Isca Wittenberg Valutazione in ambito psicoterapico

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Riassunto ROMOLO ROSSI, Professore ordinario di Clinica Psichiatrica. Università di Genova. Bibliografia Valutazione In ambito psicoterapico (1) Per una disamina sistematica dell'argomento, vedi: Harris M., Meltzer D. (1977): A Ps)'choanalitic Model 01 the Child in the Family in the Community. Ginevra: W.H.O. ISCA WITTEMBERG INTRODUZIONE Quello della valutazione è un campo molto vasto: accuparci di qualcosa che si possa correttamente chiamare diagnosi richiederebbe una discussione molto più ampia di quella che mi propongo di affrontare in questo articolo. Prenderò qui invece in considerazione soltanto le seguenti aree dello spettro diagnostico: 1. l'immagine del mondo che il paziente ha in mente, il tipo cioè di mondo interno che si trova a possedere a seguito delle sue esperienze, le quali a loro volta sono il risultato da una parte dell'in- terazione tra impulsi e fantasie che ne derivano e dall'altra degli elementi esterni della vita, in particolare della qualità delle cure infantili ricevute; 2. l'ambiente familiare - sia la realtà esterna della famiglia che l'organizzazione dei mondi interni dei genitori: ad esempio la posizione del bambino nella famiglia, se la madre fosse depressa o il padre violento, il rapporto tra i genitori, il tipo di atteggiamento verso il paziente; 3. il mondo esterno - l'ambito sociale in cui il paziente vive e l'influenza che esso esercita su di lui e sulla sua famiglia: ad esempio, si trovano a vivere in una sub-cultura delinquente? Oppure, se si tratta di un adolescente, è esposto a rischio di tossicodipenden- za? E così via. Come si sarà notato, si tratta di un modello interattivo: 111 particolare lo sviluppo è considerato basarsi sulla interazione di fattori interni ed esterni (1). I fattori interni sono rappresentati dalla dotazione costituziona- le del bambino, in particolare dalla forza innata della sua capacità di amare a fronte dell'odio: se il bambino ha una soglia di tolleranza alla frustrazione bassa e prova facilmente rabbia, ciò significa che andrà più facilmente soggetto a intense e frequenti angoscie persecu- R. Rossi 22 Due opere letterarie, quella di Italo Svevo e quella di Géza Czàth, vengono utilizzate come catamnesi di esperienze analitiche, data la possibilità che offrono di approfondire i risultati dell'analisi a livello fantastico. Entrambe le opere sembrano l'espressione di analisi terminate in un'atmosfera di grande ambivalenza per via del1a difficoltà, o della impossibilità, di risolvere il legame con la figura materna: in queste condizioni l'analisi termina con la negazione. Nelle opere esaminate si evidenziano i vincoli non solubili di dipendenza, le nostalgie inappagabili e i legami arcaici, che derivano da queste condizioni di eccessivo legame materno, che può essere espresso dalla metafora dell'abbraccio mortale. fuori, da un mondo fusionale oggetto di un bisogno obbligato, guastato dall'impossibilità di esserne soddisfatti, o, per riferirci a un rappresentante posteriore del conflitto, dall'impossibilità di una con- clusione di analisi. L'inaccettabilità è risolta in due modi diversi, in Zeno, con elaborate difese dell'Io, la negazione, la sublimazione; in Géza Czath in modo semplice e diretto colla morte. Czath G. (1905-1912): Oppio e altri racconti. Roma: Edizioni e/o 1985. D'Alessandro M. (1985): La piaga e il coltello. In: Czath, citato. Freud S. (1925): Inibizione Sintomo e Angoscia. OSF, Vol X, 233·320. Freud S. (1937): Analisi terminabile e interminabile. OSF, Vol XI, 496-538. Kermode F. (1986): Freud and Interpretation. Int. Rev. Psycho-Anal. 12,3. Kleist H. (1811): Il teatro delle marionette. Genova: Il Melangolo, 1982. Rank O. (1924): Le trat!112atisme de la naissance (trad. franco S. Jenkélévltch). Paris: Payot, 1968. Rossi R. (1980): I lotofagi. Riv. Psicoanal, XXVI, 3, 359-367. Svevo 1. (1923): La Coscienza di Zeno. Milano: Mondadori, 1985. Winnicott D.W. (1958): From paediatrics to psycho-analysis. London: Basic Books.

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L'autrice illustra metodologie e valutazioni per le sedute di consulenza psicoterapeutica.

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Riassunto

ROMOLO ROSSI, Professore ordinario di Clinica Psichiatrica. Università di Genova.

Bibliografia

Valutazione In ambito psicoterapico

(1) Per una disamina sistematica dell'argomento, vedi: Harris M., Meltzer D.(1977): A Ps)'choanalitic Model 01 the Child in the Family in the Community.Ginevra: W.H.O.

ISCA WITTEMBERG

INTRODUZIONE

Quello della valutazione è un campo molto vasto: accuparci diqualcosa che si possa correttamente chiamare diagnosi richiederebbeuna discussione molto più ampia di quella che mi propongo diaffrontare in questo articolo. Prenderò qui invece in considerazionesoltanto le seguenti aree dello spettro diagnostico:

1. l'immagine del mondo che il paziente ha in mente, il tipocioè di mondo interno che si trova a possedere a seguito delle sueesperienze, le quali a loro volta sono il risultato da una parte dell'in­terazione tra impulsi e fantasie che ne derivano e dall'altra deglielementi esterni della vita, in particolare della qualità delle cureinfantili ricevute;

2. l'ambiente familiare - sia la realtà esterna della famigliache l'organizzazione dei mondi interni dei genitori: ad esempio laposizione del bambino nella famiglia, se la madre fosse depressa o ilpadre violento, il rapporto tra i genitori, il tipo di atteggiamentoverso il paziente;

3. il mondo esterno - l'ambito sociale in cui il paziente vive el'influenza che esso esercita su di lui e sulla sua famiglia: adesempio, si trovano a vivere in una sub-cultura delinquente? Oppure,se si tratta di un adolescente, è esposto a rischio di tossicodipenden­za? E così via.

