Liceo Scientifico Frisi Monza · Federico Ghibaudo 9/5/80 - 9/1/95 Liceo Scientifico Gerardiana...

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Federico Ghibaudo 9/5/80 - 9/1/95 Liceo Scientifico Gerardiana Basket Monza "Frisi" -1 G - a.s.94/95 a Liceo Scientifico "Frisi" Monza Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2017 23 edizione a

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Federico Ghibaudo

9/5/80 - 9/1/95

Liceo Scientifico

Gerardiana Basket

Monza

"Frisi" -1 G - a.s.94/95a

Liceo

Scientifico"Frisi"

Monza

Premio

Letterario

"Federico

Ghibaudo"

anno 2017

23 edizionea

Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2017 - 23a edizione

“L’INDICE”

1° premio Luca Cederle 4a - B pag. 6 2° premio Marco Ottolini 5a - C s.a. pag. 9

Premi giuria Angelica Cassago 4a - A pag. 20 “ Giulia Ancillotti 2a - D pag. 21

Tatiana Fontana 5a - B s.a. pag. 23 “ Olga Pietrosanti 3a - B pag. 26 “ Alessandro Girardin 5a - D pag. 27

altri componimentiin ordine di presentazione:

Andrea Lizzano 5a - C pag. 29 Giorgia Demani 5a - B s.a. pag. 30 Alessia Toro 5a - A pag. 31 Mattia Micucci 1a - E pag. 34 Benedetta Langella 2a - A pag. 36 Daniela Mondonico 3a - B pag. 38 Bruno Nevreiter 2a - D pag. 39 Pietro Lombardo 3a - B pag. 40 Davide Villa 4a - C s.a. pag. 41

Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2017 - 23a edizione

“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”

1995 1° Classificato Alexandra Bonfanti 2a F 2° Classificato Loredana Lunadei 2a G 3° Classificato Arianna Ferrario 1a G

1996 1° Classificato Martino Redaelli 4a A 2° Classificato Elena Cattaneo 4a G 3° Classificato Marika Pignatelli 3a C

1997 1° Classificato Niccolò Manzolini 4a A 2° Classificato Matteo Pozzi 3a I 3° Classificato Elena Cattaneo 5a G

1998 1° Classificato Lorenzo Piccolo 4a A 2° Classificato Matteo Pozzi 4a I 3° Classificato Lucia Gardenal 2a I

1999 1° Classificato Dacia dalla Libera 3a E 2° Classificato Lorenzo Piccolo 5a D 3° Classificato Vincenzo Calvaruso 3a H

2000 1° Classificato Giulia Pezzi 4a G 2° Classificato Dacia dalla Libera 4a E 3° Classificato Cristina Sanvito 4a D

2001 1° Classificato Tiziano Erriquez 4a D 2° Classificato Giorgia di Tolle 4a D 3° Classificato Chiara Grumelli 4a A

2002 1° Class. poesia Alessandro Sala 4a H 2° Class. poesia Federica Archieri 5a L 1° Class. prosa Caterina Cenci 4a H 2° Class. prosa Alessandro Dulbecco 3a C

2003 1° Class. poesia Alesssandro Farsi 5a E 2° Class. poesia Cristina Pozzi 3a D 1° Class. prosa Alessandro Dulbecco 4a C 2° Class. prosa Pietro Spinelli 4a B

2004 1° Class. poesia Margherita Corradi 2a L 2° Class. poesia Riccardo Tremolada 2a L 1° Class. prosa Paola Molteni 5a F 2° Class. prosa Pietro Spinelli 5a B

2005 1° Class. poesia Margherita Corradi 3a G 2° Class. poesia Paolo Marchiori 2a F 1° Class. prosa Roberta Motter 3a G 2° Class. prosa Veronica Merlo 3a G

2006 1° Class. poesia Armando Petrella 2a C 2° Class. poesia Andrea Guadagnino 5a B 1° Class. prosa Veronica Merlo 4a G 2° Class. prosa Gabriele Bambina 4a F

2007 1° Class. poesia Gabriele Bambina 5a F 2° Class. poesia Lorenzo Pasciutti 3a D 1° Class. prosa Francesca Montanari 3a A 2° Class. prosa Matteo Goggia 5a G

2008 1° Class. poesia Lucca Cazzaniga 5a E 2° Class. poesia Paolo Marchiori 5a F 1° Class. prosa Lorenzo Pasciutti 4a D 2° Class. prosa Alice Spreafico 5a H

2009 1° Class. poesia Giona Casiraghi 5a H 2° Class. poesia Claudio Rendina 5a B 1° Class. prosa Sveva Anchise 3a H 2° Class. prosa Riccardo Galli 5a F

2010 1° Classificato Alessandro Boggiani 5a B 2° Classificato Vanja Vasiljević 3a C

2011 1° Classificato Stefano Franzini 4a D 2° Classificato Clara Rossi 3a A

2012 1° Classificato R.Luigi Pessina 5a H 2° Classificato Gabriele D’Errico 3a B

2013 1° Classificato Gabriele D’Errico 4a B 2° Classificato Alice Colombo 5a D

2014 1° Classificato Giuseppe Galbiati 5a F 2° Classificato Micaela Esposto 3a E

2015 1° Class. poesia Cecilia Arpano 5a F 2° Class. poesia Lorenzo Novello 2a D 1° Class. prosa Francesca Fumagalli 2a D 2° Class. prosa Mara Motolese 2a C

2016 1° Class. poesia Michaela Esposto 5a E 2° Class. poesia Giulio Tammi 5a A s.a 1° Class. prosa Giulia Ancillotti 1a D 2° Class. prosa Beatrice Nettuno 4a C

Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2017 - 23a edizione

“LA GIURIA”

Luca Baciocco 1a - E s.a. Virginia Garancini 1a - F Paola Fedeli 2a - C Arianna Porcheddu 3a - C s.a. Pierluigi Corbella 3a - E Valentina Sona 4a - C Stefano Grippo 4a - D

Beatrice Nettuno 5a - C Walter Gubinelli 5a - C s.a. Francesco Vecchi 5a - D

“IL PREMIO”

Il premio è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.

Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che essere imperfetta.

I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla spontaneità degli elaborati.

Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra per idee, sentimenti ed emozioni.

“INTERNET”

I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale si possono trovare su internet al seguente indirizzo:

http://www.premio-liceofrisi.it

Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“LA BIBLIOTECA”

in biblioteca sono disponibili per la consultazione,

i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...

...oltre una copia dei seguenti libri premio:

1996 L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani

1997 Messaggio per un’aquila che si crede un pollo Istruzione di volo per aquile e polli - Antony de Mello - Piemme

1998 Il viaggio di Theo - Catherine Clèment - Longanesi

1999 Abbiate coraggio - Francesco Alberoni -

2000 Perchè credo in Colui che ha creato il mondo - Antonio Zichicci - il Saggatore

2001 Il mondo di Sofia - Jostein Gaarder - Longanesi

2002 Il tao della fisica - Fritjof Capra - Adelphi

2003 L’universo in un guscio di noce - Stephen Hawking - Mondadori

2004 Storia della Filosofia da Cartesio a Kant – Luciano De Crescenzo - Mondadori

2005 Che cosa sappiamo della mente - Vilayanur S.Ramachandran - Mondadori

2006 Menti curiose - John Brockman - Codice Edizioni

2007 Alla ricerca delle coccole perdute Come diventare un buddha - Giulio Cesare Giacobbe - Ponte alle Grazie

2008 Complessità - Morris Mitchell Waldrop - Instar Libri

2009 L’io della mente - D.R.Hostadter e D.C.Dennet – Adelphi

2010 L’impero greco-romano - Le radici del mondo globale – Paul Veyne - Rozzoli

2011 La Patria, bene o male – Carlo Fruttero e Massimo Gramellini – Mondadori

2012 I discorsi che hanno cambiato il mondo – White Star

2013 Dietro le quinte della storia – Piero Angela Alessandro Barbero – Rizzoli

2014 A cosa serve la politica – Piero Angela – Mondadori

2015 Mappa Mundi – Domenico De Masi – Rizzoli

2016 TAGS – Domenico De Masi – Rizzoli

2017 In guerra con il passato – Paolo Mieli - Rizzoli

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

Primo Classificato

“BUROCRAZIA IN PARADISO” di Luca Cederle - 4a B

Mentre aspetta l’arrivo del nuovo direttore, Pietro sta a girarsi i pollici. Dall’altra parte del lungo tavolo bianco, il “collega” attende a sua volta che l’amministratore “autodelegato” faccia la sua comparsa osservando il vuoto. Fuma parecchio: è segno di rabbia e di agitazione.

Pietro sospira. Dopotutto anche lui è parecchio nervoso. Non si capacita di come, dopo quasi duemila anni di onorato servizio, il Capo abbia permesso che uno strano individuo prendesse le redini dell’attività senza che nessuno, neanche la sicurezza, provasse ad opporsi a quello che si era presentato solamente come “il Dirigente” .

Era successo il giorno innanzi. All’inizio, tutto era normale: gli astri brillavano con vigore, i cori angelici risuonavano e Pietro si occupava di controllare i cancelli e di dare indicazioni ai suoi vari subordinati. Poi all’improvviso, un’ombra aveva avvolto tutto. Un fremito aveva scosso l’Alto Trono (vuoto da tempi immemorabili) e molte anime si erano risvegliate dal torpore indotto dalla contemplazione del divino. Pietro era balzato in piedi appena in tempo per vedere un figuro ammantato d’ombra avvicinarglisi. «Salve, lei è Simone di Galilea?» aveva domandato cordialmente. Pietro, non sapendo cosa fare, aveva confermato. «Molto bene -aveva continuato-. Mi spiace dirglielo, ma non ho potuto fare a meno di osservare come l’efficienza della sua direzione sia diminuita drasticamente negli ultimi decenni. Il numero di Peccati contro lo Spirito è aumentato vertiginosamente, dato che la qualità, percepita dal consumatore, della vita ultraterrena è calata nettamente. Ciò non è accettabile. Il business dello smaltimento delle anime è uno dei più importanti che ci siano: deve essere modernizzato. Per questo ho “rilevato” la sua attività: da oggi, sono il suo capo. Bene, mettiamoci al lavoro!».

Rimasto di sasso, Pietro non era riuscito a far altro che osservare questo figuro simile a uno stickman tridimensionale avvicinarsi ai cancelli e oltrepassarli senza che gli succedesse alcunché. Pietro aveva tremato: neanche gli eserciti infernali, neanche il Signore delle Tenebre stesso era riuscito a superare quei cancelli. Chiunque fosse il figuro, era riuscito a rendere impotenti le forze divine. Visto ciò, le legioni non avevano osato opporsi al suo volere, che consisteva nella costruzione di un nuovo ufficio per sé.

Ed ora si trovava lì, accanto a Lucifero che emetteva vapore per via della rabbia. A quel che aveva sentito dai suoi informatori, c’era stato un “colpo di Stato” anche giù all’Inferno ad opera dello stesso individuo, nello stesso momento di quello avvenuto in Paradiso. A quanto pareva, era dotato anche di ubiquità. In ogni caso, il “rilevamento” dell’attività infernale non era stato propriamente pacifico... i Principi avevano cercato di opporsi all’invasore e si erano guadagnati una “vacanza a tempo indeterminato” nel non essere.

La porta dell’ufficio (in legno dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male), si apre cigolando. Appare il Dirigente, in tutta la sua scurezza, che contrasta con il bianco assoluto delle pareti dell’ufficio. Chiama un angelo e gli chiede che mandi qualcuno ad oliare la porta dopo la riunione. Rapido, l’essere celeste si dilegua.

Il figuro prende posto tra i due “ex sovrani” dell’aldilà. Sistema la sedia e fa notare a Lucifero il cartello “No smoking”. Il demonio, non più in grado di mantenere la relativa calma, comincia ad ardere. Prima che Pietro possa battere le

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palpebre, il Dirigente prende un estintore e spegne il diavolo, che finalmente si piega alla volontà del nuovo capo.

«Molto bene -dice-, ora possiamo iniziare. In questa prima riunione, volevo che analizzassimo i due maggiori problemi della nostra attività: arretratezza e divisioni interne. Cominciamo dal primo... ». «Il modello che abbiamo utilizzato fino ad ora ha sempre funzionato: perché cambiarlo?!» lo interrompe Lucifero. Senza scomporsi, il Dirigente riprende in mano la situazione. «Signor Fallenangel, -ricomincia a parlare- con tutto il rispetto, ma il vostro modello non ha MAI funzionato. Voi usate la prospettiva delle punizioni corporali per dissuadere le coscienze dei mortali dal peccato, quando sappiamo entrambi che è solo l’abitudine a obbligare le anime a soffrire. Quanti si sono accorti che non può farti male il corpo se non hai più un corpo? Tutti i suoi clienti, non è vero?». Umiliato, Lucifero china il capo.

«Inoltre -continua il Dirigente-, i tempi di purificazione sono TROPPO lunghi. Talmente lunghi che nel depliant esplicativo è segnato che il tempo di permanenza all’Inferno risulta essere infinito, mentre questo piano spirituale serve solo di passaggio. I mortali si sono persino convinti che, essendo per definizione peccatori, siano tutti destinati alla sofferenza eterna! La domanda è diminuita vertiginosamente per via delle terribili politiche di marketing adottate in passato e di questo ha approfittato la concorrenza. Per questo, dobbiamo modernizzare la nostra offerta, secondo il piano che ho preparato... ma di questo discuteremo più tardi.

Passiamo al secondo punto: la divisione interna. Come ben sappiamo, i rapporti tra Inferno e Paradiso, nonostante siano filiali della stessa società, non sono dei migliori. Questo è dovuto soprattutto alle rivalità tra voi signori, eppure siete colleghi». Pietro inarca un sopracciglio. «Mi scusi, cosa intende dire?» domanda senza capire. Il Dirigente volta il viso inesistente in direzione di Pietro. «Il signor Fallenangel saprà rispondere meglio di me» dice.

