Nonostante siano stati sviluppati diversi criteri...

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  • Nonostante siano stati sviluppati diversi criteri diagnostici per la malattia di Alzheimer, quelli ancora più utilizzati e meglio validati fino ad oggi sono i criteri del National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke-Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association (NINCDS-ADRDA) pubblicati nel 1984.

    Questi basano la diagnosi di demenza di Alzheimer principalmente sull’esclusione di cause secondarie (diagnosi in negativo) e, tentando di riassumerne le basi concettuali, definiscono la demenza di Alzheimer un disturbo cognitivo, comportamentale e funzionale acquisito e progressivamente ingravescente in assenza di cause evidenti.

    Per molti anni sono rimasti i criteri diagnostici di riferimento, che hanno inserito una gradualità nella diagnosi (probabile, possibile, definita), indicandone gli strumenti diagnostici (TC, valutazione psicometrica, EEG, liquor) e permettendo la diagnosi differenziale con forme vascolari, idrocefalo normoteso e altre malattie neurodegenerative.

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  • La prospettiva adottata in quegli anni legava in modo indissolubile le manifestazioni cliniche ai processi neuropatologici in corso, individuando l’AD soltanto in chi avesse manifestato i sintomi della demenza.

    La recente pubblicazione da parte di un Workgroup del National Institute on Aging(NIA) e dall’Alzheimer’s Association (AA) di una consistente revisione di questi criteri, preceduta da un’analoga iniziativa europea, è stata accolta dalla comunità scientifica con grande favore.

    I nuovi criteri proposti riflettono le conoscenze acquisite nel corso degli anni circa i processi fisiopatologici e la loro relazione con i sintomi clinici della demenza, lasciando emergere uno scenario in cui si delinea uno stato di malattia che inizia molti anni prima della manifestazione clinica con una fase di lenta e progressiva neurodegenerazione, dove la demenza rappresenta il risultato finale di anni di accumulo di modificazioni patologiche micro- e macrostrutturali.

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  • Questa considerazione ha modificato la definizione di AD distinguendo la malattia di Alzheimer, cioè l’insieme dei processi patofisiologici, e la demenza di Alzheimer, che ne rappresenta la manifestazione clinica.

    Postulando quindi l’esistenza di un lungo periodo di asintomaticità in cui le alterazioni patologiche cerebrali iniziano e progrediscono lentamente, si evince come diventi fondamentale rilevare e “misurare” tali modificazioni.

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  • I biomarcatori sono variabili di tipo biochimico, morfologico e funzionale e indicano la presenza di mutamenti misurabili in vivo in soggetti asintomatici (fase pre-clinica); si inseriscono in questo scenario assumendo un ruolo importante ma che a tutt’oggi non appare esente da controversie nell’interpretazione del loro utilizzo.

    A proposito dei criteri operativi, la task force NIA-AA afferma esplicitamente di non promuovere al momento l’utilizzo di alcun biomarcatore a scopo diagnostico, ma di sfruttarli solo in ambito di ricerca, e al limite come strumenti opzionali subordinati al giudizio singolo del clinico in casi ben selezionati.

    Per ora risulta essenziale una validazione dei nuovi criteri diagnostici tramite studi clinici e anatomopatologici.

    Mentre è già iniziata, dietro pressione della Food and Drug Administration (FDA), la validazione dei singoli marcatori a scopo regolatorio, è necessario intraprendere trial in cui vengano esplorati più biomarcatori allo scopo di individuare la combinazione di indicatori che risulti più efficace in termini di diagnosi precoce e di prognosi.

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  • La tomografia computerizzata (TC) e la risonanza magnetica nucleare (RMN) sono due strumenti ampiamente diffusi in diagnostica neurologica. Il loro impiego, nel campo delle demenze, è essenziale in termini di diagnosi differenziale, allo scopo di attuare un adeguato approccio terapeutico, soprattutto tramite il riconoscimento tempestivo di forme di demenza potenzialmente reversibili potenzialmente trattabili (ematomi, tumori).

    Le apparecchiature di RMN attuali con magneti da 1,5 e 3 Tesla permettono acquisizioni di immagini digitali ad alta risoluzione con elevato dettaglio strutturale. Numerosi studi hanno dimostrato come la RMN strutturale, fornendo una stima della perdita tissutale in regioni cerebrali caratteristicamente vulnerabili, come l’ippocampo e la corteccia entorinale, sia predittiva di progressione clinica di un soggetto con deficit cognitivo verso demenza di Alzheimer.

