Mermaid l'incidente in mare (racconto)
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Transcript of Mermaid l'incidente in mare (racconto)
L’incidente in mare
Quando la corrente mi spinse via, mi resi conto del fatto
che non c’era più molto tempo. Tutt’attorto volteggiavano
mille bollicine trasparenti che scoppiavano l’una dopo l’altra.
Cercai di librarmi il meglio possibile, ma era tutto inutile. La
corrente era troppo forte.
Il ragazzo sulla barca, che si andava sgretolando sotto di
lui, cominciò ad urlare e ad agitare le braccia nell’aria, come se
cercasse un appiglio invisibile. Guardò nella mia direzione, ma
non mi vide, ero ben nascosta dal blu scuro delle onde in
tempesta. Ne approfittai per girare intorno all’imbarcazione e
controllare la situazione dall’altro lato della barca, magari da
una posizione più favorevole.
Le mostruose sirene continuavano a ronzarmi intorno
come api attratte dal miele, per mia fortuna però, mi
ignoravano completamente, forse convinte del fatto ch’ero
dalla loro parte.
Con un colpo di coda risalii in superficie e controllai la
situazione da lì. Il ragazzo mi dava le spalle.
Aveva dei morbidi capelli scuri, medio lunghi, che gli
accarezzavano la nuca e una corporatura abbastanza
imponente. Guardandolo, quasi mi persi in un mondo proibito.
Scuotendo il capo, mi rituffai in acqua e arrivai sotto
alla barca che scricchiolava. Con forza, spinsi le assi di legno
verso l’alto, sperando di riuscire a mantenerle salde… Ma fu
tutto inutile.
Pochi istanti dopo, le stesse assi di legno, in pezzi,
galleggiavano sulla superficie del mare e, tra queste, andava
via via affondando il corpo inerme del ragazzo.
Presa da non so quale forza, corsi ad afferrarlo e lo
spinsi verso l’alto, verso la superficie, sperando che fosse
ancora vivo e che riuscisse a respirare.
Lo strinsi così forte che sentivo il debole palpitare del
suo cuore sotto il palmo della mia mano e allo stesso tempo
riuscivo ad assaporare l’odore di salsedine che trasudava la sua
pelle.
Sotto di me sentivo le urla rabbiose delle altre sirene,
quelle malvagie, che reclamavano la loro preda.
Senza pensarci un attimo, mi misi a nuotare più veloce
che potevo. In realtà non andavo così veloce visto che,
dovendo trasportare il ragazzo in superficie, facevo molta
fatica a muovere la coda e a darmi la spinta, ma cercai di fare il
possibile.
In realtà, per quell’umano non avrei dovuto fare proprio
nulla… eppure non ero riuscita a fermarmi. Le mie pinne mi
avevano spinto nella sua direzione come il ferro che viene
attratto da una calamita. Era stato un contatto necessario, un
tocco fatale… per me e per lui.
Avvertii un formicolio nelle braccia e poi sentii il corpo
del giovane farsi sempre più leggero. Persa in quei pensieri,
non mi ero accorta che mi stava scappando di mano!
Con fatica cercai di farlo riemergere dall’acqua e con
altrettante fatica cercai di sistemarmelo in spalla in maniera
tale da poterlo trasportare più facilmente.
La mia coda di pesce, indaco, simile al colore delle
onde in quel momento, continuava ad agitarsi da destra a
sinistra e dal basso verso l’alto, spazzando via l’acqua che mi
separava dalla riva.
Un po’ confuse, le sirene si guardarono intorno
insospettite dal mio comportamento, ma ci misero pochissimo
a capire da che parte stavo.
Si lanciarono all’inseguimento e in un batter d’occhio
mi furono alle calcagna.
Per un istante decisi di voltarmi a guardarle, ma non
riuscii a fissarle per più di tre secondi tanto erano orripilanti.
Avevano lunghi capelli color verde scuro – che
sembravano alghe viscide – e visi contornati da squame
putrefatte. Per non parlare dei denti marci e rossi, sporchi di
sangue imputridito.
