Liceo Scientifico Frisi Monza

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Federico Ghibaudo 9/5/80 - 9/1/95 Liceo Scientifico Gerardiana Basket Monza "Frisi" -1 G - a.s.94/95 a Liceo Scientifico "Frisi" Monza Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2015 21 edizione a

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Federico Ghibaudo9/5/80 - 9/1/95

Liceo Scientifico

Gerardiana BasketMonza

"Frisi" -1 G - a.s.94/95a

LiceoScientifico

"Frisi"Monza

PremioLetterario

"Federico

Ghibaudo"

anno 2015

21 edizionea

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Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2015 - 21a edizione

“L’INDICE”

1° premio poesia Cecilia Arpano 5a - F pag. 6 2° premio poesia Lorenzo Novello 2a - D pag. 9

1° premio prosa Francesca Fumagalli 2a - D pag. 10 2° premio prosa Mara Motolese 2a - C pag. 13

Premi giuria Giacomo Tenconi 2a - D pag. 14 “ Beatrice Nettuno 3a - C pag. 15 “ Camilla Commisati 4a - C pag. 16 “ Marco Ottolini 3a - CSA pag. 18 “ Paolo Terruzzi 5a - D pag. 20

altri componimentiin ordine di presentazione:

Joël Franchini 5a - C pag. 22 Beatrice Norcini 5a - D pag. 23 Beatrice Norcini 5a - D pag. 24 Beatrice Norcini 5a - D pag. 25 Andrea Lizzano 3a - C pag. 26 Andrea Lizzano 3a - C pag. 27 Anna-Maria Gheorghiu 2a - CSA pag. 28 Margherita Rigillo 5a - E pag. 29 Micaela Esposto 4a - E pag. 30 Valeria Arosio 2a - D pag. 32 Carlo Caprara 4a - BSA pag. 34 Lorenzo Zanchi 4a - C pag. 35 Davide Poloni 4a - C pag. 36 Tobia Finzi 5a - D pag. 38 Leonardo Mondonico 5a - D pag. 39

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Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2015 - 21a edizione

“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”

1995 1° Classificato Alexandra Bonfanti 2a F 2° Classificato Loredana Lunadei 2a G 3° Classificato Arianna Ferrario 1a G

1996 1° Classificato Martino Redaelli 4a A 2° Classificato Elena Cattaneo 4a G 3° Classificato Marika Pignatelli 3a C

1997 1° Classificato Niccolò Manzolini 4a A 2° Classificato Matteo Pozzi 3a I 3° Classificato Elena Cattaneo 5a G

1998 1° Classificato Lorenzo Piccolo 4a A 2° Classificato Matteo Pozzi 4a I 3° Classificato Lucia Gardenal 2a I

1999 1° Classificato Dacia dalla Libera 3a E 2° Classificato Lorenzo Piccolo 5a D 3° Classificato Vincenzo Calvaruso 3a H

2000 1° Classificato Giulia Pezzi 4a G 2° Classificato Dacia dalla Libera 4a E 3° Classificato Cristina Sanvito 4a D

2001 1° Classificato Tiziano Erriquez 4a D 2° Classificato Giorgia di Tolle 4a D 3° Classificato Chiara Grumelli 4a A

2002 1° Class. poesia Alessandro Sala 4a H 2° Federica Archieri 5a L 1° Class. prosa Caterina Cenci 4a H 2° Alessandro Dulbecco 3a C

2003 1° Class. poesia Alesssandro Farsi 5a E 2° Cristina Pozzi 3a D 1° Class. prosa Alessandro Dulbecco 4a C 2° Pietro Spinelli 4a B

2004 1° Class. poesia Margherita Corradi 2a L 2° Riccardo Tremolada 2a L 1° Class. prosa Paola Molteni 5a F 2° Pietro Spinelli 5a B

2005 1° Class. poesia Margherita Corradi 3a G 2° Paolo Marchiori 2a F 1° Class. prosa Roberta Motter 3a G 2° Veronica Merlo 3a G

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2006 1° Class. poesia Armando Petrella 2a C 2° Andrea Guadagnino 5a B 1° Class. prosa Veronica Merlo 4a G 2° Gabriele Bambina 4a F

2007 1° Class. poesia Gabriele Bambina 5a F 2° Lorenzo Pasciutti 3a D 1° Class. prosa Francesca Montanari 3a A 2° Matteo Goggia 5a G

2008 1° Class. poesia Lucca Cazzaniga 5a E 2° Paolo Marchiori 5a F 1° Class. prosa Lorenzo Pasciutti 4a D 2° Alice Spreafico 5a H

2009 1° Class. poesia Giona Casiraghi 5a H 2° Claudio Rendina 5a B 1° Class. prosa Sveva Anchise 3a H 2° Riccardo Galli 5a F

2010 1° Classificato Alessandro Boggiani 5a B 2° Classificato Vanja Vasiljević 3a C

2011 1° Classificato Stefano Franzini 4a D 2° Classificato Clara Rossi 3a A

2012 1° Classificato R.Luigi Pessina 5a H 2° Classificato Gabriele D’Errico 3a B

2013 1° Classificato Gabriele D’Errico 4a B 2° Classificato Alice Colombo 5a D

2014 1° Classificato Giuseppe Galbiati 5a F 2° Classificato Micaela Esposto 3a E

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Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2015 - 21a edizione

“LA GIURIA”

Eun Hye Marta Lee 1a - A Matilde Brugnano 2a - CSA Stefano Grippo 2a - D Irene Buscemi 3a - ASA Marco Calderara 4a - G Giulio Tammi 4a - ASA Irene Motta 5a - C Ernesto Siani 5a - G

“IL PREMIO”

Il premio è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.

Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che essere imperfetta.

I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla spontaneità degli elaborati.

Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra per idee, sentimenti ed emozioni.

“INTERNET”

I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale si possono trovare su internet al seguente indirizzo:

http://www.premio-liceofrisi.it

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

“LA BIBLIOTECA”

in biblioteca sono disponibili per la consultazione,

i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...

...oltre una copia dei seguenti libri premio:

1996 L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani

1997 Messaggio per un’aquila che si crede un pollo Istruzione di volo per aquile e polli - Antony de Mello - Piemme

1998 Il viaggio di Theo - Catherine Clèment - Longanesi

1999 Abbiate coraggio - Francesco Alberoni -

2000 Perchè credo in Colui che ha creato il mondo - Antonio Zichicci - il Saggatore

2001 Il mondo di Sofia - Jostein Gaarder - Longanesi

2002 Il tao della fisica - Fritjof Capra - Adelphi

2003 L’universo in un guscio di noce - Stephen Hawking - Mondadori

2004 Storia della Filosofia da Cartesio a Kant – Luciano De Crescenzo - Mondadori

2005 Che cosa sappiamo della mente - Vilayanur S.Ramachandran - Mondadori

2006 Menti curiose - John Brockman - Codice Edizioni

2007 Alla ricerca delle coccole perdute Come diventare un buddha - Giulio Cesare Giacobbe - Ponte alle Grazie

2008 Complessità - Morris Mitchell Waldrop - Instar Libri

2009 L’io della mente - D.R.Hostadter e D.C.Dennet – Adelphi

2010 L’impero greco-romano - Le radici del mondo globale – Paul Veyne - Rozzoli

2011 La Patria, bene o male – Carlo Fruttero e Massimo Gramellini – Mondadori

2012 I discorsi che hanno cambiato il mondo – White Star

2013 Dietro le quinte della storia – Piero Angela Alessandro Barbero – Rizzoli

2014 A cosa serve la politica – Piero Angela – Mondadori

2015 Mappa Mundi modelli di vita – Domenico De Masi - Rizzoli

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Primo Classificato sez. poesia

“IL RIFLESSO DI APOLLO” di Cecilia Arpano - 5a F

Oh gentil Muse dall’alto del Parnaso, Se non impegnate vi proporrei il mio caso. So che da grandi poeti siete di solito invocate, ma ormai oggi da nessuno siete più chiamate. Spero troviate un po’ di tempo dunque, per aiutare una semplice ragazza qualunque.

