Paolini Paoletti Conoscere lessere, Fabro e Gilson.
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Conoscere l'essere. Fabro, Gilson e la conoscenza dell'actus essendidi Michele Paolini Paoletti1
Abstract: The author analyses the interpretations of the knowledge of actus essendi from a Thomistic point of view
given by Cornelio Fabro and Étienne Gilson. The two philosophers share a common background in their refusal of
essentialism and in their defense of a real distinction between actus essendi and essentia. However, Gilson confuses
actus essendi with existentia, whereas Fabro gives a more perspicuous interpretation of actus essendi. Yet Gilson's
analysis of existential judgement seems to provide a good proof to the thesis of real distinction and can be conciliated
with Fabro's interpretation.
Cornelio Fabro ed Étienne Gilson hanno fornito, nel XX secolo, le due interpretazioni più rilevanti
ed originali della metafisica tommasiana2. I due filosofi, infatti, si sono confrontati ampiamente con
il pensiero moderno e contemporaneo (in modo particolare, con l'esistenzialismo e con Heidegger)
ed hanno colto, nella nozione tommasiana di actus essendi, l'elemento teoreticamente più fecondo
per rispondere alla crisi novecentesca della metafisica ed alle accuse heideggeriane di «oblio
dell'essere» (Seinsvergessenheit) rivolte all'intera tradizione metafisica occidentale. Per Fabro e per
Gilson, infatti, l'actus essendi di Tommaso d'Aquino tiene insieme due fattori decisivi per sfuggire
ad ogni riduzione essenzialista o esistenzialista della metafisica: esso eccede i singoli enti e le loro
essenze, nonché le categorie modali predicabili delle essenze stesse (riduzione essenzialista); l'actus
essendi, allo stesso tempo, non può essere neppure inteso, semplicemente, come il polo negativo
dell'essenza, come la condizione di libertà dell'agire umano opposta ai vincoli della necessità
essenziale (riduzione esistenzialista). Al di là del confronto di Fabro e Gilson con i singoli pensatori
moderni e contemporanei (un confronto che non è possibile analizzare in questa sede), vale la pena
riaffermare l'importanza del contributo speculativo di questi due autori proprio all'interno della
cornice sin qui delineata. Per Fabro e Gilson, infatti, l'interpretazione della metafisica tommasiana
non è un mero esercizio esegetico, volto a ricostruire i capisaldi di una metafisica che deve essere
aprioristicamente accettata in quanto «metafisica ufficiale della Chiesa Cattolica». Al contrario, il
valore di verità della metafisica di Tommaso, opportunamente depurata da letture poco fedeli allo
spirito autentico dei testi, emerge unicamente in sede filosofica ed è valutato unicamente in questa
sede. Si tratta di una metafisica cristianamente ispirata che non ha timore, tuttavia, di affrontare le
sfide della filosofia in quanto tale.
Fabro e Gilson, nondimeno, pur concordando sul valore intrinseco della nozione di actus essendi in
opposizione alle due riduzioni già citate, non paiono concordare su un punto decisivo: la
1 Dottorando in Filosofia e teoria delle scienze umane presso l'Università degli Studi di Macerata. Si occupa di studi metafisici, soprattutto in relazione alle nozioni di esistenza e possibilità. Ha studiato le metafisiche di Gilson e di Leibniz e sta preparando una ricerca dottorale sulla nozione di esistenza nella filosofia analitica contemporanea. Oltre ad aver pubblicato diversi articoli e recensioni, ha tradotto Realismo tomista e critica della conoscenza di Gilson (Studium, Roma, in corso di pubblicazione).
2 Per un confronto tra Fabro e Gilson, cfr. anche A. ROBIGLIO, Gilson e Fabro – Appunti per un confronto, in Divus Thomas, 17, 2, 1997, pp. 59-76
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conoscenza dell'actus essendi e la sua interpretazione in termini di existentia. Per Fabro, l'actus
essendi differisce dall'existentia e non può essere ridotto ad essa; per Gilson, invece, l'actus essendi
di un ente può essere generalmente inteso come equivalente alla sua existentia e può essere colto nei
giudizi esistenziali. Il punctum saliens della questione, dunque, sembra essere la possibilità di
accettare o meno la sinonimia tra questi due termini («actus essendi» ed «existentia»). In seconda
battuta, si tratta di esaminare le modalità adeguate di conoscenza dell'actus essendi. Possiamo
formulare sinteticamente i due problemi in questo modo:
(1) cos'è l'actus essendi di un ens? Esso può essere identificato con l'existentia dell'ens?
(2) Come può essere conosciuto l'actus essendi di un ens?
In primo luogo, occorre esaminare le risposte di Cornelio Fabro, fornite soprattutto in due testi: La
nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d'Aquino e Partecipazione e causalità
secondo S. Tommaso d'Aquino (§1). In secondo luogo, si potranno valutare le risposte di Étienne
Gilson nel celebre testo L'être et l'essence3 (§2). Da ultimo, si procederà ad un confronto tra le
posizioni dei due autori: Fabro, a mio parere, offre una soluzione più convincente, poiché fornisce
valide ragioni per distinguere l'existentia dall'actus essendi. L'interpretazione gilsoniana dei giudizi
esistenziali, tuttavia, può essere intesa come un'adeguata illustrazione della differenza tra essentia
ed esse e come un passaggio preliminare per comprendere l'emergenza dell'actus essendi
sull'essentia di un ens (§3).
