi han-no così definito il fenomeno artistico che ha avuto origine negli Anni ‘60 in terra americana e che si è presto diffuso anche altrove creando sconcerto e scalpore fra l’opinione pubblica. La Biennale di Venezia del 1964 è da considerarsi la consacra-zione ufficiale della Pop Art sulle scene artistiche mondiali: il premio dedicato all’artista straniero fu consegnato a Rauschenberg, spostando in questo modo l’ago della bilancia dal Vecchio Continente agli Stati Uniti. Il discorso iniziato dai primi artisti della Pop Art è quanto mai contemporaneo: questa, infatti, muove dalla (triste) constatazione che viviamo in mezzo a soggetti di pura concezione industriale. Siamo continuamente bombardati da infiniti messaggi pubblicitari, scritti a caratteri cubitali nei cartelloni lungo le nostre strade, oppure stampati in milio-ni di copie sulle pagine dei giornali o trasmessi in maniera capillare nelle nostre abitazioni attraverso la televisione ed Internet, al quale, grazie alla mo-derna tecnologia, siamo connessi in ogni momento della giornata, in qualunque posto noi ci troviamo. Sono per lo più messaggi che hanno un linguaggio specifico, spesso criptato ma che (purtroppo) la nostra mente (manipolata, plasmata ed indirizza-ta verso un’ideologia tipicamente “consumistica”)

è in grado di decifrare in maniera automatica. Ne siamo talmente condizionati che abbiamo impara-to a modificare anche il nostro modo di vedere e di capire la realtà che ci circonda.Warhol, figlio di una coppia di immigranti ceco-slovacchi, dapprima studia arte e, successivamen-te, negli Anni ‘50 debutta in quella che in gergo si chiama “commercial art” come illustratore per riviste e disegnatore pubblicitario. Dall’idea per un lavoro commissionato da un negozio di calza-ture nascono le scarpette a foglia d’oro, realizzate nel 1957. Probabilmente è il sogno di ogni donna avere una scarpetta impreziosita da qualche gio-iello. Credo che la colpa sia tutta da imputare alla

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favola di Cenerentola, quando la fanciulla se ne va di corsa ad un ballo con delle scarpette di cri-stallo. Immaginate le espressioni sognanti delle donne che, come me, si sono soffermate davanti a questo disegno su carta, in inchiostro, stagnola e foglia d’oro. Ho veramente sognato di indossarla, quella scarpetta. La fantasia è andata ben oltre. Ma non vi starò a tediare ulteriormente! La mostra si apre così: una scarpetta dorata affiancata da una

sequenza di esempi di blotted line, riconoscibi-li dai più grazie a quel segno fine e non sempre continuativo che permetteva a Warhol di “elimina-re” le tracce dell’intervento manuale dell’artista e, soprattutto, di ottenere numerose copie successive partendo da uno stesso originale.Il mio viso sognante si è poi trasformato in un grosso punto interrogativo quando, invece, mi sono ritrovata davanti le prime prove della Cam-pbell’s Soup e Coke, nonostante la notorietà dei soggetti. Come sempre, dietro un’opera c’è sem-pre un perché, una motivazione profonda. Nel caso della scatoletta di zuppa pronta e della Coca-Cola, il discorso si fa molto “articolato”: cercherò, quin-di, di andare con ordine. Abbiamo accennato qualche riga fa come Warhol è entrato, subito dopo gli studi, nel mondo del la-voro: ha iniziato la carriera come disegnatore pub-blicitario. Ma l’attenzione dell’artista fu catturata da un ben preciso tipo di pubblicità: quella di mas-sa, che gli permise di riflettere in maniera accurata su quanto accadeva intorno a sé. Le immagini, gli slogan, i fumetti di Dick Tracy e le confezioni di detersivi e cibi in scatola stimolarono l’estro cre-ativo di questo giovane, il quale, in poco meno di trent’anni (dal 1960 al 1987) arrivò ad essere la personalità di spicco della Pop Art americana. I suoi dipinti e le sue sculture hanno come oggetto prodotti di largo consumo carpiti indifferentemen-te dagli scaffali di un supermercato (le scatole del-la zuppa Campbell, le bottiglie di Coca Cola e le scatole del sapone Brillo), dalle pagine di cronaca nera di un quotidiano (incidenti stradali o le imma-gini di una sedia elettrica), dal mondo del cinema (Marilyn Monroe) o della politica (Che Guevara). L’impianto serigrafico della produzione artisti-ca fu il suo cavallo di battaglia: la ripetizione di uno stesso soggetto su vasta scala gli permetteva

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di svuotare di ogni significato anche le immagini più toccanti, usando, di fatto, lo stesso linguaggio della propaganda pubblicitaria. L’artista era infatti convinto che la gente comprasse solo ciò che gli era noto, elevandolo al grado di oggetto-simbolo della società dei consumi: proprio per tale motivo tutto ciò che ne fa parte, può prestarsi tranquilla-mente ad essere artisticamente rappresentato. Gli oggetti preferiti sono i cibi quasi mai naturali ma preferibilmente conservati, disidratati e surgelati: alimenti ideati per chi non ha tempo e voglia di cucinare. Warhol sceglie gli oggetti più comuni e spesso sciatti, perché il suo intento è proprio quel-lo di togliere all’arte l’intellettualità che ha sempre avuto per renderla, così, commerciale: con la tec-nica serigrafica le opere d’arte vengono private del concetto di prezzo unico, diventando così un vero prodotto di largo utilizzo. La Campbell’s Soup è l’esempio eclatante di quanto detto finora: un pro-dotto da supermercato rende artistico il quotidiano oppure, al contrario, smitizza l’arte. Il consumo dell’immagine non risparmia nulla che sia in qualche modo pubblico. E proprio questa è la tematica sottesa allo sviluppo stesso della Pop Art: l’utilizzo di elementi presi dalla pubblicità, dal ci-nema, dai giornali, dai fumetti, per la realizzazione di opere d’arte che decontestualizzano l’oggetto e infondono in esso un nuovo significato, rendendolo glorioso con pochi tocchi accorti. E quindi, con la stessa logica, possono essere consumati anche i miti cinematografici, politici e musicali. Questo, quindi, non sta a significare che le masse si intendono di tali argomenti ma che anche qui contano le immagini esposte più che la bravura del singolo attore o musi-cista, o della teoria governativa del politico. E così, una coloratissima Liz Taylor (1963) ed una serie di Mao Tse-Tung (1972) vengono consacrati all’arte. Probabilmente la scelta di utilizzare come soggetto dei suoi disegni il politico cinese, fu una delle più

vincenti: Mao è da considerarsi l’icona per eccel-lenza del potere assoluto, divenendo, grazie alla sa-pienza dell’artista, una delle immagini più utilizzate dai sistemi di comunicazione sul globo. Come le scatole del detersivo Brillo.In altre parole, in un mondo completamente stra-volto dall’estremizzazione della produzione indu-striale, la Pop Art guarda al complesso di stimoli visivi che circondano l’uomo, respingendo in que-sto modo l’interiorità e l’istintività: il consumismo eletto a sistema di vita, il martellamento pubblicita-rio ed il fumetto visto come veicolo ultimo di comu-nicazione scritta sono i fenomeni dai quali gli artisti attingono le motivazioni per le loro opere. La Pop Art pone al centro dell’attenzione quegli oggetti da cui siamo perennemente circondati ma di cui non percepiamo più neanche l’esistenza tanto ne siamo assuefatti. Un altro aspetto della società dei consumi lo ricava dai quotidiani da cui estrapola notizie tragiche e violente. Dai mass media ricava quella consapevo-lezza della catastrofe che comunicherà attraverso alcune delle sue opere più forti, spesso denominate semplicemente Disaster: si va dalle ormai celeber-rime sedie elettriche ad altri strumenti della vio-lenza come pistole e coltelli, ma anche alle imma-gini dei criminali più ricercati sul suolo americano. Anche la serie di Skulls rientrano in questo campo: verranno, infatti, definiti come i “ritratti di tutti”. Di questa violenza che spadroneggia nel mondo ri-marrà vittima lui stesso in seguito all’attentato da parte della femminista radicale Valerie Solanas che lo ridusse in fin di vita. Le sue apparizioni pubbli-che diminuirono in maniera radicale ma la vicen-da passò quasi inosservata per via dell’uccisione di Bob Kennedy che avvenne due giorni dopo. Dice Warhol di quei giorni: «Mentre mi sparavano era come se stessi guardando la TV e questa sensazione perdura. I canali cambiano, ma è sempre televisio-

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ne…Quando mi sono svegliato in quel posto sco-nosciuto – non sapevo di essere all’ospedale né che avevano sparato a Bobby Kennedy il giorno prima – ho sentito vociferare su migliaia di persone riu-nite a pregare nella cattedrale di St. Patrick, poi ho sentito la parola ‘Kennedy’ e questo mi ha riportato al mondo della televisione e in quel momento ho realizzato che ero vivo, e che soffrivo».La tematica della morte si intreccia ed a tratti coin-cide con il fascino delle celebrità e della bellezza, dando vita al tema della bellezza fatalmente con-dannata dalla società dei consumi: soggetto scelto da Warhol è Marilyn Monroe. La serie di raffigu-razioni a lei dedicata ha inizio successivamente al suicidio della giovane attrice avvenuto nel 1962. A pensarci bene, anche la prima raffigurazione di Liz Taylor avvenne sotto il segno della mortalità: Warhol la rappresentò durante un suo periodo di grave malattia. Diceva Warhol: «Non sento di rap-presentare i maggiori sex symbol del nostro tem-po in alcuni miei quadri, come Marilyn Monroe o Elizabeth Taylor. Semplicemente, ai miei occhi la Monroe è una persona come tante. Se sia simbo-lico o meno dipingere la Monroe con tonalità così violente ? E’ un ideale di bellezza, lei è bella e se qualcos’altro è bello sono i colori carini, tutto qui. O forse c’è dell’altro. Il quadro della Monroe era parte di una serie che stavo realizzando, ispirata a persone che erano morte in vari modi. Non vi era nessuna ragione profonda in assoluto per fare la serie della morte, non erano vittime del loro tem-po; non vi era nessuna ragione in assoluto per far-la, solo una ragione superficiale». Sono presenti, in mostra, altre opere diventate con gli anni vere e proprie icone: diverse copie dei Red Elvis, il 192 One Dollar Bills, i primi Flowers (quelli del 1964, pensati come se fossero eccen-triche e sgargianti carte da parati) e le Ladies and Gentlemen (una serie dedicata alle Drag Queen

newyorkesi).Non poteva assolutamente mancare una sezione dedicata alle polaroid: la fotografia permise all’ar-tista di documentare la sua intensa vita sociale, fat-ta di innumerevoli incontri con personaggi celebri. Tutta la sua ritrattistica su tela deriva da fotografie che lui stesso eseguiva nel suo studio. È importan-te ricordare, in questo contesto, di come Warhol fosse a dir poco ossessionato dal raggiungimento della notorietà, della fama, sia da parte sua che de-gli altri che lo circondavano. Vedeva le fotografie come un “who’s who” dello spettacolo, della cul-tura ma anche dell’industria mondiale. Era come raggiungere l’immortalità. Presente anche una versione di Oxydation Pain-ting. Si tratta quasi sempre di opere di grandi di-mensioni, la cui realizzazione è piuttosto semplice, al contempo mi lascia sempre un po’ basita. Veniva preparata una tela coperta da uno strato di vernice fresca a base di rame. Dopodiché Warhol da solo o in compagnia dei suoi collaboratori più stretti o dei suoi amici, cominciava ad orinarci su. In questo modo la vernice a base di rame andava incontro ad un processo di ossidazione incontrollata che fa-ceva uscire tinte verdognole o arancioni. Da qui il secondo nome di “Piss Painting”.A chiusura della mostra, oltre ad un Camouflage del 1986, è esposto un omaggio al nostro grande Leonardo da Vinci: Last Supper. La serie dedicata al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie prese vita, a seguito di numerose richieste del gallerista Jolas, nel biennio 1985-1987 ed è solamente una delle ri-letture serigrafate e fluorescenti dei capolavori del Rinascimento italiano a cui Warhol ha lavorato. Fu l’ultimo (e profetico?) lavoro dell’artista, poiché morì il 22 febbraio 1987 a New York in seguito ad un (banale) intervento alla cistifellea.A distanza di oltre venti anni dalla sua morte, ri-mane sicuramente l’artista più popolare del nostro

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intervistaa t u p e r t u

tempo. Probabilmente l’unico il cui stile è rico-noscibile anche a chi è completamente digiuno di arte. Per conoscerlo meglio, consiglio la lettura del libro intitolato Andy Warhol, scritto da Danto Ar-thur C., edito da Einaudi. Lo considero un buon saggio in cui biografia e critica estetica si intrec-ciano naturalmente, amalgamandosi fra loro. L’au-tore ricostruisce passo passo l’evoluzione artisti-ca e filosofica di Warhol, le reazioni della critica relative al suo esordio sulla scena americana e al rapporto personale con quel Rauschenberg che si fece ben notare durante la Biennale di Venezia del ‘64. In questo breve saggio viene anche offerto un parallelismo fra una lettura delle opere warholiane considerate più emblematiche e le loro implicazio-ni socio-filosofiche, con uno scarto netto rispetto alle esperienze artistiche precedenti, specialmente quelle collegate al Dadaismo di Duchamp. Poche pagine in cui ci viene mostrata nella sua totalità l’icona della Pop Art che si è impressa in maniera indelebile nelle nostre menti.

Che altro dire...Buona mostra a tutti!