«Vedi Pietro -comincia furioso Lucifero-, tu pensi che io sia “l’angelo caduto”, colui che si oppose al Capo anche se ero il suo preferito, corretto?». Pietro annuisce. «Ti stupirà sapere -continua Lucifero- che sono tutte delle balle! Sono sempre stato fedele: ho obbedito, anche quando mi è stato richiesto di gestire l’Inferno con i peggiori collaboratori del mondo! Mi è stato affidato lo schifo del piano spirituale e sono stato affiancato alla feccia del piano spirituale! Eppure ho pazientemente torturato e purificato anime per decine di migliaia di anni, sperando che dopo questo compito ingrato ricevessi una promozione. E invece no! Arrivi tu che conosci il figlio del Capo, ti fai raccomandare, ricevi le chiavi e cominci a dettar legge!». Il suo urlo fa vibrare le pareti. «Oh. Quindi tu saresti rimasto fedele? E perché allora non vedo arrivare più anime purificate da duemila anni, quando i tempi di purifica dovrebbero essere attorno ai venticinque?!» grida a sua volta Pietro. «Ero furioso e ho scioperato!» risponde pieno d’ira.

Un’ombra cala all’interno dell’ufficio. I due tacciono all’istante. «Bene, ora che abbiamo chiarito quale è il problema, possiamo risolverlo. Ora, cari miei, stringetevi la mano, fate la pace ora e per sempre e mettiamoci al lavoro per migliorare la nostra offerta!» parla allegro il Dirigente. I due, guardandosi pieni d’odio, si stringono la mano, impotenti di fronte allo “sguardo” del nuovo capo. Compiuto l’atto rituale e tirati fuori una serie di fogli, comincia la riunione vera e propria.

Sono passati novantaquattro anni. Pietro non ci avrebbe mai creduto, ma il nuovo capo si è dimostrato un vero professionista nella modernizzazione del sistema. Le nuove strategie di marketing sono risultate eccezionali: le apparizioni online, invece di quelle nelle grotte, e i miracoli informatici al posto delle classiche guarigioni hanno riportato il prodotto offerto dalla “HH afterlife” (“Hell and Heaven afterlife”, come è stata ribattezzata l’azienda dal Dirigente) ad essere quello preferito dalla domanda.

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Le innovazioni apportate sia all’Inferno (la creazIone di circoli di confronto per spingere al pentimento e quindi al rapido recupero delle anime, battezzati come “ritrovi degli Animisti Anonimi” dalla concorrenza sleale, al posto delle vecchie camere di tortura) che al Paradiso (l’inserimento delle anime più meritevoli nell’amministrazione del regno dei Cieli, per rendere il sistema più efficiente grazie all’imprenditorialità tipica della razza umana, riducendo i ritardi burocratici tipici degli angeli), hanno spianato la strada all’istituzione di nuove innumerevoli offerte per la vita ultraterrena.

Ma soprattutto, a rendere il nuovo ambiente di lavoro così gradevole per Pietro, è il nuovo clima di armonia che si è creato. Non ci avrebbe scommesso nemmeno trenta denari, ma il Dirigente alla fine è riuscito a riappacificare lui e Lucifero. Dopo lunghe discussioni, sono riusciti a superare le vecchie diatribe e andare avanti, lavorando fianco a fianco. Fino a poche settimane prima gli avrebbe scagliato contro le legioni angeliche se solo si fosse permesso di avvicinarsi ai cancelli, mentre adesso non riesce nemmeno a immaginare che Lucifero non possa entrare e uscire liberamente dal Paradiso! Sorride: è felice che siano riusciti ad andare oltre le vecchie inimicizie.

Persino Lucifero è felice e soddisfatto sotto la nuova gestione: aver lasciato indietro il vecchio e inefficiente sistema lo riempie di soddisfazione. Inoltre ha ricevuto una promozione, diventando braccio destro del Dirigente. Le cose non potrebbero andargli meglio.

Anche il Dirigente, che è stato caratterizzato per circa un secolo da costante insoddisfazione e ricerca di miglioramento, è finalmente appagato del suo lavoro. Coordinare anime, angeli e demoni non è stato semplice, ma grazie al duro lavoro, è risultato vincitore. I culti idolatrici sono quasi completamente scomparsi e l’ateismo è in netta diminuzione.

Curioso come non avrebbe mai pensato che alla fine sarebbe riuscito a farsi accettare da angeli, demoni e umani. Anzi, alla fine ha superato le proprie aspettative: è persino diventato oggetto di culto! I mortali hanno cominciato ad appellarlo “l’Ombra di Dio”, come se fosse un residuo dell’onnipotenza divina che era rimasta nel mondo per salvarli.

Un’ombra passa sul suo viso scuro: ripensa alla delusione provata dalle prime anime che lo avevano incontrato. La delusione nello scoprire che il loro Padre li aveva abbandonati a sé stessi millenni prima, che erano stati creati senza uno scopo e che Paradiso e Inferno esistevano solo per la pietà che le creature celesti avevano provato nei loro confronti pensando al destino di vuoto che le avrebbe attese se non avessero rimediato. Paradiso, Inferno, Nirvana... tutti mondi creati solo perché gli umani non perdessero la speranza nel futuro.

E dopo millenni, l’umanità era ricaduta nello sconforto e aveva rischiato ancora una volta che ad attenderla dopo la morte ci fosse il Nulla. Nessuno aveva capito quanto fosse grave la situazione: per questo il Dirigente aveva preso le redini del mondo ultraterreno ed aveva lavorato in modo che quello status quo fosse superato e gli umani tornassero a sperare, superando la tristezza che li affliggeva. Non avrebbe potuto accettare che tutte quelle menti svanissero nel nulla, solo perché erano state così sciocche da abbandonarsi alle false gioie dell’edonismo, causa di perdizione, per via della disperazione. Ma soprattutto non avrebbe potuto accettare che il mondo ultraterreno rimanesse nel vecchio stato, in cui a regnare era l’ideale della punizione.

Ammira il lavoro che ha compiuto: comprende che il suo compito è terminato. Si alza in piedi, mentre la porta del suo ufficio si apre di scatto. Lucifero e Pietro entrano. «Te ne stai andando» affermano contemporaneamente. Il Dirigente annuisce. «Prima che tu svanisca... ci puoi dire chi sei?» domanda Pietro, sorridendo, già sicuro di quale sia la risposta. Un sorriso invisibile pare apparire su quel viso privo di espressione. «No» risponde, svanendo come era apparso in un tetro crepuscolo. Sul volto di Lucifero e di Pietro, un’espressione confusa.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione Secondo Classificato

“IL DOLORE NON FARÀ PIÙ MALE” di Marco Ottolini - 5a C s.a.

-Buongiorno. Entri, prego si accomodi. Lei è la signora... Francesca, giusto? Piacere, dottoressa Eleonora Marinato.- -Piacere mio- -La prego si sieda, certo non staremo qui in piedi. Allora. Questo appuntamento lo ha prenotato un uomo per lei, giusto?? -Sì, mio marito.- -Immaginavo, ma volevo esserne sicura. Lui, probabilmente lo sa, mi ha spiegato già un po’ perché lei è qui- -Sì, è lui che ha insistito per... beh perché io venissi.- -Pensavo che oggi ci sarebbe stato anche lui- -Sì, ma gli ho... gli ho chiesto io di non venire. Se proprio devo farlo, ho pensato che dovessi farlo da sola.- -Mi scusi se glielo chiedo ma... dalle sue parole intendo che forse lei non è convinta di voler essere qui.- -Penso... penso che non possa cambiare nulla.- -Allora perché è venuta?- -Lo devo a mio marito.- -E come mai?- -Glielo devo- -Glielo deve... - -Sì... - -Mh - -...- -Senta Francesca. So che è difficile, e so che è la prima volta... - -Da una psicologa? No, ci sono già stata.- -Mh. Quando?- -A, ehm... 14 anni credo. Ci sono andata per un anno. Quindi so come funziona. Solo che non mi è servito a niente. Se ho superato il mio problema non è stato certo per la psicologia. L’ho risolto da sola, il mio problema.- -Per questo crede che queste sedute non serviranno? Crede che potrebbe farcela da sola?- -Sì, io lo credo, anzi, io so che posso farcela senza bisogno di nessuno, e... - -Francesca è passato un anno dalla morte di suo figlio. Me lo ha detto suo marito. E mi ha detto che non sta bene. Se è passato un anno... forse un po’ d’aiuto può servire- -Sì… sì…- -…- -…- -Va bene, allora mi dica.- -Che cosa?- -Iniziamo... da cosa è successo.-

Francesca 1a seduta

Sono passati 13 mesi e 9 giorni dalla morte di mio figlio. Ricordo che ero al lavoro, ed ero stanca, perché era una giornata pesante, e non vedevo l’ora di tornare a casa. Erano circa

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le 15 quando mi ha chiamato Federico, mio marito. Non mi disse niente, non riusciva a parlare... e mi ricordo che stavo per chiudergli in faccia, perché non avevo tempo da perdere, quando un poliziotto prese il suo telefono e cominciò a parlarmi, e mi disse che dovevo andare all’ospedale, che era successo qualcosa di grave a Luca. Sono arrivata in ospedale, e c’era mio marito... e lui mi disse che Luca era morto. Passai i due giorni successivi a letto. Non riuscivo ad alzarmi, non ce la facevo. Non chiusi occhio in quei due giorni. Non mangiavo nemmeno. E ricordo che non parlai con nessuno, nemmeno con Federico. Volevo restare sola. Non volevo distrazioni, non volevo pensare ad altro che a Luca e... mi odiavo quando non lo facevo. -Nel senso?- Nel senso... nel senso che mi punivo da sola, mi ricordo, quando non lo facevo. -Può spiegarlo?- Ehm... In... in camera nostra c’è un quadro, di fronte al letto. Ricordo perfettamente che uno di quei giorni sono rimasta a guardarlo per un po’, come inebetita, e nell’istante in cui me ne sono accorta mi sono sentita... male, perché non stavo pensando a Luca; mi sentivo in colpa perché per quei pochi minuti mi ero dimenticata di lui. A volte mi capita ancora di sentirmi così. -Cosa fa in questi momenti?- Niente. Niente. -Lascia che questi momenti passino da soli?- Sì, beh, io... io comincio a pensare a Luca. A un momento in cui ero con lui, e, e dopo un po’ passa. Tutto qui. -Cosa provava in quei due giorni che ha passato a letto?- Io... stavo male. Come sarei dovuta stare? Dolore, ero in preda al dolore. E poi rabbia. -Perché rabbia?- Non è uno degli stadi del dolore? -Questa non è una risposta.- Ok, ok, io... Non so da dove venisse ma in quei giorni come una voce, ha iniziato a risuonarmi nella testa, e mi ripeteva: “Luca è stato ucciso”. A un certo punto non pensavo ad altro. Sentivo solo quel pensiero, come un disco rotto. E se all’inizio mi faceva male con il tempo ha cominciato a darmi più... fastidio che dolore. E poi come le ho detto rabbia. Ero arrabbiata. -Con cosa?- Con Chi. Con l’assassino, con chi sennò? Ha senso, no?, ha completamente senso. Lui mi aveva strappato via mio figlio... È da lì che cominciai a cercare l’omicida di mio figlio.

2a seduta

Ricordo che quando capii cosa dovevo fare tutto mi divenne chiaro. Mi sentii incredibilmente energica. Non ero stanca, per niente, mi sentivo ribollire il sangue, anche contro di me, che ero stata per due giorni a letto invece di muovermi subito. Ricordo che, che mi vestii in tutta fretta, senza truccarmi, presi soltanto la borsa e le chiavi dell’auto, e uscii, senza dire niente a Federico. Lui era fuori per... per parlare con l’agenzia delle pompe funebri. Non lasciai nemmeno un messaggio. -Perché uscì?- Volevo andare alla scuola di Luca. Volevo parlare con la preside. -Perché?- Per attuare il mio piano. Mi ero, sa, preparata tutto un piano definito. Sarei andata lì, dicendole che avrei voluto incontrare compagni di Luca, per rassicurarli o qualche altra cosa. Così avrei potuto indagare. -Indagare?- Indagare, come i detective. A dirlo ad alta voce sembra così stupido...

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-E ci riuscì?- Sì, ma non incontrai la preside. Arrivai lì, alla scuola di Luca, e incontrai la professoressa di Luca. Mi vide dall’altra parte del corridoio e mi fermò con un grido. Io non la riconobbi. Non me la ricordavo, mi sembrava una sconosciuta, eppure lei si ricordava di me. Disse che ero stata a un colloquio con lei forse... l’anno prima o qualcosa del genere. Ero in imbarazzo. Non sapevo chi fosse e poi... Mi scusi è che non ricordo bene. Credo che... sì, mi fece le condoglianze per mio figlio. Fu... orribile. -Come si sentì?- Io... io mi sentii crollare. Non so cosa è successo ma... mi sono messa a piangere, di colpo. -Erano le sue prime condoglianze?- Io, sì, può darsi... in quei due giorni sono rimasta chiusa in casa, non parlai con nessuno se non con Federico. Ma non comprendo, avvenne tutto cosi in fretta...

-Francesca, lei non si è mai confrontata in quei giorni con nessun altro che non fosse suo marito, e non parlava neanche con lui, se ho capito. La morte di Luca era praticamente solo sua. Forse in quel momento si è ritrovata davanti all’evidenza che non era così. Che Luca era morto anche per altri oltre che per lei- Mi scusi, ma questo non è giusto. Questo, questo non è vero. Crede che io mi sia arrabbiata perché volevo la morte di mio figlio solo per me? È questo che crede?!

-No, Francesca. Io non credo che fosse arrabbiata. Ma non se lo aspettava. Scoprire che un dolore non è solo nostro è sempre inaspettato. Lei era molto fragile in quei giorni mi immagino. Ha pianto altre volte così in quei giorni?- Sì… sì…

Luca

Dopo che, che mi sono messa a piangere la professoressa di Luca mi ha offerto qualcosa per, beh, per rimettermi in sesto, ecco. Non dissi di sì, non ci riuscivo, ma lei mi prese e mi portò fuori da scuola. Mi portò in un bar a pochi metri, e prese un tavolo. Ordinò due tazze di tè e stemmo lì a parlare. -Di cosa parlaste?- Lei voleva farmi stare meglio. Mi disse: -Sa, suo figlio era un ragazzo d’oro. Era così gentile, anche se gli ho insegnato per solo un anno ancora mi salutava se mi incontrava per i corridoi. E anche in classe me lo ricordo sempre attento, educato, prendeva dei bei voti...- Non... non mi piacque, ricordo. -Cosa non le piacque? La professoressa?- No, non lei. Quelle parole. Mi suonarono così strane, così... non so, non mi viene un’altra parola. Ecco, e lì, mi ricordo, lì mi sorse un dubbio. -Lei che materia insegna?- le chiesi. -Italiano- E... e quando me lo disse smisi di piangere. Mi salì una rabbia che non avevo mai sentito prima. -Perché?- Perché Luca era sempre andato male in italiano. Mai avuto dei bei voti, prese due volte il debito in quattro anni. Lì capii che quelle erano tutte... bugie, frasi di circostanza, gentilezze per tirarmi su di morale, ma erano tutte falsità. Tutte. E da quel giorno ne ho sentite talmente tante di frasi di quel tipo, parole stupide per consolare la povera madre. Mi ricordo al funerale, il giorno dopo, c’era anche una delle vecchie tate di Luca che aveva saputo della cerimonia. Mi disse di quanto volesse bene a mio figlio, che era così dolce con lei, così educato, pulito. Eppure IO me le ricordavo le urla con cui mi accoglieva quando tornavo a casa perché Luca aveva fatto qualche disastro e l’aveva fatta sudare sette camicie. -Si sentiva presa in giro da queste persone?- Sì, presa continuamente in giro. Perché mai si dovrebbe mentire a una persona in lutto?

