Jules Verne - Lo Humbug

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Racconto

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Jules Verne

LO HUMBUG Usanze americane

Titolo originale dell’opera

LE HUMBUG (MOEURS AMERICAINS) (1863)

Traduzioni integrali dal francese di GIUSEPPE RIGOTTI

Prima edizione: 1984 Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy © Copyright 1984 U. MURSIA &

C.

2668/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29

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PRESENTAZIONE

Questo racconto scherzoso e paradossale rimasto inedito è stato scritto verso il 1863. È stato pubblicato solo nel 1910, nell'opera postuma Hier et demain.

LO HUMBUG

Usanze americane

NEL MARZO del 1863 m'imbarcai sul battello a vapore Kentucky, che fa servizio fra Nuova York e Albany.

In questa stagione dell'anno, considerevoli arrivi di merci provocavano, fra le due città, un grande movimento commerciale, che, d'altronde, non aveva nulla di eccezionale. I negozianti di Nuova York, a mezzo dei loro corrispondenti, intrattenevano continue relazioni con le province più lontane, diffondendo così i prodotti del Vecchio Continente, ed esportando nel contempo le merci di produzione nazionale.

La mia partenza per Albany mi forniva una nuova occasione per ammirare l'attività di Nuova York. I viaggiatori affluivano da tutte le parti, gli uni non perdendo d'occhio i facchini che portavano i loro bagagli, gli altri liberi d'impicci, come dei veri turisti inglesi, il cui guardaroba sta in una minuscola borsa. Si correva a precipizio,

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ciascuno cercando di trovare un posto sul piroscafo, cosa che era resa alquanto difficile dalla speculazione tipicamente americana.

Già i primi due colpi di campana avevano portato lo sgomento fra i ritardatari. L'imbarcadero si piegava sotto il peso degli ultimi arrivati che sono in genere, e dappertutto, delle persone che non possono rimandare il viaggio senza grave pregiudizio. Tuttavia questa folla finì col sistemarsi. Pacchi e viaggiatori s'ammucchiarono, s'incassarono. Le fiamme eruttavano nei tubi della caldaia, il ponte del Kentucky fremeva. Il sole, sforzandosi di vincere la bruma mattutina, riscaldava più che poteva quell'aria di marzo, che vi obbliga a rialzare il colletto del vestito, e a tenere le mani in tasca, mentre dite: oggi farà bello.

Siccome il mio viaggio non era affatto un viaggio di affari, siccome il mio bauletto bastava per contenervi tutto il mio necessario e il mio superfluo, siccome la mia mente non si occupava né di speculazioni da tentare, né di mercati da sorvegliare, vagabondavo col pensiero, rimettendo tutto al caso, questo amico intimo dei turisti, lasciando a lui la cura di farmi incontrare per via qualche soggetto di piacere e di distrazione. Fu a questo punto che scorsi, a tre passi da me, la signora Melvil, che sorrideva con l'aria più graziosa del mondo.

— Oh, voi, signora! — esclamai con una sorpresa che solo la gioia poteva eguagliare — voi affrontare i pericoli e la folla d'un battello dell'Hudson!

— Certo, signore — mi rispose la signora Melvil dandomi la mano alla moda inglese. — D'altronde non sono sola, la mia vecchia e buona Arsinoè mi accompagna.

Ed essa m'indicò, seduta su una balla di lana, la sua fedele negra che la guardava con tenerezza. La parola tenerezza meriterebbe d'essere sottolineata in questa circostanza, perché non vi sono che i domestici negri che sappiano guardare così.

— Per quanto Arsinoè possa esservi di sostegno e di aiuto, signora, — dissi — mi stimo felice del diritto che mi compete d'essere il vostro protettore durante la traversata.

— Se è un diritto, — ella mi rispose ridendo — io non ve ne sarò per nulla obbligata. Ma come mai vi trovo qui? Da quanto ci avevate

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detto, voi non dovevate fare questo viaggio che fra qualche giorno. Perché non ci avete parlato della vostra partenza, ieri?

— Non lo sapevo neppure — replicai. — Mi sono deciso a partire per Albany unicamente perché la campana del battello mi ha svegliato alle sei del mattino. Vedete dunque il caso! Se mi fossi svegliato alle sette, forse avrei preso la via di Filadelfia! Ma voi stessa, signora, ieri sera sembravate la donna più sedentaria del mondo.

— Certo! E infatti voi non vedete qui la signora Melvil, ma soltanto il primo commesso di Henri Melvil, negoziante-armatore di Nuova York, che va a sorvegliare l'arrivo di un carico di mercanzia ad Albany. Voi non potete capirlo, voi, l'abitante dei paesi ultracivilizzati del vecchio mondo!... mio marito non poteva lasciare Nuova York questa mattina, io vado a sostituirlo. Vi prego di credere che non per questo i registri saranno meno ben tenuti e i conti meno esatti.

— Ho deciso di non stupirmi più di nulla! — esclamai. — Tuttavia, se una simile cosa accadesse in Francia, se le donne facessero gli affari dei loro mariti, i mariti non tarderebbero a fare quelli delle loro mogli. Sarebbero loro a suonare il piano, a sistemare i fiori, a ricamare le bretelle...

— Ciò non è molto lusinghiero per i vostri compatrioti, — replicò la signora Melvil ridendo.

— Al contrario! perché io suppongo che le loro mogli ricamino per loro delle bretelle.

Nello stesso istante il terzo colpo di campana si fece udire. Gli ultimi viaggiatori si precipitarono sul ponte del Kentucky, in mezzo alle grida dei marinai, che si munivano di lunghe gaffe per allontanare il battello dalla banchina.

Offrii il braccio alla signora Melvil e la condussi un po' più indietro, dove la folla era meno densa.

— Vi ho dato delle lettere di raccomandazione per Albany... — prese a dire.

— Certamente. Desiderate che ve ne ringrazi per la millesima volta?

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— No, affatto, perché esse sono adesso completamente inutili. Siccome io mi reco da mio padre, al quale esse sono indirizzate, mi permetterete, non solo di presentarvi, ma anche di offrirvi ospitalità in suo nome?

— Avevo dunque ragione di aver fiducia nella buona sorte per fare un piacevole viaggio. E tuttavia, tanto io quanto voi siamo stati sul punto di non partire.

— Perché dite questo? — Un certo viaggiatore, amatore di quelle eccentricità di cui

gl'inglesi avevano il privilegio esclusivo prima della scoperta dell'America, voleva tenere soltanto per lui il Kentucky, tutto intero.

— È dunque un figlio delle Indie Orientali che viaggia con un seguito di elefanti e di baiadere?

— In fede mia, no! Assistevo al suo colloquio con il capitano che respingeva la sua domanda, e non ho visto nessun elefante immischiarsi alla conversazione. Quell'originale, un tipo molto corpulento ed allegro, ci teneva ad essere qualcuno, ecco tutto... Eh, ma! È lui, signora! Lo riconosco... Non vedete laggiù sulla banchina quel viaggiatore che corre e gesticola e schiamazza? Ci causerà un nuovo ritardo, perché il battello sta già lasciando il molo.

Un uomo di media statura, con una testa enorme, dal viso ornato da due cespugli ardenti di favoriti rossi, vestito con una lunga redingote a doppio bavero, e con in testa un cappello da gaucho a larghe falde, giungeva, infatti, tutto trafelato sull'imbarcadero, il cui ponte volante era stato tolto. L'uomo gesticolava, si dimenava, gridava, senza preoccuparsi delle risa che provocava nella folla ammassata intorno a lui.

— Ohe del Kentucky!... Mille diavoli! Ho fissato un posto, è stato registrato, l'ho pagato e mi si lascia a terra!... Per mille diavoli! Capitano, vi ritengo responsabile davanti al giudice supremo ed ai suoi assessori.

— Tanto peggio per i ritardatari! — gridò il capitano salendo su uno dei suoi tamburi. — Siamo tenuti ad arrivare all'ora stabilita, e la marea comincia a calare.

— Per mille diavoli! — urlò di nuovo il grosso uomo. — Otterrò centomila dollari di danni con tutti gli interessi contro di voi!...