Oh gentil Muse, se su voi possa far presa, sostenetemi vi prego in questa mia impresa. Riportatemi alla memoria la trama del racconto, di cui mai é stato narrato alcun resoconto. Per spiegare come il sole baci ogni giorno il suo riflesso sull’acqua e del perché ci faccia ritorno.

Ci fu un tempo in cui Apollo, dio della luce Dal suo carro vide una giovane di vita caduce. Reflecta era il suo nome e sulla sponda di un lago, si svestiva per entrar’in acqua e concedersi svago. Apollo le si avvicinò e la osservò di nascosto, quand’ella si sciolse la treccia, lui se ne innamorò tosto.

Lunghi erano i capelli e fulvo il suo colore appena il dio li vide si perse nell’amore. Parevan ai suoi occhi mille fili ramati, sulla pallida schiena cadean ricamati. Ammirarli per sempre avrebbe voluto, ma lei era mortale e mai avrebbe potuto.

Per conoscere di Reflecta il tristo destino, l’Arciero andò da Pizia il seguente mattino. E la sacerdotessa gli rivelò suo malgrado, Che presto avrebbe giaciuto per sempre nel lago. Al solo pensiero impazzì di dolore, non potea sopportare di perder l’amore.

Raggiunse sconvolto la fucina di Vulcano, e aiuto gli chiese per il suo disperato piano. Vulcano prese a cuore del fratello l’intento, tutto avrebbe fatto per vederlo contento. Gli promise dunque che se fosse tornato,

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ciò che cercava il dì seguente avrebbe trovato.

E mentre Apollo Reflecta seduceva, il tranquillo Vulcano una saetta prendeva. L’animo della giovane l’Arciere sciolse, e il fratello, l’arma di Zeus fuse. La fulva mortale si concesse all’amante e il metallo a Vulcano dalla mano pesante.

A colpi di martello la lega modellò e ben presto una barra lunga diventò. Battè tutta notte con grande vigore, perfin fora l’Etna se ne sentia il rumore. Un filo lunghissimo ottenne alla fine, assai resistente ma al contempo fine.

Apollo arrivò dunque il giorno seguente, trovò di Vulcano il lavoro stupefacente. Prese il lungo filo, ringraziò il fratello, e subito corse col prezioso fardello. La dimora delle Parche era il suo obiettivo non volea ceder al verdetto definitivo.

Le Tria Fatae raggiunse quindi l’Arciero, e gli si presentò con fare sincero. Al loro lavoro si finse interessato, voleva distrarle, poi avrebbe osato. Cloto per prima filava lo stame della vita, Lachesi sceglieva il destino e Atropo la faceva finita.

Da mille e mille fili era composta la stanza, di trovare quello di Reflecta non avea speranza. Toccò quindi ogni filo noncuranza fingendo, e il nome del proprietario ogni volta chiedendo. E appena quello dell’amata fu pronunciato, di nascosto lo sostituì col metallo pregiato.

Passarono mesi dal vile inganno, i due amanti si goderono l’intero anno. Ma inesorabile il giorno meschino arrivò e Atropo al filo di Reflecta si avvicinò. Doveva tagliarlo, era giunta la sua morte, ma la lama non scalfì quel metallo tanto forte.

Le tre Parche infuriate andaron da Giove, il fato era sfidato e ne avevan le prove. Se infatti il filo non potea esser tagliato, da mortale a immortale, l’effetto era immediato.

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Chiesero a Giove di sistemare la situazione, lui poco pensò e poi trovò soluzione.

Il re degli dei il figlio quindi raggiunse, e lo trovò con Reflecta sulle solite sponde. Sul suo giudizio non fu per nulla vago, come da destino, lei avrebbe giaciuto nel lago. La costrinse per sempre a una vita nei fondali, i pesci e le alghe sarebbero stati i suoi eguali.

Con lo stesso filo forgiato dal divino, Reflecta fu legata sul fondo del bacino. Apollo assistette tremante alla scena, tant’è che Giove ne provò quasi pena. Al filo quindi un po’ di gioco concesse, così che ella quasi in superficie salisse.

Apollo sul carro, il giorno seguente, Dovea portar il sole all’orizzonte. E quando con l’alba, l’Arciero arrivò, Reflecta di raggiunger l’amato tentò. Un grande slancio si diede dal fondo, Per scambiare con Apollo un bacio profondo.

E quando col carro portò il sole al tramonto, lei nuotando sott’acqua ne seguia il movimento. E a chi dalla sponda la scena osservava, il lago un enorme specchio sembrava. I fulvi capelli parean infatti del sole Il riflesso formato da quel gesto d’amore.

Da quella mattina s’incontrarono ogni giorno, dandosi un bacio e attendendone il ritorno. E quando anch’oggi l’alba osserverete e il dolce spettacolo assorti ammirerete. È facile che vi sfugga un piccolo sorriso, nel ricordare il racconto che con voi ho condiviso.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Secondo Classificato sez. poesia

“IL SILENZIO” di Lorenzo Novello - 2a D

Ieri la ritrosia esitante immobilizzava alla gola il filo fine del tuo pensiero. Ora gridi le parole trattenute ma soffocate da un velo nero che si è cucito troppo in fretta.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Primo Classificato sez. prosa

“ALLA RICERCA DEL FILO” di Francesca Fumagalli - 2a D

La campanella. Pugno al cielo. Sei giorni di libertà primaverile. Sorrisi, abbracci, “ci vediamo”.

Corsa per il pullman. Casa. Pranzo. Valigie.

Cellulare. Una chiamata persa. 46 nuovi messaggi.

«Matteo è morto.»

Mi gira la testa, sento il respiro mancarmi. Inizio a urlare. Mia mamma riattacca il telefono e accorre. Tremo, il mio corpo non reagisce. Mi abbandono sul pouf e leggo i messaggi. Il pollice scivola freneticamente avanti e indietro sullo schermo del cellulare.

Investito sulla Azzone Visconti in bicicletta.

Rispondo confusamente, incredula. Non capisco. Non di nuovo. Non così maledettamente vicino.

Chiamo qualcuno, la mia voce si incrina ma non piango. Sono troppo sotto shock, penso.

Mia mamma mi abbraccia, tenta di consolarmi. Mi dice di sdraiarmi, provare a riposarmi, per quel che è possibile. Ma io non ci riesco. Inizio a vagare per casa senza una meta. Saltello nervosamente, mi agito concitata. Dalla punta dei piedi in movimento ai capelli rizzati, sono la personificazione dell’ansia. Mi sfogo con un’estrema dipendenza dal telefono: ho bisogno di notizie, di sentire qualcuno. Qualcuno che soffra come me, non meno di me, non di più.

Poi la veglia, il funerale. Tutto così lento ma maledettamente veloce. Tutto così anomalo ma paurosamente normale.

Quando tutto è finito non rimane altro che un grande vuoto. Non ci sono più fiori da commissionare, un elogio da scrivere, dei compagni da sostenere. Solo tanto tempo per pensare. Ma pensare a cosa? Ogni gesto, ogni idea, ogni sogno è rivolto a Matteo. Ma fa male.

Perché si ha paura. Paura di non soffrire abbastanza, di non comprendere davvero. Eppure è così facile.

“Francesca un tuo compagno è morto”.

Boom.

Il cervello assimila, ma il cuore?

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Se dicessi che Matteo fosse, per me, molto più di un compagno di classe non sarei onesta. Forse a causa della sua estrema timidezza o della mia mancanza di iniziativa non abbiamo mai legato veramente. E, dopo la sua morte, ho passato molto tempo a rimuginarci, a colpevolizzarmi di non essergli stata vicino prima, di non essere in grado di trovare quel filo rosso che mi colleghi a lui ora.

Io non ho mai pianto per Matteo. Prima pensavo fosse per lo shock, poi per quella mia smaniata voglia di fare per sentirmi un po’ meno inutile ed infine per essere forte per chi mi era vicino.