Come si sarà notato, si tratta di un modello interattivo: 111

particolare lo sviluppo è considerato basarsi sulla interazione difattori interni ed esterni (1).

I fattori interni sono rappresentati dalla dotazione costituziona­le del bambino, in particolare dalla forza innata della sua capacità diamare a fron te dell'odio: se il bambino ha una soglia di tolleranzaalla frustrazione bassa e prova facilmente rabbia, ciò significa cheandrà più facilmente soggetto a intense e frequenti angoscie persecu-

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Due opere letterarie, quella di Italo Svevo e quella di Géza Czàth, vengonoutilizzate come catamnesi di esperienze analitiche, data la possibilità che offrono diapprofondire i risultati dell'analisi a livello fantastico.

Entrambe le opere sembrano l'espressione di analisi terminate in un'atmosferadi grande ambivalenza per via del1a difficoltà, o della impossibilità, di risolvere illegame con la figura materna: in queste condizioni l'analisi termina con la negazione.Nelle opere esaminate si evidenziano i vincoli non solubili di dipendenza, le nostalgieinappagabili e i legami arcaici, che derivano da queste condizioni di eccessivo legamematerno, che può essere espresso dalla metafora dell'abbraccio mortale.

fuori, da un mondo fusionale oggetto di un bisogno obbligato,guastato dall'impossibilità di esserne soddisfatti, o, per riferirci a unrappresentante posteriore del conflitto, dall'impossibilità di una con­clusione di analisi.

L'inaccettabilità è risolta in due modi diversi, in Zeno, conelaborate difese dell'Io, la negazione, la sublimazione; in Géza Czathin modo semplice e diretto colla morte.

Czath G. (1905-1912): Oppio e altri racconti. Roma: Edizioni e/o 1985.D'Alessandro M. (1985): La piaga e il coltello. In: Czath, citato.Freud S. (1925): Inibizione Sintomo e Angoscia. OSF, Vol X, 233·320.Freud S. (1937): Analisi terminabile e interminabile. OSF, Vol XI, 496-538.Kermode F. (1986): Freud and Interpretation. Int. Rev. Psycho-Anal. 12,3.Kleist H. (1811): Il teatro delle marionette. Genova: Il Melangolo, 1982.Rank O. (1924): Le trat!112atisme de la naissance (trad. franco S. Jenkélévltch). Paris:

Payot, 1968.Rossi R. (1980): I lotofagi. Riv. Psicoanal, XXVI, 3, 359-367.Svevo 1. (1923): La Coscienza di Zeno. Milano: Mondadori, 1985.Winnicott D.W. (1958): From paediatrics to psycho-analysis. London: Basic Books.

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torie, le quali a loro volta possono rendergli difficile accettare unaiuto quando esso si renda disponibile. Un bambino con una miglioredotazione costituzionale riesce invece a fronteggiare meglio le fru­strazioni e si lascia consolare più facilmente dopo una esperienzasconvolgente; in altri termini, ristabilisce più in fretta un contattoamorevole. I fattori esterni comprendono invece le vicissitudini realidella sua vita nonché la quantità e la qualità delle cure ricevute,come ad esempio la comprensione del significato di comportamentied emozioni che possono aiutarlo a identificare le sue esperienze e adiminuire cosi la sua angoscia. In termini di valutazione, conside­riamo ad esempio due casi estremi. Uno, quello di un bambino cheproviene da un ambiente relativamente stabile e sano e non ha subitotraumi particolari, ma si presenta ciononostante gravemente disturba­to: è assai probabile che sia presente nella sua struttura un elevatolivello di distruttività e di invidia, e sia richiesto quindi un proget­to di trattamento difficile e a lungo termine. L'altro, invece, di unbambino che si sia dato parecchio da fare per mantenere speranza ecapacità di relazione ad onta di un ambiente assai disturbato: aragione della sua innata capacità di amore, questi può fare un assaibuon uso della terapia e riuscire sorprendentemente bene.

Sebbene sia possibile ottenere qualche informazione dalla raccol­ta dell'anamnesi e dall'osservazione di come i membri della famigliainteragiscono tra loro, sarebbe comunque necessaria una lunga proce­dura diagnostica per ottenere una diagnosi completa del mondointerno di una persona. Ai fini pratici tuttavia, potremmo non averbisogno di un quadro così completo, tenendo anche conto del fattoche una procedura diagnostica troppo lunga può allontanare sia ilpaziente che la sua famiglia. Cerchiamo di vedere quale sia la minimaquantità di informazione di cui abbiamo bisogno per 'poter arrivare auna decisione di qualche tipo circa l'indicazione e la attuabilità di untrattamento. Nel vedere una famiglia io cerco di capire: a) chidetiene la sofferenza; b) qual'è la disposizione verso la sofferenzapsichica; c) qual'è la disposizione a fornire aiuto. Nelle pagine cheseguono cercherò di presentare il tipo di elementi che possiamoricavare dalle interazioni che si verificano nella stanza di consultazio­ne tra il terapista, il possibile paziente e la sua famiglia. Prenderòquindi in esame in che modo ciò possa aiutarci a decidere se unapsicoterapia sia aus.picabile o necessaria, e quanta probabilità ci siache abbia dei risultati.