1. L'actus essendi secondo Cornelio Fabro.
La riflessione di Cornelio Fabro sulla nozione tommasiana di actus essendi è strettamente connessa
e vincolata alla riflessione sulla nozione di partecipazione. Solo mediante un approfondimento della
participatio tommasiana, infatti, è possibile comprendere l'originalità del pensiero di Tommaso
d'Aquino, il suo sforzo di sintesi rispetto alle due grandi tradizioni filosofiche classiche (quella
platonica e quella aristotelica), nonché il significato delle tesi più rilevanti sostenute dal Doctor
Angelicus.
Fabro, ne La nozione metafisica di partecipazione, studia le fonti del pensiero tommasiano proprio
in questa prospettiva, analizza numerosi testi dell'Aquinate e dei suoi commentatori per descrivere
adeguatamente le forme della participatio negli enti e per convalidare la tesi di una distinzione reale
tra essentia e actus essendi in seno a ciascun ens. In questo senso, sembra opportuno distinguere
preliminarmente, almeno ai fini del nostro lavoro, proprio la nozione di ens da quelle di essentia e
di actus essendi, per poterci concentrare successivamente sulle risposte ai problemi (1) e (2). Scrive
Fabro: «ente è un termine participiale in senso attivo, che indice in concreto l'esercizio di una
formalità, quella dell'essere: ente allora è “ciò che è”, id quod est, come “camminante” è ciò che
3 Cfr. É. GILSON, L'être et l'essence, Vrin, Paris, 1948 (2° ed. ampliata, corretta e riveduta: 1962), trad. it. L'essere e l'essenza, a cura di L. Frattini e M. Roncoroni, presentazione di A. Livi, Editore Massimo, Milano, 1988
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“cammina”»4. La formalità dell'essere, tuttavia, è una formalità speciale, dotata di molteplici
significati, che sono sintetizzati da Fabro in questo modo5: (a) ens in communi, come prima
astrazione intellettuale «da una particolare percezione di ordine concreto»6 (Dingsein); (b) essere
formale, cioè essere come essenza che esiste (Etwassein); (c) essere attuale, cioè essere come atto
dell'essenza (Wirklichsein); (d) essere logico, come verità (Wahrsein); (e) «una nozione di essere
che è la sintesi, nella quale vengono a trovarsi fuse tutte le formalità e perfezioni particolari con la
rimozione di ogni potenzialità»7. Il chiarimento di questi cinque significati dell'essere, dunque,
delinea già il quadro di una soluzione al nostro problema (1). Il punto centrale di tale soluzione
consiste nel tenere distinti, evidentemente, i significati (b), (c) ed (e), da un lato, sostenendo la
distinzione reale tra essentia e actus essendi, nonché, prima ancora, tra ciò che un ente è ed il fatto
di esistere, e nel riaffermare, proprio in contrasto con Gilson, la distinzione tra i significati (c) ed
(e). Si noti, tuttavia, che il significato (c), stabilito come essere attuale dell'essenza, esprime soltanto
l'attualità, la realtà dell'essenza: non si può parlare ancora, dunque, come Fabro, di un vero e proprio
«atto dell'essenza», ma soltanto di una «attualità dell'essenza». L'atto dell'essenza, dunque, è ben
altra cosa dall'attualità dell'essenza, cioè dal suo «essere in atto». Un'implicita identificazione tra
Wirklichsein ed actus essendi, infatti, può generare notevoli problemi interpretativi e può mettere in
crisi la distinzione centrale (affermata da Fabro in molte occasioni, come si osserverà) tra «esse in
actu» (existentia) ed «esse ut actus» (actus essendi). Un altro passo apparentemente ambiguo de La
nozione metafisica di partecipazione è il seguente: «al termine concreto “ente” corrispondono in astratto nel pensiero tomista due termini: “essenza ed essere”, che stanno
a significare due attualità, dalle quali si comprende risultare l'ente reale cioè l'essenza e l'actus essendi, ovvero l'esse
essentiae, e l'esse existentiae»8.
L'existentia di un ens, il fatto che l'ente sia, non è identica al suo actus essendi.
Ad ogni modo, la distinzione tra il significato (b) e il significato (c) è ben più esplicita: «quando ci è noto di una cosa l'esse essentiae sappiamo “che cosa” è, e perché qualcosa venga a diversificarsi in mezzo
alle altre con le quali coesiste; per l'esse existentiae sappiamo che c'è, che esiste di fatto, e non può essere ridotta o
confusa con un concetto od un vano desiderio»9.
L'essentia e l'actus essendi, nondimeno, non hanno significati indipendenti e perfettamente
separabili: le essentiae possono essere pensate solo in relazione ad un'esistenza possibile, allorché
sono astratte dalla realtà, o ad un'esistenza reale, mentre l'existentia è intesa sempre come l'atto di
una qualche formalità: «l'essere puro per sé sussistente non è per noi oggetto di semplice apprehensio o intuizione, ma è una conclusione alla
quale arriviamo dopo laboriosi ragionamenti, checché abbiano voluto dire gli ontologi, e questo per le condizioni
4 La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d'Aquino (NMP), p. 1855 NMP, pp. 187-1886 NMP, p. 1877 NMP, p. 1888 Ibidem.9 Ibidem.
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particolari del nostro modo di conoscere che è finito e legato alla sensibilità»10.
L'esposizione del processo di questi «laboriosi ragionamenti» costituirà la risposta di Fabro al
problema (2).