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Bobby, — gridò voltandosi verso uno dei due negri che l'accompagnavano — occupati dei bagagli e corri all'albergo, mentre Dacopa metterà in mare qualche canotto per raggiungere quel dannato Kentucky.

— È inutile — gridò il capitano, che ordinò di mollare l'ultimo ormeggio.

— Forza! Dacopa! — gridò di nuovo il grosso uomo, incoraggiando il suo negro.

Costui s'impadronì del cavo nel momento in cui il battello lo trascinava e ne passò sveltamente il capo intorno ad uno degli anelli della banchina. Nel medesimo tempo, l'ostinato viaggiatore si precipitò in una barca fra gli applausi, e con pochi colpi di remo raggiunse la scaletta del Kentucky. Si slanciò sul ponte, corse incontro al capitano e l'apostrofò vivamente facendo chiasso per dieci e parlando con la loquacità di venti comari. Il capitano non poteva dire una sola parola e d'altronde, vedendo che il viaggiatore aveva risolto tutto con un atto di forza, risolse di non preoccuparsene più. Impugnò il portavoce ma proprio nel momento in cui stava per dare il segnale della partenza, il grosso uomo ritornò verso di lui, gridando:

— E i miei bagagli, per mille diavoli? — Come! I vostri bagagli?... — ribatté il capitano. — Sono forse

quelli che stanno arrivando? Fra i viaggiatori si levarono dei mormorii perché quel nuovo

ritardo li spazientiva. — Con chi ve la prendete? — li interpellò l'intrepido passeggero.

— Non sono forse un libero cittadino degli Stati Uniti d'America? Io mi chiamo Augustus Hopkins, e se questo nome non vi dice abbastanza...

Ignoro se questo nome facesse un reale effetto sulla massa degli spettatori. Comunque sia, il capitano del Kentucky fu forzato ad accostare per imbarcare i bagagli di Augustus Hopkins, libero cittadino degli Stati Uniti d'America.

— Bisogna riconoscere — dissi alla signora Melvil — che si tratta davvero d'un uomo singolare.

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— Meno singolare dei suoi bagagli — mi rispose indicandomi due camions che recavano all'imbarcadero due enormi casse di venti piedi d'altezza, ricoperte di tele cerate e legate con un'inestricabile rete di corde e di nodi. L'alto e il basso erano marcati in lettere rosse, e la parola «fragile», scritta a caratteri vistosissimi, faceva tremare nel raggio di cento passi i rappresentanti delle amministrazioni responsabili.

Nonostante le sorde proteste provocate da quei colli enormi, il signor Hopkins tanto fece, coi piedi, con le mani, con la testa e coi polmoni, ch'essi trovarono posto sul ponte, sebbene con fatica e considerevoli ritardi. Infine il Kentucky poté abbandonare definitivamente il molo, e risalì l'Hudson in mezzo alle navi d'ogni specie che lo solcavano.

I due negri di Augustus Hopkins si erano sistemati al posto fissato accanto alle casse del loro padrone. Queste casse avevano il privilegio di eccitare al più alto grado la curiosità dei passeggeri, che si accalcavano intorno, abbandonandosi alle più strane supposizioni. La stessa signora Melvil sembrava preoccuparsene vivamente mentre io, nella mia qualità di francese, mettevo tutte le mie cure a fingere l'indifferenza più completa.

— Che uomo singolare siete! — mi disse la signora Melvil. — Voi non vi preoccupate del contenuto di questi due «monumenti». Per mio conto, la curiosità mi divora.

— Vi confesserò — risposi — che tutto questo m'interessa assai poco. Vedendo arrivare quelle due enormità, ho fatto subito delle congetture azzardate. O esse contengono una casa a cinque piani con i suoi locatari, mi sono detto, o non contengono niente del tutto. Ora, entrambi i casi, che pure sono fra i più bizzarri che si possa immaginare, non susciterebbero in me una sorpresa straordinaria. Tuttavia, signora, se lo desiderate, vado a raccogliere qualche informazione, che vi riferirò.

— Volentieri, — rispose — e durante la vostra assenza io verificherò questi bordeaux.1

1 Termine commerciale internazionale, che sta per elenco delle merci spedite.

(N.d.T.)

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Lasciai la mia compagna di viaggio occupata a verificare i suoi conti con la rapidità dei cassieri di Nuova York, i quali, si dice, non hanno che da gettare uno sguardo su una colonna di cifre per conoscerne immediatamente il totale.

Mentre pensavo allo stupefacente sdoppiamento di personalità di queste graziose donne americane, mi diressi verso colui che faceva da bersaglio a tutti gli sguardi, da soggetto a tutte le conversazioni.

Per quanto le due casse impedissero la vista della parte anteriore del battello e il corso dell'Hudson, il timoniere manovrava il timone con tutta sicurezza, senza preoccuparsi degli ostacoli. Tuttavia questi dovevano essere numerosi, perché nessun fiume, senza fare eccezione per il Tamigi, fu mai solcato da tante imbarcazioni quanto quelli degli Stati Uniti. In un periodo in cui la dogana francese non ne contava che dodici o tredicimila, e l'Inghilterra raggiungeva la cifra di quarantamila, gli Stati Uniti ne contavano già sessantamila, fra cui duemila battelli a vapore che stavano per turbare i flutti di tutti i mari del mondo. Da queste cifre si può giudicare quale fosse il traffico commerciale e spiegare anche i frequenti incidenti dei quali i fiumi americani sono teatro.

È vero che quelle catastrofi, quegli scontri, quei naufragi sono di scarsa importanza agli occhi dei negozianti e forniscono anzi un'attività nuova alle società di assicurazione, che farebbero assai magri affari se i loro premi non fossero esorbitanti. A peso e volume eguali, un uomo, in America, ha meno valore e importanza d'un sacco di carbon fossile o di una balla di caffè. Forse gli americani hanno ragione; ma come avrei dato volentieri tutte le miniere di carbone e tutte le piantagioni di caffè per la mia piccola persona! Epperciò io ero pieno d'inquietudine per quel nostro filare a tutto vapore attraverso quella moltitudine di ostacoli.

Augustus Hopkins non sembrava condividere i miei timori. Egli doveva essere una di quelle persone che saltano, deragliano, affondano piuttosto che mancare un affare. In ogni caso egli non si preoccupava affatto della bellezza delle rive dell'Hudson, che fuggivano verso il mare con grande rapidità. Fra Nuova York, il punto di partenza, e Albany, il punto d'arrivo, non vi erano per lui che diciotto ore di tempo perduto. Le deliziose stazioni della riva, i

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villaggi raggruppati pittorescamente, gli alberi disseminati qua e là nella campagna come dei mazzolini ai piedi d'una prima donna,2 l'animato corso d'un fiume magnifico, i primi effluvi della primavera, nulla poteva distrarre quell'uomo dalle sue preoccupazioni d'affari. Egli andava da un capo all'altro del Kentucky, borbottando delle frasi incompiute; oppure, sedendosi improvvisamente su una balla di mercanzie, egli estraeva da una delle sue numerose tasche un largo e grosso portafogli pieno di carte d'ogni specie. Io credetti perfino di capire ch'egli esibisse con intenzione quella collezione di burocratiche scartoffie. Egli frugava avidamente in una corrispondenza enorme e spiegava delle lettere datate da tutti i paesi, bollate con i timbri di tutti gli uffici postali del mondo, delle quali egli scorreva le fitte righe con un accanimento molto evidente e, credo, molto rimarcato.

Mi parve dunque impossibile rivolgermi a lui per sapere qualche cosa. Invano parecchi curiosi avevano tentato di far parlare i due negri messi di fazione davanti alle misteriose casse; questi due figli d'Africa avevano conservato un mutismo assoluto, che contrastava con la loro abituale loquacità.

Io stavo dunque per ritornare accanto alla signora Melvil, per riferirle le mie impressioni personali, quando mi trovai in un gruppo al centro del quale si accalorava il capitano del Kentucky. Si parlava di Hopkins.