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  • La misurazione delle aree di atrofia è considerata un valido marker di stato di malattia e progressione. Il pattern di perdita tissutale correla in modo significativo con i deficit cognitivi. Le zone dove l’atrofia cerebrale, rilevata all’indagine RMN, si manifesta più precocemente sono tipicamente il circuito para-ippocampale(corteccia entorinale, ippocampo) e la corteccia del cingolo posteriore.

    Negli stadi più avanzati l’atrofia da perdita neuronale si evidenzia anche nella corteccia temporale, parietale e frontale, associandosi sul piano clinico a disturbi del linguaggio, della prassia e visuo-spaziali.

    I tassi di neurodegenerazione in termini di atrofia rilevata alla RMN in sede entorinale, ippocampale e temporale correlano bene con il deterioramento delle performance cognitive, dimostrandosi un buon indicatore di progressione di malattia.

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  • Con le tecniche di medicina nucleare si ottengono immagini di un tracciante radioattivo correlato allo stato metabolico, biochimico ed emodinamico delle varie aree cerebrali, in condizioni normali o patologiche. Ciò consente il rilievo precoce del danno funzionale, prima della morte neuronale.

    La SPECT ha costituito la prima tecnica di ricostruzione tomografica in ambito medico-nucleare, ovvero dopo la somministrazione di radiofarmaco. La tecnica, che si è molto evoluta nel corso degli anni, è concettualmente analoga a quella della TC, differendo nella ricostruzione tridimensionale, che si basa su immagini bidimensionali scintigrafiche (proiezioni) acquisite in corrispondenza del cranio del paziente.

    Le molecole utilizzate sono varie, ma in generale si tratta di traccianti di flusso marcati con tecnezio-99m, come il 99mTc-HM-PAO o il 99mTc-ECD. Il loro utilizzo è stato dedicato alla diagnosi precoce e alla predizione di progressione da una condizione di declino cognitivo lieve verso demenza tramite lo studio del flusso sanguigno cerebrale regionale, correlato all’attività neuronale.

    I pazienti con AD mostrano alla SPECT un pattern di ipoperfusione localizzato nella corteccia temporo-parietale bilateralmente e a livello del cingolato posteriore e del precuneo.

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  • La PET si basa sulla somministrazione di molecole marcate con isotopi radioattivi a emivita breve (poche ore) o brevissima (pochi minuti) che, reagendo con un elettrone (la relativa antiparticella) all’interno del corpo del paziente, emettono due fotoni in direzioni diametralmente opposte e rilevate in coincidenza.

    La ricostruzione tomografica di queste acquisizioni genera sezioni tomograficheassiali del cervello, dalle quali, per elaborazioni successive, si ottengono immagini sagittali e coronali.

    Data la breve emivita dei traccianti impiegati, nella quasi totalità dei casi i centri PET devono essere dotati di ciclotrone, apposito acceleratore di particelle che permette di produrre tali isotopi e di poterli utilizzare immediatamente, soprattutto quando questi hanno un’emivita particolarmente breve.

    La caratteristica fondamentale dei traccianti PET, rispetto a quelli SPECT, è di essere “fisiologici”, cioè basati su elementi naturalmente presenti nel corpo umano (come fluoro, carbonio, ossigeno, azoto e carbonio) e quindi di poter dare informazioni più fedeli del metabolismo e della biochimica dell’organismo umano.

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  • Il tracciante di gran lunga più utilizzato con la PET è il fluorodesossiglucosiomarcato con fluoro-18, (18F-FDG o, più semplicemente, FDG), che ha un’emivita di circa due ore. L’utilizzo di questo tracciante, indice diretto dell’attività di metabolismo glucidico, è particolarmente consolidato in ambito cardiologico e oncologico.

    Nello studio delle demenze degenerative, le informazioni di ordine qualitativo e semiquantitativo circa il metabolismo glucidico regionale cerebrale si sono rivelate particolarmente utili nella diagnosi precoce e nella diagnosi differenziale delle varie entità clinico-patologiche.

    I pazienti con AD in fase lieve presentano un pattern di ipometabolismo glucidico in sede parieto-temporale bilateralmente, a livello della corteccia del cingolo posteriore, e in corrispondenza delle circonvoluzioni mesiali del lobo temporale.

