LA PENA D I MORTE FRRA S OCIOOLOGIIAA E PEDAAG OG I … · ii Non erigere un falso altare davanti...

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I L A P E N A D I M O R T E F R A S O C I O L O G I A E P E D A G O G I A di Aldo Bergamaschi

Transcript of LA PENA D I MORTE FRRA S OCIOOLOGIIAA E PEDAAG OG I … · ii Non erigere un falso altare davanti...

I

LL AA PP EE NN AA DD II MM OO RR TT EE

FF RR AA SS OO CC II OO LL OO GG II AA EE PP EE DD AA GG OO GG II AA

di Aldo Bergamaschi

i

LA PENA DI MORTE FRA SOCIOLOGIA E PEDAGOGIA

A l d o B e r g a m a s c h i

I N D I C E

Introduzione......................................................................................... i

Parte I - Il dibattito storico

Approccio al tema .............................................................................. 1

La lezione biblica ............................................................................... 2

Natura e razionalità ............................................................................ 5

Storicismo e profezia.......................................................................... 8

Cristo tra filosofia e teologia ............................................................ 12

La Summa galeotta (1)...................................................................... 15

La Summa galeotta (2)...................................................................... 19

La Civiltà Cattolica in nevrosi (1) ................................................... 23

La Civiltà Cattolica in nevrosi (2) ................................................... 26

La Civiltà Cattolica in nevrosi (3) ................................................... 29

La Civiltà Cattolica in nevrosi (4) ................................................... 33

Beccarla tra storia e verità (1) .......................................................... 37

Beccarla tra storia e verità (2) .......................................................... 41

Filangeri tra verità e sofisma............................................................ 44

Parte II - Le antinomie psico-sociologiche

La punta dell’iceberg........................................................................ 48

La struttura ipocrita .......................................................................... 48

Le Veltanschauungen occulte........................................................... 51

Le indignazioni equivoche ............................................................... 51

Guerra di nervi tra porci e lupi ......................................................... 52

L’etica cristiana e la metànoia.......................................................... 52

Cristo non fa da giudice.................................................................... 54

Il Clitofonte e il disimpegno educativo ............................................ 54

E’ necessario educare ....................................................................... 55

La tragica ironia manzoniana ........................................................... 55

ii

Non erigere un falso altare davanti al vero Dio

Introduzione

Se la pena di morte fosse un caso di morale imposto all'uomo da realtà esterne al suo essere, sa-rebbe, forse, di facile soluzione. In mancanza di altri strumenti si potrebbe sempre ricorrere a quellodella maggioranza, anche se la maggioranza non è mai criterio di verità. Ma poiché il caso dellapena di morte emerge dal di dentro della realtà uomo, ed è perciò più un franamento immanente alsuo sistema che un problema posto alla sua intelligenza, occorre chinare la testa e indagare, con a-more e sincerità, dentro al territorio uomo. Per facilitarci il compito proviamo, intanto a raccordareil diario di bordo di due grandi esploratori della natura umana, di Freud e di Platone. Oseremmo di-re: della psicologia e della filosofia, del passato e del futuro. A giudizio di Freud (a) sono due i fat-tori che ci rendono stranieri gli uni agli altri in questo mondo. Il primo fattore è la delusione provo-cata dalla guerra (b), il secondo è il nostro atteggiamento verso la morte. Perché i popoli e le nazio-ni, in guerra come in pace, si disprezzino, si odino, si detestino l'un l'altro è un vero mistero. Psica-naliticamente parlando siamo di fronte alla persistenza degli atteggiamenti psichici più primitivi,più antichi e più rozzi. Per quanto attiene alla morte c'è in noi la tendenza a eliminarla dalla vita,dalla nostra vita naturalmente. Per quanto attiene alla morte altrui, l'uomo civile evita di parlarnequando l'altro, appunto, è presente. Ma laddove l'uomo civile tace parla l'uomo primitivo. Costui, daun lato prendeva la morte sul serio, dall'altro lato la negava. La contraddizione era possibile perchéegli assumeva una posizione radicalmente diversa per la morte dell'estraneo e del nemico, dall'at-teggiamento che aveva nel confronti della propria morte. La morte altrui non presentava difficoltàperché era la distruzione dell'individuo odiato. Per Freud la cosidetta storia universale, che i nostrifigli imparano a scuola, non è altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli. “L'oscuro senso dicolpa che domina l'umanità fin dai tempi più antichi - egli dice - e che in varie religioni si è conso-lidato nell'idea di una colpa primordiale, di un peccato originale, è probabilmente la manifestazionedi un delitto di sangue (... ), un parricidio”. Atteso che per l'uomo primordiale la propria morte fos-se irrapresentabile e irreale quanto lo è oggi per ognuno di noi, vi era un caso in cui le due opposteconcezioni della morte venivano in contatto e in conflitto: quello in cui l'uomo delle origini vedevamorire uno dei suoi congiunti. Nel suo dolore doveva apprendere che anche noi possiamo moriregiacché ognuno di quel congiunti era parte del suo diletto lo. Ma d'altra parte questa stessa morte glistava bene perché ognuna di quelle persone amate era pure, per un certo verso, estranea. L'ambi-valenza della legge emotiva - ancora forte in noi - ammetteva che quei cari morti erano stati ancheestranei e nemici e che, come tali, avevano suscitato in lui sentimenti ostili. Da questo conflitto e-motivo è nata, per Freud, tutta la psicologia. Di fronte al cadavere della persona amata, l'uomo pri-mitivo immaginò gli spiriti e in quanto si sentiva colpevole per il senso di soddisfazione che si me-scolava al cordoglio, questi spiriti divennero demoni di cui si doveva aver paura. Di fronte al cada-vere della persona amata comincia a destarsi il primo e più importante imperativo della coscienzamorale: “Non uccidere”. Il quale imperativo fu esteso via via agli estranei e al nemico. Una proibi-zione così imperiosa, infatti, può essere rivolta solo contro un impulso altrettanto forte. Abbiamo,dunque, nel sangue la voglia di uccidere. Nei nostri moti inconsci sopprimiamo ogni giorno, ogniora, tutti coloro che ci sbarrano la via, chiunque ci abbia offeso e danneggiato. Freud, quasi a sug-gello delle sue riflessioni, cita qui il paradosso del “mandarino”. “Nel Père Goriot - egli dice - Bal-zac allude a un passo di un'opera di Rousseau in cui questi chiede al lettore quel che farebbe qualorapotesse, senza lasciar Parigi e senza venir scoperto, uccidere con un semplice atto di volontà unvecchio mandarino di Pechino. Rousseau lascia capire di non dare due soldi per la vita di questo di-gnitario. Dopo di allora “tuer son mandarin” (uccidere il proprio mandarino) è divenuta un'espres-sione proverbiale per indicare questa segreta prontezza a uccidere che si ritrova anche negli uominidei nostri giorni” (e).

iii

Platone, da parte sua, aveva già esplorato il paradosso del mandarino nel secondo libro della Re-pubblica e aveva negato la sua fiducia all'uomo storico così com'è. Dal dato di fatto che commettereingiustizia è per natura un bene, subirla un male e che v'è più male a subirla che bene a commetter-la, nasce l'accordo o patto sociale di non farsi a vicenda ingiustizia. Così le leggi hanno l'ingratocompito di fissare ciò che è “legittimo”. Per cui la giustizia sta in mezzo fra il meglio (poter com-mettere ingiustizia senza pagare la pena) e il peggio (ricevere ingiustizia senza potersi vendicare).Dunque, la signora giustizia non è amata come un bene ma è tenuta in onore perché manca la forzadi commettere ingiustizia. Questa catastrofica definizione della giustizia coinvolge la definizionedell'uomo a livello inconscio. Immaginiamo di concedere a tutti e due - al giusto e all'ingiusto stori-ci - di fare qualunque cosa vogliano, poi seguiamoli per vedere quale desiderio li guidi. Ebbene, ciaccadrà di cogliere il giusto nell'atto di dirigersi verso la stessa mèta dell'ingiusto, spinto dalla vo-glia di dominare gli altri: cosa che tutti, per natura, ricercano come un bene e da cui si astengonosolo perché la legge li,costringe a rispettare l'eguaglianza. Questa ipotesi ha la sua conferma in unepisodio leggendario che va sotto il nome di “anello di Gige”. A Gige, infatti, si offerse la possibi-lità di poter fare tutto ciò che voleva senza il timore di essere veduto o scoperto. Ecco come. Egliera pastore alle dipendenze di Candaule re di Lidia (d). Un giorno un nubifragio e una scossa tellu-rica squarciarono la crosta terrestre nel luogo dove egli stava pascolando l'armento. Discese, pienodi stupore, in quella voragine e di meraviglia in meraviglia arrivò a un cavallo di bronzo provvistodi aperture; vi si affacciò e vide giacervi un cadavere di proporzioni sovrumane che teneva in manoun anello d'oro. Gige prese quell'anello e tornò all'aperto. Attraverso una serie di constatazioni em-piriche scoperse che l'anello aveva una facoltà prodigiosa: quella di renderlo invisibile agli altriquando il suo castone era girato verso la sua persona, nella parte interna della mano. Gige brigò su-bito per essere uno dei messi da inviare al re per il resoconto annuale dei greggi e quando giunse dalui gli sedusse la moglie e, con l'aiuto di lei, lo assali e l'uccise. Cosi conquistò il potere. Supponia-mo ora - prosegue Platone - che ci siano due di tali anelli, e che l'uno se lo infili il giusto e l'altrol'ingiusto. Ebbene, nessuno sarebbe tanto adamantino da restare giusto e da avere la forza di aste-nersi dal toccare la roba altrui, quando gli si offrisse l'opportunità di rubare, di entrare nelle case, diunirsi con chi volesse, di ammazzare, di liberare dalle catene chi desiderasse e di fare ogni cosa co-me un dio tra gli uomini. Ambedue moverebbero alla stessa mèta! Questa è la prova decisiva chenessuno è giusto di proposito e ciò perché nessuno considera un bene la giustizia. Privatamente ogniuomo giudica assai più vantaggiosa l'ingiustizia che la giustizia. Supponiamo, ora, che uno dispon-ga della facoltà di cui dispose Gige e non consenta mai a commettere una ingiustizia. Quanti venis-sero a saperlo lo giudicherebbero ben disgraziato e sciocco. Eppure nei loro conversari lo lodereb-bero, pronti però a ingannarsi l'un l'altro, tanta è la paura di soffrire una ingiustizia. Supponiamo,infine, che i due anelli siano stati infilati da un vero giusto e da un vero ingiusto. Tenendoli ben se-parati nelle loro scelte, potremo dare un giudizio sulla loro vita. Criterio sovrano della nostra ricercasarà quello di considerarli ambedue perfetti nel loro sistema di vita. E anzitutto lasciamo che l'in-giusto attenda ai propri atti d'ingiustizia con la preoccupazione di non farsi scoprire. Il colmo del-l'ingiustizia, infatti, consiste nel dare l'impressione di essere giusto senza esserlo. Dobbiamo per-mettere all'ingiusto di essere tale al più alto grado e di procurarsi nel contempo la più alta fama diuomo giusto. Lasciamogli usare oratoria e violenza, appoggio di amici e di danaro, per esercitarepersuasione, per corrompere, per coprire. Di fronte mettiamo, ora, il giusto, uomo semplice e d'ani-mo nobile, che non voglia sembrare ma essere onesto. Non deve sembrare giusto, del resto riceveràonori e doni a motivo di ciò. Di tutto dobbiamo spogliarlo fuorché della giustizia e dobbiamo porlonella condizione opposta del primo, tanto che abbia la maggior fama d'ingiusto senza commettereingiustizia. Proceda incrollabile sino alla morte e dia pure l'impressione per tutta la vita di essere in-giusto anche se in realtà è giusto, affinché giunti i due al limite estremo della giustizia e dell'ingiu-stizia sì possa giudicare chi di loro è più felice. Non ci sono dubbi: se così è, il (giusto verrà flagel-lato, torturato, gettato in ceppi, avrà bruciati gli occhi e, infine, dopo aver sofferto ogni sorta di ma-li, sarà crocifisso (e).

iv

La tesi di Platone sembra essere questa: sul piano storico il giusto ha e avrà sempre la peggio. Persanare questo mostruoso dato di fatto occorre costruire, a colpi di buona educazione e di buone leg-gi una “repubblica” in cui il giusto possa trovarsi e sentirsi a casa sua. Ed è appunto questo il tenta-tivo perseguito da Platone mediante il rigoroso controllo delle nascite e dell'educazione messo inatto dai giudici e dai medici (f). Oppure occorre chiamare a raccolta i giusti, originati dalla mtànoianella Eccklesia. Ed è stato questo il tentativo di Cristo. Con il rigoroso e volontario controllo suimovimenti della soggettività, per il tramite della “confessione pubblica, la Eccklesia potrà mostrareal mondo in che cosa consista la salvezza portata nella storia da un Messaggio ultrastorico. Ma nellamisura in cui, la Eccklsìa concepita da Cristo, si trasforma in una clinica spirituale per pacificare lecoscienze che aspirano alla felicità ultraterrena senza attuare la giustizia fra loro, il Messaggio diCristo non potrà mai più sanare i rapporti socio-economici quaggiù sulla terra. L'uomo, infatti, sem-bra più proclive a volersi sentire accarezzare da una “religione” che scuotere nel profondo dalla ri-nascita spirituale predicata e richiesta da Cristo. L'uomo religioso, anzi, piuttosto che fare la giusti-zia quaggiù dice che la Fede consiste nel credere che l'avremo soltanto lassù. Egli ha torto ma chipuò correggere un atto di fede che non è Fede? Diciamolo con chiarezza: i buoni - se ve ne sono almondo - potranno cessare il lamento contro i cattivi - e ve ne sono sicuramente al mondo - soltantose faranno Eccklesìa fra di loro. Del resto la loro sorte terrena è segnata: faranno società religiosacostellata di riti e di cerimonie, di gerarchie e di gruppi legiferanti e asserenti verità eterne, or pat-teggiando or facendo le vittime nei confronti delle potenze terrene, ma nulla muterà quaggiù neirapporti fra uomo e uomo e intatte resteranno le fabbriche dei cattivi, ed essi, i buoni, con stuporereciproco, continueranno a scaricare la colpa delle ingiustizie terrene sui cattivi, di cui proporranno,almeno in cuor loro, l'uccisione e lo sterminio, pensando di essere i soli esemplari umani degni dimorire di vecchiaia.

Note

(a) Cf. Considerazioni attuali sulla guerra e la morte 1915, p. 15 e ss., in Perché la guerra?, Borin-ghieri, Torino 1975.

(b) Freud si riferisce, in ispecie, alla prima guerra mondiale.(c) Per l'esattezza riportiamo il passo del Père Goriot: Rastignac incontra il suo amico Bianchon nel

giardino del Lussemburgo. “E perché quest'aria grave?” gli domandò lo studente in medicina,prendendolo sotto il braccio per passeggiare insieme dinanzi al palazzo. “Sono tormentato dabrutte idee”. “Di qual genere? Ma dalle idee si guarisce”. “E come?” “Soccombendovi!”. “Turidi senza sapere di che si tratta. Hai letto “Rousseau?” “Si”. “Ti ricordi di quel punto in cui e-gli domanda al lettore ciò che farebbe nel caso in cui potesse arricchirsi uccidendo in Cina,con la sola volontà, un vecchio mandarino, senza muoversi da Parigi?”. “Sì. Ebbene?”. “Ma,io sono al trentatreesimo mandarino”. Freud cita Balzac fidandosi, acriticamente, dell'attribu-zione del passo. Se consultiamo, infatti, il grande dizionario Larousse, alla voce “mandarin”(nella espressione le bouton du mandarin o tuer le mandarin) troviamo che il paradosso fu at-tribuito, a torto, sia a Rousseau sia a Chateaubriand. Sotto il profilo psicanalitico è forse inte-ressante sottolineare il fatto che Balzac, romanziere peraltro, ritenga l'episodio degno dellafirma di Rousseau, e anche il fatto che Freud aggiunga questa postilla: “Rousseau lascia capiredi non dare due soldi per la vita di questo dignitario”.

(d) Cf. l'episodio, in altra versione, in Erodoto (Storie, L. I, c. II) e anche in Cicerone (I doveri, L.III, 38) che, tra l'altro, si dimostra un poco risentito.

(e) Roussean allude a questo passo nella Professione di fede del Vicario (Emilio, L. IV) e dice chePlatone, descrivendo il giusto immagi-nario, descrive fedelmente Gesù Cristo. Ma Rousseauallude altresì all'anello di Gige ne Les réveries du promeneur solitaire (sesta promenade). A-scoltiamolo e capiremo perché Balzac può avergli attribuito il paradosso del “mandarino”. “Se

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fossi rimasto libero, oscuro, isolato - ed ero fatto per restare tale - avrei fatto soltanto del bene,perché non ho nel cuore il germe di alcuna passione nociva. Se fossi stato invisibile e onnipo-tente come Dio, sarei stato benefico e buono come lui. La forza e la libertà fanno gli uominieccellenti; la debolezza e la schiavitù hanno sempre fatto soltanto dei cattivi. Se avessi posse-duto l'anello di Gige, esso mi avrebbe sottratto alla dipendenza degli uomini e li avrebbe messisotto la mia. Mi sono spesso chiesto, nel far i miei castelli in aria, quale uso avrei fatto diquell'anello, poiché accanto al potere c’è purtroppo la tentazione d'abusarne”. Rousseau ab-bozza qui il panegirico della sua indole buona e altruista e il lettore potrà udirne tutte le sfu-mature leggendo il testo completo. Ma poi, tornando al punto dolente, si rimette in linea con ladiagnosi platonica. “Non c'è che un sol punto - egli continua - sul quale la facoltà di penetrareda per tutto invisibile avrebbe potuto far nascere velleità, alle quali a stento avrei resistito; eentrato una volta in questi traviamenti, nessuno può dire dove avrebbero finito per condurmi.Conosce male la natura umana e la mia stessa indole chi sostenesse per lusingarmi che non sa-rei stato sedotto da questa facilità d'errore e quanto meno che la ragione mi avrebbe arrestatosu quella china fatale. Sicuro di me sotto ogni altro aspetto sento che sarei stato perduto sola-mente da quella attrazione. Colui, che la potenza mette al disopra dell'uomo, deve essere al di-sopra delle debolezze dell'umanità, senza di che quell'eccesso di forza non servirà che a met-terlo, di fatto, al disotto degli altri e di quel che sarebbe stato egli stesso, qualora fosse restatoloro eguale. Tutto ben considerato credo che farei meglio a buttar via il mio anello magicoprima che m'abbia fatto commettere qualche sciocchezza”.

(f) Mentre la Repubblica di Platone resta, insieme, e l'atto di accusa alla Polis storica, che in nomedella santità delle sue leggi ha ucciso il più giusto degli uomini (Socrate), e il tentativo di cre-arne una ad essa alternativa; tutti i movimenti socialisti cercano un tipo di Stato in cui i lavo-ratori (o la classe operaia) abbia il potere (la fonte di tutte le tentazioni). Platone è ancora daattuare e resta una utopia; ma laddove il socialismo è realtà si è esattamente costituita la Re-pubblica platonica, in cui, cioè, i politici (pilotati dal partito) comandano, gli operai e i conta-dini lavorano, i militari difendono.

L’autore

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Parte prima

Il dibattito storico

Capitolo 1

Ohè, montoni, date una manoal Pastore che cerca la smarrita.

L’ovile non è gratuito dovenessuno nasce“agnello”

Approccio al tema

Il problema della “pena di morte” nasce quando nasce l'omicidio. E l'omicidio nasce nell'hu-mus del disimpegno educativo. La società deve sempre discutere il problema della pena di morte - ocomunque della “delinquenza” - perché non vuole discutere problemi più delicati e più veri, come ilcontrollo dell'apparecchio psichico e lo sviluppo dei suoi contenuti nella interiorità del bambino, delfanciullo, del giovane.

Freud può spalancare tutte le segrete dell'inconscio senza violare la intimità, perché, pur non a-vendo alcuna fiducia nell'uomo, lo libera sostanzialmente dalla responsabilità di attuare un suo do-ver essere. Cristo che, invece, mostra nel cuore dell'uomo - l'area della libertà creata - l'officina ditutti i mali del mondo, è un rigido moralista perché accusa direttamente l'uomo e la sua libertà! Unasocietà in cui la legge protegge l'egoismo privato non deve meravigliarsi se è costretta a fare i conticon le forme più ardite di delinquenza. Qualche pio credente - più pio che credente - vorrebbe cheDio sterminasse i “cattivi”, come se fosse Dio a produrli. Dio, semmai, tenterà dì salvarli a dispettodella società che li genera, li alleva, li celebra. Quando lo stomaco di una società è pieno di cam-melli, il diritto e la religione sono costretti a colare il moscerino. I cammelli sono tutte le follie del-l'inconscio freudiano accondiscese, il moscerino si identifica con il quesito farisaico: “Pena di morteo no?”.

Il famoso padre Eligio - cui piacciono più Le Vacche che i cammelli - all'indirizzo dei rapimentiha dichiarato: “Il rimedio per impedire alla delinquenza di prosperare è semplice e drastico: la miaproposta è la pena di morte. Ma non quella tradizionale, bensì fatta precedere da una tortura cinesedella durata di ventiquattr'ore”. E questo - crediamo - il tipico atteggiamento dell'anti-profeta total-mente assimilato a un sistema di cui vuole essere il solo privilegiato e indisturbato saccheggiatore.

Gesù, tuttavia, ama tenere un'altra strada. Egli, per esempio, è il solo che si interessa alla smarritamentre le novantanove non arrivano a percepire tutte le conseguenze di quel dramma singolo. Egli,infatti, sa che mancando ad essa l'assistenza pedagogica si tramuterà, a furia di vivere nella solitudi-ne del deserto, in un lupo rapace. E nei confronti di un lupo, quale altra logica resta da scandire al-l'infuori della battuta di caccia? (1).

Curioso il fatto che Cristo venga rimproverato dai suoi contemporanei di volersi applicare allosforzo pedagogico oltre le sanzioni della legge e della cultura. Chi accoglie e ascolta i peccatori emangia con loro si muove sicuramente nell'ambiguità; ma Gesù oltreché - anzi, più che - rivolgersiai delinquenti che usano il pugnale (pecore diventate lupi forse per colpa dei lupi vestiti da agnelli),si rivolge a quel delinquenti travestiti da galantuomini che, dentro al sistema, sotto l'ombrello deldiritto, senza violare la lettera delle leggi scritte, galoppano nel sociale a guisa di satiri il cui cer-vello è tutto intonacato con i principi economici del “sistema di libertà naturale” di Adamo Smith,

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mescolati al sofisma etico dei “vizi privati pubblici benefici” di Bernardo de Mandeville. Costoro,ahimè, vanno seminando delinquenza potenziale nel cuore delle giovani e indifese generazioni; eproprio per loro Gesù ipotizza - e l'ipotesi pur essendo cocentemente pedagogica non è per nullagiuridica - la pena di morte. “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono - Egli dice ai disce-poli che stanno irrigidendosi sul piano ideologico per stabilire integralisticamente il versante deibuoni e dei cattivi è meglio per lui che gli si metta una macina girata da asino al collo e venga sca-raventato in mare” (Me 9, 42). Gesù viene a dire che la società, dovendo istituire la pena di morteper necessità sociologica, fallisce il bersaglio. Esprimendoci per paradosso, potremmo affermareche il delinquente istituisce la pena di morte o il ricatto mortale per la gente bene perché la gentebene non ha saputo (o voluto) nullificarne la nascita, controllando l'espansione del proprio egoismo.Ma procediamo con ordine perché lungo e articolato è il discorso.

La lezione biblica

Il racconto biblico delle origini, più che contenere dei fatti storici singolarmente individuati, con-tiene delle analisi strutturali che riguardano l'uomo in assoluto, indipendentemente dal ritmo delleciviltà e delle culture. Ebbene il primo figlio di Eva è Caino. Partorito che lo ebbe, disse: “Ho ac-quistato un uomo dal Signore!”. Nell'atto in cui attribuisce l'evento straordinario a Dio, sembra qua-si sottrarsi alla dipendenza di Adamo. Eva sembra più “religiosa” di Adamo perché sente come ilsegreto bisogno di allearsi con Qualcuno più potente di Adamo che la sottragga alla legge“naturale” del più forte. Dio è, ora, la salvezza nella miseria perché non fu un ideale amato nell'E-den e la libertà della creatura, pur essendo orientata alla verità, è già condizionata da uno sconvol-gimento iniziale di cui l'Adam (maschio e femmina) non ha più viva memoria.

Quando la salute è perduta non è più né “naturale” né gratuita e occorre gestirla con un qualcheintervento. Caino era la salute perduta, bisognava curarlo e assisterlo in quanto frutto ambiguo. Unuomo è un grande acquisto per coltivare e dominare la terra ma è solo una speranza. Poi Eva - forsein una fase di maggiore consapevolezza “religiosa” - partorì anche Abele, vale a dire una secondasperanza. Che Caino fosse “lavoratore del suolo” e Abele “pastore di greggi”, denota una divisionedel lavoro liberamente assunta o imposta dall'educazione e dall'incipiente modello sociale? “Dopoun certo tempo - prosegue il Genesi - Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore”. Comemai, dopo un certo tempo? Forse a motivo di un intervento educativo della famiglia? Da tutto ilcontesto appare che Caino non è religioso per convinzione ma solo per obbedienza. Nessuno puòpenetrare nel mistero della sua interiorità, la sua malattia è profonda, ma per guarirla si rischia diviolare i cosiddetti “diritti civili”, le “libertà fondamentali” e, ahinoi, il pluralismo. Doveva Abelecessare, lui pure, l'offerta rituale a Dio? Doveva cessare Eva di esortare Caino ad essere pio? E se ilragazzo si fosse sentito imporre - mediante una costrizione psicologica - il ruolo di agricoltore?Nessuno al mondo può guarire una carie sociale di questa portata. In tutta la vicenda il meno plura-lista è Dio perché gradì Abele e la sua offerta mentre non gradi né Caino né la sua offerta. Rimandial contesto socio-pedagogico non ne esistono. Caino è una matassa che s'è arruffata con le propriemani dopo aver perduto progressivamente i contatti con l'altro. Ma l'occhio di Dio segue l'involu-zione del profondo di Caino in Caino stesso e dopo aver discriminato fra ciò che è gradito e nongradito, entra quasi d'impeto nel santuario del suo io e tenta il salvataggio laddove né il fratello né igenitori riescono più a vedere per inesperienza o per incapacità: “Perché sei irritato e perché è ab-battuto il tuo volto? - domanda Dio e prosegue - Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma senon agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominar-lo”.

L'occhio di Dio che scopre la sua irritazione lo irrita così come irriterà Nietzsche e Sartre. Una co-scienza dissestata per propria colpa trasforma la luce in tenebra. Caino invita in campagna il fratelloe alza la mano galeotta. La lezione sembra chiara: il malvagio non solo rifiuta i giudici ma anche ipedagoghi e perfino la discriminazione fra bene e male. Caino, eliminando Abele, pensava forse diannullare il dislivello concettuale esistente fra omicidio e rispetto della vita, per restare arbitro in-

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sindacabile del campo etico. Ai due genitori sfugge, forse, la totalità del dramma del figlio perchénon avevano sufficientemente riflettuto sul loro stesso dramma. Adamo era stato chiamatoda Dio perché già alienato da se stesso (“Adamo dove sei?”), Caino è alienato dal fratello (“Dov'èAbele, tuo fratello?”). Adamo si nasconde al dialogo con Dio, Caino dice di non sapere più dove èAbele, adducendo il sofisma della “custodia”.