Non avevo mai visto prima una simile stirpe di sirene.
Facevano ribrezzo solo a guardarle. Le loro code, fatte da
migliaia di squame nere, sembravano code di anguille piuttosto
che di sirene e la parte che comprende busto e braccia era
pallida quasi come la mia, ma sembrava non contenere né
organi, né vene, né un cuore pulsante.
Quando sentii i muscoli belle braccia ardermi per la
fatica, stanca e senza fiato, urlai a più non posso: «Andate
via!»
Naturalmente, sott’acqua, il suono delle parole mi uscì
come un grido acuto che spacca i timpani – stile delfino –
eppure le streghe del mare sembrarono non capirmi.
«Andate via, ho detto!», ripetei con quel fil di voce che
mi rimaneva vibrante in gola.
Una di loro guardò le altre come per ricordarle che
stavano dimenticando qualcosa… qualcosa d’importante!
Le altre si girarono a guardarla e poi, all’improvviso,
tutte e tre mi fissarono con insistenza.
Repentina, mi sistemai il ragazzo che mi trainavo dietro
e cominciai a nuotare verso la riva. La coda si muoveva così
velocemente che pareva invisibile. Mi ritrovai a diversi metri di
distanza da quei mostri in un millisecondo tant’è che mi
guardai alle spalle nel caso in cui mi tentassero un agguato.
Eppure non successe nulla.
Che mi abbiano lasciata in pace?, pensai.
Una vocina nella mia testa diceva l’esatto contrario,
diceva che mi stavano tenendo un agguato e mi diceva di
svignarmela alla svelta. Ma non potevo lasciare il ragazzo lì, in
acqua… Sarebbe morto annegato!
Continuai a nuotare verso la spiaggia che non mi
sembrava più ormai tanto lontana e nel contempo cercai di
restare all’erta.
Dopo un paio di metri, ancora niente.
Andai ancora più avanti, ma nulla.
La spiaggia ormai era vicinissima.
Fissai un’ultima volta il viso sereno del giovane che
avevo con me, memorizzandone per bene ogni dettaglio. Le
labbra rosee, le ciglia sottili e perfino gli zigomi appena
accennati. Un paio di vene gli attraversavano la gola e sotto di
esse sembrava esserci un piccolo bozzo spigoloso. Mi attirava
persino quello! Non avrei voluto lasciarlo andare, eppure
dovevo farlo. Non volevo che un umano si legasse a me… a
me, ch’ero una sirena.
Riuscii quasi a toccare la battigia, ma non lo feci, mi
limitai a gettare il ragazzo sulla riva, facendolo rotolare su un
lato. Ce l’avevo fatta!
Soddisfatta, tornai sui miei passi, lungo la mia strada,
ma appena mi girai, ecco che riapparvero!
Una della tre mi era vicinissima. Riuscivo persino a
sentire l’odore putrefatto dei suoi denti marci, del suo alito che
sapeva di morte, letteralmente! Quasi non svenni. Vidi i suoi
occhi, tutti neri e affossati, le sue guance, piene di crepe, i suoi
capelli viscidi che mi sfioravano le braccia, e per poco non
urlai per lo spavento.
La sirena mi afferrò da un braccio e mi spinse con
violenza da un lato. Atterrai su un piccolo dosso sabbioso
inabissato. Chiusi gli occhi per il dolore. Ma non mi ero fatta
male. Ero caduta di schiena, con un atterraggio morbido, ma
allora come mai non era la schiena a farmi male, ma il braccio?
Nell’esatto punto in cui mi aveva toccata, era apparsa
una grossa chiazza rossa che ardeva e dilaniava la pelle.
Sentivo un dolore atroce che sembrava corrodermi dall’interno.
Il fuoco che bruciava la pelle si faceva sempre più forte, ma
non feci in tempo nemmeno a dare un’occhiata più da vicino a
quella macchia che ecco spuntare un’altra sirena che, con un
colpo di coda, mi scaraventò a un paio di metri.
Ero da sola… Da sola contro tre sirene assassine! Non
avrei potuto mai farcela.