— Tengo a ripetervelo, — diceva il capitano — questo originale non fa altro che così! Sono dieci volte ch'egli risale l'Hudson, da Nuova York ad Albany, sono dieci volte ch'egli fa in modo di giungere sempre in ritardo, sono dieci volte ch'egli trasporta dei carichi simili. Che cosa può significare tutto questo? Lo ignoro. Corre voce che il signor Hopkins stia fondando una grande impresa a qualche lega da Albany, e che da tutte le parti del mondo gli spediscano delle merci sconosciute.

— Deve essere uno degli agenti principali della Compagnia delle Indie, — disse uno dei presenti — che viene a fondare una filiale in America.

2 In italiano nel testo. (N.d.T.)

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— O piuttosto un ricco proprietario di miniere californiane — disse un altro. — Deve avere interesse a qualche fornitura...

— O ad ottenere qualche aggiudicazione che si potrebbe poi concedere in appalto — aggiunse un terzo. — Il «New York Herald» sembrava lasciarlo capire in questi ultimi giorni.

— Noi non tarderemo — riprese un quarto — ad emettere le azioni di una nuova compagnia con un capitale di cinquecento milioni. Io ho prenotato per primo cento azioni da mille dollari.

— Perché per primo? — replicò qualcuno. — Avreste già delle garanzie in questo affare? Io sono pronto a versare l'ammontare di duecento azioni, e anche di più, se è il caso.

— Se ne restano dopo di me! — gridò da lontano qualcuno che non potei vedere in viso. — Evidentemente si tratta della costruzione del tratto di ferrovia da Albany a San Francisco, e il banchiere che ne sarà l'aggiudicatario è il mio migliore amico.

— Perché mai parlate di ferrovia!... Il signor Hopkins ha installato di recente un cavo elettrico attraverso il lago Ontario, e quelle grandi casse contengono le matasse dei cavi di guttaperca.

— Attraverso il lago Ontario! Ma è un affare d'oro! Dov'è il nostro gentleman? — vociarono alcuni negozianti, colti dal demone della speculazione. — Il signor Hopkins vorrà pure illustrarci la sua impresa. A me le prime azioni!...

— No, a me, per favore, signor Hopkins... — No, a me!... — No, a me! Io offro mille dollari di premio!... Le domande e le risposte s'incrociavano, la confusione diventava

generale. Sebbene la speculazione non mi tentasse, seguii il gruppo di trafficanti, che si dirigevano verso l'eroe del Kentucky. Hopkins fu subito circondato da una folla compatta sulla quale non degnò neppure alzare gli occhi. Lunghe file di cifre, di numeri con un imponente seguito di zeri, si allineavano sul suo vasto portacarte. Le quattro operazioni dell'aritmetica pullulavano sotto la sua matita, i milioni gli fuoruscivano dalle labbra con la rapidità d'un torrente; egli sembrava in preda alla frenesia dei calcoli. Il silenzio si fece intorno a lui, nonostante gli uragani scatenati in quelle teste americane dalla passione del commercio.

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Infine, dopo una complessa operazione, nel corso della quale mastro Augustus Hopkins consumò tre volte la punta della sua matita su un 1 maestoso che comandava un esercito di otto magnifici zeri, egli pronunciò queste due parole fatali:

— Cento milioni. Poi ripiegò rapidamente le sue carte, le rimise nel suo terribile

portafogli e si tolse di tasca un orologio adorno d'una duplice fila di pietre preziose.

— Le nove! Sono già le nove! — esclamò. — Questo maledetto battello non marcia dunque! Il capitano?... Dov'è il capitano?

Così dicendo, il signor Hopkins attraversò bruscamente la triplice fila della folla che l'assediava e scorse il capitano curvo sul boccaporto delle macchine, da dove impartiva ordini al meccanico.

— Sapete, capitano, — disse con solennità — sapete che un ritardo di dieci minuti può farmi mancare un affare della massima importanza!

— Con chi parlate di ritardo — rispose il capitano stupefatto d'un simile rimprovero — quando voi solo ne siete la causa?

— Se voi non vi foste intestardito nel volermi lasciare a terra, — ribatté Hopkins, alzando la voce d'un diapason superiore — voi non avreste perso del tempo che costa ben caro, in questo periodo dell'anno.

— E se voi e le vostre casse aveste preso la precauzione di arrivare all'ora fissata — replicò il capitano irritato — avremmo potuto approfittare della marea ascendente, e saremmo tre buone miglia più lontano.

— Queste considerazioni non mi riguardano. Io devo essere prima di mezzanotte all'Hotel Washington di Albany, e se arrivo dopo mezzanotte, tanto sarebbe valso per me non aver lasciato Nuova York. Vi prevengo che, in questo caso, citerò la vostra amministrazione e voi stesso per rifondermi i danni e gl'interessi.

— Voi mi lascerete in pace, invece! — replicò il capitano che incominciava ad arrabbiarsi.

— No, certamente no, finché la vostra pusillanimità e le vostre economie di combustibile mi faranno correre il pericolo di perdere dieci fortune!... Andiamo! Fuochisti, quattro o cinque palate di

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carbone nei vostri forni, e voi, meccanico, premete il piede sulla valvola della vostra caldaia perché si riguadagni il tempo perduto!

E Hopkins lasciò cadere nel locale delle macchine una borsa in cui brillavano alcuni dollari.

Il capitano fu colto da una violenta collera, ma il nostro arrabbiato viaggiatore trovò il modo di gridare più forte e più a lungo di lui. Quanto a me, mi allontanai in fretta dal luogo del conflitto, sapendo che la raccomandazione fatta al meccanico di premere la valvola per aumentare la pressione del vapore ed accelerare la marcia della nave rischiava nientemeno di fare scoppiare la caldaia.

È inutile dire che i nostri compagni di viaggio trovarono l'espediente molto semplice. Così non ne parlai alla signora Melvil, che avrebbe riso fino alle lacrime delle mie assurde paure.

Quando la raggiunsi, i suoi lunghi calcoli erano terminati, e le preoccupazioni commerciali non facevano più corrugare la sua fronte graziosa.

— Avete lasciato il negoziante e ritrovate la donna di mondo — disse. — Potete dunque intrattenerla sull'argomento che meglio vi piacerà, parlarle d'arte, sentimento, poesia...

— Parlare d'arte! — esclamai — dopo quello che ho visto, che ho udito! No, no! Io sono tutto impregnato di spirito mercantile, non ho più orecchio che per il suono dei dollari e sono abbagliato dal loro splendore. Non vedo più in questo bel fiume che una strada molto comoda per le merci, in queste rive affascinanti che un viadotto, in questi graziosi villaggi che una serie di depositi di zucchero e di cotone, e penso seriamente a sbarrare l'Hudson e ad utilizzare le sue acque per impiantarvi un mulino da caffè.

— Toh! Mulino da caffè a parte, è un'idea questa! — Perché, scusate, non potrei avere delle idee anch'io come

qualsiasi altro? — Siete dunque stato roso dal tarlo dell'industria? — replicò la

signora Melvil ridendo. — Giudicatene voi stessa — risposi. Allora le raccontai le diverse scene delle quali ero stato testimonio.

Essa ascoltò il mio racconto gravemente, come si addice ad

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un'intelligente americana, e prese a riflettere. Una parigina non mi avrebbe lasciato parlare la metà.

— Ebbene, signora, che ne pensate di questo Hopkins? — Forse quest'uomo può essere un grande genio speculatore che

fonda un'impresa gigantesca o semplicemente un espositore d'orsi dell'ultima fiera di Baltimora.

Scoppiai a ridere e la conversazione sconfinò in altri argomenti. Il nostro viaggio terminò senza altri incidenti ma ci mancò poco

che Hopkins, volendo smuovere una delle sue immense casse nonostante il parere contrario del capitano, la facesse cadere in acqua. La discussione che ne seguì servì ancora a proclamare l'importanza dei suoi affari e il valore dei suoi colli. Egli fece colazione e pranzò come un uomo che ha bisogno non di ristorare le sue forze, ma di spendere più denaro di quanto gli fosse possibile. Infine, quando arrivammo a destinazione non c'era un viaggiatore che non fosse disposto a raccontare meraviglie di questo straordinario personaggio.