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Con il rischio poi di farle ancora più male? E poi tutti a dirmi com’era mio figlio. Come, come se non lo sapessi! Io sono sua madre, io conosco mio figlio, so quando sbaglia e quando fa la cosa giusta! -Francesca... le capita mai di fare come ha fatto adesso? Di parlare di Luca al presente?- Io... l’ho fatto? Non lo so... no, ora che ci penso mi è già capitato. Ma la prego non faccia la psicoanalisi di questa cosa. È... normale. Sono stata sua madre per 18 anni. Io ho sempre potuto dire “sono sua madre”. -Si era abituata, ad essere mamma- Io, io credo di sì. Mi sono sempre sentita madre di Luca, io e Federico lo abbiamo voluto. E, e questo lo voglio dire, io, io l’ho sempre amato, non gli ho mai fatto nulla di male, mai, e lui mi ha sempre rispettato e amato. -Davvero Francesca? Lei non ha mai litigato con suo figlio?- Sì, ma, ma cosa c’entra? Litigare con i figli non significa smettere di volergli bene, no? Oppure nessuna madre amerebbe davvero i suoi figli. -Qual è l’ultimo litigio che ha avuto con Luca?- Mmmhh... io... non me lo ricordo... -Si sforzi- Non lo so. Forse, forse ricordo uno scontro, riguardo a... a una serata a cui voleva andare. Voleva andare a Parma per una notte per il 18esimo di un suo amico, e io non volevo, perché conoscevo quel ragazzo e non mi piaceva. E poi avrebbe dovuto guidare al ritorno, di notte, tardi, stanco, e non avrebbe dovuto bere, cosa che trovavo irrealistica. -Luca amava bere?- Sì. Gli piaceva molto la birra, ma non è mai andato oltre. Al massimo diventava un po’ brillo perché diceva sempre che non lo reggeva l’alcol. -E lei era d’accordo che bevesse?- Beh, non mi sono mai davvero opposta. Ricordo che ci misi un po’ ad accettarlo, sì, perché io avevo iniziato molto più tardi; mio padre era astemio e non c’era mai nemmeno del vino in casa. Mio marito invece la prese subito bene, anche lui amava molto la birra, e aveva rinunciato a comprarla da quando... credo da quando nacque Luca.

3a seduta

-Vogliamo ricominciare da dove eravamo rimasti?- Dove eravamo rimasti? -Alla professoressa di Luca che le offriva una tisana- mhmm. Sì ricordo. Sa, quella professoressa è una donna stupida, iniziai a intuirlo già da allora. Non sapeva capire i ragazzi. Oh, scusi, volevo dire “non sa”, perché ancora insegna. Non sa, non sa... come si dice... prenderli, né spiegare, e questo me lo hanno detto alcuni di loro. -Alcuni di loro?- Loro, mi scusi, intendo i compagni di Luca. Quando uno di loro veniva a casa nostra a mangiare, in quelle occasioni. Non sa pensare da sé, mi aveva detto uno. Il che forse lì mi ha aiutato un po’, perché quando le dissi che volevo incontrare i ragazzi, lei ha subito detto di sì. Anzi, mi disse che potevo farlo nell’ora successiva, che era una sua ora di lezione. Più tardi pensai che se fossi stata al suo posto ci avrei ragionato due volte se fosse una buona idea o meno. -Intende l’idea di invitarla?- Sì, esatto. Incontrare la madre di un compagno morto. È una cosa... strana, e per un ragazzo di 18 anni può essere... non so come spiegare... doloroso? Deleterio? -Destabilizzante?- Sì, ecco forse destabilizzante. Era un momento in cui erano fragili, e forse incontrarmi avrebbe potuto peggiorare la situazione. E credo che sia stato proprio così. Credo... di avergli fatto molto male. Ma in quel momento non mi importava, io dovevo fare quello che era necessario per “indagare”.

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Così mi accompagnò fino alla classe di Luca, e aspettai insieme alla professoressa che suonasse l’ora dopo. Ecco, mi ricordo, solo lì le chiesi come stavano i ragazzi. Mi disse che molti di loro non erano venuti a scuola per i primi due giorni. Che era impossibile, anche dal punto di vista degli insegnanti, continuare con il ritmo delle lezioni, che dovevano rallentare, se non completamente fermarsi. Arrestarsi, per guarire un po’ quella ferita. E nemmeno lì mi venne un dubbio. Non avevo alcun timore di entrare in quella stanza e tirare su il finimondo per trovare l’assassino di Luca. -Non mi ha detto cosa c’entrassero i compagni di scuola di Luca con il suo assassinio- Io pensavo... che ad ucciderlo fosse stato qualcuno che lo conosceva. Anzi, ne avevo la certezza. E pensavo che avrei dovuto chiedere ai suoi amici, che magari sapevano di qualche... inimicizia, di qualcuno che odiasse Luca fino a volerlo morto. Dopotutto, loro conoscevano una parte di Luca che una madre non può conoscere, ma che in quel momento mi serviva sapere! -Quindi parlò con i ragazzi- Sì. -E perché dice di avergli fatto male?- Perché… perché così è stato. Entrai e… li vidi tutti così... straniti. Non erano tutti, saranno stati... 17 ragazzi e ragazze che tutt’un tratto mi fissavano con uno sguardo impaurito. Quella paura mi fece ancora più coraggio. Mi fece sentire come un predatore davanti alle prede... mamma mia... a dirlo ora capisco di essere stata un mostro... Chiesi perfino alla professoressa di lasciarmi da sola con loro. E lei uscì! Io, io sono stata un mostro, ma, lo ripeto, lei era una stupida. -Francesca, lei sente grande rimorso. Che cosa ha fatto di preciso?- Preferirei non ricordarlo... -Ne è sicura Francesca? Questa è l’occasione per dire le cose senza nessuno che la giudichi- … Ok. -Ciao ragazzi. Come state?- non rispose nessuno. Molti abbassarono gli occhi -Vi vedo bene. Sicuramente state abbastanza bene da venire a scuola...- Li osservavo attenta. Volevo vedere ogni loro reazione. -Quanti di voi conoscevano Luca?- vidi i loro sguardi incrociarsi con un’espressione dubbiosa in fronte -Nel senso... quanti di voi erano buoni amici di Luca?- ci volle un po’, ma si alzarono ehm... quattro mani, quattro. Uno di loro lo conoscevo. Si chiamava Giacomo, ed era venuto qualche volta a cenare da noi. Allora guardai lui, ma feci una domanda a tutti e quattro: -Voi sapevate se qualcuno odiava Luca?- Non mi ricordo chi mi rispose, ma mi disse: -Tutti volevano bene a Luca- lì... è come se fossi impazzita. -Non è vero. Se fosse vero non sarebbe morto. E invece l’hanno ucciso!- a quelle parole si alzò un brusio per tutta la stanza. -Noi non lo sapevamo...- mi disse uno. -Non lo sapevate? Non vi hanno detto come è morto?! Beh ve lo dico io. È stato ucciso a sangue freddo! E voi mi dovete aiutare. Voi dovete dirmi chi odiava Luca! Chi gli ha fatto del male!- -Come facciamo a saperlo noi?- -Voi eravate suoi amici, voi lo conoscevate! Voi sapete per forza!- -Noi non sappiamo niente!- rispose un altro. -Come potete non sapere niente? voi lo conoscevate! Voi... voi... voi state mentendo, voi coprite la verità, ma voi dovete aiutarmi! O non vi importa che Luca rimanga senza giustizia, eh? Non vi importa?!- in quel momento rientrò la prof. mi aveva sentito gridare e, e chiese di calmarmi, ma... continuai a gridare. Provò a tirarmi per il braccio, ma non volevo andarmene. Io intanto iniziai a piangere, e... piangevo e gridavo insieme. Poveri ragazzi. Che brutto spettacolo che deve essere stato. Alla fine mi prese un professore uomo che passava di lì e a cui aveva chiesto aiuto la prof. di Luca, e mi portò via dalla classe con la forza. E io urlavo, e sbraitavo, e dicevo: -Siete stati voi! Siete stati voi!-

Venni portata nello studio della preside, mi fecero sedere a forza e rimasi lì con accanto il

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professore che mi aveva bloccata. Cercarono di calmarmi, mi presero una tisana fredda alla macchinetta della scuola che finii solo per fargli piacere. Cercavo di mostrarmi calma all’esterno, ma dentro ero furiosa. A lei... è mai capitato? Di perdere il senno, di lasciarsi andare alla rabbia? -Capita a tutti- ...già. Mi ricordo che anche mia mamma andava di matto così. Impazziva, e non c’era modo di chetarla. Una volta si arrabbiò perché non avevo pulito la mia stanza, e mi ricordo che continuò ad urlarmi per due ore, anche se nel frattempo avevo messo tutto a posto. È una rabbia senza controllo, che non puoi fermarla con la ragione. Non importa se gli altri capiscono il motivo, se gli altri fanno quello che vuoi, si è come... come sordi. Sordi per una, per due, per tre ore. Ecco, ero così. Non mi ricordo quanto tempo rimasi lì. Ricordo che parlai con la preside. Mi disse che non avrei dovuto più parlare con i ragazzi, che non conveniva. Ma quando uscii dalla scuola incontrai uno di loro.

Elisa

5a seduta

Elisa. Si chiamava Elisa. -Come la incontrò?- Venne lei da me. Mi aspettò fuori da scuola e mi venne a parlare. Nonostante quello che era successo in classe. Lei... si era sentita in colpa. Lei non aveva alzato la mano. Mi disse una frase che non dimenticherò mai credo: “Avrei voluto essere sua amica solo per poter alzare quella mano”.

-Che tipo di ragazza era? Era molto bassa. Bassa e con una ciocca di capelli viola. Era una ragazza schietta. Mi disse senza peli sulla lingua che a lei Luca non piaceva. Che aveva passato cinque anni in classe insieme evitando di rivolgergli la parola. Disse che era troppo sicuro di sé. Che era uno di quei ragazzi che vogliono farsi notare. Che lo considerava un ipocrita. -Perché le disse queste cose?- Perché voleva essere sincera, mi disse. E io lì lo apprezzai. Avevo bisogno di verità. -Lei era d’accordo con quello che diceva? Su Luca intendo- Io... non ci ho mai pensato... ma a me non sembrava... certo mio figlio è sempre stato una persona espansiva, da piccolo aveva moltissimi amici. Ma sa... quando i figli diventano grandi non si riesce più a capire come sono. Tu li conosci da tanti anni, li hai visti crescere, e non ti accorgi magari che in tutto quel tempo loro sono cambiati moltissimo. E loro non sono come appaiono. Quando sono piccoli sono esattamente uguali con te e con i loro amici. Poi... è come se si dividessero, e a te mostrassero solo una parte, che ai loro amici non mostreranno mai. -E ciò le dispiaceva?- No, no, affatto. Forse avrebbe dovuto? Eppure io non, non sentivo il bisogno di scavare, di cercare l’altro lato. Io non sono mai stata una di quelle madri che volevano sapere tutto di loro figlio. Io non volevo essere amica di Luca. Volevo essere sua madre, e basta. -Lei non aveva un rapporto di amicizia con Luca?- Certo che lo avevo, ma non gli chiedevo di presentarmi i suoi amici, o di dirmi come andavano le sue serate, o di sapere quali fossero i locali in cui andava. Mi importava che fosse un bravo ragazzo, tutto qui. -Lei reputa di essere stata una buona mamma per Luca?- …

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6a seduta

Non rividi Elisa per molto tempo. La rincontrai per sbaglio, era inverno quindi... cinque mesi fa. Ero sulla strada per casa, in auto, e la vidi sul marciapiede. Accostai e la salutai dall’auto. -Perché?- Perché... quella ragazza mi diede molto da pensare. Non so se mi piaceva o no. Al primo incontro mi aveva fatto una buona impressione, ma nei mesi l’avevo anche odiata. -Ha ripensato a lei in quei mesi?- Sì, sì, l’ho fatto. Sa perché ricordo tutto di quei giorni dopo la morte di Luca? Perché ci ho ripensato per tantissimo tempo, li ho rivissuti continuamente, cercando magari un altro significato, o... di convincermi delle mie idee. Sa, in queste sedute sto notando che... che guardo le cose in modo diverso. Comincio a notare particolari delle mie azioni che non avevo mai considerato. Vedo che... che mi sono giustificata tante volte. Ma che forse ho sbagliato. Molto... Quando l’ho vista presi la palla al balzo. Pensai: “finalmente posso parlarle di nuovo”. Allora le chiesi dove andava, e mi offrii per darle un passaggio. Lei accettò con un po’ di riserbo. E... le chiesi come stava, cosa aveva fatto in quell’anno, come era andata la maturità. E le chiesi perché mi avesse mentito. -Le aveva mentito? Riguardo a cosa?- Oh... forse non glielo avevo detto l’altra volta... quel pomeriggio che ci incontrammo mi disse che Luca aveva una ragazza e che si erano lasciati. -Una ragazza? Lo sapeva?- Si chiamava Chiara. Era una ragazza della sua scuola. Stavano insieme da qualche mese a quanto pare. Ma no, non sapevo nulla. Luca non mi disse mai niente. Dovetti scoprirlo così, solo dopo che era morto. Ma a quanto mi aveva detto Elisa lui l’aveva lasciata. -Ma ha mentito, giusto?- Era stata lei a lasciarlo. E non si era sbagliata lei, lo sapevano tutti quanti i compagni di Luca. Mi aveva mentito apposta. E certo, lei penserà, forse come bugia era piccola, poco importante, ma allora se era così poco importante... perché mentire? Glielo chiesi e lei scoppiò a piangere. Aveva mentito perché io andassi da Chiara. Aveva capito che stavo facendo da me e voleva che indagassi su Chiara. -Perché?- Perché... era innamorata di Luca. Ed era gelosa di Chiara. Mi chiese scusa, mi disse che era una persona meschina e orribile. Lì per lì non riuscii a dirle una sola parola. Rimasi senza respiro. Erano passati sei mesi, e avevo... avevo riottenuto un po’ di equilibrio, e le cose cambiavano di nuovo. Accostai e le chiesi di uscire dall’auto, e quel giorno ritornai a letto. Come il primo giorno, non riuscii più ad alzarmi. -Era depressa?- Sì, credo di essere stata depressa. Lo ero già stata quando era morto Luca, e mi capitò più volte per i primi... aaah... tre mesi, glielo ho già detto. Lì, dopo un lungo periodo di pausa, ritornai ad essere depressa. -Si è chiesta perché?- Credo che Elisa mi abbia ricordato quanto poco conoscessi Luca. Mi fece sentire una pessima madre. Ecco, lei me lo ha chiesto la scorsa seduta, io non lo so se sono stata una buona mamma. Me lo chiedo... tutti i giorni. Quel giorno la risposta era no.