Da un lato la Bibbia vuol dire che Caino - il primo frutto dell'Adam post-edenico - è bacato e dal-l'altro lato vuol sottolineare che la colpevolezza è sempre dell'io, indipendentemente dal contestosociale. Il male affonda, in ultima istanza, le radici nell'io anche se è vero che l'io è pesantementeesposto agli influssi negativi degli altri io. “Il male cominciando crea un piccolo modello” dice latacchina di Chantecler di Rostand. E Gesù quasi con formula scientifica: “E’ inevitabile che avven-gano scandali ma guai a colui per cui avvengono. E’ meglio per lui che gli sia messa al collo unapietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli”(Lc17,1). Nell'ordine del puro immanentismo naturalistico è inevitabile - è cioè di necessità socio-logica - che avvengano scandali; ma sul piano della responsabilità l'accusato è sempre l'individuoperché, nella visione di Gesù, solo l’individuo-persona è capace di metànoia (2).

L'impresa “razionalistica” di Caino proclama all'universo che nell'uomo naturale esiste una com-ponente “irrazionale” protesa verso una illimitata espansione della propria libertà - è il momentodionisiaco dell'etica niciana - anche a costo della distruzione e del caos. Mentre il sacrificio delsanto Abele si presenta come il momento “razionale” dell'uomo che ha saputo finalizzare le realtàterrestri a Dio perché in Lui ha trovato il suo equilibrio e la sua maturità.

Caino tenta, dunque, di annullare Abele perché non può sopportare che vi sia distinzione alcunafra storia e verità (3). Dio lo maledice - emette un giudizio totalmente negativo sul suo gesto - manon lo uccide. Caino riconosce la propria colpa e si ritiene degno della pena di morte: pensa cioèche chi lo incontrerà lo ucciderà. A questo punto Dio interviene ancora per proteggerlo contro lavendetta dei facili vendicatori, pronti a iniziare una catena di morte e non di salvezza. Ognuno, tut-tavia, avverte che se Dio è salvatore perché vieta di colpire Caino, sarebbe diabolico Caino se neprofittasse per continuare a uccidere. Ed è anche bene precisare che è contro la pena di morte tantoil cristiano cui preme la salvezza del peccatore, quanto colui che vuole praticarla senza limite alcu-no.

E’noto l’episodio dell’usuraio milanese che scongiurò S. Bernardino da Siena di tuonare control’usura nella speranza di restare lui solo a praticarla. Non a caso la Bibbia sottolinea il fatto che icainiti benché stigmatizzati da Dio e da Lui formalmente lontani - conseguano grandi risultati nellacultura “profana”. Caino, o almeno Enoc suo figlio, il costruttore della prima città. Dunque ancheun omicida può fare qualcosa di buono, non importa se accompagnato dalla decadenza morale, co-me nel caso di Lamec che introduce la poligamia (4).

Note

(1) G. Schwartzemberg su Le Monde del 23-10-75 ha scritto. “Una società che accusa i suoi giovanidi tutti i mali, li tratta come nemici interiori, è una società morta”. K. Lorenz afferma che è er-ronea dottrina pseudo-democratica credere che “la struttura di ogni comportamento umano -sia esso di origine educativa o genetica - possa essere condizionata, e quindi possa venire illi-mitatamente mutata e corretta”. Chi lo crede “incorre in grave colpa verso la comunità umana”(cf. Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi 1974, p. 78). Lorenz vuol forse direelle esiste una soglia di abuso di se stessi, oltrepassata la quale tutto è perduto alla maniera diGiuda. Ciò spiega l'affanno pedagogico del Buon Pastore ad evitare che un semplice smarri-mento faccia di un uomo un non-uomo.

(2) Il Talmud in un qualche luogo dice che Dio ha creato la cattiva inclinazione e poi la legge comerimedio. Alcuni testi arrivano perfino ad affermare che la conoscenza della Legge è operante

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anche nell'al di là; per cui il fuoco infernale non ha potere su uno scriba. E questa una manieraassai elegante per scaricare il barile fuori dell'uomo e per mettere al sicuro, con amminicolirituali, una classe di persone! Per quanto attiene al potere di liberarsi e di redimersi è inveceassai felice la parabola haggadica dei giusti e dei malvagi, che nel giorno del giudizio vedran-no da vicino la fatidica cattiva inclinazione. Ai primi essa si mostrerà alta e massiccia come u-na montagna e diranno piangendo: “Come abbiamo fatto a vincerla?”. Ai secondi appariràsottile e fragile come un capello e piangendo ripeteranno a se stessi: “Come abbiamo fatto anon vincerla?”.

(3) C’è chi ha visto, nel rapporto Caino-Abele una ragione dialettica utile a indagare i comporta-menti individuali-sociali. Il loro etimo già declama una struttura in cui troviamo il possidentee il nullatenente. Caino possiede un capitale, Abele è semplice proprietario di reddito. Abelepossiede tuttavia ciò che Caino non ha: l'arte della preghiera e della profezia - l'arte del poietès-, l'arte della coerenza fra pensiero e azione. E ciò lo rende gradito a colui che è il Tutto, aDio. Caino sento sfuggire qualcosa alla sua padronanza, la coscienza di Abele, e non potendosottometterla tenta di sopprimerla. “La chiesa cattolica - ha scritto Simona Weil - essendoquaggiù la messaggera del Tutto, non ha bisogno di essere totalitaria”.

(4) S.Agostino, nella sua formulazione politica del peccato originale, afferma che “Caino appartienealla città degli uomini, Abele, alla città di Dio; il primo fondò una città, il secondo, come no-made, non la fondò” (De civ., XV, I). Caino è il simbolo della libido, Abele della caritas. Lacaritas è sempre soccombente finché non si fa eccklesìa non solo nella “preghiera” ma anchenel rapporto “lavoro-capitale”. Caino potrà essere vendicato solo quando gli Abeli gli avrannocreato attorno una fascia di luce e si saranno sottratti al fascino di un attivismo in cui al-l’attività contemplativa preparatoria della prassi s’è sostituita una economia che fa morir difame l’homo economicus.

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Capitolo 2

Natura e Razionalità

Se il pensiero di Dio si configura, nel Genesi, come ostile alla pena di morte giuridicamenteintesa, il fare gli uomini mortali - anche sorvolando sul fatto che l’uomo ha scelto volontariamentela morte fisica - non è la stessa cosa che uccidere per punire l’omicidio. Ci sembra questol’equivoco in cui è caduto Giuseppe Prezzolini (5). Egli difende la pena di morte cominciando coldire che Dio “ci ha fatti tutti mortali”, a significare che “dopo tutto, la vita non era per lui cosa sa-cra”. A nostro giudizio la vita, per Dio, era tanto sacra che aveva messo in giro - con una raccoman-dazione ben precisa - i segnali di pericolo per un Adam molto intelligente ma privo di esperienza.Prezzolini presuppone, erroneamente, che l’espressione “fare tutti mortali” sia sinonimo del verbouccidere.

Se badiamo alla dinamica del messaggio biblico la morte si presenta come uno status - potremmodire: come una maniera di chiudere la vita - scaturito da un certo uso che l’uomo ha voluto faredella sua libertà. La sacertà della vita risulta appunto dal fatto che la sua amministrazione totale cisfugge, forse per rammentarci che dobbiamo solo promuoverla, curarla, difenderla. Il fatidico mortemorieris non è un comando ma una constatazione e rappresenta una semplice differenza specifica.Fra i tanti modi possibili di “morire” (di chiudere la vita), l’uomo ha scelto di morire mediante la“morte”.

Si potrebbe, infine, osservare che la morte sarebbe tragica soltanto nel pensiero se non fosse ge-neralmente accompagnata da malattie a volte incolpevoli e a volte frutto di vizio nel senso più ge-nerico della parola (6). Nel discorso di Prezzolini Dio è preso ora come punto di riferimento insin-dacabile e ora come intelligenza un po’ troppo gelosa dei suoi quia e dei suoi cur. Prezzolini, peres., non capisce perché la morte tocchi gli individui senza alcun riguardo alla loro posizione e al lo-ro valore. Come se posizioni e valori, per Dio, fossero quelli elencati da Prezzolini; e come se questiindividui potessero accampare diritti speciali sulla durata della vita.

Il cristiano maturo non è nemmeno sfiorato dalla tentazione, per es., di pregare per non morire esa che la sua Fede - la cui specificità consiste nel rinnovare i rapporti umani - non lo esenta in nulladalla condizione umana. Egli sa molto bene che l’uomo è condannato a morte perché si è condan-nato a morte; e sa molto bene altresì che Cristo lo risuscita per la vita eterna. Il cristiano maturo, i-noltre, non dimentica mai che quel medesimo Cristo che gli dice di tenersi pronto a stretto giro diistante, lo sollecita a trafficare i talenti e a diventare perfetto come il Padre (7).

Se poi si passa alla natura, Prezzolini vede in essa una insanabile antinomia fra creazione e di-struzione. Egli scandisce una canzone troppo volgare, ahimè, per meritare la qualifica di umoristica.Dice infatti: “Ogni razza di animali uccide e divora quelle meno forti. E le meno forti si servonocome di cibo delle più deboli”. E ciò dimostra - sempre nell’ottica di Prezzolini - che “la storia dellanatura è una epopea di morti”. Ma il vegetariano e/o carnivoro Prezzolini si è mai chiesto seria-mente perché è arrivato alla sua bella e invidiabile età? Lasciamo sospeso il concorso di un Dio col-pevole di troppe cose “brutte”, ma certo non possiamo ignorare che ciò è accaduto anche perché e-gli ha mangiato e distrutto, per i suoi bisogni, animali e vegetali più piccoli o più deboli di lui!

Se l’homo sapiens riconosce che il creato è principalmente finalizzato al suo sostentamento ed è,globalmente parlando, a suo servizio, gli conviene procedere con molta cautela (caute! era persino ilmotto di un filosofo incauto come Spinoza) nell’emettere giudizi morali sulla struttura della realtà.Se poi l’homo sapiens ritiene di dover trovare in se stesso o nell’umanità la radice ultima del reale,allora, nell’ipotesi che il mondo fisico gli sembri mal strutturato, insegni lui la sua morale ai pescigrandi - e/o faccia nascere tutti i pesci uguali! - oppure fornisca una spiegazione dei fatti che appa-ghi sino in fondo la specie più delicata dei teneri di cuore (8).

Non è la prima volta che il pensiero umano interviene per dare o per trovare una spiegazione ai

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fatti. Averroè, per es., dice che Dio crea il bene per il bene e il male per il bene che vi è congiunto.E spiega poi l’esistenza del male morale nel mondo - rappresentato in concreto dai “malvagi” - inbase alla nozione aristotelica che la natura di ogni specie esige che la maggioranza degli individuisegua la norma generale e una minoranza non la segua. Per cui, la presenza di un numero esiguo diuomini malvagi è necessaria affinché la maggioranza degli uomini buoni possa esistere. Come sivede, la razionalità umana, applicata alla “irrazionalità” dei fatti, in questo caso, costruisce una let-tura del reale che giustifica anche l’assassinio di Cristina Mazzotti.

Dopo aver guardato in bocca alla natura, Prezzolino guarda in bocca ai governi. Ma occorre su-bito precisare che tra la bocca della natura e la bocca dei governi esiste una sostanziale differenza;perché mentre la prima non è opera dell’ingegno umano, i secondi, ahinoi, escono dalle officinedella razionalità umana. Se nei confronti della natura Prezzolini ha tentato l’ironia teologica, neiconfronti dei governi utilizza la satira filosofica. “Parecchi di essi — egli incalza — hanno abolito,almeno per alcuni delitti, la pena di morte. Ma non c’è un sol governo il quale non abbia un eserci-to, il quale, naturalmente non viene istruito nell’arte di dare la vita e di mantenerla, ma in quella disopprimerla nei nemici”.

Prezzolini viene a dire che i governi hanno abolito una piccola ghigliottina in casa propria, ma netengono lubrificata una potenzialmente assai più grande e temibile per la sorte del genere umano. Lai azionalità della diagnosi è totale. Gesù avrebbe detto: “Ipocriti, colate il moscerino e divorate ilcammello”. Senonché resta sospesa la conclusione impeccabilmente logica del discorso. Prezzolini,infatti, sembra voglia coerenti i governi nel primo versante perché vuole il ripristino della pena dimorte e/o perché, forse, non osa toccare il binomio governoesercito, coessenziale al concetto diStato nazionale. Ebbene, proprio su questo nodo emerge il filum dello storicismo hegeliano di cuiPrezzolini ci sembra vittima illustre e inconsapevole.

Note

(5) Ci riferiamo all’accorata Lettera agli amici contrari alla pena di morte pubblicata sul Resto delCarlino del 16-9-1975 e all’articolo, apparso sullo stesso giornale del 4-9-1975, nel qualePrezzolini - fremente di orrore per la morte inflitta a Cristina Mazzotti - proponeva il ripristinodella pena di morte.

(6) Due limiti che il cristiano maturo può e deve combattere sia vivendo razionalmente (“ Il corpovale più del cibo”) sia coltivando, con impegno religioso, la ricerca scientifica. Nessuno, in-fatti, più del cristiano deve sentirsi mobilitato contro il peccato e contro le conseguenze delpeccato.

(7) Simona Weil - questa non-cristiana cristiana che va cercando il “patto originario fra lo spirito eil mondo della civiltà,” e che va sospingendo i non-credenti alle fonti della verità cristiana - hascritto: “Nessun avvenimento è un dono di Dio, eccetto la grazia (.. .). Essere innocente vuoldire sopportare il peso dell’intero universo. Vuol dire gettare il contrappeso, dunque la purez-za non abolisce la sofferenza, anzi la scava infinitamente ma le dà un significato eterno (...).Lagrandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio sovranna-turale alla sofferenza bensì un impiego sovrannaturale della sofferenza” (cfr. L’ombra e lagrazia).

(8) Beniamino Franklin, dopo aver assistito a una abbondante pesca di merluzzi, concluse così ildramma teologico dei pesci grandi che mangiano i pesci piccoli: “lo avevo sino a quel mo-mento perseverato nella mia risoluzione di non mangiar nulla di ciò che avesse avuto vita; e,conformemente alle massime del mio maestro Tryon, riguardai quella pesca come una speciedi assassinio (...) ma quando quei merluzzi furono portati dalla padella in tavola, mandavanoun odore che faceva gola. Esitai qualche poco tra i miei principi e l’appetito. Sovvenendomi,però, che quando quei pesci erano stati sparati, nel loro stomaco s’eran trovati parecchi pe-

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sciolini, dissi tra me: “Oh, se voi vi mangiate così l’un l’altro, io non vedo il perché noi non vimangeremo”. Per cui, messo da parte ogni scrupolo, me ne feci una scorpacciata, e continuai amangiare come gli altri, solo ritornando di tempo in tempo, così per vaghezza, alla dieta ve-getale”. Franklin ha tuttavia il buon senso di aggiungere questa osservazione al suo racconto:“Quanto riesce comodo il saper mostrarsi un animale razionale, che conosce o sa inventare unpretesto plausibile per tutto ciò che non ha voglia di fare” (cf. Autobiografia). Il romanziere eapologeta Roberto Ugo J3enson, invece, ha lumeggiato con rara efficacia questo tema e sottoil profilo teologico. “La natura - egli dice - esiste nella sua totalità per il principio della reci-proca sofferenza; rifiutare il Cristianesimo perché si giudica ingiusta la sua dottrina sul doloree cercare pace e tranquillità nel canto degli uccelli e nel germogliare dei fiori è, quasi letteral-mente, come cadere dalla padella nelle brace. Perché la padella, si può dire, si sforza in certomodo di usare del fuoco intelligentemente, mentre il fuoco, in tal caso, solo distrugge. Il Cri-stianesimo, a ogni modo, si sforza di affrontare i fatti e interpretarli, la natura presenta gli stes-si fatti senza interpretazioni. Il laniere crocifigge la sua preda ancor viva; i fiori germoglianosulla corruzione; il pettirosso uccide i suoi genitori; ogni vita incomincia con i dolori del partoe continua soltanto sulla morte di elementi dell’essere che vive. L’uomo si nutre di animali; lebestie di erba, e le erbe di minerali. Siano o meno di nostro piacimento, questi sono fatti. E ilCristianesimo ci incoraggia a guardarli ben di fronte, e a dire che i minerali perdono il loro es-sere per mantenere in vita le piante, le piante per gli animali, gli animali per l’uomo. Il Cri-stianesimo va oltre e compie il ciclo dandoci ragione di credere che l’uomo, soffrendo, si ele-va, e ascende fino a “partecipare della divina natura” dalla quale tutto procede. Se allora questifatti sono contrari alle nostre idee di giustizia, noi dovremmo prima correggere tali nostre idee- che sarebbero niente meno che contrarie alla vita - della religione e della natura” (cf. Cristonella chiesa, Morcelliana, 1936, p. 133 e s.).

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Capitolo 3

Storicismo e profezia

E che cosa dicevano i seguaci dello storicismo hegeliano di un secolo fa? (9). “E oramai unsecolo dacché la proposta di Beccaria sta dinanzi agli occhi del mondo, promossa da associazioni eda scritti in tutta l’Europa e nondimeno le nazioni che rappresentano lo spirito vivente della storial’hanno respinta. Ciò non decide è vero, ma ciò che decide è la storia da un lato, la ragionedall’altro.

Togliendo la pena di morte il passato non può spiegarsi. Socrate che non beve la cicuta non è piùun eroe dell’umanità. Cristo senza la croce non è il redentore del genere umano. La Rivoluzionefrancese non avrebbe rigenerato il mondo”. Come se Socrate e Cristo fossero rispettivamente eroel’uno e salvatore l’altro a causa della pena di morte. Come se la ghigliottina, ahimé, non avesse po-sto fine allo sviluppo totale della Rivoluzione francese.

Se il progresso passa attraverso la pena di morte anche l’uccisione di Abele può trovare dei con-sensi. Per lo storicismo hegeliano da Dio viene la vita e anche la morte. Se tutto concorre al compi-mento dei fini dell’universo ogni forma di morte è egualmente legittima, naturale e necessaria. Lanatura - che spande con larga mano la morte come la vita - non guarda ai mezzi e così lo stato ha ildovere di mandare a morte i figli in guerra. E dunque la morte in guerra non è violenta perché morirbisogna. La stessa guerra, anzi, è un diritto-dovere inerente alla costituzione intima della vita dellenazioni, le quali non devono poter costituirsi a vivere se non assaggiando, di tempo in tempo, lecarni e le ossa dell’una e dell’altra. Solo così si attua il perpetuo divenire. Le guerre stanno alla sto-ria dell’uomo come il vento e le burrasche al mare: purificano e rinnovano. Il Dio degli eserciti di-venta un momento razionale nell’economia dell’universo.

Per lo stesso motivo, forse, la pena di morte non è né barbara né sbagliata ma attinge la vera feli-cità sociale che è quella, appunto, di tentare la “società dei buoni” (10).

Giuseppe Prezzolini, per dimostrare che non è riuscito a scoprire perché la vita è sacra, ha chia-mato in causa Dio, la natura, i governi e, infine, chiama in causa la Chiesa. Essa dice che la vita èsacra, mentre “la sua storia - sottolinea Prezzolini - è piena di battaglie combattute contro coloroche non erano cristiani o che credevano in Cristo in un altro modo; e, come tutti sanno, ha fatto bru-ciare Giordano Bruno, e altre migliaia di eretici”. Non si avvede Prezzolini che il modo di ragionaredei teologi e dei moralisti (di quella chiesa) era tutto prezzoliniano?

Ma stringiamo il discorso e domandiamo: Prezzolini approva o disapprova quella chiesa? Sel’approva dica che è per la pena di morte perché anche la Chiesa (almeno a partire da una certa epo-ca) fu per la pena di morte; se la disapprova non ha che due scelte: o disapprova la pena di morte oinvoca altri argomenti per sostenerla. Ci sorprende il fatto che Prezzohni adduca qui a prova dellasua tesi una deviazione, mentre negli altri tre casi, nei quali erano in causa Dio-natura-governi, ave-va utilizzato il sofisma o almeno il paralogismo.

E circa la deviazione, ci permetta Prezzolini una spiegazione che risulterà autenticamente apolo-getica anche se non è formalmente apologetica. La Eccklesìa di Gesù si è lentamente trasformata inChiesa (11) e in Societas christiana politicamente articolata; ma una societas non può non preventi-vare, in un qualche punto del suo sistema, la pena di morte perché ogni organismo non fondato sullalibera unione dei cuori deve sopprimere qualcuno per mantenersi tale (12).

La stessa disavventura era toccata a Mosè, il quale, appunto, era stato costretto a introdurre la pe-na di morte nel “popolo di Dio” (sic!). Perché? Forse per evitare che la vita sociale cadesse tuttasotto la logica della violenza privata, o, forse, perché qualcuno cominciò a violare una legislazione“divina” assunta come “costituzione storica” , in forma di un patto sociale proclamato “scelta di co-scienza”, ma vissuto costrittivamente (13).

In fondo, Caino non aveva trasgredito una legge scritta; ma gli omicidi, di derivazione non-cainita, sì. Quando l’interiorità si ottunde occorre passare alla legge scritta. E’ difficile uscire dalla

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logica della pena di morte quando il patto sociale si è congelato in un codice, come è difficile usciredalla logica del dente per dente quando l’unione non è libera; ma, in certo modo, formata e tenutasalda da eventi esterni come la persecuzione di e l’opposizione a Faraone o dal senso “razzista”,della propria identità messianica.

Tutto questo può spiegarci, almeno in parte, perché Cristo ha tentato una eccklesia: una unità dicuori, indipendente da motivazioni razziali, politiche e religiose. Una unità di cuori, cioè, sovrana-mente libera perché fondata sulla sola metànoia e non sulla “fuga dall’Egitto” o sulla conquista diuna “terra promessa”.

I primi cristiani non hanno mai pensato di uscire nel deserto per sottrarsi alla persecuzionedell’Impero romano, perché Gesù ha introdotto nel mondo il concetto di martirio, il quale tende atestimoniare la verità con la morte non con le armi. La verità infatti è una presenza non una potenza,una novità non un dominio, una salvezza comune non una fonte di nuovi dualismi, il brevetto dellafratellanza non uno strumento di affermazione storica.

La legislazione mosaica denuncia già uno stato di necessità dovuto allo scoppio di un umanesimoistintuale non sublimato da una unitas che era tutto - dall’orgoglio di gruppo al dominio messianico- fuorché metànoia (14). E tuttavia in quella legislazione fortemente etnocentrica c’è una ricerca ditotalità che stupisce e affascina. Sono colpite, infatti, le azioni che offendono Dio come l’idolatria,la bestemmia e le azioni che oscurano la santità del popolo eletto, come la bestialità, la sodomia,l’incesto, l’adulterio, la mancata verginità della neo-sposa (15).

Queste deviazioni accusano la violazione di un patto e come Dio ha “fatto morire” (16) i proge-nitori così Mosè - di Dio facente funzione - “ fa morire” (cioè uccide) coloro che offendono Dio insé e nella santità del suo popolo.

In tutto questo magma etico-religioso esiste tuttavia una istanza che Cristo espliciterà come mes-saggio di salvezza: se si lascia passare anche una minima sporcizia personale - in ciò risiede il sig-mficato del battesimo -, il letame sociale aumenterà fino alle stelle né ci sarà più spazio sopportabileper l’altro sulla superficie della terra (17).Allora il sogno dei “ buoni” è lo sterminio dei “cattivi”; ma ognuno è persuaso di essere “buono” ecosì iniziano le deleghe che finiscono nei conflitti arinati (luoghi in cui si può praticare l’omicidiosenza sentirsi “cattivi”).

La legislazione sul sesso, per es., è assai più permissiva presso i popoli non circoncisi che pressogli Ebrei. Essa tende a colpire più il movimento delle mani che il movimento dei genitali perché ilfurto, la rapina, la stoccata compromettono la sicurezza e il godimento delle classi dominanti, men-tre l’uso libero del sesso soddisfa tutti i ceti e in certo senso mantiene lo statu quo, a guisa di offaristoratrice.

I profeti di Israele portano quasi sempre l’attenzione e il dito accusatore nel santuario della co-scienza, mentre i saggi degli altri popoli tengono d’occhio solo gli eccessi dell’uomo animale. Ilmomento sconcertante della legislazione mosaica è il coinvolgimento di Dio in un codice non libe-ramente assunto dalle coscienze e tuttavia consequenziale per una societas tenuta in piedi da unforte sentimento razzista cui preme ad ogni costo la purezza formale. Se la pena di morte è una ne-cessità sociologica, introdotta per salvare il respiro a un tutto (vita sociale) tenuto in piedi da legamiestrinseci e mitici, ci sembra illecito giustificarla con la “ volontà di Dio “.

Note

(9) In Italia la pena di morte - si dice - fu abolita nel 1865. Ma tutto si svolse, anche in questo caso,more italiota. Per sapere in quale clima fu aperto il dibattito prendiamo a guida La CiviltàCattolica. Nel 1863 (voi. V, p. 364) troviamo questo primo allarme: “Il Pisanelli (…) fa buc-cinare dai suoi trombettieri uno schema di legge per l’abolizione della pena di morte; intornoal quale, chi volesse, può divertirsi a leggere nei giornali, come opera sovraeccellente di

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sciocchezze, un lepido indirizzo di certe femmine milanesi che chiedono a gran vocil’attuazione del disegno tratto fuori dal Pisanelli”. Sempre nel 1863 la C.C. (vol. VI, p. 215)polemizza con i giovani mazziniani del Dovere i quali chiedono l’abolizione della pena dimorte. “Non sono essi forse quelli che testé supplicarono al Governo sardo, per aver licenza diandar ad uccidere i briganti nel Regno di Napoli? Diteci, cari giovanetti. Uccidere i brigantiche è egli altro se non che un applicare la pena di morte? (…). Se intendiamo bene, voi voleteabolire la pena di morte in favore dei soli assassini, di quelli che sanno menare un colpo distiletto, con sangue freddo, in segreto e con precisione, all’uso di tanti vostri fratelli. Maquando poi si tratta di coloro che sanno menar le mani contro di voi, oh allora voi non traviatinell’ipocrisia, voi schietti mazziniani, voi giovanetti intemerati (…) non solo non volete aboli-re la pena di morte, ma supplicate per ottenere la grazia di fare il boia colle vostre stesse ma-ni”. Poi eccoci al fatidico 1865 (C.C., vol. Il, p. 112). “Una delle cose che ha sempre dato gra-ve molestia alla Frammassoneria, così filantropica per essenza, è la pena di morte che la uma-na giustizia, fino ab immemorabili, ha considerata necessaria alla conservazione della pubbli-ca tranquillità sociale e civile. (Essa) essendo vincitrice e dominante (…) si è voluto levareanche questo bruscolo dagli occhi. Dopo le molte, la questione fu intavolata nel Parlamento(…) il di 13 di Marzo (…). Erano presenti 244 deputati, dei quali si astennero tre. Dei 141votanti, 150 furono per l’abolizione e 91 contro: ond’è che, con una maggioranza di 30 voti, sipromulgò: “Abolita nel Regno d’Italia la pena di morte in tutti i crimini puniti colla medesimapena nel codice generale comune”. Dal privilegio degli assassini furono eccettuati i soldati diterra e di mare, e i così detti briganti del Regno di Napoli. intorno alla quale eccezione l’Uniondi Parigi del 15 marzo fa questa savia avvertenza: “O cotali briganti non sono che ladroni ebanditi comuni, e in tal caso hanno diritto al medesimo privilegio che i loro compagni dellealtre province. O sono gente sollevata, ribelle (se si vuole) ed armata a difesa di una nazio-nalità oppressa, ma non soggiogata; ed in tal caso la Camera si mostra più inesorabile controchi commette un delitto per esaltazione di spirito, che contro chi lo compie per malanimo ecuore perverso”. Dopo la Camera arrivò il Senato (C.C., voi. Il, p. 493). La Commissione pro-pose che la pena di morte si mantenesse in nove casi (l’ottavo diceva: “Grassazione con omi-cidio”; il nono: “Rottura o guasti sulle ferrovie con sviamenti di convogli, onde consegua lamorte di qualche persona”). Il dibattito iniziò il 20 aprile e il 22 solo sette senatori furono perl’abolizione della pena di morte. Ai nove casi fu aggiunto, anzi, il decimo. E cioè pena capi-tale pel giudice corrotto che avesse recato ingiustamente sentenza di morte contro un imputa-to. Per cui il 27 aprile, posta ai voti l’estensione del Codice penale “modificato in senso di giu-sti e nuovi rigori..”, la legge fu approvata da 71 voti contro soli 16 contrari, essendo in tutto 87i votanti. La C.C. si domanda con soddisfazione: “O l’unificazione legislativa resterà sospesa,ovvero una delle due Camere dovrà disdire il proprio voto”. Poi gli avvenimenti politici, inbarba a tutti i dibattiti, produssero molte altre vittime ma la guerra è guerra e nessuno ne con-testa la legittimità, specie quando è fatta per una causa “giusta”.