Con gli occhi lucidi, pieni di lacrime che non riuscivano
a scendere tanta era la paura, cominciai a nuotare nella
direzione opposta alla riva, allontanandomi dalla spiaggia.
Ero così presa dalle due sirene alle mie spalle, che non
mi accorsi nemmeno di quella che, per così dire, mi aspettava
al varco.
Sembrava la più anziana delle tre. Sfoggiava un
orripilante sorriso malizioso – per metà sdentato! – e teneva le
mani sui fianchi.
Cercai un’altra direzione, ma le altre due sirene
accorsero in aiuto della vecchia sbarrandomi ogni altra via di
fuga. Mi fermai a guardarmi intorno, cercando un tratto di mare
lontano dagli sguardi felini di quei mostri. Forse fu per questo
che non riuscii ad evitarlo; tanto mi distrassi a cercare una via
per scappare, che non mi accorsi del pungo nello stomaco che
una delle tre sirene mi diede, conficcandomi nell’addome le
sue dita dalle unghie troppo lunghe. Il punto in cui finiva la
mia parte umana e sbucava la mia coda indaco cominciò a
farmi male, quasi come quando mi apparivano le gambe.
Sentii un forte dolore che partì dal basso e mi arrivò in
gola. Spalancai la bocca e spuntai sangue.
Seguii il liquido ondeggiare nell’acqua fino a
dissolversi tra le onde.
La vecchia sirena putrefatta mi guardò soddisfatta.
Aveva gli occhi iniettati di sangue e quell’espressione da
omicida che tanto gli si addiceva.
Mi trafisse con quello stesso sguardo che ancora una
volta mi spense i riflessi. Feci in tempo solo a notare il braccio
alzato di un’altra delle due sirene, pronta a sferrare un altro
pugno, un istante prima di chiudere gli occhi ed urlare.
«Vi prego», dissi, mentre un filo di sangue mi scendeva
dalle labbra.
Chiusi gli occhi pronta al peggio. Non vidi né cosa né
come accade, eppure sono contenta che sia successo.
Un gruppo di voci arrivò dalla riva e le sirene
scapparono via terrorizzate, quasi come se avessero sentito
l’arrivo di una burrasca d’implacabile potenza.
Spalancai gli occhi e mi ritrovai sola. Trassi un respiro
di sollievo.
Mi diedi lo slancio necessario e salii in superficie, tanto
quanto bastava per osservare la scena.
Un gruppo di uomini si era avvicinato al ragazzo che
sembrava riprendere i sensi. Lui tossì, sgranò gli occhi e
guardò il mare. Io sorrisi. Fortuna che non poteva vedermi.
O almeno lo speravo. Sarebbe stato terribile se si fosse
accorto di me, o se mi avesse visto, pure di sfuggita, non
potevo mettere a rischio me stessa e la mia stirpe.
Ero stata prudente, ero uscita allo scoperto solo quando
ero stata sicura del fatto che lui avesse perso i sensi, quindi ero
più che certa di non essermi fatta vedere.
Ma allora perché mi dispiaceva tanto?
Ripetei a me stessa che non era giusto fantasticare su
una storia impossibile su due esseri di diversa natura. Lui era
un umano e io una sirena. Stop. Non c’era nient’altro da fare!
«Tom! Tom! Come ti senti? Cos’è successo?»
Appena sentii il suo nome, avvertii dentro di me il
bisogno di saltare fuori dall’acqua e correre ad abbracciarlo. Al
diavolo la mia o la sua natura, avrei preferito restare umana per
sempre pur di stare con lui. Ma anche se l’avessi fatto, lui
comunque non sapeva chi fossi né mi aveva vista quando
l’avevo salvato. Sarebbe stato tutto inutile.
Il ragazzo si guardò intorno disorientato e cominciò a
parlare, ma non riuscii a sentire quello che diceva. So solo che
era davvero bello!
Per l’ennesima volta, si girò a guardare il mare, e – a
meno che non vedevo quello che volevo vedere – mi sembrò
che guardasse proprio verso di me.