Chiara

9a seduta

Ciao Eleonora. Grazie ancora per aver accettato di vedermi così, fuori dal nostro orario. -Di niente Francesca. Avevo del tempo libero per fortuna oggi. Dimmi, cos’è

successo? Sembravi piuttosto preoccupata quando mi hai chiamato stamattina- Sì, sì, è che... ho aperto la posta oggi e... ho ricevuto una lettera da Chiara.

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-Chiara? La ex ragazza di Luca?- Sì, sì, lei. Mi ha... scritto una lettera. -E cosa dice?- Io non lo so... non l’ho ancora aperta... sono in ansia, non... non so se ce la faccio. -Federico sa della lettera? Hai provato a parlarne con lui?- No, non sa niente, e non può saperlo. -Perché?- … Perché lui non sa niente di Chiara. Lui non sa che Luca aveva una ragazza. -Non lo sa? Francesca, perché non glielo hai detto?- Non potevo, non dopo... dopo averla incontrata. -…- -Francesca lei ha incontrato Chiara?- ...Sì. Il giorno stesso in cui me lo disse Elisa. Mi aveva dato anche l’indirizzo. Sì, era molto gelosa. E... quella sera ci sono andata. Usai il citofono e mi rispose la madre. Le dissi che ero la madre di Luca, senza troppe premure, e che volevo vedere Chiara. Sua mamma al contrario mio sapeva della relazione. Sapeva tutto. Lei... per cortesia credo, mi fece salire. Lei era una donna molto gentile. Era più anziana di me. Mi aprì la porta e mi fece accomodare su un divanetto della sala. Mi chiese... mi chiese se volevo una tisana e come stavo. Non risposi. E lei... mi raccontò che aveva perso un fratello quando era adolescente. Mi fece vedere una foto di loro due che aveva su un mobile. E mi disse che sapeva come mi sentivo. Ero stata arrabbiata, furiosa e in lacrime per tutto il giorno. Ma ricordo, me lo ricordo bene, che per un momento lì, solo in quel momento io... mi sentii un po’ meglio. Per un poco smisi di pensare all’assassino di Luca, alla mia missione. Smisi per un poco... Poi entrò la figlia, Chiara. Ricordo che aveva gli occhi rossi. E ricordo che provò ad aprir bocca per parlare e non disse niente; non sapeva cosa dire. Allora chiesi alla madre se potevo parlare con Chiara per un po’ da sola, e lei accettò con uno sguardo un po’ crucciato. -Di cosa parlaste con Chiara?- Le chiesi... no, non le chiesi niente. Per molto tempo rimanemmo senza dirci nulla, a fissarci. Io però non la studiavo. La guardavo, e rimasi come... come incantata da qualcosa, dal suo sguardo. Era così addolorato. E mi chiesi se non avessi anch’io lo stesso sguardo. Mi spaventai all’idea, perché era qualcosa di orribile, come se guardarlo facesse soffrire anche te. Empatia si dice, giusto? Alla fine lei scoppiò in lacrime. E tra i singhiozzi mi disse che lei aveva ucciso Luca. -Glielo disse lei?- Sì. Avrei dovuto fare qualcosa. E invece quando me lo ha detto me ne andai, scappando. -Perché? Aveva trovato l’assassino di suo figlio, perché se ne andò?- Perché... non era così che me l’aspettavo. Io immaginavo... immaginavo che avrei trovato un vero assassino, qualcuno di... cattivo, ecco. A cui poter dire io, con tutta la rabbia che avevo, che aveva tolto un figlio a una madre, che era una persona ignobile, un mostro, e... e invece mi sono ritrovata davanti una povera ragazzina in lacrime e con il cuore spezzato. Non ce l’ho fatta, sono scappata e l’ho lasciata lì. - Francesca, cosa vuole fare di questa lettera?- Non sono pronta a leggerla. La tenga lei per favore. Se, se avrò la forza gliela chiederò. Va bene? -Va bene-

Federico

11a seduta

Pochi giorni fa ho rivisto la tata di Luca, se la ricorda?, gliene avevo parlato. È stata molto carina, mi ha fatto gli auguri di buone vacanze.

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-Ricordavo che avesse un brutto rapporto con la badante di Luca- Sì, ma la morte di un figlio riappacifica un po’ le cose. Paradossale vero? Credo che sia perché quando qualcuno perde un figlio le persone si accorgono di ciò che è veramente importante. Di quali siano i veri dolori. E allora le persone si sentono un po’ stupide per ciò che hanno fatto, che hanno detto, per i loro stupidi litigi per delle stupide cose che non contano nulla. Di fronte ai grandi dolori ci si accorge della piccolezza di tutto il resto. E allora su quei litigi con la madre del ragazzo a cui si è fatto da tata ci si può mettere una pietra sopra, che è inutile arrabbiarsi per certe cose. E anch’io ho smesso di pensarci su. Così inutile adesso. -Sa Francesca, non mi ha mai raccontato del funerale di Luca- Davvero? Non glielo ho mai raccontato? No, io credo di averlo fatto. -Lo ha fatto ma... non mi ha mai raccontato di cosa è successo dopo- ...lei come lo sa? -Due giorni fa è venuto Federico. Mi ha chiesto come andavano le sedute. Io l’ho rassicurato che sta meglio, senza rivelargli comunque nulla di ciò che mi ha detto. Però mi ha raccontato del funerale. Forse è il momento di parlarne- Io non... non fu un bello spettacolo. Il funerale fu la mattina dopo della mia visita alla scuola. Io non sapevo niente. aveva organizzato tutto Federico. Povero. Come si deve essere sentito solo in quei giorni. Me ne accorgo solo ora. Ma lui è un santo, lui... non mi fa nemmeno arrabbiare il fatto che abbia parlato con lei di questa cosa. Mi sento così piccola rispetto a lui. Mi sento fuori luogo, come se non lo meritassi. Dopo la morte di Luca pensava sempre a me prima che a se stesso. E ciò mi ha fatto rabbia per molto tempo. Lui non piangeva mai. Mi sembrava quasi che non soffrisse per Luca. Non quanto me di certo. Mi sbagliavo. Mi sbagliavo... Quel giorno, quello del funerale, non versai una lacrima. Avevo attorno a me tutti quei familiari, gli amici di famiglia, quella gente che non vedevo da anni, e che magari Luca lo aveva visto solo quando era nato. Tutti lì, a... sfoggiare il loro dolore, vestendosi di nero, e piangendo. Io, io potevo piangere! Io soffrivo davvero, non loro. -Questo lo pensava o lo pensa ancora?- Lo pensavo. E non so se lo penso ancora. Non mi importa. Forse avevo ragione, forse no, ma penso che... che quella rabbia mi fece male. Soprattutto visto quello che è successo dopo. Al funerale era come se non ci fossi. Ero uno spettro, camminavo solo perché sorretta da Federico. Non piangevo. Sono stata ad altri funerali, di amici che avevano perso il padre o la madre, piangevano sempre tutti, tranne loro, tranne i familiari più stretti. Ricordo che li guardavo con ammirazione, perché non piangevano davanti al dolore. Forse in realtà non volevano piangere davanti agli altri. Io però non pensavo nulla di ciò. Non piangevo perché non pensavo. Non pensavo a niente. Aspettavo che tutto quel girare di persone finisse. Lasciai che le condoglianze le facessero a Federico, che parlasse lui con i parenti; io non ero in grado, era evidente. Rimasi per un’ora intera dopo il funerale davanti alla tomba di Luca. Lì, lì, ripensai a ciò che mi aveva detto Chiara il giorno prima e, e mi rimbombava in testa quel pianto, e... e mi immaginavo loro due insieme. Luca e Chiara che si abbracciavano e... e Chiara che lasciava Luca. Finché non la vidi. Con la coda dell’occhio la scorsi, pochi metri dietro di me. Era insieme alla mamma, che stava qualche metro più in là. Voleva abbracciarmi forse, voleva dirmi ancora scusa, farmi le condoglianze, chiedermi perdono, non lo so... io non ci vidi più. Impazzii un’altra volta. Corsi verso di lei e cominciai a picchiarla a graffiarla. La spinsi e la tirai per i capelli. Lei gridava, ma non faceva niente per difendersi. Mi guardava e basta, con gli occhi pieni di lacrime e ripeteva: “mi dispiace”. Per fortuna mi vide la madre, che gridò aiuto e venne ad aiutare la figlia. Mi fermò Federico. Mi prese e mi bloccò, e mi portò via di lì. … Sono stata un mostro... sono stata un mostro...

Grazie per avermi aspettato, avevo bisogno di... di lavarmi queste lacrime.

Poco dopo litigai con Federico. Mi portò in auto e io continuavo a gridare. Mi disse:

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-Francesca! Ma cosa ti è preso?- -Lasciami! Lasciami!- -No, no, smettila, smettila, siediti e calmati. Adesso andiamo a casa, adesso andiamo a casa! Ma si può sapere cosa cavolo ti è preso?? -Tu, tu non lo sai, tu non lo sai!- -Cosa non so? Cosa?- -È stata lei Federico, è stata lei!- -È stata lei a fare cosa?- -A uccidere Luca, è stata lei ti dico!- -Che cosa? Cosa stai dicendo?- -Ti dico che è stata lei, non mi credi, ma io lo so, è stata quella ragazza a uccidere Luca!- -Francesca, smettila! -Lo ha ucciso lei!- -Francesca Luca si è impiccato, per dio!- Quando me lo gridò rimasi ferma un secondo. Più che altro non mi ricordavo Federico così arrabbiato. Ma poco dopo ripresi e continuai a dire quelle cose, a gridare che era stata lei, che doveva farmi uscire dall’auto...

-Sa Francesca questa è la prima volta che dice che Luca si è suicidato- Da... davvero? Però lei lo sapeva? -Certo che lo sapevo. Però lei non ha mai ammesso la cosa in queste 11 sedute. Volevo che uscisse da lei- Io... mi fa male pensarlo. Mi fa malissimo. Per questo non lo dico, mai, a nessuno. Lui non ha scritto niente sa? Non sappiamo perché è successo. Comunque quando indagavo lo sapevo, non lo avevo dimenticato. Sapevo che si era suicidato, però pensavo: “Qualcuno lo avrà spinto. Qualcuno gli avrà fatto del male, lo avrà fatto soffrire, per questo lo ha fatto”. Ecco perché credetti a Chiara quando me lo disse. Era convinta di essere stata lei a spingerlo. Lo aveva lasciato e lui si era suicidato, questo pensava. E ci credetti anch’io, e... e l’attaccai. Con il tempo... cambiai idea. Frequentai diverse ipotesi, parlai con altri suoi compagni nei mesi successivi, non abbandonai l’idea dell’omicidio per molto, troppo tempo. Poi pensai che era colpa mia. Che era qualcosa che avevo fatto, che non l’avevo amato abbastanza, che potevo fare di più, io... caddi in depressione tante volte per questo. Spesso prendevo le mie cose e me ne andavo per giorni, una volta per una settimana intera. Andavo in un hotel e ci restavo per tutto il tempo. Perché non volevo che Federico mi vedesse. Lui cercava sempre di aiutarmi, e io mi sentivo... ancora peggio, perché avrei voluto essere forte per lui... e non ci riuscivo. Per questo Federico volle che venissi da lei. Avevo avuto un’altra ricaduta ed ero scappata per tre giorni. Quando tornai mi disse che o mi sarei fatta aiutare o lui mi avrebbe lasciato. Ho fatto la scelta giusta. Sì...

14a seduta

Sai, quando vengo da te mi chiedo sempre che vita tu abbia. Mi chiedo dove sei nata, dove sei cresciuta, se fai altro oltre a questo. Non so nemmeno se sei sposata. -No, non sono sposata. Ma mi fa piacere che tu me lo chieda- Io... vorrei sapere di più di te. Ma adesso ci sono le vacanze e non ci vedremo per un po’. Mi dispiace. Mi piace parlare. - Ti ricordi come sei partita?- Sì, mi ricordo, non volevo nemmeno parlarti. Ma adesso credo che mi abbia aiutato. E... mi sento pronta. Voglio leggere la lettera di Chiara. -Ne sei sicura Francesca?- Sì, ci ho pensato. Dammela.