(10) Se la società dei buoni non fu inventata - come constata Prezzolini - allora nessuno è innocentein una società come la nostra, neanche Cristina Mazzotti.

(11) La Eccklesìa si trasforma in Chiesa quando la sua componente gerarchica si coagula e si strut-tura in classe o, peggio, in casta. E la sorte di ogni guerriglia che si trasforma in esercito vin-citore.

(12) A consolazione di G. Prezzolini dovremmo, adesso, riferire il contenuto di un articolo dellaCiviltà Cattolica (1965, vol. Il, p. 385), ma rimandiamo la degustazione del ghiotto boccone almomento in cui faremo entrare in campo lo sforzo “razionale” di S. Tommaso d’Aquino.

(13) Prezzolini stesso, alludendo al dente per dente dice: “Era un commercio di offese e per farlopassare come santo, Mosè, politico astuto, lo fece emanare da Dio sul Sinai” (Resto del Carli-no 4.9.75).

(14) Un ethos non si misura sulle promesse altamente razionalizzate dalla classe dirigente dentro ilclima della emotività liturgica (si pensi agli iterati patti di alleanza scanditi con un “sì” da

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tutto il popolo ebraico); ma nel comportamento quotidiano. Allora si vedrà che l’eroe “pro-fessante” di un giorno (anzi di un istante) è il vigliacco di tutti gli altri istanti.

(15) Ma con la prigioniera di guerra (donna di nemico), l’istinto sessuale, ahimè, si prendeva unlargo spazio di manovra (Deut. 21, 10 e Ss.).

(16) Ripetiamo: il “far morire” di Dio non si può assimilare alla “pena di morte” se non a patto difar uso del sofisma

(17) Per questo i rapporti tra israeliti sono veramente controllati. Citiamo due soli casi. “Se uno haun figlio - dice il Deut., 21, 18 - caparbio e ribelle”, che non obbedisce ai genitori e “perquanto l’abbiano castigato, non dà loro ascolto, suo padre e sua madre lo conducano dagli an-ziani della città (…) sia lapidato da tutti gli uomini della città (…). Togli così il suo male dimezzo a te”. “Se viene scoperto -dice ancora il Deut., 24, 7 - che uno abbia rapito un uomo dimezzo ai suoi fratelli, figli di Israele, lo tratti da schiavo e lo venda, quel rapitore deve morire:togli così il male di mezzo a te”.

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Capitolo 4

Cristo tra filosofia e teologia

E tuttavia anche Platone - al quale non fu concesso il privilegio di udire la voce di Dio in unroveto ardente (18) - si ricongiunge in qualche modo a Mosè specie laddove tenta di mettere rime-dio al vero male che è di origine prenomica, anteriore cioè alla violazione della legge. Egli infatti,dopo aver sostenuto (19) che l’uomo - unico tra gli esseri viventi - si mise ad erigere altari e statueperché era imparentato con la divinità; sostiene anche che questo stesso uomo non riusciva a convi-vere con i suoi simili senza cadere nella discordia. Per cui se voleva sopravvivere doveva riguada-gnare la solitudine e con essa la dispersione e la morte.

Fu così che Zeus, temendo l’estinzione della specie, inviò Ermes perché insegnasse agli uominil’arte politica (20). Ermes, però, cominciò col portare ad essi il pudore e la giustizia (aidos e dike),due virtù che costituiscono il patrimonio genetico morale proprio di ogni individuo.Esse, infatti, non furono distribuite solo ad alcuni come fossero arti - l’arte medica o l’arte muraria,per es., sono esercitate da pochi a vantaggio di molti - ma a tutti i singoli individui; perché le cittànon potrebbero esistere se solo pochi possedessero pudore e giustizia. Zeus, poi, disse a Ermes: “Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chinon sappia avere in sé pudore e giustizia”.

Per Mosè, Dio ha stabilito il codice oggettivo del bene e del male: chi non l’osserva è degno dimorte. Per Platone, Dio ha messo in ogni singolo pudore e giustizia, colui che non li esercita è unuomo mancato, è un mostro anche “fisicamente”, e va eliminato. Mosè e Platone suppongonol’esistenza del “bene oggettivo”, sia esso racchiuso in una legge scritta, sia esso scritto nelle struttu-re individuali. La vocazione alla socialità è come l’intonazione musicale: o è racchiusa in un dia-pason alle cui vibrazioni tutti devono modellare la propria voce o è patrimonio delle corde vocalidei singoli. Ma se l’intonazione manca, bisogna ricercare l’individuo in cui manca e annullarlo co-me individuo “sbagliato”.

Trovata la tecnica per avviare, con la generazione originaria la “ società dei buoni “, restava ilproblemadella educazione dei nuovi arrivati. Come mai gli uomini virtuosi non riescono a renderevirtuosi i loro figli?

Protagora (21) torna a ripetere che il qualcosa di unico, di cui è necessario che tutti i cittadinipartecipino per la sopravvivenza della città, non sono le diverse arti ma la giustizia, la temperanza,la santità, in una parola l’umana virtù. Se qualcuno - durante lo sviluppo - non vi si conforma, deveessere ammaestrato e punito perché diventi migliore. Del resto deve essere scacciato e messo amorte come inguaribile chi non dia ascolto pur essendo stato punito e ammaestrato.

Nella Repubblica (23), infine, Platone tenta di risolvere il tanto chiacchierato problema della pre-venzione. Egli comincia col dire che la medicina dell’epoca sua è da condannare perché mantenen-do a lungo in vita i corpi malati e incapaci di svolgere le loro funzioni, produce un danno per loStato (24). E conclude affermando che le due arti, la giudiziaria e la medica, “cureranno quelli chesiano naturalmente sani di corpo e di anima. Quanto a quelli che non lo siano, i medici, lascerannomorire chi è fisicamente malato (25), i giudici faranno uccidere chi ha l’anima naturalmente cattivae inguaribile”.

Nella visione cristiana del mondo l’individuo è vocazionalmente libero perché è strutturalmentelibero. E il peccato non è sinonimo né di ignoranza né di malformazione naturale, ma è opera dellavolontà e perciò aperto alla redenzione. Dio vuole che il peccatore si converta e viva, non che siconverta o muoia. E ciò suppone una attenzione pedagogica direttamente proporzionale alle malat-tie dell’anima (26). Non a caso Gesù - al di là di tutte le note aggregazioni storiche - ha fondato unaeccklesìa, intesa come locus in cui chi è diventato creatura nuova fa qualcosa per mantenersi tale e

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per pescare altri uomini alla novità (27). Potremmo dire che il Dio riguadagnato, di competenza, daCristo, non ipotizza - come il Dio mosaico - la pena di morte perché è essenzialmente “salvatore” eperché non prevede aggregazioni statali o etniche di dubbia origine storica (28). Cristo, infatti, piùche alla salvezza degli Stati - di fragile costituzione ontologica - tende alla salvezza dell’individuo,unico ente storico cui spetta l’immortalità, chiamandolo a un tipo di aggregazione che ha come fon-damento la fede-metànoia (e cioè una scelta interiore assolutamente libera) e come effetto visibilel’annullamento immediato dell’homo hornini lupus nel rapporto di lavoro.

Dal momento in cui i pensatori cristiani hanno concepito la Chiesa come una società perfetta(modellata sulla società politica) e lo Stato come il partner della Chiesa con compiti e doveri richie-sti da Dio stesso, hanno dovuto anche concedere alle due società prerogative che a lungo andarehanno annullato la ragion d’essere e il fine della Eccklesìa, volti alla salvezza di tutti gli uomini me-diante l’azzeramento della lotta di classe e delle divisioni politico-statali necessarie portatrici diguerre (29).

Se la Polis è la società perfetta, in quanto è l’unica autosufficiente, come mai deve instaurare lapena di morte nel suo interno e progettare all’esterno l’attività bellica? Tutto ciò denota che l’unitàdelle singole Polis è fondata su elementi naturalistici, incapaci di promuovere sia l’eguaglianza tra imembri del gruppo, sia la fratellanza tra i gruppi. Dal momento in cui il cristianesimo inizia la suafunerea trasformazione in “religione” (in società chiusa), non può non ipotizzare lo strumento giuri-dico della pena di morte. La Chiesa, infatti, per il tramite dei suoi teologi ha cominciato a parlare dipena di morte quando ha cessato di amministrare la metànoia e di controllare il rapporto socio-economico fra i credenti.

Quando si presentarono nella societas sanctorum i tre famosi peccati - adulterio, apostasia, omi-cidio - ognuno pensò che non potessero essere rimessi perché azzeravano tutto il messaggio evan-gelico, da tutti inteso come amore totale a Dio e al prossimo. E dopo il primo stordimento, anzichériprendere, da capo, il discorso e il controllo della metàtanoia come premessa al battesimo, si fecestrada l’idea giuridica del perdono sì perdono no, spostando l’attenzione sul terreno della contratta-zione emotiva. Se poi tra i “peccatori" di quella specie vi erano i potenti o i membri della gerarchiaallora l’amicizia doveva trionfare sulla verità e, per paradosso, non fu più possibile non ipotizzare lapena di morte in un qualche paragrafo della teologia e della morale (30).

La Chiesa fu costretta a ragionare come una società politica, in cui i membri sono tali per nascitae quindi per costrizione anziché per elezione e per conversione. Non avendo più potuto, o voluto,controllarsi sul piano pedagogico nel settore delicato della pudicizia e della giustizia, la Chiesa hadovuto discutere il problema della pena di morte. Ci fu un momento in cui si potè essere “cristiani”e commettere tutti i delitti. Ma poiché il delitto è scomodo e i cattivi di quella specie non fanno co-modo a nessuno, bisognò escogitare una teologia che li eliminasse senza commettere omicidio.L’ingrato compito se lo assunse, con grande baldanza, S.Tommaso d’Aquino.

Note

(18) I prigionieri della sua caverna -vedono, però, la realtà scorrere tra loro e la luce di un fuocoalta e lontana.

(19) Nel Protagora, 322.(20) Giacché la parentela con la divinità disseminava di templi le foreste, senza educarli alla convi-

venza.(21) Protagora, 325.(22) Anche all’interno del patto sociale di marca rousseauiana, le cose non vanno diversamente. “Se

qualcuno — vi si dice—dopo aver ammesso pubblicamente i dogmi (civili) si comporta comese non vi credesse, sia punito con la morte “, perché “si è reso colpevole del più grande crimi-ne: ha mentito innanzi alle leggi” (Il Contratto sociale, L. IV, o. VIII).

(23) La Repubblica, L. III, 410 a.

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(24) Rousseau dice apertamente che non si occuperà di un fanciullo malaticcio e cachettico, inutilea sé e agli altri. “Che farei, prodigandogli invano le mie cure, se non raddoppiare la perditadella società, sottraendole due uomini invece di uno? “ Egli approva la carità di chi si applicaa una simile impresa, ma lui non saprebbe vivere con uno che si curasse solamente di non mo-rire (Emilio, L. I). In alcune cliniche tecnologicamente più progredite d’America s’è deciso —col consenso dei genitori — di lasciar morire quei bambini che, pur potendo essere tenuti invita, non avrebbero una autonomia a misura d’ uomo

(25) Il principio sembra spietato, ma ha il vantaggio di non essere ipocrita. Noi sosteniamo che lamedicina ha il compito (deontologico) di salvare la vita e di correggere la natura, mentre in re-altà muore chi non ha i mezzi finanziari sufficienti per curarsi. E il progresso tecnologico au-menterà le disuguaglianze e creerà problemi morali nuovi e drammatici. Non a caso Gesù diceai suoi discepoli di “curare gli infermi”. L’istinto dell’uomo naturale è per l’abbandonodell’ammalato (è la legge degli animali). Le legislazioni abortiste hanno clausole ben preciseconcernenti il rischio di malformazioni fisiche o mentali. E la stessa eutanasia è il tentativo dirazionalizzare l’istinto del rifiuto del dolore a livello di singolo e di gruppo. Il problema è an-tico come l’uomo. Erodoto dice che agli indiani Padei si attribuiscono queste usanze:“Quando uno è malato, uomo o donna, i congiunti più stretti, se è uomo lo uccidono, dicendoche, se lo lasciassero consumare dalla malattia, la sua carne si corromperebbe e anche sequello protesta di non essere malato, non gli danno retta, lo uccidono e lo mangiano in un ban-chetto. Se si tratta di una donna, sono le donne “ che compiono l’operazione eugenetica (cfr. leStorie, III 99).

(26) Il fenomeno dei drogati pone e porrà al cristiano un duro caso di coscienza. Quando si chiede acostoro di denunciare gli spacciatori vi rispondono: “Sono nostri amici”. Quando in una co-scienza l’amicizia ha divorato la verità occorre affidare la sua guarigione al miracolo. Se poichiedete ai drogati come risolverebbero il loro problema, vi rispondono che la società dovreb-be costruire delle strutture sanitarie su misura per loro. Se, infine, insistete nell’esplorare la lo-ro visione del mondo, avrete la sorpresa di capire che la società dovrebbe fornire ai drogati deidepuratori efficaci e rapidi, non per aiutarli a ritrovare la dimensione positiva della loro esi-stenza, ma per dar loro la possibilità di continuare a drogarsi per tutta la vita.

(27) Il cristiano sarà tanto più pescatore credibile di uomini, quanto più potrà mostrare - ai suoi figlie ai non-cristiani - la Eccklésia come esempio didattico di ambiente socio-economico in cuil’agàpe ha sostituito il rapporto di profitto esistente storicamente fra uomo-donna, uomo-cosmo, uomo-uomo.

(28) Il famoso “ omnis potestas a Deo “di cui parla S. Paolo nella epistola ai Romani (e. XIII) vaforse messo sul conio delle pure dichiarazioni di fatto (dove il fatto è fatto culturale). C’è forsequalcuno, sia pure tra i teologi tradizionalisti, che attribuisca oggi a un atto creativo di Diol’esistenza del “ricco e del povero”, del “bene e del male”, “dei principi e dei sudditi “, anchese tali espressioni si trovano qua e là in alcuni testi della Scrittura?

(29) Prima della conversione di Costantino, per es., i barbari, per i cristiani, sono fratelli da rag-giungere e da amare; dopo la conversione di Costantino, invece, diventano progressivamente“nemici” della “patria” e sono da combattere e da sottomettere.

(30) Non si doveva discutere se dare o non il perdono, ma chiedersi come e perché un “cristiano”potesse commettere quei peccati. Il superamento del “rigorismo", primitivo (in genere si con-sidera esemplare la prassi della Chiesa primitiva!) passerebbe attraverso questo scivolo: gli a-dùlteri trovano refrigerio nell’edictum peremptorium attribuito a Papa Callisto, gli apostatiall’epoca di S. Cipriano, gli omicidi nel Concilio di Ancira (a. 314).

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Capitolo 5

La Summa galeotta 1

I1 grande pensatore medioevale - e in ciò più medioevale che pensatore -, non trovando il co-raggio (il coraggio teoretico!) di rimettere in discussione la “civiltà cristiana” così come si era con-figurata all’epoca sua, si propone di proteggerla dalle insidie disgregatrici delle contestazioni intel-lettuali. Breve: S. Tommaso, anziché ricercare con rigore scientifico i connotati della Eccklesìa vo-luta da Cristo, costruisce, attorno alla Chiesa ereditata dalla storia, una razionalità in cui trovi spa-zio onorevole la pena di morte. Egli, infatti, è costretto a domandarsi “se sia lecito uccidere i pec-catori” (31) perché la Chiesa non è riuscita ad annullarne la specie neanche nel proprio seno. I re-centi commentatori della Somma (32) precisano che qui il sostantivo peccatore ha il significatoforte del nostro attuale delinquente o criminale. Ma, temendo di ridurre il diritto della pubblica au-torità sulla vita di quanti minacciano il bene comune, si affrettano a specificare che S. Tommasointende affermarlo in tutta la sua ampiezza. Fino ad includervi - osserviamo noi - l’eresia e il delittodi opinione (33).

Tutte le epoche hanno discusso - e dovranno discutere - il problema della pena di morte. Il me-dioevo, ahimé - ci perdoni Lapalisse - fu costretto a discuterlo dopo la conversione di Costantino. Ilfatto che esista una “civiltà cristiana” tutta disseminata di “peccatori” in senso forte, già costituisceuno scandalo per la ragione; ma risulta paradosso senza precedenti il fatto che si voglia eliminarequesti “peccatori” utilizzando la pena di morte. Mentre Gesù, per eliminare i “peccatori”, fonda laEccklesìa (come prolungamento della sua pedagogia nei secoli); i filosofi e i teologi cristiani, inve-ce, invocano la pena di morte dicendo di averla trovata nelle Sacre Scritture (34).

I Valdesi - annotano i recenti commentatori della Somma - avevano “preteso” di dimostrare la in-compatibilità della pena di morte con la lettera e con lo spirito del Vangelo. A nostro giudizio eranonel giusto i Valdesi, quando applicavano la loro lettura del Vangelo alla Eccklesìa; ma erano meto-dologicamente nello stesso errore di 5. Tommaso e della teologia ufficiale, quando volevano appli-care quella lettura ad una società politica su cui Cristo si è dichiarato incompetente di fatto, soprat-tutto perché manca in essa la unità dei cuori (il dono della Fede) e quindi il libero consenso dellecoscienze.

Al Valdese Durando di Huesca - tornato alla fede cattolica nel 1207 - Innocenzo III aveva impo-sto la seguente dichiarazione. “Sull’autorità civile affermiamo che essa senza peccato mortale puòinfliggere la pena di morte purché sia mossa ad infliggerla non dall’odio, ma dalla giustizia, e nonproceda senza precauzione, ma con cautela” (35).

Non risulta che Gesù abbia mai detto una cosa simile all’indirizzo delle autorità politiche e civilidell’epoca sua. Egli è Salvatore proprio perché riprende da capo il discorso attinente ai rapporti u-mani e perché tenta una unità di cuori che nessuna autorità politica o civile può ottenere in quantotale. Per Cristo sono “peccatori” allo stesso modo (in senso forte) sia i due ladroni che muoiono conlui, sia Caifa e Pilato che li mandarono a morte. Gesù è venuto a convertire a sé (per inserirli nellaEccklesia) i peccatori in senso forte; ma si è sempre rifiutato di Costituirsi giudice-moralista tra dueforme di delinquenza, dicendo all’una: “Tu puoi eliminare quell’altra senza commettere peccato! “In questa logica non si capisce perché la Chiesa debba farsi distributrice di serenità morale nei con-fronti di aggregazioni socio-politiche che prima producono i delinquenti e poi si trovano nella ne-cessità di doverli uccidere per poter sopravvivere.

La dottrina tradizionale della Chiesa - continuano ad annotare i recenti commentatori dellaSomma - afferma che la pena di morte non è contraria alla legge divina ma che neppure è richiestanecessariamente La sua opportunità dipende dalle circostanze.

Non ci sembra che questa prodezza dialettica serva molto a qualificare la dottrina della Chiesa neiconfronti del “buon senso” di tutte le legislazioni pre e postcristiane (36). Finché l’uomo è lupo al-

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l’uomo col favore delle leggi, il “buon senso” dirà sempre di rallentare o stringere i freni secondo lecircostanze. Ma il discorso di Gesù (che dovrebbe essere quello della sua Chiesa) è rivolto a unmale di fondo che il “buon senso” si rifiuta di ammettere.

I recenti commentatori della Somma dicono che il diritto (della pena di morte) resta, perché n e-gano è irragionevole e contrario all’insegnamento stesso della rivelazione divina che l’attribuisceall’autorità civile. Peccato che la “rivelazione divina” sia tutta mutuata dal Vecchio Testamento econ molta leggerezza critica (37) dopo la sequenza dei “è stato detto dagli antichi ma io vi dico”scandita da Cristo. La pena di morte - si insiste - non viola il diritto naturale. Ma il diritto naturale non lo violano n e-anche gli schiavi in rivolta o il terzo stato in rivoluzione nell’atto in cui da condannati a morte (perdecreto della legittima autorità) si costituiscono in legittima autorità (con poteri esecutivi).

Ma torniamo a S. Tommaso. Egli, dunque, intende portare luce in un dibattito storico quando sidomanda se sia lecito uccidere i peccatori. E comincia col dare la parola ai contestatori.

“Sembra - egli dice non senza ironia - che non sia lecito uccidere i peccatori per tre motivi: 1)perché Gesù proibisce di estirpare la zizzania e cioè i “figli del peccato”; 2) perché la giustizia u-mana deve conformarsi a quella divina, e questa dice: “Io non voglio la morte del peccatore ma chesi converta e viva”; 3) perché uccidere un uomo è in sè stesso un male se è vero che, come dice S.Agostino, siamo tenuti ad amare con la carità tutti gli uomini o, come dice Aristotele, vogliamo chegli amici vivano ed esistano”. Ma, in contrario, l’Esodo e i Salmi suonano una campana assai diver-sa. Il primo comanda: “Non lascerai vivere gli stregoni”. I secondi cantano: “Di buon mattino ster-minerò tutti i peccatori della regione” (38).

Se il confronto è tra passi scritturali, non si capisce che cosa ci stia a fare S. Agostino e meno chemeno Aristotele. Ma S. Agostino rappresenta la tradizione culturale cristiana, Aristotele la ragioneumana. Dunque occorre catturarli alla propria tesi.

A questo punto S. Tommaso comincia a costruire dialetticamente la sua risposta, facendo uso dianalogie e di riduzioni. “Gli animali bruti - egli dice - si possano uccidere in quanto sono ordinati,per natura, all’utilità dell’uomo, come le cose meno perfette sono ordinate a quelle perfette. Ora,qualsiasi parte è ordinata al tutto come ciò che è meno perfetto è ordinato a un essere perfetto. Per-ciò la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, nel caso che lo esiga la salute di tutto ilcorpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso”. Secon-do questa logica nulla vi sarebbe da obiettare all’autorità che ha fatto bere la cicuta a Socrate e hacondannato Cristo alla crocifissione. Per Atene, per Roma, e per Gerusalemme, Socrate e Cristo e-rano due membri putridi di un tutto (la città) cui erano ordinati in quanto parti. Secondo S. Tomma-so, infatti, “ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto”.

L’analogia è assunta da Platone il quale vede un perfetto parallelismo fra polis e psiche, anche sePlatone intende contestare una polis (come Atene) che ha ucciso un giusto come Socrate (39).Quando s’è ridotto l’uomo a una parte di un tutto lo si è messo su di uno scivolo assai pericoloso. Ilcristiano non può mai prestarsi a una simile operazione: egli, infatti, concede consistenza ontologicaalle persone non agli stati (40). L’analogia così ben ricamata dal “dottore angelico” riuscì comoda auna civiltà che non voleva sopportare gli eretici (la propria cattiva coscienza); ma riesce comoda,ancora oggi, a quelle dittature che non vogliono sopportare i credenti in Dio o il dissenso politico.

Note

(31) Cf. La Somma teologica II-II q. 64, a2.(32) Ci riferiamo alla traduzione e al commento curati dai Domenicani italiani, Ediz. A. Salani

1966-1975.(33) Ne abbiamo una conferma, per es., nella q. 39, a4 della Somma Il-Il (ediz. cit., voi. XVI, p. 98).

Scrive il santo dottore:” Come dice la Scrittura, è giusto che uno sia punito nelle cose in cuipecca. Ora, uno scismatico pecca in due cose. Primo, separandosi dalla comunione degli altri

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membri della Chiesa. E rispetto a questo è giusto che gli scismatici siano puniti con la scomu-nica. Secondo, perché si rifiutano di sottostare al capo della Chiesa. E, quindi, siccome nonvogliono la coercizione del potere spirituale della Chiesa, è giusto che sperimentano quella delpotere civile”. I commentatori domenicani italiani sentono il bisogno di spiegare: “Non c’èdunque da meravigliarsi che S. Tommaso accenni in questo caso ai metodi repressivi del suotempo, di cui non dobbiamo scandalizzarci pensando che allora tali metodi erano comuni adogni società”. Ma questa spiegazione era già stata respinta da Alessandro Manzoni, nel cap.XXII de I Promessi Sposi, laddove parla degli errori del Card. Federigo presentatidall’apologetica corrente come “errori del suo tempo piuttosto che suoi”. S. Tommaso pensala Chiesa come una società di salvezza dalla quale non ci si può impunemente staccare, men-tre Gesù la presenta come area di salvezza cui si entra e si vive liberamente, in ogni istante.

(34) I Calvinisti, per es., volevano la pena di morte perché la sua soppressione sarebbe contro il pre-cetto di Dio.

(35) Cf. Denz.-S., 725.(36) Per scusare il “corso della storia” che ha distribuito con eccessiva generosità la pena di morte, i

commentatori Domenicani italiani dicono che bisogna tener conto della instabilità di molti re-gimi politici e della difficoltà di organizzare un sistema carcerario efficiente per un numerorilevante di criminali. Se questo fosse un argomento valido, al giorno d’oggi bisognerebbe in-nalzare un capestro (specie in Italia) in tutte le città superiori ai centomila abitanti e farlo fun-zionare giorno e notte.

(37) Del Nuovo Testamento si cita il solo S. Paolo (Romani 3, 4). “L’autorità -egli dice - è al servi-zio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male” e perciò essa “porta la spada “.Nell’ipotesi che S. Paolo parli della “pena di morte”, essa è da mettere sul conto dei dati difatto conseguenti alla struttura di una data civitas, cui non si può applicare il concetto di con-vivenza ipotizzato dal messaggio di Cristo. Prima di far dire a S. Paolo che Dio avalla e con-sacra quella scelta giuridica, occorre vedere se Dio vuole quel tipo di convivenza.