Le perfezioni formali delle essenze, poi, sono continuamente rapportate tra loro dal pensiero, che si
muove in questo modo verso la perfezione suprema: l'essere in quanto essere. Le formalità, cioè, «si
presentano secondo un intensificarsi progressivo di perfezione e secondo un piano che ascende a
spirale per gradi, secondo una contiguità che possiamo chiamare metafisica»11. Ogni formalità è
limitata nell'ordine dell'essere. Solo l'ipsum esse è «l'ultimo termine della risoluzione formale
dell'essenza»12, non-limitato e non-determinato, eppure infinitamente più ricco dell'ens in communi,
che è il risultato della prima e più povera astrazione intellettuale. L'ipsum esse, in altri termini, «è
talmente ciò che è che, essendo sé, è tutte le altre formalità e più ancora» e «riassumendo in sé la
perfezione di una formalità, non esclude quella di un'altra ma anzi la implica», sicché «tutte le
perfezioni sono in lui presenti senza alcuna contrarietà formale»13. In sintesi, l'ipsum esse «esprime
adunque la “totalità metafisica trascendentale” di cui le singole perfezioni e formalità reali non
sono che particolari realizzazioni ed espressioni, cioè “partecipazioni”»14.
L'actus essendi, pertanto, «non è soltanto il fatto di esistere, o “id per quod aliquid constituitur
extra suas causas”»15. Quest'ultimo, infatti, «è l'effetto esterno dell'atto di essere, ma secondo S.
Tommaso l'atto di essere è di natura più profonda»16. L'atto di essere, distinto realmente dall'essenza
è ciò che vi è di più intimo in ogni cosa, la perfezione suprema, la pienezza assoluta di tutte le
forme. In senso astratto, esso è «termine dell'astrazione intensiva ed è il plesso di tutte le perfezioni
formali e trascendentali», mentre, in senso concreto, «è l'atto proprio di ogni formalità particolare,
onde è bensì ciò che vi è di più perfetto in un essere particolare, ma resta imperfetto a confronto
dello esse che attua una formalità di ordine superiore»17.
Risulterà ormai chiara e ben motivata la distinzione tra actus essendi ed existentia, cioè la risposta
di Fabro al problema (1). L'existentia di un ens è stata intesa dal pensiero contemporaneo come «la
libertà dello spirito finito che si trova nel mondo e deve darsi perciò una struttura»18. In tal senso,
solo gli uomini «esistono» propriamente, mentre, per l'Aquinate, tutti gli enti esistenti sono dotati di
un actus essendi e, proprio per questo, esistono. L'existentia non è neppure «il “fatto”, ovvero il
“darsi” fenomenico per la coscienza di ogni esperienza possibile»19, come ritiene parte del pensiero
10 Ibidem.11 NMP, p. 19012 NMP, p. 19113 Ibidem.14 Ibidem.15 NMP, p. 19516 Ibidem.17 NMP, p. 19818 NMP, p. 3019 Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d'Aquino (PC), ed. 1960, p. 229
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moderno. Se l'existentia, poi, è concepita come il «fatto di essere come mera realtà storica in una
data situazione spazio-temporale»20, come effettualità (Wirklichkeit)21, come «stato» dell'essenza
reale22, come «attualità» della sostanza23, essa resta sempre e comunque identificabile con l'esse in
actu di un ens, e non può mai equivalere all'esse ut actus, cioè all'actus essendi. A più riprese,
dunque, il filosofo friuliano accosta existentia e fattualità: commentando Zigliara, ad esempio, egli
afferma che «l'esse come existentia è la realizzazione di fatto, lo esse in actu, di un modo ch'è
passato dalla possibilità alla realtà»24. Fabro può così criticare la lettura della metafisica tommasiana
fornita da Bañez25, che confonde existentia ed actus essendi, cui Gilson, come noteremo, si connette
espressamente. Tommaso, rileva Fabro, non opera mai sull'existere, ma sempre sulla ratio essendi:
il suo pensiero è diretto già sempre ad intendere l'actus essendi26. Scrive Fabro: «essentia – esse: è terminologia autentica di S. Tommaso presso il quale non conosco alcun testo che porti existentia al
posto e nel significato di esse (come atto intensivo) e mai l'Angelico usa la terminologia di “distinctio (o compositio)
inter (ex) essentia(m) et existentia(m)”»27.
In questo modo, si potrà cogliere anche la risposta fornita da Fabro al problema (2). Attestare
l'esistenza di un ens in un giudizio significa, evidentemente, muovere dalla esperienza di un ens e
riconoscere che questo ens è reale, che esso si dà nel mondo. Ogni sintesi mentale deve essere
conforme o meno ad una sintesi reale, per fondare o meno la verità dei giudizi. Per Fabro, allora,
«all'esse (o non-esse) di ogni attribuzione (logica) deve corrispondere un esse (o non-esse) di
appartenenza reale ch'è l'esse in actu»28 e la molteplicità dei significati dell'esse in actu, che è data
dal riferimento a diversi piani dell'essere e che fonda la verità dei giudizi, è fondata a propria volta
dall'esse ut actus. Quest'ultimo, dunque, non può esser conosciuto adeguatamente nei giudizi.
