Mermaid l'incidente in mare (racconto)

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La giovane sirena Leila, dopo tanto navigare, arriva lungo le coste di Aglesia dove l'accoglienza non è delle migliori. Si ritrova in mezzo al naufragio di una piccola barca di un giovane pescatore: Tom. Le leggi del mare proibiscono ad una sirena di intralciare il destino di un umano, eppure non riesce a resistere all'impulso di salvarlo. Ma cosa ha provocato l'incidente? Tre sirene assassine, mostri marini senza cuore, hanno fatto di tutto per colpire la loro vittima, ma Leila si è messa in mezzo e adesso vogliono fargliela pagare. Riuscirà la giovane sirenetta a salvarsi? Ma soprattutto, riuscirà a restare lontana da quel ragazzo che le ha già rubato il cuore?

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Mermaid - L’incidente in mare (racconto)

MICHELE VITALE

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L’incidente in mare

Quando la corrente mi spinse via, mi resi conto del fatto

che non c’era più molto tempo. Tutt’attorto volteggiavano

mille bollicine trasparenti che scoppiavano l’una dopo l’altra.

Cercai di librarmi il meglio possibile, ma era tutto inutile. La

corrente era troppo forte.

Il ragazzo sulla barca, che si andava sgretolando sotto di

lui, cominciò ad urlare e ad agitare le braccia nell’aria, come se

cercasse un appiglio invisibile. Guardò nella mia direzione, ma

non mi vide, ero ben nascosta dal blu scuro delle onde in

tempesta. Ne approfittai per girare intorno all’imbarcazione e

controllare la situazione dall’altro lato della barca, magari da

una posizione più favorevole.

Le mostruose sirene continuavano a ronzarmi intorno

come api attratte dal miele, per mia fortuna però, mi

ignoravano completamente, forse convinte del fatto ch’ero

dalla loro parte.

Con un colpo di coda risalii in superficie e controllai la

situazione da lì. Il ragazzo mi dava le spalle.

Aveva dei morbidi capelli scuri, medio lunghi, che gli

accarezzavano la nuca e una corporatura abbastanza

imponente. Guardandolo, quasi mi persi in un mondo proibito.

Scuotendo il capo, mi rituffai in acqua e arrivai sotto

alla barca che scricchiolava. Con forza, spinsi le assi di legno

verso l’alto, sperando di riuscire a mantenerle salde… Ma fu

tutto inutile.

Pochi istanti dopo, le stesse assi di legno, in pezzi,

galleggiavano sulla superficie del mare e, tra queste, andava

via via affondando il corpo inerme del ragazzo.

Presa da non so quale forza, corsi ad afferrarlo e lo

spinsi verso l’alto, verso la superficie, sperando che fosse

ancora vivo e che riuscisse a respirare.

Lo strinsi così forte che sentivo il debole palpitare del

suo cuore sotto il palmo della mia mano e allo stesso tempo

riuscivo ad assaporare l’odore di salsedine che trasudava la sua

pelle.

Sotto di me sentivo le urla rabbiose delle altre sirene,

quelle malvagie, che reclamavano la loro preda.

Senza pensarci un attimo, mi misi a nuotare più veloce

che potevo. In realtà non andavo così veloce visto che,

dovendo trasportare il ragazzo in superficie, facevo molta

fatica a muovere la coda e a darmi la spinta, ma cercai di fare il

possibile.

In realtà, per quell’umano non avrei dovuto fare proprio

nulla… eppure non ero riuscita a fermarmi. Le mie pinne mi

avevano spinto nella sua direzione come il ferro che viene

attratto da una calamita. Era stato un contatto necessario, un

tocco fatale… per me e per lui.

Avvertii un formicolio nelle braccia e poi sentii il corpo

del giovane farsi sempre più leggero. Persa in quei pensieri,

non mi ero accorta che mi stava scappando di mano!

Con fatica cercai di farlo riemergere dall’acqua e con

altrettante fatica cercai di sistemarmelo in spalla in maniera

tale da poterlo trasportare più facilmente.

La mia coda di pesce, indaco, simile al colore delle

onde in quel momento, continuava ad agitarsi da destra a

sinistra e dal basso verso l’alto, spazzando via l’acqua che mi

separava dalla riva.