(38) I commentatori Domenicani (italiani) della Somma, insorgono contro Scoto perché, a loro giu-dizio, pone le premesse dell’errore abolizionista. Egli, infatti, afferma un volontarismo radi-cale a proposito della legge divina. Per lui il comandamento “non ammazzare” avrebbe valoreassoluto e le sole eccezioni sarebbero poste dalla stessa volontà divina ed espresse nella Rive-lazione. Per i tomisti è assurda tale posizione e lo dimostrano dicendo che è lecita la “legittimadifesa” fino all’uccisione dell’ingiusto aggressore. Se la legittima difesa è ovvia“razionalmente” non occorre l’avallo della “Legge divina”; ma appare assai strano che la leg-ge divina venga invocata per uccidere gli stregoni e i peccatori. L’equivoco, a nostro giudizio,risiede nel fatto di appellarsi al Vecchio Testamento senza mai riflettere sulla Eccklesìa fon-data da Cristo. Il cui compito non è quello di dire alle strutture statali: “Potete uccidere”; madi rendere inutili (di annullare) tutte quelle strutture che sono costrette a ricorrere alla pena dimorte per poter sopravvivere. Duns Scoto, poi, ha inteso dire che se proprio vogliamo coin-volgere Dio in questa querelle della pena di morte, allora atteniamoci al suo comandamento(“non uccidere”); giacché Egli non può volere se non ciò che è oggettivamente buono. E sedovremo fare delle eccezioni Lui stesso ci dirà come e quando. Duns Scoto cioè non accettache si stabilisca “razionalmente" che è giusto, da parte dell’uomo, praticare la pena di morte eche poi si cerchino le pezze di appoggio nel pensiero di Dio. La legge naturale esiste sì, per il“sottile dottore”, ma non coincide semplicemente con i dieci comandamenti. In altre parole:non tutti i dieci comandamenti si impongono alla coscienza con la forza irresistibile di assiomietici (o di giudizi analitici) e se Dio non dicesse: “Non uccidere!” la “razionalità” umana pra-ticherebbe l’omicidio con estrema disinvoltura. Ma i commentatori Domenicani hanno anchescoperto che la filologia è venuta in aiuto al “buon senso “. Il 5° comandamento, infatti, diceesattamente: “Non assassinare!”. E cioè: non uccidere ingiustamente, arbitrariamente (ebr. ra-sàh). Ma i colpevoli (i peccatori) sono uccisi “giustamente”, dunque non si viola il 5 coman-damento. Se le cose sono così liquide sul piano della “razionalità” e del “buon senso”, non si

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capisce perché si voglia ancora l’avallo della Rivelazione divina. Forse Rousseau è più coe-rente quando fonda, in poche righe, e dai tetti in giù, la pena di morte: “I mali morali - egli di-ce nel Il libro dell’Emilio - sono tutti nell’opinione, fuorché uno solo:il delitto; e questo di-pende da noi: i mali fisici si distruggono o ci distruggono “.

(39) Il cosiddetto particolarismo etico ha forse la sua spiegazione parziale nella struttura indifferen-ziata della coscienza dei primitivi. Per i quali più che l’individuo è soggetto di pensiero, digiudizio, di decisione, l’intero corpo sociale. Presso i Germani, per es., l’omicidio non eraconsiderato un delitto ma solo un danno alla comunità, da ripararsi con una semplice multa.Tacito, però, aveva detto di loro che erano “securi erga deos”. Apprezzamento che lo stessoHegel tradurrà con queste parole: “Degli dei si preoccupavano poco “Mentre sul fatto che iGermani non consideravano delitto l’omicidio dirà: “Questa non è indulgenza, è ottusità, man-canza di senso morale”.

(40) Forse S. Tommaso si era lasciato travolgere dall’autorità di Aristotele, il quale aveva detto: “Lacittà è anteriore all’individuo perché se esso, preso a se, non è autosufficiente, sarà, rispetto altutto, nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti”. (Politica, L. 1, 2).

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Capitolo 6

La Summa galeotta 2

Se è vero, dunque, che l’individuo sta alla comunità come la parte al tutto, resta anche vero -conclude S. Tommaso - che “se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la col-lettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune”.

Il principio è squisitamente “razionale” e fu sicuramente coniato - la prima volta - da chi si im-possessò del potere con mezzi tortuosi o da chi non riuscì ad esercitare correttamente l’autorità ri-cevuta. Costui, infatti, cominciò a supporre giusta e intangibile una istituzione in cui s’era operatal’identità fra bene comune e interesse di una classe (41). E S. Tommaso cita, a conferma della suaargomentazione, il passo di S. Paolo “un po’ di fermento può corrompere tutta la massa”. Ma il pro-blema consiste appunto nel sapere chi, o quale classe sociale, verifica ed esaurisce il concetto di“fermento”. Dal punto di vista di Cristo il “fermento” - da cui i discepoli debbono guardarsi - èquello dei farisei e di Erode.

E all’epoca di S. Tommaso dove stava di casa il “fermento”? Forse nei castelli o negli episcòpi diquei ceti sociali ai quali il santo dottore concede, invece, l’uso del capestro per eliminare quei“peccatori" che insidiano quel “bene comune” (42). S. Tommaso, ahimé, parte dal presupposto chesiano buone e giuste le istituzioni sociali medioevali, cattivi e peccatori quei singoli che le contesta-no; mentre, forse, quelle istituzioni erano la causa prima della contestazione di quei singoli. S. Pa-olo, invece, rivolge il suo discorso alla Eccklesìa che è essenzialmente “buona” come istituzione;mentre se in essa c’ è inizio di male, questo male prende avvio dalla corruzione spirituale di qualcheindividuo cui bisognerà rivolgere, subito, un supplemento di attenzione pedagogica (43).

Non è dunque metodologicamente corretto applicare lo stesso criterio di lettura alla Eccklesia ealla società storica, comunque strutturata (44).

Alla luce di queste premesse S. Tommaso affronta la soluzione delle singole difficoltà. La primadifficoltà, infatti, riguarda la presenza della zizzania nel campo del buon grano. Gesù - come risultadal testo evangelico - ordinò di non sradicarla a causa del grano, per non correre cioè il rischio disradicare il grano, ossia i buoni. Ma S. Tommaso commenta: “Tale comando è da osservarsi quandonon è possibile uccidere i cattivi senza uccidere i buoni oppure perché essi sono mescolati tra questioppure perché - come osserva S. Agostino - avendo essi troppi seguaci non si possono sopprimeresenza mettere in pericolo i buoni. Quando invece la loro uccisione non costituisce un pericolo, mapiuttosto una difesa e uno scampo per i buoni, allora è lecito uccidere i malvagi” (45). Crediamoche questa esegesi - peraltro applicata alla società storica in modo scorretto - non colga le motiva-zioni profonde della tolleranza cristiana, la quale affonda le sue radici nell’amore non nella oppor-tunità.

La tolleranza cristiana, cioè, non fa buon viso a cattiva sorte né di necessità virtù, ma è un atto diamore coessenziale alla sua stessa verità. Nella parabola, il padrone del campo impone l’alt agli ze-lanti mietitori anzitutto perché la zizzania è stata seminata per una svista degli stessi seminatori eper una svista dovuta alla loro smobilitazione pedagogica (“mentre dormivate un uomo nemico hagettato la zizzania nel campo”); poi perché zizzania e frumento, finché sono nel campo, sono entitàdinamiche e divenienti. L’alt agli intolleranti è dato a causa del frumento ma di tutto il frumento,anche di quello che adesso non è tale e domani può diventarlo. L’alt, infine, è dato perché il giudi-zio irrevocabile sui “cattivi” è una operazione riservata a Dio solo. Il compito dei buoni, semmai,dal punto di vista di Cristo, è quello di essere buoni, di fare “eccklesìa”, città sul monte, sia pure inmezzo alla persecuzione.

E’ forse questa l’unica strada che può condurre alla bontà quei “cattivi” che tali sono per motivi“sociologici”, giacché cattivi “per natura” non ne esistono nella visione cristiana dell’uomo. S.Tommaso, invece, su questo tema è paradossalmente marxista perché sa chi sono i “cattivi" e crededi poterli sradicare con un colpo di stanga benedetto da Dio stesso. S Tommaso crede sia possibile

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attuare ciò che Gesù proibisce (e cioè lo sradicamento dei “cattivi”) perché non avverte che Gesù haun concetto di buono e .di cattivo diverso dal suo. S. Tommaso parte dal presupposto che Gesù dial’alt agli intolleranti mietitori perché l’operazione da essi proposta non è tecnicamente possibile;mentre Gesù li ferma perché i “cattivi”, sono chiamati a diventare buoni e possono perciò diventarli.S. Tommaso cioè razionalizza la parabola della zizzania e arriva a dire che è possibile eliminare i“cattivi” con uno strumento che sfugge alla sagacia metodologica di Gesù - la pena di morte cioè -ma che risulta di grande refrigerio per i “buoni”. Breve: il discorso di Gesù è un discorso di salvezzai discorsi di S. Tommaso sono discorsi di sicurezza.

La seconda difficoltà riguarda il comportamento di Dio nei confronti dei peccatori. Dio, cioè, livuole convertiti non eliminati. E’ questa l’avventura del cristianesimo: Dio si fa uomo perchél’uomo diventi Dio. 5. Tommaso, invece, presume di sapere che “Dio talora sopprime subito i pec-catori per la liberazione dei buoni (46); talora concede loro il tempo di pentirsi, in vista della futurasalvezza dei suoi eletti”, e trasborda poi questo suo modello di giustizia “divina” nei quadri dellagiustizia “umana”,.

La giustizia umana, infatti, imitando Dio per quanto è possibile “sopprime quelli che son nociviper gli altri mentre lascia il tempo di pentirsi a quelli che non sono di grave danno per gli altri”.L’equivoco del discorso ruota tutto attorno alla parola “morte”, vista da S. Tommaso come una“soppressione fisica” del peccatore (47). Se si concepisce la morte di ogni uomo come “uccisione”o “pena di morte” messa in atto da Dio, la giustizia umana, dovendo modellarsi il più possibile suquella divina, può “far morire” i malvagi usando il capestro o la mannaia anziché gli strumenti se-greti (malattia e disgrazia) che noi immaginiamo siano utilizzati da Dio stesso.

S. Tommaso, infine, sembra essere sicuro che la giustizia umana non fallisce mai nel sopprimerequelli che sono veramente nocivi per gli altri e non mostra zelo alcuno per stabilire, con rigore dia-lettico, il concetto di “ nocivo per gli altri” (48).

La terza e ultima difficoltà riguarda il rapporto che viene a instaurarsi tra pena di morte e carità.Uccidere è violare quella carità che dice di amare gli uomini. S. Tommaso dimostra allora che ilmalvagio è una “bestia”, e che nei confronti della bestia cessa l’obbligo della carità. “Col peccatol’uomo abbandona l’ordine della ragione - egli dice - decade dalla dignità umana che consistenell’essere liberi, e degenera nell’asservimento delle bestie; il quale asservimento implica la subor-dinazione al vantaggio altrui”.

Un salmo canta: “L’insensato sarà lo schiavo di chi è saggio. Conclusione:” E’male uccidere unuomo che rispetta la propria dignità, ma uccidere un uomo che pecca - e peccare è abbandonarel’ordine della ragione - può essere un bene come uccidere una bestia. Un uomo cattivo, infatti, comedice Aristotele, è peggiore e più nocivo di una bestia”, (49).

Il sofisma consiste nel trasformare il linguaggio figurato in linguaggio proprio prima e giuridicopoi. Per quanti delitti commetta un uomo non potrà mai distruggere la sua carta di identità, neanchese confinato in un manicomio; e nessun ragionamento potrà assimilano, sul piano ontologico, ad u-na bestia.

Ma il sofisma di S. Tommaso ha percorso un lungo cammino se ancora nel 1870 La Civiltà Cat-tolica (p. 674), citando questo passo della Somma in favore della pena di morte, scriveva: “Sel’uomo spogliandosi moralmente della dignità di uomo, si è convertito in belva nociva verso i suoiconcittadini; come belva nociva deve essere trattato. La belva non si incarcera ma si uccide. La benmeritata sua morte servirà altresì di paventoso esempio e salutare ammonimento a tutti quegli altri, iquali per avventura si sentissero tentati d’imitarlo nella nequizia”. E di questa intellighentia cristia-na post-tomista e visceralmente penalista parleremo ora distesamente prima di affrontare l’im-pennata illuminista di Cesare Beccaria.

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Note

(41) In questa situazione oscilla all’infinito il concetto di “membro putrido” e “cancrenoso”. PerNicola I i membri putridi sono i rivoluzionari, per i rivoluzionari il membro cancrenoso è Ni-cola I. Chi assume il Vangelo come punto di riferimento etico ha l’onere di sanare non di ag-gravare il catarro della “razionalità”. “Ogni potere ingiusto - ha scritto Manzoni - per far maleagli uomini, ha bisogno di cooperatori che rinuncino ad obbedire alla legge divina, quindil’inesecuzione di essa è la condizione più essenziale perché esso possa agire”. Breve: tutte leingiustizie passano perché non esiste la Eccklesìa o comunità cristiana, per cui, poi, la“cristianità” deve, a sua volta invocare assurdamente la ragione e la rivelazione per salvare sestessa facendo uso della pena di morte.

(42) Papa Clemente VIII fu oggetto di feroci pasquinate a causa del suo sfrenato nepotismo e reagìcon la minaccia di far gettare la famosa statua nel Tevere. Torquato Tasso lo fermò facendogliosservare che l’unico modo per mettere a tacere Pasquino era quello di non dargli occasione disparlare.

(43) Nell’Elogio della pazzia (c. LXIV) di Erasmo di Rotterdam troviamo una lucida denuncia delleinterpretazioni antistoriche della Sacra Scrittura: “Io stessa - dice la pazzia - poco fa intervenniad una disputa teologica; lo faccio spesso. Ivi, avendo qualcuno richiesto qual fosse la testi-monianza della Sacra Scrittura, che impone di vincere gli eretici col fuoco anziché convincerlidiscutendo, un rigido vecchio, teologo, a giudicarne dal cipiglio, rispose con grande sdegnoche questa legge l’introdusse l’apostolo Paolo, allorché disse: “Evita l’eretico dopo una e poiun’altra ammonizione”. E ripetendo con voce tonante sempre le stesse parole e facendo parec-chi le più alte meraviglie, cosa mai gli fosse capitato, si degnò infine di spiegare: “Evita, e vitain latino è ‘togli di vita’ l’eretico”. Risero a ciò alcuni, ma non mancarono quelli cui un talcommento sembrava perfettamente teologico. Del resto, alla protesta continuata di non pochisi levò un difensore a far da scure di Tenedo, un’autorità indiscutibile. Disse costui: “State asentire. E’ scritto: ‘Non permettere che viva l’uomo malefico’. Atqui ogni eretico è malefico,ergo...”. Restarono colpiti quanti erano lì presenti, all’ingegno di quell’uomo, e passarono dal-la sua parte, essi con tutti i loro stivali. Ma a nessuno venne in mente che una tal legge riguar-dava individui incantatori e maghi, che gli Ebrei chiamano nella lor lingua mechascefim, cioèmalefici; altrimenti si dovrebbe punir con la morte anche la fornicazione e l’ubriachezza!”

(44) Viene qui opportuna una notazione sociologica. In genere la pena di morte è sostenuta da colo-ro che sono convinti che la società sia buona, le istituzioni giuste e cattivi gli individui. Macoloro che ritengono che la società è ingiusta e colpevole sono ostili alla pena di morte nelmomento in cui attuano la rivoluzione delle istituzioni salvo poi a reintrodurla nelle istituzionia rivoluzione compiuta. Dal punto di vista di Cristo, se la Eccklesìa è”buona” come istituzio-ne, essa ha il compito di correggere l’individuo nell’ipotesi che egli pecchi. E’ assurdo che laEccklesìa si difenda uccidendo chi delinque. Una società libera, rimette in libertà e riprende dacapo l’opera educativa.

(45) Secondo questa teoria Dio farebbe piovere e sorgere il sole sul campo del buono e del cattivo,non per una motivazione pedagogica fondata sull’amore ma perché non può fare altrimenti.Nella q. 108, a 3 della II II, S. Tommaso è ancora più preciso quando risponde alla prima dif-ficoltà: “Il Signore proibisce di sradicare la zizzania quando c’è il timore di sradicare con essaanche il frumento. Ma in altri casi è possibile sradicare i malvagi con la morte non solo senzapericolo, ma con grande vantaggio per i buoni. Perciò in questi casi è applicabile la pena dimorte “.

(46) S. Tommaso sembra sapere troppe cose su questo tema, mentre Gesù è più cauto. Il fatto, peres., della uccisione dei “galilei” da parte di Pilato è da paragonare, secondo Gesù, all’altrofatto dei diciotto infelici rimasti sepolti sotto le macerie della torre di Siloe. Forse che costoroerano più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? Nessuno si affretti a consolarsi o aritenersi buono se non gli cade in testa il soffitto o se è riverito dalle istituzioni. Se ciò che

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conta è la “conversione”, allora dei cadaveri e dei delinquenti, ce ne sono molti in giro. Nonpossiamo annettere predilezioni o condanne divine a fatti fisici o sociali che hanno gli occhibendati e sono conseguenze di logiche assunte. Ci sono invece omissioni di cui siamo tutticolpevoli allo stesso modo.

(47) E’ l’equivoco in cui è caduto, come s è già visto, anche Giuseppe Prezzolini.(48) Per Cristo la società storica è fuori della Eccklesìa da lui fondata. In essa società, dunque, la

razionalità si eserciti come meglio può - dato che essa si è cacciata in quel sistema di rapporti- ma non utilizzi il Vangelo per consacrare morali e prassi che Cristo non prevede nella Ec-cklesìa. Zaccheo, per es., per l’etica comune è una persona per bene, ma per Cristo è un ladrodi prima grandezza.

(49) Per la verità, Aristotele dice: “Senza la virtù l’uomo è il più empio ed il più feroce degli esseri,dedito solo ai piaceri d’amore e del ventre” (Politica, L. I) e S. Tommaso traduce: “Un uomocattivo è peggiore e più nocivo di una bestia”. Aristotele osserva che un uomo, senza virtù, èpiù feroce di una bestia e l’osservazione si applica a tutti gli uomini nell’ambito della metafo-ra. S. Tommaso, invece, ha già delimitato l’area di ricerca: il“malvagio” E’ colui che peccacosì e così e alla fine può essere anche Renzo all’osteria. S. Tommaso, cioè, pensa che la so-cietà sia giusta e guidata da giusti. Ma chi, all’epoca del “Bue muto” non era dedito ai piacerid’amore e del ventre, specie tra i gestori della cosa pubblica? Dunque quante “bestie” degnedella pena di morte!!!

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Capitolo 7

La Civiltà Cattolica in nevrosi (1)

Nel 1850 a Firenze Dell’educazione e dell’istruzione libri due – Libro Primo sull’Educazionedi Raffaello Lambruschini. Nell’aprile dello stesso anno si presenta, a Napoli, in qualità di terapeutanazionale, La Civiltà Cattolica dei padri gesuiti. Essa, infatti, è desiderosa di concorrere a guarire“le piaghe della povera Italia”; ma è priva di illusioni sull’avvenire del paese, perché esso (l’avveni-re) “è trepido e non potrà essere che tremendo, se non si studi ad un riordinamento delle idee socialie religiose alterate stranamente, guaste, viziate dalla radice” (50). E al riordinamento delle idee so-ciali e religiose intende applicarsi, segnando a dito, o picchiando sul muso, quei “cattolici” vacil-lanti o codardi che contestano il connubio plurisecolare esistente fra pena di morte e istituzione ci-vile cristiana.

Il primo cattolico segnato a dito è appunto Raffaello Lambruschini, perché alla trattazione dei ca-stighi da infliggersi alla fanciullezza aveva premesso questa dichiarazione: “Oggidì non vi è chi so-stenga più neppure riguardo alle pubbliche leggi penali, la massima che il castigo del reo sia una e-spiazione della sua colpa. La vendetta che si faccia d’un’offesa privata o della violata giustizia... ilcastigo del reo, agli occhi della società, non può ragionevolmente mirare ad altro, fuorché ad impe-dire che egli commetta una seconda volta quell’azione nocevole alla società medesima o che altrimossi dal suo esempio la commettano. “E’ una difesa”.

La Civiltà Cattolica osserva che “l’idea della espiazione e della soddisfazione è sì intima, sì con-naturata, sì famigliare all’idea e al linguaggio scritturale che difficilmente potranno mai cedere ilcampo, nell’animo dei cattolici, alle dottrina degli utilitari” (51). Per R. Lambruschini, la pena dimorte contro i grandi colpevoli non fu pensamento di legislatore, ma decreto spontaneo di indigna-zione universale. Per La Civiltà Cattolica, invece, una tale affermazione è un grave errore contro lafede, perché il più grande dei legislatori “fra i puri uomini” (intendi: Mosè) stabilì “per divina ispi-razione” la pena di morte contro molti delitti. La Civiltà C. non ha dubbi: “La legge penale staall’ordine civile o politico, come la guerra all’Internazionale; ella è mezzo di sostegno dell’ordine”(52).

La Civiltà C. si sforzerà, per quasi un secolo, di presentare la pena di morte come un capitolo dietica, naturale e rivelata, sottoscritto dal cristianesimo e messo a disposizione del potere civile. A-vendo concepito come fatto di fede il connubio fra Stato e Chiesa, fra trono e altare, La Civiltà C. sisente eo ipso custode delle istituzioni, di quelle istituzioni. Ma la rivoluzione di Gesù è assai diversaperché propone una continua metànoia, né mai consacra i nostri storici dualismi.

Quando Dio è coinvolto in modo sostanziale con la nostra storia, non può più esserne il salvatoreed è giocoforza che Egli tutto consacri, tutto benedica in sede sociale e in sede politica, fino a di-ventare il “Dio degli eserciti” o l’Idea diveniente di Hegel. La malattia mortale dello storicismo pa-gano è riapparsa nel mondo cristiano dal momento in cui qualcuno (chi?) ha cominciato a trasborda-re gli attributi di Dio in casa dell’autorità umana (53). Ecco perché - a giudizio della Civiltà C. -chiunque voglia abolire la pena di morte “bada piuttosto all’interesse proprio che all’amoredell’umanità” (54).

L’argomento è molto fragile perché può subire la ritorsione, ma la Civiltà C. non esita a squader-nare la “ben altra” filantropia del Vangelo. Il quale, anzitutto, riesce a cambiare “le carceri in asce-teri” - e ciò è già “portento di carità” per la Civiltà C. - poi, in rapporto all’estremo supplizio, da unlato adopera ogni sforzo “perché il terrore dell’eternità alla quale è soglia rimetta in sennoquell’animo incallito ad ogni vizio”, dall’altro lato “chi serba colle idee cattoliche il giusto concettodell’autorità sociale, mediante la quale il governante è quasi padre d’immensa famiglia, vede in essoun potere discretivo col quale in qualche raro caso (…) ben può mitigano con la grazia” (55). Nella

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dottrina cattolica esiste dunque la santificazione del supplizio e la giustificazione del perdono e laCiviltà C. cita un proverbio che viene scandito in certe province di Francia: “De cent pendus - essodice - pas un perdu; de cent noyés pas un sauvé (su cento impiccati nemmeno uno che si sia danna-to; su cento annegati nemmeno uno che si sia salvato).

Da cui si deduce che per andare in paradiso è meglio farsi impiccare per omicidio che annegareper suicidio. L’equivoco - e trattasi di equivoco teologico - consiste nel presupporre che il Vangelosantifichi tutta la realtà sociale così come essa è, senza prima averla rinnovata dalle fondamenta.Gesù entra sì nel sistema a salvare i singoli suppliziati ma non certo a consacrare i supplizi. Gesùnon può fare il cappellano di alcun sistema. Egli è tanto lontano e/o vicino a Pilato e/o a Galla,quanto lontano e/o vicino ai ladroni, perché la sua visione del mondo ha tutto da contestare sia agliuni che agli altri. E il “buon ladrone” è salvo perché accetta la Sua visione del mondo (riconosceDio nel prossimo!), non perché accetta quella dei suoi giudici (i quali utilizzano la legge per oppri-mere i deboli).

E’ curioso constatare come la Civiltà C., allo scopo di controllare le deviazioni dottrinali della in-tellighentia cattolica in tema di capestri, sfoderi un genere di logica e di strumenti dialettici che oggiappaiono strani - direbbe il Manzoni - anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarli giu-sti. Per la Civiltà C. esiste presunzione di verità laddove troviamo “una legislazione costante univer-sale, perpetua fra le nazioni incivilite” (56). Questo criterio metodologico, ahimé, è anticristiano.Colui che lo contesta in maniera netta e frontale è Cesare Beccaria (57); ma anche il suo discen-dente - il sicuramente cattolico Alessandro Manzoni - non è meno severo contro il cosiddetto“storicismo cristiano”, se nella introduzione ai Promessi Sposi guarda con sospetto, pieno di orrore,le ambigue lezioni della storia tutte intessute di emergenze e di sublimità pericolose, in cui moltisono i mostri e poche le cose veramente memorabili.

Ma la Civiltà C. non ha dubbi: “Se dunque - essa prosegue - presso le nazioni, in cui i sentimentidell’onestà non furono rintuzzati, anzi vennero per opera del Cristianesimo condotti ad eccellentis-sima perfezione, la pena di morte fu creduta universalmente conforme alle regole dell’onestà” (58),è perfettamente inutile demolire le argomentazioni “ razionali” utilizzate da un Kant o da un Rous-seau o da un Filangieni per legittimare la pena di monte, perché quelle argomentazioni non toccanoil “cattolico”il quale ne ha ben altre a sua disposizione! (59).

La Civiltà C. afferma che quattro sono i caratteri delle pene morali: “sanzione, correzione, espia-zione, esempio”, e che l’espiazione è il solo essenziale a e inseparabile da ogni punizione (60).

Note

(50) Il proposito della Rivista è quello di coprire tutta l’area della intellighentia cattolica italiana.Nessuno, infatti, aveva mai tentato di abbracciare una tale ampiezza di materie e di diffusione.Per volontà della redazione il Periodico deve essere considerato come “indigeno e naturale” inciascuna contrada d’Italia, anche se appare a Napoli (cf. 1850, voi. I, p. 11 e s.).

(51) Cf. 1850, voi. I, p. 695.(52) Ibidem, p. 696.(53) E’ noto come Platone, nel L. III della Repubblica, conceda ai magistrati il diritto di menzogna,

specie se si tratta di far credere ai cittadini che essi sono “fratelli” a dispetto dell’evidenteclassismo, perché il classismo è di origine divino-naturale! Neanche Aristotele osa contestarela religione costituita, laddove insegna cose ripugnanti alla retta educazione. “I magistrati - e-gli dice nel L. VII della Politica - devono fare in modo che non si espongano statue o figureche rappresentino proprio quelle azioni la cui menzione si vuole bandire, eccezion fatta per itempli di quegli dèi cui la legge permette la licenza; anzi la legge permette che gli uomini sirechino ad onorare questi dèi e per se stessi e per i loro figli e le loro mogli “. Nella civiltà cri-stiana non si devono mostrare nudità di alcun genere, eccezion fatta per il crocifisso, per gliangeli, per S. Sebastiano e per poche martiri.

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(54) Cfr. 1853, serie Il, vol. I, p. 63.(55) Ibidem.(56) Cf. 1853, 11-111, 434.(57) “Se mi si opponesse - egli dice - l’esempio di quasi tutti i secoli e di quasi tutte le nazioni (...)

io risponderei che egli si annienta in faccia alla verità contro della quale non v’ha prescrizio-ne, che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenco pelago di errori fra i quali poche econfuse e a grandi intervalli distanti verità soprannuotano. Non è ancor giunta l’epoca fortu-nata in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al maggior numero” (Dei delitti e dellepene, o. XVI). A titolo di curiosità notiamo qui come l’argomento dell’accettazione di una i-dea o di una prassi da parte delle “nazioni incivilite” sia stato utilizzato recentemente aproposito della introduzione dei divorzio e dell’aborto.

(58) Lo stesso padre Perico, gesuita del secolo ventesimo, membro del Centro Studi Sociali dellasezione di Milano, in un articolo sulla pena di morte, apparso su Aggiornamenti Sociali del 9-10 (1965), scusa la pena di morte nel passato perché “potè apparire l’unico modo per tutelareil bene comune” e perché il potere pubblico “ancora poco evoluto” potè ritenerla“giustamente” unico sistema efficace per difendere la comunità. Ma i gesuiti della Civiltà C.del secolo scorso non scusano bensì difendono la pena di morte in nome di un potere pubblicomolto evoluto, in nome del più alto grado di civiltà. Per il padre Penico anche la “sensibilitàdel grande pubblico” era molto meno progredita di quanto non lo sia oggi; ma per i gesuitidella Civiltà C. la pena di morte apparteneva al sentimento positivamente universaledell’umanità.