Se non avevo pianto per il dolore di prima, di sicuro
l’avrei fatto allora per la gioia. Prima di vedere la sua prossima
mossa, mi rituffai sott’acqua e nuotai il più veloce che potevo.
Arrivai fino a largo, al punto esatto in cui non si riesce
più a toccare la terra sotto i piedi. Uno strapiombo di diversi
metri si apriva sotto di me e lo guardai con terrore, impaurita
dalle profondità oscure di quello che ormai si poteva definire
“oceano”. Con un piccolo movimento, mi spinsi in avanti, ma
proprio in quel momento risalirono da quel buio impenetrabile
le tre sirene assassine che mi corsero in contro con avidità,
come se non stessero aspettando altro da tutta la vita.
Una di loro mi afferrò per la coda e mi fece roteare su
me stessa. Per fortuna riuscii a sganciarmi e mi allontanai
spingendomi di nuovo a riva. I tre mostri si bloccarono a
fissarmi, immobili. Allora capii. Loro non potevo avvicinarsi di
più alla spiaggia. Rassicurata da questo pensiero, comincia ad
ondeggiare fluentemente in acqua, da destra a sinistra,
facendomi cullare dalle onde. Le tre sirene mi seguivano con lo
sguardo, senza reagire.
Repentina, provai a sgusciare fuori dalla zona off-limits
per le mie simili e mi spinsi verso il largo. Una delle tre non
perse tempo per corrermi incontro e bloccarmi la via.
Scoraggiata tornai indietro lasciandomi la sirena alle
spalle. Era vero che vicino alla spiaggia ero immune dai loro
attacchi, ma era anche vero ch’ero bloccata.
Forse avrei potuto fare il giro della costa e cercare di
scappare dall’altra parte del mare, ma le sirene mi avrebbero
seguita e tenuta d’occhio. Ci provai lo stesso.
Avanzai verso destra facendo turbinare mille bollicine
trasparenti attorno a me, ma, come immaginato, le sirene mi
seguirono. Ero in trappola!
Le guardai implorante, e non so nemmeno il perché di
quella mia espressione, loro però sembravano non voler cedere,
anzi, avevano gli occhi accesi da una luce scintillante che
conferiva ai loro sguardi qualcosa di ancora più malvagio di
quanto già non avessero prima.
Allora capii che non mi avrebbero mai lasciato fuggire.
Mi avrebbero aspettato sempre lì, nelle profondità marine
appena dopo la costa, pronte a farmela pagare. La cosa che mi
spaventava di più però, non era il dover affrontarle, ma il dover
correre il rischio d’innamorarmi. Nonostante il pericolo, il mio
pensiero volava da solo verso quel ragazzo che, sulla spiaggia,
si stava forse chiedendo come avesse fatto a salvarsi.
Tornai vicino alla costa e mi aggrappai ad uno scoglio.
Risalii in superficie stando ben sicura che nessuno avesse
potuto vedermi, nascosta dietro lo scoglio.
I capelli mi si erano appiccicati al viso, li scostai
spostandomeli dietro le orecchie e nel frattempo mi asciugai gli
occhi imperlati di gocce d’acqua. Dov’era il ragazzo?
Lo trovai a qualche metro di distanza, chinato tra la
folla, vicino ai resti della sua barca che la corrente aveva
trascinato sulla spiaggia.
La gente intorno a lui sembrava molto confusa – e
incredula – come se stavano assistendo a qualcosa di
straordinario, fuori dal comune.
Che il ragazzo si ricordasse e stava raccontando di me?
Per un attimo lo sperai con tutto il cuore! Ma dentro di me
sapevo che lui non aveva la minima idea della mia esistenza…
eppure volevo che lo sapesse! In quel momento capii che sarei
stata disposta a fare qualsiasi cosa pur di non separarmi da
lui… Ma in che maniera! Non c’era nulla che avrei potuto fare
affinché il mio desiderio si realizzare.
O quasi nulla…
1. Naufragio
«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose»
- Il canto delle sirene (dall'Odissea di Omero)
Tom si svegliò con un bruciore sulle labbra che lo foce
tossire. Si sentiva la pelle ardere e prudergli dappertutto, per
non parlare dell’orribile ma irrefrenabile voglia di vomitarsi
addosso, sputando qualcosa che gli ostruiva la gola.