Un po’ confuse, le sirene si guardarono intorno

insospettite dal mio comportamento, ma ci misero pochissimo

a capire da che parte stavo.

Si lanciarono all’inseguimento e in un batter d’occhio

mi furono alle calcagna.

Per un istante decisi di voltarmi a guardarle, ma non

riuscii a fissarle per più di tre secondi tanto erano orripilanti.

Avevano lunghi capelli color verde scuro – che

sembravano alghe viscide – e visi contornati da squame

putrefatte. Per non parlare dei denti marci e rossi, sporchi di

sangue imputridito.

Non avevo mai visto prima una simile stirpe di sirene.

Facevano ribrezzo solo a guardarle. Le loro code, fatte da

migliaia di squame nere, sembravano code di anguille piuttosto

che di sirene e la parte che comprende busto e braccia era

pallida quasi come la mia, ma sembrava non contenere né

organi, né vene, né un cuore pulsante.

Quando sentii i muscoli belle braccia ardermi per la

fatica, stanca e senza fiato, urlai a più non posso: «Andate

via!»

Naturalmente, sott’acqua, il suono delle parole mi uscì

come un grido acuto che spacca i timpani – stile delfino –

eppure le streghe del mare sembrarono non capirmi.

«Andate via, ho detto!», ripetei con quel fil di voce che

mi rimaneva vibrante in gola.

Una di loro guardò le altre come per ricordarle che

stavano dimenticando qualcosa… qualcosa d’importante!

Le altre si girarono a guardarla e poi, all’improvviso,

tutte e tre mi fissarono con insistenza.

Repentina, mi sistemai il ragazzo che mi trainavo dietro

e cominciai a nuotare verso la riva. La coda si muoveva così

velocemente che pareva invisibile. Mi ritrovai a diversi metri di

distanza da quei mostri in un millisecondo tant’è che mi

guardai alle spalle nel caso in cui mi tentassero un agguato.

Eppure non successe nulla.

Che mi abbiano lasciata in pace?, pensai.

Una vocina nella mia testa diceva l’esatto contrario,

diceva che mi stavano tenendo un agguato e mi diceva di

svignarmela alla svelta. Ma non potevo lasciare il ragazzo lì, in

acqua… Sarebbe morto annegato!

Continuai a nuotare verso la spiaggia che non mi

sembrava più ormai tanto lontana e nel contempo cercai di

restare all’erta.

Dopo un paio di metri, ancora niente.

Andai ancora più avanti, ma nulla.

La spiaggia ormai era vicinissima.

Fissai un’ultima volta il viso sereno del giovane che

avevo con me, memorizzandone per bene ogni dettaglio. Le

labbra rosee, le ciglia sottili e perfino gli zigomi appena

accennati. Un paio di vene gli attraversavano la gola e sotto di

esse sembrava esserci un piccolo bozzo spigoloso. Mi attirava

persino quello! Non avrei voluto lasciarlo andare, eppure

dovevo farlo. Non volevo che un umano si legasse a me… a

me, ch’ero una sirena.

Riuscii quasi a toccare la battigia, ma non lo feci, mi

limitai a gettare il ragazzo sulla riva, facendolo rotolare su un

lato. Ce l’avevo fatta!

Soddisfatta, tornai sui miei passi, lungo la mia strada,

ma appena mi girai, ecco che riapparvero!

Una della tre mi era vicinissima. Riuscivo persino a

sentire l’odore putrefatto dei suoi denti marci, del suo alito che

sapeva di morte, letteralmente! Quasi non svenni. Vidi i suoi

occhi, tutti neri e affossati, le sue guance, piene di crepe, i suoi

capelli viscidi che mi sfioravano le braccia, e per poco non

urlai per lo spavento.

La sirena mi afferrò da un braccio e mi spinse con

violenza da un lato. Atterrai su un piccolo dosso sabbioso

inabissato. Chiusi gli occhi per il dolore. Ma non mi ero fatta

male. Ero caduta di schiena, con un atterraggio morbido, ma

allora come mai non era la schiena a farmi male, ma il braccio?

Nell’esatto punto in cui mi aveva toccata, era apparsa

una grossa chiazza rossa che ardeva e dilaniava la pelle.