(59) In tutto questo modo di argomentare, si nasconde, lo ripetiamo, il presupposto della continuitàtra onestà pagana e onestà cristiana. E il maestro di questa supposta continuità è il teologo-filosofo Schleiermacher. Egli afferma che il cristianesimo non è una religione della ragione.Come le altre religioni è nata in un dato momento della storia e si è sviluppata in movimentostorico ed è oggi presente nella coscienza di particolari gruppi umani. E’ sì la più alta forma direligione - accogliendo tutto ciò che è vero e valido in altre religioni - ma come quelle è unfilone particolare della coscienza religiosa nella storia dell’umanità. Il pericolo di questa tesista nel pensare il cristianesimo come un perfezionamento di un ceppo buono e non come uninnesto su di un ceppo selvatico.

(60) Cf. 1853, 11-111, 434. Nel 1860 Carlo Cattaneo affermerà che Milano, precedendo di nove an-ni il pensiero inglese, intraprese (nel 1762) e aperse (nel 1766) - l’opera di Beccaria appare nel1764 - la Casa di correzione che significa pena non più intesa come vendetta dell’offeso ocome espiazione (vendetta della divinità) (cf. Della pena di morte nella futura legislazione i-taliana, Milano, 1860, p. 5). Ma la Civiltà C., ancora nel 1874 (IX-IV 208), aggiunge questoricamo alla sua tesi: “Se assoluto scopo della pena fosse l’emenda, Iddio non potrebbe con-dannare nessuno all’inferno, in cui sappiamo dalla fede che nulla est redemptio”.

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Capitolo 8

La Civiltà Cattolica in nevrosi (2)

Attorno a questa tesi esplode l’incantesimo di una esasperata e senteziosa sofia: “Si punisceperché non si delinqua e perché si è delinquito (…) i tristi non si contengono dal delinquere se nonper timor della pena (…) il governante è ministro della giustizia divina”, e così di seguito. A quantiimpugnano la pena di morte sotto lo specioso pretesto che essa non serve alla emendazione del reola Civiltà C. rimprovera appunto di sostenere che il fine proprio di ogni pena è l’emendazione (61).Il loro torto consiste nel confondere l’autorità civile con la paterna: il padre punisce per emendare(tale è il fine dell’educazione), il Principe ha per fine la salute della società (62), egli è ministro diDio, come dice S. Paolo, vindice, con santo sdegno, contro coloro che operano il male, egli ha daDio stesso il diritto di vita e di morte secondo le esigenze delle eterne ragioni del giusto (63).

E infine la Civiltà C. escogita un sottile, anzi raffinato, ricupero della tesi avversaria: “Anchenella pena di morte - esclama l’idea di emendazione non vien del tutto trasandata; giacché per alcu-ne indoli perverse (…) più che qualsivoglia cura esercitata nel carcere, dà speranza di ravvedimento(...) la certezza dell’imminente fine e il pensiero di dover, senza fallo, presentarsi (...) al Supremogiudice” (64).

A correggere l’impianto logico-metafisico entro cui la Civiltà C. del secolo scorso aveva discussoil problema della pena di morte, interviene l’intellighentia gesuitica del secolo ventesimo (65). Essatende a dimostrare, con gli argomenti di oggi (opposti a quelli di ieri), che “non sembra indispensa-bile per la funzione retributiva della pena la uccisione del reo”, che il carattere di vendetta “non cor-risponde assolutamente alle migliori espressioni della natura razionale dell’uomo”, perché “è troppolontano (con quel tipo di soluzione radicale e drammatica) da quei sentimenti di civiltà (66), da queivalori di bontà che sono al fondo di una coscienza sempre più evoluta e che costituiscono la base diogni moderna e ordinata convivenza” (67).

Che direbbero - che diranno nel Regno dei Cieli dove sicuramente sono - i redattori della CiviltàC. degli anni 1860, per i quali “civiltà, bontà e coscienza,” erano in perfetta ed eterna armonia conla pena di morte intesa come espiazione e come vendetta?

Ma rientriamo nel torneo polveroso della storia. Gli avversari della pena di morte obiettano: “Nonè concepibile come la società civile possa, per causa di pena, togliere all’uomo dei beni extrasociali,che non sono un prodotto nè dell’attività umana, nè della società stessa”. La Civiltà C. risponde chequesta obiezione suppone si debba escludere dalla pena l’idea di espiazione, nel qual caso essa do-vrà essere circoscritta “al giro dei beni strettamente sociali”. Ma “se l’uomo è socievole per essenza,nè può sussistere o durare senza il positivo concorso di una società, si può a buon diritto affermareche la vita medesima è un prodotto della società e dell’attività umana”. Dunque: la vita, l’integritàdel corpo, la libertà morale (…) non possono chiamarsi beni extrasociali (68).

Per rimarginare questo colpo di lancia dobbiamo ancora ricorrere alla intellighentia gesuitica delsecolo ventesimo. “Un principio - essa premette - sta alla base di ogni nostra considerazione: quellodella intoccabilità radicale della vita umana”. Esiste, dunque, una indisponibilità della vita umanaperché “il diritto di vita e di morte sugli esseri umani è di esclusivo dominio di Dio” (69). Una se-conda obiezione dice: “La personalità umana è lo scopo del sociale diritto e della sua attuazione; mala pena di morte distrugge questa personalità facendola servire di mezzo all’attuazione del diritto enon di scopo, dunque la pena di morte non è compresa nei diritti sociali”. La Civiltà C. ha peròpronta la risposta: “Secondo i dettati di ogni buona filosofia - essa precisa - l’autorità civile ha periscopo e misura non il bene individuale ma il comune”, per cui “il diritto sociale o la legge che loesprime non mira come a termine ultimo alla conservazione dell’individuo, ma a quella della civilcomunanza; alla esistenza e perfezionamento della quale ordina l’esistenza e il perfezionamento deimembri che la compongono” (70). C’è qui tutta l’economia politica di Adamo Smith (che vede lasocietà e trascura le persone) e tutta la teologia stoica del paganesimo romano che vede Giove cur-

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vo sul timone della storia ma indifferente alle sofferenze dei singoli (Iuppiter non adest singulis).Curiosa, poi, ci sembra la curvatura “cristiana” data a tutto l’argomento. “No - insiste la Civiltà C. -l’umana personalità che è un bene finito, passeggero, destinato a perire per rinascere nobilitata in unnovello ordine di cose, non può essere il termine, la regola e la misura del giusto e dell’ingiusto, deldiritto individuale e sociale (...). Se con la morte l’uomo perisse interamente ritornando al nulla dalquale emerse, non ha dubbio che la vita presente non potrebbe volgersi alla conservazionedell’ordine sociale, la cui partecipazione sarebbe il fine destinatogli dalla natura. Ma allora non esi-sterebbe vero diritto, virtù vera, ordine morale (...) apodittico, assoluto (...). La morte non solo non èpuro male dell’individuo, o mezzo al mantenimento d’un ordine ch’egli abbandona, ma atto di e-spiazione suprema con la quale il moriente con Dio si riconcilia, restaura per quanto è in lui l’ordinemorale, frena col terrore del suo supplizio gli stimoli eccitati dall’esempio dell’animo dei malvagi, ealleggerito dal peso della colpa può farsi della morte breve passaggio a vita immortale” (71). Breve:la pena di morte non soltanto fa servire l’umana personalità all’attuazione del diritto sociale, ma an-che al bene morale del condannato, al conseguimento del suo ultimo fine. Come si vede, cielo e ter-ra si danno la mano per giustificare la pena di morte (72). Per La Civiltà C. la pena di morte potràdunque abolirsi per effetto di un sentimento di pietà e di mitezza, non per ragioni di onestà e di giu-stizia. E a conferma della sua tesi ricorda una “riflessione semplicissima”, tratta dall’esperienza di“tutti i secoli”. “Qual è - essa dice - il Generale di esercito o il capitano di nave che si addosserebbeil comando, dove la legislazione sbandisse dalla milizia di terra e di mare la pena capitale?” (73).

Note

61) Cfr. 1870, serie VII, voi. XI, p. 673.(62) La Civiltà C. non accusa incertezze: “L’emenda - ripete - può e deve aversi di mira dal potere

sociale nell’infliggere la pena; giacché si tratta di punire un ente ragionevole nello stato di via.Ma deve aversi di mira come fine secondario e senza pregiudizio del fine primario; giacché,come dicemmo, scopo diretto e principale dell’autorità civile non è l’educazionedell’individuo, ma la giustizia e la difesa sociale” (1874, IX-IV, 208).

(63) Cf. 1870, VII-XI, 673. Mentre Cristo è venuto a contestare la storia in nome della verità, la Ci-viltà C. costringe la verità a tenere il lume alla storia. “E’ bene che accanto alla società sociale- ha scritto A. Tilgher - si elevino le torri eburnee della società supersociale. che lo Stato ab-bia infissa ai fianchi la freccia della Chiesa che lo pungoli a sempre più purificarsi e umaniz-zarsi” (Cristo e Noi, Guanda, 1934, p. 83).

(64) L’utilizzo che qui viene fatto delle verità di fede è piuttosto strano, ma è in linea con la teologiapagana di Catone Jr.; la quale, per i congiurati catilinari, ammetteva continuità fra la sentenza(di morte) del senato e gli orrori infernali dell’Ade (Cf. Sallustio, La con giura di Catilina).Ecco, invece, come C. Beccaria ricostruisce il ragionamento di un ladro (o assassino) cui nonresta che l’alternativa della forca o della ruota per non violare le leggi: “Quali sono questeleggi che debbo rispettare che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco?... Chi hafatto queste leggi? uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallidecapanne del povero”. E conclude: “La religione si affaccia alla mente dello scellerato che abu-sa di tutto e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità dimi-nuisce di molto l’errore di quest’ultima tragedia”(c XVI).

(65) Ci riferiamo al citato articolo di padre Perico in Aggiornamenti Sociali (riv. cit., p. 589 e s.).(66) Corsivo nostro.(67) Aggiornamenti sociali 9-10 (1965), art. cit., p. 590 e s.(68) Cf. 1853, 11-111, 436. Ma ancora nel 1874, IX-IV, 207 troviamo questa puntualizzazione: “La

inviolabilità della vita umana è argomento ineluttabile contro la pena di morte, per coloro cheammettono il diritto sociale come risultato della somma dei diritti dei singoli associati, comefanno il Rousseau ed il Beccaria. Ma non lo è in nessun modo per quelli, che ammettono la

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società come creazione divina, e come creazione divina la potestà, che la regge: Non est pote-stas nisi a Deo (...) divinizziamo la potestà? Ma non siamo noi quelli che la divinizzano: è S.Paolo”.

(69) E’ qui interessante notare come il padre Penico, nel già citato articolo (p. 587), riporti questeparole di Pio XII: “Il diritto alla vita, l’uomo lo ha ricevuto immediatamente dal Creatore: nonda un altro uomo, nè da un gruppo di uomini; non dallo Stato, nè da un gruppo di Stati, nè daalcuna altra autorità”; e come egli criterii, in modo diverso dai suoi confratelli di un secolo fa,il potère della società a infliggere la pena di morte. E’ un potere di difesa, semmai, e operantenella misura in cui la difesa è necessaria.

(70) Cf. 1853, 11-111, 439. Questa strana concezione della persona ci dice quale fosse il contestoche determinò Kant a scrivere, nella Fondazione della metafisica dei costumi, il famoso impe-rativo: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona diogni altro, sempre come fino e non mai come mezzo” (Parte Il).

(71) Ibidem. Questo strano ridimensionamento dell’individuo rispetto all’ordine sociale, si riallacciacuriosamente alla concezione marxiana della morte. L’uomo, in quanto individuo, rischia diessere ridotto alla sua sola realtà biologica perché la morte è concepita - da Marx - come unadura vittoria della specie sull’individuo. La vita, quindi, non deve essere concepito come unpiagnisteo ma come un dono generoso fatto alla vita totale, alla società socialista. Il positivo,nella storia, è la costruzione della società socialista sulla ecatombe degli individui. La CiviltàC., in nome della supposta esistente società cristiana, annulla i singoli “cristiani”. Il cristiane-simo predica la rinuncia di sé, ma appunto perché emerga la eccklesia. La Civiltà C. mette lapena di morte a servizio di una classe dirigente che non vuoi rinunciare a nulla di ciò che è edi ciò che ha. E’ più comodo eliminare il delinquente che rinunciare al culto di sé.

(72) La Civiltà C. sta ripetendo ai “delinquenti” l’argomento già utilizzato dai primi persecutori deicristiani: “Se i nostri supplizi vi introducono nel paradiso, ringraziateci di essere ministri dellavostra felicità”.

(73) Se questa è la concezione della società cristiana, si capisce perché Cristo, prima di morire, ab-bia fondato non un ordine religioso impegnato a cercare l’amicizia dei re e dei capitani, ma u-na eccklesia tutta protesa ad annullare sia la specie dei re che la specie dei capitani.

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Capitolo 9

La Civiltà Cattolica in nevrosi (3)

A partire dal 1860 il dibattito sulla pena di morte acquista toni epici, almeno nelle intenzionidella Civiltà C., che schiera su due fronti i cattolici e gli eterodossi (74). Il dissidio non riguarda iltema delle mitezza (mitezza sì mitezza no). Tutti vogliono la mitezza, astrattamente parlando, tuttiaffermano che una “pena non necessaria è pena ingiusta”; il dissidio riguarda la minore del sillogi-smo. I cattolici - con i quali si identifica la Civiltà C. - dicono: “Or la pena di morte talora è neces-saria, talora è superflua: dunque talora è giusta, talora è ingiusta”. Gli eterodossi - tra i quali vi sonodei cattolici - invece, dicono: “Or la pena di morte non è mai necessaria, dunque fu sempre ingiu-sta”. La Civiltà C. si domanda donde partano i cattolici per fondare il principio che la pena di mortepuò essere necessaria e dunque giusta, e risponde: “Ognuno lo sa: rivelazione divina, ma anchel’universale sentimento del genere umano” (75). E i “filantropi eterodossi”? Essi, “fermi nel princi-pio contrario, di non rispettare se non l’evidenza del proprio pensiero, al genere umano che, trannerare eccezioni, sancì per sessanta secoli la pena di morte, gettano arditamente in faccia l’accusa d’ignoranza e di crudeltà”. Queste - a giudizio della Civiltà C. - sono nella sostanza le due scuole. Es-se vogliono dar sollievo ai miseri ma muovono da principi e finalità diverse. La scuola cattolica(76), accettando dal senso comune e dalla rivelazione una terribile verità, è condotta ad ottenerel’intento sforzandosi di emendare i malvagi (77), la scuola eterodossa (78) confida di arrivare allostesso scopo accusando i giudici e rassicurando i colpevoli! Ma per giungere alla mitigazione chepretende, deve prima ottenere dai cattolici l’apostasia dalla Scrittura, dagli uomini assennati, la ne-gazione della storia e la rinuncia al senso comune (79).

Alla obiezione che il condannato a morte non può più pentirsi (cioè convertirsi), frustrando cosìuno dei fini precipui della pena che è quello di correggere il colpevole, la Civiltà C. risponde ripor-tando il già citato proverbio popolare francese: “de cent pendus pas un perdu...”, aggiungendo lanotizia che in Italia vi sono paesi “dove il popoletto professa ai giustiziati una cotal sua devozionequasi a gente che ha posto in sicuro la sua salute” (80).

La Civiltà C. definisce poi “argomento curioso” quello di quanti si chiedono: “Chi può arrestarel’esistenza terrena della creatura prima che piaccia al Creatore, se Esso pose gli uomini sulla terraperché guadagnino la vita futura?”. E risponde: “Questo fatalismo include nuovamente il circolo vi-zioso: chi domanda se sia giusto che la società punisca il reo con la morte, domanda appunto se lasentenza di morte sia uno dei tanti modi coi quali piacque al Creatore di terminare questa nostra esi-stenza, come l’esistenza d’un militare è terminata da una palla in battaglia”. Il lasciar vivere un uo-mo è fatalismo, sopprimerlo è, invece, obbedire a Dio, così come è obbedire a Dio fare la guerra ein essa morire (81). Breve: la pena di morte è uno dei tanti modi utilizzati da Dio per mettere fine aquesta esistenza. Non a caso Gesù aveva detto ai suoi discepoli: “Vi uccideranno credendo di dargloria a Dio”. Se ciò può accadere a un discepolo di Cristo, immagini ognuno che cosa potrà acca-dere a un “delinquente”! E’ questo il momento oscuro di un cristianesimo fattosi “religione” e reli-gione temporalizzata. Nel 1865 la Civiltà C. ha ulteriormente raffinato la sua dialettica e mentre se-gna a dito la “ frammassoneria”, (82) continua a rimescolare nervosamente le carte del problema. Sela gente savia - essa dice - e le persone per bene fossero per l’abolizione della pena di morte e se ilibertini, i progressisti, i democratici, fossero per la pena di morte non vi sarebbe da farne meravi-glia. Eppure la cosa - tolte le rare eccezioni - va tutta al rovescio! Si tratta, però, di una severità e diuna filantropia apparenti. Perché la gente savia vuole conservata la pena di morte? La Civiltà C.spiega: potendo essere tra i fini di una pena - emendazione del reo, ristorazione dell’ordine, difesadella società (83) - si concede facilmente che per il primo scopo la pena di morte non è -necessariabenché possa essere utile. E’ chiaro che il reo può emendarsi anche vivendo e non si converte ne-cessariamente morendo. Se dunque la pena non avesse altro scopo che l’emendazione del reo, lapena di morte si potrebbe abolire come non necessaria, ma non è così perché v’è l’argomento preso

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dal secondo fine (la ristorazione dell’ordine) (84): tu hai ucciso, dunque sarai ucciso e le ragioni sa-ranno pari (85). Ma più evidente resta, per la Civiltà C., l’argomento che si ricava “dal bene che nesorge alla società assicurata contro nuovi delitti per la impossibilità fisica in cui è posto l’uccisore econtro nuovi delitti di altri per il terrore salutare che si incute a tutti “ (86). Il motivo, dunque, cheinduce la gente savia a mantenere la pena di morte è forte, alto e nobile! Ma l’assunto vero è quellodi mostrare che i savi e onesti, parteggiando per la pena di morte, sono i veri abolitori di essa. Essi,infatti, la vogliono per diminuire e togliere di mezzo gli assassini. Anzi non vogliono solo abolire lapena di morte per gli assassini (come fanno i liberali) ma anche per gli assassinati o meglio per gliassassinabili. Sostenendo quindi la pena di morte, i savi, sono per l’abolizione della pena di mortedegli innocenti prima e poi anche necessariamente dei rei e degli assassini (87). A questo punto laCiviltà C. inizia una grande ricognizione storico-apologetica guidata da questa domanda retorica:“Che cosa era valutata la vita dell’uomo prima di Cristo?”. Ebbene, conclude, al mondo precristianovogliono ricondurci i “nostri liberali” (88). Dove la Chiesa prese a regnare si ingentilirono i costumie la vita umana fu sempre più rispettata (89); anzi nel mondo si andò sempre più abolendo la penadi morte a misura che si dilatò la civiltà cristiana (90). Per cui se l’influenza della Chiesa si fossesempre e ovunque conservata, di fatto, ora, la pena di morte sarebbe abolita (91).

Conclusione: la gente savia - la più informata dello spirito evangelico - parteggiando (92) per lapena di morte tende a cooperare alla sua abolizione. La pena di morte è ancora necessaria perchénon si è giunti a uno stato di civiltà e gentilezza che renda inutile o almeno non più necessariol’ultimo supplizio a spavento dei tristi e a difesa della vita degli innocenti (93). Ai “liberali” che in-vece della pena di morte propongono “la carcere cellulare perpetua" la Civiltà C. ricorda che talepena conduce alla “pazzia, alla disperazione in questa vita e a una terribile probabilità di dannazionenell’altra”. E questo - sempre a giudizio della Civiltà C. - è “odio raffinato contro l’umana naturache si vuoi perduta nella vita temporale e nell’eterna”. Per cui “meglio la morte”!

Note

(74) Cf. La Civiltà C., 1860, IV-VII, 589-598.(75) Altro è dire: la pena di morte è legittima perché è un diritto dello Stato di disporre della vita dei

cittadini. E altro è dire: la società ha il diritto di difendersi contro le aggressioni volte alla suadistruzione. Per il p. Perico (cf. art. c., p. 588) è l’idea della necessità quella che deve domina-re un problema ed è necessario ciò che è assolutamente indispensabile. Egli però dice che at-tualmente non c’è necessità di far uso della pena di morte. Non dice: “non è mai necessaria”,ma “attualmente non è necessaria” (ci. nota 58). Tutto sta a vedere se è necessaria all’internodel concetto di difesa, oppure no. Altro, infatti, è dire: se si vuoi star tranquilli è necessariouccidere; e altro è dire: se il delinquente attacca occorre difendersi fino a ucciderlo, se neces-sario, per non venire uccisi. Un moderno moralista - Franz Bòckle - imposta il problema inquesto modo:”Per es. - egli dice - fino a, poco tempo fa eravamo convinti che l’ordine giuridi-co potesse essere effettivamente garantito soltanto se i delinquenti dovevano fare i conti con lapena di morte; tale convinzione rendeva corretto il giudizio generale: la pena di morte è (ingenerale) permessa. Oggi è difficile sostenere che la pena di morte sia il mezzo unico e pro-porzionato per salvare lo Stato di diritto. Di conseguenza bisogna dare questa formulazionegeneralizzante: la pena di morte non è (in generale) permessa” (cf. Concilium 10/1976(162~3), 89).

Presso tutti i moralisti moderni, dietro la “inopportunità di fatto” resta la “legittimità teorica” dellapena di morte. Ma tale legittimità teorica, da dove deriva? Da un diritto a uccidere o da un di-ritto a difendersi?

(76) La Civiltà C. ignora Il “pluralismo” all’interno del pensiero cattolico.(77) Sottinteso: mandando in Paradiso quelli catturati e terrorizzando gli altri.(78) Anche l’eterodossia è messa sotto una sola etichetta dalla Civiltà C.

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(79) Non dimentichiamo che la Civiltà C. sta polemizzando anche con il dissenso cattolico, assolu-tamente minoritario.

(80) Il p. Perico, nel già citato art. (p. 590), sostiene appunto che “non sembra indispensabile per lafunzione retributiva della pena la uccisione del reo”, perché il reo ha il suo diritto di riabilitarsidi fronte alla comunità e “di fronte al suo destino supremo”. E sostiene che neanche il cosid-detto “riequilibrio del diritto” sembra esigere l’uccisione del reo, perché “verrebbe toltaall’uomo ogni possibilità di redimersi, che resta sempre un suo diritto e un suo dovere”. Percui, “con la pena capitale viene totalmente distrutta ogni possibilità di riparazione e di espia-zione” (ivi, p. 591).

(81) Per la Civiltà C.. sia il mondo fisico che il mondo morale sono retti da Dio per mezzo di causeseconde. Ma nel mondo morale le cause seconde sono le autorità da Dio costituite. Udiamol’incredibile raffronto: “Siccome è conforme alla volontà divina l’influsso che il sole esercitasulla terra, così è conforme alla volontà divina ogni atto della pubblica potestà che sia misu-rato dalla sua santa legge”; ergo se la pubblica potestà condanna a morte un reo “non lo mandaimmaturo alla vita che è fuori del tempo, né l’invia non chiamato al tribunale di Dio, perché inciò - fare esegue il prescritto stesso di Dio, ed opera secondo il mandato da lui ricevuto. Iddiolo chiama a sé, benché mediante il suo ministro”. La Civiltà C. confessa candidamente chenon vede perché venga chiamato da Dio uno che muoia di febbre e non un altro che muoia persentenza di legittimo giudice (cf. 1874, voI. cit., p. 207-208).

(82) Ci riferiamo all’art. “La Frammassoneria e l’abolizione della pena di morte”, apparso nel 1865sulla Civiltà C., vol. Il, p. 385 ss.

(83) Nei 1853 erano quattro i fini (o meglio i caratteri) della pena, e cioè “sanzione, correzione, e-spiazione, esempio “; l’espiazione era il solo necessario. Anche De Maistre era stato esplicito:“Il diritto di punire non è altro, nella sua parte essenziale, che il diritto di imporre ai colpevoliuna espiazione (Encyclopédie Nouvelle-Droit).

(84) Si osservi come il p. Perico, nel già citato art. (p. 590) dica - citando a sua volta altri autori -che “la pretesa equivalenza fra pena e delitto per la restaurazione dell’ordine turbato, non puòessere intesa in senso materialistico”.

(85) La Civiltà C. cita il Genesi IX, 6.(86) Sempre il p. Perico - art. cit. p. 592 e s. - osserva: “Anche il potere intimidatorio della pena ca-

pitale sembra fortemente diminuito (...) In seguito alla soppressione della pena di morte i de-litti per cui questa era prevista, non sono certamente aumentati, e non forniscono alcuna indi-cazione certa sul suo valore intimidatorio”.

(87) Ognuno avverte in questo macabro sarcasmo la metodologia di quanti vogliono eliminare, peres., la lotta di classe con la lotta di classe o tutte le guerre con l’ultima guerra! Don Rodrigo e-ra meno ipocritamente cafone quando diceva, al Padre Cristoforo premuroso della sorte di Lu-cia: “Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà piùnulla, e nessuno ardirà d’inquietarla” (c. V).

(88) La Civiltà C. osserva che dove comandarono i liberali, in Francia, si comportarono - nei con-fronti della vita umana - come dei pagani: “Le piccole ghigliottine erano ciondoli così comeoggi lo sonb le bombe dell’Orsini”! Ahimé, siamo alla stessa logica dei Sambenito quandocomandava l’inquisizione!

(89) Ma dove Chiesa e Stato o Chiesa temporalizzata presero a regnare, allora i costumi - ahinoi -restarono come prima, se proprio non peggiorarono.

(90) Ognuno ride di questo sottile sofisma. La Civiltà C. vuol dire che fu abolita la pena di mortedei malvagi nei confronti dei buoni, nel senso che utilizzando la pena di morte la civiltà cri-stiana ha annullato i malvagi!

(91) Se si fosse estesa e conservata la Eccklesìa di Gesù, la pena di morte sarebbe certo scomparsama per naturale estinzione. S’è invece estesa e affermata una Chiesa nel cui seno sono fioritidei teologi che hanno teorizzato la pena di morte per far sparire l’omicidio e l’eresia. La Ci-viltà C. dice che la civiltà cristiana tende a questo ultimo scopo: l’abolizione della pena di

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morte. Ma anche il socialismo tende ad una società senza classi, utilizzando, per ottenere talescopo, la lotta di classe! La Eccklesìa, però, è opera di conversioni e accolta di convertiti. Nonsi dimentichi che fu un pontefice a introdurre la tortura in Europa. “Alessandro III - scrive G.Filangieri - fu il primo a dare questo scandalo alla chiesa e all’Europa. L’uso della tortura si e-ra ristretto fino a quel tempo a quella piccolissima porzione di uomini che viveva sotto il Di-ritto romano, ma dopo questo tempo si rese di giorno in giorno universale e noi dobbiamo adue papi la funesta causa del sistema inquisitorio e della tortura. Senza la loro pontificale in-fluenza, il progresso dei lumi e della società, avrebbe aboliti i giudizi di Dio, così contrari albuon senso ed ai principi della nostra santa religione; ma senza il loro esempio, l’antico usodella tortura non si sarebbe, forse, risvegliato nell’Europa, e il processo inquisitorio non sa-rebbe, forse, conosciuto. Noi dobbiamo ad Alessandro III il primo di questi mali, ad Innocen-zo III il secondo” (cf. La scienza della legislazione, Vol. Il, III, o. X, in nota). Per rendere cri-tico il nostro stupore è utile ricordare che, in pieno medioevo, il papa Niccolò I 858-867) scri-veva ai Bulgari queste sante parole: “Voi dite che nel vostro paese quando un ladro o un bri-gante viene acciuffato, il giudice lo colpisce alla testa e gli ferisce i fianchi con punte di fuocosino a quando egli non ha confessato la verità. Ma né la legge divina, né la umana possonoammettere questo sistema. La confessione deve essere spontanea (...) Se per caso, dopo averusato questi tormenti, non riuscite a scoprire la minima prova di ciò che avete contestato allavittima, non siete presi da vergogna (...)? E se domato dal dolore l’imputato si dichiara colpe-vole di un crimine che non ha commesso, su chi (...) ricadrà l’obbrobrio di tale iniquità se nonsu colui che ha obbligato l’infelice a confessare?” (Cf. G. De Menasce - G. Leone -F. Valsec-chi, Beccaria e i diritti dell’uomo, Editrice Studium, Roma 1964, p. 62).