Il Kentucky accostò al molo di Albany prima dell'ora fatale di mezzanotte. Porsi il braccio alla signora Melvil, stimandomi felice d'essere sbarcato sano e salvo, mentre mastro Augustus Hopkins, dopo aver fatto scaricare con grande chiasso le sue due casse meravigliose, entrava trionfalmente, seguito da una folla assai numerosa, all'Hotel Washington.

Io fui ricevuto dal signor Francis Wilson, padre della signora Melvil, con quella grazia e quella franchezza che rendono tanto gradita l'ospitalità. Nonostante i miei rifiuti, fui costretto ad accettare una graziosa camera azzurra nella dimora dell'onorevole negoziante. Io non posso dare il nome di casa a questo immenso edificio; i suoi pur spaziosi appartamenti sono poca cosa accanto ai vasti magazzini dove traboccano le merci d'ogni paese. Un mondo d'impiegati e di manovali formicola in questa vera e propria città, di cui le maggiori case di commercio di Le Havre e di Bordeaux non danno che un'idea imperfetta. Benché il padrone di casa fosse assai occupato, fui trattato come un vescovo e non ebbi neanche bisogno di domandare, meglio di desiderare. Il servizio era disimpegnato da negri, e quando

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si è stati serviti una volta da negri, non si può essere meglio serviti che da se stessi.

L'indomani passeggiai nella deliziosa città di Albany, il cui solo nome mi aveva subito affascinato. Vi ritrovai tutto il fervore di Nuova York, lo stesso movimento d'affari, la stessa molteplicità d'interessi. La sete di guadagno propria dei commercianti, la loro dedizione al lavoro, il loro bisogno di ricavar denaro da tutti i procedimenti che l'industria o la speculazione offrono hanno, nel Nuovo Mondo, un aspetto meno repulsivo di quanto non appaia nei loro colleghi d'oltremare. Vi è nella loro maniera di agire una certa grandiosità che li rende molto simpatici. Si comprende come questa gente abbia bisogno di guadagnare molto perché spende anche molto.

All'ora dei pasti, che furono serviti lussuosamente, e durante la serata, la conversazione, dapprima sulle generali, non tardò molto ad avviarsi intorno ad argomenti specifici. Si parlò della città, delle sue attrazioni, del suo teatro. Il signor Wilson mi sembrò assai informato sugli avvenimenti mondani, e mi parve quanto di più americano si può essere quando il discorso cadde su certe eccentricità del nuovo mondo di cui si era molto parlato anche in Europa.

— Volete alludere — mi disse il signor Wilson — al nostro atteggiamento nei confronti della celebre Lola Montes?3

— Appunto — risposi. — Soltanto gli americani hanno potuto prendere sul serio la contessa di Lansfeld.

— L'abbiamo presa sul serio — rispose il signor Wilson — perché essa si comportava seriamente, così come non diamo importanza agli affari più gravi quando sono trattati con leggerezza.

— Ciò che vi ha più sorpreso, senza dubbio, — interloquì la signora Melvil in tono scherzoso — è che, fra le altre cose, Lola Montes abbia visitato i nostri collegi femminili.

— Confesso francamente — risposi — che il fatto mi è parso bizzarro, perché questa graziosa ballerina non è un esempio da proporre alle fanciulle.

— Le nostre fanciulle — replicò il signor Wilson — sono educate in una maniera più indipendente delle vostre. Quando Lola Montes

3 Lola Montes fu in realtà una donna eccentrica e di costumi assai liberi. Amica

del re Luigi di Baviera, fece parlare molto di sé per le sue stravaganze. (N.d.T.)

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visitò quei collegi, non era né la ballerina di Parigi, né la contessa di Lansfeld, ma una donna celebre la cui presenza era gradevolissima. D'altronde non ne risultò nessuna spiacevole conseguenza per le fanciulle che l'osservavano con curiosità. Era una festa, un piacere, una distrazione, ecco tutto. Dov'è il male in questo?

— Il male è che queste accoglienze esageratamente entusiastiche guastano i nostri grandi artisti.

— Avrebbero di che lagnarsi? — domandò il signor Wilson vivamente.

— Al contrario — risposi. — Ma come Jenny Lind,4 per esempio, potrà considerarsi onorata d'un'ospitalità europea, quando qui in America vede gli uomini più in vista prendere il posto dei cavalli fra le stanghe della sua carrozza, dopo un'acclamata recita? Quale pubblicità varrà mai la celebre fondazione degli ospedali fatta dal suo impresario?

— Voi parlate per gelosia — ribatté la signora Melvil. — Voi serbate rancore a questa eminente artista perché non ha mai consentito di farsi udire a Parigi.

— No, affatto, signora, e, ripeto, io non le consiglierei di venirvi, perché essa non vi troverebbe l'accoglienza che le avete riservato qui.

— Sarete voi a rimetterci — disse il signor Wilson. — Meno di lei, secondo me. — Almeno voi ci perdete degli ospedali — disse ridendo la signora

Melvil. La discussione si prolungò in tono molto brioso, finché il signor

Wilson mi disse: — Poiché queste esibizioni e queste pubblicità v'interessano, ecco

che capitate a proposito. Domani ha luogo l'aggiudicazione dei primi biglietti per il concerto della signora Sontag.

— Un'aggiudicazione né più né meno che se si trattasse dell'appalto d'una ferrovia?

— Proprio così, e l'acquirente che si è messo in vista questa volta per le sue audaci pretese è semplicemente un onesto cappellaio di Albany.

4 Cantante svedese (1820-1887). Era molto nota perché cantava in pubblico per

beneficenza. Visse a lungo in America. (N.d.T.)

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— È dunque un melomane? — Lui!... quel John Turner!... egli detesta la musica. La considera

il più sgradevole dei rumori. — Allora, qual è il suo scopo? — Accattivarsi l'opinione pubblica. Farsi pubblicità. Si parlerà di

lui non soltanto in città, ma in tutte le province dell'Unione, in America come in Europa, e si compreranno i suoi cappelli... ne spedirà della paccottiglia!... e rifornirà il mondo intero!

— Ma non è possibile! — Lo vedrete domani, e se voi aveste bisogno d'un cappello... — Non ne comprerò da lui! Devono essere orribili. — Ah, l'arrabbiato parigino! — esclamò la signora Melvil

alzandosi. Presi congedo dai miei ospiti, e andai a fantasticare su quelle

stranezze americane. L'indomani assistetti alla famosa aggiudicazione del primo biglietto

per il concerto della signora Sontag, con una serietà che avrebbe fatto onore al più flemmatico abitante dell'Unione.

Il cappellaio John Turner, l'eroe di questa nuova eccentricità, attirava tutti gli sguardi. I suoi amici l'avvicinavano e lo complimentavano come se egli avesse salvato l'indipendenza del paese. Altri lo incoraggiavano. Si fecero delle scommesse su di lui e su parecchi concorrenti che ambivano lo stesso onore.

L'asta incominciò. Il primo biglietto sali rapidamente da quattro dollari a duecento e poi a trecento. John Turner si riteneva sicuro di accaparrarselo con un ultimo aumento d'offerta. Egli non rincarava se non con una lieve aggiunta al prezzo offerto dai suoi avversari, poiché a questo brav'uomo bastava ottenere il biglietto con la differenza d'un solo dollaro; ed egli contava sacrificarne, se fosse stato necessario, un migliaio per l'acquisto del prezioso posto. I tre, quattro, cinque e seicento dollari si succedettero con una certa rapidità. I presenti erano eccitati al più alto grado, e mormorii d'approvazione salutavano le offerte sempre più spinte. Questo primo biglietto aveva un valore inaudito agli occhi di tutti, e non ci si preoccupava troppo dei successivi. In una parola, era una questione d'onore.