Sentivo un dolore atroce che sembrava corrodermi dall’interno.

Il fuoco che bruciava la pelle si faceva sempre più forte, ma

non feci in tempo nemmeno a dare un’occhiata più da vicino a

quella macchia che ecco spuntare un’altra sirena che, con un

colpo di coda, mi scaraventò a un paio di metri.

Ero da sola… Da sola contro tre sirene assassine! Non

avrei potuto mai farcela.

Con gli occhi lucidi, pieni di lacrime che non riuscivano

a scendere tanta era la paura, cominciai a nuotare nella

direzione opposta alla riva, allontanandomi dalla spiaggia.

Ero così presa dalle due sirene alle mie spalle, che non

mi accorsi nemmeno di quella che, per così dire, mi aspettava

al varco.

Sembrava la più anziana delle tre. Sfoggiava un

orripilante sorriso malizioso – per metà sdentato! – e teneva le

mani sui fianchi.

Cercai un’altra direzione, ma le altre due sirene

accorsero in aiuto della vecchia sbarrandomi ogni altra via di

fuga. Mi fermai a guardarmi intorno, cercando un tratto di mare

lontano dagli sguardi felini di quei mostri. Forse fu per questo

che non riuscii ad evitarlo; tanto mi distrassi a cercare una via

per scappare, che non mi accorsi del pungo nello stomaco che

una delle tre sirene mi diede, conficcandomi nell’addome le

sue dita dalle unghie troppo lunghe. Il punto in cui finiva la

mia parte umana e sbucava la mia coda indaco cominciò a

farmi male, quasi come quando mi apparivano le gambe.

Sentii un forte dolore che partì dal basso e mi arrivò in

gola. Spalancai la bocca e spuntai sangue.

Seguii il liquido ondeggiare nell’acqua fino a

dissolversi tra le onde.

La vecchia sirena putrefatta mi guardò soddisfatta.

Aveva gli occhi iniettati di sangue e quell’espressione da

omicida che tanto gli si addiceva.

Mi trafisse con quello stesso sguardo che ancora una

volta mi spense i riflessi. Feci in tempo solo a notare il braccio

alzato di un’altra delle due sirene, pronta a sferrare un altro

pugno, un istante prima di chiudere gli occhi ed urlare.

«Vi prego», dissi, mentre un filo di sangue mi scendeva

dalle labbra.

Chiusi gli occhi pronta al peggio. Non vidi né cosa né

come accade, eppure sono contenta che sia successo.

Un gruppo di voci arrivò dalla riva e le sirene

scapparono via terrorizzate, quasi come se avessero sentito

l’arrivo di una burrasca d’implacabile potenza.

Spalancai gli occhi e mi ritrovai sola. Trassi un respiro

di sollievo.

Mi diedi lo slancio necessario e salii in superficie, tanto

quanto bastava per osservare la scena.

Un gruppo di uomini si era avvicinato al ragazzo che

sembrava riprendere i sensi. Lui tossì, sgranò gli occhi e

guardò il mare. Io sorrisi. Fortuna che non poteva vedermi.

O almeno lo speravo. Sarebbe stato terribile se si fosse

accorto di me, o se mi avesse visto, pure di sfuggita, non

potevo mettere a rischio me stessa e la mia stirpe.

Ero stata prudente, ero uscita allo scoperto solo quando

ero stata sicura del fatto che lui avesse perso i sensi, quindi ero

più che certa di non essermi fatta vedere.

Ma allora perché mi dispiaceva tanto?

Ripetei a me stessa che non era giusto fantasticare su

una storia impossibile su due esseri di diversa natura. Lui era

un umano e io una sirena. Stop. Non c’era nient’altro da fare!

«Tom! Tom! Come ti senti? Cos’è successo?»

Appena sentii il suo nome, avvertii dentro di me il

bisogno di saltare fuori dall’acqua e correre ad abbracciarlo. Al

diavolo la mia o la sua natura, avrei preferito restare umana per

sempre pur di stare con lui. Ma anche se l’avessi fatto, lui

comunque non sapeva chi fossi né mi aveva vista quando

l’avevo salvato. Sarebbe stato tutto inutile.