(92) In verità, il cristiano, più che parteggiare per la pena di morte, si domanda perché gli uomini lautilizzano sia di fatto (gli assassini), sia di diritto (i legislatori) e su tale domanda propone lesue terapie.

(93) Se si chiede alla Civiltà C. come si arriva alla civiltà e alla gentilezza essa vi dice: “Utilizzandola pena di morte a, proprio il rovescio di ciò che insegna il Vangelo. E la colpa del ritardodell’incivili-mento di chi è? E’ del liberalismo - grida la Civiltà C. - perché ha come scopo ladistruzione della Chiesa e del cristianesimo e perché, proponendo l’abolizione della pena dimorte, “diventa padrone della vita di tutti come con l’istruzione obbligatoria vuol essere pa-drone dell’anima”.

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Capitolo 10

La Civiltà Cattolica in nevrosi (4)

Parallelamente al rifiuto del “potere temporale”, i cattolici liberali, attorno agli anni ‘70 sem-brano orientati a voler disinnescare il problema della pena di morte dal riferimento scritturale. Nellapena di morte, cioè, non vogliono coinvolgere nè la sacra Scrittura nè lo spirito più vero della Chie-sa cattolica. Ma la Civiltà C. (94) continua a ripetere che da sempre (“da che il mondo è mondo”) igrandi colpevoli sono puniti con la pena di morte, che Mosè, “per comando divino e sottol’ispirazione divina”, ha dato una legge al popolo ebreo in cui si commina la pena di morte ai be-stemmiatori, agli omicidi e anche a chi è irriverente contro i genitori. Qualcuno, in sordina, fa nota-re che Dio, come autore della vita e Signore assoluto delle sue creature, poteva per positiva conces-sione, largire alla società ebrea tale potestà. Ma la Civiltà C., in questa distinzione, fiuta una crepapericolosa e domanda con sottile ironia: “Chi vi assicura che una simile concessione non sia statafatta all’umana società generalmente?”. E insiste nel ripetere che “il costante uso dei popoli” deveavere un fondamento. Per es., tra le cose riguardanti “la specie umana”, concesse da Dio a Noè do-po il diluvio leggiamo questa: “Quicumque effuderit humanum sanguinem, fundetur sanguis illius”(Genesi IX, 6), nel qual passo “sembra conceduta la potestà di punir colla morte l’omicida”. La Ci-viltà C. opina che in queste parole non si contenga una “ordinazione positiva”, ma una“esplicitazione e conferma del diritto naturale”, come esplicitazione e conferma del diritto naturaleerano queste altre parole: “Crescete e moltiplicatevi”, e queste altre ancora: “ Tutto quello che hamoto e vita sarà vostro cibo” (95.)

Nel 1874 appare, a Catania, Il cattolicesimo e la pena di morte, brevi considerazioni di mons.Giuseppe Coco Zanghy (96). Il pio e dotto ecclesiastico vuoi dimostrare - in chiave apologetica na-turalmente - che la Chiesa ha “sufficientemente manifestato il suo spirito mite e lontano da qualun-que pena di sangue, per gli oracoli del suo codice che è la Bibbia, per le dottrine dei Padri e deiDottori, per le decretali pontificie, per la propria storia”.

La Civiltà C. teme che, nel cervello dei semplici, il discorso sulla mitezza della Chiesa, si presenticome condanna della pena di morte inflitta dalla legittima autorità. Mons. Zanghy, forse senza es-serne cosciente, tenta il ricupero del phylum “cristiano” nella selva storica delle opinioni vittoriose,ma volendo fagocitare alla sua tesi i teologi esegeti, i Padri e i decreti pontifici, deve soccombereperché la stragrante maggioranza dei testi è contro di lui, e tuttavia, dalla sua sconfitta, emerge iltunnel entro cui era imprigionata la Civiltà C. Mons. Zanghy si sforza di interpretare il testo di Eze-chiele “Nolo mortem peccatoris, sed ut convertatur et vivat” non come riferito alla morte dell’anima- così interpretano i teologi e gli esegeti - ma alla morte del corpo perché in quella profezia si parlaspesso di pene temporali e perché altrimenti la frase vivat dopo il convertatur ridonderebbe. Ma laCiviltà C. spiega come l’accenno alle pene temporali non impedisce che si parli anche di pene eter-ne, e come il vivat esprima l’effetto del convertatur, e quindi non sia voce superflua. Zanghy ricor-da la frase di Gesù “qui gladio ferit, gladio peribit”e afferma che si tratta di un vaticinio (oggi di-remmo di una dichiarazione di fatto). Ma la Civiltà C. precisa che così non la pensano gli interpreti.Secondo costoro, infatti, Gesù intese dire che chi per privata autorità uccide, è reo di morte, e allu-deva a quel luogo del Genesi, dove Dio espresse a Noè la stessa cosa, quasi con le stesse parole. LaCiviltà C., anzi, rimanda a Cornelio a Lapide, il quale afferma che Gesù Cristo, con quelle parole,come legislatore della Nuova Legge, rinnovò la sanzione dell’Antica contro gli omicidi: “Tutti colo-ro - egli dice - che prenderanno la spada (temerariamente e di propria autorità, come qui faceva Pie-tro) periranno di spada; e cioè sono degni di perire di spada, sono rei di morte, per legge di taglioneson da punire con la spada: la quale legge è comune a tutte le genti ed è, come legge di natura, pro-mulgata da Dio subito dopo il diluvio (Genesi IX, 6)” (97). Bellarmino, poi, dice che il passo dellaGenesi non deve intendersi come predizione (giacché come tale sarebbe stato bene spesso falso),

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ma come ordinazione e precetto divino (98). Circa l’origine divina della legge mosaica in tema dipena di morte la Civiltà C. non ha il minimo dubbio: “E così vediamo nella legge, data da Dio alpopolo ebreo per mezzo di Mosè, ordinata la pena di morte contro il sacrilego, l’omicida, ecc” (99).Mons. Zanghy, invece di dichiarare la legislazione mosaica soltanto mosaica - e cioè una scelta ra-zionale di un gruppo che vive l’appartenenza a Dio all’insegna dell’ambiguità - utilizza un canoneesegetico, largamente sfruttato in altri settori. Il fatto - egli dice - che nella legge di Mosè, data daDio, si ordina la pena di morte non dimostra la legittimità della pena di morte, essendo stata stabi-lita in vista della propensione di quel popolo a contaminarsi, come le altre nazioni d’oriente, dei mi-sfatti più orrendi e delle più atroci vendette. La Civiltà C. osserva che Zanghy “muta la questionedella liceità in quella di opportunità (...). Noi parliamo della liceità e questa non può negarsi, a me-no di accusare d’ingiustizia la legge mosaica, il che sarebbe bestemmia”. Ma la legge mosaica - re-plica Zanghy - concedeva anche il divorzio per cagione di adulterio. Ciò prova - ribatte la Civiltà C.- che il divorzio non è in ogni caso contrario al diritto assoluto di natura e che se nella legge evan-gelica è vietato ciò è per essere stato il matrimonio ricondotto alla sua primitiva perfezione (100).

Per quanto attiene alla opinione dei Padri la Civiltà C.cita ancora Bellarmino, il quale dice:“Innocenzo I, nella epist. 3, ad exuperium, c. 3, interrogato se dopo il battesimo (si noti - sottolineala Civiltà C. - questo post baptisma) fosse lecito al magistrato rivolgere la spada contro i colpevoli,rispose che era senz’altro lecito. Ilario, nel can. 32, commentando il c. 26 di Matteo, dice che è le-cito uccidere in due casi: nel caso che uno svolga l’ufficio di giudice o nel caso che usi la spada perpropria difesa. Girolamo, commentando il c. 22 di Geremia, dice: punire gli omicidi, i sacrileghi e ifabbricatori di veleni non significa effusione di sangue ma impiego delle leggi!

Quanto ai Dottori - dice la Civiltà C. - tutti sostengono il diritto della pubblica autorità di punire imisfatti gravissimi con la pena capitale (101), e cita Melchior Cano il quale afferma che “quandouna dottrina è concordemente sostenuta dagli scolastici, fa segno che è dottrina ricevuta universal-mente nella chiesa di Dio”.

Se la pena di morte fosse di per sé illecita - annota la sorprendente Civiltà C. - i sommi Pontefici,custodi e interpreti della legge divina, non avrebbero dovuto giammai permetterla nel loro territorio,ove essi avevano il dominio temporale. Undici secoli dimostrano il contrario. La condotta pubblicadei Pontefici - in ciò che riguarda la giustizia e l’intrinseca moralità umana - non può avere per re-gola l’andazzo dei tempi e l’altrui provocazione, ma sebbene le descrizioni evangeliche. Se essi,come principi temporali, hanno punito con l’estremo supplizio i rei di gravissimi delitti, è segno checiò è giustissimo e santo e conforme all’ordinazione divina (102).

Ancora nel 1888 (103) la Civiltà C. solleva lamento perché dal 1874 in poi, la pena di morte - sal-vo che nell’esercito - è di fatto abolita. E perciò le 68 condanne capitali del 1880, le 84 del 1881, le66 del 1882, le 59 del 1883, tutte condonate, “non fanno altro ufficio che di rassicurare i parricidi,ussoricidi, e malfattori di ogni maniera”. Quando gli austriaci - ricorda con soddisfazione - nel 1848occuparono le Romagne, la sicurezza pubblica si era talmente deteriorata che gli onesti cittadini nonerano più sicuri un dì per l’altro. Fu però pubblicato lo stato d’assedio, la pena di morte fu fiera einesorabile ma non durò molto, tanto incusse terrore ai malvagi. Dopo la purga si poteva girare dinotte per le città con nella mano un pugno di zecchini in cerca d’un malandrino che li togliesse enon si sarebbe trovato. Così pure andò con i Carbonari, sempre in Romagna. Bastò che Leone XII,con pochi esempi di severità, procedesse contro quel covo di malandrini e la mala setta andò disper-sa per incanto.

Al classico caso di condanna, per errore, di un innocente, la Civiltà C. risponde che è più misere-vole la sorte di tutti gli onesti in balia della immane spietatezza dei malfattori. Fortunata la vittimadell’abbaglio giuridico se in questa prova terribile è sostenuta dai conforti della Fede. I suoi strazisono addolciti alla vista del Redentore spirato innocente sulla croce. Costui, arrivato in paradiso,vedrà quello che il dolore della sventura non gli lasciava forse scorgere quaggiù: e cioè che dellasua morte non è da incolpare la società, bensì i malvagi con i quali le toccò la sventura d’aver co-

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muni le apparenze. Gli abolizionisti - conclude la Civiltà C. - possono farsi beffe di questo compen-so di difetto della giustizia umana andato a cercare nell’altra vita. Per loro la giustizia deve essereperfetta quaggiù, e sanno perfezionarla così bene, che la tolgono di mezzo (104).

Sono queste, ahimé, le estreme conseguenze dello storicismo cristiano della Civiltà C.; secondo ilquale si attua una identità perfetta tra storia e verità, fino cioè a comprimere la novità cristiana pro-prio dentro a quella storia che Cristo era venuto a contestare in funzione salvifica. Vediamo, ora, gliinflussi del messaggio evangelico all’interno delle categorie razionali di un laico cristiano - CesareBeccaria -; il quale, lungi dall’affondare tutto il muso della ragione dentro al mysterium della rivela-zione biblica, s’è mantenuto disponibile per ascoltare la voce di Colui che è prima che Abramo fos-se e prima che Mosè praticasse l’omicidio per attuare una liberazione o introducesse la pena dimorte nelle carni del “popolo eletto” per attuare la “volontà dì Dio”.

Note

(94) Cf. 1974, IX, IV, p. 199-209.(95) Si rilegga, alla nota 38, il pensiero di Duns Scoto sul rapporto fra comandamento e legge natu-

rale. Ciò spiega perché O. Beccaria lascerà fuori della sua indagine il popolo ebreo.(96) Cf. La Civiltà C., 1875, IX, V, p. 65-72.(97) In una successiva risposta al Zanghy la Civiltà C. (cf. 1876, IX, IX, p. 69) riporta tutto il passo

di Cornelio a Lapide tratto dai Commentaria in Matthaeum, c. XXVI, dove si dice: “Così quiTeofilatto, e S. Agostino nelle questioni del Vecchio e Nuovo Testamento, al capo 104. Cristo,dunque, rinnova qui l’antichissima legge di punir con la morte l’omicidio e la sancisce di nuo-vo, perocché egli parla come legislatore della nuova legge “.

(98) Cf. R. Bellarmino, Controversiarum. T.2. Controversia generalis: De membris Ecclesiae, L. 3,c. 13.

(99) Cf. 1875, IX, V, p. 68. L’aspetto pericoloso di questa Fede nel vecchio Testamento consiste neldimenticare i “ma io vi dico” di Cristo, rivolti a tutta l’etica ebraica. Non si mediterà mai ab-bastanza -ripetiamo - la frase di Gesù: “Vi uccideranno credendo di render gloria a Dio”. Seciò dovesse diventare una prassi dei discepoli, ci sarebbe si una società religiosa ma non piùuna Eccklesìa.

(100) Partendo dal presupposto che le permissioni mosaiche fossero da Dio si crea l’antinomia fradiritto assoluto di natura e primitiva perfezione. Ma la primitiva perfezione cui si riferisce Cri-sto, per es., è solo di fatto o anche di diritto? Se è di diritto, come sembra, allora si identificacon il retto iter della natura in quanto creata da Dio e deve quindi cadere la identificazione fralegge mosaica e volontà o pensiero di Dio. Israele credeva e pensava di essere stato eletto daColui che è. Ma Gesù si presenta come uno che intrattiene con Colui che è una relazione ori-ginaria e non mediata. E in nome di questa relazione ha elevato una pretesa senza precedentinella storia dell’uomo: si è presentato come l’unica verità. L’avvenimento del Cristo appartie-ne, dunque, anche alla storia di Israele, ma di quale natura è questa appartenenza?

101) Per Zanghy i Dottori non potendo da un lato smettere i principi del vangelo - che contiene lariabilitazione dell’umanità e perora la causa dei delinquenti - e dall’altro trovandosi spettatoridi non rare scene di legale omicidio si trovarono a giustificare timidamente la pena di morte“con il solo metodo empirico”. La Civiltà C. fa. però notare - e a ragione - che S. Tommaso è,sul tema, tutt’altro che timido.

(102) Tutto ciò è disarmante e appartiene più al fanatismo che alla razionalità risanata dal messag-gio evangelico. Quando si è convinti che Dio ha firmato le nostre leggi e i nostri costumi ci sisente autorizzati a uccidere in suo nome.

(103) Ct. 1888, voi. XI, p. 553.(104) A. Manzoni, vista l’impossibilità di raccordare la concezione della vita degli invitati ai pranzo

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di Don Rodrigo con quella di Padre Cristoforo “Il mio debol parere sarebbe che non vi fosseronè sfide, nè portatori, né bastonate”, chiude il dialogo con queste parole piene di infinita tri-stezza: “Che si poteva rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica e semprenuova? Niente: e così fece il nostro frate” (c. V). Come dire: c’è forse risposta a ragionamentidedotti da una stoltezza ancestrale che non disarma mai? Da parte nostra la tristezza aumentaperché mentre oggi, di questo clima culturale angusto e fanatico, è rimasto solo un ricordo u-miliante, all’epoca in cui era glorioso martoriava gli spiriti e, soprattutto, i corpi.

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Capitolo 11

Beccaria tra storia e verità (1)

Cesare Beccaria comincia col chiamare “scolo de' secoli i più barbari” la legislazione sul cri-mine ereditata dall'epoca sua. Non poteva appellarsi al Vangelo per motivare quella definizioneperché il Vangelo era monopolio della cultura ecclesiastica ed era utilizzato per consacrare ognispecie di “scolo”. Egli si muove con estrema circospezione nel dominio di un establishment umano-divino assai geloso e permaloso. Per comune ammissione esistono tre tipi di giustizie: la divina, lanaturale e l'umana. Le prime due sono immutabili (105), variabile la terza, perché è una “relazionefra l'azione e lo stato vario della società”. Dunque - e in ciò la novità - il diritto criminale, in quantoscienza, deve applicarsi all'ultima classe di azioni (alle azioni politiche) “giacché la giustizia divinadeve essere separata dall'umana e gli affari del cielo vanno oramai a regolarsi con leggi affatto dis-simili da quelle che reggono gli affari mondani” (106). Un giudice non può, dunque, valicare la so-glia della coscienza per rintracciare dei delitti di religione o di pensiero. Beccaria non può ammette-re che si fondi la pena di morte sulla Scrittura, perché si rischia di immischiare nei nostri sporchi af-fari gli affari del Cielo. Ma le gerarchie religiose e civili vedono in lui un pericoloso razionalista cherifiuta la Rivelazione come fonte di ispirazioni legislative, specie in materia penale. Beccaria affer-ma che dobbiamo sempre rimetterci ai teologi per quanto concerne la determinazione dei concetti digiusto e di ingiusto e per quanto riguarda il significato e il valore dell'atto interiore; ma dice ancheche è compito dei filosofi e degli economisti - ossia degli scienziati - stabilire i rapporti del giusto edell'ingiusto, per quanto attiene a ciò che è utile o dannoso alla società. Così, nei confronti del dog-ma religioso, rivendica libertà piena di opinione nel campo del diritto e della politica (107) e la ra-gione illuminata risulta più umana e più progressista della religione. Beccaria sembra essere co-sciente di questa sua collocazione culturale, e a chiunque voglia onorarlo delle sue critiche ripete:“Invece di farmi incredulo o sedizioso, procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico”.Poi, ecco il primo colpo di spugna: “Apriamo le storie - egli precisa - e vedremo che le leggi, chepur sono o dovrebbero essere patti di uomini liberi, non sono state, per lo più, che lo strumentodelle passioni di alcuni pochi» (108). E dopo il colpo di spugna segue la domanda: “La morte è ellauna pena veramente utile e necessaria per la sicurezza e pel buon ordine della società? (... ). Quale èla miglior maniera di prevenire i delitti?” (109).

Beccaria concepisce la pena per il delinquente non come una esplicazione del diritto di punirecome tale, da parte dello Stato, ma soltanto come una necessità della difesa sociale i(110); nega chel'uomo possa arrogarsi il diritto di togliere la vita al suo simile (111), ma sostiene - assumendo ladottrina contrattualista - che il singolo, sacrificando nel contratto sociale il minimo utile personale,per la difesa comune, non può trasferire il diritto sulla propria vita. Per cui “le pene che oltrepassa-no la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di lor natura”. Beccariamette il contrattualismo a fondamento della nuova teoria della pena, perché la teoria della deriva-zione dell'autorità da Dio andava difilato a consacrare la pena di morte. In altre parole: poiché laintellighentia cattolica ufficiale trovava in Dio il fondamento ultimo della pena di morte, Beccariacercò il fondamento della società in elementi più vicini alla società stessa - nell'aggregato delle mi-nime porzioni possibili di libertà - senza negare le ricerche dei teologi. Egli introduce una visionelaica delle istituzioni, secondo la quale è possibile rivedere il diritto. Ma come può aversi una revi-sione del diritto laddove si afferma che Dio stesso lo ha rivelato? “I giudici - precisa - non hanno ri-cevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento, che nonlasciasse ai posteri che la cura di ubbidire, ma la ricevono dalla vivente società, o dal, sovrano rap-presentante di essa, come legittimo depositario dell'attuale risultato della volontà di tutti”. Potrem-mo dire che Beccaria si comporta con il cristianesimo storico così come Cristo si comporta con latradizione ebraica. soltanto che Cristo non annette capacità veramente rivoluzionarle alla “viventesocietà” e si riferisce al Padre non certo per consacrare lo stata quo bensì per spoltrirlo. Cristo, in-

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fatti, oppone al “fu detto dagli antichi” il “ma lo vi dico” e dinamizza poi questo salto di qualità eti-co mettendo, la infinita perfezione del Padre che sta nei cieli, a traguardo storico dei credenti. Ilgiudizio di Beccaria sulla “vivente società cristiana” è giustamente pesante: “I ministri della veritàevangelica, lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine, non sonol'opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto” (112).

Beccaria denuncia altresì l'abuso che gli uomini hanno fatto “dei lumi più sicuri della Rivelazio-ne”, ma osserva che essendo questi i soli che sussistono «nei tempi di ignoranz », ad essi ricorre ladocile umanità in tutte le occasioni e ne fa “le più assurde e lontane applicazioni”. Il dogma delPurgatorio, per esempio, che significa fuoco che toglie macchie spirituali e incorporee, ha ispirato latortura che con i suoi spasimi toglie la macchia sociale dell'infamia. A sua volta, la confessione delreo - che si esige come essenziale alla condanna - ha origine dalla Confessione, appunto, dove laconfessione dei peccati è parte essenziale del sacramento (113). Alla luce di questi principi la penadi morte, per Beccaria, non è un diritto ma “una guerra della azione con un cittadino perché giudicanecessaria o utile la distruzione del suo essere”. E poi il passo più discusso di tutta l'opera. “Lamorte di un cittadino - dice - non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando an-che privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della na-zione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governostabilito. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perdela sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma duranteil tranquillo regno delle leggi (...) io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, senonquando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti: se-condo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte” (114). Dopo aver citatoquesto passo il Cattaneo si chiede come mai nel giugno 1790, Leopoldo di Toscana, ripristinò la pe-na di morte dopo averla abolita nel 1786 dietro suggerimento dell'opera di Beccaria. “Ciò avvenne -egli risponde - perché il legislatore era come un viandante schiarato dalla lanterna del filosofo. Do-ve il lume del filosofo si era ottenebrato, il legislatore aveva smarrito la via. Sì, Beccaria, o per ne-cessità simili a quelle che gli avevano tolto di pubblicare nella sua città nativa i suoi pensieri, o percerta venerazione al potere del quale egli stesso era partecipe, o perché ogni pensiero comunque ar-dito ha il suo limite, non aveva osato affermare l'intera e assoluta abolizione del patibolo (…) Fin-ché il legislatore toscano non ebbe timore che i disordini tenessero luogo di legge, egli stette fermo.Ma nel 1790, quando vide giganteggiare a fronte la Rivoluzione francese, ebbe a riputarsi in dirittodi accettare l'infausta licenza datagli dal suo maestro. Si circoscrisse però a minacciar di morte chiosasse infiammar il popolo e condurlo a pubbliche violenze (...). Beccaria aveva abbandonato allamorte il reato politico, ma il principe s'avvide che quando rimanesse abolita la morte pei delitti pri-vati, non si poteva più colpire l'avversario politico senza ferire la coscienza del popolo - non volleche la morte inflitta ad un avversario politico sembrasse, come era veramente, una guerra e unavendetta e la dissimulò, avvolgendola nel fascio delle infamie volgari usando l'antico artificio delcrocifiggere fra due ladroni - epperò trovossi spinto a colpire di morte anche il delitto d'alterata reli-gione, poi anche il colpevole aborto (115), finché, tornando indietro di passo in passo, giunse all'ec-cesso di minacciar di morte “tuttoché nessuno sia rimasto offeso” (116).

Note

(105) La Rivelazione e la legge naturale - a giudizio di Beccarla – “furono per colpa degli uominidalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di virtù e di vizio in mille modi nelle depravatementi loro alterate”. Ma poco dopo egli dice che l'idea della virtù “religiosa” - riferita al cri-stianesimo – “è sempre una e costante perché rivelata immediatamente da Dio, e da lui con-servata”. Beccaria non esercita la sua ricerca né sulla legge naturale né sulla rivelazione, masolo sulle convenzioni sociali – “Le emanazioni del patto sociale (dice) non possono essere

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ammesse prima del patto stesso” - ed era questo il punto dolente perché i teologi negavano chefossero semplici convenzioni sociali le leggi e i codici promulgati dalle legittime autorità.(106) La dottrina dei due regni (di Dio e del mondo) - sostenuta da Lutero - in sé ambiguaperché rischia di contrapporre i due comandamenti che riassumono tutta la Legge e i Profeti,si rivelò polemicamente utile per contestare i classismi originati dalla consacrazione religiosadella piramide sociale. Nel medioevo solo la professione clericale otteneva un riconoscimentopieno, per cui veniva ad instituirsi una gerarchia tra il compito di insegnare, combattere, nutri-re. Ma per Lutero tutte le professioni - prete, contadino, principe - sono sullo stesso piano ehanno la medesima funzione: “tutti gli stati di vita sono ordinati a servire gli altri”, e non afarsi servire. Peccato che poi Lutero, di fronte alle rivolte politiche e sociali, abbia sostenutoche è preferibile la paziente sopportazione dell'ingiustizia alla ribellione all'autorità voluta daDio. Beccaria si rifà a questo filone contestatario e il suo discorso va inteso come opera di de-contaminazione fra i due regni, giacché il sacro opprimeva e devastava il mondano, con labuona intenzione di salvarlo.

(107) In assoluto il principio è contestabile perché una Rivelazione, se è tale, dovrebbe raddrizzareo sanare le carenze della ragione. Il cristianesimo, infatti, non ammette una autosufficienza e-tica del diritto e della politica. Ma di fronte a una Rivelazione ridotta - mediante riduzioni ga-leotto - a codice penale e politico di re- pressione e di conservazione sociale, il principio sipresenta come una boccata di ossigeno. In verità non bisognerebbe mai dimenticare che ilmessaggio di Cri- sto si identifica con il tentativo rivoluzionario di rendere inutili tutti i codicie non col proposito reazionario di imbottirli con nuovi affanni legalistici. Ciò di- mostra che ilmessaggio o è luminosa testimonianza fattuale o è sale insipido e cioè religiosità da gettare eda calpestare.

(108) Si rilegga la introduzione ai Promessi Sposi per riudire l'eco di queste parole. Le leggi do-vrebbero essere patti di uomini liberi e non comandi dei cielo (legislazione mosaica) o ordinidella ragione promulgati “ad bonum commune ab eo qui comunitatis curam habet” (S. Tom-maso). Se Cristo afferma che solo la verità rende liberi, la Eecklesìa dovrebbe tendere a stabi-lire la verità, non a confermare l'autorità nella falsa convinzione di aver ricevuto da Dio poterie prerogative che Dio non, concede a nessuno. Compito dell'autorità dovrebbe essere - comericorda Beccaria - quello di mirare alla “massima felicità divisa nel maggior numero”.