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Ad un tratto, un urrà più prolungato degli altri echeggiò nell'aria. Il cappellaio aveva gridato con voce sonora:

— Mille dollari! — Mille dollari — ripeteva l'agente controllore. — Nessuno offre

di più?... Mille dollari il primo biglietto del concerto!... Tutti zitti?... Durante le pause di silenzio che seguivano a queste esclamazioni,

si sentiva che un sordo fremito percorreva la sala. Ero impressionato mio malgrado. Turner, sicuro del suo trionfo, volgeva uno sguardo soddisfatto sui suoi ammiratori. Egli aveva in mano un pacchetto di biglietti di una delle seicento banche degli Stati Uniti, e li sventolava mentre ancora una volta echeggiavano queste parole:

— Mille dollari! — Tremila dollari! — gridò una voce che mi fece voltare la testa. — Urrà! — urlò la sala entusiasta. — Tremila dollari — ripeté l'agente. Davanti ad un simile acquirente, il cappellaio aveva abbassato la

testa ed era fuggito, non visto, in mezzo all'eccitazione generale. — Aggiudicato a tremila dollari! — disse l'agente. Allora vidi il signor Augustus Hopkins in persona, il libero

cittadino degli Stati Uniti d'America, farsi avanti. Evidentemente egli era diventato una celebrità e non restava più che comporre inni in suo onore.

Lasciai la sala con grande difficoltà, facendomi strada fra quelle diecimila persone che attendevano alla porta il trionfante acquirente. Non appena egli comparve, fu accolto da entusiastiche acclamazioni.

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Per la seconda volta da quando era sbarcato, fu ricondotto all'Hotel Washington da un foltissimo stuolo di ammiratori. Frattanto egli salutava con aria modesta e superba nel medesimo tempo; la sera, poiché tutti lo sollecitavano, acconsenti a mostrarsi al balcone dell'albergo, applaudito da una folla in delirio.

— Ebbene, che ne pensate? — mi domandò il signor Wilson, quando, dopo cena, lo misi al corrente degli avvenimenti della giornata.

— Penso che nella mia qualità di francese e di parigino, la signora Sontag sarà tanto gentile da farmi avere un posto gratuito, senza che io abbia bisogno di sborsare quindicimila franchi.

— La penso anch'io così, — mi rispose il signor Wilson — ma se questo signor Hopkins è un uomo abile, quei tremila dollari possono fruttargliene centomila. Un uomo che ha saputo raggiungere quel grado di eccentricità non ha che da chinarsi a raccogliere i milioni.

— Chi può mai essere questo signor Hopkins? — domandò la signora Melvil.

Era quello che tutta la città di Albany si chiedeva in quel medesimo momento.

Gli avvenimenti s'incaricarono di dare la risposta. Alcuni giorni dopo, infatti, delle nuove casse di forma e di dimensioni anche più straordinarie arrivarono con il battello a vapore di Nuova York. Una di queste casse, che aveva l'aspetto d'una casa, imboccò imprudentemente o prudentemente, come si vorrà, una delle strette viuzze dei sobborghi d'Albany. Ma quasi subito non le fu più possibile avanzare, e le toccò restare dove si trovava, immobile come un blocco di roccia. Per ventiquattro ore tutta la popolazione della città si portò sul luogo dell'avvenimento. Hopkins approfittava di questi assembramenti per tenere dei discorsi magniloquenti. Egli tuonava contro gli ignoranti architetti del luogo e parlava nientemeno di far mutare l'allineamento delle case della città per permettere il passaggio dei suoi colli.

Fu assai presto evidente che bisognava optare fra due soluzioni, o demolire la cassa, il contenuto della quale eccitava la curiosità, o abbattere la catapecchia che formava ostacolo. I curiosi di Albany avrebbero certamente preferito la prima soluzione, ma Hopkins non

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l'intendeva così. Tuttavia le cose non potevano restare a quel punto. Nel quartiere la circolazione era interrotta e la polizia minacciava di far procedere giuridicamente alla demolizione della maledetta cassa. Hopkins tagliò la testa al toro comprando la casa che gli era d'ostacolo, poi la fece abbattere.

Vi lascio pensare quanto quest'ultimo tratto di genio lo ponesse sul più alto gradino della celebrità. Il suo nome e la sua storia fecero il giro di tutti i salotti. Non si parlò che di lui al Circolo degli Indipendenti e al Circolo dell'Unione. Furono fatte delle nuove scommesse nei caffè di Albany sui progetti di questo uomo misterioso. I giornali pubblicarono le supposizioni più arrischiate, che distolsero momentaneamente l'attenzione pubblica dalle difficoltà sopraggiunte fra Cuba e gli Stati Uniti. Credo anche che avvenisse un duello tra un negoziante e un ufficiale della città, e che il campione di Hopkins abbia trionfato in questa occasione.

Così, quando ebbe luogo il concerto della signora Sontag, al quale assistetti assai più riservatamente del nostro eroe, questi, con la sua presenza, mancò poco non mutasse lo scopo della riunione.

Infine il mistero fu spiegato, e lo stesso Augustus Hopkins non tentò più di dissimularlo. Quest'uomo era semplicemente un imprenditore che veniva a fondare una specie d'Esposizione Universale nei dintorni d'Albany. Egli tentava per suo conto una di quelle imprese colossali che fino ad oggi erano monopolio dei governi.

A questo scopo, egli aveva comprato, a tre leghe da Albany, un'immensa pianura incolta. Su quel terreno abbandonato non c'erano che le rovine del forte William, che un tempo proteggeva le case di commercio inglesi poste sulla frontiera del Canada. Hopkins già si dava da fare ad assoldare operai per incominciare i suoi giganteschi lavori. Le sue immense casse contenevano indubbiamente degli utensili, delle macchine da impiegare nelle sue costruzioni.

Non appena questa notizia fu diffusa alla Borsa d'Albany, i negozianti se ne preoccuparono al massimo. Ciascuno di essi cercò di accordarsi con il grande imprenditore per strappargli delle promesse d'azioni. Ma Hopkins rispondeva evasivamente a tutte le domande. Questo non impedì di stabilire un corso fittizio per queste azioni

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immaginarie, e l'affare incominciò da quel momento ad assumere una proporzione enorme.

— Quest'uomo — mi disse un giorno il signor Wilson — è un abilissimo speculatore. Ignoro se è milionario o pezzente, perché bisogna essere Giobbe o Rothschild per tentare simili imprese, ma farà certamente una immensa fortuna.

— Non so più che cosa credere, mio caro signor Wilson, né quale dei due ammirare, se l'uomo che affronta simili affari, o il paese che li appoggia, senza domandarne di più.

— È così che si diventa qualcuno, mio caro signore. — O che ci si rovina — risposi. — Ebbene — replicò il signor Wilson — sappiate che in America

un fallimento arricchisce tutti e non rovina nessuno. Soltanto i fatti avrebbero potuto darmi ragione. Così aspettai con

impazienza il risultato di queste manovre e di queste pubblicità, che m'interessavano al massimo grado. Raccoglievo intanto i minimi particolari relativi all'impresa d'Augustus Hopkins e ogni giorno leggevo nei giornali tutte le notizie che la riguardavano. Una prima partenza d'uno scaglione di operai era già avvenuta, e le rovine del forte William incominciavano a scomparire. Non si parlava più che di questi lavori e del loro scopo che destava un sincero entusiasmo. Le proposte arrivavano da ogni parte, da Nuova York come da Albany, da Boston e da Baltimora. Le società produttrici di «strumenti musicali», di «dagherrotipi», di «panciere elastiche», di «pompe centrifughe», di «pianoforti a coda» facevano a gara per iscriversi e figurare nei posti più vistosi e l'immaginazione degli americani non aveva più freni. Si assicurava che intorno all'Esposizione sarebbe sorta un'intera città. Si attribuiva ad Augustus Hopkins il progetto di fondare una città rivale di Nuova-Orléans e di darle il suo nome. E si aggiungeva subito che questa città, beninteso fortificata a causa della sua prossimità con la frontiera, sarebbe presto diventata la capitale degli Stati Uniti, eccetera.

Mentre queste esagerazioni proliferavano nei cervelli, l'eroe di tutto quel movimento restava quasi silenzioso. Veniva regolarmente alla Borsa d'Albany, s'informava degli affari, prendeva nota degli arrivi ma non apriva mai bocca sui suoi vasti disegni. Ci si meravigliava

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perfino che un uomo della sua forza non facesse nessuna pubblicità. Forse sdegnava quei mezzi ordinari per lanciare un'impresa e si rimetteva al suo stesso merito.