Ho esaurito le mie energie per poter essere accanto a chi aveva gli occhi lucidi, chi aveva il viso segnato dalle lacrime, chi scoppiava in un pianto a dirotto. Mi aiutava a realizzare l’accaduto ma provavo anche una forte invidia.

Perché loro piangono? Perché loro riescono a soffrire cosi apertamente? Si sono forse aggrappati a quel filo rosso che io ho tanto cercato? Quel pianto, quel dannato filo rosso, mi sembrava l’unica porta che mi avrebbe potuto condurre da Matteo. Ma io non riuscivo ad aprirla.

Io non piangevo, tremavo. Crollavo tra le braccia di chi mi stava accanto e mi consolavo col profumo di quell’abbraccio. Sentivo il corpo pervaso da mille scosse. Le spalle che si irrigidivano, i singhiozzi che si facevano più frequenti. Un pianto di pancia.

E avevo paura. Paura che il ricordo di Matteo mi scivolasse come sabbia tra le mani.

Abbiamo tanto parlato del mantenere la sua memoria, ma non è semplice. Perché se all’inizio soffri terribilmente, poi la nebbia si dirada e la vita di tutti i giorni ricomincia. L’appello in classe senza di lui diventa consueto. Inizi a sorridere e a ridere di nuovo e non puoi far altro che spaventarti, sentirti colpevole di essere vivo. Quel filo che si disfa sempre di più.

Il mio pullman percorre tutti i giorni la Azzone Visconti, ma non si ferma mai a quell’attraversamento pedonale. Non preme il clacson davanti a quei fiori adagiati sul marciapiede. Non esprime un pensiero, non soffre.

E io non voglio essere quel pullman. Ma temo il giorno in cui anch’io andrò avanti, per sbadataggine, per dimenticanza, io passando per la Azzone Visconti non guarderò i fiori. Non osserverò il marciapiede. Non ricorderò Matteo. Andrò avanti.

Eppure questo ci diceva l’omelia del prete al funerale. Ragazzi andate avanti. Percorrete il vostro cammino, fate tutto ciò che Matteo non ha potuto provare. Andate avanti, ma con il ricordo di Matteo stretto al cuore. E allora come devo fare?

Poi capisco.

Abbiamo scritto una lettera per Matteo dove, tra il dolore e lo strazio, l’abbiamo paragonato ad un albero. Ora il suo banco è vicino ad un albero. Illuminato dal sole, che ne riflette sulla lunghezza le ombre dei rami. Il primo giorno di scuola dopo il funerale quell’albero mostrava timido le prime gemme.

Ora rappresenta sgargiante la primavera: esibisce orgoglioso le grandi foglie striate.

Vicino all’albero c’è il suo sorriso. Matteo che ride felice. Quel sorriso che mi ricorda chi era Matteo per noi, chi era per me. Mi ricorda tutte le volte che mi sono voltata nella

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sua direzione e lui era lì che rideva, felice per la battuta appena ascoltata. Mi ricorda tutte le volte che si lamentava di quella verifica che proprio bene non gli era andata. Mi ricorda tutte le volte che durante le sue interrogazioni corrucciava la fronte, irrigidiva il mento e iniziava un poco a panicare. Mi ricorda tutte le volte che abbassava il braccio, fingendosi offeso, perché veniva ripreso per il suo “ricciolino d’amore”. Perché proprio non la voleva smettere di disegnare quella ciocca con il dito. Mi ricorda tutte le volte che interveniva durante la lezione e pensavi che sotto sotto non era così timido come ci voleva far immaginare. Mi ricorda Matteo. Quel Matteo che non ho mai conosciuto veramente ma che per me era tanto, senza rendermene conto. Quel Matteo che ora mi insegna ad andare avanti, a capire di più chi mi sta vicino. E a dargli importanza.

Allora forse l’ho trovato il mio filo. Ma il mio filo è verde, è fresco, raggiante. Non è rosso. Non è solo il dolore per il mio compagno. Non è solo il sangue. Non è lo strazio per come è morto. Ma è la linfa di quell’albero. Quell’albero che cresce, va avanti, è stato potato ma ha dato nuova vita. E, sotto sotto, mi sorride.

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Secondo Classificato sez. prosa

“CIO' CHE TI LEGA AD UN INCUBO” di Mara Motolese - 2a C

La bambina vaga, sola nel labirinto della bestia. Eco di lacrime morte tra le ciglia e ombre vive che ammantano ogni cosa. Il silenzio che assorda i pensieri. Poi un ruggito scuote il suo corpo pietrificato, riecheggia nel profondo lasciandosi alla spalle merletti di crepe. Quale dissennata bellezza. Uno stridore acuto ed il petto è trafitto da schegge di desolazione. Solo un sottile filo d’argento fra le dita tremanti. Pallida speranza e flebile guida. La bambina inizia a correre ed un finale già scritto si richiude su di lei. Il filo la inganna con il riflesso di un miraggio nel chiarore di un battito di ciglia, per poi lasciarla cieca nell’insondabile, denso nero. Il respiro che fugge dai polmoni e detonazioni cardiache tra le lacrime che si infrangono, lente. Inciampa. Cade. Zanne e artigli le accarezzano i capelli. Si rialza e torna a rincorrere quell’unica speranza. Luce. È salva. No. Tradimento. La sua guida non l’ha affatto condotta alla libertà, bensì ad una terribile prigione dalla quale ormai non c’è alcuna via di fuga. La bambina cade in ginocchio nel cuore del labirinto, la bestia che incombe su si lei. Ormai è nulla ai suoi occhi, vuoti e immobili, ma finalmente capaci di vedere chi l’ha condotta ad un così tristo epilogo. Un’accusa affiora alle labbra mute, incapaci di pronunciarla. Mi sveglio nel silenzio, il battito regolare. Il mio incubo preferito è infine tornato a farmi visita. Mi sfugge un sospiro stanco che per qualche motivo mi lascia un sorriso leggero sulle labbra. Svanisce non appena il mio sguardo si alza verso l’ombra comparsa sulla soglia della mia porta. La bestia, vestita di una pelle terrificante e reale. Mi specchio in lui, nei suoi occhi bui e in quell’abisso scorgo il tuo riflesso. Filo traditore che mi fissi senza una parola, posso quasi vedere le tue trame farmi prigioniera. Voglio svegliarmi, voglio davvero che sia solo un incubo. Ma non lo è, so che non lo è. Sorrido di sconfitta e dalle labbra infine giunge, lieve, la condanna: colpevole.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Premio Speciale Giuria

“” di Giacomo Tenconi - 2a D

La vita è come un filo, prima o poi si spezza Più rimani vivo e più senti l’amarezza Un mio amico se n’è andato non puoi metterci una pezza C’è un filo fra odio e amore come tra uno schiaffo e una carezza E l’ipocrisia della gente mi mette tristezza Che quando muori poi ti apprezza anche chi ti disprezza Piangono lacrime di cui forse ne è vera mezza Con un filo mi ci impicco, in tutta franchezza.

Menti se mi dici che c’è un filo conduttore Menti come in TV quel conduttore Sento male al cuore l’ho detto al mio dottore Mi ha risposto che la morte è il rimedio al dolore E passo ore e ore a pensare a ‘ste parole La vita è bella come un fiore e quando lo cogli muore Ma puoi godertela, annusane bene l’odore Se c’è un filo nella vita spera sia solo migliore.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Premio Speciale Giuria

“FLUITE” di Beatrice Nettuno - 3a C

Barlumi di morte così malcelati alla vita, io vi conosco. Dalle arterie palpitanti distinguo il vostro gracchiante richiamo.

Scorre e sbatte sul mio involucro debole fino a sconquassarmi.

La più potente difesa è un’inedia che annulla.

ECCOMI, sporca e spezzata.

Non devo difendermi. Devo scorrere anch’io, da frammento scrostato di carne farmi filo di vita.

Fluire nei solchi dell’insanabile spaccatura che ci permette di dire: io sono.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Premio Speciale Giuria

“UN FILO INVISIBILE” di Camilla Commissati - 4a C

“Ehi, mi stai tirando, ti sei aggrovigliato nel mio filo”.... “Chicco?!”.... Silenzio, solo il rumore del cuore che batte... È sempre così, io parlo e mio fratello si addormenta... di sicuro non creerà problemi di notte!