Tossì piano e aprì gli occhi, ma non vide il suo letto.
Steso sulla sabbia, aveva ancora i capelli umidi e sporchi,
inzuppati di acqua salmastra, con mezza faccia colorita di
giallo, sprofondata nella sabbia, e gli abiti strappati e
stropicciati.
Strinse le mani a pugno per fare leva sulle braccia e rialzarsi,
ma non aveva nemmeno un briciolo di forza. Alzò lo sguardo
e vide la sagoma indistinta di un uomo che, controsole, stese un
braccio verso di lui.
«Tom! Finalmente! Aspetta, ti aiuto ad alzarti.»
Emhilton Halley, suo padre, quella mattina indossava un paio
di pantaloncini blu, camicia a maniche corte ed infradito,
sfoggiando uno stile che non ben legava con i suoi quasi
cinquant’anni.
Tom afferrò la mano di suo padre e si sollevò da terra
pesantemente. Goffo, cadde di lato, dove Emhilton l’afferrò
in tempo prima che ripiombasse per terra.
«Andiamo, Tom! Tirati su! Coraggio!»
«Ma cos’è successo!?»
Dopo aver ripreso conoscenza, Tom si accorse che mezza
cittadina stava lì a fissarlo. C’erano tutti i pescatori della baia, i
turisti, gli habitué della stagione estiva, i gruppi di ragazzi che
approfittavano dei primi raggi di sole mattutini e della brezza
marina che rinfresca e non affatica per prendere il sole e… Praticamente mezza Aglesia!
«Allora, Tom!?» Albert, un vecchio signore dalla faccia
corrucciata e le rughe profonde come canali d’irrigazione, se ne
stava appoggiato alla sua barchetta ancorata alla spiaggia, con
il suo bel cappello di panama a coprirgli la fronte, isolando il
suo sguardo accusatorio da quello degli altri, come se la
faccenda non lo riguardasse. Alzò la testa solo un attimo, per
fare la sua domanda, ritornando a fissare il suolo senza
nemmeno aspettare la risposta.
Ma, in fin dei conti, una risposta non c’era; o se c’era, Tom
l’ignorava del tutto. Albert non era l’unico a ripetere quella
domanda, ma Tom, con gli occhi sbandati e il cuore che
pulsava a mille, non sapeva proprio che rispondere.
«Io… Io…», balbettava il ragazzo ancorato a suo padre.
«Non ricordi nulla!?», chiese Emhilton ignorando le parole
degli altri pescatori, tra chi commentava e chi faceva battute
poco inerenti alla situazione.
«No… Non molto…», gli rispose Tom, tossendo.
«L’importante è che tu sia sano e salvo! Dio, ci hai fatto
prendere un bello spavento!»
«Ma cos’è successo, papà!?»
Emhilton si guardò intorno, cercando appoggio in uno degli
sguardi imbambolati che gli altri pescatori avevano stampati
sulla faccia.
«Hai avuto un incidente, figliolo…»
«Che incidente?»
«Stavi quasi per annegare! Dio solo sa come hai fatto a
raggiungere la riva a nuoto!»
Tom alzò lo sguardo verso il cielo, un’infinita distesa di
azzurro limpido con qualche macchiolina bianca dai contorni
indistinti, per poi riabbassare lo sguardo per terra.
«Non so cosa sia successo», continuò l’uomo che sorreggeva
ancora il figlio: «L’importante è che tu sia vivo!»
Tom si voltò a guardare il mare, così calmo e rilassante.
Possibile che fino ad un istante prima stava per annegare?
Si staccò dal padre, ritrovando un po’ di forza nelle gambe, e
fece qualche passo verso la riva. Barcollò fino ad una
macchia scura sulla sabbia, dove Emhilton lo trattenne per un
braccio, prima che inciampasse sui resti della loro barca di
famiglia, la Lorelay, ridotta a un mucchio di assi di legno
accatastate l’una sull’altra, coperte di alghe.