Info mostra http://www.romeguide.it/mostre/warholpalazzocipolla/warhol.html#biglietti

Info libro: Titolo: Andy WarholAutore: Danto Arthur C.Prezzo: € 18,50Dati: 2010, 149 p., ill. Traduttore: Carmagnani

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In una Tokyo colorata ma spersonalizzata si muovono i pensieri e le azioni di Shun, un host giovane e bello, acclamato dalle clien-ti del Perfume, locale dove lavora. Shun si

esibisce attraverso l’illusione dell’amore fino a quando non incontra Toru, un ragazzo fuori dal giro abituale di conoscenze che chiede di vedere il vero Shun e non quello che appare durante la notte. Ma chi è un host? In Giappone gli host sono de-gli escort. I servizi offerti non includono i sesso. Ma un sottile e delicato corteggiamento. Durante il racconto, Toru chiede al protagonista perché ven-ga pagato. E lui risponde “Soltanto per parlare. Corteggiarle, o ascoltarle, o consolarle... essere gentile, insomma. Le cose che non si aspettano dagli altri uomini. Pagano per sentirsi amate, e io fingo di amarle.”Col nostro sangue hanno dipinto il cielo è un racconto di circa trenta pagine di Eleo-nora C. Caruso edito da Speechless Books. In que-ste pagine la Caruso esprime con poesia e un taglio decisamente pop, uno spaccato di vita che a primo impatto risulta lontano da noi per cultura, ma il

COL NOSTRO SANGUE HANNO DIPINTO IL CIELO

a cura di Valentina Di Martino

trittico argomentativo principale è universale: so-litudine, amore, malinconia. Perciò, anche se non siete legati al Giappone, lasciate che la scrittrice vi spieghi, vi accompagni nella Tokyo moderna senza pregiudizi e frustrazioni.

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READER'S KITCHENa cura di Clara Raimondi

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Un altro numero di Reader’s Bench Ma-gazine, un altro appuntamento con la cucina, il benessere per tutti i Readers amanti dei manuali, dei ricettari e chi

più ne ha più ne metta.Non dimentichiamo anche che in questo mese è stato lanciato l’Expo 2015 che si occuperà proprio di alimentazione.Più di 140 i Paesi partecipanti, migliaia di eventi e soprattutto la possibilità unica di discutere del fu-turo del nostro pianeta. Un appuntamento unico nel suo genere che punterà l’obbiettivo sull’alimenta-zione e sulle nuove sfide offerte da una popolazio-ne in costante crescita che deve essere nutrita.Quale paese poteva ospitare un evento del genere se non l’Italia? Milano, ma tutto il territorio na-zionale,dovrà testimoniare, con la lunga tradizione gastronomica che lo contraddistingue, il rapporto che da sempre lega l’uomo alla terra e ai prodotti che essa produce.Nell’attesa che tutto prenda avvio (ricordiamo che l’Expo inizierà il 31 ottobre 2015) e dopo i festeg-giamenti della Festa della Repubblica, occasione ghiotta per riportare in auge l’importanza della manifestazione, noi di Reader’s Bench terremo sempre uno spazio aperto per parlarvi dell’evento e delle pubblicazioni che, siamo sicuri, inonderan-no gli scaffali delle librerie.Adesso però è tempo di segnalarvi le novità più

importanti che, come al solito, mischiano editoria, televisione e cucina.Partiamo da Giorgione. Orto e cucina (Gambero Rosso, 160 pagg, 18 euro). L’oste Giorgio Bar-chiesi che incanta i telespettatori di Gambero Ros-so Channel arriva, finalmente, in libreria con la sua storia e le sue ricette.Marco Bianchi è diventato proprio un guru, un punto di riferimento per tutti quelli che vogliono mangiare senza rinunciare al gusto e sono atten-ti alla propria salute. Con 50 minuti, 2 volte alla settimana (Mondadori, 154 pagg, 14,90 euro), il ricercatore ci propone ricette e suggerimenti per mangiare in modo sano e restare in forma.Caterina Balivo torna in tv dopo una pausa durata qualche anno con Detto Fatto, il programma con-tenitore campione di ascolti di questa stagione. Un’idea non originalissima che prende spunto dal web ma che ha funzionato alla grande tant’è che, in collaborazione con Rizzoli, sono nati due ma-nuali del programma. L’ultimo in ordine di uscita è quello dedicato alla cucina: Detto Fatto. la cucina ricetta per ricetta (Rizzoli, 142 pagg, 14,90 euro).Dimagrire con la dieta mediterranea è invece il libro di Giorgio Calabrese, il dottore che dispen-sa suggerimenti in tv arriva anche in libreria. Una guida su uno stile alimentare che è sempre appar-tenuto al nostro paese ma che si è perso con la glo-balizzazione (Cairo, 192 pagg, 14 euro).

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Dal Paranormal Romance allo steampunk, dal goth al cyber-punk e al mainstream, Emanuela Valentini, scrittrice talentuosa e eclettica, ci stupisce ancora con un nuovo progetto. Una serie di cinque mini roman-zi suburbani. Il titolo della serie è Red Psychedelia. Ciascuna storia uscirà in formato ebook in maniera indipendente, con un proprio sotto titolo.Io ho letto i primi tre episodi in anteprima per voi, e ancora una volta la magia della Valentini mi ha conquistata.Ho seguito in questo ultimo anno l’evoluzione stilistica dell’au-trice. Ho letto ogni suo roman-zo o racconto da lei pubblicato. Tutto il materiale disponibile è stato da me analizzato, apprez-zato e studiato per comprendere non solo il genio dell’esordien-te, quant’anche alcuni processi dell’editoria italiana.Emanuela Valentini fa il suo esordio per Speechless book, con il romanzo “La Bambina senza Cuore”, una fiaba gotica che, a mio avviso, ha tutto l’aspetto di un romanzo di formazione. Lo stile è aulico ma non pesante,

EVOLUZIONI STILISTICHE E DI GENERE NELLA PROSA

a cura di Danylù Louliette Kazhan

molto dettagliato nelle descrizio-ni di luoghi e situazioni, ricorda molto gli autori classici.Leggendo attentamente le sue prime opere si deduce nello stile della Valentini, una forte conta-minazione da parte di quegli au-tori francesi e inglesi che hanno dato il via allo Sturm Und Drang, ma non solo.Si possono cogliere sapori Love-craftiani, incubi alla Poe, riflessi Flaubertiani, ma anche rumori di Hesse, Pulmann, Dostoevskji e altri dello stesso calibro.La prosa di questa autrice è so-gnante, trasporta il lettore, let-teralmente, in mondi fantastici, lo fa vivere all’interno dei suoi personaggi. Non è come leggere un libro o guardare un film...no, è come vi-vere un film! Qui forse possiamo riscontrare il primo punto a “sfavore” per Emanuela V. Mi sono chiesta come mai que-sta autrice non ha avuto ancora il successo che merita. Come già detto, scrive egregiamente, le sue trame sono originali, intri-cate, labirintiche eppure molto chiare e sempre risolutive.

Le novità in uscita e critica all’editoria italiana

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EVOLUZIONI STILISTICHE E DI GENERE NELLA PROSA

a cura di Danylù Louliette Kazhan

Crea personaggi unici, vivi, con spessore, tridimensionali. Niente cliché, neppure laddove alcuni argomenti vengono talvolta for-zati (per esempio il mistico e il religioso), anzi, dà sempre una sua interpretazione personale e univoca delle cose, rendendole in ogni caso credibili e opinabili. E allora cos’è che fa andare avanti autoruncoli talvolta me-diocri (spesso mi vergogno per loro, leggo dei romanzi privi di trama e spessore, piatti come il mare nella bonaccia di agosto, ma non altrettanto cristallini ed emozionanti), lasciando indietro invece, autori con più capacità e originalità? (Non mi riferisco solo a Emanuela Valentini, ci sono molti esordienti validi che spesso non vengono valorizzati).Pare che in Italia l’originalità sia un crimine. Un difetto.Pare che nel nostro paese, nel mondo dell’editoria, nessuno punta sull’emozione reale. Tutti hanno bisogno di una storia “normale”, per persone “norma-li”, con vite “noiose e normali”, che possano immedesimarsi in ciò che leggono. E cosa serve per poter creare quest’alchimia?Semplice! Mescola insieme tra-me che somigliano ad altre tra-me (di film, serie o romanzi di successo), aggiungi personaggi

con personalità non ben defini-te, malleabili al punto giusto, in grado di poter essere chiunque e voilà! Il lettore medio impazzirà. E le case editrici il più delle volte vogliono questo. Vendere senza ritegno qualsiasi spazzatura pos-sa piacere alle donnine che han-no bisogno di vivere avventure nei libri. Blogger con ormoni impazziti (prendo come esempio il successo ottenuto da Obsidian della Armentrout... Brrrr... racca-pricciante), ragazzine in delirio per il “Bello e Maledetto”, ma non impossibile da raggiungere, quello che si innamora alla fine, sempre della sfigata di turno, che non ha niente di speciale, anzi, la sua specialità è proprio essere normale!Ovvio che, in questa mia critica sto’ “caricaturizzando” un po’ le cose, analizzando, in ogni caso, solo una parte di questi fenomeni editoriali, riprenderò l’argomen-to in altra sede.Ciò che mi ha meravigliata, è stata la bravura che l’autrice ha dimostrato anche in questo caso.Ha preso la favola di Cappuccet-to Rosso, ha reinventato lo spa-zio e il tempo in cui i protagoni-sti si muovono, ha trasformato il bosco in una jungla urbana, fat-ta di mezzi velocissimi, rotaie, fumi, neon, caos, enormi mercati e tanto altro. Ha dato un nome a Cappuccet-to Rosso, chiamandola Halley, come la Cometa (leggendo il ro-

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manzo si capirà perché) ha rivo-luzionato, rovesciato, invertito, reinventato i ruoli del cacciatore e del lupo, ha dato un’esaltante immagine della “nonnina”, cre-ando intrecci esilaranti e dando un nuovo volto a questa favola. A mio parere l’ha riscattata. Non vorrei fare polemica anche sui metodi educativi delle famiglie e sulle deviazioni che hanno alcune favole, ma non vi è mai capitato di sentire genitori, che per zittire i figli dicono: se non stai buono chiamo il lupo?Il lupo! Questo essere spavento-so e malvagio! E’ un cane, par-liamoci chiaro. Un cane neppure troppo grosso. Che non ha mai mangiato nessuno, se non la non-nina di Cappuccetto Rosso. E non sarà forse il retaggio di questa favola che ha creato que-sta errata espressione? Questa fa-vola ha fatto crescere intere gene-razioni di bambini con il terrore del lupo cattivo. E bravo il cacciatore. Uccide il lupo e salva tutti! nella realtà i cacciatori uccidono per sport povere bestie innocenti. Ebbene, Emanuela Valentini si dimostra più concreta nella sua favola, ma non aspettatevi nulla, tanto troverete il contrario.Ma come accennavo all’inizio di questo articolo, non c’è solo un cambio di genere in questo nuovo romanzo, ma anche una variazio-ne di stile.La prosa è più asciutta, scompa-re l’aulicità che la caratterizzava,

ma resta comunque la poesia, che serpeggia tra le righe, con semplicità, la poesia che permea la vita di tutti i giorni, non più descritta ma intrecciata in ma-niera ordinaria agli eventi.Tutto è cambiato: linguaggio, personaggi, struttura narrativa, impatto visivo. Eppure rimane inconfondibile la capacità di raccontare e creare universi alternativi così vicini al nostro, da renderli possibili.Parlando con un altro autore di rilievo, dissi una frase a propo-sito della scrittura di Emanuela Valentini: “questa ragazza è in grado di rendere interessante persino il banale atto di andare a fare la spesa, non guarderai mai più il banco frigo allo stesso modo dopo che lei te lo ha rac-contato.”Insomma, stay tuned, questa nuova favola cyberpunk verrà pubblicata a puntate da Delos Digital, la prima uscita, dal tito-lo La sindrome di Cappuccetto Rosso è prevista per il 3 giugno.Se amate la buona scrittura, le belle storie e l’azione, avete tro-vato l’autrice giusta.

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Reader’s Bench è sempre più social

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SCUSATE SE NE DUBITOa cura di Diego Rosato

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La sto-r i a

del l’umanità è ciclica: sen-za scomodare Gianba t t i s t a Vico, pensate alla storia che avete studiato a scuola, rileg-getela da un punto di vista macroscopico e ditemi se non trovate dei mo-tivi ricorrenti, come un impero che diventa troppo grande e fini-sce per disgregarsi, per poi esse-re sostituito da un nuovo impero che subirà la stessa sorte. La cultura non fa eccezione, anzi è una chiara dimostrazione di quanto dico. Vi basta un buon manuale di storia della fotografia (che cito come esempio perché mi è più familiare e limitato nel tempo) per rendervi conto di come i vari movimenti artistici non facciano che ripresentarsi periodicamente, oscillando dal realismo all’astrattismo, piutto-sto che dall’interesse per la cro-naca al puro esercizio artistico. Nella filosofia spesso si assiste a un fenomeno simile, un’oscillazione tra dogmatismo e scetticismo. A partire da quando Pirrone fon-dò la sua scuola in contrapposi-zione (più o meno aperta) a quel-la di Parmenide, per arrivare fino alla contrapposizione tra Ideali-smo ed Esistenzialismo.