Il ragazzo si guardò intorno disorientato e cominciò a

parlare, ma non riuscii a sentire quello che diceva. So solo che

era davvero bello!

Per l’ennesima volta, si girò a guardare il mare, e – a

meno che non vedevo quello che volevo vedere – mi sembrò

che guardasse proprio verso di me.

Se non avevo pianto per il dolore di prima, di sicuro

l’avrei fatto allora per la gioia. Prima di vedere la sua prossima

mossa, mi rituffai sott’acqua e nuotai il più veloce che potevo.

Arrivai fino a largo, al punto esatto in cui non si riesce

più a toccare la terra sotto i piedi. Uno strapiombo di diversi

metri si apriva sotto di me e lo guardai con terrore, impaurita

dalle profondità oscure di quello che ormai si poteva definire

“oceano”. Con un piccolo movimento, mi spinsi in avanti, ma

proprio in quel momento risalirono da quel buio impenetrabile

le tre sirene assassine che mi corsero in contro con avidità,

come se non stessero aspettando altro da tutta la vita.

Una di loro mi afferrò per la coda e mi fece roteare su

me stessa. Per fortuna riuscii a sganciarmi e mi allontanai

spingendomi di nuovo a riva. I tre mostri si bloccarono a

fissarmi, immobili. Allora capii. Loro non potevo avvicinarsi di

più alla spiaggia. Rassicurata da questo pensiero, comincia ad

ondeggiare fluentemente in acqua, da destra a sinistra,

facendomi cullare dalle onde. Le tre sirene mi seguivano con lo

sguardo, senza reagire.

Repentina, provai a sgusciare fuori dalla zona off-limits

per le mie simili e mi spinsi verso il largo. Una delle tre non

perse tempo per corrermi incontro e bloccarmi la via.

Scoraggiata tornai indietro lasciandomi la sirena alle

spalle. Era vero che vicino alla spiaggia ero immune dai loro

attacchi, ma era anche vero ch’ero bloccata.

Forse avrei potuto fare il giro della costa e cercare di

scappare dall’altra parte del mare, ma le sirene mi avrebbero

seguita e tenuta d’occhio. Ci provai lo stesso.

Avanzai verso destra facendo turbinare mille bollicine

trasparenti attorno a me, ma, come immaginato, le sirene mi

seguirono. Ero in trappola!

Le guardai implorante, e non so nemmeno il perché di

quella mia espressione, loro però sembravano non voler cedere,

anzi, avevano gli occhi accesi da una luce scintillante che

conferiva ai loro sguardi qualcosa di ancora più malvagio di

quanto già non avessero prima.

Allora capii che non mi avrebbero mai lasciato fuggire.

Mi avrebbero aspettato sempre lì, nelle profondità marine

appena dopo la costa, pronte a farmela pagare. La cosa che mi

spaventava di più però, non era il dover affrontarle, ma il dover

correre il rischio d’innamorarmi. Nonostante il pericolo, il mio

pensiero volava da solo verso quel ragazzo che, sulla spiaggia,

si stava forse chiedendo come avesse fatto a salvarsi.

Tornai vicino alla costa e mi aggrappai ad uno scoglio.

Risalii in superficie stando ben sicura che nessuno avesse

potuto vedermi, nascosta dietro lo scoglio.

I capelli mi si erano appiccicati al viso, li scostai

spostandomeli dietro le orecchie e nel frattempo mi asciugai gli

occhi imperlati di gocce d’acqua. Dov’era il ragazzo?

Lo trovai a qualche metro di distanza, chinato tra la

folla, vicino ai resti della sua barca che la corrente aveva

trascinato sulla spiaggia.

La gente intorno a lui sembrava molto confusa – e

incredula – come se stavano assistendo a qualcosa di

straordinario, fuori dal comune.

Che il ragazzo si ricordasse e stava raccontando di me?

Per un attimo lo sperai con tutto il cuore! Ma dentro di me

sapevo che lui non aveva la minima idea della mia esistenza…

eppure volevo che lo sapesse! In quel momento capii che sarei

stata disposta a fare qualsiasi cosa pur di non separarmi da

lui… Ma in che maniera! Non c’era nulla che avrei potuto fare

affinché il mio desiderio si realizzare.