La conoscenza dell'actus essendi è, piuttosto, il risultato di un lungo ed articolato processo che
coinvolge tutte le facoltà conoscitive dell'uomo. Fabro parla di un'astrazione metafisica, distinta
dall'astrazione formale e da quella totale, e di una riflessione intensiva, che consentono, al culmine
della nostra conoscenza della realtà, di paragonare le diverse ragioni formali degli enti con il loro
atto d'essere individuale. Ogni ente possiede, in modo diverso e secondo livelli distinti e graduati di
perfezione, la propria ragion d'essere. L'essere in quanto tale, però, non è semplicemente il «genere»
che astrae dalla diversità delle proprie particolari realizzazioni (cioè il «genere» di tutti gli atti di
essere). Non si tratta, in altri termini, di un concetto vuoto e povero, che può essere ottenuto
mediante un'operazione di astrazione totale. L'esse ipsum, al contrario, è infinitamente più ricco di
20 NMP, p. 19721 PC, p. 1322 Cfr. PC, p. 2823 Cfr. PC, p. 23424 C. FABRO, Per la semantica originaria dello «esse» tomistico, in Euntes docete, 9, 1956, p. 44225 Cfr. PC, pp. 614-61926 Cfr. PC, p. 22927 Cfr. C. FABRO, Per la semantica originaria dello «esse» tomistico, op. cit., p. 43928 PC, p. 235
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tutte le proprie determinazioni, le trascende perché è inesauribile rispetto ad esse. L'esse ipsum è
«pienezza di attualità», «pienezza d'intelligibilità» e «tutti gli altri modi di essere, dai più universali fino ai particolari, appaiono come coartazioni e negazioni parziali, che
sono più o meno degradate secondo che più o meno s'avvicinano all'Essere, per la negazione delle imperfezioni e dei
limiti»29.
Nella propria soluzione al problema (2), dunque, Fabro non ammette che una singola facoltà
dell'uomo possa cogliere l'actus essendi di un ente. Tutta la conoscenza umana è orientata all'actus
essendi e solo nel punto più elevato della riflessione metafisica l'uomo può volgersi all'esse ipsum
subsistens, cioè al puro actus essendi. In caso contrario, l'actus essendi sembrerebbe più simile ad
un concetto, che a quella «pienezza di attualità» che rende ragione di ogni ente30.
Resta da aggiungere, però, un ulteriore passaggio della riflessione di Fabro. Il filosofo friulano
riconosce che Tommaso d'Aquino ammette nei singoli enti una distinzione reale tra essentia ed
actus essendi anche in virtù di una considerazione sulla natura del giudizio. L'intelligentia
indivisibilium ed il giudizio, in effetti, sono due operazioni distinte dell'intelletto umano: la prima
comprende il «quid est» di un ens, il secondo compone e scompone le idee per formare enunciati
affermativi e negativi. I giudizi esistenziali, in particolare, cioè i giudizi della forma «x esiste», si
fondano proprio, almeno nel caso degli enti finiti, sulla distinzione reale tra essentia ed actus
essendi: «in quanto invece in tutti gli altri esseri (diversi da Dio, n.d.r.) l'essenza è distinta (realmente) dall'atto di essere, noi
possiamo prima conoscerli in astratto nell'idea, prescindendo dall'atto reale di essere, ed in un secondo tempo conoscerli
secondo il modo di essere reale nel giudizio»31.
I giudizi esistenziali, allora, non permettono di conoscere l'actus essendi di un ens, ma consentono
almeno di sapere che esso è realmente distinto dalla sua essentia e che non può essere ridotto ad
essa.
2. L'actus essendi-existentia secondo Gilson.
Per comprendere l'interpretazione fornita da Gilson dell'actus essendi come existentia, occorre
rivolgere uno sguardo complessivo alla descrizione della metafisica tommasiana fornita dal filosofo
francese32. L'oggetto primario della metafisica, secondo Tommaso d'Aquino, è certamente l'ens, che
si identifica con la res/substantia. Tommaso, nondimeno, rileva che «hoc vero nomen ens imponitur
ab actu essendi»33: il centro della metafisica, dunque, è costituito dallo studio dell'actus essendi,
poiché ogni ens è tale solo e soltanto in virtù dell'actus essendi.
La definizione tommasiana dell'esse, osserva Gilson, è distinta in modo significativo da quella
29 NMP, p. 22530 Cfr. NMP, pp. 127-14131 NMP, p. 20932 Cfr. É. GILSON, L'essere e l'essenza, op. cit., pp. 71-11133 TOMMASO D'AQUINO, In metaphysicam, IV, 1, 18
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aristotelica, giacché l'Aquinate opera a partire dalla nozione teologica (tipicamente giudaico-
cristiana) di creazione, che Aristotele non avrebbe mai potuto accettare. Gilson, tuttavia,
sembrerebbe riconoscere, proprio su questo punto, una radicale incommensurabilità di paradigmi
filosofici, fondata su presupposti teologici, cioè extra-filosofici. Ad ogni modo, l'esse, dal punto di
vista tommasiano, può essere inteso in tre modi: come quidditas vel natura rei, come actus
essentiae e come l'esse che viene espresso dalla copula34. Quest'ultimo significato, tuttavia, è
fondato sull'actus essentiae. La metafisica di Tommaso sembra proporsi quattro obiettivi essenziali:
(1) distinguere adeguatamente et in re l'esse come quidditas dall'esse come actus essentiae; (2)
definire la costituzione metafisica degli enti a partire dall'idea di tale distinzione; (3) rendere
ragione del primato reale ed esplicativo dell'esse ut actus essentiae; (4) garantire la possibilità di
conoscere l'actus essendi di un ens. Tutto dipenderà, evidentemente, dal raggiungimento
dell'obiettivo (1).
Tommaso, pertanto, afferma che l'esse (inteso come actus essendi) non può essere identificato né
con la forma di un ens, né con la sua essentia. La forma di un ens, infatti, è certamente un
principium essendi, ma lo è soltanto nell'ordine della causalità formale, giacché nessuna forma può
essere causa efficiente dell'esistenza di un ens35. Ogni forma è certamente un actus nel proprio
ordine, ma non ogni actus è una forma: l'actus per cui un ens esiste, così, non è semplicemente la
forma di quell'ens. L'esse ut actus essentiae, poi, non è riconducibile neppure all'essentia.