Io sono uno scettico. Lo sono sempre stato, anche ben prima di sapere cosa ciò volesse dire. Fin da bambino non facevo che fare e farmi domande e se c’era una cosa che mi mandava in be-stia erano risposte come “Perché è così” o Non puoi capire perché sei un bambino”. L’essenza dello scetticismo è questa: è vero che lo scettico è fondamentalmente convinto che non potrà mai conoscere a pieno la realtà, ma ciò non diminuisce, anzi, dà maggiore spinta alla sua necessi-tà di ricercarla. E pazienza se i dogmatisti non ci comprendono, ci dicono che non si può vivere senza avere fede in qualcosa, affermano che anche l’ateismo è una religione, ecc. Tutti questi loro assunti per noi diventano domande, nuovi sti-moli, sebbene ce ne siano di migliori, a investigare, cercare, dubitare. Noi scettici siamo fatti così: a credere, preferiamo conoscere,

rassegnati al fatto che ma-gari quello che sappiamo è poco, ma si-curo. Nei prossimi articoli, af-fronteremo lo s c e t t i c i s m o (e il dogmati-smo) in alcuni ambiti speci-fici del sapere e del costu-

me umano, precisamente nella scienza, nella religione e nella superstizione. Per ognuno di questi aspetti, ovviamente, con-siglierò una lettura in tema.

Per approfondire “Storia dello scetticismo” di Ri-chard H. Popkin, Bruno Monda-dori, 309 pagg, 11,00 euro

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recensionen e w s

Se c’è un ambito in cui c’è bisogno di scetticismo questo è la scienza. La prima legge di Clarke (di

cui vi ho già parlato) afferma che quando uno scienziato famoso e anziano dice che qualcosa è pos-sibile, quasi certamente è vero. Mentre quando uno scienziato famoso e anziano dice che qual-cosa non è possibile, quasi cer-tamente ha torto. Questo non è altro che un velato e ironico invi-to a non fossilizzarsi sulle verità scientifiche preesistenti. Perché nella scienza una teoria è vera solo finché qualcuno non dimo-stra il contrario.Per esempio nella storia lo scetti-cismo porta al revisionismo, nel-la fisica Einstein, partendo dalla corrente filosofico-scientifica del fenomenismo, ha messo in di-scussione la fisica classica e ha creato la teoria scientifica più fa-mosa (e misconosciuta / travisata / abusata) della storia e così via.Perché l’errore più grande che uno scienziato possa fare è ave-re fede. E badate bene, non sto parlando di fede religiosa (per quanto secondo le statistiche si-ano in minoranza, diversi valenti scienziati sono credenti, perlopiù cristiani protestanti o ebrei), ma di fede nella scienza e nei suoi

falsi dogmi.Nella scienza l’intuizione e la fantasia sono importanti. Quindi diciamo che credere nel proprio istinto è una buona base di par-tenza. Ma fidarsi ciecamente di qualcosa non porta a niente di buono. Epicuro diceva che non si troverà la verità finché non si è disposti ad accettare ciò che non ci si aspetta e, tornando a Ein-stein, di sicuro nessuno si aspet-tava ciò che ha scoperto.Avere fede nella scienza vuol dire non averla capita. Nella scienza si deve avere fiducia, non fede. Si deve accettare l’idea che può darci delle risposte, del-le buone risposte, ma non è detto che lo farà, anzi, probabilmente ci sarà sempre qualcosa che non riusciremo a comprendere (ve-dasi il Principio di Indetermina-zione di Heisenberg o il Teore-ma di Incompletezza di Gödel), ma proprio per questo dobbiamo continuare a investigare.Ovviamente c’è anche il rove-scio della medaglia. Una teoria consolidata, prima di essere ab-bandonata, deve essere confu-tata in modo chiaro. Se un geo-logo afferma di poter prevedere un terremoto non deve limitarsi a dire cose come “in un futuro

prossimo, in quella zona, si ve-rificherà un terremoto”, perché sarebbe come dire che entro il prossimo mese pioverà. Ora, se stiamo parlando di un deserto in cui piove al massimo tre volte l’anno è un conto, ma se parlia-mo di Londra...In fondo, senza un po’ di scettici-smo forse la scienza non sarebbe neanche nata.

Per approfondire“Le illusioni della scienza” di Rupert Sheldrake, Urra - Feltri-nelli, 400 pagg, 20,00 euro

FIDUCIA, NON FEDE

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In religione lo scetticismo... non c’è! Non mi risulta al-meno. Forse in qualche re-ligione orientale o meno

diffusa. Ma non nei tre grandi monoteismi sicuramente.Del resto ricordate quando vi ho parlato dell’Indice dei Libri Proibiti (parte 1, parte 2 e parte 3)? Beh, molti di quei libri ave-vano proprio il difetto di partire da una forte base scettica.Lo scettico è uno che vuole ve-derci chiaro, che vuole sapere, che vuole capire e tutto ciò con-trasta con, per esempio, il detto di Tertulliano “Credo quia absur-dum”. Ciò non significa che la scienza si precluda l’indagine religiosa. Non sono pochi gli scienziati che hanno affrontato il tema tanto in un verso, come Antonino Zichi-chi, “Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo” (Il Sag-giatore), quanto nell’altro, come Stephen Hawking, “Il Grande Disegno” (Mondadori)... inutile che vi dica da che parte sto! Esi-stono, poi, diversi scienziati che difendono il principio antropico, tanto nella sua accezione “for-te” (l’universo esiste perché noi

SONO ATEO, GRAZIE A DIO

esseri umani possiamo viverci) quanto in quella “debole” (l’u-niverso esiste perché noi esseri umani possiamo osservarlo).L’importante per lo scettico è riflettere sull’argomento, porsi delle domande, darsi delle rispo-ste... o magari no. Magari basta la ricerca, il dubbio.Nietzsche diceva che l’uomo che si pone dei dubbi e cerca la verità è un saggio. Ma l’uomo che pensa di averla trovata è un folle. Forse cercare qualcosa che non si pensa di poter trovare è una follia. Ma è una follia che mi piace. Mi dà stimolo: trovo questo genere di folli molto più interessanti dei normali.Personalmente ho tagliato defini-tivamente i ponti con la religione quando ho notato che le mie do-mande sull’argomento innervo-sivano chi avrebbe dovuto darmi le risposte e ho cominciato ad affrontare l’argomento per conto mio: lo scetticismo ha prevalso.O forse è solo che le persone cre-dono quello che vogliono crede-re e io al credere ho sempre pre-ferito il sapere.

Per approfondire“La scienza non ha bisogno di Dio” di Edoardo Boncinelli, BUR, 176 pagg, 9,50 euro

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Quanti poveri gatti neri nella storia sono stati uccisi soltanto perché i cavalli con il paraoc-

chi non riescono a vederli bene, si imbizzarriscono e disarciona-no i loro cavalieri? A pensarci mi viene il sangue alla testa. Perché questo normalissimo e spiegabi-lissimo fenomeno da secoli ali-menta la diceria secondo cui i po-veri felini porterebbero sfortuna. Se sulla religione alcuni scettici sono aperti, la superstizione è tutto un altro paio di maniche. La superstizione si alimenta dell’er-rore logico noto come “post hoc, ergo propter hoc” e altre abomi-nevoli aberrazioni. Prendiamo un esempio. Quan-do l’uomo primitivo volgeva lo sguardo alle stelle, ha notato che alcune di esse sparivano per poi riapparire in determinati periodi. La cosa “strana” era che la comparsa di alcuni astri coin-cideva con l’arrivo del freddo, piuttosto che del caldo. Si deve a questo la scoperta delle stagioni e della loro relazione con il mo-vimento apparente delle costel-lazioni. Ecco perché la scienza che si occupa di prevedere le

SE VI DICESSI CHE L’ASTROLOGIA È STATA LA PRIMA SCIENZA?

condizioni del tempo di chiama meteorologia. Sfortunatamente, dopo qualcuno ha pensato che forse anche altro fosse prevedibile guardando le stelle... e ancora oggi l’astrolo-gia è onnipresente nella nostra vita. Astrologia che si fonda sull’ambiguità del linguaggio: “oggi capiterà qualcosa di spia-cevole a tutti gli amici della ver-gine” è un modo molto vago per dire che potreste finire sotto un camion, piuttosto che strapparvi una pellicina dal dito... o volete forse dire che il giradito non è una vera piaga? Ovviamente ci sono delle ecce-zioni. Kary Mullis, premio nobel per la chimica, è un fervido so-stenitore dell’astrologia, benché non come previsione del futuro, quanto come mezzo per la cono-scenza del carattere di una per-sona: in un suo libro arriva ad augurarsi che nei corsi di psico-logia si dedichi del tempo all’a-strologia. Se volete comunque una le-zione sul linguaggio ambiguo, provate a leggere le previsio-ni di Nostradamus o qualche libro di Havener Thorsten... o

ascoltare la tribuna politica in TV. Io posso dirvi che il CICAP or-ganizza delle giornate contro la superstizione con tanto di per-corso anti-sfortuna e finora tutti quelli che lo hanno attraversato, passando sotto scale, rompendo specchi, ecc, sono sopravvissuti indenni. Ricordate sempre che la super-stizione sarà sempre e solo un ostacolo: l’unica sfortuna è quel-la che ci procuriamo da soli sot-tomettendoci alle assurdità sen-za senso su cui non abbiamo mai ragionato.

Per approfondire “La maschera di Nostradamus” di James Randi, Avverbi, 256 pagg, 13,43 euro

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LITTLE READERSa cura di Clara Raimondi

L’appuntamento con i piccoli lettori e con tutti i suggerimenti per non sba-gliare gli acquisti in libreria sapete dov’è? Sempre qui tra le pagine di

Reader’s Bench Magazine!!Una carrellata tra le novità più interessanti per re-stare sempre aggiornati e per avere sempre a porta-ta il libro giusto al momento giusto.Iniziamo?I librottini sono una certezza, la prima esperien-za di lettura dei classici Disney avviene proprio su questo formato. Una tradizione che dura da anni e adesso porta in libreria Frozen. Il regno del ghiac-cio (Walt Disney Company Italia, 28 pagg, 3,50 euro). Dai 3 anni in su.E se le principesse che abbiamo imparato ad ama-re, nascondessero dei segreti e delle paure incon-fessabili? La nuova uscita per i Tipitondi di Tunuè vuole proprio indagare e farci scoprire le princi-pesse per quello che sono. Non perdete La princi-pessa che amava i film horror di Alessio De Santa,

Elena Grigoli e Daniele Mocci (144 pagg, 16, 90 euro). Dai 6 anni in su.Segreti e verità. Mia and Me 5 (Fabbri,108 pagg, 9,90 euro) . Mia, che nella vita reale è una studen-tessa ma con il potere magico di diventare un elfo di Centopia, è arrivata in libreria con la sua ultima, incredibile storia che la porterà a scoprire impor-tanti verità. Dai 6 anni in su.Qual è il vostro personaggio preferito sia per i fu-metti che per i cartoni animati? Siamo sicuri che molti di voi a questa domanda risponderebbero: Paperino!E proprio a lui e alla sua storia, iniziata nel 1934, è dedicato il volume: Paperino. Una vita a Fumet-ti (Walt Disney Compani Italia, 351 pagg, 29,90 euro). Fatti, curiosità e aneddoti di uno dei pro-tagonisti più amati della storia e che il talento de-gli illustratori italiani ha trasformato in una vera e propria icona. Dai 6 anni in su.

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L’editoria ufficiale sta agli autori indipendenti come la grande distri-buzione sta ai gruppi di

acquisto solidale. Sia nel campo del nutrimento del corpo, che in quello della mente, i consumato-ri vorrebbero riprendere il con-trollo sulla qualità del prodotto finito.Il Manzoni della Monaca di Monza scrisse: “E la sventurata rispose”. Se una domanda trova risposta non è colpa della do-manda stessa perché evidente-mente era quella giusta: qualcu-no la stava aspettando. Nel caso dell’editoria digitale gli inter-locutori sono molti e, di conse-guenza, si è innescata una guerra tra poveri tra aspiranti scrittori. Come nelle squadre di ginnasti-ca artistica dove vale il motto “uno per tutti”, contro le major dell’editoria diventa “soli con-tro tutti” per vendere una copia in più. Il lettore, quel cliente che dovrebbe avere sempre ragione, rischia di fare la solita fine del-le innocenti vittime di guerra: ignorato dalle grandi case editri-ci per le quali conta solo la mas-sa. Non provate ad attribuire a un indie meno di cinque stelle su Amazon (voto che riservo solo alle letture che mi hanno entu-

siasmato, limitandomi a quattro se il giudizio è positivo) sono estremamente permalosi e si la-sciano facilmente andare a com-menti triviali. Fortunatamente ho incontrato pochi di questi male-ducati e solo un paio di persone mi hanno obbligato al “massimo o niente”. Magari lo meritavano. Ma non li ho letti per principio. Per colpa della collaborazione con Reader’s Bench lo scorso anno la maggior parte delle mie letture ha riguardato e-book di autori emergenti. È bastato un solo anno per notare un aumento nella qualità del prodotto offerto che attualmente ha raggiunto, se non addirittura superato, quella delle case editrici ufficiali. In qualità di lettrice ho cercato di riassumere gli elementi il cui rispetto, a mio avviso, è fonda-mentale per avere delle chances:

EDITING Errori grammaticali e refusi m’indispongono al punto che li vivo come un affronto persona-le. L’editing andrebbe sempre affidato a terze persone, possibil-mente più di una e non di parte. Riconosco che ultimamente la qualità degli e-book autopubbli-cati è migliorata. Mentre sono le CE ufficiali a metterne in com-mercio di pietosi, talmente pie-ni di refusi che, se non li avessi

acquistati in offerta (detto tra noi mi rifiuto di spendere per una versione digitale la stessa cifra di una cartacea), ne chiederei il rimborso.