La mamma si sta muovendo... Qualcuno ha suonato al citofono, sento il suo cuore che accelera, il suo camminare si fa più veloce, Willy abbaia e finalmente la porta si apre... Un attimo di silenzio e poi una mano ci accarezza dolcemente. Chicco si sveglia e mi guarda sorridendo... è arrivato papà.

La mamma è contenta, sta ridendo, forse papà le ha fatto ancora il solletico... è impressionante come tutti e tre, grazie a questo filo che ci unisce, percepiamo le stesse emozioni, come se fossimo una persona sola.

“Fede?!, Fede, svegliati, e ora di mangiare”, apro gli occhi... é il momento di capire cosa ha cucinato oggi la mamma... “Pizza!” “Pollo!” “Zuppa!” “No, il purè di patate... non mi piace!”. “Ssh, Fede, la mamma ci sta accarezzando!”. É così, ogni volta che la sua mano sfiora la pancia, chiudiamo gli occhi e sorridiamo... non sappiamo il perché, forse è questo filo che ci lega. Noi lo chiamiamo “il filo dell’amore e della protezione”, perché mamma, quando siamo agitati, si ferma e canta e ci coccola come se fossimo lì con lei... Papà dice che vorrebbe tagliare questo filo, quando nasceremo, lo chiama “cordone ombelicale”. Ma saremo ancora tanto uniti? Riusciremo a capire quando la mamma è triste e quando invece è contenta?

“Willy, fai piano, altrimenti si svegliano!” Lei non lo sa, ma a noi piace quando Willy lecca il pancione, ci fa solletico. La mamma ha detto che e un giorno importante, perché... “Chicco, sveglia, oggi è il 14 maggio, sono passati esattamente nove mesi!!” Chicco apre gli occhi e cerca di srotolarsi dal filo che ci accomuna... gli rimane sempre aggrovigliato un piede, che maldestro!

Sentiamo subito molte voci e passi frettolosi di persone, finché qualcuno chiude una porta e tutto si acquieta. Solo il cuore forte della mamma rompe il silenzio intorno a noi... qualcosa ci avvolge, io e Chicco ci prendiamo la mano impauriti... ora tre cuori stanno battendo... cosa sta succedendo? Per fortuna abbiamo questo cordone che ci unisce, altrimenti... Una voce maschile parla, tendiamo l’orecchio per ascoltare meglio... è il Dottor Manfredi! Cerchiamo di capire cosa dice. “Montaggio” “No, ha detto formaggio” “Ma no, Chicco, e una strana parola... credo sia monitoraggio”. Lui mi guarda con gli occhi spalancati “E cosa significa?” “Non lo so” gli rispondo. Stiamo ancora pensando a quella strana parola, quando la voce delicata della mamma ci calma “Non vedo l’ora di vedervi, piccolini”, dice. “Anche noi non vediamo l’ora di vederti, mamma”. Sembra quasi che, tramite il nostro filo, ci abbia

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sentito, perché ci accarezza lievemente e ci sfiora con un bacio.

Il cuore della mamma accelera.

Sentiamo voci agitate, passi frenetici.

Papà e preoccupato.

I nostri cuori battono veloci.

La mamma continua a lamentarsi, cammina veloce.

Altri passi ci raggiungono.

Arrivano i nonni.

La mamma si lamenta sempre di più.

Sentiamo il dottor Manfredi dire “È il momento!”

Chicco e spaventato, mi osserva e mi chiede “Fede, ma pensi mai come sarà, quando questo filo non ci unirà più? Quando non mangeremo le stesse cose? Quando non sentiremo più il cuore della mamma? Quando non dovrai aiutarmi a sgrovigliarmi il piede appena sveglio? Questo filo tanto piccolo, ma tanto importante non ci sarà più”. Lo guardo triste e insieme contento “il nostro filo ci sarà sempre ad unirci... sarà come invisibile, ma lo percepiremo in un momento di paura, in un momento di bisogno e ogni volta che vorremo sentirci vicini”. Chicco ha le lacrime agli occhi, “Ho paura” mi dice. Gli prendo la mano: è il momento di farci vedere! Sentiamo la mamma che urla e poi una voce che dice “sono nati”. Il papà taglia il cordone, quel cordone che ci ha unito per nove mesi, che ci ha rassicurato... ora siamo quasi disorientati, ma subito delle braccia calde ci avvolgono: “finalmente vi vedo!” La mamma piange di gioia, il papà ci sorride e noi ci sentiamo uniti da quel filo che non ci allontanerà mai.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

Premio Speciale Giuria

“ROSSO” di Marco Ottolini - 3a CSA

È tutto così soffice. Non sento altro. Il letto nuovo che abbiamo comprato con i sacrifici di tanti mesi. I cuscini che ci hanno regalato per il matrimonio. E i suoi capelli, li sento con le mani accanto a me. Sono la cosa più bella. Passerei giornate intere a toccarli, ad affondare le dita in quei capelli sottili. Voglio vederli. Apro gli occhi, con calma, per non rompere l’incantesimo. Mi sono davanti, sciolti, rossi, lunghi, distesi sul cuscino. Vorrei rimanere qui per sempre ad accarezzarli. Ma ora che ho gli occhi aperti vedo la luce che entra dalla finestra. È giorno, è ora di alzarsi. Vorrei poter chiudere gli occhi e ritornare a quando non sapevo di dovermi alzare. Risentire la sofficità senza sapere che ha una forma. Ormai non posso più farci nulla. Ma non mi alzerò io. Aspetterò che si svegli lei, lo fa sempre prima lei, e mi godrò ancora un po’ i suoi capelli. Oh, no, si sta muovendo, tra poco si alzerà. No, non farlo. No, per fortuna sente le mie mani tra i suoi capelli e si gira voltandosi verso di me. Vedo il suo viso, sottile e bianco, sorridente e stanco. —Ciao amore— mi dice, e mi dà un bacio. Che dolce. Mi ha ripagato del fatto che mi devo svegliare. Lo fa tutti i giorni, da ormai cinque mesi, da quando siamo sposati. —Ciao— le rispondo, e la ribacio anch’io, e lei sorride. Con la sua solita energia si volta e si alza dal letto. Va in bagno un attimo, come ogni mattina. Poi ritornerà, prenderà alcuni vestiti e ritornerà in bagno per vestirsi. Non si veste mai davanti a me, è una di quelle cose che vuole che rimanga sua, un suo momento di pace intima. Devo alzarmi anch’io ora che ci penso. Sono io che preparo la colazione. Mi diverto così tanto a farlo, a vederla entrare in cucina e sedersi davanti a me mentre io le servo il caffelatte e le crepes e poi mangia con gusto sorridendomi tra un boccone e l’altro. Non posso perdermi quello spettacolo. Mi alzo dal letto con fatica, perché non abituato alla luce e ancora rimbambito dalla stanchezza. Devo vestirmi, perciò mi dirigo verso i cassetti per le calze. Oh, ho sbagliato di nuovo scomparto, ho aperto il suo, ci sono le sue canottiere. Dopo cinque mesi ancora non mi ricordo quali sono i miei. Lo chiudo. Sto per farlo, ma mi fermo. Lo riapro lentamente. Cos’è che ho visto? Forse mi era solo parso... qualcosa di colorato, di rosso. Quando lo riapro tutto lo vedo chiaramente. Dov’è? Sotto una delle sue canottiere, ecco dove. Forse dovrei chiudere, probabilmente sarà una macchia di sangue, ma mi sembra strano che sia su una maglietta. No, ormai sono troppo curioso. La prendo e la appoggio sul mobile, e richiudo il cassetto spingendolo con il bacino. La alzo tra le mani per vedere se è una macchia e se si può lavare. Ma nel farlo scende, e esce da una delle maniche, cadendo sulla cassettiera. Non è una macchia, ormai è ovvio. Cos’è? È piccolo, rosso, raggomitolato su se stesso... è un filo. Lo prendo tra l’indice e il pollice e lo guardo incuriosito. È di lana, di quelli spessi. Sono un attimo confuso. Da dove viene un filo del genere? Io non ho niente di rosso, e tantomeno di lana, non mi piace, mi prude. E lei neppure, che io ricordi. Compriamo le cose insieme da quando siamo fidanzati, e non abbiamo mai preso niente del genere. Allora da dove viene? E come ci è finito tra le sue cose, dentro la sua maglietta? Sembra come quelli che lasciano i maglioni vecchi, come facevano quelli di mio padre. Come quello del nostro vicino, ecco come, quel maglione che indossa sempre tutto l’anno e lo fa sembrare Babbo Natale. Sorrido pensando a lui, al suo essere spigoloso e puntiglioso. Ma in fondo con noi è sempre stato gentile, la accompagna sempre a fare la spesa quando io sono al lavoro e ho bisogno dell’auto. Loro sono molti amici. Già, molto amici... C’è qualcosa... nella mia testa. È una strana sensazione, come... nebbia, qualcosa