Da tutte e due le parti si comincia con un alto livello diignoranza: l'intervistatore perché sa dell'intervistato ancora meno diquello che quest'ultimo sa di sé stesso, e l'intervistato perché fino ache non ha saggiato un poco l'intervista dinamica, ha scarsa idea di

Spesso ci accorgiamo che il paziente fa sperimentare proprioquella parte di sé che trova intollerabile: è per questo che similicomunicazioni silenziose sono spesso le più significative per farcicapire cosa disturba il paziente. Se io riesco ad osservarne l'impattosu me stessa o resto capace di pensare, elaborare o verbalizzare

1) il transfert - vale a dire il ripetersi nel qui ed ora diaspetti della natura della relazione con gli oggetti genitoriali; essivengono riattivati nei confronti del terapista, e le situazioni di ansianon integrata possono riportarli in primo piano. La capacità delterapista di ricevere emozioni conscie e inconscie aiuta il paziente aelaborare attraverso fantasie, a verbalizzarle o ad agirle.

2) il controtransfert - uso qui il termine nel senso dell'impat­to emotivo che il paziente ha sul terapista, ma anche per ciò che ­cosa di solito assai più significativa - egli comunica a livellonon-verbale. Tale impatto può essere rappresentato da uno statod'animo, come l'assenza di speranza o la maniacalità, oppure da unaintensa reazione materna o ancora dal sentirsi stupito e privo dimente.

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ciò in cui si sta impegnando. Sia lui che la sua famiglia possonoavere poi le loro apettative su quel che sperano di guadagnarci, eanch'io d'altra parte ho qualche idea sul tipo di aiuto che potreioffrire. Quello che dobbiamo fare è vedere come e se tutte questeidee possano integrarsi una all'altra. Il lavoro di esplorazione èreciproco. :È necessario provvedere un setting che offra la possibilitàdi una interazione in grado di rivelare qualcosa della natura dellarelazione del paziente con sé stesso e con le altre persone importantidella sua vita e, in più del suo atteggiamento verso le persone da cuicerca aiuto. Lo stato mentale dell'individuo si manifesterà in ogniaspetto del suo comportamento e sarà quindi disponibile all'osserva­zione nel qui ed ora: l'espressione, l'abbigliamento, l'andatura, l'at­teggiamento cosciente, le fantasie o i sogni oppure l'assenza difantasie e l'apparente sicurezza; tutto va notato dal terapista. Biso­gnerà anche tener conto dell'atteggiamento verso i propri problemi,se è lui stesso a provare sofferenza o c'è qualcun altro che se ne facarico. Possiamo osservare che cosa l'individuo fa del terapista, cheda una parte viene incontrato in una situazione assai ansiogenamentre dall'altra gli fornisce l'opportunità di essere ascoltato e dicondividere pensieri sul suo stato mentale. Ho spesso riscontrato cheuno studio approfondito delle dinamiche del qui ed ora porta inmodo assai diretto al cuore del problema. In particolre, io prestoattenzione a:

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queste emozioni invece di esserne terrorizzata o sopraffatta, tendono averificarsi alcuni eventi importanti:

a) il paziente percepisce di essere in qualche modo capito,e nesce a ritrovare la speranza che esista qualcuno in grado dicapire;

b) il paziente sperimenta la possibilità che una parte di­struttiva o terrorizzante di sé venga contenuta, che è possibile sop­portare la sua angoscia e la sua malvagità, che il terapista non glirimanda indietro le sue proiezioni né ne viene distrutto e così via.

c) se mi riesce di verbalizzare la mia esperienza del mo­mento, ciò può avere un effetto dinamico sull'interazione e il proces­so di esplorazione fa così un passo avanti; il paziente può in questocaso assumersi la responsabilità di una parte di sé che fino ad alloraera stata negata.

Si verifica così un processo di. aggiustamento reciproco. Il pa­ziente ha il primo approccio con un incontro terapeutico e puòquindi giudicare se è questo quello che vuole; il terapista, dal cantosuo, notando la reazione ai commenti interpretativi riesce ad ottenerequalche elemento sulla capacità del paziente di servirsi di questo tipodi aiuto. Nonostante questo modello di intervista si possa definirenon strutturata, io ho tuttavia sempre in mente un certo numero didomande specifiche alle quali spero di riuscire a dare delle rispostequanto meno ipotetiche alla fine dell'intervista:

1) I problemi del paziente interferiscono con il suo sviluppoo con le sue acquisizioni in uno o più campi della sua vita, e lui - oi suoi genitori, se questo è il caso - è o sono sufficientemente adisagio con sé stesso - o sé stessi - da volere un trattamento e daportarla avanti?

2) Che cosa si spera di ottenere dal trattamento? La curamagica, oppure la liberazione da tutti i problemi? Se sussistonoaspettative irrealistiche di questo genere, io lo faccio notare. Ilpaziente è capace di usare proiezioni a fini comunicativi? Le miefonti di informazione sono costituite infatti dall'osservazione, daltransfert e dalle emozioni evocate in me dal paziente.

3) Il paziente è in grado di mantenere una certa capacità diosservare il suo disturbo e un certo grado di cooperazione nonostantel'invidia e l'angoscia?

4) C'è qualche indizio di una capacIta di lottare e di esserecurioso invece che passivo o negativistico?