Al di là della motivazione teologica presente nella nozione cristiana di creazione, Gilson ritiene che
Tommaso riesca a render ragione di una distinzione reale tra essentia ed actus essendi, nel caso
degli enti creati, con almeno una motivazione filosofica: la non-autosufficienza dell'essentia
nell'ordine esistenziale. L'essentia di un ens è la sua quidditas, ciò che l'ens è. L'essentia creata non
può donarsi da sola l'esistenza: noi possiamo concepire, infatti, essentiae di enti esistenti ed
inesistenti, eppure non sapere ancora nulla riguardo alla loro esistenza. In termini più moderni, mi
sembra di poter rendere l'argomento in questo modo:
(a) possiamo intendere l'essentia di un ens comprendendo tutte le proprietà (materiali e formali) che
spettano costitutivamente all'ens (es. l'essentia di Marco è data dal suo essere un uomo, cioè un
animale razionale, e dalla materia signata quantitate che individua Marco);
(b) l'esistenza non è una proprietà costitutiva dell'ens;
(c) l'esistenza, pertanto, è distinta realmente dall'essentia di un ens.
Occorre svolgere alcune precisazioni, tuttavia, sulle affermazioni (b) e (c). In primo luogo, per
quanto riguarda l'affermazione (b), bisogna notare che Gilson identifica a questo punto l'actus
essendi con l'existentia dell'ens. Dal punto di vista di Tommaso d'Aquino, come rileva Fabro, la
mossa non è legittima: l'actus essendi è l'ens ut actus, mentre l'existentia è l'ens in actu. Per questo
34 Cfr. TOMMASO D'AQUINO, Super sententiis, I, 33, 1, 1, ad 135 Qui si rivela, chiaramente, tutto il peso della nozione cristiana di creazione.
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motivo, è ben diverso affermare che «Marco esiste» e affermare che «vi è qualcosa (l'actus essendi),
nell'ens 'Marco', che fa sì che Marco esista». Gilson, nel trattare come sinonimi i termini «actus
essendi» ed «existentia», dichiara di riferirsi all'interpretazione di Bañez, ma il richiamo all'autorità
non elimina il gap concettuale tra i due termini. Lo stesso autore francese riconoscerà
successivamente l'errore: «il en est pourtant un, en français, auquel j'ai moi-même succumbé, et d'autres comme moi, contre lequel je crois devoir
mettre en garde, ne serait-ce que pour limiter les dégâts que mon mauvais exemple peut avoir causés, c'est le mot
“exister” comme traduction d'esse»36.
Il senso complessivo dell'argomento, tuttavia, resta intatto: l'esistenza di Marco non è una proprietà
costitutiva della sua essentia, giacché possiamo conoscere Marco ed essere incerti, nondimeno,
sulla sua esistenza. Resta da chiedersi, tuttavia, se l'actus essendi, con un linguaggio moderno,
possa essere considerato come una proprietà di Marco e se l'esistenza di Marco possa essere
considerata come una sua proprietà accidentale. La prima questione non trova una risposta chiara
nella metafisica tommasiana. Se noi restringiamo la nozione di «proprietà» alle proprietà
dell'essentia o alle proprietà accidentali, l'actus essendi non può esser considerato una proprietà:
non è una proprietà dell'essentia, come abbiamo già rilevato, perché si tratta di ciò che fa sì che
l'ens esista e, se l'esistenza non è compresa nell'essentia, neppure l'actus essendi (ciò che «produce»
l'esistenza) può costituire l'essentia, né può essere dedotto da essa (almeno nel caso degli enti
creati); non è una proprietà accidentale dell'essentia perché noi possiamo concepire gli enti e
conoscere le loro essentiae solo e soltanto a partire da (astraendo da) enti esistenti. Questi ultimi,
dunque, non possono essere separati dal loro actus essendi, poiché non vi è un regno, distinto dalla
realtà, nel quale Marco «si dà», ma non esiste. Questa soluzione mi sembra in linea sia con le tesi di
Tommaso d'Aquino, sia con alcune delle intuizioni di Gilson, benché si debbano risolvere alcuni
problemi legati allo statuto degli enti inesistenti. Ad ogni modo, né l'actus essendi, né l'existentia
sono proprietà accidentali degli entia.
L'affermazione (c), invece, solleva un ulteriore problema: come possiamo intendere la
composizione/distinzione reale tra essentia ed actus essendi in maniera non-viziosa? Se l'essentia e
l'actus essendi sono due res distinte, infatti, ognuna delle due res dovrebbe essere composta di
essentia ed actus essendi, e così all'infinito. La realtà della composizione/distinzione, però, deve
essere ammessa per rendere ragione del fatto che la conoscenza dell'essentia prescinde dalla
conoscenza dell'esistenza. L'esistenza, afferma Gilson, non può essere separata dall'essentia ut res a
re: «ciò che dice San Tommaso è che l'esistenza non è concepibile se non come quella di una sostanza che esiste» e «se noi
la separiamo dal concetto di ciò che esiste, cioè dalla “sostanza” o dalla “cosa”, la “esistenza” come tale è un termine
36 É. GILSON, Langage et doctrine de l'être chèz Saint Thomas d'Aquin, in AA. VV., Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, a cura di Vittore Branca, Sansoni, Firenze, 1973, p. 16
![Page 9: Paolini Paoletti Conoscere lessere, Fabro e Gilson.](https://reader038.fdocuments.in/reader038/viewer/2022100601/557212db497959fc0b911597/html5/thumbnails/9.jpg)
senza contenuto proprio»37.