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di non solido, ai lati della testa, che... pulsa. È un’idea fastidiosa, un male premente, insistente, e allo stesso tempo impalpabile. Mi concentro e li vedo: loro due insieme, lei e il vicino di casa, che si tengono per mano, per strada, guardano vetrine, come facevamo noi, si abbracciano, ridono, cenano insieme... si baciano. Con passione, amore vivo, e si stringono, e li vedo, insieme, ad accarezzarsi, ad amarsi, a rubarsi i respiri, ovunque, qui, sul mio letto, mentre io non ci sono, più e più volte, tutte le volte. Perché non riesco a scacciare questi pensieri? Ci sto provando, ma mi torturano, mi premono dentro, ora nel petto, come se avessi qualcosa sotto la pelle che vuole uscire e preme, squarcia la carne e si fa spazio tra le ossa per scappare via, e mi fa male. E poi lo vedo. Il filo rosso, sul mobile. Era nella sua maglietta. Ecco perché questi pensieri mi tormentano. Perché è la verità. Ora lo vedo, vedo tutto, tutto ciò che ha fatto, tutto ciò che Mi ha fatto, i suoi tradimenti. Come ho fatto ad essere così cieco, a non vedere? L’ha fatto, mille e mille volte, e siamo sposati da soli cinque mesi. Come posso essere stato così stupido? Un rumore mi risveglia. È caduto qualcosa, in bagno. Dove è lei. Non ha ancora finito di vestirsi. Ora sono sveglio. Ora vedo tutto e non desidero più non sapere. Voglio altro. Vado in bagno, la porta aperta. Lei è lì, che si pettina i capelli davanti allo specchio. Mi avvicino, lei mi vede nello specchio e sorride. —Che c’è amore?— mi chiede ridendo. Cosa voglio? Cosa voglio! Non ce la faccio, il cuore non la smette di battere, la mente di tornare a quei momenti, e le mie braccia si muovono da sole. È troppo tardi per chiedermi cosa voglio! La prendo per le braccia e la strattono via, spingendola contro il muro. Io volevo fedeltà, ecco cosa volevo! I suoi occhi sono spaventati, grida, mi chiede cos’ho, e piange, e mi colpisce con la spazzola. Troppo tardi! È troppo tardi per piangere! La prendo allora per la nuca e la spingo contro il lavandino, una, due, tre, quattro volte, e lei grida, e io continuo, finché non strilla più, e io la lascio. Cade per terra senza dire nulla, la bocca aperta, il volto nascosto da una maschera di sangue che ha sporcato anche la porcellana del bagno. È morta. Ora non mi tradirà più. Non lo sento più, il dolore nel petto e nella testa. È svanito, finalmente! Respiro affannosamente, ma adesso mi riprendo. Perché manca un ultima cosa da fare. Lo sento tra la testa, che nasce, un nuovo ultimo piccolo tarlo. Lo accontento. Prendo le forbici da dietro lo specchio. Mi abbasso su di lei, e con calma le taglio i capelli, cercando di prenderne il più possibile, anche colpendo e tagliando la pelle del cranio. E quando li ho tutti, li tiro su, perché non si sporchino di sangue. Torno in camera tenendoli in mano come se fossero di cristallo, fragili, da proteggere. Sono sottili fili rossi che devo difendere, salvare, cercare di perderne il meno possibili e ognuno di loro è una gemma rara. Li appoggio delicatamente sul cuscino, il suo. E facendo il giro mi rimetto nel letto, sotto le coperte, e chiudo gli occhi. Cerco con le mani i capelli e li accarezzo. È tutto così soffice.

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Premio Speciale Giuria

“L’EVASIONE” di Paolo Terruzzi - 5a D

Ricordo che solo una volta un pazzo era riuscito a fuggire da quell’inferno sulla terra, quel campo infame e degradato dalla civiltà che anche il cielo, per la vergogna nel vederlo, sferzava con la forza dei venti gelidi e delle piogge, nel tentativo forse di lavare via le croste di sangue e l’odore di morte che si concentravano lì dentro. Un’ideologia lo aveva costruito e lo aveva isolato, rendendolo un luogo dove l’identità di chi ci veniva portato era dimenticata. Solo i fili degli imponenti tralicci sembravano portare qualcosa dalla lontana attività degli uomini, dalla vita; sembravano perdersi nella vastità della pianura circostante e si poteva immaginarli lambire anche le estreme soglie dei continenti.

Nella struttura lavoravano uomini provenienti da varie istituzioni militari o di sicurezza e tutti avevamo aderito al nuovo regime sorto in quegli anni. Noi lavoravamo e venivamo pagati dallo stato per “accogliere” i condannati, catalogarli, farli lavorare, ridurli a bestie stremate e sapevamo che quelli venivano condotti lì perché erano nemici dell’equilibrio che il governo perseguiva e cercava di mantenere. Ed io, membro dell’esercito, parte di un organismo più ampio, non volevo certo essere fra quei prigionieri. Non si aveva altra scelta, allora: o eri parte di quel tutto o morivi da internato devastato dalla fatica. Era tutta una questione di opportunismo. Una o poche persone contro masse e folle che acconsentono a imporre l’univocità del pensiero, non possono che essere travolte dall’ottusità che incancrenisce e uccide.

Ricordo che quel giorno ristagnava una bruma densa e quella mattina era il mio turno ad una delle torri di guardia. Fu allora che sperimentammo il fallimento dei tentativi di sconfiggere il coraggio e la dignità: i prigionieri si rivoltarono: ci furono grida di rabbia, spari, scariche di mitragliatrici e, quando tutto ebbe fine, rimasero molti morti. Ci fu però uno di loro che, approfittando del tumulto, sfruttò una zona lasciata poco controllata dalle guardie, impegnate a sedare i detenuti, e si lanciò verso il muro di cinta, la foschia a coprirlo e proteggerlo. Io e altri sulle torrette riuscimmo a scorgerlo. Non so perché mi misi a sparare. Forse per senso del dovere, per reazione naturale di soldato addestrato, o forse banalmente perché eravamo costretti a farlo. Alcuni ci prendevano gusto a picchiare, infierire, insultare, ma io non sapevo neppure se ci credessi o meno a quel sistema di cose in cui volevamo stabilire un ordine, il nostro ordine, o quantomeno quello di chi ci aveva convinto che fosse tale. Fatto sta che sentimmo un lamento e fummo convinti di averlo colpito, ma non facemmo in tempo ad accorgerci che fosse ancora vivo che lo intravedemmo, rapidissimo, gettarsi sulla parete e scavalcarla con un’agilità impressionante. Continuammo a far crepitare le bocche dei fucili. Non sapevamo se i nostri proiettili l’avessero raggiunto, ma cadde comunque a terra, dall’altro lato, le carni probabilmente squarciate dalle spine. Restai incredulo pensando al fatto che fosse rimasto indenne contro tutti quei Volt distribuiti lungo il perimetro del campo, che avrebbero dovuto paralizzarlo al minimo tocco dei fili conduttori. Più tardi scoprimmo che, scherzo del destino, la corrente era saltata poco prima che compisse quel gesto da folli. Una barriera impenetrabile superata così, in un attimo, da un uomo qualsiasi. Era un