Ora, le cose erano a questo punto, quando, un bel mattino, il «New York Herald» inserì nelle sue colonne la seguente notizia:

«Tutti sanno che i lavori dell'Esposizione Universale d'Albany progrediscono con rapidità. Le rovine del vecchio forte William sono già scomparse, e si sta lavorando alle fondamenta di meravigliosi monumenti, fra l'entusiasmo generale. L'altro giorno il piccone d'un operaio ha messo a nudo i resti d'uno scheletro enorme, evidentemente sepolto da migliaia di anni. Ci affrettiamo dunque ad aggiungere che questa scoperta non ritarderà in nulla i lavori che devono dare agli Stati Uniti d'America l'ottava meraviglia del mondo».

Lessi queste poche righe con l'attenzione che si può prestare agli innumerevoli fatti di cronaca che pullulano nei giornali americani. Ma non esclusi affatto che in seguito si potesse attribuire molta importanza a questa notizia apparentemente trascurabile. In effetti, questa scoperta assunse agli occhi di Augustus Hopkins un'importanza straordinaria. Tanto fu riservato riguardo ai suoi ulteriori progetti relativi alla grande impresa, quanto fu prodigo di discorsi, di narrazioni, di riflessioni, di deduzioni, sull'esumazione di questo prodigioso scheletro. Si sarebbe detto ch'egli subordinasse a questo ritrovamento tutta la sua fortuna.

Del resto, sembrava che questo ritrovamento fosse realmente miracoloso. Gli scavi venivano effettuati direttamente agli ordini di Hopkins, allo scopo di poter ritrovare l'altra estremità del fossile gigantesco, ma tre giorni di lavoro indefesso non avevano ancora prodotto alcun risultato. Non si poteva dunque prevedere fin dove giungessero le sorprendenti dimensioni dello scheletro, quando Hopkins, che faceva eseguire gli scavi a duecento piedi dalle prime buche, scorse infine il capo di quella ciclopica carcassa. La notizia si diffuse subito con inaudita rapidità, e questo fatto unico negli annali della geologia assunse il carattere d'un avvenimento mondiale.

Con il loro particolare e fantasioso gusto dell'iperbole, gli americani non tardarono a diffondere in vari toni e modi la notizia,

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accrescendone l'importanza. Ci si domandò da dove potevano provenire quéi colossali resti, cosa si poteva dedurre dalla loro esistenza nel suolo indigeno; e accurati studi furono ben presto iniziati dall’'Albany Institute.

Questo argomento, devo confessarlo, mi interessava ben altrimenti che gli splendori del Palazzo dell'Industria e le speculazioni eccentriche del Nuovo Mondo; ragion per cui mi misi a seguire con grande attenzione gli sviluppi della faccenda. Non fu cosa difficile, perché i giornali la trattarono sotto tutte le forme possibili. D'altronde fui abbastanza fortunato di poterne apprendere tutti i particolari dallo stesso cittadino Hopkins.

Dal momento della sua comparsa nella città di Albany, quest'uomo straordinario era stato ricercato dalla miglior società del posto. Negli Stati Uniti, dove la classe eletta è quella commerciante, era più che naturale che un così audace speculatore fosse ricevuto con gli onori dovuti al suo rango. Ed egli fu accolto nei circoli, nei té familiari, con una premura tutta speciale. Una sera io l'incontrai nel salotto del signor Wilson. Naturalmente la conversazione riguardava il fatto del giorno, e, d'altronde, il signor Hopkins stesso preveniva tutte le domande.

Ci fece una descrizione interessante, profonda, erudita, e tuttavia spiritosa, della sua scoperta, del modo in cui era avvenuta e delle sue conseguenze incalcolabili. Nello stesso tempo lasciò intravedere ch'egli pensava di specularvi sopra.

— Solo che — ci disse — i nostri lavori sono momentaneamente fermi, perché fra i primi e gli ultimi scavi che hanno messo allo scoperto le estremità di questo scheletro, si estende un certo spazio di terreno, sul quale sono già state innalzate alcune delle mie nuove costruzioni.

— Ma voi siete certo — gli venne domandato — che le due estremità dell'animale si ricongiungano sotto questa parte inesplorata del suolo?

— Su questo non può esistere il minimo dubbio — rispose Hopkins con sicurezza. — A giudicare dai frammenti ossei che noi abbiamo dissotterrato, questo animale deve avere delle proporzioni

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gigantesche e supererà di molto la statura del famoso mastodonte scoperto tempo fa nella valle dell'Ohio.

— Lo credete? — domandò un certo signor Cornut, una specie di naturalista, che praticava la scienza come i suoi compatrioti praticano il commercio.

— Ne sono certo — rispose Hopkins. — Data la sua struttura, questo mostro appartiene evidentemente all'ordine dei pachidermi, perché ne possiede tutte le caratteristiche così bene descritte da Humboldt.

— Che peccato che non lo si possa dissotterrare tutto intiero! — esclamai.

— E chi ce lo impedisce? — interloquì vivamente il Cornut. — Ma... queste costruzioni recenti... Non appena ebbi enunciato la mia idea, che a me sembrava sensata,

vidi spuntare intorno a me dei sorrisi sdegnosi. A quei bravi negozianti sembrava una cosa semplicissima abbattere tutto, anche un monumento, per dissotterrare un contemporaneo del diluvio. Nessuno fu dunque sorpreso nell'udire Hopkins affermare ch'egli aveva già dato ordini in proposito. Ciascuno lo felicitò dal fondo del cuore, e trovò che la sorte aveva ragione di favorire gli uomini intraprendenti e audaci. Per conto mio gli feci i miei più sinceri complimenti, e m'impegnai ad essere uno dei primi a visitare la sua meravigliosa scoperta. Gli promisi anche di recarmi a Exibition Park — denominazione ormai diventata di dominio pubblico — ma egli mi pregò di attendere che gli scavi fossero completamente terminati, perché non si poteva giudicare ancora dell'enormità del fossile.

Quattro giorni dopo, il «New York Herald» forniva nuovi particolari sul mostruoso scheletro. Non era la carcassa né di un mammouth, né di un mastodonte, né d'un meghaterium, né d'un perodactilo plesiausauro, perché tutti i nomi strani della paleontologia furono invocati per antifrasi. I resti summenzionati appartenevano tutti alla terza o al più alla seconda epoca geologica, mentre gli scavi diretti dal signor Hopkins erano stati spinti fino ai terreni primitivi che costituiscono la scorza del globo, e nei quali nessun fossile era stato scoperto fino allora. Questo sfoggio di scienza, del quale i negozianti degli Stati Uniti non compresero gran

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che, produsse comunque un effetto considerevole. Ora, dato che questo mostro non era né un mollusco, né un pachiderma, né un carnivoro, né un mammifero anfibio, come non concluderne che fosse un uomo? E questo uomo era un gigante alto più di quaranta metri! Non si poteva più negare dunque l'esistenza di una razza titanica anteriore alla nostra. Se il fatto era vero, e tutti lo accettavano come tale, le teorie geologiche finora riconosciute dovevano essere modificate, poiché si trovavano dei fossili al di sotto dei depositi diluviani, e ciò attestava ch'essi erano stati sepolti in un'epoca anteriore al diluvio.

L'articolo del «New York Herald» produsse un'immensa sensazione. Il testo venne riprodotto da tutti i giornali americani. Divenne l'argomento di conversazione del giorno, e le più graziose bocche del Nuovo Mondo pronunciarono i vocaboli più astrusi della scienza. Ne nacquero delle grandi discussioni e si dedusse che la scoperta avrebbe fatto un grande onore al suolo americano, tale da consacrarlo culla del genere umano a detrimento dell'Asia. Nei congressi e nelle accademie si provò fino all'evidenza che l'America, popolata fin dai primi giorni del mondo, era stata il punto di partenza delle migrazioni successive. Il Nuovo Continente toglieva al Vecchio Mondo gli onori dell'antichità. Memoriali voluminosi, tutti impregnati di patriottica ambizione, furono scritti su questo argomento così grave. Infine una riunione di scienziati, il cui processo verbale fu pubblicato e commentato da tutti gli organi della stampa americana, provò, chiaro come il sole, che il Paradiso Terrestre, confinante con la Pennsylvania, la Virginia e il Lago Erie, occupava la distesa attuale della provincia dell'Ohio.