Nondimeno, ci potrebbe sembrare più opportuno riconoscere, proprio per questo motivo, non già
una composizione/distinzione reale, bensì una composizione/distinzione razionale, sia pure fondata
in re. La composizione/distinzione razionale, tuttavia, non riesce, almeno a mio avviso, a render
ragione della contingenza dell'esistenza degli entia creati. Gli entia creati, cioè, sarebbero potuti non
esistere. E proprio la contingenza del loro esistere potrebbe giustificare la composizione/distinzione
reale tra ciò che fa esistere l'ens (l'actus essendi) e ciò che l'ens è (l'essentia). Queste osservazioni
dovrebbero integrare i rilievi di Gilson ed illustrare, sia pure in modo ancora impreciso, la
differenza tommasiana tra essentia ed actus essendi.
Date queste acquisizioni, comunque, è possibile raggiungere gli obiettivi (2) e (3)
dell'interpretazione gilsoniana della metafisica di Tommaso. Ogni ens creato è composto realmente
di essentia ed actus essendi. L'actus essendi è atto dell'essentia, che si rapporta ad esso come
potentia. Diversamente da Aristotele, infatti, Tommaso d'Aquino non ritiene che ogni actus sia una
forma e che ogni potentia sia materia: le quattro nozioni (actus, potentia, forma, materia)
esprimono realtà differenti. In altri termini, le nozioni di actus e forma, così come quelle di potentia
e materia, non sono correlate tra loro come se esprimessero semplicemente due sensi diversi della
stessa realtà. Al contrario, occorre ammettere che anche gli enti creati non dotati di materia (es. gli
angeli) non sono identici al loro actus essendi, benché siano dotati soltanto di forma. In sintesi,
Tommaso sembra proporre una triplice distinzione degli enti: (I) enti creati materiali, composti di
materia (potentia) e forma (actus) nella loro essentia, che a sua volta è in potentia rispetto all'actus
essendi; (II) enti creati spirituali, composti di una forma-essentia che è in potentia rispetto all'actus
essendi; (III) Dio, l'Esse ipsum subsistens, nel quale l'essentia e l'actus essendi si identificano
realmente e confondono. Dio è il Suo proprio Essere, è Colui che è.
Anche l'obiettivo (3) ha ormai trovato una via di risoluzione soddisfacente. L'actus essendi, infatti, è
ciò che consente l'esistenza degli entia, è la loro prima actualitas. Esso, pertanto, è più perfetto
dell'essentia (rispetto alla quale è actus) e della forma: «hoc quod dico esse est actualitas omnium
actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum»38. Ogni ens è dotato della propria forma
solo e soltanto in virtù dell'esse e, proprio per questo motivo, diviene conoscibile: «esse est
complementum omnis formae, quia per hoc completur quod habet esse, et habet esse cum est actu:
et sic nulla forma est nisi per esse»39. L'actus essendi, come atto primo dell'ens, è il fondamento di
ogni altra actualitas: «nihil enim habet actualitatem, nisi inquantum est, unde ipsum esse est
actualitas omnium rerum, et etiam ipsarum formarum»40.
Il raggiungimento dell'obiettivo (4), invece, è strettamente congiunto ad una questione perenne della
37 É. GILSON, L'essere e l'essenza, op. cit., p. 10138 TOMMASO D'AQUINO, Quaestiones disputatae de potentia, 7, 2, ad 939 TOMMASO D'AQUINO, Quaestiones quodlibetales, XII, 5, 140 TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 4, 1, ad 3
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filosofia della conoscenza: il confronto tra realismo ed idealismo, nonché, almeno nella prospettiva
di Gilson, la dimostrazione della superiorità del primo sul secondo. Gilson dedica a quest'ultimo
tema due libri: Le réalisme methodique41 e Réalisme thomiste et critique de la connaissance42. La
superiorità del realismo, cioè della posizione per la quale la realtà e l'essere precedono e guidano
sempre la conoscenza, è fondata sulla natura stessa dell'ens. Gli entia, infatti, non sono essenze
puramente possibili cui, per qualche meccanismo, «capita» di esistere, come sostengono gli
essenzialisti. Al contrario, l'ens è qualcosa che «ha» l'esse, è un'essentia che esiste, e soltanto
astraendo dall'esistenza si può concepire la possibilità di un ens. L'esistenza, pertanto, è il primum
nell'ordine gnoseologico, perché è il primum nell'ordine metafisico: non si danno essentiae
meramente possibili e dotate di una certa realtà, benché inesistenti, cui successivamente si possa
attribuire l'esistenza, ma esistono entia di cui si può conoscere per astrazione l'essentia. L'esistenza
di un ens, pertanto, non è riconducibile ad alcuna conoscenza concettuale, poiché non si dà un
concetto significativo di esse. Il concetto di «essere», in effetti, non può essere determinato e
distinto da altri concetti tramite differenze positive, giacché tutti gli enti esistenti, appunto,
«esistono», né può essere definito tramite un genere ed una differenza specifica, poiché tale
differenza o non sarà, o sarà ancora un essere. L'essentia, a sua volta, deve sempre essere intesa
come essentia di un ens che esiste, mentre gli essenzialisti «dimenticano semplicemente che
l'essenza è sempre quella di un ente, che non viene espresso nella sua interezza dal concetto della
sola essenza» e che «vi è, nel soggetto che ciascuna essenza designa, un elemento metafisico che
trascende la stessa essenza»43.