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fatto impensabile e inaccettabile e ci precipitammo di fuori con i cani perché nel mentre l’individuo si era già dissolto nelle nebbie. Segui una caccia sostenuta attraverso tutto il circondario ma nulla, non si riuscì a stanare quello “sporco bastardo”, come lo chiamavano. Dividendoci, io rimasi da solo finché, nel setacciare una parte selvaggia, sbucai in uno stagno da cui una carcassa emanava un lezzo insopportabile, un’aria consumata dal veleno della decomposizione, la cui intensità mi provocò un senso improvviso di vertigine e nausea. Da quel cadavere irriconoscibile di animale mezzo galleggiante fuoriuscì l’evaso, che, impaurito dal mio arrivo, si levò di scatto alzando le mani, fermo, stillante acqua rossa, un viso di cera terrorizzato, tremante come un infante partorito da un corpo vivo. Si scopriva invece da materia morta, perché aveva svuotato il ventre dell’enorme bestia, le cui viscere le affioravano intorno, e nella disperazione vi si era nascosto, coprendo in tal modo il proprio odore ed evitando che i pastori tedeschi lo scovassero. Guardando quel “sottoumano” così, immobile, coi vestiti ridotti a un cumulo di sfilacci, provai in me un sentimento, un’illuminazione che mai seppi spiegarmi appieno e forse fu la coscienza di un estremo atto di eroismo, da parte di chi, come lui, aveva solo la prospettiva della morte più misera, quella accompagnata dal rammarico di una vita vissuta senza aver resistito. Quei grumi di filo spinato non furono sufficienti a ferirlo nel profondo, piegare la volontà del suo spirito e nonostante avesse pensato alla propria fuga e non ai suoi compagni rimasti dietro, il suo era un gesto comprensibile visto che eravamo noi a indurre i singoli all’individualismo con quelle costrizioni disperate. Lo guardai e gli feci cenno di nascondersi di nuovo, al che lui obbedì e mi voltai accertandomi che nessun altro avesse assistito alla scena. Tornai indietro al campo.

E ancora oggi sono lì a osservare quel punto d’evasione che ricordo gocciolante di sangue e non appena dubito sulla sua codardia egoistica ancora di più ragiono sul vigliacco che fui e che fummo tutti noi che volevamo serrare l’umanità entro i confini della sofferenza nel nome delle nostre idee, con il mezzo della nostra potenza. Penso alla corrente che lo ha graziato quella volta. E ancora sono lì a contemplare i cavi dell’alta tensione, sorretti dai giganti d’acciaio, che collegano i mondi, perdendosi nelle nubi del suolo e ricordo, ammirato, quella sua strenua fuga dalla morte.

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“IL FILO DELLE PARCHE” di Joël Franchini- 5a C

Filavano le Parche nell’oscurità dell’Ade E vita vinceva nel dorato virgulto; egli cresceva tra baci, balocchi e altri bambini. Così si districava lo spago di vita nella prima notte dal fior abbellita.

Filavano le Parche nell’oscurità dell’Ade, e nell’indifferenza naturale il ragazzo cresceva. Al filo diletto, con ardito vigore, si intrecciava quello scarlatto, che manifestava, nel suo splendore, l’audace passione dei primi lampi d’amore.

L’arbusto oramai alla cima dello sviluppo soppesava, con malinconica quiete, ciò che la sorte aveva dato a lui in dono specchiandosi infermo e chiedendo perdono.

Nelle inevitabili canizie si crogiolava l’Uomo, oramai vinto dai sogni lasciati come un infante che stringe stretto la rena nella sua manina ma questo, nell’ultima luce della mattina.

...e le Parche filavano...

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“DA LÌ E LÌ PER SEMPRE” di Beatrice Norcini - 5a D

II lungo cammino nel noto ventre, nutrendo distrugge la sua vittima innocente. Inganna il tempo Una processione trasparente.

E io cerco di fuggire la monotonia del tutto opprimente, Riconosco il freno che stride sull’inoltre e mi rivedo appesa al filo di un passato in avvenire.

Il desiderio d’abbandono, di fuga si oppone all’affannoso scorrere che costringe fino a soffocare.

Serrata così in una genitrice bolla, annullo Anche me stessa e sprofondo nel Sicuro buio inappagante dell’inediosa incapacità.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

“FILO DI VOCE” di Beatrice Norcini - 5a D

Sento a stento Un filo di voce Solo un suono di musica sbiadita.

Percepisco, quasi per caso quel filo di suono. Sarà la vita che mi chiama a raccolta?! Lo senti? Senti sottovoce quel filo di vento? Oltre, oltre l’atomo indiscreto?

Aumenta, si avvicina... No, non è la vita. Silenzio.

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“IL FUNAMBOLO” di Beatrice Norcini - 5a D

Corre e non si ferma Salta e non rallenta. Come vola e riatterra In cedevole equilibrio Su quel sottile filo.

Sottile allinearsi inerte di materia e inconsistente Incontro ininterrotto del fluire Di immagini sbiadite.

Te, che da lassù contempli Il vuoto intorno, Non colpisce il silenzioso Freddo che avvolge chi A guardar rimane, e Il respiro: rotto, come Quel filo che si spezzerà Lentamente o che, forse, già non esiste.

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“IL FILO DI UN CUORE SPEZZATO” di Andrea Lizzano - 3a C

Chiudo gli occhi e ti immagino insieme a me, poi mi siedo e piango senza un perché. Non sono triste e infatti rido quando vedo il tuo sorriso, così bello che è la fine del mondo e l’inizio del paradiso. Non è facile scrivere queste parole, perché non so se siano degne del tuo splendore. Non sai quanto il mio animo provi dolore e il tuo silenzio nella mia testa fa solo rumore. Cerco il filo per cucire insieme i pezzi del mio cuore spezzato, a causa di questo sentimento non ricambiato. Forse un giorno proverò a chiamarti, ma non credo di poter trovare mai il coraggio di parlarti.

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“BASTERA' UN FILO” di Andrea Lizzano - 3a C

È finita un’altra giornata, vissuta, perduta e già dimenticata. Ho solo la voglia di tornare a casa e ritrovarla così come l’ho lasciata. La solitudine inizia a riempire il mio animo senza neanche perdere un attimo. Non sei più qui accanto a me e non capisco ancora il perché. Era bello vedere il tuo sorriso, sul tuo bellissimo viso, perfetto senza difetto e che trasmetteva solo tanto affetto. La tua faccia, i tuoi modi di fare e i tuoi comportamenti sono un ricordo indelebile, come i miei sentimenti provati per te per tutto il tempo che ti ho avuta accanto, anche se adesso non ci vediamo da tanto. Ho scritto questo testo come se fosse un filo, per cucire insieme i pezzi del mio amore infinito. Sono sicuro che basterà solo questo semplice oggetto ad aiutarmi a dirti le cose che non ti ho detto. Non so dove troverò il coraggio ma spero che il desiderio di rivederti non sia solo un miraggio.

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“IL FILO” di Ana-Maria Gheorghiu - 2a CSA

L'essere umano è avvolto da fili di diversa consistenza, diverso spessore, diversa ruvidità, diverso colore. Diversa sensazione. Eppure esiste un filo che predomina su tutti: Il Filo della vita. Esso è ben diverso dai comuni fili: è invisibile, ma forza misteriosa giace nel suo tessuto e domina la vita tumultuosa. Della sua presenza i miti greci sono testimoni: Ahimè, per loro le tre Moire possiedono tale forza, che nessuno può scampare e gli stessi dei dell'Olimpo piegarsi al suo dominio devono! Col mutare delle stagioni Il filo passa dalle Tre a un unico Dio onnipotente. La sorte dell'uomo non sembra essere mutata: un ente esteriore tesse il suo destino e la sua vita è appesa a un filo.