Ciao. Sono Chiara. Non sapevo come salutarla, mi scusi. Ma è da tanto che volevo parlarle, e ho pensato di scriverle questa lettera. Io spero che la legga, perché ho aspettato tanto di

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trovare la forza di scrivere, e ho cercato di esprimere al meglio che potevo tutto quello che vorrei dirle. È passato più di un anno da quando Luca è morto. Eppure a me sembra ieri. Sembra tanto vicino il dolore di quei giorni quanto sembra lontana la felicità di prima. Perché io non glielo ho mai detto, ma io sono stata felice con Luca. E se lo ho lasciato è stato per tanti motivi, che allora pensavo avessero senso, ma che adesso non so più. Volevo che lo sapesse. Vorrei anche dirle che io sto bene. Mi sono trasferita in questo anno, per l’università. Quindi è probabile che non ci incontreremo mai per strada. Le dico questa cosa perché per molti mesi mi sono immaginata, in uno strano misto di terrore e speranza, che questo incontro avvenisse. E ciò perché ogni giorno era diverso per me. Una mattina sentivo di stare meglio, e quella dopo di non poter più vivere così. Il senso di colpa mi attanagliava, ma in modo, e mi scusi se uso questa parola, subdolo, andando e tornando, o meglio, perché in realtà non se ne andava mai, svegliandosi e riaddormentandosi in continuazione. E così uscivo per le strade una volta con la paura che rivedendola avrebbe potuto distruggere la mia serenità momentanea, e il giorno seguente con il desiderio di fustigazione di chi vuole sentirsi punito per purificarsi. Ero convinta infatti che semmai l’avessi incontrata, di sicuro mi avrebbe attaccato, se non come ha fatto al funerale di Luca, con le parole, maledicendomi (le giuro lo pensavo davvero). Dopo un anno ho capito che forse lei invece non ha più voglia di volermi male. Non so se è così, ma ho pensato che come io non ho più voglia di voler male a me stessa, ed ho smesso, forse anche lei ha smesso di volere male a me; perché odiare se stessi è faticoso e doloroso, ma odiare un altro con tutto il cuore è ancora più pesante. Quindi le scrivo questa lettera con la speranza che lei mi abbia in fondo perdonata, o compresa, o dimenticata. Se così non è, e mi odia, sono disposta ad accettare senza paura il suo rancore, che forse, ed io non lo so, è giusto. Ma devo comunque chiederle perdono. Perché allora, un anno fa, io ero convinta di aver ucciso Luca. E l’ho fatta soffrire. Ma io non so perché Luca si è ucciso. Ho smesso di pensare di essere stata io. Perché bisogna andare oltre, e vivere con un rimorso del genere non può che uccidermi. In realtà questa espressione mi ha sempre dato fastidio, e non credo che sia giusta. “Andare oltre”. Sia io che lei sappiamo che “andare oltre” non è possibile. Non con certi dolori. Certi dolori sono fatti per entrare in noi come se fossero coltelli, e poi sciogliersi nel sangue, e diventare parte stessa di noi, finché non fa più male. Io e lei Luca lo avremo per sempre dentro di noi, e non se ne andrà mai. Ecco cos’altro vorrei dirvi. Che in questo anno io non ho mai smesso di pensare a Luca. Che ci sono mattine in cui mi sveglio e vorrei telefonargli, o rivederlo ancora. E per lei sarà lo stesso, e molto di più. Io le auguro la più bella vita. E spero di incontrarla per strada davvero un giorno, ma in quel caso parlare di Luca insieme, per ricordarlo. Con dolore, ma dolore senza sofferenza. Dolore senza male.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

Premio Speciale Giuria

“OLTRE” di Angelica Cassago - 4a A

Eccolo, quel maledetto ticchettio dell’orologio in anticamera, il suo suono martellante rimbomba nella mia testa e le macchine, scorrendo, provocano un fracasso infernale e interrompono i miei sforzi per fingere di non esistere. Sono di nuovo qui, riversa sul letto a sperare che passi, presto, possibilmente. Non so bene cosa: forse la vita o solo questo assurdo stato di tristezza, confusione, assenza di lucidità, bisogno di fuggire da ogni responsabilità, vincolo o legame. Niente all’infuori di me stessa. Solo io e il mio tormento, intrappolata in un circolo solo mio, con le stesse insensate azioni, i soliti pensieri, totalmente incapace di guardare da una diversa prospettiva, di gettare lo sguardo oltre. Chissà cosa c’è là fuori?... Fuori da questa stanza, fuori dalla mia autoimposta bolla di vetro, al di là di questa barriera che mi preclude ogni possibilità di cambiamento, fuori dal mio microcosmo che comincia e termina con me, con le mie insicurezze, la mia ansia, la mia immotivata apprensione, la mia assurda paura di vivere. Questo stato di totale sconforto mi riporta alla mente una persona, o ciò che ne è rimasto. La vedo, è lì ferma, spenta e non sa cosa fare, né perché vivere, il suo contatto con la realtà è labile e si interrompe continuamente. Accantona i problemi, anziché affrontarli, risponde in modo evasivo alle domande e, passivamente, lascia che il tempo scorra. Attende, senza più sperare. Poi, d’improvviso, inaspettatamente, come una scintilla riavvia il motore ingolfato, quel contatto è ristabilito. Riesce quasi a districarsi tra le difficoltà, risolve qualcosa, rimanda qualcos’altro, dell’altro ancora nasconde, lucidamente, però, e comincia a credere che tutto si sistemerà, che possa funzionare. Vede qualcosa oltre ai macigni che gravano su di lei. Filtra un barlume di speranza. È addirittura fiduciosa. Quasi convincente. D’un tratto, però, prospetta grandi progetti irrealizzabili destinati a naufragare, idee balzane nate dall’insonnia. Basta poco per notare che è nuovamente ricaduta nella spirale infernale. Non arriva mai ad appropriarsi della meritata serenità. Anche l’illusione di un precario equilibrio si infrange. E ricomincia il perverso gioco di un dio infame. Ed io resto qui, nella mia stanza, frastornata, schiacciata dal mal di testa opprimente che scoppia dopo il pianto a scrivere inutili banalità senza né capo, né coda. La verità è che non ho idea di cosa ci sia là fuori di tanto meraviglioso da far desiderare alle persone di essere vissuto. A volte credo che per me non ci sia niente. In fondo potrei anche uscire, ma non saprei dove andare e mi ritroverei a vagare spaventata mentre le mie paranoie aumentano e i miei complessi affiorano. Altro non so. Presa come sono da me stessa, non me ne accorgo, come Don Abbondio che nella sua pochezza cammina diritto senza prestare la minima attenzione a cosa lo circondi, pronto a mettere nelle pesche qualsiasi povero sventurato si ritrovi ad essere effetto collaterale di una codarda necessità di quiete. Ma non voglio più essere così. Voglio accogliere quel randagetto infradiciato, immobile sotto la pioggia, che ha allontanato chiunque gli si avvicinasse, profondamente convinto di meritarlo. Mi rifiuto di credere che alla fine sia tutto qui: questa dannata stanza, il ticchettio irritante e la corsa frenetica delle auto che mi ricorda che il mondo va avanti spedito, mentre io rimango lì, accucciata a terra, con lo sguardo fisso, e aspetto che piova.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

Premio Speciale Giuria

“OLTRE” di Giulia Ancillotti - 2a D

Sono solo tre lettere.

Solo tre. Me le ripeto tutte le mattine appena sveglio. Sono l’unica cosa che mi mantiene ancorato alla consapevolezza di esistere ancora, nonostante tutto. Eppure non riesco a pronunciarle. È un nome, il mio. Alì. È la prima parola che sale alle mie labbra appena apro gli occhi da quando ho cominciato questo viaggio infernale verso quello che chiamavano il “paradiso”; da quando persino la mia terra ha perso il suo nome; da quando ho un estremo bisogno di ricordare puntualmente a me stesso che non sono una bestia.

Bianco. È tutto bianco. I miei occhi stanchi non possono vedere altro: è come se il mondo mi mettesse davanti un immenso e candido velo, sottile ma impenetrabile, per nascondermi la sua bellezza, per farmi ignorare il suo enorme orrore. Oramai l’indifferenza è l’unica cosa che mi può aiutare a sopravvivere senza diventare pazzo di dolore.

C’è stato un periodo in cui l’unica luce di cui potevo godere era la notte, tranquilla e silenziosa, durante la quale persino i lamenti degli altri prigionieri, che durante il giorno impregnavano le pareti e riecheggiavano senza pietà nella mia testa, cessavano. Il sole, che entrava impacciato ed esitante dalla piccola finestra della mia fetida e angusta cella, luccicava pieno di rimorsi sul mio corpo scarlatto. Faceva bene a sentirsi in colpa: era l’unico compagno dei miei dolori, l’unico testimone delle mie pene e, nonostante questo, se ne stava lì a guardare, senza fare nulla per alleviare la mia sofferenza. È così che ho scoperto l’odio per la vita, che in fondo non è altro che l’odio per se stessi. Se la vita non mi fosse appartenuta, non avrei sentito la pelle bruciare e le ossa gridare sotto i colpi di quel bastone; non avrei percepito il sapore metallico e nauseabondo del sangue sulle labbra; non mi sarei dissetato con le mie sole lacrime. E in tutto questo, non avrei immaginato gli occhi di mia madre, il riso blu dell’Oceano, il calore della terra... cose lontane e per me inaccessibili. Ricordo i rumori della guerra, le case rase al suolo, i corpi che come gusci vuoti ricoprivano le strade, dove la polvere si mischiava al sangue nero come pece. E mio padre, fucilato alle spalle mentre andava a lavorare, in cerca dei soldi necessari per scappare da quel campo minato che era diventata la nostra città. Ci dicevano che ci sarebbe voluto al massimo un mese per essere tutti in salvo: ne sono passati venti, e sto ancora cercando di scorgere la salvezza che mi è stata promessa, invano.

Ora sono qui, nel mezzo di un mare senza orizzonti, aspettando un segno che possa darmi un qualsiasi indizio su ciò che mi attende. Sento che oggi c’è qualcosa di diverso, ma non riesco a capire cosa. Mi guardo attorno e nel lento ondeggiare del barcone vedo tanti volti, tutti diversi, privi

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della luce della vita e, proprio per questo, così simili. Occhi grandi, pieni di una speranza che mi è oramai del tutto sconosciuta, vagano senza meta, smarriti, come se non appartenessero più a nessuno, come se non volessero più vedere. Il sale brilla come diamante sui corpi esausti, alimentando il rogo delle nostre ferite e giocando ad inseguire i raggi di sole che si specchiano con vanità nei suoi cristalli. I volti contratti e irrigiditi dal calore dell’estate; le labbra, secche e sanguinanti, dischiuse alla ricerca di un respiro, come per dire qualcosa. Ma cosa? Nessuno riesce a trovare le parole. Le parole non ci sono: se ne sono andate insieme con il nostro essere umani. Corpi ammassati che emanano calore e solitudine: siamo più di cinquecento, ma ciascuno di noi è solo con se stesso. Non riusciamo più a vederci come persone, ma solo come presenze scomode, inutili, ingombranti. È come se, in qualche modo, ci stessimo rubando la vita a vicenda. All’inizio, la morte di qualcuno creava dolore e paura: era inevitabile pensare che sarebbe giunto anche il nostro turno, o quello di chi amavamo. Ma poi, quando abbiamo capito che sopravvivere è l’unica cosa che conta davvero, abbiamo smesso persino di pensarci. Non ricordo di aver fatto caso al sangue che ha schizzato il mio viso quando hanno conficcato una pallottola in testa a mia madre, o al tonfo sordo del suo corpo nell’acqua. In un attimo, l’abbraccio del mare l’ha avvolta e l’ha cullata fino alle sue nere profondità, dove il riso crudele del sole non avrebbe più potuto raggiungerla. Il suo viso non mi appartiene più: nella mia testa c’è unicamente l’immagine del fantasma in cui la fame e la sofferenza l’avevano trasformata. Solo gli occhi erano ancora grandi, vivi, ma velati dalla consapevolezza della fine imminente. Un ronzio sordo e distante si unisce alle continue polemiche delle onde contro gli scafi. Ci guardiamo sorpresi, molti si alzano in piedi per vedere cosa stia succedendo e cominciano le urla. Il terrore mi gela il sangue: possibile che l’orrore per me non sia ancora finito? Ma poi capisco che quelle sono urla di incredulità, di gioia; è la speranza che riemerge dai meandri più nascosti del cuore; è l’umanità che, finalmente, si libera delle catene con cui è stata imprigionata e si rimpossessa dei nostri corpi. Siamo arrivati. Siamo salvi. Un motoscafo si avvicina alla nostra barca e persone vestite di bianco salgono a bordo. Sembrano angeli. Forse, in fondo, è davvero il paradiso. Improvvisamente, tutto lo strazio e il tormento degli ultimi due anni mi schiacciano e cado, come pugnalato allo stomaco. Sono stanco.

Una mano tesa appare davanti a me: la afferro, cerco di alzarmi, ma le mie gambe deboli e indolenzite non rispondono. Alzo lo sguardo e vedo un uomo dal volto chiaro, sorridente, con occhi castani e profondi, che si china e delicatamente mi prende in braccio. Ritrovo, nella forza di quelle mani e nell’intensità di quegli occhi, mio padre, lo stesso padre che l’inferno si è portato via. Mi chiedono come mi chiamo, quanti anni ho, da dove vengo. Alì. L’unica cosa che la mia voce martoriata riesce ancora a pronunciare. Le ore passano e non me ne accorgo. Ho aspettato così tanto questo momento. Sono salvo, ma non mi importa. Non sento niente. Non provo niente. Mi porgono una bottiglia d’acqua e istintivamente l’afferro e comincio a bere, quasi soffocandomi. La mia gola riacquista vigore, i miei occhi si accendono e improvvisamente i colori ricompaiono più vivi che mai. Vedo infinite possibilità che si aprono davanti a me, nelle quali non v’è più sofferenza, ma solo vita! Il vento porta a me il canto degli alberi e il grido di trionfo del mare diventa il mio. Il chiacchiericcio dei flutti attira la mia attenzione: mi sembra quasi di sentire, tra quelle parole confuse e indistinte, la voce di mia madre, che dalle profondità dei suoi abissi è venuta qui per salutarmi un’ultima volta.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

Premio Speciale Giuria

“STAZIONE VUOTOLANDIA” di Tatiana Fontana - 5a B s.a.

“Se si gira, lo vede”

“Cosa?”

“Se si gira lo vede!”

“Ma sta parlando con me?”

“Si! Si giri!”

L’uomo, riluttante, si gira. Ancora. E ancora. Non capisce.

“Allora, l’ha visto?”

“Non vedo niente”

“Esatto! Non ha visto niente!” L’altro strano uomo ridacchia tra sé. “Anche se so che lei è convinto di aver visto niente... ma ha visto qualcosa! Solo non l’ha reputato abbastanza importante, tanto da metterlo nel niente, nelle cose che neppure esistono!” Sospira. “Ma non vede che qualcosa c’è? E non è neanche qualcosa di insignificante, anzi! Quel punto, quella porzione di spazio, c’è sempre stata e ci sarà anche molto più a lungo di noi due. Nel corso della storia ha visto svolgersi infiniti eventi, ha ospitato una nascita, una morte, un bacio... quel suo niente per qualcuno è stato importante, magari cruciale nella sua vita. Ma lei ha visto lì il niente!”