«Cos’è successo alla nostra barca?», chiese Tom
inginocchiandosi davanti ai cocci di legno.
«Questo è quel che resta della Lorelay», gli rispose Emhilton
inginocchiandosi accanto a lui. Tom sentì le lacrime salirgli
agli occhi. Quella barca era il loro tesoro, il loro cimelio di
famiglia… e lui l’aveva distrutta.
«Papà…», disse senza riuscire a guardarlo negli occhi: «Mi
dispiace.»
«Non preoccuparti, Tom… La ricostruiremo... L’importante è
che tu sia vivo!»
«È la prima volta che accade una cosa del genere, potrebbe
essere tutto o niente. Dovremmo preoccuparci oppure restare
calmi? In ogni caso, credo che sia meglio per tutti non
allontanarci dalla costa per un po'», disse Emhilton
rivolgendosi a tutti gli altri uomini di mare una volta accertata
la condizione del figlio: «Almeno fino a quando non capiremo
cosa si nasconde veramente sotto questa faccenda.»
Dopo un’attenta analisi delle assi di legno, padre e figlio si
erano accorti di strane incisioni che avevano frammentato
ciascun pezzo di legno in più parti, tutte definite da un
contorno seghettato a forma di semicerchio, come se le assi
della barca fossero state prese a morsi da un gruppo di pesci
affamati. Squali!? Piranha!?
Ma quello non era l'habitat più adatto né per gli squali né per i
piranha! Ed inoltre non se ne avvistava uno da tantissimi
anni! Tutti si guardarono a vicenda e poi fissarono l'uomo che
sbatteva le palpebre troppo velocemente per nascondere la preoccupazione. Ad Albert, la cosa non faceva piacere e storse
le labbra.
«E come faremo ad andare avanti?», chiese all'improvviso
l'uomo sollevandosi dalla sua barca e togliendosi quel ridicolo
cappello.
«Una soluzione la troveremo», gli rispose Emhilton
pacatamente.
«Io non ci sto!», fu il commento di Albert, e anche di qualche
altro pescatore che però non aveva avuto il coraggio di dirlo
ad alta voce a differenza dello scontroso lupo di mare.
«Ma non capite! È troppo pericoloso!», continuò Emhilton
avvicinandosi a Tom che si era inginocchiato per esaminare i
danni della sua amata Lorelay ed indicando i segni a zigzag
sulle assi di legno lucido.
«E chi ci dice che tu non stia mentendo? Che stai inscenando
un incidente per soffiarci i pesci da sotto il naso!?», protestò
qualcuno che Emhilton non riuscì a vedere.
«Perché dovrei farlo?», chiese l'uomo, cominciando a
guardare fisso in volto ciascuno degli uomini che formavano il
cerchio umano attorno a lui e a suo figlio: «Perché avrei
distrutto la mia barca per fare una cosa del genere?»
Tutti si guardarono dubbiosi. Albert digrignò i denti e si
allontanò dal posto, lasciando sulla sabbia le impronte dei
suoi piedi enormi. Molti seguirono il suo gesto fino a quando la
spiaggia cominciò pian piano a svuotarsi. Rimasero solo Tom
e suo padre.
«Papà», lo chiamò all'improvviso il giovane dal basso, ancora
inginocchiato vicino al relitto.
«Cosa c'è, figliolo?», l'uomo si chinò accanto al figlio
reggendosi sulle ginocchia scheletriche.
«E questa cos'è?», chiese Tom stringendo con la punta delle
dita un luminoso pezzettino trasparente a forma di mezzo
cuore.
«Mi sembra... una squama», disse Emhilton, come se fosse la
cosa più ovvia al mondo. Tom si infilò quell'oggetto
cristallino nella tasca dei suoi pantaloncini corti, gli stessi che
indossava quando era avvenuto l'incidente, per poi alzarsi e
incamminarsi verso casa, seguito dal padre e da una stranissima
sensazione, un presentimento oscuro e pericoloso che non lo
faceva stare tranquillo.
FINE