SHOW DON’T TELL.Niente annoia più del racconto delle vacanze degli amici. Molti scrittori compiono lo stesso er-rore e, anche se la storia sareb-

be potenzialmente interessante, il lettore non viene coinvolto, si annoia abbandona il libro. Io non voglio sentire una storia, vo-glio viverla. Voglio dimenticare

SELF PUB ISTRUZIONI PER AUTORI EMERGENTIa cura di Claudia Peduzzi

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di essere seduta nel soggiorno, sul terrazzo o su un mezzo di trasporto (adoro volare proprio perché lo ritengo l’ambiente di lettura meglio isolato al mondo) e sentirmi, ad esempio, in mez-zo alla giungla. Mi piace vedere attraverso gli occhi dei protago-nisti e cercare di ragionare come loro per anticiparne le mosse.

THE baked beans approach Sottotitolo: parla come mangiGli scrittori italiani dovrebbero prendere esempio da quelli an-glosassoni. Per attestare il pro-

prio valore artistico i nostri au-tori ricorrono ad un linguaggio aulico e ampolloso, infarcito di improbabili aggettivi che risulta ridicolo e ottiene il risultato op-posto: allontana il lettore invece che invogliarlo. Ricordo sempre cosa ci diceva la professores-sa di lettere al liceo: rileggete e non abbiate mai paura di usare le forbici. La qualità non è diretta-mente proporzionale al numero di pagine.

Saghe e trilogieUn conto è inventare un perso-naggio e renderlo protagonista di una serie di avventure, un altro è interrompere una storia sul più bello per costringere il lettore ad acquistare le parti successive. Alcuni autori hanno adottato il sistema a scopo promozionale: ti regalo la prima parte e, se ti piace, confido che comprerai le successive. Adesso è diventato un subdolo trucco. Compri quel-lo che credi essere un romanzo e scopri che non finisce e che dovrai acquistare, come minimo, un secondo volume. Nel dubbio che qualcuno legga il seguito senza conoscere la premessa, l’autore esagera nel ripetere le parti che ritiene indispensabili. Mea culpa, sono dotata di buo-na memoria e trovo le ripetizioni noiose. Il risultato è che ho letto diverse prime parti e comprato altrettanti secondi volumi subito abbandonati dopo i primi capito-li. Basta la parola Trilogia a far-

mi scappare a gambe levate.Sono consapevole di non rappre-sentare la categoria del lettore medio. Leggo troppo e prediligo generi di nicchia come il roman-zo storico e le biografie roman-zate. Tuttavia, almeno per nume-ro di esempi - tra i cinquantacin-que e i sessanta libri letti all’an-no - credo di avere un minimo di esperienza, mentre interpretare le richieste della committenza fa parte del mio lavoro quotidiano. Le mie osservazioni non sono di-rette esclusivamente agli autori self. Anzi, sono proprio le mag-giori case editrici che dovreb-bero osservare la crescita del mercato indie facendo un serio esame di coscienza. Se gli e-bo-ok autopubblicati vendono bene il motivo non può essere solo il prezzo inferiore. La vera ragio-ne è l’originalità delle proposte. Le case editrici hanno paura di rischiare e, scoperto un genere che ha successo, tendono a ri-proporre soggetti analoghi spes-so finendo con lo sponsorizzare autori, prevalentemente stranie-ri, di scarso valore letterario. Ul-timamente sembra che, almeno Mondadori, abbia capito l’anti-fona. L’acquisizione del social network Anobii dimostra che il parere dei lettori viene conside-rato importante.Forse non tutti gli aspiranti scrit-tori avrebbero dovuto tirare fuori dal cassetto i propri manoscritti.

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convincimi che tutto va meglio anche quando a terra si schiantano aerei e gli uomini odiano altri uomini e i muri ingialliscono come cinesi di guerra. tutto va meglio adesso che per l’autostrada della mente sfreccia un pensiero a motore. se le corde resistono sarà perché non sei tanto ferita

il tempo, sai, non si ferma. l’orologio della cucina

scandisce il tic-tac dialogico

la tovaglia raccoglie le molliche andate a

perdersi e sassi a badare al vento.

piove anche oggi gli alberi non stanno fermi

le persone nemmeno e le auto aumentano il

maleodorante dolore della società.

guardali i bambini!

festanti, gioiosi, liberi riflesso d’istinto della

bianca innocenza. si abbracciano,

giocano, litigano, saltano: salveranno il mondo?

dov’è il dovere di fermarsi? il mio cane, ora, ha capito

tutto

egoismochi l’ha detto

che bisogna fermarsi?

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Estate. Tempo di mare, di spiaggia e lunghe pas-seggiate sotto le ridenti volte stellate. Tempo di

viaggi e di nuove scoperte. An-dare al cinema in questo periodo è raro. Perché la programmazio-ne non propone niente di interes-sante, molti poi non sopportano l'idea di chiudersi in sala per un paio di ore. Eppure ci sarebbe-ro buoni motivi cinematografici nei mesi di giugno e luglio per trascorrere almeno una serata al cinema.Si comincia con Un amore sen-za fine di Shana Feste. Basato sul romanzo di Scott Spencer, una storia d'amore forse un po' da ombrellone, con echi di Ro-meo e Giulietta. Kevin Costner ritornerà poi sul grande schermo nelle vesti di una spia internazio-

nale nel film Three Days to Kill di McG. In sala troveremo anche Walesa di Andrzej Wajda e Ewa Brodzka, un film che racconterà la storia del premio nobel che ha fondato Solidarnosc e degli eventi che hanno portato la Polo-nia a fare una rivoluzione Pacifi-ca. Dalla Francia arriverà in sala il film di Louise Archambault con Gabrielle Marion-Rivard intitolato Gabrielle che narra la storia di una donna affetta dalla sindrome di Williams ma dotata di grande talento musicale. Una storia drammatica ma anche di amore e coraggio.Ritorna Clint Eastwood al ci-nema con un film biografico dal titolo Jersey Boy, adattamento ci-nematografico del famoso e omo-nimo musical di Broadway che racconta di un gruppo di ragazzi provenienti da un quartiere po-vero destinati a diventare uno dei più grandi gruppi pop americani di tutti i tempi: i Four Season.

Giugno in musica prosegue con La pioggia che non cade, pelli-cola italiana di Marco Calvise, che racconta la storia degli In-verso, una band folk romana che è realmente esistita, che qui co-nosciamo proprio nel momento in cui la sua carriera sta per avere una svolta importante.Infine degno di nota, o almeno sembra essere molto interes-sante, il film di Andrés Aoce Maldonado e Andrea Zauli inti-tolato Carta Bianca: una storia incentrata sull'immigrazione e sull'integrazione, l'eterno scon-tro Oriente contro Occidente, tra diversità culturali e affinità an-tropologiche, voglia di afferma-zione, rispetto e considerazione. Si passa al mese di Luglio con un grande ritorno sul grande scher-mo: Transformers 4 L'era dell'e-

ESTATE. FOTOGRAMMI SOTTO

L’OMBRELLONEa cura di Francesca Cerutti

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stinzione ci riporterà nel mondo delle automobili e dei camion che diventano giganteschi robot. Decepticons e Autobots sono or-mai nel gergo comune di chi è cresciuto con questi personaggi, chi ci ha giocato da piccolo e chi ha imparato a conoscerli proprio grazie alla fortunata serie di film diretti da Michael Bay, confer-mato alla regia anche in questo quarto episodio. Stavolta saran-no gli umani, dei potenti uomini d'affari, che cercheranno di car-pire i segreti dei Transformers spingendosi però oltre i limiti consentiti.Altro grande ritorno del mese di Luglio è Il pianeta delle scimmie Revolution, un nuovo episodio che comincia quindici anni dopo rispetto al punto in cui era termi-nato il film precedente e racconta la storia di un gruppo di scien-ziati che cercano di sopravvivere a San Francisco. L'eterna lotta tra le due specie, uomini contro scimmie, porterà ancora a chie-dersi: quale sarà la vera specie che dominerà la terra? A firmare la regia anche di questo episodio è Matt Reevers.Anarchia-La notte del giudizio è il film horror che congelerà il sangue nelle vene dei suoi spet-tatori nella bollente estate, accla-mato e amato in America, il film diretto da James De Monaco è

atteso nel nostro paese soprattut-to dai fan del genere. E se questi film non vi piaccio-no, occhio alle piazze italiane. Durante l'estate infatti ci sono molte iniziative di cinema sotto le stelle. È sempre affascinante guardare i capolavori del cinema immersi in una sala cinemato-grafica illuminata dalla luna.

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INTERVISTA A EMANUELA PAPINI

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Generazione Liga è il titolo di questa raccolta di racconti. Parto proprio da qui: chi è la generazione di Ligabue? Intanto credo sia utile spigare perché ho

deciso di intitolare questo libro Generazione Liga. Mi piaceva l’idea di dare un’accezione diversa al temine generazione, che normalmente ha un signi-ficato temporale/cronologico. Qui invece parliamo di una generazione trasversale, legata dal ricono-scersi nelle canzoni di Luciano Ligabue.

Come hanno risposto i fan del Liga quando gli è stato chiesto di scrivere qualcosa che avrebbe contribuito alla crescita di questo libro? Con entusiasmo e, come dice Ligabue stesso nel testo che apre il libro, con abbandono.A ottobre 2012 abbiamo pubblicato un testo sul barMario e su Ligachannel in cui chiedevamo di scrivere un racconto o una lettera a Ligabue, sono arrivate 3.000 mail! Le ho lette tutte e quello che

Raccontare Ligabue con la parola del fan. Era questo l’obiettivo di Generazione Liga, libro curato da Ema-nuela Papini. Obiet-tivo che, con tutte le sembianze mistiche, pare essere riuscito a giudicare il riflesso degli estimatori del cantautore di Correg-gio che si sono fatti in quattro per far sentire la propria voce.

più mi ha colpito è stato proprio l’abbandono, nel senso di lasciarsi andare, con cui quelle lettere era-no scritte. C’era, evidentemente, tanta voglia di dire a Liga-bue, senza pudore e senza paura, che le sue canzo-ni aiutano, servono, “sono quelle canzoni di cui ti puoi fidare”.

Mi hai raccontato di una storia che, tra quelle raccolte, ti ha fatto sorridere. Si parla di gallineSì, sono quattro amiche, due fra loro sono sorelle e si chiamano Gallina di cognome (da qui il titolo), che raccontano con “leggerezza” un viaggio fatto a Correggio per festeggiare i compleanni di tutte e quattro e ovviamente per cercare di “beccare” Li-gabue in giro per il borgo. E’ anche la storia del loro viaggio di vita, fatto in buona parte insieme, che ha come colonna sonora le canzoni del Liga.Mi sono piaciute le Galline perche sono dimo-strazione di quella leggerezza cantata da Ligabue e spiegata da Calvino, quella che non trascura la profondità, perché non è sinonimo di superficia-lità.

A testimoniare la vicinanza tra il Liga e i suoi adepti, nelle 160 pagine di “Generazione Liga” c’è anche un racconto scritto dallo stesso cantautore Come dicevo prima, ad aprire il libro è proprio un testo di Ligabue, scritto per questo libro e intito-lato “Spudorati”. Racconta come vede lui il suo pubblico, su e giù dal palco, e prepara in un certo senso alla lettura di questi sedici racconti di vita.

Perché Ligabue, a misurare negli anni le pre-senze ai suoi concerti, riesce a mettere d’accor-do tantissimi giovani e meno giovani provenien-ti da tutta Italia?Credo che i fattori siano molti. Se parliamo dei concerti, molto fa sicuramente la sua energia, il suo “stare sul palco” e quello che riesce a trasmettere quando è lì sopra. Ma in generale, facendo parte

a cura di Daniele Campanari

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del pubblico di Luciano da ventiquattro anni, cre-do che le ragioni stiano nei messaggi che passano nelle sue canzoni, uno su tutti la voglia di crederci - il “tenere botta” come direbbe lui.Come scrivo nel libro “Per molti di noi una can-zone, una parola, una poesia sono stati la scintilla nel percorso. Per stare meglio, per trovare la forza, per risvegliarsi, per affrontare, per accettare, per non sentirsi soli. E se anche fosse «soltanto» per ballare, cantare o godere sarebbe già parecchio”.

È vero che Ligabue ha “il pubblico più bello di tutti”? Se lo chiedi a me è ovvio che, facendone parte, ti dico di sì e te lo dico con grande orgoglio. Poi, proprio perché so di non poter essere obiettiva, ti dico che non lo so. Quello che so è che siamo un gran bel pubblico, senza fare paragoni. Siamo un pubblico in cui “l’amore è in circolo un bel po’”. Magari non siamo i più belli, siamo sicuramente speciali. Perché il primo a essere speciale è lui. E perché si è instaura-to un rapporto di scambio e gratitudine reciproca tra noi e lui. Come mi piace dire: “un darsi e un aversi”.

Qual è il rapporto tra musica e letteratura? A questo proposito invito a leggere il racconto “La vogliamo bene, Prof”, contenuto in Generazione Liga. In una classe di un istituto tecnico, una prof un po’ speciale riesce a spiegare il vero senso della po-esia attraverso la lettura del testo “Ho messo via” di Ligabue, inserito in antologia.“Quell’anno, ventiquattro spiriti ribelli, ingabbiati nei programmi di una seconda aziendale, hanno sco-perto che è poesia ogni volta che le parole evocano invece di spiegare”.Personalmente se devo stabilire una relazione, lo fac-cio tra musica e poesia. Tenendo conto che le canzoni hanno però quello che io considero un privilegio, la musica,

Quale canzone di Ligabue rappresenta que-sto libro? “Siamo chi siamo”.Perché qui dentro, come ho già detto, siamo davvero chi siamo, senza filtri, pudori, barriere. Siamo con i nostri limiti, i nostri errori, le nostre paure, ma soprat-tutto con la forza, la fiducia, la voglia di farcela. La Generazione Liga tiene botta!