O quasi nulla…

Mermaid – La ragazza che veniva dal mare

MICHELE VITALE

(ANTEPRIMA)

1. Naufragio

«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.

Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose»

- Il canto delle sirene (dall'Odissea di Omero)

Tom si svegliò con un bruciore sulle labbra che lo foce

tossire. Si sentiva la pelle ardere e prudergli dappertutto, per

non parlare dell’orribile ma irrefrenabile voglia di vomitarsi

addosso, sputando qualcosa che gli ostruiva la gola.

Tossì piano e aprì gli occhi, ma non vide il suo letto.

Steso sulla sabbia, aveva ancora i capelli umidi e sporchi,

inzuppati di acqua salmastra, con mezza faccia colorita di

giallo, sprofondata nella sabbia, e gli abiti strappati e

stropicciati.

Strinse le mani a pugno per fare leva sulle braccia e rialzarsi,

ma non aveva nemmeno un briciolo di forza. Alzò lo sguardo

e vide la sagoma indistinta di un uomo che, controsole, stese un

braccio verso di lui.

«Tom! Finalmente! Aspetta, ti aiuto ad alzarti.»

Emhilton Halley, suo padre, quella mattina indossava un paio

di pantaloncini blu, camicia a maniche corte ed infradito,

sfoggiando uno stile che non ben legava con i suoi quasi

cinquant’anni.

Tom afferrò la mano di suo padre e si sollevò da terra

pesantemente. Goffo, cadde di lato, dove Emhilton l’afferrò

in tempo prima che ripiombasse per terra.

«Andiamo, Tom! Tirati su! Coraggio!»

«Ma cos’è successo!?»

Dopo aver ripreso conoscenza, Tom si accorse che mezza

cittadina stava lì a fissarlo. C’erano tutti i pescatori della baia, i

turisti, gli habitué della stagione estiva, i gruppi di ragazzi che

approfittavano dei primi raggi di sole mattutini e della brezza

marina che rinfresca e non affatica per prendere il sole e… Praticamente mezza Aglesia!

«Allora, Tom!?» Albert, un vecchio signore dalla faccia

corrucciata e le rughe profonde come canali d’irrigazione, se ne

stava appoggiato alla sua barchetta ancorata alla spiaggia, con

il suo bel cappello di panama a coprirgli la fronte, isolando il

suo sguardo accusatorio da quello degli altri, come se la

faccenda non lo riguardasse. Alzò la testa solo un attimo, per

fare la sua domanda, ritornando a fissare il suolo senza

nemmeno aspettare la risposta.

Ma, in fin dei conti, una risposta non c’era; o se c’era, Tom

l’ignorava del tutto. Albert non era l’unico a ripetere quella

domanda, ma Tom, con gli occhi sbandati e il cuore che

pulsava a mille, non sapeva proprio che rispondere.

«Io… Io…», balbettava il ragazzo ancorato a suo padre.

«Non ricordi nulla!?», chiese Emhilton ignorando le parole

degli altri pescatori, tra chi commentava e chi faceva battute

poco inerenti alla situazione.

«No… Non molto…», gli rispose Tom, tossendo.

«L’importante è che tu sia sano e salvo! Dio, ci hai fatto

prendere un bello spavento!»

«Ma cos’è successo, papà!?»

Emhilton si guardò intorno, cercando appoggio in uno degli

sguardi imbambolati che gli altri pescatori avevano stampati

sulla faccia.

«Hai avuto un incidente, figliolo…»

«Che incidente?»

«Stavi quasi per annegare! Dio solo sa come hai fatto a

raggiungere la riva a nuoto!»

Tom alzò lo sguardo verso il cielo, un’infinita distesa di

azzurro limpido con qualche macchiolina bianca dai contorni

indistinti, per poi riabbassare lo sguardo per terra.

«Non so cosa sia successo», continuò l’uomo che sorreggeva

ancora il figlio: «L’importante è che tu sia vivo!»

Tom si voltò a guardare il mare, così calmo e rilassante.

Possibile che fino ad un istante prima stava per annegare?