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Descriverò ora in dettaglio due casi, sebbene abbia abbreviatoun poco il materiale delle sedu te. Il primo è di una ragazza di 15anni apparentemente desiderosa di una analisi. L'altro è quello diuna studentessa di 19 anni riluttante a chiedere un aiuto terapeutico.Spero che questi due casi potranno mostrare il tipo di interazioneche si verifica nella stanza di consultazione e il modo in cui queste

DUE ADOLESCENTI

5) Se il trattamento appare necessano ed è stato richiesto:

a) che grado di rigidità ha il sistema difensivo e qual'è lafragilità della struttura sottostante? A questo proposito possonofornire qualche indicazione la natura delle difficoltà e la risposta alleinterpretazioni. La gravità del disturbo non è necessariamente unostacolo al trattamento: tutto dipende dalla capacità del terapista disostenere o no il peso del trattamento;

b) è il paziente capace di contenere l'angoscia per unsufficiente lasso di tempo? Considerando insieme i punti a) e b)potremo avere indicazioni su:

i. la natura dell'appoggio esterno necessario. Nel casoper esempio di un adolescente con propensione all'agire, se siasufficiente un trattamento ambulatoriale o non sia piuttosto indicatoil contenimento di un ricovero;

ii. la frequenza minima di sedute necessaria, tenendosempre presente quanto il paziente, la famiglia o altri nella comunitàsono in grado di tollerare.

6) L'attuale situazione di vita del paziente gli consente unafrquenza regolare, e c'è qualcuno nel suo ambiente che possaaiutare a contenerlo e lo sostenga in momenti di crisi?

7) Infine, che tipo di trattamento? Dovremmo qui conside­rare se il paziente debba essere trattato individualmente o non possaessere seguito in modo più congruo in setting familiare. Devoaggiungere però che è assai difficile per un paziente visto in unaintervista individuale giudicare se sia o no adatto a un lavoro familia­re o di gruppo: è già abbastanza complicato valutare le possibilitàche sia capace di utilizzare una relazione duale. L'intervista di valuta­zione ci dà alcuni elementi su come una persona reagisce in quella par­ticolare situazione, ma non sul come potrebbe reagire in un contestodiverso.

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Helen

Prima intervista

interviste esplorative sono state d'aiuto nell'arrivare a una decisionesul trattamento.

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Per parecchio tempo il livello di generalizzazione di tutta lasituazione, paure incluse, si mantenne alto, finché alla fine dissi chemi sentivo molto un'esterna, come se lei e il fratello fossero unaspecie di coppia e a me non fosse permesso entrare in questo tipopiuttosto intimo di rapporto. A queste parole disse in modo dolce eingenuo: «Oh, poverina, la faccio star male? »

Risposi che adesso sentivo ancora di più di essere un bambinolasciato da parte che aveva un gran bisogno di aiuto. Ciò la feceridere. Dissi anche che stavo forse provando quelle sensazioni diterrore di cui aveva parlato poco prima. Mi rispose che non lepiaceva pensarci, e io commentai che esse avevano dovuto esserelasciate fuori dal colloquio perché altrimenti la situazione sarebbepotuta diventare terrorizzante. Disse che non poteva proprio raccon­tarmi granché delle sue paure perché il fatto era appunto che nonriusciva a capirle. Le dissi che era molto probabile che le coseandassero così, ma che non volevo da lei una spiegazione ma piutto­sto che mi descrivesse a cosa poteva somigliare quel terrore e inquali occasioni le era capitato di provarlo. Mi raccontò per primacosa di un incidente capitato durante l'estate: stava con un ragazzoche era venuto a trovarli e una sera, mentre si trovavano insieme eraimprovvisamente entrata in uno stato di panico. Anche in altreoccasioni entrava in uno stato del genere, ad esempio se andava aqualche concerto jazz con gli amici o con la famiglia. Tutti gli altripareva che si divertissero, lei invece si sentiva come una stranieratagliata fuori dalla loro esperienza e incapace di entrare in contattocon gli altri. Risposi che ciò era interessante dato che si trattavaproprio del tipo di emozione che avevo provato quando mi avevafatto sentire come se fossi una straniera incapace di capire le cosetanto importanti ed eccitanti che avvenivano tra suo fratello e lei.Disse che si trattava di una specie di condizione fredda, qualcosacome 1984 di Orwell. Non poteva essere più precisa su quel chevoleva dire, ma suo fratello riusciva a capirlo e la poteva aiutare:quando lui non c'era si sentiva incompleta. Era intelligente, com­prensivo, dolce e molto più simpatico di lei. Dissi che mi stavodomandando se in realtà c'era una parte di lei che stava in suofratello, una specie di parte-ragazzo oppure se non formassero insie­me una specie di coppia in cui il fratello era una specie di padre,fratello e marito tutti insieme. Rispose che le pareva giusto, sisentiva proprio persa senza di lui. Ciò le ricordò come si sentisseterrorizzata quando i genitori uscivano al pensiero che potesseroabbandonarla o venire uccisi. Mi venne allora in mente che avrebbesempre potuto rivolgersi al fratello nel caso che qualcosa di terribilefosse accaduto ai genitori, che pensasse cioè che egli sarebbe comun-

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Questa ragazza di 15 anni e mezzo era stata inviata dal suomedico curante, che mi aveva fatto avere un lungo e interessanteresoconto di una sua conversazione con lei. Egli ci dava il quadro diuna famiglia che forniva grande sostegno e una dettagliata descrizio­ne dei sintomi della ragazza, che soffriva di angosce claustrofobiche edi vampate di calore quando si trovava in uno spazio ristretto o inuna stanza surriscaldata. Venimmo anche a sapere che all'età didiciotto mesi aveva riportato delle ustioni abbastanza estese da ri­chiedere un breve periodo di ricovero in ospedale. Prima di vedereHelen, tuttavia, cercai di togliermi dalla mente quello che avevosaputo dal medico, perché in qualche modo sembrava tutto troppoben confezionato e con collegamenti fin troppo ovvi: vampate dicalore e ustioni nell'anamnesi! Decisi di partire da zero e di tenere lamia mente sgombra durante l'incontro con Helen.