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“TRAPPOLA DI TE” di Margherita Rigillo - 5a E

Disponesti l’inchiostro su un bianco di cielo per incidere il tuo verbo nella penombra dei miei occhi. Abbandonasti la tela dei miei sogni disillusi, onirici pensieri di un fato antagonista. Ignavo, come Penelope, la scomponesti nei suoi colori natii.

Raccolsi questo squarcio per renderlo arte ai lumi della gente. Perché come il pennello di un insano spasimante apparissi conscio di un agire irriverente.

Scelsi libera di palesar la via ispirata da Arianna in un nobile intento. Frustrata non fui dalla tua natura di folle. Discernei il mio abbaglio nell’accostar menzognera forma al volto tuo straniero.

Non un dramma di nero ma un ordito di colori. Attenuasti il mio battito in un clima di utopia. Avvolgesti il mio io nell’assordante verde dei tuoi occhi. Mi custodisti inerme nell’impetuosa perfezione di una smania di conquista.

La leggerezza di una speme catturata in sottili nodi di mistero, la fermezza di un abbraccio legato ad un fittizio istante: le nostre prime compagnie, il nostro ultimo congedo.

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“IL TRIONFO DEL BENE” di Micaela Esposto- 4a E

Era una mattina come tante altre, mentre aspettavo alla fermata un autobus che apparentemente non aveva alcuna intenzione di presentarsi in orario. Quando una vecchietta vestita di nero venne a sedersi accanto a me, non le prestai molta attenzione, troppo presa a immaginare gli insulti che avrei rivolto ai dirigenti dell’agenzia di trasporti pubblici se mi fossero capitati sottomano in quel momento. La guardai veramente solo quando si girò verso di me e mi disse: “C’è stato un incidente su viale Cavriga. L’autobus è fermo. Arriverà tra 15 minuti”. Mi girai di scatto,chiedendole: “E lei come fa a saperlo?” “Nello stesso modo in cui so che morirai cinque giorni dopo il tuo trentaquattresimo compleanno”. In quel momento, mi accorsi di diverse cose contemporaneamente. Primo: la placida vecchietta aveva in mano un paio di cesoie da giardino. Secondo: aveva una cavità nera al posto di uno degli occhi. E terzo, ogni dettaglio della sua espressione e della sua postura suggeriva un disprezzo e uno dio smisurati. Incapace di muovermi, terrorizzata dal suo aspetto, restai inchiodata alla panchina della fermata, mentre la vecchietta incominciava il suo racconto. “Io sono Atropo, l’irremovibile, l’ultima delle tre, figlia della Giustizia e Signora del Destino”. Sbigottita, la interruppi chiedendo: “Ma aspetti un attimo, Atropo non era tipo una delle tre Parche o qualcosa del genere?” “Allora ve lo insegnano qualcosa di utile a scuola. Si, ci fu un tempo in cui le mie sorelle ed io eravamo onorate e celebrate con il nome di Parche. Attraverso di noi si compiva il Fato, come tuttora si compie. Cloto, la prima, fila il tessuto della vita. Lachesi, la seconda, assegna a ciascuno la porzione di filo che gli è toccata in sorte. E io... io avevo il compito di tagliarlo al momento stabilito”. Per un attimo, sotto l’odio che il suo atteggiamento esprimeva, intravidi qualcos’altro: un dolore immenso, troppo profondo perché potessi riuscire a comprenderlo. Tuttavia le chiesi, esitante: “Perché ha parlato al passato? Come è finita qua? Cosa le è successo?”. Ora, la cosa più logica da fare sarebbe stata chiamare la polizia. Una vecchia pazza con in mano un paio di cesoie sarebbe stata una ragione più che sufficiente. Ma a parte il fatto che, come ho detto, non riuscivo a muovermi, non pensai nemmeno per un secondo che stesse delirando o stesse dicendo altro che la pura verità. “Domanda intelligente” mi rispose. “Sono sorpresa che tanta acutezza sia uscita da una giovane piccola mente. Prima di tutto devi sapere che lo scopo delle Parche è preservare l’ordine dell’universo. Nessuna divinità, nuova o antica, può imporre loro il proprio volere. Quando il momento era giunto, tagliavo. Nulla poteva impedirmelo e il colore del filo non era importante”. A quel punto dovetti mostrare perplessità, perché capì che avevo bisogno di ulteriori spiegazioni. “Ah, voi umani... non avete un minimo di visione globale, tutto vi si deve spiegare. I fili hanno un colore diverso, un colore che muta continuamente in base alle esperienze a ai cambiamenti dell’individuo. All’inizio, sono tutti bianchi, il bianco della purezza, dell’innocenza. Solo crescendo assumono una tinta diversa. Fu proprio questo il problema: il suo filo rimase bianco”. Si fermò, la schiena curva e il volto chino verso terra. Ancora una volta percepii la sua sofferenza. “Scusi, il filo di chi? E perché era un problema che fosse bianco?” “Kastalia Pavlova” “Non capisco” “Mi hai chiesto di chi era il filo. Kastalia Pavlova. Lei è il motivo per cui sono qui.

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Non ero come le altre divinità da quattro soldi, tutte prese da passioni, drammi e tradimenti. Noi Parche siamo nate per essere irremovibili e incorruttibili, prive di emozioni. Quando notai il suo filo, però, e mi accorsi che con il passare degli anni restava bianco, volli capirne il motivo. E cominciai ad osservare Kastalia. Quello che vidi è straordinario. Vidi un’anima completamente buona e incapace di alcun tipo di egoismo. Aiutava chiunque, che fosse un parente, un amico di vecchia data, un conoscente o una persona appena incontrata. Dove c’era un bisogno, una richiesta, lei era lì, pronta a dare tutta se stessa. Non era ingenua: sapeva benissimo che in molti approfittavano della sua abnegazione senza nemmeno ringraziarla. Ma sembrava che i difetti altrui non potessero toccarla. Una volta, dopo aver visto un mendicante sul lato della strada, gli diede una banconota e si sedette di fianco a lui per fargli un po’ di compagnia e farsi raccontare la sua storia. Pensa un po’, il mendicante le sfilò il portafogli dalla borsa e lei lo vide. Cosa pensi che fece? Glielo lasciò, fingendo di non essersene accorta. Dopotutto, a lui serviva più che a lei. Questo è solo uno dei tanti episodi, ma è uno dei miei preferiti. Ma torniamo al motivo per cui sono finita qua. Ovviamente, una persona così è pericolosa. In tutti gli esseri umani convivono due istinti opposti, che possono essere in equilibrio o prevalere, ma mai del tutto. Sostanzialmente, bene e male si giocano a dadi le vostre anime costantemente, ma nessuna delle due parti può vincere. Lei invece era il trionfo del bene. Non so come fosse successo, ma questi erano i fatti, e l’ordine dell’universo non poteva permettere che lei continuasse a esistere. Una sola anima basta a turbare l’equilibrio. Cosi il suo filo giunse al termine. Ma io non riuscii a tagliarlo”. Qui si interruppe. Le posi un’ultima domanda, che cadde fra di noi come piombo. “Perché?” “Perché aveva risvegliato qualcosa in me. Emozioni. Desiderio di essere migliore... cose che avrebbero dovuto essermi estranee. Non ero più adatta al mio compito. Il Fato, l’equilibrio, chiamalo come vuoi, mi privò del mio incarico e mi spedì quaggiù. Immortale fra i mortali, posso vedere il vostro futuro, ma non cambiarlo. Questa è la mia punizione. E nonostante tutto ne è valsa la pena. Perché sono riuscita a portare con me il suo filo. Kastalia è ancora qui, da qualche parte. È ancora viva”. In quel momento, dopo 15 minuti esatti dall’inizio della nostra conversazione, arrivò l’autobus. Di nuovo libera di muovermi, mi girai a guardarlo. Quando mi voltai nuovamente verso la panchina, Atropo era sparita.