Si staccò dal padre, ritrovando un po’ di forza nelle gambe, e

fece qualche passo verso la riva. Barcollò fino ad una

macchia scura sulla sabbia, dove Emhilton lo trattenne per un

braccio, prima che inciampasse sui resti della loro barca di

famiglia, la Lorelay, ridotta a un mucchio di assi di legno

accatastate l’una sull’altra, coperte di alghe.

«Cos’è successo alla nostra barca?», chiese Tom

inginocchiandosi davanti ai cocci di legno.

«Questo è quel che resta della Lorelay», gli rispose Emhilton

inginocchiandosi accanto a lui. Tom sentì le lacrime salirgli

agli occhi. Quella barca era il loro tesoro, il loro cimelio di

famiglia… e lui l’aveva distrutta.

«Papà…», disse senza riuscire a guardarlo negli occhi: «Mi

dispiace.»

«Non preoccuparti, Tom… La ricostruiremo... L’importante è

che tu sia vivo!»

«È la prima volta che accade una cosa del genere, potrebbe

essere tutto o niente. Dovremmo preoccuparci oppure restare

calmi? In ogni caso, credo che sia meglio per tutti non

allontanarci dalla costa per un po'», disse Emhilton

rivolgendosi a tutti gli altri uomini di mare una volta accertata

la condizione del figlio: «Almeno fino a quando non capiremo

cosa si nasconde veramente sotto questa faccenda.»

Dopo un’attenta analisi delle assi di legno, padre e figlio si

erano accorti di strane incisioni che avevano frammentato

ciascun pezzo di legno in più parti, tutte definite da un

contorno seghettato a forma di semicerchio, come se le assi

della barca fossero state prese a morsi da un gruppo di pesci

affamati. Squali!? Piranha!?

Ma quello non era l'habitat più adatto né per gli squali né per i

piranha! Ed inoltre non se ne avvistava uno da tantissimi

anni! Tutti si guardarono a vicenda e poi fissarono l'uomo che

sbatteva le palpebre troppo velocemente per nascondere la preoccupazione. Ad Albert, la cosa non faceva piacere e storse

le labbra.

«E come faremo ad andare avanti?», chiese all'improvviso

l'uomo sollevandosi dalla sua barca e togliendosi quel ridicolo

cappello.

«Una soluzione la troveremo», gli rispose Emhilton

pacatamente.

«Io non ci sto!», fu il commento di Albert, e anche di qualche

altro pescatore che però non aveva avuto il coraggio di dirlo

ad alta voce a differenza dello scontroso lupo di mare.

«Ma non capite! È troppo pericoloso!», continuò Emhilton

avvicinandosi a Tom che si era inginocchiato per esaminare i

danni della sua amata Lorelay ed indicando i segni a zigzag

sulle assi di legno lucido.

«E chi ci dice che tu non stia mentendo? Che stai inscenando

un incidente per soffiarci i pesci da sotto il naso!?», protestò

qualcuno che Emhilton non riuscì a vedere.

«Perché dovrei farlo?», chiese l'uomo, cominciando a

guardare fisso in volto ciascuno degli uomini che formavano il

cerchio umano attorno a lui e a suo figlio: «Perché avrei

distrutto la mia barca per fare una cosa del genere?»

Tutti si guardarono dubbiosi. Albert digrignò i denti e si

allontanò dal posto, lasciando sulla sabbia le impronte dei

suoi piedi enormi. Molti seguirono il suo gesto fino a quando la

spiaggia cominciò pian piano a svuotarsi. Rimasero solo Tom

e suo padre.

«Papà», lo chiamò all'improvviso il giovane dal basso, ancora

inginocchiato vicino al relitto.

«Cosa c'è, figliolo?», l'uomo si chinò accanto al figlio

reggendosi sulle ginocchia scheletriche.

«E questa cos'è?», chiese Tom stringendo con la punta delle

dita un luminoso pezzettino trasparente a forma di mezzo

cuore.

«Mi sembra... una squama», disse Emhilton, come se fosse la

cosa più ovvia al mondo. Tom si infilò quell'oggetto

cristallino nella tasca dei suoi pantaloncini corti, gli stessi che

indossava quando era avvenuto l'incidente, per poi alzarsi e

incamminarsi verso casa, seguito dal padre e da una stranissima

sensazione, un presentimento oscuro e pericoloso che non lo

faceva stare tranquillo.

FINE