(109) “Consultiamo il cuore umano - dice Beccaria lettore di Rousseau - e in esso troveremo i prin-cipii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti”. Ci sembra questa la ingan-nevole uscita di sicurezza del secolo. Va così interpretata: occorre trovare un punto di riferi-mento incorrotto e salvifico per liberare l'umanità da principi razionali e rivelati che hannogenerato e generano infinite ingiustizie sociali. Rousseau pensa che ogni rinnovamento debbapassare attraverso il cuore umano, così come esso è, prima di ogni contaminazione. Beccarialo segue e senza negare il diritto del sovrano lo vuol fondare su basi dottrinali nuove, scritteappunto nel cuore. Beccaria pensa forse ai cuori “assetati di verità”; ma il nipote A. Manzonidirà che il cuore in sé preso è un guazzabuglio.

(110) Cf. la tesi del p. Perico alla nota 69.(111) E questo è principio cristiano. Cf., sempre alla nota 69, il testo di Pio XII.(112) Nella Morale cattolica Alessandro Manzoni, inviterà gli uomini di “rettissime intenzioni” a

esaminare le loro opinioni. Capiterà loro, infatti, di trovarne molte che vengono da abitudini,da interesse, da principi “del tutto estranei al Vangelo”, anche se si sostengono “come conse-guenza di esso”. E agli ecclesiastici, in maniera più specifica, dirà di non lasciarsi “mai anti-venire nell'esporre una idea conforme alla vera dignità dell'uomo, e soprattutto all'umanità, alrispetto per la vita e pei dolori del prossimo”.

(113) Beccaria sta qui introducendo una chiave di lettura che sarà largamente utilizzata da Marx.Per Marx, infatti, i fenomeni economici spiegano il perché causale degli atteggiamento reli-giosi. Così, per es., il sistema monetario capitalistico corrisponde al sacramentalismo cattoli-co, in cui la grazia circola come un bene “oggettivo”; mentre la dottrina del libero esame so-

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stituisce la libera concorrenza alla organizzazione cooperativa.114) Beccaria, in verità, elenca le motivazioni per cui “può credersi necessaria” la pena di morte e,

alla fine, sembra accettare come buona solo la prima motivazione; perché, per la seconda (l'e-sempio) non ammette che sia efficace, essendo più efficace « un lungo e stentato esempio diun uomo privo di libertà che divenuto bestia di servaggio, ricompensa con le sue fatiche quellasocietà che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti”. Più che come legittima, nel casoin cui sia in pericolo la “sicurezza della nazione”, la pena di morte è l'andare in sé della irra-zionalità rivoluzionaria. Quando la nazione ricupera o perde la sua libertà è generalmente inguerra civile e, a volte, in anarchia. Per cui la morte di qualche cittadino rientra nel conto dellanecessità. Resta, comunque, « un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblicavolontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano -uno esse medesime e, per al-lontanare i cittadini dall'assassinio, ne ordinino uno pubblico”.

(115) Legge di Ferdinando III, 30 agosto 1795.(116) Cf. C. Cattaneo, Della pena di morte.... opus. cit., pp. 8, 17.

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Capitolo 12

Beccaria tra storia e verità (2)

Beccaria si rivela poi modernissimo nella ricerca ultima delle cause del delitto e nell'analisidel contesto sociale da cui il delitto emerge come crisalide prima, come insetto dannoso poi. Egli siinterroga, precedendo Marx, sulla struttura classista del sociale: ammesso che sia vero che la disu-guaglianza è “inevitabile o utile nelle società” sia anche vero che “ella debba consistere piuttostonei ceti che negli individui; fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico;perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente” (117). E insiste: “A chi dicesseche la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa, per la diversità dell'edu-cazione, per l'infamia che spandesi su d'una illustre famiglia, risponderei che la sensibilità del reonon è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore, -quanto è fatto da chi è più favo-rito”. Tutto da ricuperare è, poi, il discorso di Beccaria sul “come si prevengono i delitti” (c. XLI)perché mette sotto accusa una società strutturalmente ingiusta (118). Questa la situazione: la mag-gior parte delle leggi non è che un fascio di privilegi, e cioè un tributo di tutti al comodo di alcunipochi. Questa la proposta: “Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uoministessi” (119). E poi la grande epanalessi su questa domanda: “Volete prevenire i delitti?”. La primarisposta è provocatoria: “Fate che i lumi - essa dice - accompagnino la libertà (...). Un ardito impo-store che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate diuno illuminato” (120). Dove se ne va, infatti, il rispetto verso la religione istituzionale? Beccaria,senza farne il nome, si mette subito sulle orme del Vico; il quale aveva trovato la maniera di appiat-tire il cristianesimo pur facendone la più superba apologia del secolo. Se i primi uomini sono pas-sati dallo stato ferino alla vita civile per il tramite della “religione”, “fecero dunque un gran bene al-l'umanità - sottolinea Beccarla - quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico granbene politico), e crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uo-mini quelli che osarono sorprenderli e strascinarono agli altari la docile ignoranza (...). Questa ful'epoca della formazione, delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario, e forse unico”(121).

E anche Beccaria, come Vico, dice di voler prescindere, nella sua ricerca, dal “popolo eletto” (gliEbrei) “a cui i miracoli più straordinari e le grazie più segnalate tennero luogo della umana politica”(122). Ma, tornando alla religiosità iniziale, Beccaria insiste nel sostenere che, pur avendo essa fattoun gran bene, resta sempre un errore. E “come è proprietà dell'errore il sottodividersi all'infinito, co-sì le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiu-so labirinto si urtano e si scompigliano di modo, che alcune anime sensibili e filosofiche regrettaro-no (invidiarono) persino l'antico stato selvaggio” (123). Per cui, se la prima filosofia degli uominiconsistette nel passare dalla ferinità all'errore, la seconda consiste nel difficile e terribile passaggiodagli errori alla verità, dall'oscurità non conosciuta alla luce (124). Beccaria assume la chiave deiritorni di Vico, ma dice che chiunque rifletta sulle storie troverà “più volte una generazione interasacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso, ma necessario passaggio dalle tene-bre dell'ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze “.Vico ingloba il cristianesimo nell'epopea storica cantata dalla Provvidenza e ne fa il punto terminaledi un disegno divino che comprende, ahimé, anche la “religione armata”. Beccaria, invece, non ve-de disegni provvidenziali di questa specie, ma soltanto errori.

Dopo aver elencato vari mezzi per prevenire i delitti, Beccaria, a chiusura della grande epanalessi,afferma che “il più sicuro, ma più difficile” è quello di “perfezionare l'educazione” (125). Ma qualeeducazione? Egli non ha dubbi: quella avvistata da Rousseau nell'Emilio (126). Rousseau, infatti, ècolui che offre le principali massime di educazione veramente utili agli uomini. E queste massimepossono essere sintetizzate in tre punti: 1) presentare gli originali e non le copie in ogni ramo dello

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scibile (sia nei fenomeni morali che fisici) (127); 2) spingere alla virtù per la facile strada del senti-mento (129); 3) deviare dal male per la infallibile strada della necessità e dell'inconveniente e noncon l'incerta strada del comando, il quale ottiene soltanto una simulata e momentanea ubbidienza(129). E tuttavia, per intraprendere una educazione delle moltitudini, occorre vivere di consenso.Beccarla vuole che siano pubblici i giudizi e pubbliche le prove del reato perché “l'opinione, che èforge il cemento della società, imponga un freno alla forza e alle passioni”, e perché “il popolo dica:noi non siamo schiavi, e siamo difesi”. Beccaria avverte che solo l'opinione - cemento della società- è capace di imporre un freno alla forza e alle passioni.

Ora, l'opinione è praticamente inesistente nelle dittature ed è molto malata nelle democrazie per-ché il pluralismo fa spazio alle follie della libertà anziché ai suoi fulgori. Per cui aumentando glisquilibri sociali e diminuendo l'omogeneità etico-ideologica, è giuocoforza aumentare anche il con-tingente di polizia (130). Ma una società che è costretta ad aumentare il contingente di polizia piùche prevenire i suoi veri mali, tenta di arginarli in attesa di qualche rivolgimento sociale o della dit-tatura politica. Nei paesi dove esistono sperequazioni sociali profonde e pochissima volontà (o pos-sibilità) politica di intervenire con strumenti democratici per riequilibrare gli squilibri, l'opinionenon è più il cemento della società e non impone più freno alcuno né alla forza (violenza) né allepassioni,(ideologie). E ciò perché l’opinione dei più, pur condannando in teoria la violenza delle ra-pine e dei rapimenti, si domanda altresì perché c'è in giro tanto “bottino sociale” da provocare le u-ne e gli altri; e finisce per aspirare ad una palingenesi sociale in cui si pongano le condizioni struttu-rali per nuovi rapporti umani.

Note

(117) Queste analisi - opiniamo -, più che il tema in sé della pena di morte, allarmarono i censori.(118) I delitti - dice la ragione - è meglio prevenirli che punirli. La prassi, invece, dice: è più facile

reprimere che prevenire.(119) Il cristiano sente che questo doveva essere l'insegnamento specifico e costante della Eccklesìa

fondata da Gesù.(120) Questo discorso dei lumi, opposti alla cosidetta verità cristiana, non poteva essere gradito alle

autorità ecclesiastiche. le quali si appellavano agli eterni principi del Vangelo senza portare re-frigerio alcuno alle ingiustizie istituzionali. E’ vero: i lumi sono ingenuamente identificati conla luce; ma è anche vero che qualcuno aveva messo la luce,evangelica sotto il moggio.

(121) Per Vico, la Provvidenza divina, suscitando negli uomini fieri e violenti, mediante i fenomenicelesti (folgori, ecc.) e il timore ad essi conseguente, un'idea confusa della divinità, fu la veraeducatrice del genere umano. Questi “giganti pii” formarono, dunque, le famiglie, le repubbli-che erculee, le aristocratiche, ecc. (122) E’ rispetto formale verso i teologi?(123) L'allusione èqui a un Rousseau non bene interpretato.

(124) Ognuno immagini come dovesse sentirsi emarginata, in questa diagnosi, la teologia ufficialeche partiva dal presupposto della verità assoluta rivelata da Cristo. Beccaria intende, forse, di-re che la rivelazione fatta al popolo ebreo continua nel cristianesimo e che quindi cammina subinario a parte, mentre la sua indagine riguarda la sola legislazione civile? In ogni caso eccol'iter: stato ferino, stato religioso (o errore), lumi (o apertura al vero).

125) Sul tema insiste lo stesso Cattaneo con estrema lucidità. “Per rattenere il malvagio - egli scrive- (...) non vale la pena; è mestieri accrescere la vigilanza (...) ma la vigilanza è affatto estraneaal diritto penale; essa appartiene ad altro ordine di leggi e di magistrati (...). Nel diritto pre-ventivo la pena diventa un accessorio”. Cattaneo ci ricorda che “il giovane Romagnosi - pocoprima della morte di Beccaria - si era rinchiuso nel rigido principio della controspinta penale.Ritornando negli ultimi anni sul grave argomento aggiunse alla sua opera questo capitolo:“Del prevenire le ragioni dei delittì”. Ricercò le origini del delitto nel difetto di sussistenza, dieducazione, di vigilanza, di giustizia”. A giudizio di Cattaneo il delitto è “un funesto frutto

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delle umane passioni, è un morbo inerente alla vita sociale, come altri mali sono inseparabilidalla vita fisica. Ma ogni delitto impune o invita all'imitazione o provoca alla vendetta. Or senel seno della società un animo, già turbato da sinistre passioni, riceve dalla vista dell'altruidelitto una spinta al male, è sacro dovere della società di rimuovere quell'incentivo funestoche dal suo seno medesimo, o sovente per sua colpa e per sua corruttela, è scaturito. Ma perrimuovere dalla vista pubblica codesto spettacolo del delitto impune e provocante, non è ne-cessario uccidere il colpevole”. Ragion per cui “la vera ed efficace prevenzione dei delitti stanella educazione delle moltitudini” (,Cf. C. Cattanco, Della pena di morte, opus. cit., pp. 23-27). (126) L'Emilio appare nel 1762 (20 maggio); Dei delitti e delle pene nel 1764.

(127) Già Platone voleva che nella sua Repubblica fosse presente l'arte intesa come poiesis (o crea-zione); ma vi voleva esclusa l'arte intesa come mimesi (o imitazione). Cosi pure voleva che igiudici non copiassero da alcuno il concetto di giustizia ma ne fossero essi il diapason, ecce-zion fatta per i detti e per le azioni dell'uomo onesto. Cristianamente parlando, il principiorappresenta una tacita polemica contro il culto dei santi (copie), sovrapposte all'imitazione diCristo (modello). Didatticamente parlando, poi, nessuno dubita che sia meglio vedere unapianta nella foresta anziché ammirarne la figura (o copia) in un testo scolastico.

(128) Anche Platone preferiva la dialettica alla retorica per i giovani, dopo aver preferito, per i fan-ciulli, in sede propedeutica, la proclamazione retorica, (magari tramite il canto) delle verità e-tiche. Ma in Rousseau abbiamo una pericolosa pregiudiziale esclusione della ragione. Perquanto attiene al messaggio cristiano, è da ricordare che Cristo non propone la virtù come finedell'educazione, ma una metànoia creatrice di infinite perfezioni.

(129) Senza voler qui discutere il valore specifico di questo principio dobbiamo dire che la sintesi diBeccaria è assai felice. A. Manzoni, “nella santità dell'assunto generale” dell'opera di Becca-ria, vede “alcune inesattezza particolari di fatto, alcune congetture precipitate”; ma, a suo giu-dizio, anche i “difetti” sono resi “splendidi” dal genio sempre presente. In definitiva: “potè fardiventare senso comune ciò che era paradosso; e, ciò che è ancor più bello, potè farlo trionfarenel fatto”.

(130) Nelle dittature la polizia viene aumentata per prevenire il pluralismo delle opinioni; nelle de-mocrazie per arginare le follie del pluralismo.

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Capitolo 13

Filangieri tra verità e sofisma

Non possiamo chiudere queste note su Cesare Beccaria senza introdurre nel dibattito sulla pe-na di morte un interlocutore come Gaetano Filangieri. Messo all'Indice, come Beccaria, per averfatto una lettura critica e demistificante di un certo cristianesimo storico, rifiuta tuttavia, di Becca-ria, il sillogismo Dei delitti e delle pene tendente ad abolire la pena di morte. Ma ascoltiamo diret-tamente il giovane riformatore napoletano. “Le leggi - egli dice – allorché puniscono, hanno innanziagli occhi la società e non il delinquente: esse sono mosse dall'interesse pubblico e non dall'odioprivato, esse cercano un esempio per l'avvenire e non una vendetta pel passato (...). L'oggetto, dun-que, delle leggi nel punire i delitti altro non può essere, se non quello d'impedire che il delinquenterechi altri danni alla società, e di distogliere gli altri dall'imitare il suo esempio, coll'impressione chela pena da lui sofferta deve fare sui loro spiriti. Se questo fine si può, dunque, conseguire colle penepiù dolci, le leggi non debbono impiegare le più severe” (131). Abbiamo visto con quali cauteleBeccaria assuma il secondo fine della pena e cioè l'esempio (132). Qui ci preme osservare che tuttoquesto discorso di Filangieri non può essere assunto se non a prezzo di profonde modifiche. Eccocome: le leggi, quando puniscono, dovrebbero aver presenti la società e il delinquente. Esse do-vrebbero essere mosse dal bene pubblico e dalla preoccupazione per il delinquente. Esse dovrebbe-ro cercare di rieducare per l'avvenire e non di vendicare il passato. Due dovrebbero essere i finidella pena: 1) impedire che il delinquente rechi altri danni alla società; 2) far si che il delinquentenon sia più tale. Breve: la prima preoccupazione dovrebbe essere la rieducazione anche se la primaoperazione deve preoccuparsi di isolare il delinquente. Ma la prima preoccupazione sarà la rieduca-zione solo se i valori calpestati sono un patrimonio ben solido nella coscienza di tutti i singolimembri della comunità.

Filangieri tenta poi di definire i “diritti sociali”. “Il delitto - scrive - è la violazione di un patto, ela pena è la perdita di un diritto. Le diverse specie di diritti c'indicheranno, dunque, le diverse speciedi pene. Come uomo io ho alcuni diritti, come cittadino ne ho degli altri. La società mi assicura ilgodimento dei primi e mi dona gli ultimi (133). Gli uni e gli altri divengono diritti sociali, subitoche la società o li dà o li difende. Da' diversi oggetti, ai quali si rapportano tutti questi diritti, noipossiamo, dunque, formarne le loro diverse classi, e dedurne le diverse specie di pene. La vita, l'o-nore, la proprietà reale, la proprietà personale e le prerogative dalla cittadinanza dipendenti, sono glioggetti generali di tutti i sociali diritti. Noi avremo, dunque, cinque classi di diritti, e per conse-guenza, cinque classi di pene. Noi avremo pene capitali, pene infamanti, pene pecuniarie, pene pri-vative o sospensive delle civiche prerogative”(134). Filangieri fa rifluire tutti i diritti sotto l'om-brello della società, come se essa ne fosse l'autrice totalizzante. E nel tutti egli inserisce anche lavita. Ora, la società mi assicura il godimento della vita (diritto che ho in quanto uomo) perché la ri-conosce anteriore a sé e non perché la fa o la dona. In ogni caso si riprenda quel- lo che dà ma nonciò che deve riconoscere. Il tentativo di far rientrare la vita al primo posto di un elenco seriale equi-vale al tentativo di voler definire il principio di causatiti come quel principio che assegna una causaa tutto ciò che esiste, e quindi anche a Dio, anziché come quel principio che assegna una causa atutto ciò che non ha in sé i motivi della, propria esistenza.

A questo punto Filangieri riduce “alla precisione sillogistica” il ragionamento di Cesare Beccariaper vedere meglio il nascondiglio dell'errore. “Niuno può dare quel che non ha; ma l'uomo non ha ildiritto di uccidermi; dunque il sovrano, che non è altro che il depositario dei diritti trasferiti dagl'in-dividui al corpo intero della società, non può neppure avere il diritto di punire alcuno con la morte”(135). Questo, per Filangieri, è il “sofisma che ha sedotti tanti giuspubblicisti, e che, so reggesse,potrebbe estendersi a tutte le altre specie di pene (...). Noi potremmo - spiega -, coll'istessa verità,

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dire che la galera, le miniere, l'infamia, la carcere perpetua, sieno pene, delle quali la suprema auto-rità non può far uso, senza commettere un'ingiustizia; poiché, siccome niuno ha il diritto di accele-rarsi la morte, ciò che avviene a coloro che sono condannati ai lavori pubblici, alle miniere, alle ga-lere”. Filangieri corre troppo. La condanna ai lavori pubblici, infatti, non accelera necessariamentela morte. L'accelerava, forse, nei lavori pubblici e nelle miniere dell'epoca di Filangieri. Ma egli, in-vece di alzar la voce contro simili abusi, utilizza il fatto per impugnare un principio.

Filangieri vuole argomentare su rotta pulita e si premura di prendere le distanze sia da Puffendorf(136) che da Rousseau (137). Egli, insomma, tenta di rigorizzare l'argomento a favore della pena dimorte. Ascoltiamolo con attenzione. “Nello stato di naturale indipendenza - egli chiede - ho io il di-ritto di uccidere l'ingiusto aggressore? Niuno ne dubita. Se io, dunque, ho questo diritto sulla suamorte, egli ha perduto il diritto alla sua vita, giacché sarebbe contraddittorio che due diritti oppostiesistessero nel tempo istesso. Nello stato, dunque, della naturale indipendenza vi sono dei casi neiquali un uomo può perdere il diritto alla vita, ed altri può acquistare quello di toglierlo senza che al-cun contratto sia passato tra questi due” (138). Ed eccoci alla lunga domanda che crea un nodo nel-l'argomentazione. “Se l'infelice che l'empio aggressore ha assalito cade morto, in questo caso il di-ritto che questi aveva acquistato sulla vita dell'aggressore resta estinto con la sua morte o si diffondesul resto degli uomini, ciascuno dei quali è vindice e custode delle naturali leggi?”. Filangieri chia-ma Looke a rispondere per lui: “Se deve - sentenzia il filosofo - esistere nello stato di natura il di-ritto di punire i delitti, è chiaro che ciascheduno deve avere questo diritto sopra tutti gli altri, poichétutti gli uomini sono naturalmente uguali” (139). E tuttavia egli vuole aggiungere una sua riflessio-ne all'argomento di Looke. “La natura - osserva - non fa cosa alcuna senza,un oggetto (...). Qualeoggetto potrebbe avere l'odio che in noi si desta contro il reo di un delitto che non interessa, né noi,né i nostri parenti, né i nostri ami- ci? (…). So la natura non avesse dato che al solo offeso il dirittodi uccidere l'aggressore, a che giovava ispirare nel- l'animo degli altri un odio così determinatocontro di lui? (…). E’ dunque da supporre che nello stato attuale essa (la natura) non solo dato ave-va a tutti gli uomini il diritto di punire i delitti, ma aveva aggiunto a questa concessione uno sproneper indurli ad esercitarlo (140). Caino, intriso del sangue di suo fratello, allorché diceva: “il primoche m’incontrerà sarà il mio carnefice”, ci manifestava bastantemente la coscienza, ch'egli aveva,dell'esistenza di questo diritto, e dell'impegno che ciascheduno aver doveva di esercitarlo”. Peccatoche Filangieri trascuri di citare il vero pensiero di Dio in rapporto all'episodio di Caino. Ebbene, èproprio Dio che ferma la mano alla concezione universalmente spontaneistica della vendetta dichia-rando che “chiunque ucciderà Caino avrà castigo sette volto maggiore”. E’ singolare novità umanache Caino si riconosca colpevole, ma è logica assolutamente inedita che Dio, ripetiamo, fermi ilbraccio alle stravaganti e irrazionali ebollizioni della natura.

Filangieri impacchetta, infine, il suo pensiero in un sillogismo e lo oppone al sillogismo di Bec-carla. “L'uomo - egli dichiara - nello stato naturale ha il diritto alla vita: egli non può rinunziare, aquesto diritto, ma può perderlo co' suoi delitti. Tutti gli uomini hanno in quello stato il diritto di pu-nire la violazione delle naturali leggi, e, se la violazione di queste ha reso il trasgressore degno dellamorte, ciascheduno uomo ha il diritto di togliergli la vita” (141). Filangieri parte dal presuppostoche chi uccide perde, semel pro semper, il diritto alla vita. Ora, chi uccide non perde il diritto allavita, ma il diritto all'uso della vita (perde il diritto ad usarla per uccidere). Per cui la società gli to-glie il secondo diritto (l'uso irrazionale della vita), ma non può togliergli il primo diritto (e cioè lavita) (142).

Note

(131) Cf. La scienza della legislazione, vol. III, L. III, e. XXVII.(132) Cf. nota 114.

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(133) Corsivo nostro.(134) Cf. La scienza della legislazione, op. cit., c. XXVIII. A titolo di curiosità riportiamo qui la ri-

sposta di S. Tommaso alla domanda: “Se la vendetta debba esercitarsi con i castighi in usopresso gli uomini”. “La vendetta - egli dice - intanto è lecita e virtuosa in quanto tende a re-primere i malvagi (…). Perciò le colpe vanno punite con la privazione di tutti quei beni chesono più amati dall'uomo, quali la vita, l'incolumità del corpo, la libertà, i beni esterni, ossia lericchezze, la patria e il buon nome. Ecco perché, come riferisce S. Agostino, “Cicerone ha af-fermato che dalle leggi sono contemplati otto generi di pene”, e -cioè. “la morte”, che privadella vita; “la fustigazione”, e “la pena del taglione” (ossia 'occhio per occhio') che compro-mette l'incolumità del collo; “la schiavitù” e “la carcerazione”, che toglie la libertà; “l'esilio”per cui si perde la patria; “il danno” che sacrifica le ricchezze; e “l'infamia” che toglie il buonnome”. (Cf. Somma Teol., II-II, q. 108, art. 3).

(135) Cf. G. Filangieri, La scienza della legislazione, op. cit., c. XXIX; e C. Beccaria, Dei delitti edelle pene, parag. XXVIII.

(136) Puffendorf - a giudizio di Filangieri - con la buona intenzione di confutare il sofisma ne ac-crebbe la forza. Egli, infatti, usa un argomento di similitudine, di poco valore in buona logica.“Siccome nelle cose naturali - egli dice - un corpo composto può avere alcune qualità che nonsi ritrovano in alcuno de' corpi semplici componenti, nella maniera istessa un corpo moralepuò avere, in virtù dell'unione medesima delle persone onde egli è composto, alcuni diritti chenon si appartengono ad alcuna delle persone componenti”. Così l'armonia non appartiene adalcuna delle corde sonore eppure deriva dalla percussione di più corde fatta nello stesso tem-po. Filangieri obietta: “Si potrebbe dire che, siccome cento milioni di cerchi non possono for-mare un Quadrato, perché un cerchio non può mai ridursi a quadratura, così la volontà dicento milioni d'uomini non può render giusto ciò che di sua natura è ingiusto”.

(137) Filangieri cita Rousseau senza tuttavia riassumerne il ragionamento, supponendolo noto.Rousseau cf. Il Contratto sociale, L. II, e. V si domanda “come i particolari che non hanno ildi- ritto di disporre della loro vita, possano trasmettere al sovrano questo diritto ch' essi nonhanno”. Nel rispondere segue due direttrici: 1) “La vita non è solo un beneficio della naturama un dono condizionato dello Stato”; 2) “Ogni malfattore, violando il contratto sociale, di-venta traditore della patria; violando le sue leggi cessa di esserne membro, anzi gli muoveguerra. Allora la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che l'uno ol'altro perisca, e quando si fa morire il colpevole, è più come nemico che come cittadino”. Percui “un tale nemico non è persona morale ma un uomo: ed è diritto di guerra uccidere il vin-to”. Rousseau assume tutta la teorica antica sul tema della pena di morte; soltanto che, avendoresponsabilizzato l'individuo attraverso il patto sociale, non ammette attenuanti sociali per Ilmalfattore. Chiunque infrange il patto sociale non si rivolta al Principe o a una legislazione e-teronoma bensì a una legge da lui voluta e sottoscritta. Filangieri accusa Rousseau di presbio-pia perché vede gli oggetti lontani e non i vicini. “Ognuno - precisa - conosce che la societàdeve avere il diritto di dar la morte a colui che ha ferocemente attentato alla vita degli altri; maquando va in cerca di questo diritto non lo trova. La verità ch'egli vuol vedere, è troppo vicina.Discostiamola e noi la troveremo”.

(138) Filangieri sembra qui scavalcare il tema dei diritti trasmessi al sovrano e sembra volersi ren-dere indipendente da ogni forma di contrattualismo.

(139) Cf. G. Locke, Secondo trattato sul governo civile, c. 11, parag. 7.(140) Abbiamo visto come per R. Lambruschini la pena di morte non fu pensamento di legislatore,

ma decreto spontaneo di indignazione universale (cf.. p. 59). Lo spontaneismo è raramente inordine con la razionalità.

(141) E poi, in una lunga nota, Filangieri tenta di liberarsi dalla obiezione che perseguita i contrat-tualisti: “gli uomini sono tutti uguali nello stato naturale perché hanno uguali diritti. La pena èatto di autorità, dunque nessuno ha diritto di punire”. Egli afferma che nello stato naturale co-lui che attenta un diritto di un altro perde il,diritto corrispondente, quindi non è più uguale al

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resto degli uomini. Tutti gli altri - che non hanno perduto alcun diritto - sono superiori a lui ecome superiori possono punirlo. “Il delitto dunque - conclude Fllangieri - nel tempo stesso chedistrugge l'uguaglianza, trasmette il diritto di punire”. Tutto sta a sapere se resiste meglio allacaduta del sofisma la maggiore di Beccaria o quella di Filangieri (“colui che attenta un dirittodi un altro perde il diritto corrispondente”). Chi mi aggredisce non perde eo ipso il diritto allavita; ma sono io che acquisto li diritto di difendermi. Chi mi aggredisce mantiene il diritto allavita, ma perde il diritto di farne cattivo uso.