In sala d'attesa c'era una ragazza rotondetta con dei bei capelli,gli occhi blu e un'espressione assai amichevole, quasi da bambina. Miseguì volentieri, ma al momento di sederci nella mia stanza era quasisul punto si scoppiare in lacrime. Mi disse che aveva chiesto lei unaterapia, ma che adesso si era accorta di essere molto turbata dall'i­dea. Ciò che disse fu: «Ho vissuto con me stessa e ho cercato dicapirmi per quindici anni ormai. Ho paura di quello che si potrebbescoprire ancora, e non so se lo riconoscerò come mio o avrò voglia difarlo ». Risposi che sembrava spaventata all'idea di una parte scono­sciuta di se stessa, di una straniera che poteva anche non piacerle.Sembrava inoltre che avesse l'idea di essere buttata dentro un trat­tamento; le chiarii che ci saremmo viste per tre volte allo scopo ditentare di esplorare il tipo di problemi che aveva, se volesse o no untrattamento, che cosa se ne aspettasse e infine se un trattamentofosse o no indicato. Disse allora che in famiglia si discuteva tutto:sua madre capiva le persone e le loro emozioni, proprio come leistessa, d'altro canto. Papà invece non capiva un granché di questefaccende, ma il migliore era senz'altro suo fratello, che capiva com­pletamente e senza bisogno di parole. Si rivolgeva sempre a luiquando stava male. Trovò tuttavia impossibile specificare sia lanatura dell'aiuto da parte del fratello che ciò che la faceva star male.

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Ci mettemmo d'accordo per rivederci la settimana dopo: misentivo quasi affascinata da questa ragazza ingenua e un po' bambinache evocava in me sentimenti materni, sebbene al tempo stessosentissi che poteva venire facilmente ferita e che dovevo stare moltoattenta a non essere intrusiva e a non ferire la sua «pelle ».

Nella seconda intervista non emerse niente di nuovo, a partealcune fantasie masturbatorie. Dal suo punto di vista riteneva le sue

que stato n per sostenerla e occuparsi di lei. Disse di sì, e che anchelui sentiva allo stesso modo la sua mancanza se era lei a non esserci.Mi domandai allora se l'entrata del fratello nell'adolescenza nonavesse in qualche modo influito su questo stato di cose. Risposeinfatti che negli ultimi tempi era spaventata dalla possibilità che ilfratello potesse morire, quando gli capitava di star fuori con gli amicisenza lasciar detto in famiglia dove andava. Mi chiesi se provavarabbia quando la lasciava per uscirsene con gli amici, ma mi risposeche in fondo non le importava molto. Il fratello aveva anche unaragazza, ma lei sapeva che comunque sarebbe stata sempre il primoamore: anche se si fosse sposato, in ogni caso lei sarebbe venuta perprima. Dissi: «Davvero? ».

Le chiesi se fosse questa la ragione per cui era venuta achiedere aiuto; rispose che le sensazioni di calore erano divenute piùintense e più frequenti, tanto che doveva spesso uscire dalla classe.Aveva detto agli insegnanti che si trattava di «claustrofobia», cos1potevano capire. Dissi che non mi interessavano molto le « etichette»,che avrei invece gradito una descrizione di quello che succedeva.Rispose che sentiva un gran caldo, tutto qui, e che non le capitavasolo a scuola ma ogni volta che pensava a una qualsiasi stanza in cuile potesse capitare di sentir caldo. Faceva in modo che la sua stanzada letto restasse fredda mentre era capace di starsene sdraiata apensare ai genitori e ai loro amici giù in salotto, a come ci facessecaldo e a come lei sarebbe stata sopraffatta dal calore. Provai adesplorare un po' la possibilità che queste vampate e le emozionirelative avessero qualcosa a che fare con l'eccitamento sessuale neiconfronti dei genitori o in relazione al rapporto cos1 stretto con ilfratello, oppure se non si potesse trattare di un sistema per « entra­re » quando si sentiva tagliata fuori. Mi muovevo ovviamente su unterreno pericoloso, e infatti cominciò a sentirsi sempre più angoscia­ta. Mi accorsi di essere stata intrusiva e questo mi portò a dire chenon volevo forzare il punto di vista, ma che forse avrebbe volutopensare un poco su ciò di cui avevamo parlato e riferirmi i suoipensieri la prossima volta.