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‘Magi- The Labyrinth of Ma-gic’ è un manga shonen di genere avventura e fantastico dell’autrice Shinobu Ohtaka

che ha visto la sua prima appa-rizione nel 2009. In Giappone ha subito ottenuto un successo strepitoso che continua tuttora: quest’anno ha infatti vinto il 59° premio Shogakukan della cate-goria Shonen, uno dei più impor-tanti riconoscimenti che si possa-no ottenere nell’ambito dei man-ga.I personaggi di questo manga richiamano quelli de ‘Le mille e una notte’ ma la storia è comple-tamente differente. Il protagoni-sta è Aladdin, un bambino di cir-ca dieci anni che vaga in giro per il mondo con il suo inseparabile flauto, da cui esce fuori un djinn, o ‘genio’, di nome Ugo che gli offre la sua protezione e diventa-to ormai suo grande amico.Durante il viaggio incontra un ragazzo di sedici anni, Alibaba, all’apparenza debole e codardo che si rivelererà essere invece una persona così coraggiosa e generosa da suscitare una grande simpatia in Aladdin. I due infatti

MAGITHE LABYRINTH OF MAGICa cura di Jessica Marchionne

decideranno di mettersi in viag-gio insieme alla conquista dei dungeon apparsi quattordici anni prima, delle costruzioni piene di pericoli creati ognuno da un djinn che ne diventa il signore e ne riposa al suo interno. Chiun-que riuscirà a superare il dunge-on e a sconfiggere il genio, non solo verrà ricoperto di immense ricchezze, ma riceverà anche il potere del djinn stesso, che po-trà essere riposto in un qualsiasi oggetto, come un’arma, con il quale sarà in grado di combat-tere cambiando aspetto che sarà simile al djinn che lo possedeva.Durante questo percorso Aladdin scopre di essere un Magi, chia-mato anche ‘stregone della crea-zione’, che ha la capacità di uti-lizzare un immenso potenziale di magia tramite i Rukh, anime simili a uccelli dorati, e che ha il compito di scegliere chi sarà de-stinato a diventare Re del mon-do. Per ogni generazione nasco-no tre Magi e nel periodo in cui accadono i fatti nel manga sono: Judal, Yunan e Scheherazade. Aladdin, essendone il quarto, è un caso particolare.

La trama muterà profondamen-te, e il conquistare dungeon non sarà più l’obiettivo principale dei protagonisti, quanto quello di scoprire i piani di un’organizza-zione segreta che crea Rukh neri e cercare di porre fine alle guerre che si stanno scatenando.In Italia il manga è edito dalla Star Comics e sono finora usciti 16 numeri mentre in Giappone sono arrivati al numero 20 ed è ancora in corso. Il manga è stato così apprezzato che sono state re-alizzate anche due serie animate, entrambe di 25 episodi. La prima prende il titolo del manga mentre la seconda ha il nome di ‘Magi- The Kingdom of Magic’ e molto probabilmente verrà prodotta an-che una terza serie.Quello che mi è piaciuto di questo manga, non è stata solo la storia, che nonostante abbia qualcosa di già sentito ho trova-to comunque originale, ma spe-cialmente mi hanno colpita gli spledidi disegni, che secondo me sono curati alla perfezione. Chi ama gli shonen non può non pro-vare a leggere questo manga!

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ATELIER: LA POESIA ONLINE NON È SOLO

“FIGA”, MA NECESSARIA

Reader’s Bench ha il piacere di acogliere

il lavoro di una delle riviste italiane di poesia

che ha maggiormente influenzato il dibattito

del settore a partire dagli anni Novanta.

Oggi una nuova sfida: lasciare che il web aiuti

la carta e viceversa. Risponde Fabiano

Alborghetti, poeta e direttore della sezione

online di Atelier.

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Il nome “Atelier” fu scelto pensando a un laboratorio artigianale, dove lavorare si-gnifica sporcarsi le mani, sudare. Qual è la fatica, lo sporco, il sudore di un poeta?

Insomma: dove sta, che cos’è la poesia?Ognuno ha una propria visione, teoria e pratica della poesia. Il mio caso specifico è al limite del maniacale: non scrivo nulla che non abbia vissuto in prima persona (che sia il seguire di nascosto fa-miglie per Registro dei fragili o vivere per tre anni con i sans-papier per L’opposta riva). Non si deb-bono lanciare proclami, ma suggerire domande. Non imporre risposte ma portare l’attenzione su più piani e realtà e lasciare a chi legge il compito di trovarne il senso secondo la propria sensibilità e formazione. Questo è il confronto che genera la poesia. Troppo spesso invece la misura è data solo dall’editore col quale si pubblica, dal nome del po-eta e dalla rete di conoscenze o collusioni. In que-sti casi non c’è la mano sporca e callosa del poeta ma la mano untuosa del politico coboldo. Che significa portare online la poesia? Qual è la sfida?Di poesia online c’è ne ovunque, proposta da molti e scritta da troppi. La sfida è riuscire a proporre te-sti che valga la pena leggere: bisogna avere rispet-to del lettore, essere onesti e severi nello scegliere i contributi da pubblicare. Collaborare o dirigere una testata web che abbia finalità divulgative non deve diventare una vetrina personale; è un lavoro di ricerca, con una direzione chiara e con scelte obbiettive e neutrali. Con questi parametri la sfida è in gran parte vinta ma si viene anche crocefissi dai detrattori.

Qual è l’obiettivo di Atelier con le sue attività online? La linea editoriale dell’online è quella di proporre poesia contemporanea italiana, italofona (chi scri-ve in italiano, pur se “estero”) o in traduzione. Si pubblicano esclusivamente inediti, poesie mai ap-parse in lingua italiana: ogni contributo è una novi-tà editoriale. Si pubblicano sia autori noti a livello

nazionale e internazionale che poeti emergenti, tal-volta alla prima pubblicazione o quasi. Il ventaglio di lingue, stili ed età delle voci proposte è molto eterogeneo e riteniamo questa poliedricità uno dei cardini fondanti di Atelier online. Riconosciamo ai traduttori la medesima importanza dell’autore tra-dotto e per ogni articolo viene riportata la bio-bi-bliografia di entrambi: invitiamo i traduttori a in-dicare preferenze e amori personali. Infine, c’è il rispetto dei tempi dei traduttori: non imponiamo mai deadlines e vengono lasciati lavorare nei tem-pi e modi a loro più congeniali: sappiamo quanto siano sollecitati sia per impegni accademici che professionali /editoriali. Lo stesso vale per i poeti che contattiamo.

Una architettura complessa.Ma c’è una possente comunicazione e a lavoro di squadra dell’intera redazione. L’ultimo passo è una promozione feroce: spesso si imputa agli editori di non fare nulla per i propri autori. Noi come rivi-sta ci impegniamo alla massima pubblicizzazione e visibilità dei contributi che vengono pubblicati.

La linea di Atelier online combacia con quello del cartaceo che ancora vive?Atelier versione cartacea non solo vive, ma prospe-ra! Ricordiamoci che è una rivista fondata a fine anni novanta e che è stata tra quelle cardine del dibattito sulla poesia contemporanea e in molti casi pioniera. Da Gennaio 2014 si è cambiato sia il direttore che l’editorial board ed è stata tracciata una nuova rotta. Questo non solo ne continuerà la tradizione, ma ne amplierà gli orizzonti. Atelier online e versione car-tacea hanno la medesima comunione d’intenti, ma la versione online è improntata all’agilità, offre non più di tre testi per poeta ed ha vasto spazio per le tradu-zioni. La versione cartacea è un trimestrale d’appro-fondimento e di critica e affronterà principalmente la poesia in lingua italiana. Pur con registri diversi, entrambe sono guidate dal medesimo intento. Hanno diverse linee editoriali per quanto riguarda i contenu-

a cura di Simone di Biasio

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ti ma muovono nella stessa direzione. È la rivista cartacea che aiuta l’online o il con-trario?Vorresti farmi dire che siamo più fighi del carta-ceo? L’online ricorda puntualmente che c’è una rivista stampata alla quale riferirsi ma non vedo prevalere una sull’altra né fare a gara. Si è voluta la versione online per ampliare lo sguardo ma l’ap-profondimento è lasciato alla versione cartacea.

Quali sono i criteri di selezione degli inediti che compaiono a cadenza trisettimanale? La leva non è il curriculum ma la qualità dei testi (abbiamo anche rifiutato autori noti) e su questo non si transige. Il pattume resta fuori. Gran parte della selezione è fatta dal team redazionale inter-pellando direttamente gli autori. Qualcuno ci vie-ne suggerito da esterni e quindi si approfondisce. Qualcuno si autocandida. I testi vengono discussi e la scelta è su comune accordo o a maggioranza. Un discorso a parte è quello delle traduzioni: ce ne oc-cupiamo quasi interamente io e Matteo Fantuzzi, contattattando direttamente gli autori o i traduttori. Queste godono una sorta di “statuto speciale” e si decide solo noi. Non ultimo, nella versione online vengono pubblicati quegli autori per i quali è pre-matura la pubblicazione nella versione cartacea. Questo non significa approdare in una testata di serie B: Atelier online ospita regolarmente autori italiani e stranieri d’eccellenza.

Il colpaccio di cui andare più fieri?Siamo l‘unica testata al mondo ad aver pubblicato sia in versione integrale che in traduzione la poesia cardine di John Ashbery “The New Realism”. Poe-ti come Les Murray o Yang Liang ci hanno spedito degli inediti assoluti (ora in traduzione). La lista dei nomi è vasta e si allunga ogni mese.

Molte vostre proposte sono di giovani tra i 20 e i 35 anni: di che generazione si tratta? Ha delle peculiarità già precise?

Incasellarle ora è prematuro e credo sia un com-pito che non spetti a noi. Noi facciamo scouting e offriamo sia spazio che lettori. Il discorso genera-zionale è però un’arma a doppio taglio e il rischio di fermarsi soltanto all’età anagrafica nuoce. C’è altro da osservare: l’evoluzione dei temi, della lin-gua. Vero è che di un giovane i percorsi futuri sono tre soltanto: resta fermo dove è; smette di scrivere; prosegue e migliora. Al tempo e alla capacità dei singoli la risposta. Se penso all’antologia “La ge-nerazione entrante” (pubblicata da Ladolfi Edito-re nel 2011), il senso del libro è stato marcare chi sono e cosa fanno i poeti nati negli anni Ottanta. Questa è una operazione corretta: una panoramica vasta per registri e geografia per vedere che c’è di nuovo. Tra dieci anni ne vedremo le evoluzioni e ne capiremo le peculiarità.

Qual è il libro di poesie dell’intero Novecento che “la generazione entrante” dovrebbe assolu-tamente leggere?Uno solo?Personalmente sono per una scrittura engagé. Posso solo dire che c’è un obbligo mora-le nella scelta: mettere quanto si legge in dialogo –anche aspro- con altro, magari agli antipodi. Te-nersi lontani da un monoteismo che impone cecità è il giusto approccio.

Tu vivi in Svizzera, nel Canton Ticino. Differen-ze tra la poesia italiana ed elvetica sempre rela-tivamente alle nuove generazioni? Le circostanze della formazione sono ciò che evi-denzia punti in comune o lontananze siderali, tal-volta anche in senso geografico. La poesia sviz-zera di lingua italiana si confrontata con la vicina penisola sia per indirizzo scolare che per rapporti editoriali, e questo è un fatto. Dalla nostra c’è poi un plurilinguismo naturale: presente nel DNA c’è un bipolarismo linguistico che viene ulteriormente nutrito da scelte di vita o amori personali. Qualche esempio: Yari Bernasconi è trilingue, vive nella Svizzera francese ma il suo riferimento è la poesia

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italiana. Vanni Bianconi vive a Londra e l’influen-za anglofona è molto presente nei suoi testi anche per la sua attività di traduttore. Prisca Agustoni vive in Brasile ma si confronta da sempre con ita-liano, portoghese, spagnolo e francese, lingue nel-le quali legge scrive o traduce. Pierre Lepori vive tra Losanna e Berlino, parla cinque lingue, scrive in italiano e traduce da e verso il francese. Cito solo una manciata di autori, ce ne sarebbero molti altri e con background altrettanto variegati. Cre-do che la differenza sia nel dialogo continuo che gli svizzeri hanno con più lingue e di conseguenza con le letterature “dell’altro”: la poesia italiana è per noi anche una poesia di riferimento.

Noi siamo troppo “italocentrici”?Sì, solo dopo la scuola ci si approc-cia con l’esterno. Quanto quindi pro-viene “da fuori” non è complemen-tare ma viene spes-so appaiato strada facendo in un otti-ca di confronto. In Svizzera poi ci sono autori giovani che pubblicano e parte-cipano alla vita cul-turale ma bisogna dire che è diverso anche l’approccio nel paese: o si scrive bene oppure no ed è questo che conta, a prescindere dall’editore che pubblica il libro. Sussidi per la creazione di opere vengono accordati sia a ventenni che ad autori noti, sempli-cemente in base alla validità dell’opera. Ogni tanto c’è qualcuno che tenta la carta del generazionale ma sono progetti che lasciano il tempo che trova-no.