Confesso che tutte queste fantasticherie mi sedussero al massimo grado. Io mi figuravo Adamo ed Eva che badavano a greggi di bestie feroci, ma non più in una finzione come in riva all'Eufrate, dove non se ne trova più il minimo vestigio. Il serpente tentatore assumeva nel mio pensiero la forma del boa constrictor o d'un crotalo. Ma ciò che mi stupiva di più era il fatto che si prestava fede a questa scoperta con una convinzione e una condiscendenza meravigliose. A nessuno veniva l'idea che il famoso scheletro potesse essere un puff, un bluff,

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un humbug5 come dicono gli americani, e nessuno di quegli entusiasti scienziati pensava di guardare con i propri occhi il miracolo che esaltava tutti i cervelli. Parlai di questo alla signora Melvil.

— E perché darsi tanta pena? — mi disse. — Noi vedremo il nostro caro mostro a suo tempo. Quanto alla sua struttura e al suo aspetto, lo si conosce, perché non si percorrerebbe un miglio in tutta l'America senza trovarselo davanti agli occhi riprodotto sotto tutte le forme più ingegnose.

Ed era appunto in questo che splendeva il genio dello speculatore. Tanto Augustus Hopkins si era mostrato riservato nel lanciare l'affare dell'Esposizione, quanto dispiegava ardore, inventiva e immaginazione per imporre il suo miracoloso scheletro allo spirito dei suoi compatrioti. Del resto, tutto gli era permesso, da quando le sue stravaganze avevano attirato l'attenzione del pubblico su di lui.

In breve i muri della città furono ricoperti da immensi manifesti multicolori che riproducevano il mostro sotto gli aspetti più svariati. Hopkins esaurì tutte le formule conosciute nel genere degli affissi. Impiegò i colori più vistosi. E con i suoi affissi egli tappezzò i muri, i parapetti delle banchine, i tronchi degli alberi lungo i viali. In alcuni, le righe erano tracciate diagonalmente. Negli altri la pubblicità era fatta con caratteri mostruosamente enormi, dipinti con il pennello dell'imbianchino, che catturavano l'attenzione dei passanti. Uomini giravano in tutte le strade con indosso bluse o cappotti su cui era raffigurato lo scheletro. La sera le loro immagini trasparenti venivano proiettate in nero su un fondale luminoso.

Hopkins non si accontentò di questi mezzi pubblicitari, del resto piuttosto comuni in America. I manifesti e le quarte pagine dei giornali non gli bastavano più. Tenne un vero corso di «scheletrologia», durante il quale citò i Cuvier, i Blumenbach, i Backland, i Link, gli Stemberg, i Brongnart e cento altri che avevano scritto sulla paleontologia. I suoi corsi furono frequentati e applauditi a tal punto che, un giorno, due persone furono schiacciate dalla folla, all'ingresso della sala.

5 Puff, e pouf, bluff, humbug sono tutti termini più o meno equivalenti che

significano montatura, buffonata, imbroglio da ciarlatani. (N.d.T.)

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Non è il caso di dire che mastro Hopkins fece loro dei magnifici funerali, e che le bandiere del corteo riproducevano inevitabilmente le forme del fossile alla moda.

Tutti questi mezzi erano eccellenti per la città e i dintorni di Albany, ma quello che importava era di lanciare l'affare in tutta l'America. Il signor Lumley, in Inghilterra, agli esordi di Jenny Lind, propose ai mercanti di sapone di fornir loro gli stampi gratuitamente, a patto che codesti stampi riproducessero il ritratto dell'illustre primadonna; il che fu accettato e il risultato fu eccellente, poiché tutti si lavavano le mani e la faccia con le sembianze dell'eminente cantante. Hopkins si servì d'un mezzo analogo. Secondo i contratti conclusi con i fabbricanti, le stoffe per confezioni offrirono al buon gusto dei compratori l'immagine dell'essere preistorico. Queste immagini furono anche riprodotte nel fondo dei cappelli. Persino i piatti ricevettero l'impronta di questo sbalorditivo fenomeno; e passo sotto silenzio altre invenzioni. Era impossibile evitarlo. Che ci si vestisse o si mettesse il cappello o si pranzasse, si finiva sempre con il trovarsi nella sua invadente compagnia.

L'effetto di questa ossessionante pubblicità fu immenso. Così quando il giornale, il tamburo, le trombe, le scariche di moschetteria annunciarono che il miracolo sarebbe stato quanto prima visibile all'ammirazione del pubblico, fu un urrà universale. Da questo momento ci si occupò di allestire un immenso salone per contenere - come diceva testualmente la pubblicità - «non il numero degli spettatori entusiasti che sarebbe stato infinito, ma lo scheletro di uno di questi giganti che la favola accusa di aver tentato di scalare il cielo».

Io dovevo lasciare Albany entro pochi giorni. Rimpiangevo vivamente che il mio soggiorno non si prolungasse abbastanza per permettermi di assistere a questo spettacolo unico. D'altro canto, non volendo partire senza nemmeno averne visto qualche cosa, risolsi di recarmi in segreto a Exibition Park.

Un mattino, fucile in spalla, mi diressi da quella parte. Camminai per circa tre ore verso nord, senza aver potuto ottenere nessuna informazione utile al mio scopo. Tuttavia, a forza di cercare il posto

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del vecchio forte William, dopo aver percorso cinque o sei miglia, arrivai al termine del mio viaggio.

Mi trovavo in mezzo a un'immensa pianura, di cui solo una piccolissima parte era stata messa sottosopra da recenti, ma non importanti lavori. Uno spazio considerevole era ermeticamente chiuso da una palizzata. Ignoravo che essa delimitasse lo spiazzo dell'Esposizione, ma ciò mi fu confermato da un cacciatore di castori che incontrai nelle vicinanze, e che si dirigeva verso la frontiera del Canada.

— Sì, è questo, — mi disse — ma io non so che cosa si sta preparando, perché, questa mattina, ho udito sparare non pochi colpi di carabina.

Lo ringraziai e continuai le mie ricerche. Non vedevo la minima traccia di lavori esterni. Un silenzio

assoluto regnava su quella pianura incolta, alla quale delle costruzioni gigantesche dovevano dare vita e movimento.

Non potendo soddisfare la mia curiosità senza penetrare nel recinto, risolsi di farne il giro per cercare di scoprire qualche mezzo d'accesso. Camminai a lungo senza scorgere l'apparenza d'una porta e, piuttosto scornato, non mi arrischiai di desiderare più di una fessura, un semplice buco per applicarvi l'occhio. A un tratto, ad un angolo della palizzata, vidi delle tavole e dei pali rovesciati a terra.

Non esitai a penetrare nel recinto e calpestai allora un terreno devastato. Blocchi di roccia fatti saltare con le mine giacevano qua e là. Monticelli di terriccio sorgevano dal suolo, simili alle onde d'un mare agitato. Arrivai infine al margine d'un profondo scavo, in fondo al quale giaceva una grande quantità di ossa.

Avevo dunque davanti agli occhi l'oggetto di tanto chiasso, di tanta pubblicità. Questo spettacolo non aveva proprio niente di curioso. Era un mucchio di frammenti ossei, di tutte le specie, ridotti in mille pezzetti. Lo sminuzzamento di alcuni di quei frammenti sembrava perfino essere molto recente. Non vi riconoscevo le parti più importanti dello scheletro umano, che secondo le dimensioni annunciate avrebbero dovuto avere una struttura mostruosa. Senza molti sforzi d'immaginazione, potevo credermi in una fabbrica di carbone d'ossa, ecco tutto!