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difficoltà abbastanza agevoli da controllare, voleva solo un po' d'aiu­to per superare i suoi «piccoli sconvolgimenti ». lo dal canto mioero invece convinta - anche se non lo dissi - che la ragazzaavrebbe avuto probabilmente bisogno di una psicoterapia intensivaper un grave disturbo di base dello sviluppo; il problema era chenon sembrava abbastanza in contatto con queste angosce profondeper poter prendere una decisione simile: quello che era inveceriuscita a trovare era il modo di eludere situazioni potenzialmenteansiogene. Secondo me la ragazza non aveva sviluppato una modalitàdi relazione da-e-verso gli altri; si sentiva invece sola, completamentefuori da questa esperienza e in stato di panico, incapace di entrare incontatto sia internamente che esternamente. Per sfuggire queste emo­zioni terrificanti sembrava saltare dritta dentro, per cos1 dire all'in­terno della gente sentendosi quindi calda e claustrofobica. Un'altrasoluzione del problema consisteva nell'appiccicarsi a qualcuno, nelcaso al fratello. Ma per quanto fossi più che certo di ciò di cui avevabisogno, mi faceva sentire che non dovevo avvicinarmi tropporapidamente né dovevo ferirla o invadere la sua sfera privata - cheda un lato si sentiva cos1 protetta da riuscire a non sentire la suaangoscia e dall'altro che non dovevo forzarla a farlo; in alcunimomenti sentivo infatti di esporla a stati di angoscia estrema. Senti­vo anche allo stato attuale di non potermi spingere oltre e sembravaperciò consigliabile aspettare qualche tempo prima di rivederla pervalutare di nuovo la situazione. Restammo d'accordo di rivedercidopo due mesi.

Quando rividi Helen per la terza volta mi disse che da quandoci eravamo incontrate aveva fatto un gran pensare e che si era resaconto di non essere poi cos1 normale come aveva creduto. Alla miarichiesta di chiarimenti, mi rispose che c'erano tutta una serie diabitudini che in precedenza dava per scontate pensando che anche lealtre ragazze fossero come lei. Per esempio prima di andare a lettoaveva bisogno di sentire che tutti erano buoni e sicuri e si fermavaperciò sulla soglia della sua stanza mandando baci a tutti i membridella famiglia incluso il gatto, quindi doveva chiudere la portausando tutte e due le mani messe in modo quasi da toccarsi. Questo,disse, per sentire che i suoi genitori erano insieme. «Oh Dio », ­disse - « suona piuttosto stupido, ma è cos1 che succede! »

Pensai che questi risultati fossero un modo di tenere a bada lasua preoccupazione che le persone non fossero al sicuro: se avessesentito che non lo erano, lei stessa si sarebbe sentita non al sicuro.Fu d'accordo, dicendo che si sentiva assai insicura per la maggiorparte del tempo: era uscita per esempio a far compere con una suaamica ma al ritorno non si sentiva per niente certa che la casa o il

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tempo o addirittura la gente non fossero cambiati. Si sentiva comple­tamente ,persa se non c'era un'amica o un membro della sua famigliacon lei; addirittura non aveva mai provato a stare da sola. Mi disseche le piaceva un certo modello di automobile perché era quello cheil padre aveva quando era bambina e provava simpatia per tutti gliuomini con una giacca di velluto perché era quella che aveva unavolta il papà. Feci qualche commento sul suo attaccamen~o all'aspettoesteriore come per esempio agli abiti che le persone mdossavano,cioè all'ambiente esterno piuttosto che alle qualità personali di unamadre o di un padre. Non sembrava affatto sentire di avere unamadre o un padre nella sua mente, né che avesse assorbito dai suoigenitori qualcosa in grado di aiutarla quando restava sola. Disse chenon le era mai capitato di pensare che c'era qualcosa di sbagliato inlei prima di parlare con me le altre due volte. Era solo adesso che leera capitato di osservarsi mentre faceva tutte quelle cose strane epiuttosto pazze e aveva cominciato ad accorgersi di quanto fossediversa dagli altri adolescenti e di come desiderasse veramente lapsicoterapia. «Gliela chiedo in ginocchio! ». Chiesi se pensasse diessere pazza; rispose «Oh, certo che no. La gente della mia etàusa questa parola molto liberamente, per qualunque cosa un po'diversa dal solito. Non penso realmente che queste siano pazzie, mavorrei proprio un aiuto per questo mio essere così immatura edipendente dalla gente ». Rispose che avrebbe avuto bisogno di unoschema di trattamento affidabile, di vedere cioè il terapista ad inter­valli abbastanza frequenti in modo da sentirsi abbastanza sicura perpoter affrontare le intense paure che tutte queste abitudini dovevanotener lontane. Per questa ragione le suggerivo una psicoterapia quat­tro o cinque volte a settimana. Dapprincipio sembrò piuttosto stupi­ta, ma dopo averci pensato un po' disse che poteva capirne il senso.Tirò quindi fuori alcuni dubbi. Non le sarebbe piaciuto molto che cifosse una specie di padreterno che sapesse tutto di lei e fosse incondizioni di cavarle fuori ogni tipo di informazione. Le spiegaiqualcosa del processo di analisi, spiegandole che uno psicoterapistanon ha gli occhi a raggi X, ma che si trattava invece di un processodi scoperta graduale da portare avanti insieme. Disse che le sarebbepiaciuto avere un terapista che fosse anche un amico, con il qualesi potesse portare avanti una conoscenza reciproca, su basi di parità.Le spiegai che le cose non stavano esattamente in questi termini eche nel modo in cui diceva lei non sarebbe stato di grande aiutoperché il punto del trattamento psicoterapico era di aiutarla a capiresé stessa. Discutemmo quindi i dettagli pratici del trattamento:abitava piuttosto distante, e di conseguenza il trattamento le avrebbeportato via parecchio tempo. Restammo d'accordo che ne avrebbeparlato con i genitori e mi avrebbe dato una risposta per lettera

entro una decina di giorni. Nel caso, avrei avuto bisogno di parlarecon i suoi genitori. Nel frattempo mi sarei data da fare per trovareuna disponibilità per il suo trattamento.