Un autore svizzero contemporaneo assoluta-mente da leggere?Per la Svizzera tedesca, imperdibili e di facile re-peribilità è Cento anni di poesia nella Svizzera te-desca, una antologia curata da Annarosa Zweifel Azzone e appena pubblicato da Crocetti. Si pos-sono leggere le ultime generazioni oppure appro-fondire capisaldi come Walser, Hesse, Frisch. Per la Svizzera romanda E, tuttavia-Note dal botro di Philippe Jaccottet, tradotto da Fabio Pusterla ed edito da Marcos y Marcos. Per i Grigioni italiani i poeti Grytzko Mascioni o Remo Fasani; per una prosa in bilico tra tedesco e romancio, assoluta-mente Arno Camenisch. Per la Svizzera italiana (o Ticino, che dir si voglia) tutto di Fabio Pusterla; credo sia inoltre doveroso riprendere l’opera di Giorgio Orelli (recentemente scomparso). Consi-glio però il portale di letteratura svizzera (non-ché annuario) www.viceversaletteratura.ch dove per ogni autore è consultabile la bio-bibliografia completa. E poi, ecco, consiglio di visitare Atelier online!

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Parto da questa frase tratta da La biblioteca di Babe-le, il racconto più famo-so della raccolta Finzio-

ni dello scrittore argentino Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 1899 – Ginevra, 1986) per una breve analisi della sua scrittura. No, caro Borges, davanti al tuo inter-rogativo beffardo anche il letto-re più colto e preparato vacilla e perde la minima certezza di com-prensione che pensava, a quanto pare a torto, di aver raggiunto. La tua domanda ridimensiona le nostre pretese e insinua il dub-bio, perché non ci stai chiedendo se abbiamo inteso fino in fondo quello che ci stai raccontando ma ci stai chiedendo se comprendia-mo davvero il tuo linguaggio, cioè le tue parole e il tuo modo di esprimerti. Questa è infatti la sfida maggiore per chi desidera confrontarsi con lo stile di Bor-ges: riuscire a staccarsi dalla pro-pria ordinaria realtà quotidiana per accedere a quella altamente visionaria ed evocativa che ci propone Borges attraverso il lin-guaggio dei suoi scritti. Il lettore che accede a tale narrativa entra in mondi nuovi a più dimensio-ni che spaziano senza limiti nel campo dell’immaginabile per ri-uscire, forse, a penetrare meglio la realtà che ci circonda.La lettura di Finzioni (Ficciones in lingua originale) è un ottimo modo per addentrarsi nella pro-duzione narrativa di Borges. Si tratta di una raccolta di 17 rac-

FINZIONI DI JORGE LUIS BORGES

Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la

mia lingua?Tú, que me lees, ¿estás seguro de entender mi

lenguaje?

conti scritti tra gli anni trenta e quaranta e divisi in due parti. La prima sezione, intitolata Il giar-dino dei sentieri che si biforca-no, è composta da otto racconti ed è stata pubblicata per la prima

volta nel 1941, mentre la secon-da sezione, Artifici, è apparsa tre anni più tardi. Tuttavia, qua-si tutti i racconti erano già stati pubblicati sulla rivista letteraria Sur e sul quotidiano La Nación, prima di essere riuniti in un uni-co volume pubblicato per la

prima volta a Buenos Aires nel 1944 e in versione definitiva nel 1956 con l’aggiunta dei tre rac-conti finali di Artifici. Tutti i racconti, pur essendo in-dipendenti e scollegati tra loro,

vertono su temi e simboli ricor-renti nella produzione lettera-ria di Borges, come il destino dell’uomo, il labirinto e il libro. Borges orchestra i suoi racconti combinando trame solo apparen-temente semplici e lineari con molteplici elementi filosofici, te-

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newsi l m o n d o d e l t è

matiche e confessioni religiose, avvenimenti storici e influenze letterarie. Il risultato sono rac-conti brevi pregni di significato, echi e rimandi che prendono vita al di là dalle pagine del libro. Borges esplora quindi diverse tendenze letterarie con una certa predilezione per il genere poli-ziesco come dimostrano i rac-conti Il giardino dei sentieri che si biforcano, La morte e la bus-sola e La fine. Questi racconti di poche pagine narrano di assas-sini inspiegabili e di fatti oscuri complicati da enigmi e misteri intricati che diventano i veri pro-tagonisti del racconto stesso. Nel finale, la soluzione del caso non rappresenta il trionfo della men-te dell’ispettore di turno ma piut-tosto quello della realtà labirin-tica, sfaccettata e mutevole che avvolge, quasi intrappolando, i protagonisti. Chiudo questa recensione tor-nando al racconto che l’ha aperta. Ne La biblioteca di Babele, Bor-ges descrive le caratteristiche di un universo fantastico che corri-sponde a una smisurata bibliote-ca eterna e imperitura formata da gallerie esagonali che ospitano, senza ordine apparente, tutti i li-bri possibili composti da 410 pa-gine, da 40 righe per pagina e da circa 80 lettere per riga. All’in-terno di ogni libro, si trovano le successioni caotiche e casuali di tutte le possibili combinazioni di 25 simboli ortografici; con il risultato che la quasi totalità dei

libri letti è inintelligibile. Per questo motivo, gli uomini che abitano la biblioteca impiegano la loro esistenza a dare un senso al contenuto confuso e altamen-te criptico di ogni libro, cercan-do, quasi sempre vanamente, di trovare al loro interno sintagmi comprensibili. Ogni uomo è im-pegnato, a suo modo, a dare un significato, se non Il Significa-to, alla loro esistenza, ai libri e all’intera biblioteca, senza però riuscirci. Quest’affannosa quan-to illusoria ricerca ricorda quella che vivono quotidianamente gli uomini e le donne che nel mon-do dove ha vissuto Borges, non quello che lui racconta, cercano di dare un senso autentico alla propria vita per non smarrirsi nella molteplicità di una realtà insidiosa che annienta e assorbe l’individuo.

Ascolto consigliato: la canzone Streets del gruppo Savatage

Lettura consigliata: Borges, Jorge Luis: Finzioni. Einaudi, 2005, 154 pagine, 9,50€.

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Benvenuta su Reader’s Bench, Nora e grazie per avermi concesso un po’ del tuo tempo per un’intervista.The Hundred Thousand Kingdoms

(I centomila regni) è il tuo romanzo d’esordio, come sei arrivata a scrivere fantasy?Ho sempre scritto storie fantasy e di scienza, sin da quando ho cominciato a scrivere a circa 9 anni. Prima erano solo delle storielle, su persone che viaggiavano verso altri mondi e tentavano di rico-minciare a vivere dopo una guerra nucleare. Quin-di, in realtà, The Hundred Thousand Kingdoms non è il mio primo romanzo è solo che la maggior parte dei lavori precedenti erano mal scritti, roba da ragazzini. Con l’avanzare dell’età, fortunata-mente, la mia scrittura è migliorata.

Puoi dirci qualcosa riguardo la tua trilogia?La storia narra gli eventi che accadono quando gli dei che hanno creato il mondo vengono coinvolti nella politica umana – e viceversa. Nel primo li-bro, una donna che discende da una famiglia che tiene schiava quattro dei deve sopravvivere a una lotta mortale per un’eredità. Nel secondo libro be, non vorrei spoilerare.

Ti aspettavi un successo simile?L’ho sperato – ogni scrittore spera nel successo – ma non credevo sarebbe davvero arrrivato. Do-potutto, molti scrittori non pubblicano mai oltre il primo romanzo!

In che modo hai scelto questo tipo di mondo im-maginario con dei e guerre epiche?Bene, non è che veramente “scelga” ciò che scrivo. L’idea arriva, e a volte devo solo metterla su carta.

Da quale mitologia hai tratto ispirazione per il tuo romanzo?Tutte! Ho sempre amato leggere libri di mitologia di tutte le culture, fin dall’infanzia. Sono sorpren-denti i punti che hanno in comune tra loro. Sembra che tutti gli uomini sognino le stesse cose.

Perché hai scelto di scrivere una trilogia con un mercato editoriale pieno di saghe?[Forse non ho ben compreso la domanda. Ho scel-to di scrivere una trilogia perché le trilogie sono comuni nell’mbiente fantasy statunitense. Cosa intendi per saga?]

Leggendo la tua bibliografia, ho trovato un ti-tolo in italiano, un romanzo breve ambientato a Milano. Da dove hai tratto ispirazione?Qualche anno fa ho visitato la Sicilia: Palermo e Sciacca. Il viaggio è stato molto bello e avevo in-tenzione di rimanere per tre settimane, ma mi sono presa una polmonite ed ho deciso di tornare subito a casa. Durante il viaggio di ritorno, sono stata una notte a Milano, in un piccolo adorabile albergo la cui proprietaria si è presa molto cura di me (avevo una brutta tosse ed ero febbricitante) e mi diede una brioche ed un cappuccino per farmi sentire meglio e funzionò! Così scritti una breve storia su una donna che fa magie con il cibo. Ahimè, vorrei avere un modo per spedirglielo, ma ero così malata che non ricordo il nome dell’albergo.Che differenza c’è tra lo scrivere un romanzo ed un romanzo breve?È difficile da descrivere brevemente. Tecniche di-verse, un formato differente da seguire, ed anche idee diverse. Ne ho dovuti leggere molti per impa-rare in che modo scrivere entrambi.

INTERVISTA A N.K JEMISIN

a cura di Valentina di Martinotraduzione di Rocco Alessandro Mattei

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In Italia non amiamo particolarmente i raccon-ti brevi. Negli Stati Uniti invece? Che cosa pre-ferisci come lettrice?Direi che il racconto breve ha un mercato fioren-te negli Stati Uniti, anche se si muove in formati differenti podcast, per esempio. Non ho delle pre-ferenze nella lettura, finché la storia è buona. Ma riguardo la scrittura, trovo più semplice scrivere romanzi. La narrativa breve è più di una sfida.

Hai qualche autore di riferimento?Troppi per elencarli. Diverse centinaia.

L’ultima domanda, che non è una vera e pro-pria domanda: puoi consigliarci una canzone, un film ed un libro?Oh, interessante.Una canzone: “Many Moons”, di Janelle Monae.Un film: attualmente è “Pacific Rim”, uscito lo scorso anno. Amo i robot giganti.Un libro: mi piace davvero molto A madness of angels di Kate Griffin. Spero sia disponibile in Ita-lia; l’autrice vive in Gran Bretagna e la storia, am-bientata a Londra, parla di uno stregone che usa la magia della vita cittadina.

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“In nothing more is the En-glish genius for domesticity more notably declared than in the institution of this fe-

stival- almost one may call it - of afternoon tea... The mere chink of cups ans saucers tunes the mind to happy repose.” George Gissing, The Private Papers of Henry Ryecroft

Il tè del pomeriggio per gli Ingle-si è una vera e propria istituzio-ne, un momento importantissimo della giornata, e da un decennio ormai è tornato di gran moda an-che negli ambienti più giovani e moderni della capitale Inglese.Il tè arriva in Inghilterra per la prima volta in modo ufficiale grazie al matrimonio di re Car-lo con la principessa Portoghese Caterina di Breganza. Entrambi amavano il tè in quanto lei lo be-veva regolarmente e lui facevo lo stesso avendo passato molto tempo in Olanda, e ricordiamo che Portogallo ed Olanda furo-no i primi paesi ad importare e bere la preziosa bevanda. Al loro matrimonio servirono tè e mol-to probabilmente crearono un piccolo scandalo a corte oltre a tanta curiosità. Il tè in Gran Bre-tagna diventa la bevanda preferi-ta dai nobili ma successivamente anche dal popolo, il tè nero as-sieme allo zucchero che proveni-va dalle colonie era la bevanda ufficiale di molti operai durante

COME NASCE UN AFTERNOON TEA

a cura di Nicoletta Tul

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la rivoluzione industriale, dava energia, riempiva lo stomacoed era decisamente meno peri-colosa della birra, in quanto a risvolti sociali. La classe opera-ia però non poteva permettersi di sedersi al tavolo di mogano e prendere un tè pomeridia-no in servizio d’argento, il rito dell’Afternoon tea nasce nella reggia della Duchessa Anna di Bedford nel 1840. Le abitudini

alimentari dell’epoca erano mol-to diverse da quelle attuali, spe-cialmente per le classi nobili, si consumava un prima colazione, successivamente un pranzo mol-to legegro e frugale ed una cena verso le ore 17-18 del pomerig-gio, detta supper.La Duchessa Anna, sentiva spes-so i crampi della fame nel lungointervallo fra il pranzo e la cena e quindi pensò bene di chiede-

re alle cameriere di portarle dei dolci e dei piccoli sandwiches assieme al tè del pomeriggio.Anna inizia ad invitare amici e parenti ai suoi primi tea parties el’abitudine di questo piccolo rito si diffonde a tutta al corte tan-to che la stessa Regina Vittoria isituzionalizza l’Afternoon tea a Palazzo. Un Afternoon tea che si rispetti prevede sempre co-cumber sandwiches ed altri tipi di sandwiches, scones con clot-ted cream e fragole o altre mar-mellate e piccolo dolci oltra ad una torta finale, come la Victo-ria Sponge cake ad esempio o la Battenberg cake.Se volete provare il fascino di un vero Afternoon tea Inglese dovete soggiornare in uno dei tanti alber-ghi Londinesi che lo propongono da sempre, come il Dorchester, il Ritz, il Savoy o il Goring.Ma se Londra è troppo lontana per voi, Villa dei Vescovi potreb-be essere decisamente più vicina, ogni prima domenica del mese (esclusi i mesi di luglio, agosto, dicembre e gennaio) in questa bellissima Villa Veneta si svol-gono Afternoon tea e tea party ambientati in diverse location della villa, dalle loggie che si af-facciano sui magnifici colli e sui vigneti, alle sale interne, il frut-teto ed il roseto. Il tutto unito al fascino delle porcellane d’epoca, i fiori, i bellissimi panorami e le magnifiche torte ovviamente!Per informazioni sui tea party in Villa Vescovi, sui colli Euganei in provincia di Padova visitate www.lafinestrasulte.blogspot.com oppurehttp://www.visitfai.it/dimore/villadeivescovi/la-tua-visita/ora-ri-di-apertura-e-info-utili