Il percorso sin qui delineato, dunque, sembra ben chiaro: l'essentia di un ens può essere conosciuta
concettualmente (es. posso sapere che Marco è un uomo perché possiedo un concetto adeguato di
«uomo», distinto dal concetto di «scimmia» o di «elefante»), ma l'esistenza di un ens non può
essere concettualizzabile (es. non posso sapere che Marco esiste per il solo fatto di unire il concetto
di «esistenza», che non è informativo, ad un concetto più o meno completo di Marco). L'esistenza,
in altri termini, non aggiunge nulla (almeno nell'ordine della conoscenza concettuale) all'essentia di
un ens, ma è il presupposto metafisico per il quale tale conoscenza diviene possibile. Resta da porsi,
tuttavia, un'ulteriore domanda: l'esistenza può essere conosciuta? La risposta sarà negativa, se
restringeremo le nostre possibilità conoscitive alla sola conoscenza concettuale. Gilson, nondimeno,
seguendo Tommaso, sostiene che gli esseri umani possono svolgere due tipi distinti di operazioni
conoscitive: l'apprensione, che restituisce il concetto di qualcosa, ed il giudizio, che unisce o separa
i concetti nelle proposizioni. L'esistenza non può essere appresa, poiché non è un concetto. E se il
giudizio consiste semplicemente nell'unione o separazione di concetti, essa non può essere neppure 41 Cfr. É. GILSON, Le réalisme methodique, Téqui, Paris, 1935, trad. it. Il realismo. Metodo della filosofia, a cura di M.
A. Mendosa, Leonardo da Vinci, Roma, 200842 Cfr. É. GILSON, Réalisme thomiste et critique de la connaissance, Vrin, Paris, 193943 É. GILSON, L'essere e l'essenza, op. cit., p. 279
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giudicata, cioè affermata o negata di qualcosa. In questa prospettiva, infatti, il giudizio pare
dipendere strettamente dall'apprensione: uniamo o separiamo certi concetti solo perché, in
precedenza, abbiamo appreso tali concetti.
L'originalità del lavoro filosofico di Gilson, almeno nell'ambito del neotomismo, emergerà
massimamente nel giustificare la distinzione tra giudizi d'essenza e giudizi d'esistenza e tra
proposizioni essenziali e proposizioni esistenziali. In una proposizione essenziale della forma «x è
P», il verbo «essere» viene utilizzato con funzione di copula; in una proposizione esistenziale della
forma «x è», invece, il verbo «essere» non assolve alla funzione di copula, ma esprime, appunto,
l'esistenza di x. Gli essenzialisti, pertanto, sono sempre «tentati» o dalla volontà di ridurre il valore
esistenziale al valore copulativo o, viceversa, dalla volontà di ridurre il valore copulativo al valore
esistenziale. Il filosofo francese critica entrambe le «tentazioni»44.
Nel seguire la prima via, quella della riduzione del valore esistenziale al valore copulativo,
occorrerà dimostrare che un giudizio d'esistenza non è altro che un giudizio d'essenza «camuffato»,
cioè che ogni proposizione esistenziale è una proposizione essenziale. La dimostrazione fallisce,
però, allorché trattiamo la proposizione «x è un esistente» allo stesso modo della proposizione «x è
bruciante». Nel secondo caso, infatti, il predicato «bruciante» esprime qualcosa di diverso dalla
copula «è». Nel primo caso, invece, se si mantiene il valore copulativo di «è», resta il fatto che
«esistente» non esprime altro che uno pseudo-predicato, generato dal verbo «essere», e che «è»,
proprio per tale motivo, non è autenticamente copula. Queste tesi, comunque, meriterebbero di
essere discusse, approfondite ed integrate, giacché mi pare che presuppongano, e non dimostrino, la
molteplicità dei sensi dell'essere.
Nel seguire la seconda via, quella della riduzione del valore copulativo al valore esistenziale, o
quantomeno della presupposizione dell'esistenza in ogni proposizione essenziale, Gilson critica
soprattutto le tesi di Brentano. Se «x è» significa dire semplicemente che «x è x», si identificano due
significati proposizionali differenti e si riduce, in realtà, il valore esistenziale a quello copulativo. Se
«x è» significa soltanto «affermare x», si restituiscono comunque due significati differenti
(esistenziale e copulativo, nella forma «x è x») con la medesima proposizione. Anche in questo
caso, tuttavia, le tesi di Gilson dovrebbero essere discusse più ampiamente.
Ad ogni modo, se le proposizioni essenziali e quelle esistenziali sono realmente distinte, esse
dipendono da atti conoscitivi realmente distinti, sicché «l'affermazione o la negazione dell'esistenza
è un atto mentale irriducibile a ogni altro»45. Il giudizio d'esistenza permette di intravedere un «al di
là» dell'essenza e del concetto, identificabile con l'atto d'esistere, la cui emergenza costituisce il
senso profondo di ogni ente, nonché l'ultima determinazione di tutto ciò che esso è. L'esistenza
44 Cfr. Ivi, pp. 252-259. Cfr. anche M. PAOLINI PAOLETTI, Esse ut actus e giudizio d'esistenza: sulla riflessione metafisica di É. Gilson, in Euntes docete, 63, 1/2010, pp. 191-215
45 Ivi, p. 259
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degli entia creati rimanda all'Essere puro dal quale ogni ens dipende: il limite espresso, nelle
creature, dalla distinzione reale tra il loro esse e la loro essentia consente di supporre l'esistenza di
un Esse ipsum subsistens infinito, in cui essentia ed esse si identificano.