Jane

Questa studentessa di 20 anni ci fu inviata dal medico della suaUniversità verso la fine del primo anno di corso. Era andata moltevolte in ambulatorio dal medico e altre dall'infermiera del College,parecchie volte a settimana lamentando mal di testa e depressione. Ilmedico aveva prescritto parecchi analgesici e diversi antidepressivi, eJane ne riferiva ogni volta l'inefficacia. Il tono della lettera del

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Quando vidi i genitori di Helen, essi mi raccontarono le espe­rienze traumatiche che Helen aveva avuto da bambina a seguito delleustioni: durante il ricovero in ospedale era andata via via piùisolandosi, e alla fine non riconosceva neanche più i genitori. Dopo ilritorno a casa aveva avuto un periodo di chiusura autistica, e mentrepian piano ridiventava capace di stabilire un contatto migliore, conti­nuava ad avere incubi terribili, si svegliava urlando e scalciandoincapace di riconoscere i genitori. Erano stati sempre preoccupatidello sviluppo della ragazza, ma si erano alla fine rassicurati quandodopo qualche tempo aveva iniziato a svilupparsi normalmente. Soloda poco avevano cominciato a nutrire nuove preoccupazioni, poichéaveva interrotto tutta una serie di attività; erano molto contenti cheavesse cercato aiuto e avrebbero cercato di appoggiare al massimo iltrattamento.

Ritengo che la cosa più interessante di questi colloqui di valuta­zione sia stato il fatto che gli elementi della storia di Helen fosseropienamente noti sia ai genitori che al medico curante come alla stessaHelen. In apparenza la ragazza aveva sentito parlare molte voltedella sua storia, ma non sembrava capace di prenderla dentro névolerne conoscere qualcosa. In altre parole, ci si trovava davanti aduna adolescente che aveva sì urgente bisogno di trattamento, ma chenon poteva fare un passo del genere se non sperimentava primal'angoscia e non era capace di sostenerla. Solo in seguito avrebbepotuto affrontare il rischio, essendone cosciente e facendo sua l'ideadi affrontarlo piuttosto che di eluderlo. In seguito la sua terapista midisse che per lei il bisogno che i suoi confini e la sua sfera privatafossero rispettati era estremamente importante: nella famiglia diHelen infatti ognuno viveva per così dire nelle tasche dell'altro, etrovare uno spazio per sé costituiva un problema serio per la pazien­te. Questo era qualcosa che avevo percepito ma che non sarei statain grado di descrivere al tempo dell'intervista di valutazione.

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medico indicava che la riteneva una seccatura e che non vedeva l'oradi liberarsi di una paziente nosiosa passandola a noi.

Prima intervista

Fissai un appuntamento e la ragazza arnvo 111 orario, alta,magra, molto pallida e con gli occhi profondamente cerchiati. L'e­spressione era spenta, senza nessuna scintilla di vita nello sguardo, imovimenti lenti, le spalle curve: il quadro di una profonda depres­sione. Dopo una breve introduzione sul fatto che ciò che stavamo percominciare era una esplorazione dei suoi problemi, le chiesi che cosaaveva provato all'idea di venire da noi. Mi rispose che il dottore leaveva detto di venire e che aveva pensato che in fondo tanto valevaprovare. Commentai che questi pareva voler dire che ce l'avevanomandata, ma che non sperava granché che potessi aiutarla. Eraproprio così. Quando le chiesi di parlarmi dei suoi problemi, midisse che aveva mal di testa quasi continui e che si sentiva sola emiserabile per tutto il tempo. Alla domanda da quando aveva inizia­to a sentirsi così, rispose che era cominciato in questo modo daquattro mesi o poco più. Durante il primo semestre al College avevapensato di essere in leggero vantaggio sugli altri perché era un pocopiù grande di loro e aveva più esperienza. Questo lo collegava alfatto di aver trascorso un anno tra la fine delle superiori e l'universi­tà lavorando come assistente in una scuola convitto. Adesso però glialtri studenti le erano passati avanti.

Ripresi questo tema del vantaggio su gli altri chiedendomi sestesse sempre a far paragoni con gli altri studenti e le domandai sequesto comportamento era qualcosa che avesse già sperimentato infamiglia. Venni a sapere che aveva una sorella di diciotto mesi piùpiccola e tre fratelli rispettivamente di 15, 13 e 11 anni. Pensava dinon essersi mai sentita molto a posto in casa, c'era sempre un saccodi rumore e di baraonda per i giochi dei piccoli e lei tendeva astarsene per conto suo e a sentirsi miserabile. Feci alcuni commentisul rapporto tra quanto mi aveva detto e la sua attuale posizione alCollege, dove anche sentiva che gli altri si divertivano tra loromentre lei si sentiva sola. Mi chiesi se come primogenita non avessepotuto sentire di aver avuto al principio un vantaggio, di avere percosì dire distaccato il gruppo dei fratelli ma che in seguito avessesperimentato che gli altri l'avevano raggiunta e sopraffatta. Sorriseper la prima volta e disse che era sempre stata piuttosto autoritariacon i più piccoli, diceva loro che dovevano obbedirle: dopo tutto erala maggiore e sapeva quello che era giusto. Ancora in una sua recentevisita a casa era rimasta contrariata dal vedere che non la guardavanopiù con rispetto, ma che anzi le si opponevano apertamente. Era