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  • I tassi regionali di riduzione del metabolismo glucidico sembrano utili nel predire la progressione clinica da una condizione di declino cognitivo lieve verso demenza.

    Va ricordato che alcuni studi sembrano indicare la possibilità di riconoscere alterazioni metaboliche alla FDG-PET quando la sintomatologia clinica si estrinseca in modo lieve, ovvero nei soggetti con MCI, nei quali sarebbe possibile riscontrare un ridotto metabolismo glucidico in sede ippocampale rispetto a gruppi di controllo cognitivamente sani; tale alterazione, in studi longitudinali, avrebbe subito un’estensione spaziale concorde al peggioramento clinico in termini di gravità del disturbo cognitivo.

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  • Da qualche anno è stato perfezionato un tracciante PET che si lega specificamente ai depositi di amiloide nel cervello: si tratta del Pittsburgh compound B marcato con carbonio-11, detto anche (11C)-PiB. Utilizzando il carbonio-11, il tracciante è sintetizzabile solo nei centri dotati di un ciclotrone.

    Il suo impiego ha permesso di verificarne l’affidabilità, in caso di sospetto diagnostico, nella distinzione tra soggetti anziani sani e affetti da AD, nei quali i depositi di amiloide sono evidenziati da specifiche aree di aumentata captazione di radioattività, correlata con le aree interessate da decadimento cognitivo. Con questa tecnica si possono evidenziare iniziali formazioni di amiloide molti anni prima che si manifestino i primi sintomi clinici, rendendo ipotizzabili interventi di trattamento precoce (Bateman et al. N Engl J Med 2012;367(9):795-80).

    L’ostacolo costituito dalla non agevole disponibilità dell’esame correlata all’impiego del carbonio-11 è stato superato con un tracciante fluoromarcato, il (18F)-FDDNP, la cui captazione – in pazienti affetti da AD – è significativamente aumentata nel lobo temporale mediale in corrispondenza della deposizione patologica di tau, e in sede frontale e parietale in presenza di placche amiloidee. La sua presenza, secondo alcuni studi (Small et al. Arch Neurol 2012;69(2):215-22) è predittiva di declino cognitivo.

    Recentemente poi la FDA ha approvato l’uso di (18F)-florbetapir, che è quindi il primo radiotracciante marcato con fluoro-18 per l’imaging PET della densità delle placche neuritiche di Abeta utilizzabile in clinica.

    Ancora più recentemente, ha completato studi di fase III un secondo ligando, il (18F)-florbetaben, che pure permette di identificare i depositi di amiloide nel tessuto cerebrale (Villemagne et al. Eur J Nucl Med Mol Imaging 2012;39(6):983-9).

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  • Da oltre una decade, l’impiego della sola SPECT o della sola PET non avviene più con apparecchiature esclusivamente deputate alla ricostruzione tomografica di immagini determinate dalla rilevazione di fotoni, bensì con strumenti definiti “ibridi”. Tali strumenti, infatti, permettono di svolgere, in un unico esame e con l’erogazione di una minore dose di radiazione al paziente, due esami in una sola volta: la SPECT più la TC oppure (metodica di gran lunga più diffusa) la PET con la TC.

    L’enorme diffusione di queste tecnologie rende ragione dei loro principali meriti: non dovendo effettuare una “registrazione” (ossia una sovrapposizione di immagini acquisite con strumenti diversi in occasioni diverse) delle sezioni cerebrali, si ha immediatamente la possibilità di confrontare le informazioni morfologiche e strutturali derivanti dalla TC con quelle funzionali ottenute dalla SPECT o, più comunemente, dalla PET: ciò permette di chiarire la natura di una lesione in caso di dubbio radiologico o di evidenziare con ampio anticipo aree patologiche invisibili alla TC, ma soprattutto, tramite la tecnica della fusione delle immagini, di sovrapporre perfettamente in lieve trasparenza sezione per sezione le immagini radiologiche e quelle medico-nucleari. Questo permette al refertatore di attribuire un’alterazione funzionale a una precisa struttura anatomica utilizzando la TC come atlante.

    Di recentissima introduzione, e per ora impiegata in pochi centri a livello sperimentale, è la PET/RMN.