Oggi, il giorno del mio trentaquattresimo compleanno, la predizione di Atropo è incombente. Dovrei essere terrorizzata. Ricordare le sue parole, però, non suscita paura in me. Grazie a lei, infatti, ho la consapevolezza che il destino può essere cambiato e la speranza che, alla fine, il bene troverà sempre un modo per prevalere.

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“” di Valeria Arosio - 2a D

Tanti fili assieme, tutti incastrati tra di loro, tutti attorcigliati su se stessi, a formare un inestricabile complesso, in cui non si capisce più niente, in cui non si trova più né la fine né l’inizio, solo un ammasso confuso, chiamato vita.

Quanti fili costituiscono la nostra esistenza? I fili dei sentimenti, i fili dei ricordi, dei pensieri, delle paure, dei sogni... quanti, troppi!

Se ne vorrebbe conoscere e capire almeno uno ma non sempre si riesce, e appena si comprende un filo, subito un altro nuovo compare o si annoda.

Si riesce ad aggiustarne uno rovinato, e immediatamente se ne sfalda un altro.

Ultimamente il filo della paura è quello più forte, che più si fa sentire in me, che più mi agita.

Paura di cosa poi mi chiedo?

Chiudo gli occhi, l’unica cosa che sento è il mio respiro, l’unico movimento che percepisco è quello dell’alzarsi e abbassarsi del mio petto, lento.

Vorrei essere in qualsiasi altro posto rispetto a dove sono ora, l’unica cosa che vorrei è seguire il filo del mio sogno, andarmene lontano, e non posso.

Ed ecco, a questo primo pensiero, una prima paura sguscia fuori dal mio cuore e mi investe: la paura di perdere.

Perdere tutto, perdere le persone care, perdere la mia passione, perdere me stessa.

Ultimamente queste cose stanno combaciando sempre di più, stanno gravando su me sempre in maniera più pesante.

Ho paura che le persone a me più care, possano scomparire da un momento all’altro, senza che io possa far nulla, impotente davanti alla loro scomparsa.

Una mano in meno, un sorriso in meno, un abbraccio in meno, una parola in meno, di questo ho paura, la vita è come sabbia tra le mani: nonostante tu cerchi di trattenerla, essa inesorabilmente scivola via, sempre più velocemente, tu non riesci nemmeno a rendertene conto e ti ritrovi improvvisamente senza nemmeno più un granello, con lo sguardo fisso nel vuoto.

Non voglio perdere me stessa ma sta succedendo così in questi ultimi tempi, nonostante il mio sforzo.

Amare alla follia una cosa e non avere la certezza che si potrà continuare a praticarla.

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Tante bocche differenti da cui fuoriescono parole taglienti e crudeli, che feriscono e leniscono il mio io.

Essere costretti a scrivere la parola “fine” a una cosa in cui consiste tutto il proprio mondo, tutta la propria felicità, non avere più la speranza di rialzarsi una volta caduti, e rimanere a terra, aspettando un qualcosa di incerto che ti faccia rialzare, perché tu non riesci più, e vedi altri che invece non solo vanno avanti nel cammino, ma addirittura corrono, corrono fino allo sfinimento per raggiungere la meta prestabilita.

E’ come se aveste davanti a voi la cosa più bella che potesse capitarvi, ma vi è un sottilissimo vetro che impedirà per sempre di prenderla e farla vostra.

Penso sia una delle cose più strazianti.

“Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” disse Shakespeare, ma se non si sogna più?

Sono sempre stata una sognatrice eppure ultimamente non riesco nemmeno più a fare questo, appena inizio a fantasticare la realtà mi appare davanti così fredda e cruda.

Mi sento come un leone legato ed imprigionato da un villaggio locale, che brama di correre per la savana, ma nonostante questa sia vicino a lui, non può, e allora aspetta qualcuno o qualcosa con delle tenaglie in grado di spezzare le catene e renderlo libero di correre, essendo finalmente sé stesso.

Tutti i pensieri si intrecciano inestricabilmente dentro di me, e il mio intreccio chiamato vita si fa sempre più complicato, più difficile da comprendere, come se fossero tante rotelle che girano vorticosamente senza che nessuno riesca a fermarle... quando la prima cosa che vorrei è districare questi fili, farli tesi e ordinati, fermare queste rotelle e capire veramente dove sto andando, se è giusta la direzione che sto prendendo, e soprattutto perché.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

“FILO ROSSO” di Carlo Caprara - 4a BSA

Il sangue che scorre dalle mie vene mostra il filo rosso della mia vita; il mio breve passato il mio tragico presente il mio ineluttabile futuro.

Memorie di un giovane in trincea Ottobre 1917 - Caporetto

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

“” di Lorenzo Zanchi - 4a C

Del poeta il cammin la giovide Musa per l’ispido iter conduce E in men di mille passi volgendosi, Apparentemente la via addietro perde.

Ma licet sol mirare innanzi ove’l Fil vermiglio speme di gloria vanta Così per sempre d’alloro le lodi Vive saran al peregrin viandante.

E’l poeta si canta l’impresa della Giovine cretese e di colui ch’el fil Tenendo uccise il fero e vir divenne.

Essere come l’immortal Teseo non Puote, se a guisa d’erboso filo Volveran de la sua vita le parche.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2015 - 21a edizione

“AGO e FILO” di Davide Poloni - 4a C

Maria non aveva mai imparato a cucire. Però adesso se ne pentiva amaramente. Si era da poco sposata e divisa tra il marito, i suoi anziani genitori e l’ufficio (che adesso era lontanuccio dalla sua nuova abitazione) era sensibilmente dimagrita.

Così che quel bel vestitino che Mauro le aveva regalato pochi mesi dopo che si erano conosciuti, per il quale aveva speso praticamente uno stipendio intero (però era di Valentino!!!), le stava largo e non lo poteva più indossare.

E così anche quasi tutte le gonne ed i pantaloni che aveva nel suo guardaroba.

Ma a Maria la grinta non mancava proprio, così decise di opporre a mali estremi, estremi rimedi: ago e filo.

Li aveva conosciuti a scuola, alle elementari, dalle suore, le erano subito stati antipatici ed ostili. Ora però bisognava ripensarci. Altre soluzioni a questa situazione non le venivano in mente.

Così questa perfetta coppia era comparsa a casa di Maria per la prima volta un giorno di fine giugno, trovati fortunatamente durante degli acquisti al supermercato.

Maria si era subito accorta che erano una coppia perfetta. Lavoravano in modo da completarsi e ognuno aveva la propria funzione. Ago punzecchiava a dovere la stoffa. Filo così poteva unirla nei punti giusti. Complementari l’uno all’altro non potevano lavorare se non assieme.

Con veloci e abili mosse il vestitino di Maria perse due taglie. Poi, visto che quel lavoro era stato fatto così bene, Maria attaccò con tutti gli altri capi di abbigliamento che le stavano larghi.

E un giorno dopo l’altro questo sodalizio nel lavoro cominciò a diventare qualcosa di più personale, di duraturo.

Agostino e Filomena, per gli amici Ago e Filo, di professione sarti, vecchi compagni di Maria alla scuola elementare, si sposarono nella chiesa di San Martino l’11 novembre, giorno del Patrono dei sarti (che è proprio San Martino!).

Avevano imparato con i vestiti di Maria a lavorare assieme. Agostino prendeva le misure e segnava le cuciture da fare con spilli e imbastiture, Filomena cuciva.

In breve divennero così bravi e così grande fu la richiesta delle loro

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prestazioni che ben presto poterono aprire una loro sartoria che fu molto apprezzata e divenne famosissima anche negli ambienti della grande moda.

E per di più, qualche tempo dopo il loro matrimonio, Filomena partorì due gemelli, un maschio e una femmina che i due sarti chiamarono Fortunato e Beatrice. I due figlioletti impararono presto a cucire, dimostrando di aver ereditato il talento dei genitori. Così quando iniziarono a lavorare in sartoria, l’insegna cambiò e, su proposta di Maria che restò per sempre loro amica e cliente affezionata, diventò: “Sartoria di lusso: Ago, Filo e ForBice”.

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“”di Tobia Finzi - 5a D

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“”di Leonardo Mondonico - 5a D

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