L’uomo rimane basito per qualche secondo. “Va bene... ma perché me lo sta dicendo?”

“Perché sono stanco, stanco di aspettare questo treno, stanco di dover sempre andare a fondo delle cose, di fare questi ragionamenti quando le persone che non se ne preoccupano vivono la vita in modo più semplice e spensierato rispetto a me, stanco di avere ansia di vivere e di morire... lei non è mai stanco?”

Il distinto signore tace. Un minuto. Due minuti. Poi, come se non riuscisse più a tenere le parole in bocca: “Certo che sono stanco, ormai chi non lo è? Siamo uomini che vivono in una società veloce e frenetica basati su un’infinità di regole e principi, e più ci si vive all’interno più si fa fatica, ma che cosa ci vuole fare? Il caos non sarebbe doppiamente stancante? Bisogna stare al passo, e ogni qual volta si dovesse cadere ci si deve rialzare, bisogna dirsi che oramai il passato è andato e ci si deve preoccupare solo di quello che viene dopo.”

La risata dello strano individuo pervade la stazione. “Ma sentilo questo! Ha per caso letto uno di quei manuali che ora vanno tanto di moda che pretendono di poter insegnare a vivere? Devo tristemente ammettere di aver cercato io stesso in passato una linea guida per la mia vita in quella robaccia, lessi e lessi di persone con la convinzione di saper vivere meglio di altri, di aver trovato la pace interiore e di essere riusciti a realizzarsi pienamente, ma durante la mia lettura non potei che notare quanto le loro conclusioni avessero basi deboli: nessuno è in grado di spiegare cosa sia di certo la vita e come mai esista, siamo capitati qua e ce la siamo ritrovata tra le mani, e ognuno la interpreta a modo suo, cercando di viverla nel modo

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migliore per sé stesso, perciò come può una persona con particolari sfaccettature pretendere di insegnare a un’altra con sfumature diverse da essa il modo giusto per vivere? Non le ho chiesto come non essere più stanco, le ho solo chiesto se anche lei si sentisse così, perché da essere umano ho una naturale avversione alla solitudine e necessitavo dell’effimero piacere dato dalla condivisione di un sentimento terrificante; e lei, da essere umano, ha dovuto affermare la sua forza interiore nell’unico modo che ci è possibile: confrontandola con la mia, cercando rassicurazione dal fatto che dalle mie affermazioni essa sia tendente all’autocommiserazione, cioè più debole, o mi sbaglio?”

Il signore abbassa gli occhi.

“Ecco, come pensavo. Non è forse questo ciò a cui un essere umano aspira? La realizzazione attraverso gli altri? Lei, io che le sto facendo questo discorso, i baldi scrittori dei suoi manuali... abbiamo tutti questo bisogno di diminuire l’altro per elevarci, tra l’altro anche la natura è fatta così, no? La debole preda viene mangiata dal forte predatore, e il forte predatore viene mangiato da un più forte predatore. È la legge della sopravvivenza, il motivo per cui anche noi siamo sopravvissuti fino ad ora. E badi bene che io non le sto facendo una critica, chi sono io per stabilire ciò che è giusto per lei? La giustizia è sopravvalutata, una pura costruzione data dal fatto che l’uomo è consapevole del fallimento del suo bisogno di prevalere su tutti, perciò cerca di accontentarsi di un titolo che gli consente almeno di non farsi superare da altri. Io posso solo regolare la mia vita in base a ciò che è giusto per me, e nel seguire la mia vita mi è capitato di cadere, ma rialzandomi ho avuto sempre l’impressione di aver lasciato a terra una parte di me, con la paura che la volta dopo non ci sarebbe stato più niente da rialzare. Con ogni mia accettazione ho visto morire un sogno o una speranza che mi rendevano ciò che ero, e al loro posto si è infiltrata una vuota stanchezza. Tutti questi ragionamenti, tutte le conclusioni che ho raggiunto le ho pagate a caro prezzo: un dolce sogno per una verità cruda, una calda speranza per una fredda conoscenza. Ma non potevo, e non posso come vede, farne a meno, la mia mente ad ogni minimo sollecitamento si accende in un’ansiosa spirale di pensieri che mi fa perdere l’equilibrio e cadere ancora, e perciò questo tra le varie osservazioni mi ha fatto rendere conto di quanto in realtà l’uomo sia portato all’autodistruzione per natura, altro che sopravvivenza, solo che mentre si autodistrugge riesce a trovare tempo per generare un’altra vita, un’altra bomba a orologeria. Che strana la realtà.”

Nella stazione cala il silenzio. Non si vede nessuno a parte i due uomini, come fossero in un universo a parte, entrambi così intenti ad ascoltare i loro veloci pensieri eccitati dalla conversazione da non rendersi conto della totale assenza di rumore esterna. Lo strano uomo chiude gli occhi stanchi. Il distinto signore intanto lo osserva, e nota la stravaganza di questo inusuale personaggio: i capelli ormai diradati sulla sommità della testa ma folti e ribelli ai lati, la fronte corrugata dal tanto pensare, le mani un po’ tremolanti che stringono un vasetto con all’interno una lucciola morente, i troppo pochi vestiti dai colori così sgargianti da sembrare emanare luce propria e una spilla con raffigurata una fenice all’altezza del cuore.

Il cielo passa da azzurro ad arancio, e da arancio a violetto. Gli occhi dell’uomo ancora chiusi, come se stesse dormendo. Apre di scatto gli occhi. Il suo sguardo si sofferma sulla prima piccola stella che è comparsa in cielo, quasi invisibile. Intanto si sente un appena riconoscibile fischio in lontananza. L’uomo sorride.

“Bene, credo che finalmente stia arrivando il mio treno”

Si alza dalla panchina e si dirige verso il confine della banchina. Si ferma di scatto a osservare la linea gialla con aria divertita.

“Sa, mi ha sempre fatto sorridere il fatto che chiunque abbia progettato le stazioni abbia pensato bene di porre solo una linea per terra tra il pericolo e la sicurezza, con qualche scritta qua e là vietando di sorpassarla. Come se le persone non potessero rendersi conto da sole che stare vicino al confine della banchina all’arrivo di un treno sia pericoloso, o come se chiunque

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volesse attraversare i binari o cercare lì la morte potesse essere fermato da essa. Anzi, alcune volte è proprio il brivido di andare oltre, di superare il limite imposto a spingere le persone a mettersi in pericolo, bisogna sempre provare qualcosa agli altri, più limiti una persona ha più gli stanno stretti. Ecco perché sorrido tutte le volte che vedo questa linea, mi sembra un altro tentativo fallito, un’altra caduta dalla quale però bisogna ancora rialzarsi. Ecco, forse la penso così poiché ho sempre creduto che il mio unico modo possibile per trovare la pace e la serenità sia eliminare tutti i limiti che mi sono stati imposti, e la realizzazione dell’impossibilità di fare ciò è stata forse la mia caduta peggiore.”

Con il sorriso che ormai ha preso una forma triste oltrepassa la linea. Oltrepassa anche la banchina e si ritrova sui binari. Appoggia il vasetto a terra con la lucciola ormai immobile, e si gira verso il signore ancora fermo con gli occhi sbarrati sulla panchina.

“Signore, ma che fa?! Torni su, la prego! È impazzito? Sta per arrivare il treno!”

“È proprio per questo che sono sceso, Einstein!” Ride. “Ah e per rispondere alla sua domanda, certo che sono impazzito, sono pazzo, come lei, come tutti. La pazzia è presente in tutti, è solo un altro dei vari effetti della prevalenza di menti: solo una mente che si crede sana può definirne un’altra pazza, e lo stesso può fare l’altra. È tutta una questione di prospettive, la pazzia porta a comportamenti senza senso, come però fa anche l’amore, o l’odio. Perciò quella che lei vede come pazzia per me è solo un forte stato d’animo, vede, anche in questo momento sono proprio dove mi ha portato il mio modo di vivere la vita, è dove devo essere.” Respira profondamente. “Comunque stia tranquillo, come vede, io lo sono! Ah già, lei non vede niente!” Ride sguaiatamente, ma poi si fa immediatamente serio. “La prego, mi faccia un favore: Mi dimentichi, dimentichi la mia voce, il mio aspetto e i miei ragionamenti, continui a vivere la sua vita come prima, con i suoi principi e i suoi manuali, viva nel modo interiormente spensierato che l’ha portato fino a questo punto, non si faccia condizionare dalle mie verità, dal mio modo di vivere, continui a vedere niente e a rialzarsi integro dalle sue cadute. Perché tanto alla fine sia di me che di lei non rimarrà niente, non conterà se siamo stati profondi o superficiali, criticati o popolari, buoni o cattivi, perciò perché sforzarsi? Perché andare contro alla propria predisposizione alla vita?”

Il signore diviene sempre più agitato, con gli occhi cerca aiuto, ma non c’è nessuno. L’uomo sui binari invece ha ripreso a fissare la stella, che ora è ben visibile. Come il treno.

Senza staccare gli occhi chiede: “Ma ha ascoltato qualcosa?”

Scosta per una frazione di secondo lo sguardo e lo posa sugli occhi spalancati del signore che si è alzato per cercare di aiutarlo. Pone la mano segnandogli di fermarsi e scoppia in un’ altra fragorosa risata.

“Ha fatto bene! Lasci stare, quando sono stanco parlo a vanvera, e ultimamente è anche l’unico modo in cui parlo.” Si ferma un secondo a riflettere. “Ma lei ha capito perché sono qua?”

Il treno è vicino, la stella luminosa.

“Ma su dai! È semplice!”

La risata è ormai delirante, il fischio dirompente.

I fari del treno illuminano il viso dell’uomo, che diventa serio in un attimo.

“Perché l’ultima volta che sono caduto non c’era più niente da poter rialzare.”

L’urlo del signore si mischia al fischio del treno in un suono lacerante, come a voler opporsi alla quiete troppo ordinaria della sera.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

Premio Speciale Giuria

“L’INFINITO E OLTRE” di Olga Pietrosanti - 3a B

Lo sguardo, attraverso la lente punta lontano, ove rumor non si sente. Buio infinito di stelle punteggiato che i natali alla nostra Terra ha dato.

Ecco Giove, Urano e Saturno... Quanti pianeti nel cielo notturno! Ad un tratto una macchia biancastra compare un po’ di fuoco, ed è il disco lunare.

Oh come sarebbe bello viaggiare lassù: esplorare buchi neri e galassie lontane e ammassi stellari e quasar e nebulose!

Superare ogni confine e oltre sempre più Al contrario di chi quaggiù triste rimane Per sfidare colui che al centro di tutto ci pose.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

Premio Speciale Giuria

“ALLO ZIO STEFANO PALLIDI VERSI DI UN NON VISSUTO”

di Alessandro Girardin - 5a D

Se penso nella notte al rimpianto che silenzia dentro ogni casa l’amaro di rotte parole e le sfuriate di rissosi amanti, che credevo dissonanti col lugubre bisbiglio di un deserto sempre pieno di quello che altri han lasciato... ; si riscuote nel mio petto la spoglia di un ricordo che affiorava disadorno nell’attimo in cui mi accorgevo, eppur non lo sapevo, che nei suoi occhi c’era solo il nulla, e come una cicatrice la speranza del ritorno.

E questa vita mi rivive attorno, forse solo per saperlo sempre esistito dentro ogni cosa, oltre ogni cosa, come il sole a quella ora che ogni città sembra città di mare, quando altri m’insegnava che un cuore di pietra può sempre rotolare. E ripenso: - Questa vita... Queste strade che mai da me ho percorse... Eccole: stanno là silenti, dove forse la mia vita deve ancora incominciare; quando non era insano oltrepassare le ombre vaghe della morte; quando bambino giocavo a nascondino, ed in un ventre non chinavo gli occhi.

Dalla campana, gli ultimi rintocchi: comincia la conta; finisce: schizzo tra strisce di fango nel giardino; mi appendo nella mota

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a un ramo... ad un ramo di pino. - Questo pino... Caro pino: abbraccio la tua scorza, abbraccio tutto il mondo, che sparisce rincasando come io sparisco in te, fra i tuoi infiniti rami; finché non mi richiami sulla tua cima, ora che il vento arieggia col fiato di un notturno questa valle, come in me le ombre del suo passato e della vita sua che in me s’insinua come la mia si affossa in un orto di liquami.

E penso: - Questi rami... Viaggiava in moto, diretto lontano; come te eternamente la sua età non rinverdisce. Quella strada, lui l’ha presa: e nella notte delle sue pupille spente, qui non si sente che lo stesso pianto che prosciuga a grandi sorsi quella vita che ho tastato senza mai davvero averla: da qui lui può rivederla nel sonno di una casa, dentro ogni cosa, oltre ogni cosa.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“LA RAGAZZA DELLA FERMATA” di Andrea Lizzano - 5a C

Pensieri, ricordi, paure, rimorsi. Quante cose vengono in mente quando si sta aspettando una persona speciale. L’attesa seppur breve mi logora piano piano l’anima e il cuore inquieto batte mentre osservo le lancette del mio orologio muoversi lentamente. E poi arrivi tu e nella mia testa tutti i miei propositi risultano inutilmente complicati in confronto alla semplicità di un tuo sorriso. Ogni giorno rimango fermo a osservare i tuoi capelli scuri e ogni tuo singolo dolce movimento. Eppure non ci conosciamo ma vorrei sempre andare oltre il mistero che si cela dietro la tua persona e magari conoscere anche solo il tuo nome. Ma sono troppo timido e non ho il coraggio di rendere concreto tutto ciò che viaggia nella mia testa e che sento nel mio cuore appena ti vedo. Sei una gioia agrodolce, un pensiero costante e non posso scordarti perché mi mancheresti. Ed ogni volta il pullman arriva e tu vai via, il sogno svanisce e la triste realtà mi avvolge nella sua fitta nebbia dove la bellezza è sconosciuta. Oltre questo non so più niente e preferisco stare in silenzio a contemplare un piccolo frammento di te.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“CATARSI” di Giorgia Demani- 5a B s.a.