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Andrea Malabaila, scrittore e direttore editoriale di Las Vegas Edizioni, ha deciso di accomodarsi nella sezione Young Writers e raccontarci la sua esperienza. Questa sarà una chiacchierata per conoscere le tappe di un percorso che lo ha visto protagonista su due fronti.Young Writers leggete con attenzione questa intervista, Andrea non si è risparmiato e con estrema sincerità e naturalezza ha raccontato il suo lavoro. Buona lettura

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Caro Andrea quando e come è nata la tua passione per la scrittura e la lettu-ra. Lo so non è il massimo dell’origi-nalità ma voglio sapere come è nato in

te il sogno di diventare autore. Quali sono i tuoi miti letterari? Durante l’adolescenza sentivo dentro di me una grande voglia di esprimermi ma non sapevo bene come incanalarla. A quindici anni ho scritto la mia prima storia lunga, quasi tutta durante le vacanze estive, in spiaggia: purtroppo al liceo il tempo era sempre troppo poco. Quando ho iniziato l’univer-sità il mio tempo libero è cresciuto esponenzial-mente e ho cominciato a scoprire e leggere libri di giovani autori, a capire che la narrativa era una cosa viva e a cui forse potevo contribuire in prima persona. Un conto è confrontarsi con i classici (a quale ragazzo verrebbe in mente di fare lo scrittore se il modello – irraggiungibile – è Dostoevskij?) e un altro è sporcarsi le mani con quello che si scrive e si pubblica in quel preciso momento storico (che per me erano gli anni Novanta). Dopo aver letto “Tutti giù per terra” di Culicchia, mi sono detto: “Ehi, anch’io ho qualcosa da dire su cosa vuol dire essere adolescenti, su cosa vuol dire vivere a Torino. E anch’io ho una storia da raccontare!”. Così mi sono messo a scrivere il mio primo roman-zo, “Quelli di Goldrake”, che ho avuto la fortuna di pubblicare. E nel frattempo ho trovato il mio primo vero mito letterario: J.D. Salinger.

Hai pubblicato con grandi case editrici e con piccole realtà, e proprio tu stesso hai fondato una casa editrice. Raccontaci come sono nate queste collaborazioni e come mai hai deciso di fondare la Las Vegas edizioni? Raccontaci come sono nate queste collaborazioni e come mai hai

deciso di fondare la Las Vegas edizioni? Dopo “Quelli di Goldrake” ho spedito il mio se-condo romanzo agli editori che mi avevano rispo-sto e/o incoraggiato, e uno di questi era Marsilio: mi avevano scritto che il mio primo romanzo era ancora troppo immaturo ma mostrava del talento e che avrebbero letto volentieri qualcos’altro. Col secondo ho fatto centro: nel 2003 “Bambole cat-tive a Green Park” è uscito in tremila copie per la Marsilio di Cesare De Michelis. Era il mio sogno che si avverava, un sogno che visto con gli occhi impazienti dei vent’anni mi sembrava avere atte-so a lungo, ma in verità fin lì era successo tutto con grande fortuna e naturalezza. La vera attesa era stato l’anno e mezzo tra la firma del contratto e l’uscita in libreria, che se si sommava all’anno e mezzo tra la spedizione del manoscritto e la firma del contratto faceva la bellezza di tre anni. Tre anni in cui io e la mia scrittura eravamo ovviamente cambiati. Dopodiché è iniziato il mio periodo gri-gio, per colpa della fretta e di scelte sbagliate come quella di affidarmi a un agente letterario che mi ha tenuto a mollo per anni, finché non ho deciso di riprendere il controllo della situazione e ho trovato un editore piccolo ma in quel periodo parecchio lanciato come Azimut per il mio terzo romanzo (“L’amore ci farà a pezzi”) e finalmente nel 2009 sono tornato in libreria dopo cinque anni e mezzo. Nel 2011 ho avuto l’opportunità di pubblicare una raccolta di racconti per Historica (“Chi ha ucciso Bambi”) e ne sono contento perché oggi i racconti in Italia sono poco considerati, e l’anno successi-vo sempre per Historica è uscito il racconto lungo “Torino è un riccio”, commissionatomi da France-sca Mazzucato. Nel frattempo continuavo a scrive-re e riscrivere “Revolver”, un romanzo eterno che ha avuto ennemila stesure, e che alla fine è stato accolto positivamente da BookSalad ed è uscito nel 2013. Sempre lo scorso anno è uscito anche il racconto lungo “Latte chimico” (Il Foglio), che in origine era un romanzo, scritto e riscritto durante gli anni in cui sono stato fermo con le pubblicazio-ni. E ad aprile di quest’anno una nuova bella occa-

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a cura di Clara Raimondi

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sione con Fernandel, un editore che seguo da tanti anni e che mi ha pubblicato il quinto romanzo: “La parte sbagliata del paradiso”. Per quanto riguarda Las Vegas, l’ho aperta a fine 2007 con l’idea di mettere a frutto le mie esperienze come autore ed evitare l’errore classico che fanno molti editori: la scarsa pazienza. Si dice spesso che sono gli autori ad averne poca (ed è vero) ma è altrettanto vero per gli editori: se non si vedono subito i risultati, avanti un altro! E invece se credi in un autore, devi crederci fino in fondo, dargli fiducia e tempo per crescere.

Hai fatto la scelta ben precisa di non pubbli-care i tuoi romanzi con la tua casa editrice. Una scelta di orgoglio o di onestà intellettuale? Ho aperto Las Vegas alla fine del mio periodo lon-tano dalle librerie, per cui di sicuro molti avranno pensato che aprire una casa editrice fosse la mia ultima possibilità per pubblicare ancora qualcosa. Ma non era così. Las Vegas incarnava piuttosto il mio vecchio sogno di scoprire nuovi talenti, un po’ alla Tondelli, di portare alla luce scritture che per un motivo o per l’altro non erano ancora riuscite a emergere. Ma questo doveva necessariamente ri-manere separato da ciò che scrivo. Sicuramente mi avrebbe aiutato a migliorare, come ho scoperto in seguito, e a confrontarmi con tanti autori bravi, ma le due attività avrebbero dovuto viaggiare in pa-rallelo perché non amo i conflitti d’interesse e non potrei mai giudicare il valore dei miei scritti (che per me sono validi dal momento in cui decido di proporli agli editori, ma loro potrebbero pensarla diversamente ed è giusto che siano persone esterne a valutare). Poi, ovvio, come dico sempre, se Las Vegas dovesse diventare la casa editrice numero uno in Italia, forse rivedrei questa mia regola (per-ché privarmi di una simile opportunità?) ma per allora probabilmente non sarei più io a decidere e quindi il problema non si porrebbe comunque... A proposito di pubblicazioni sei in libreria con

La parte sbagliata del paradiso, Fernan-del Editore. Vogliamo sapere come è nato questo altro tuo pro-getto e dove e come si svolgeranno le prossi-me tappe del tuo tour. Una volta terminato e impacchettato “Revol-ver”, cercavo una nuo-va storia che mi coin-volgesse totalmente. Ne avevo un paio che giravano nella mia te-sta e nel pc, e di cui avevo scritto la scalet-ta, ma che per un mo-tivo o per l’altro non mi convincevano del tutto. Poi è successo l’inaspettato: una notte mi sono svegliato alle 4 e sul soffitto ho visto scorrere una specie di film immaginario. Mi sembrava una storia interessante e già abba-stanza strutturata. Mi sono alzato e ho butta-to giù la scaletta, con-sapevole che il giorno dopo avrei riletto tutto e con un sorriso di compassione l’avrei stracciato. E invece no, questa storia ha continuato a sembrar-mi degna di essere raccontata. L’altra cosa buffa è che era la notte del 16 aprile 2012, e il 16 aprile 2014 è uscita in libreria. Ma di questo devo rin-graziare Giorgio Pozzi, che ha voluto dare fiducia a lei e a me. E voglio ringraziarlo pubblicamente anche per il lavoro certosino che abbiamo fatto: una precisione e una cura che mai avevo trovato in passato, veramente da editore “vecchio stampo”.

Siamo nella sezione YoungWriters dedica-ta agli autori esordienti. Quali sono i consigli che daresti agli autori alle prime armi (voglio consigli spassionati, sinceri) e come, secondo

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te, sta cambiando l’e-ditoria italiana. E del self pub, dicci la veri-tà, che cosa ne pensi? Prima parlavo di fret-ta. Ecco, una dote che deve avere un autore esordiente è la pazien-za. Perché scrivere vuol dire soprattutto riscri-vere (eppure ci arriva-no un sacco di mano-scritti nemmeno riletti) e pubblicare vuol dire soprattutto aspettare. Gli editori difficilmen-te rispondono in tem-pi brevi e non bisogna farsi vincere dall’ansia, sennò si rischia di cade-re nella trappola degli editori a pagamento che invece sono velocissimi a rispondere (tanto non leggono). Un libro ha i suoi tempi, ha biso-gno di essere pensato, scritto, valutato e la-vorato. Temo che que-sto faccia a pugni col self-publishing, di cui non ho grande stima. Certo, sempre meglio

autopubblicarsi che pubblicare a pagamento, però, per i motivi che esponevo prima a proposito della divisione tra l’Andrea che scrive e l’Andrea di Las Vegas, credo che il ruolo dell’editore non debba essere svilito ma sia una mediazione necessaria tra scrittori e lettori. Oggi si pubblica già troppo rispetto a ciò che chiede il mercato, e allora per-ché aumentare ulteriormente l’offerta con prodotti spesso confezionati in fretta e furia? Il self-publi-shing a parer mio può essere una soluzione solo per i grandi autori, tipo Stephen King, che sono loro stessi un brand e hanno uno staff che lavora per loro. Ma l’autore esordiente è giusto che passi per le vie convenzionali e si sottoponga al giudizio degli editori (che no, non sono tutti brutti e cattivi)

prima ancora che dei lettori (che spesso rischiano di coincidere con i parenti più stretti). Quali sono gli errori che, con il senno di poi, non rifaresti?Sicuramente se mi capitasse oggi l’opportunità di pubblicare con una casa editrice del calibro di Mar-silio, saprei giocarmi meglio le mie carte. Allora ero molto giovane e avrei avuto bisogno di una guida, di qualcuno che mi seguisse e consigliasse. Pur-troppo invece sono stato lasciato un po’ in balia di me stesso. E le cose sono peggiorate nel momento in cui ho avuto un agente. Ho pensato che forse non sarei più riuscito a pubblicare o a scrivere niente di decente. Eppure non ho mai mollato. Perché per me la scrittura è sempre stata più importante dei risul-tati o dei guadagni (non molti) che mi ha portato. Una domanda sul bilancio di questo Sa-lone e qualche anteprima sulle prossi-me uscite Las Vegas edizioni, è d’obbligo. Il Salone del Libro è andato molto bene. Anche quest’anno condividevamo lo stand con gli altri NEI (Nuovi Editori Indipendenti) e abbiamo registrato un nuovo record di vendite e di attenzione nei con-fronti del nostro lavoro e dei nostri libri. Molti tor-nano perché ci hanno conosciuto negli anni scorsi e sono rimasti soddisfatti di ciò che hanno letto, altri sono nostri abituali lettori (alcuni davvero affezio-natissimi), altri vengono a conoscerci di persona perché ci seguono sui social network. È sempre una bella esperienza che andrebbe ripetuta più spesso! Per quanto riguarda le uscite, al Salone presenta-vamo la nostra ultima novità: “I romagnoli am-mazzano al mercoledì” di Davide Bacchilega, che sta ricevendo un’attenzione inaspettata e rischia-mo già di dover ristampare. Per il futuro stiamo cercando altri titoli per la collana “i jolly” inaugu-rata dal piccolo caso di “Caro scrittore in erba...” di Gianluca Mercadante.

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ELLERA EDIZIONI:

FUTURO Ebooka cura di Clara Raimondi

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Nel panorama editoriale italiano si è ap-pena affacciata una nuova casa editrice: Ellera Edizioni, classe 2013, residenza Milano.

Una realtà talmente giovane che non poteva non puntare sugli e-book anche se a ben guardare il progetto sembra abbastanza ambizioso. Francesco Marghstaler, il fondatore, sembra cavalcare due epoche e trovarsi esattamente a metà strada tra le seconda metà dell’Ottocento e i nostri giorni.E sì perché se da un lato, lui e il suo team, decidono di pubblicare tutte le opere della Scapigliatura (per affinità intellettuale e per una buona dosa di vici-nanza ai nostri giorni, ndr), non snobbano di certo il formato cartaceo, anzi! Del vecchio modo di fare editoria rimpiangono proprio gli antichi tempi in cui il librario sotto casa consigliava il libro giusto e sognano una collaborazione con le piccole realtà.Vecchio e nuovo si fondono con disinvoltura e puntare sul digitale invece che sul cartaceo, appare una scelta obbligata.Per una giovane realtà credo sia la scelta miglio-re: vengono abbattuti i costi della stampa, della distribuzione e si privilegia internet per la comu-nicazione che si è mostrato, fin dall’avvento del nuovo formato nel nostro paese, sempre aperto e disponibile.