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  • Il liquido cerebrospinale, in continuità con gli spazi extracellulari del cervello, ne riflette le modificazioni biochimiche, cosa che lo rende possibile fonte di biomarcatori per l’AD. A tutt’oggi i biomarcatori liquorali maggiormente studiati risultano essere la Abeta e la proteina tau.

    In numerosi studi indipendenti, i livelli liquorali medi di Abeta-42 si sono rivelati significativamente ridotti (30-50%) in individui con disturbi cognitivi che soddisfacevano i criteri NINCDS-ADRDA per demenza di Alzheimer rispetto a soggetti cognitivamente sani.

    Un consistente numero di lavori scientifici ha riportato elevati livelli di tau totale nell’AD. Tuttavia, come avviene per la Abeta-42, i valori di questa proteina tra i soggetti con declino cognitivo lieve e i soggetti sani si sovrappongono.

    Inoltre l’incremento della proteina tau non sembra essere specifico per l’AD. A differenza dell’Abeta, che è un peptide secreto, la proteina tau è un peptide associato ai microtubuli che si trova nel citoplasma neuronale. Nell’AD la tau viene fosforilata e forma filamenti elicoidali che costruiscono i grovigli neurofibrillari. Elevati livelli di tau fosforilata si sono dimostrati ben correlare con il carico di grovigli neurofibrillari all’esame autoptico.

    Infine, il rapporto tra tau fosforilata e Abeta-42 ha dimostrato buone caratteristiche di predittività di ulteriore declino cognitivo e progressione clinica verso l’AD in soggetti con MCI.

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  • Come già accennato, l’uso dei biomarcatori riportati in questa tabella per l’AD non è attualmente raccomandato in ambito clinico routinario, ma ne viene comunque incoraggiato l’uso a scopo di ricerca per gli importanti ruoli che sono chiamati a giocare: supportare la diagnosi, monitorare la progressione delle modificazioni patologiche, predire la progressione clinica e stabilire l’efficacia dei trattamenti farmacologici.

    In questo senso vanno indicati i marcatori meglio validati, basandosi sullo stato dell’arte proposto dalla letteratura: il decremento dei valori di Abeta-42 e l’incremento di tau e tau fosforilata nel liquor, un ridotto uptake di FDG alla PET, la positività all’imaging PET per amiloide e il rilievo di atrofia regionale alla RMN morfostrutturale.

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  • I biomarcatori indicano alterazioni che seguono un decorso ordinato nel tempo e che mostrano come il loro valore diagnostico e prognostico si modifichi con il progredire della patologia.

    I biomarcatori dell’Abeta (liquorali e di imaging mediante PET) si positivizzanoprima della comparsa dei sintomi, e nel momento in cui la malattia diventa conclamata hanno già raggiunto un plateau.

    I biomarcatori di danno neuronale e di neurodegenerazione (tau e tau fosforilata, FDG-PET) si positivizzano più tardivamente e correlano con la severità clinica dei sintomi.

    Un tipico pattern di atrofia rilevato con la RMN morfologica è l’ultimo marcatore a positivizzarsi ma conserva una stretta correlazione con le performance cognitive negli stadi moderati e severi.

    Nessun marcatore è statico: i tassi di cambiamento di ciascuno di essi seguono un decorso non lineare, probabilmente sigmoidale, come ipotizzato nel modello raffigurato nel grafico.

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  • Il modello ipotetico della sequenza degli eventi patologici nell’AD non tiene conto, tuttavia, di elementi estremamente importanti legati alla plasticità neuronale quali la riserva cerebrale e quella cognitiva, fattori che probabilmente giocano un ruolo centrale nel determinare la velocità del processo di deterioramento cognitivo e potrebbero fornire una spiegazione sul perché alcuni soggetti pur presentando una consistente patologia amiloidea cerebrale non sviluppano deficit cognitivi.

    Inoltre è indispensabile ricordare le criticità che caratterizzano l’utilizzo dei marcatori biologici di malattia: in primo luogo l’attuale necessità di standardizzazione delle misurazioni allo scopo di definire i valori soglia, in secondo luogo è importante andare oltre l’amiloide, cercando e facendo crescere le nostre conoscenze su altri meccanismi del processo, come la flogosi, il danno ossidativo e le alterazioni metaboliche, che incidono sulla velocità dell’evento neurodegenerativo.

    Infine vanno considerate problematiche di ordine economico, che vedono ancora oggi elevati i costi delle tecniche proposte.

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