Hai presente, nonna, quando perdi te stessa? Dietro a meccanismi, dietro abitudini giornaliere. Acqua calda che ustiona la schiena. Niente. Non sento niente. Esco dal bagno sfregando il corpo con l’asciugamano. Una nuvola di vapore che pervade l’aria che respiro. Cammino. Un passo, due passi, tre passi. Lo specchio davanti a me. Guardo una mano. La mia mano. La vedo che spanna lo specchio. Una figura mi sta guardando. Nuda. Due occhi neri mi fissano. Sono davvero io? È questo che volevo diventare? Un automa? Dimmi quanto valgo, nonna, se non so che cosa provo, se non so che cosa voglio. Ansia che cresce violenta da dentro il petto. Coinvolge ogni singola cellula del mio corpo, penetra fin dentro le ossa. Io sono più di questo, voglio essere di più. Le mura di questa stanza improvvisamente si stringono. Mi aggrappo all’ansia come fosse l’unica cosa importante di questo mondo. Unica cosa che mi tiene aggrappata alla vita. La sento. È un urlo che rompe questo silenzio di ghiaccio in mille cristalli. Io sento. Devo uscire da questa casa, devo respirare aria vera. Indosso le prime cose che trovo. Scarpe da ginnastica sgualcite. E corro. Il sole che cade dietro al cielo. Le case che scorrono si fanno grigie. Passi pesanti sul cemento. Tum, tum, tum. Si confondono col battito del mio cuore. Muscoli che tirano fino a urlare. Aria che riempie e svuota i polmoni. È questo che sono ora. Sensazioni. Niente di più, niente di meno. È paradossale, penso. Paradossale come per essere cosciente di me stessa, debba annegarmi dietro a passi un po’ troppo spinti. Tutto per sentire. Ora non ci sono più. Surclassata da me stessa. Anima che si perde dentro il mio corpo. Cala la notte. Nero intorno a me. Due fari che vedo troppo tardi. Il rumore di un clacson assordante. Ricordi, nonna, quando mi raccontavi la storia dell’uomo nero? Ora capisco. Lo vedo. Sotto forma della notte, sotto forma di questa auto. Mi porta via con sé. Ora nulla ha più importanza: i problemi esistenziali, l’apatia, l’ansia. L’ossessione di scappare da paure non reali. E’ assurdo come risulti tutto inutile. Non c’è nessuna resa dei conti, nessun vinto e nessun vincitore. I castelli di rabbia che abbiamo eretto intorno a noi, mattoncino dopo mattoncino, crollano. I tentavi di bilanciare il male con il bene e il bene con il male. O quelli di tracciare una linea tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non spetta a noi. Non spetta a nessuno. Non ha più senso parlare di religioni, di filosofia. Tutto sfuma nel grande mantello nero che la notte porta con sé. Che trabocca di verità nascoste, di attimi rubati, menzogne, amori mai svelati. Ora capisco. L’uomo nero ci porta via tutto ciò per cui lottavamo, ci spoglia e non rimane altro che il tempo. Questo corridore che non si ferma mai. Tic, tac, tic. Lui che scorre indifferente. Che ci viene prestato. Non è altro che vita. Era questa l’unica cosa che mi apparteneva. “Troppo tardi”. Mi dice una vocina. No. La rivoglio. Rivoglio ciò che ho trascurato e che ora per sbaglio mi hanno portato via. Volontariamente ho agito come se non mi appartenesse e senza neanche volerlo l’ho persa. “Troppo tardi”, continuo a sentire. No. Mi riaggrappo alle sensazioni. Dolore. Spine ovunque. Frammenti lancinanti che urlano al mio corpo. Fischio acuto che spacca i timpani. Il grido di una sirena abbastanza forte. Abbastanza forte per sentire. Tic, tac, tic, tac. Io, ora, in questo momento, sono viva, questo tempo mi appartiene. La vita scorre nelle mie vene e posso quasi toccarla. E lo giuro nonna, mai più perderò me stessa. Lo giuro nonna, questo è il momento di andare avanti, di andare oltre.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“GIULIA” di Alessia Toro - 5a A

Credo che la parola che meglio descrive Paolo sia “oltre”. Oltre la media, oltre le aspettative, oltre l’idea comune di un ragazzo di 15 anni. Voti alti in una scuola che tutti consideravano difficile e che lui aveva scelto perché amava le sfide. Le sfide lo facevano andare oltre. Anche per questo si era lasciato facilmente convincere da suo padre a seguire le sue orme di scalatore. Andava ad arrampicarsi su quelle pareti spigolose per riuscire a vedere quello che c’era oltre quei freddi muri. Passava le ore a scrivere per andare oltre quei muri mentali imposti da una società che sembrava non essere pronta ad accettare una sensibilità come la sua. Una sensibilità che andava ben oltre le apparenze e le aspettative che tutti avevano nei suoi confronti. Scriveva di tutto. Poesie, racconti, musica. Scriveva testi e musica delle sue canzoni, tutte provate su quello stesso pianoforte che suonava sua madre quando lui era piccolo. Ne ascoltava anche tanta di musica, convinto che avrebbe trovato l’ispirazione nei testi di John Lennon e nelle note di Freddie Mercury. Ascoltava la musica delle band inglesi per cercare di andare oltre. La musica italiana non parlava delle stesse cose di cui parlavano la sua mente e il suo cuore.

“I’m free to be whatever I choose”

Paolo non era davvero libero di essere ciò che voleva. Non ancora almeno. Voleva essere un medico, Paolo. Aiutare gli altri. Aiutare se stesso a sentirsi meglio facendo sentire meglio qualcun altro. Provare ad uscire da quella sensazione di senso di colpa che ti assale quando le cose a te vanno bene e agli altri no. Paolo era così Gli altri prima di se stesso. Indipendentemente dalle loro storie. Avrebbe dato da mangiare ad un assassino se questo stesse morendo di fame. Faceva del bene anche a chi gli aveva fatto del male. Continuava a guardare da lontano e con occhi sognanti quella ragazza, come se lei avesse davvero risposto -ti amo anch’io-, piuttosto che avergli lasciato, come aveva fatto lui pochi giorni prima, un bigliettino tra i libri.

“Mi dispiace” diceva. Nient’altro.

E Paolo avrebbe tanto voluto strapparlo quel foglietto, ma lo ripiegò e lo mise nel portafogli, pronto a riaprirlo insieme al suo cuore quando avrebbe smesso di fargli salire le lacrime agli occhi, facendoli diventare quasi verdi, in contrasto con il rosso che circondava le iridi nocciola. Lei continuava a trovare la colazione già pagata al piccolo bar della scuola. Sapeva bene che era Paolo a farle trovare il cappuccino caldo sul bancone, come se già

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sapesse quando sarebbe arrivata, ma lui non c’era mai. Volato via, il suo profumo misto all’odore di caffè nella stanzetta gremita di studenti assonnati e professori di fretta per le lezioni della prima ora. Non se l’era mai sentita di ricambiare il favore. Avrebbe voluto ricambiare anche l’amore di quel ragazzo. Paolo era un bravo ragazzo, non si meritava una presa in giro da parte della ragazza che amava. Era un mercoledì. Giorno qualunque. Uno di quei giorni in cui il cielo promette pioggia, ma si sa già che non pioverà. Giorno inutile. Niente colazione.

“Sarà a casa malato” pensò, mentendo a se stessa.

Era già successo che Paolo non fosse a scuola, ma il suo cappuccino era lì e forse anche il suo profumo era stato in qualche modo assorbito dalle pareti gialline del locale. Decise che non ci avrebbe pensato. Ovviamente rimase una sola persona nella sua testa per tutta la mattina. Nessuno di quei grandi uomini di cui parlavano i professori. Paolo. Solo Paolo. Il suo Paolo. Ultimamente ci aveva pensato. Il suo ostinarsi a prendere quel cappuccino senza mai pagargli un caffè; quel suo continuare a prendere il suo amore senza dire nulla. Avrebbe potuto fermarsi. Avrebbe potuto pagare per la propria colazione, chiedergli di smettere, ignorarlo. Invece no. Continuava a tornare lì con una certa dedizione. La dedizione necessaria all’amore. Si stava innamorando, o forse si era già innamorata. Doveva dirglielo, di persona però. Paolo si meritava tutto questo. Era decisa, al punto da essere spaventata dal suo stesso coraggio. Era sotto casa di Paolo, cominciava a piovere.

“Giornata sempre più inutile” pensò.

Avrebbe potuto pensare a quanto sarebbe stato romantico baciarsi sotto la pioggia, ma queste cose non facevano per lei. Le tremavano le mani. Citofonò. Rispose la madre. A lei tremava la voce.

“Sono Giulia. Paolo è in casa?”

Non rispose. Si aprì il portone. Salì le scale. Trovò una bellissima donna, in lacrime. Riconobbe il marito che le teneva una mano sulla spalla. Scuotevano la testa. Paolo era andato. La stanza vuota piena del suo profumo mosso da una brezza leggera. Le parve di sentire lo stesso odore di quella mattina. Odore di caffè. Pensava di averlo immaginato, ma era troppo reale. Si voltò verso la fonte di quel profumo che ormai faceva parte di lei tanto quanto Paolo. Quando la vide dovette appoggiarsi alla scrivania, dalla tazza si alzava ancora una flebile

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nuvola di vapore. Non c’era nient’altro su quella scrivania, se non la tazza e un tovagliolino, entrambi provenienti dal bar della scuola.

“Here in my mind You know you might find Something that you You thought you once knew But now it’s all gone And you know it’s no fun”

I singhiozzi di pianto accompagnavano il rumore della pioggia oltre la finestra. Le era sfuggito di mano, e ancora una volta, l’ultima, Paolo sapeva che lei sarebbe andata da lui. Non capì mai il motivo. Nessuno poteva davvero capirlo. Avrebbe dovuto raggiungerlo, in un modo o nell’altro. Restò a piangere in camera sua per giorni. Pensò al peggio, poi si convinse che Paolo non l’avrebbe mai voluto. Lei stessa credeva molto più nell’Amore che nella possibilità di ritrovare Paolo da qualche parte che non fosse semplicemente il ricordo della loro breve vita insieme e di potergli finalmente dimostrare ogni suo sentimento. Doveva superarlo. Non sapeva se sarebbe mai riuscita ad andare oltre, il senso di colpa per non avergli pagato quel caffè che valeva anche più di una sola vita la stava pian piano schiacciando. I genitori di Paolo erano distrutti. Ammise di esserlo anche lei. Prese un foglio e una penna. Cominciò a scrivere. L’inchiostro blu sbavato dalle lacrime. Una lacrima su quell’oltre. Un’altra sul 15. Una ancora su sfide. Quando finì il foglio era zuppo. Lo mise ad asciugare. Scrisse agli insegnanti e ai genitori di Paolo. Infine scrisse una lettera anche a se stessa. Stesso finale per tutte le lettere.

Paolo è andato oltre e noi siamo rimasti qui. Siamo rimasti qui a pensare e a cercare di colmare il vuoto lasciato da un’ anima con delle parole.

Aggiunse alla sua:

Abbi cura di te. Giulia.

Tornai a scuola. Lasciai un caffè pagato. Provai ad andare oltre.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“OLTRE” di Mattia Micucci - 1a E

Oltre, aldilà. È una parola misteriosa, soprattutto perché il suo significato dipende da chi sta parlando. In genere ognuno di noi sviluppa una diversa concezione di “oltre” che gli permette di indicare un luogo nel quale ora non si trova ma gli è vicino. Leopardi aveva un suo oltre, a mio avviso l’oltre più profondo che ci potesse essere, perché egli scrisse la sua poesia più famosa, ovvero ‘‘L’infinito’’, in una situazione in cui mi capita spesso di trovarmi. Giacomo allenava la sua immaginazione, sperando solo che “oltre” quella siepe ci fosse qualcosa che lui amasse davvero. Un oltre inesistente, inspiegabile e difficile da materializzare. Non esiste, infatti, qualcosa che conduca il nostro pensiero alla creazione delle cose che noi riteniamo più belle, quelle che desideriamo di più, quelle che ci aspettiamo dietro l’ostacolo che ci impedisce di raggiungerle.

Anche Montale tentò di raccontare come fosse triste cercare di vedere il mare attraverso un ostacolo che non glielo permetteva, almeno totalmente. Rimase perciò con il desiderio di trovare quell’oltre, un luogo, in questo caso il mare, che già lui possedeva e amava rivederlo nei suoi ricordi, ma ora può solo sentire il suo rumore nell’aria. Ma non si fermò e continuando a camminare in un rovente pomeriggio d’estate, covò il dolore di come la vita gli impedisse di raggiungere il mare, il suo oltre.

C’è un altro tipo di oltre legato al tempo, a una situazione che si protrae a lungo, una situazione che si presuppone di superare, giusto per raggiungere il desiderio di tranquillità che da secoli perseguita l’uomo. Ma il vero viaggio che l’uomo fa per andare verso quella tranquillità che sogna è il suo spostamento. Infatti arrivato a quella meta che sperava di raggiungere, si accorge che il suo sogno era diverso e che il suo sogno non nasceva in funzione del suo bisogno di vita, ma la sua vita aveva bisogno di quel sogno. Il sogno alimenta il desiderio, il desiderio implica un movimento, qualcosa che ti obbliga a muoverti per realizzare il suddetto sogno. Durante il viaggio che l’uomo intraprende per realizzarlo si trova in equilibrio che potrebbe durare per anni, decenni, solo per rendere ancora più grande di quanto già sia. Personalmente mi ritrovo spesso a disfare i traguardi per trovarmi in una condizione di continuo desiderio, alimento principale della vita. Mi sono accorto, pur essendo molto giovane, che senza un desiderio la vita perde di sostanza. Perde di una linfa che è capace di tenerlo in vita e in relazione con tutte le persone che lo circondano.

Sono un tipo timido che nasconde i suoi veri pensieri dietro la scrittura; scrivo ovunque, un foglietto, un post-it, e diventa subito un ricordo permanente di come sono e come mi piacerebbe ricordarmi. Questo è il mio ostacolo. Non parlo mai con nessuno che non conosco, li evito, mi definisco e mi vedo abbastanza misantropo, ma se qualcuno di persuasivo entra in me, forzando la porta che sigilla il mio cuore, non arreca danni, contribuisce solo a riaprire e forse a riparare un pozzo di parole che ha perso la voce. Alle persone non piace scontrarsi con un tipo del genere e piano piano scompaiono. Si rendono conto soltanto di come sia debole quel mondo che hanno tentato di risvegliare, profanando una tomba con su scritto il nome di una persona normale, felice con se stessa ma dietro un velo trasparente con il quale cerca di nascondersi.