Scegliere di pubblicare solo in digitale rappresenta anche oggi la massima espressione di libertà cul-turale e gli editori si riappropriano del loro antico mestiere: selezionare giovani autori da presentare al pubblico.Alle catene e alle logiche del guadagno resta tutto l’onere di piazzare sul mercato i libri, ad Ellera, i cui e-book sono distribuiti da Simplicissimus Book Farm, rimane il compito di proporci interes-santi letture da inserire nel nostro e-Reader.Oltre agli autori della Scapigliatura, Ellera Edizio-ni, da poco ha iniziato a proporre anche giovani scrittori contemporanei.Il primo titolo che presenta è La scomparsa di Massimiliano Arlt di Primo Canu (164 pagg, 4,99 euro). Il protagonista, dopo la morte del padre, sarà costretto ad affrontare un dura crisi persona-le aggravata da un incontro fatale che farà proprio durante il funerale del genitore.Per Primo Canu è la prima discesa in campo edito-riale e noi non tarderemo a scoprire la sua proposta e tutto il catalogo di questa casa editrice.Ai Readers auguro buona lettura, agli Young Wri-ters di tenere sott’occhio il sito della Ellera Edizio-ni, magari stanno cercando uno di voi.

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INTERVISTA AD ELISABETH HERRMANN

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INTERVISTA AD ELISABETH HERRMANN

Prima volta in Italia per la scrittrice tedesca, al suo nono romanzo dal 2005, molto nota in patria anche per essere una giornalista televisiva della rete RBB. Come al solito

non condivido la traduzione del titolo originale Das Dorf der Mörder (Il villaggio dell’assassino) trasformato ne Il villaggio dei dannati, termine che conferisce al romanzo una connotazione dark, che potrebbe dar luogo a dei fraintendimenti. Si tratta infatti di uno splendido esempio di suspense psicologica. Un efferato omicidio viene scoperto allo zoo di Berlino, sul posto interviene tra i pri-mi una giovane agente di pattuglia, ambiziosa e determinata, ma dalla carriera frenata da alcuni “difetti”: donna, di bassa statura, di origine stra-niera (croata) e con un nome buffo (Sanela Beara, che a quanto ho capito in Germania è una marca di margarina). L’efficiente polizia tedesca trova ra-pidamente il colpevole e affida ad uno psicologo, Jeremy Saaler, l’incarico di esprimere un parere sulla sanità mentale dell’assassina. Sia l’agente Beara, che lo psicologo non sono affatto convinti della sua colpevolezza e, indipendentemente, sen-za mai incontrarsi fino all’epilogo della vicenda, continuano ad indagare. Per quanto riguarda Sane-la anche contro la volontà dei suoi superiori. L’au-trice, oltre a dimostrare che uno stesso problema può essere risolto seguendo strade diverse, esplora il terreno dell’omertà, particolare che mi ha porta-to a paragonare il Brandeburgo alla Sicilia. La mia osservazione pare l’abbia molto divertita e, tra le altre cose, mi ha confessato di adorare Palermo. Vediamo cosa ci svela del suo stile letterario ...

Ho notato che nei gialli nordici spesso i detective sono stranieri, fatto impensabile in Italia. Negli USA l’esercito è stato a lungo l’unica possibilità lavorativa per uomini e donne di colore, mentre

a cura di Claudia Peduzzi

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la polizia era ed è il regno delle comunità con minor forza economica (italiani, irlandesi, por-toricani, ecc.). Ritiene che l’accesso alle forze di polizia sia il primo Step nel processo d’inte-grazione? Oppure, nel caso di Sanela Beara, ci troviamo di fronte ad una chiusura del cerchio visto che il Brandeburgo, fino al XV secolo, è stata una provincia slava?Da più di venti anni lavoro come giornalista e ho sviluppato una caparbietà che, personalmente, tro-vo affascinante. Non bisogna lasciarsi subito sco-raggiare ed è fondamentale perseverare nel porre domande. Probabilmente pensare a delle alterna-tive per me è più facile che per chi non lo fa abi-tualmente. Inoltre la storia contemporanea mi ha sempre interessato. Per chi, come me, ha vissuto prima il Muro, la Svolta, la divisione di Berlino e poi lo scricchiolante „riunirsi e andare bene in-sieme“, quando hai parenti e amici un pò nell’est e un pò nell’ovest le trame nascono da sole. Sono Storie di Storia che chiedono di essere raccontate e quando mi trovano non mi lasciano più in pace. È l’inizio di un viaggio affascinante la cui meta è la parola FINE.

Per i lettori italiani il nome Sanela Beara non ha alcun doppio senso. Mi è parso di capire in-vece che in Germania corrisponda al nome di una marca di margarina e che questo sia motivo d’ilarità e dileggio. Donna, straniera e con un nome ridicolo, perché far partire l’eroina della storia da un punto così svantaggiato? Sì, la stessa domanda me l’ha fatta anche il mio editore tedesco. Credo sia arrivato davvero il mo-mento in cui in Germania i poliziotti non possa-no più chiamarsi solo Hans e Frieda. La realtà è più avanti della finzione. Praticamente in tutto il mondo della TV, ancora oggi, i commissari sono bianchi, ma quando passeggio per Kreuzberg o bevo una birra a Wuppertal ormai da tanto tempo vedo che il nostro mondo è colorato. Mia figlia va a scuola con ragazzi coreani, turchi, russi, albanesi

e serbi. Cresce in un mondo molto più internazio-nale rispetto a quello che è stato il mio. Una delle sue compagne di classe si chiama Sanela e così ho trovato il nome per la mia protagonista.

Ho letto diverse recensioni di lettori tedeschi che auspicano che Sanela Beara e Jeremy Sa-aler ritornino ad essere protagonisti nei suoi prossimi romanzi (speranza che condivido). In realtà le indagini vengono condotte dalla po-liziotta e dallo psichiatra in maniera del tutto indipendente. È possibile una futura collabora-zione tra i due protagonisti o, eventualmente, “ne resterà uno solo”?Posso annunciare questa novità: ci sarà il seguito del libro. Però senza Jeremy, ma con Sanela e Lutz Gehring (ndr. Il commissario)

Mi pare che sia in corso la trasposizione televi-sivo\cinematografica del romanzo. Leggendolo ho avuto l’impressione che sia già stato scritto con quell’intenzione. Ormai sempre più spesso i libri di successo diventano film. Io lo considero un “analfabetismo di ritorno”, perché le imma-gini sostituiscono la parola scritta proprio come nel Medioevo la pittura e la scultura servivano a comunicare con le masse. Molti cicli pittorici rappresentano l’inferno e i dannati in maniera analoga a quello da lei scelto. Il messaggio che io ho recepito è che la violenza è sempre con-dannabile dal punto di vista giudiziario, ma, da quello psicologico, può essere giustificabile in quanto istintiva reazione ad un precedente episodio di violenza. Quello che non dovrebbe esistere è l’omertà, il silenzio di chi sa e non dice niente per “non essere coinvolto in fatti che non lo riguardano” (il che rende il Brandeburgo in-credibilmente simile alla Sicilia). Scegliendo di raccontare questa storia pensava di lanciare un simile messaggio o crede che, in generale, i let-tori non siano interessati a considerare la lettu-ra uno spunto di riflessione?

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Sì, credo che „il lettore“, questa timida e scono-sciuta creatura non lo voglia e si accorgerebbe ve-locemente se volessi spiegargli il mondo. Il mio obiettivo è, in primis, scrivere delle storie accat-tivanti, ma senza rendere la vita facile ai lettori. I miei protagonisti sono sempre un po’ difficili, ci vuole tempo per conoscerli. Funziona così anche con me! E poi accade una cosa fantastica: ti piac-ciono. Ti affezioni a loro. Ti abitui al loro modo di vedere il mondo e, di conseguenza, forse capirai qualcosa che prima non comprendevi. Quando ca-pita questo è meraviglioso. Con il mio primo ro-manzo „La Tata“ (2005) è successo proprio così. Il libro tratta di un doloroso tema della storia tede-sca e se alla fine anche solo una singola persona si chiederà: „Da dove veniva la tata di mio nonno? – questo per me conta più degli applausi.

Per finire una curiosità molto, molto personale. Ho letto che Lei ha avuto una formazione nel campo dell’edilizia e solo in un secondo tempo si è dedicata alla scrittura. Io sono architetto (che è tutt’ora la mia occupazione principale) e più passa il tempo più ritengo che le parole sia-no come i mattoni e che scrivere e costruire sia-no due attività analoghe. È d’accordo con me?Condivido assolutamente. Un libro ha bisogno di un fondamento, di qualcosa di stabile, di muri por-tanti e di tante stanze. Oltre che di una cantina buia … E ogni tanto anche di un coraggioso impren-ditore esperto di demolizioni, che faccia “saltare” le “superfetazioni” e i labirinti. Inoltre serve tanta pazienza per mettere una pietra sull’altra, altri-menti non si costruiscono né una casa, né un libro. Spero che anche i lettori italiani apprezzeranno il mio modo di scrivere storie.

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Marco Mar-rocco non è uno scrit-tore. No.

Al massimo è un pittore mancato che scrive, un musicista disperato che ha posato il pianoforte per la penna, un regista che abbandona il film per farne un libro. Però dice che non si offende se lo si chiama scrittore. An-che perchè ora, a qual-che mese dalla vittoria del premio letterario “La Giara” ideato da Rai Eri, il suo “Come l’antenna per i passeri” lo lancia nel mondo dei narratori a pieno titolo. E che narra-tore. Narratore dalla provincia e della provincia (è nato a Fondi ed ha vissuto l’adolescenza a Lenola, incantevole paese di montagna), che di Roma non poteva che raccontare le periferie, come province urbane di una metropoli da odi et amo. Scopriamo Marco Marrocco in queste risposte puntuali.

Un tuo romanzo s’intitola “Olio su tela”; hai iniziato occupandoti di cinema, quello citato è un titolo pittorico, ora lavori per la televisio-ne: tutto pare confluire nella scrittura, in que-sto tuo “come l’antenna per i passeri”. quando scrivi sei un pittore, un regista, uno scrittore o tutto insieme?La mia ricerca mi porta costantemente verso una sintesi di tutte le forme d’arte. quando scrivo co-struisco un mondo contiguo al reale, non la sua co-pia: pittura, cinema, scultura, e altro ancora con-fluiscono nell’architettura del romanzo.

“Come l’antenna per i passeri” potrebbe essere una sceneggiatura cinematografica: nessuno ti ha proposto di farci un film?Ci sto lavorando. Il soggetto è ormai terminato. Dovrebbe arrivare il momento del trattamento. Speriamo bene.

IL VINCITORE DEL PREMIO RAI “LA GIARA”: «HO SCRITTO QUELLO CHE FELLINI AVEVA GIÀ PENSATO»

Cosa o chi ti ha ispirato la scrittura di questo ultimo libro?La suggestione è nata da una storia non scritta da Federico Fellini. Il maestro, ricoverato al policli-nico Umberto I, immaginava che due pazzi entras-sero nella città universitaria dopo essere fuggiti dal reparto di psichiatria. Tutto qua. Il resto è nato nella mia testa.

Quanto hanno contato le atmosfere “di paese” dalle quali provieni? Si guarda roma in ma-niera completamente diversa se si viene dalla provincia?Sono arrivato a Roma dopo il liceo. La trovavo orribile, enorme, inconcepibile, nel senso che non riuscivo a creare nella mia mente una seppur mini-ma mappa della città in cui, mio malgrado, vivevo. L’amore è arrivato dopo, all’improvviso, irreversi-bile. In questo senso sì, la guardo con lo sguardo di uno che l’ha conquistata, e ne è stato conquistato. Direi con amore.

Che opportunità rappresenta il premio “la giara”?È un premio importante, che ti mette davanti a una serie di giudizi durissimi: passare le fasi regionali non è facile, per non parlare della giuria naziona-le, con nomi come Maraini, Scaglia, Ferrari, Si-

a cura di Simone di Biasio

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nibaldi. Per me ha significato i n n a n z i t u t t o una conferma sul piano della scrittura. Se ci credono nomi così, perché non dovrei io?

Quando ci si può sentire “ scr i t tor i”? Non esistono lauree o paten-tini, forse per questo si pub-blicano troppi libri...I libri non sono mai troppi, semmai sono i lettori ad essere pochi. Quanto a sentirsi scrittore io proprio non ce la faccio.Iil mio primo libro ha questa dedica: “a Barbara, che mi ha sempre dato dello scrittore, e io non mi sono mai offeso”. L’i-dea di pensarmi solo come uno scrittore di profes-sione non mi piace.

Il libro del Novecento che tutti dovrebbero leggere.Ce ne sono molti. Voglio essere un po’ provocato-rio, e dico “Lolita” di Nabokov.

Il film che ognuno di noi dovrebbe aver visto.Jules eJim.Il programma tv italiano migliore di sempre.Studio uno.

Com’è lavorare oggi in tv? Per uno scrittore, poi...A questa domanda non rispondo.

Un classico delle domande: consigli ad un gio-vane scrittore.Non ne ho. Ma nel caso qualcuno ne avesse, la mia mail è [email protected]

a cura di Simone di Biasio

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A lei non si può resistere.

festival di poesia contemporanea

fondi / 13-14-15 giugno 2014

associazionedelibero.com