3. Existentia e actus essendi.
L'apparente inconciliabilità delle posizioni di Fabro e Gilson può essere superata a partire da un
elemento fondamentale comune: la difesa della distinzione reale tra esse ed essentia nella
costituzione metafisica degli entia. Entrambi identificano l'esse tomistico con l'actus essendi
dell'ens. Se l'actus essendi, nondimeno, è considerato, seguendo Gilson, come equivalente
all'existentia dell'ens, emergono problemi piuttosto gravi nell'interpretazione della metafisica
tomista. L'existentia, infatti, pertiene a tutto l'ens, poiché esprime il «fatto» che l'ens si dà nella
realtà. Anche se non vi è alcun concetto di «esistenza» pari, ad esempio, al concetto di «uomo», la
nozione di existentia è certamente una nozione significativa: essa «dice» qualcosa degli enti, ci dà
informazioni su essi, e può essere associata ad una serie di note caratteristiche (collocazione nello
spazio-tempo per quanto riguarda gli enti materiali, potere causale, etc.). Riconoscendo la presenza
di tali note, possiamo certamente affermare che alcuni enti esistono (Dio, gli angeli, gli uomini) e
che altri enti non esistono (Pegaso, Polifemo). Gli enti inesistenti possono essere dotati di
un'essentia, ma paiono dipendere, quanto al loro esse, dall'attività conoscitiva di enti esistenti. Una
valida teoria dell'esistenza deve certamente sviluppare un adeguato resoconto della costituzione
metafisica degli enti inesistenti, che non possiamo determinare in questa sede.
Ad ogni modo, l'identificazione tra actus essendi ed existentia reca con sé almeno due problemi
non-risolvibili. Il primo problema è il seguente: se l'existentia si aggiunge all'ens, o essa deve
presupporre la realtà dell'ens cui si aggiunge (a), o bisogna ammettere che non vi sia alcun ens
prima dell'existentia (b). Nel caso (a), la realtà dell'ens diviene una nuova forma di essere, che
precede l'esistenza e che sembra poter essere costituita a partire dalla sola essentia: il rischio di una
metafisica cosiddetta «essenzialista» resta ben presente. Nel caso (b), invece, non si comprende più
a cosa debba essere aggiunta l'existentia. Si può rispondere a tale questione identificando l'ens non-
esistente con la sua essentia. A questo punto, tuttavia, emerge il secondo problema: se l'existentia si
aggiunge all'essentia, o l'essentia deve essere precedentemente dotata di una qualche realtà (c), o
essa è un puro nulla (d). I casi (c) e (d) ripropongono gli stessi interrogativi dei casi (a) e (b).
Parimenti, non si comprende come l'essentia di un ens materiale possa darsi senza presupporre
l'esistenza, giacché alcune caratteristiche proprie degli enti materiali (es. collocazione spazio-
temporale) dipendono strettamente dal «fatto» che tali enti esistono.
I dati fondamentali di una soluzione tommasiana sono pertanto due: (1) significatività della nozione
di esistenza; (2) composizione/distinzione reale tra actus essendi ed essentia all'interno degli entia
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creati. Una teoria che identifica actus essendi ed existentia non sembra rendere ragione del dato (2).
Bisogna distinguere, allora, seguendo Fabro, tra il «fatto» di esistere (existentia) e ciò per cui un
ens esiste (actus essendi). L'actus essendi non si aggiunge all'ens, ma all'essentia. L'essentia non ha
bisogno di «esistere» precedentemente, né di essere dotata di alcun esse non-esistenziale. La non-
contraddittorietà logica, in effetti, non garantisce che l'essentia «sia» prima di esistere, cioè che sia
dotata di una certa realtà prima di esistere: anche la nozione di Pegaso è non-contraddittoria, ma
quale realtà dobbiamo attribuire a Pegaso? La metafisica tommasiana, almeno su questo punto, non
ci pare affatto aperta al meinonghismo o al possibilismo. Il punto centrale del ragionamento è che
noi non pensiamo, né rendiamo ragione di alcunché, se non a partire da enti esistenti. Noi
conosciamo sempre e soltanto enti esistenti oppure oggetti che possono essere ricavati per
astrazione dagli oggetti esistenti. E gli oggetti astratti non possono divenire il primum della
metafisica. La distinzione reale, negli enti creati, tra essentia ed actus essendi può essere difesa,
almeno a mio avviso, non già a partire da una presunta «realtà» ante-esistenziale dell'essentia, ma
dal fatto che tutti gli enti, tranne Dio, sarebbero potuti non-esistere, poiché nulla giustifica, nelle
loro essentiae, un'esistenza necessaria. Anche gli enti materiali esistenti, che paiono presupporre
nella propria essentia alcune note caratteristiche dell'esistenza, sarebbero potuti non esistere e,
pertanto, avrebbero potuto non disporre di tali note. Questo rilievo, tuttavia, ci spinge già al di là
delle osservazioni di Fabro e Gilson e, probabilmente, è in parziale contrasto con esse.
Resta chiaro il fatto che, se l'actus essendi è realmente distinto dall'essentia di un ens, ciò che
consente di conoscere l'essentia non consente, per ciò stesso, di conoscere l'actus essendi. L'analisi
gilsoniana del giudizio di esistenza, in questo modo, opportunamente integrata, può costituire una
delle prove di tale distinzione, giacché l'esistenza è il primo effetto (e l'effetto più proprio)
dell'actus essendi. L'esistenza, allora, almeno nel caso degli enti creati, è un «novum» irriducibile a
ciò che l'ente è, alla sua essentia.