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Il mio oltre sarebbe la normalità, ma nel viaggio che ho intrapreso non trovo ancora qualcosa di bello nel monotono; non dico che la persona normale media sia monotona, ma il modello che ho preso io si.

La mia vita credo si basi principalmente sulla ricerca di che cosa sia superfluo e cosa sia necessario e più volte mi trovo ad amare il superfluo, tutto ciò che non mi ammazza ma mi ferisce. Ogni volta ho seguito diverse strade che non mi hanno mai portato a quello che dovrei essere, ma pensandoci un attimo, sono solo un adolescente: né un bambino, ma nemmeno un adulto e solo per questo noto che anche io sono curioso e che scoprire com’è il mondo e le persone che lo abitano mi rende più grande.

Guardo le persone di nascosto e mi immedesimo in loro; ho cresciuto grande empatia in me, e non è stato facile perché me lo sono quasi imposto, avevo bisogno di imparare, e senza entrare nella vita di una persona che ha già visto più di me non mi posso certo immaginare di crescere.

Il mio ostacolo si trova anche nell’età e nella mia mente piena di immaginazione, solo perché l’immaginazione non è reale, ma solo la rovina più grande dell’esistenza o la sua unica salvezza.

Io sto conducendomi nel mio lungo viaggio della vita, secondo alcuni studi dovrei arrivare agli ottant’anni, tanti; non voglio morire. Voglio vedere cosa sarò, chi ci sarà con me, voglio scoprire se quello che sto facendo adesso, nel presente, possa salvarmi nel mio futuro. Voglio arrivare alla mia morte senza rimpianti, sono sicuro di portecela fare, un uomo contento di aver scoperto tutto ciò che avrebbe potuto incontrare, un uomo curioso e desideroso dell’amore delle persone a lui vicine. In quel momento avrò raggiunto la mia meta, sarò un uomo, a tutti gli effetti.

Oltre, oltre, oltre, cosa ci sarà oltre i miei limiti? Perfezione, forse? Non lo desidero. Desidero solo che quel viaggio diretto verso l’oltre sia non semplicemente bello, ma sublime.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“OLTRE” di Benedetta Langella - 2a A

«Una volta pensavo che la cosa peggiore che potesse succedere nella vita fosse quella di rimanere solo, ma non è così. La cosa peggiore è finire con persone che ti fanno sentire solo». (Robin Williams)

Questo mi capita fin troppo spesso, in quei momenti resto in silenzio, fisso il vuoto, lo sguardo si perde in un luogo che è solo mio; la mente si affanna per cercare “l’Oltre” in cui mi sento veramente me stessa, nel quale non sono obbligata a dover indossare le innumerevoli maschere che la società mi impone...

Quando la mia testa si assenta dal mondo, mi ritrovo seduta su uno scoglio a contemplare la bellezza del mare, intorno a me aspre montagne s’innalzano verso il cielo, quasi come a cercar di toccarlo.

Il sole si avvicina sempre di più alla linea dell’orizzonte, tingendo la volta celeste di colori intensi come le emozioni che provo: il rosso della rabbia insieme al blu della tristezza si mescolano con il viola passione e l’arancione della gioia.

Il tappeto di nuvole sopra di me si colora di rosa e le montagne intorno iniziano a perdere colore, diventando sempre più scure; parte della spiaggia retrostante è coperta dall’ombra di un eucalipto arcobaleno, noto per la sua corteccia multicolore; con i suoi rami sembra inchinarsi alla bellezza di questo paesaggio meraviglioso e le ombre dei massi che lo circondano creano intriganti giochi di luce.

Vicino allo scoglio su cui sono seduta, un fuoco rosso vivo inizia a divampare, resta circoscritto in una conca, scavata dall’azione del mare.

Un vento freddo inizia a spirare in questo “Oltre” sterminato, cercando di spegnere il fuoco della passione, ma questo continua a divampare, alimentato dai sogni, realizzati o infranti, dagli obiettivi e le ambizioni; in esso sono racchiuse le mie speranze per il futuro, ma anche i dolori e le sconfitte che la vita mi ha regalato.

Il calore di quel fuoco mi aiuta a combattere il freddo della sera che avanza e mi asciuga dagli schizzi delle onde che s’infrangono sugli scogli.

Il sole intanto si tuffa nel mare, lasciando il posto alle stelle che animano il cielo notturno, la luce della luna si fa strada tra le montagne e i rami di eucalipto, tingendo il mare scuro con pennellate bianche e argentee.

In questo “Oltre” utopico, però, non sono sola, ad un tratto una mano si appoggia sulla mia spalla, è calda e morbida e sulle prime non riesco a capire di chi possa essere; appena porto lo sguardo sul suo viso illuminato dalla luna, tutto si fa più chiaro.

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Mi rendo conto che quella persona, nella vita, è sempre stata un mio punto di riferimento, che quella mano, la sua mano, è sempre stata tesa verso di me, pronta a sorreggermi e correggermi durante le mie scelte e i miei sbagli.

Solo in quel momento mi accorgo che i suoi occhi hanno il potere di leggere nei miei, riescono a comprendere quando la mia risposta “bene” alla domanda “come stai?” in realtà è soltanto un automatismo e che dietro ai miei sorrisi falsi si nasconde molto di più.

Con questa figura sono riuscita ad aprirmi, ad essere me stessa e a ridere veramente, ciò che con tutti gli altri mi risulta un’impresa piuttosto ardua; quello che rimpiango, però, è il fatto di averla conosciuta relativamente tardi e in un periodo difficile della vita: l’adolescenza.

Dopo un lungo istante, nel quale ci siamo fissati, si siede accanto a me, vicino al fuoco che non è alimentato a legna, ma da “attimi” della vita stessa.

La spiaggia alle nostre spalle si ricopre di lucciole, che la fanno assomigliare al cielo luminoso sopra le nostre teste; le montagne risuonano dei versi di grilli e gufi, ma solo uno si distingue per forza e bellezza; il canto dei lupi al fascino della luna...

Tutti questi suoni si mescolano insieme allo sciabordio delle onde e al crepitio del fuoco, regolati dalla cadenza del nostro respiro, creando una sinfonia che solo pochi hanno avuto il privilegio di ascoltare.

Mentre le stelle si specchiavano nel mare, il vento faceva danzare le foglie degli alberi e la luna lasciava il posto al sole, noi, cullati dal suono della risacca e dal battito dei nostri cuori, venimmo catturati dalle braccia di Morfeo e restammo con lui fino al mattino, quando una luce accecante riuscì a scalfire il buio delle nostre palpebre.

Purtroppo, mi resi conto che quelli non erano i raggi del sole, ma la triste luce artificiale dei lampadari sul soffitto e che quello intorno a me non era ciò che mi aspettavo che fosse, ma dei semplici banchi e un gran numero di persone; ero uscita dal mio luogo segreto ed ero di nuovo sola...

Questo “Oltre” era solo e soltanto mio ed io potevo scegliere chi fare o non fare entrare; era la mia salvezza, il luogo in cui vorrei essere, ma non restare...

E’ inutile scappare lontano dai problemi, perché quando meno te lo aspetti, magari mentre stai ammirando il panorama del tuo “posto felice”, questi ti saltano addosso, come un leone su una gazzella, “inquinando” il luogo dove ti rifugi.

Quindi affronta i problemi nella realtà, per poi concederti un momento per fuggire da tutto e da tutti, nel posto dove vorresti essere, nell’ “Oltre” che è solo tuo!

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“OLTRE” di Daniela Mondonico - 3a B

Ti svegli la mattina e vai a scuola, incontri il tuo amico e cominciate a parlare, prendete in giro un ragazzo incontrato in pullman e ridete ma appena c’è un attimo di silenzio tu ti chiedi “non posso essere niente oltre a questo?”. Sei in classe e ti consegnano una verifica, hai preso 8, mica ci speravi, sorridi e sei soddisfatto ma subito quel sorriso si spegne e ti si accende una lampadina in testa “non posso avere niente oltre a questo?”. Torni a casa e i tuoi ti regalano un cellulare nuovo, lo specchio è lucido e riflette il tuo volto e i tuoi occhi... lo fissi e ti chiedi “sono in grado di provare vere emozioni oltre a quelle legate agli oggetti materiali?”. Ti chiudi nella tua stanza e rifletti un attimo, ti chiedi se oltre questa vita ci sarà qualcos’altro, ti chiedi in che modo tu possa dare valore alla tua vita ma non trovi nessuna soluzione... Esci di casa, stai fuori con gli amici ma il tuo sorriso non comprende gli occhi, alzi gli angoli della bocca ma non ridi davvero e ti chiedi “c’è qualcosa che io possa fare oltre a questo?”. La sera vai a dormire, hai avuto tutto quello che desideravi per la giornata ma non sei felice, hai avuto un cellulare nuovo, un bel voto in un compito, sei stato fuori a divertirti tutto il pomeriggio ma ancora non sei felice e ti chiedi “e oltre a questo?” Ora ti affacci alla finestra, è sempre più forte il bisogno di avvicinarsi alle nuvole e toccare il cielo, è sempre più forte il bisogno di andare oltre. Ti guardi intorno e ti chiedi “e oltre questo cosa c’è?” Ma non trovi una risposta, non raggiungi la soluzione, non puoi raggiungere qualcosa di tanto in alto senza le ali ai piedi. Guardi l’orizzonte e ti chiedi cosa ci sia oltre. La risposta è niente. La tua vita è qui, non è altrove; oltre a tutto questo non c’è proprio niente.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“ ” di Bruno Nevreiter - 2a D

Per te che mi manchi e che io non ti manco mi spiace, mia è la causa tua è la ragione. Io il tuo specchio ora ti vedo riflessa nelle mie pene vedo nella mia lungimiranza, compiaciuto guardo e ammiro come ti sostituisco. Non più come un tempo non mi concedi di guardarti. Disprezzi in me dove io ti cercavo tutto, il mondo e te, ciò che vedo dovevo cedere ciò che volevi per te tutto è finzione e tutto è reale. Vivi la mia gioventù perduta, ti auguro sempre per sempre da sempre il meglio, come lo volevo lungo e duraturo in questo sogno. Non lo siamo mai stati, voi lo sarete, con chi tu vuoi. Ti ho voluta con gli occhi cieco in un passato e nel futuro che è solo stato una speranza da morire. Vivi, consumati, sprecati, vivi, libera di ucciderti e di piangere e di ridere quello che vuoi con chi vuoi per il gusto di fare, tu. Un giorno nella mia fantasia nella mia scontata realtà tornerai ad implorarmi a chiedere perdono verrai. Chiederai il mio perdono i miei beni e la mia passione, vorrai ciò che avrò fatto per te, tu e sempre tu, egocentrica.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“IL LIBRO” di Pietro Lombardo - 3a B

Ognun cerca crucciato con fantasie a dismisura il seguito del libro amato avendo terminato la lettura. Lo pensi quando sei solo, lo sogni prima di dormire, lo vedi sullo scrittoio, lo tocchi per rifiorire. La storia non termina con l’ultimo termine; immagina ogni mente il suo seguito continuamente.

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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2017 - 23a edizione

“OSSETS ET ERTLO” di Davide Villa - 4a C s.a.

Vivere è esplorare la realtà a tutto tondo, Guardarsi intorno, capire, sbagliare, Perdersi nei pensieri, essere concentrati ma lasciarsi portare In un colpo solo, in un posto lontano dal mondo. Ma come è fatta quest’Utopia della realtà? Immaginavi una landa immensa, una vastità, In realtà è un unico passo, che ti separa dalla tua vita mentre Raggiungi questa terra, il regno, Oltre. Questo luogo è una normalità straordinaria, In cui ti perdi per raggiungere la destinazione, In cui ti senti circondato, ma non ci sono persone, Quel posto dove non respiri solo aria. Oltre è una realtà dove superi te stesso, Dove impari che il futuro inizia da adesso, È un mondo eccessivamente personale, In cui la monotonia è danno mortale. Oltre è quando ti guardi allo specchio E sfidi realmente chi ti sta osservando, Minacciando, che ti strizza l’occhio, Che ti convince a correre più forte di lui. Ti prendono tutti per pazzo, Perché corri, fatichi, ti fai il mazzo, Per vederlo distante uguale a prima E sembrerebbe impossibile prima di lui in cima. Perché oltre è avere limiti da noi fissati, Che ci sembrano banali una volta superati, E solo dopo aver battuto te stesso capisci che nessuno al mondo può farti fesso. Oltre è saper volare, sopra le nuvole nere Che tuonano giudizi e grandinano critiche, Imparare a passare in alto, affrontare fatiche, Che danno cicatrici in cambio di sudore. Oltre è il muro che la vita ci pone davanti, Guardarlo da lontano e vedere che sono in fila in tanti Per lasciare un ricordo, una frase, un’impronta, Che quando tutto cade, non si rompe né si smonta. Questa fila è interminabile, La parte di muro ancora non scritta è inarrivabile, Perché tutti si ammazzano per avere su esso una parte di sé,

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Ma chissà se ciò che è indelebile, rappresenta veramente ciò che si è. Nessuno si accorge che questo muro in realtà ti separa da Oltre, Perché tutti ci vedono scritte, ma non entità altre, Io ci vedo una strada, un modo diverso di pensare, Tutti mi danno per pazzo per volerlo scavalcare. Perché Oltre è saper essere chi vogliamo, Prendere, e partire con chiunque al mondo amiamo, Ma essere indipendenti, perché l’uomo ha natura infinita, E il nostro carattere è marmo scolpito dalle nostre dita. Oltre è guardare ogni abitante di questo posto, E non notare differenza tra lui e chi consideri tosto, Perché qui vogliamo tutti imparare, questo è il bello, E riuscire a trattare ognuno come fosse un fratello. Tutti al mondo abbiamo 206 ossa, Tutti convinti che il bene, il buono, sia la massa, Tutti pronti ad andare oltre qualunque differenza, E pretendono di avere dalla propria parte la scienza. Ma solo guardando oltre essa capiamo che siamo tutti umani, Indipendentemente dalla pelle nera, o nera meno scura, Perché non c’è colore che tenga quando ci teniamo le mani, Quando ci perdiamo nei pensieri siamo tutti della stessa natura.