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Rimasi molto confuso, come si può immaginare. Pensai perfino di aver avuto le traveggole, quando scorsi sull'alto d'una scarpata, assieme a impronte di passi, qualche goccia di sangue. Seguendo queste peste giunsi all'apertura, dove notai altre tracce di sangue, alle quali non avevo fatto caso entrando. Accanto alle macchie, un frammento di carta annerita dalla polvere da sparo, e che proveniva certamente dallo stoppaccio d'un'arma da fuoco, attirò la mia attenzione. Tutto questo si accordava perfettamente con quello che mi aveva detto il cacciatore di castori.

Raccolsi il pezzo di carta. E non senza fatica riuscii a decifrare alcune parole che vi erano tracciate. Era un conto di merci fornite al signor Augustus Hopkins da un certo signor Barckley. Niente indicava la natura delle merci fornite. Ma altri frammenti, che io trovai sparsi qua e là, mi fecero comprendere di cosa si trattava. Se la mia delusione fu grande, non potei, in cambio, padroneggiare una risata irrefrenabile. Ero proprio in presenza del gigante e del suo scheletro, ma di uno scheletro composto di parti del tutto eterogenee, che un tempo erano vissute sotto il nome di bufali, di giovenche, di buoi e di vacche nelle pianure del Kentucky. Il signor Barckley era semplicemente un macellaio di Nuova York, che aveva fornito immense quantità di ossa al celebre Augustus Hopkins! Quelle ossa non erano mai salite dal Pelio per dare la scalata all'Olimpo! I loro resti non si trovavano là che per deliberato proposito dell'illustre puffista, che inscenava di scoprirle per caso, scavando fondamenta di palazzi che non sarebbero mai stati costruiti!

Ero a questo punto delle mie riflessioni e della mia ilarità — che sarebbe stata più schietta se, come gli stessi miei ospiti, non fossi stato vittima di quell'incredibile humbug — quando delle grida di gioia risuonarono dal di fuori.

Mi precipitai verso la breccia, e scorsi mastro Augustus Hopkins in persona, che sopraggiungeva, carabina alla mano, con grandi dimostrazioni di piacere. Mi diressi verso di lui. Egli non sembrò affatto inquieto di vedermi sul teatro delle sue gesta.

— Vittoria! Vittoria! — gridò. I due negri Bobby e Dacopa camminavano a una certa distanza

dietro di lui. Quanto a me, fatto prudente dall'esperienza, mi misi in

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guardia, pensando che l'audace mistificatore stava per prendermi come suo bersaglio.

— Sono felice — mi disse — di avere un testimonio di quanto mi capita. Voi vedete un uomo che ritorna dalla caccia alla tigre.

— Dalla caccia alla tigre! — ripetei, risoluto a non credere neppure una parola.

— E alla tigre rossa — aggiunse — altrimenti detta coguaro, che gode d'una assai bella fama di crudeltà. Quel diavolo di animale è penetrato nel mio recinto, come avete potuto constatare. Egli ha infranto la palizzata che fino a questo momento aveva resistito alla curiosità generale, e ha fatto a pezzi il mio meraviglioso scheletro. Appena ne fui informato, non esitai ad inseguirlo per uno scontro all'ultimo sangue. L'ho incontrato a tre miglia da qui, in un macchione. L'ho guardato, ed egli ha fissato su di me i suoi occhi feroci. Si è slanciato con un balzo che non ha potuto terminare se non piroettando su se stesso, perché io l'ho abbattuto con un proiettile alla giuntura della spalla. È il primo colpo di fucile che ho sparato in tutta la mia vita, ma, mille diavoli! mi farà certamente onore e non lo darei per un miliardo di dollari!

«Ecco i milioni che stanno per ritornare a galla» pensai. In quel momento arrivavano i due negri, trascinando effettivamente

il cadavere d'una tigre rossa di una certa grossezza, animale press'a poco sconosciuto in quella regione dell'America. Il suo pelame era d'un fulvo uniforme, le sue orecchie erano nere, e l'estremità della sua coda egualmente nera. Non mi chiesi se Hopkins l'aveva ucciso, o se la bestia gli era stata fornita morta in precedenza, magari impagliata, da un Barckley qualunque, perché io fui colpito dalla leggerezza e dall'indifferenza con cui il mio speculatore parlava del suo scheletro. E tuttavia, era chiaro che tutto questo affare gli costava allora centomila franchi.

Non volendo lasciargli intendere che il caso mi aveva fatto scoprire il segreto delle sue mistificazioni — egli sarebbe stato capace di ringraziarne la Provvidenza! — gli dissi soltanto:

— E come farete ad uscire da questo... vicolo cieco? — Perbacco! — replicò — di quale vicolo cieco parlate?

Qualunque cosa io faccia ora, sarà senz'altro un successo. Un bruto

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ha distrutto il meraviglioso fossile che io destinavo all'ammirazione del mondo intero, perché era assolutamente unico; ma esso non ha distrutto il mio prestigio, la mia influenza, in una parola, la mia celebrità.

— Ma come ve la caverete di fronte al pubblico entusiasta e impaziente? — domandai con gravità.

— Dicendo la verità, null'altro che la verità. — La verità! — esclamai, desideroso di sapere cosa mai egli

intendesse con questa parola. — Certo — disse col tono più tranquillo di questo mondo. — Non

è forse vero che quell'animale è penetrato nel mio recinto? Non è forse vero ch'egli ha fatto a pezzi quelle meravigliose ossa che io ho durato tanta fatica ad estrarre? Non è forse vero che io l'ho inseguito ed ucciso?

«Ecco una quantità di cose sulle quali io non giurerei mai», pensai. — Il pubblico — egli continuò — non può pretendere di più,

poiché sarà informato di tutta la faccenda. Mi guadagnerò anche una riputazione di bravura, e dopo di ciò non vedo quale altro genere di celebrità potrà mancarmi.

— Ma che vi darà la celebrità? — La fortuna, se io so acciuffarla. All'uomo conosciuto tutte le

speranze sono lecite. Egli può tutto osare, tutto intraprendere. Se Washington avesse voluto mostrare dei vitelli a due teste, dopo la capitolazione di York Town, egli avrebbe certamente guadagnato molto denaro.

— È possibile — risposi con serietà. — È certo — replicò Augustus Hopkins. — Così io non ho che

l'imbarazzo della scelta per il soggetto da mostrare, lanciare, esibire. — Sì, — dissi — la scelta è difficile. I tenori sono rauchi; le

ballerine hanno fatto il loro tempo e ciò che resta delle loro gambe non è più in vendita; i fratelli siamesi sono superati, e le foche restano mute a dispetto dei distinti professori che si occupano della loro educazione.

— Non mi rivolgerò a meraviglie del genere. Per quanto logori, strascicanti, superati, muti che siano i tenori, le ballerine, i siamesi e le foche, essi sono fin troppo per uno come me che vale già molto di

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per se stesso! Bene, penso dunque che avrò il piacere di vedervi a Parigi, mio caro signore!

— Fate conto di trovare a Parigi quell'oggetto di poco valore che deve valorizzarsi con il vostro proprio merito? — gli domandai.

— Forse — rispose seriamente. — Se mi riesce di mettere le mani su qualche giovane figlia di portinaia che non sia mai stata promossa al Conservatorio, ne farò la più grande cantante delle due Americhe.

Detto questo, ci salutammo e io ritornai ad Albany. Quello stesso giorno la terribile notizia si diffondeva. Hopkins fu considerato un uomo rovinato. Furono fatte delle grosse sottoscrizioni in suo favore. Ognuno si recò a Exibition Park a giudicare con i propri occhi quanto fosse grande il disastro, ciò che valse non pochi dollari allo speculatore. Egli vendette a un prezzo folle la pelle del coguaro che l'aveva rovinato in un momento così opportuno e conservò la sua reputazione di uomo più intraprendente del Nuovo Mondo.

Da parte mia, ritornai a Nuova York, poi in Francia, lasciando gli Stati Uniti, ricchi, senza che lo sapessero, d'un superbo humbug di più. Ma ormai essi non si possono più contare! Ne conclusi che l'avvenire degli artisti senza talento, dei cantanti senza voce, dei ballerini senza garretti e dei saltatori senza corda sarebbe piuttosto spaventoso, se Cristoforo Colombo non avesse scoperto l'America.