(142) Anche E. Kant combatte la tesi di Beccaria e giunge, con argomentazione diversa da quella diFilangieri, alla stessa conclusione: “Nessuno è punito - dice nella Metaftsica dei costumi, IIparte - per aver voluto la punizione, ma per aver voluto un'azione meritevole della punizione”.Ma resta da provare che l'omicidio merita la pena di morte, in sé e per sé e non per legge po-sitiva.

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Parte secondaLe antinomie psico-sociologiche

“Educazione, educazione: eccociò di cui il mondo ha bisogno.

E’ stato questo il tema continuoDei miei scritti, l’argomento dei

Miei colloqui con Cristiano VIII:e ciò passa ora per la cosa più

superflua del mondo”S. Kierkegaard (Diario, 1848)

Capitolo 14

La punta dell'iceberg

E tuttavia ci sembra realistico ammettere che, al di là di tutti gli approdi giuridici e culturali, lapena di morte è, e resterà, lo scheletro nell'armadio. Elenchiamo, perciò, una serie di antinomie cuiattribuiamo il compito di mostrare come il problema della eliminazione del “delinquente” sia lapunta di un iceberg o un capitolo di complesse realtà psico-sociali alle quali non vogliamo applicar-ci nel timore di dover rinunciare al godimento del nostro “particolare” (143). Tutti coloro che me-ditano la rivoluzione armata - siano essi di destra o di sinistra - ammettono la pena di morte in no-me della “necessità”, ma intanto essi non vogliono che essa appaia nella legislazione alla cui rifor-ma stanno applicandosi. Il principio da cui partono i rivoluzionari è identico a quello da cui partonoi sostenitori dello statu quo: occorre eliminare i cattivi per avere una società buona o per lo menotranquilla. Non pare che la giustizia sia frutto di spontaneità e per ottenerla (o per attuarla) la ragio-ne non sembra capace di rinunciare, di fatto, all'uso della pena di morte giuridica o sociale.Plutarco, ci informa che Solone abrogò - tranne la parte riguardante gli omicidi - il codice di Draco-ne che colpiva con la morte tanto i ladruncoli di verdura quanto gli assassini; e riferisce questo a-neddoto: “Il buon Dracone a chi gli chiedeva perché avesse fissato la pena di morte per la maggiorparte dei delitti rispose che per quelli piccoli gli sembrava giusta e che per i grandi non ne avevatrovata una maggiore”.

Dopo aver concesso tutto, o quasi, all'esercizio del sesso, Campanella, nella Città del sole, preve-de ancora la pena capitale per i giovani che, corretti e richiamati, avessero insistito nella sodomia eper le donne che si fossero imbellettate il volto per comparire formose o avessero usato zoccoli altiper parere grandi o vesti allungate per coprire piedi informi. Saint-Just ne Lo spirito della rivoluzio-ne ordina seccamente: “Gli assassini vestiranno di nero per tutta la vita, e saranno mandati al pati-bolo se abbandoneranno questo abbigliamento”.

La struttura ipocrita

Il colmo della ipocrisia umana è dato dal fatto che mentre siamo contro la pena di morte prepa-riamo Senza sosta la guerra. Non esiste, infatti, nazione senza esercito; né “religione” che contestiteologicamente il concetto stesso di nazione e di Stato nazionale. Ripetiamo a noi stessi che la penadi morte non è necessaria e pensiamo che presto o tardi sarà necessaria una guerra per sottrarci una

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volta per tutte, all'incubo della sopraffazione ideologica. E così abbiamo già ucciso, col cuore, indi-vidui, nazioni e continenti. Se è nostra convinzione che delinquenza e rivoluzione armata sono ilfrutto necessario di una società ingiusta, perché non ci applichiamo a rendere più giusta la società?Purtroppo sappiamo - di sapere istintuale - che una società giusta implica la caduta del privilegio dimolti “singoli”; ma il privilegio è connaturato agli ideali di espansione della propria “singolarità”...dunque meglio vivere col timore di essere uccisi che accettare di essere giusti e uguali. La pena dimorte esce così dalle istituzioni giuridiche ed entra nel fatti, e poiché le istituzioni tendono all'ordi-ne prima che alla giustizia, v'è sempre qualcuno che la decreta ai danni dell'altro (144). Se la libertànon ammette controlli sociali per noi, non li ammette neanche per coloro cui non piace la nostramaniera di praticarla. E allora non ci restano che due alternative o mettiamo le carte in tavola conestrema lealtà “sociale” o aumentiamo il contingente di polizia, ferma restando l'accettazione fatali-stica del ritornello del Tonio manzoniano “a chi la tocca la tocca”. La pena di morte, sia pure pre-sentata come diritto alla difesa, fa comodo alle dittature e alle società chiuse ed ingiuste. Ed è altresìvero che il “delinquente” fa calcoli su di una legislazione che ha abolito la pena di morte, ma non,per esempio, la disoccupazione. Il pluralismo giova sempre alla minoranza: al capitalista in tempodi bonaccia, al rivoluzionario durante le crisi sociali e politiche. Nell'orto ben coltivato non fioriscemai la gramigna ma perché esiste l'assistenza pedagogica della prevenzione. Nell'orto mal coltivato,invece, l'unica erba che ha un vero interesse a predicare il pluralismo è la gramigna. Quando anchela buona verdura è costretta a invocare il pluralismo vuol dire che la gramigna è già maggioranza eche la maggioranza può stabilire, di diritto e di fatto, l'etica dell'orto (145).

Ma una società ingiusta, anche se abolisce la pena di morte per mostrarsi civile, o uccide o è ucci-sa. In altre parole: la società, da un lato non vuole iscrivere nel proprio codice la pena di morte, persembrare evoluta; dall'altro lato incentiva l'assassinio e la rapina perché non è capace di promuoverela giustizia sociale o, quanto meno, di colpire severamente il “latrocinio sociale”. Esistono degli in-tellettuali “progressisti” che sono contro la pena di morte, ma non contro l'etica dei delinquenti. Essiammettono tutte le libertà, ma dimenticano che liberi si diventa per il tramite dell'educazione. Equando sono costretti a constatare che la libertà non educata insidia anche la libertà “progressista”non esitano a invocare la pena di morte.

Chi è contro la pena di morte - non per motivazione cristiana - (146) si assuma le conseguenzedella propria scelta: riceva in dotazione il “delinquente” e lo educhi comunque al suo tipo di società.Bisogna uscire con chiarezza dalla propria tenda ideologica e mostrare, con i fatti, la fodera del pro-prio ethos. Nulla di più squallido della figura del poliziotto che è stipendiato - secondo la leggedella piramide capitalistica o clientelare - per difendere i “delinquenti” dello statu quo dai“delinquenti” ostili allo statu quo. Per controllare, infatti, il latrocinio giuridico esiste un nugolosempre più folto di poliziotti, ma chi la fa guardia contro il latrocinio sociale? Per quanto attienealla popolazione carceraria bisognerebbe accertarne l'appartenenza religiosa o ideologica e a quellefonti etiche affidare, per legge, il riscatto educativo e sociale dei singoli “delinquenti”, dopo averottenuto da quelle fonti la descrizione unitaria della mappa dei “peccati” sociali (147).

Note

143) La moltiplicazione della specie, per es., si presenta come un istinto prima che come una indi-cazione finalistica. Ma l'educazione non è istintuale perché esige attenzione, sforzo e rinunce.E alle rinunce siamo disposti nella misura in cui esse contribuiscono a prolungare il proprio lonella prole. Si vuol dire che la madre e il padre sono abbastanza disposti a porgere un certovolume di attenzione al bambino, ma che non hanno disponibilità naturale sufficiente ad affer-rare le mani dell'adolescente che vive la cosidetta “esperienza del trapezio”. L'istinto di ripro-duzione o l'esercizio del sesso tout court, sommerge, dunque, l'impegno educativo. E poichéuomini non si nasce ma si diventa a colpi di educazione, l'incremento dell'homo homini lupus

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è un rischio costante per l'umanità(144) Soltanto in una società equa potrebbe giustificarsi, in teoria, la pena di morte. Ma in una e-

ventuale società equa il violento sarebbe sempre uno squilibrato mentale, da tutti commiseratoe neutralizzato; né mai si presenterebbe col volto misterioso della nemesi sociale.

(145) Ciò spiega perché Cristo abbia istituito una eccklesìa fondata sulla conversione (o fede) e non,per es., una religione di Stato.

(146) La motivazione cristiana è essenzialmente pedagogica e salvifica, e riguarda sia il“delinquente” sia l'ambiente di cui il delinquente è prodotto.

(147) L'istituzione recente del “Quartiere”, intesa come concretizzazione del divide et impera controla delinquenza giuridica e contro la delinquenza sociale, è certamente una istituzione di altis-simo valore pedagogico, specie se opererà in sede preventiva. Ma chi teme il controllo socialenon vuole che il “Quartiere » diventi uno strumento operativo e dice che potrebbe esasperarela tensione sociale e lo scontro politico. Eppure una sana democrazia ha qui l'antidoto per ognispecie di crimine, ammesso che i criminali “sociali” siano una minoranza neutralizzabile.

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Capitolo 15

Le Weltanschauungen occulte

In genere la pena di morte è sostenuta dai timidi e dai disimpegnati socialmente. Perché? Co-storo non hanno il coraggio civile di richiamare il prossimo che commette piccole o grosse - ma e-videnti - infrazioni “sociali”. “Non sta a me - dicono - fare il carabiniere” e tutto minimizzano perapparire “evoluti” e “tolleranti”. Ma poi, quando odono le conseguenze di una libertà cui essi nonhanno sollevato obiezione, neanche in sede di coscienza, si infiammano e chiedono che venga ripri-stinata la pena di morte sul piano giuridico perché così, essi, ancora una volta, vogliono colpire sen-za sporcarsi le mani. La pena di morte denota che una classe si difende, l'abolizione della pena dimorte denota che una classe vuol arrivare al potere senza rischio (148). Il nervosismo contro i“criminali” crea la richiesta della pena di morte; il nervosismo contro le sperequazioni sociali, di cuisono causa i teneri di cuore, crea il “crimine” (149). Il dibattito sull'origine e sulla motivazione delladelinquenza trova schierate, di solito, due visioni del mondo che non vengono mai totalmente espli-citate. La prima potrebbe essere così riassunta: “Gli individui sono colpevoli, dunque la società de-ve difendersi facendo uso del metodo repressivo”. La seconda, invece, in quest'altro modo: “La so-cietà è colpevole perché emargina l'individuo e lo costringe al crimine, occorre dunque cambiare lestrutture per il tramite del metodo preventivo”. Le due visioni del mondo sono totalitarie comunque.La prima toglie la libertà agli individui “deviati”, la seconda toglie la libertà a tutta la società perraddrizzare gli individui. Laddove queste visioni del mondo vengono attuate decrescono i delin-quenti comuni, ma crescono i delinquenti sociali e politici.

Le indignazioni equivoche

Perché l'opinione pubblica sì indigna contro gli atti dinamitardi in cui perdono la vita gli“innocenti”? Perché non potendo colpire una delinquenza sociale che non si vede, riversa tutto ilsuo furore sulla delinquenza che si vede. In ciò favorisce lo statu quo. La polizia, infatti, è assai piùabile e pronta nel rintracciare i delinquenti comuni che nell'ammanettare i delinquenti sociali.Quando, accadono fatti di sangue si operano sondaggi per sapere chi è, o non, favorevole alla penadi morte. Strano paradosso! ma la pena di morte è sempre in atto - ora è praticata dai delinquenti so-ciali e ora dai delinquenti comuni - perché aggiungerne una terza “legale” o “giuridica”? Chi vuolela pena di morte per gli altri è forse un delinquente che non vuole concorrenti? Conviene darsi dafare, invece, per prevenire, il più a monte possibile, la già esistente pena di morte e riflettere senzasosta sul perché qualcuno uccide il prossimo ora utilizzando il giure e ora la rivoltella. Non volendofare un esame di coscienza sui nostri veri mali proponiamo false alternative, nel vano tentativo diliberarci da un fastidio insopportabile. Gesù direbbe: “I delinquenti li avrete sempre tra voi perchésiete dei superdelinquenti!”.

E’ orrida la nostra etica laddove ci costringe a sublimare i gesti dei patrioti e a decorare il carabi-niere che perde o rischia la vita nell'esercizio del proprio do- vere. Si tratta di glorificazioni che ve-getano sulle nostre miserie. Originiamo i delinquenti con una educazione sociale tutta grondanteprofitto e meritocrazia e poi decoriamo le vittime di quei delinquenti che noi stessi abbiamo fabbri-cato. Se i carabinieri uccidono per errore o per determinazione discutiamo con zelo sulla opportu-nità di lasciar loro la rivoltella. Se non arrestano la mano omicida o rapace si polemizza sulla loroinefficienza. Perché questo strano groviglio di senti- menti espresso con logica “politica”? Perchéognuno di noi - essendo delinquente nel subconscio - vede nel carabiniere, volta a volta, il simbolodelle proprie inibizioni o delle proprie aspirazioni alla giustizia. Da un lato non possiamo non de-

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precare la delinquenza (quella altrui) e dall'altro lato vorremmo essere impunemente delinquenti, ecioè liberi di fare tutto ciò che vogliamo.

Guerra di nervi tra porci e lupi

Bisogna dire che la delinquenza si è messa al passo con l'epoca, perché è su misura delle proprievittime. Una volta si uccideva la persona per aver danaro (o la borsa o la vita), adesso per ottenerelo stesso scopo la si sequestra soltanto. Chi è interessato al miele deve avere un certo rispetto perl'ape, specie,quando l'ape fa parte di un favo o di un'arnia. Ci sembra di vedere l'uomo niciano cheaffoga nello sterco di Dioniso! Occorre insistere sul fatto che la categoria dei “sequestrati” (la de-linquenza vede meglio del fisco!) è, in genere, insensibile alla lezione della nuova delinquenza e,anziché riflettere sul puzzo che emana dalla espansione “sociale” del proprio lo, preferisce aumenta-re il proprio profitto per stipendiare la guardia del corpo. Quando l'io si trova tanto bene in questomondo diventa adorabile a tal punto che, per evitargli l'impatto con la morte, conviene lasciar cade-re i cuscini di banconote di provenienza criminosa. La delinquenza conosce il debole della delin-quenza! Una società che sopporta la delinquenza, nelle due facce della medaglia di sequestranti esequestrati, è socialmente putrida perché ha nel suo seno il male segreto dello sfruttamento classi-sta: cancro di cui vuol tacere e morire, ma non guarire. Vorrebbe, una tale società, ripristinare la pe-na di morte nella speranza di trovare un attimo di refrigerio alle proprie ansie “sociali”, ma teme diapparire reazionaria e intanto, poiché nessuno vuol morire eroicamente per svuotare l'incentivo delsequestro o rinunciare alle proprie provocanti ricchezze per renderlo improgettabile, assistiamo allaguerra dei nervi fra porci che vogliono morir di vecchiaia e lupi che vogliono aver parte al ban-chetto dei porci. C'è di più. La tecnica del rapimento, a scopo di lucro, è la risposta a quanti sosten-gono che essere ricco dipende dall'essere intelligente e intraprendente e a,quanti sostengono, di ri-flesso, che un onesto lavoratore è un cretino e un buono a nulla perché non riuscirà mai a uscire dalcircolo chiuso della dipendenza salariale. Se è vero che lavoratore salariato è sinonimo di ,nullafantasia imprenditoriale, ecco la secca smentita dei fatti. Qualcuno è in grado c'ú dimostrare che imiliardi si possono far fluire, con la rapidità del torrente, dalle casse degli snobbatori dei cretini nel-le tasche dei cretini stessi (150). Qualcuno, accanto alle nuove etiche sessuali - peraltro coltivatecon passione dalla classe dei sequestrati -, ha anche pronta una nuova etica sociale. Il corpo sociale- dice - è, come la natura, disseminata di giacimenti auriferi e diamantiferi, li preleva il più intra-prendente. Perché rispettare, in questo campo, una moralità che non viene rispettata in nessun altrosettore della vita sociale?

L'etica cristiana e la metànoía

Come può accordarsi una eventuale “etica cristiana” con questa dialettica di egoismi, se gli egoi-smi non si annullano nella metà-noia? La scelta della pena di morte è, dunque, in posizione con-traddittoria rispetto al messaggio di Cristo; il quale prevede, come punto di partenza, una conver-sione accompagnata dal perdono dei “peccati”. Gesù Cristo, proprio perché non si muove sul pianogiuridico ma sul piano dell'assolutezza coscienziale, non perdona mai né per amicizia, né per inte-resse, né per politica. Egli perdona solo in seguito o in rapporto alla conversione. Una morale cri-stiana che decampasse da questo schema andrebbe in- contro a pericolosi inconveniente esistenziali,perché finirebbe per predicare amore e rispetto al prossimo anche se quest'ultimo fa uso del sopru-so, dello sfruttamento, della violenza. Ma una società che non vuole assumersi il peso dell'educa-zione né prima né dopo l'emergenza del delitto, perché si vergogna di credere nel peccato, saràsempre sporca di sangue criminoso sia quando sceglie la pena di morte per “difendersi” da se stessa,sia quando la rifiuta per “celebrare” se stessa. In ogni caso essa disdegna di voler conoscere perché

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è costretta a bilanciarsi, senza sosta, fra permissivismo e repressione. Qualcuno dice: “Per noi cri-stiani la pena di morte è un ritorno al paganesimo e una repulsa del Discorso della Montagna”. L'e-quivoco è nato quando e perché l'intellighentia cristiana ha voluto istituzionalizzare la novità evan-gelica nel “sociale”, nel “politico”, nel “giuridico”, proprio laddove nessuno al mondo potrà mai i-stituzionalizzarla senza toglierle la sua specificità rivoluzionaria, e cioè il richiamo costante allaconversione. Non si può, infatti, invocare la carità di Cristo all'interno di uno Stato o di una societàche la ignorano nei rapporti primari del loro stesso essere. La carità di Cristo si muove a livello dicontinua conversione e non può essere invocata, come un elemento, vagamente umanistico o reli-gioso, staccato dalla totalità del discorso salvifico. Quando Cristo incontra il “criminale storico”, loriconsidera dal suo punto di vista di “salvatore” e a quel livello ne tenta il ricupero. Ma poiché at-torno a questo criminale ve ne sono altri che non si considerano tali, anche se sono della stessa fa-miglia, Cristo non può diventare il cappellano di alcun sistema (151). La visione cristiana,del mon-do - lo ripetiamo - passa attraverso la metànoia di più singoli e può esplodere solo in una eccklesìa,liberamente assunta, in cui si risolvono, secondo la dinamica dell'agàpe (perequazione totale deisalari) i rapporti socio-economici fra credenti,(152).

Note

(148) Fanno eccezione alcune anime belle e quei teneri di cuore che hanno scrupolo a uccidere unagallina, ma non a firmare giochi di borsa e contratti di sfruttamento.

(149) Il cattolico medio che ha orrore religioso della violenza, si contorce alla notizia dell'uccisionedell'innocente e invoca l'intervento di Dio; ma poi si confessa di aver odiato, in cuor suo, l'as-sassino o gli assassini. Non gli conviene forse portare la sua riflessione - e proprio in quantocredente - sul perché tutto ciò accade? Gli accadrà proprio di constatare, o di scoprire, chequella uccisione è solo un capitolo di altre uccisioni nascoste ai suoi occhi ma non alla sua Fe-de, se è vero che la Fede insegna a vedere delinquenza e sopruso laddove il mondo vede sol-tanto legalità e giusto guadagno. Se il cattolico ha orrore del “peccato”, lo detesti sempre e o-vunque esso è. Del resto il suo orrore rischia di sviare l'attenzione dall'altra delinquenza e sa-rebbe una battaglia perduta contro Satana, il padre del peccato.

(150) Non si dimentichi tuttavia che il sequestro è una “invenzione” utilizzata anche dai rivoluzio-nari e dalla borghesia, per motivi ideologici diversi ma per gli stessi motivi edonistici.

(151) Nell'etica di Gesù sono “delinquenti” allo stesso titolo, sia il ladro, sia l'acquirente, sia il ven-ditore di certi “gioielli” perché in nome della materia, e at- tomo alla materia, sconsacranol'interiorità e la socialità dell'uomo. Avere un boia nelle istituzioni giuridiche fa vergogna, a-verne una legione nelle istituzioni sociali fa necessità e moda insieme. La ferocia sociale nonlascia tracce scritte sui codici così come il volo dello sparviero che ghermisce il passero nonlascia tracce nel cielo. Ma sui codici appare la pena di morte e l'uomo della nostra epoca vuoldare una immagine “civile” di sé ai posteri.

(152) E ciò non per separarsi dagli altri, ma per mostrare agli altri, mediante un modello-brevetto,come si sconfigge, nella pratica, la lotta di classe.

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Capitolo 16

Cristo non fa da giudice

Cristo, dunque non può mai essere implicato in prima persona in alcuna legislazione “storica”perché tende a trascenderle tutte nella Eccklesìa da lui ipotizzata. Ma se la Chiesa storica deve ridi-scutere - nei suoi testi di morale - il problema della pena di morte ciò significa che essa si è trasfor-mata in una società religiosa, dentro o accanto allo stato, tutta impegnata a trovare la maniera di farconvivere - barcamenandosi tra tutiorismo e lassismo - la delinquenza giuridica con la delinquenzasociale. Ma chi - utilizzando il messaggio di Cristo - vuol ricavare qualche interesse temporale dalmestiere di mediatore identifica irreparabilmente la verità con la storia. Il Messaggio, infatti, primache di moralità parla di rinascita spirituale. E Cristo non si è mai prestato a far da giudice moralistafra due delinquenza (neanche nel caso dei due fratelli!) perché egli tende a trasformare le due delin-quenza in due rinascite spirituali. Fra i prodotti dell'arte impegnata contemporanea, troviamo titolicome questo: “La fine dell'individualista”. In genere la scena rappresenta un uomo (l'individualista)appeso a un capestro e circondato da una folla tripudiante che tiene alti, attaccati a un filo, i pallon-cini delle fiere paesane. La morale sociale di Cristo conosce solo la parabola del “prodigo”. Il risul-tato più alto della sua pedagogia - la vera festa - è la conversione mai la soppressione.

Il Clítofonte e il disimpegno educativo

Nel più breve dei suoi dialoghi - il Clitofonte - Platone ritorna, a mo' di raptus, sul tema del bene edel, male rapportato alla libertà umana. Un'anima retta, se riuscirà a conoscere quali siano le suecattive e buone qualità, eserciterà e coltiverà le seconde e fuggirà le prime. Ma dove sono le animerette? Per bocca di Socrate arriva, allora, la puntualizzazione di tutto il dramma sociale: 1) gli uo-mini non fanno nulla di quanto dovrebbero fare; 2) tutto il loro zelo è posto nel procurarsi danaro,né si curano di sapere se i figli sapranno usarlo giustamente dopo averlo ereditato; 3) non esistonomaestri che insegnino ai figli la giustizia, sempre che, si possa insegnare, né maestri che la faccianoesercitare e praticare (se è praticabile). Vè di peggio: gli stessi genitori non si sono coltivati su que-sto tema. La cultura, per essi e per i figli, si riduce a saper leggere e scrivere, a far musica e ginna-stica e credono che in ciò consista la perfetta educazione alla virtù. Quando però si tratta di usar laricchezza, ahimé, non si scorge miglioramento alcuno. E tutto questo andazzo non è sufficiente adichiarare scandaloso, tutto l'odierno sistema educativo? Il nodo del- l'educazione non è nella im-perfezione didattica - per esempio nel fallire una battuta quando si suona la lira - ma nel conflittosociale e politico; nel fatto, per esempio, che fratello assalga fratello e che Stati aggrediscano Stati.Breve: la violenza fra individui e fra Stati è dovuta a una carenza educativa di livello sociale. Aquesto punto la tesi del disimpegno pedagogico replica: “Gli ingiusti sono ingiusti non per deficenteeducazione, o per ignoranza, ma deliberatamente”.

La società (educante!) scarica le responsabilità sugli individui usciti dal suo seno! Ma poi, unatale società, contraddicendosi, dice anche: “l'ingiusta è una turpe cosa e invisa agli dèi”, Resta peròun duro interrogativo: “Come potrebbe uno scegliere deliberatamente un simile male?”. In altre pa-role: come potrebbe uno scegliere ciò che è turpe e inviso agli dèi? (153). La risposta del disimpe-gno infantile: “Così si comporta chiunque non sappia resistere ai piaceri”. Come se la società edu-cante non fosse lei stessa incentivo ai piaceri. “E allora - replica Socrate - non è anche questo unfatto involontario, se vincere dipende dalla volontà?” (volontà, infatti, non ne esiste perché nessunola educa!). L'analisi razionale della situazione ci dice, dunque, che in ogni caso l'ingiustizia è un attoinvolontario, e che a questo - al calo di volontà comune nel resistere all'ingiustizia - occorre ponga-no la massima attenzione sia gli individui per proprio conto, sia gli Stati tutti insieme e di comune

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accordo.

E’ necessario educare

Se ammettiamo che l'uomo nasce buono, abbiamo il compito di fare qualcosa per mantenerlo tale.Se ammettiamo che gli uomini diventano cattivi per una carenza originariamente colpevole, abbianol'obbligo di fare qualcosa per evitare il loro passaggio alla cattiveria. Se ammettiamo che gli uominisono cattivi perché lo vogliono essere, dobbiamo ancora fare qualcosa perché la loro volontà nonvoglia il male. Se ammettiamo, invece, che i cattivi sono tali per nascita e incolpevolmente, come siaddice al “monstrum naturae”, allora abbiamo il dovere di controllare scientificamente i matrimoniperché non avvenga un “falso” incontro di cromosomi. In tutto le ipotesi siamo chiamati a un co-stante impegno pedagogico. Dove e quando - per un qualsiasi motivo - questo impegno si attenua osi estingue, dobbiamo vivere con l'animo diviso fra la tentazione di restaurare la pena di morte o iltimore di essere sommersi dalla violenza.

La tragica ironia manzoniana

Durante il pranzo che precede il colloquio burrascoso di padre Cristoforo con don Rodrigo, ildottor Azzecca-garbugli aveva rilanciato la conversazione, buttando fuori, a caso, la parola“carestia”. “Non c'è carestia - diceva uno -, sono gli incettatori”. “E i fornai - diceva un altro -, chenascondono il grano, impiccarli”. “Appunto impiccarli senza misericordia”. “De' buoni processi”,gridava il Podestà. “Che processi? - gridava più forte il conte Attilio - giustizia sommaria. Pigliarnetre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, sono conosciuti come i più ricchi ed ipiù cani, e impiccarli”. “Esempi, esempi! senza esempi non si fa nulla”. “Impiccarli! impiccarli!; esalterà fuori grano da tutte le parti”. Alessandro Manzoni, dopo aver paragonato l'accavallarsi diquelle chiacchiere al rumore di una fiera e i loro autori a dei cantambanchi, osserva, con tragica i-ronia, che solo due parole si udivano più sonore e frequenti: ambrosia, e impiccarli. A suo giudiziola richiesta della pena di morte è frutto di ubriachezza fisica e mentale perché coloro che la richie-dono sono esattamente coloro che ne sono più degni.

Note

(153) Pur restando problematica la tesi platonica del male come ignoranza, resta vero che se non siè convinti che una prassi è cattiva difficilmente la si abbandona. Il cristiano, infatti, è originatodalla metànoia (o cambiamento di mentalità) e cioè dalla libera ammissione coscienziale chequesta azione è peccato, vale a dire cancerogena per il proprio io e per il corpo sociale.

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