anche assai irritata dalle loro continue telefonate e da tutto quelparlare sulle feste a cui erano andati. Dissi che avevo l'impressioneche si sentisse come qualcosa sul genere di una zitella dalla vitasprecata. Sorrise di nuovo e disse che si vedeva molto brutta, ma siconsolava col fatto di essere di gran lunga la più intelligente. Perquesto motivo suo padre aveva mostrato particolare interesse neisuoi confronti, anche se ora non era più così. Tutti i fratelli eranostati mandati a una certà età in collegio, e Jane ricordava conchiarezza il momento in cui la sorella più piccola era venuta al'aggiungerla. Aveva completamente ignorato la sorella, « No, ancorapeggio» - disse - «l'ho proprio schizzata». Rimasi colpita dal­l'espressione «schizzata» come se avesse sentito che non potevapermettere alla sorella minore e forse a tutti gli altri bambini deigenitori di avere vita ma dovesse scacciarla fuori da loro, schizzarlavia. Adesso pareva sentire che questo non era più sufficiente persentirsi intelligente e brillante; sentiva piuttosto che erano gli altriad averla « schizzata» dalle loro vite, lasciandola sola e senza amici.Fu interessata a queste osservazioni, così andai avanti e dissi chequando stava sola poteva darsi che sentisse che gli altri si stessero inrealtà divertendo a schizzarla, vendicandosi di sé per essere stata unasorella maggiore così cattiva in passato. Suggerii anche che dovevaesserci una parte-sorella maggiore dentro di lei che trattava ogniemozione tenera e ogni gioia in modo punitivo. Jane era visibilmentetornata alla vita durante il colloquio, ma quando cominciammo adavvicinarci alla fine dell'intervista disse in maniera molto provocato­ria: «E che dovrei farci? » « Lei che mi consiglia? ». Pareva propriouna sfida astiosa, tesa a farmi sentire schizzata. Dissi che non eratanto una questione di fare o cambiare attivamente qualcosa quantodi riflettere sugli argomenti di cui avevamo discusso. Forse quando cifossimo incontrate di nuovo la settimana dopo le sarebbe piaciutodirmi quali pensieri le erano venuti alla mente circa la natura dellesue relazioni. Mi chiese di cambiare la data dell'appuntamento per lasettimana successiva, ma venne poi fuori che non era affatto necessa­rio rispetto al calendario delle lezioni. Rifletté poi sul fatto che se sifosse sentita depressa avrebbe potuto cercare di nuovo il medico ol'infermiera. Dissi che forse sentiva che aspettare per una settimanaera tanto, ma che oltre a questo poteva anche essere un modo dicolpirmi perché le davo sufficiente tempo. Forse era gelosa dellepersone che avrei visto nel frattempo così come era gelosa del postoche la sorella e i fratelli avevano in casa. Voleva avere una sorta didiritto speciale sul mio tempo; in caso contrario se lo sarebbe fattodare dal personale del Centro Medico Studentesco.

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Seconda intervista

Fu difficile. Era assai silenziosa e passiva, aveva delle profondeocchiaie e sembrava stare molto male. Mi disse che non avevapensato al nostro precedente incontro fino ad oggi e che aveva quasidimenticato il contenuto del colloquio. Non era andata né dal medicodel Centro Studentesco né dall'infermiera per tutta la settimana. Conuna certa soddisfazione mi disse che nessuno dei farmaci che leavevano dato aveva avuto il minimo effetto. Mi chiese quindi di checosa dovesse parlare e disse di essere arrabbiata del fatto che non leavevo dato nessun consiglio. Durante la settimana era stata di nuovopreoccupata dal sentirsi messa da parte mentre gli altri si divertiva­no. Venne fuori che non faceva mai nessuno sforzo per cercare compa­gnia ma che se ne stava nella sua stanza a leggere e a lavorare amaglia spesso fino alle prime ore del mattino. Qualunque argomentotentassi di toccare, se per esempio quello non fosse un sistema pertenersi occupata in modo da non dover pensare di sentirsi sola edepressa, oppure le sue difficoltà a dormire, o il suo essersi sentitascacciata quando era stata mandata a scuola, tutte le mie domande ei miei commenti venivano liquidati con un «Non so, non credo ».Quando tentai di farmi un'idea dei genitori, tutto quello che riuscii afarmi dire del padre fu che era interessato ai suoi traguardi intellet­tuali e che era molto occupato con i clienti. Fu del tutto incapace didescrivermi la madre. Non si parlavano mai se non per faccendebanali. La madre per esempio le chiedeva: «Com'è andata all'Uni­versità? », lei rispondeva: «Bene» e questo costituiva la fine dellaconversazione. Pensava che i genitori avrebbero dovuta spingerla unpo' di più. Se qualcuno era infelice o socialmente impedito, stava aglialtri fare uno sforzo per aiutarlo.

Commentai che sembrava nutrire le stesse aspettative nei mieiconfronti: toccava a me darmi da fare piuttosto che a lei prendersi laresponsabilità del nostro colloquio. Tentai di parlare di ciò cheaveva sperato venendo, ma rispose che non lo sapeva, era tanto perprovare. Non pensava che servisse a granché né di aver molto dadire: la sua mente la maggior parte del tempo era vuota. Dissi chesembrava avere poche speranze che qualunque cosa io le potessioffrire fosse di qualche utilità, e aggiunsi che non ero sicura chequesto fosse dovuto al fatto di avere io detto cose completamentesbagliate o non piuttosto al fatto che c'era qualcosa in lei cherendeva inutile ogni offerta d'aiuto. Come tutta risposta fece unampio sorriso, e ricadde poi nel silenzio. Sembrava ancora più ritira­ta. Dissi che se faceva diventare inutile qualunque mia offerta,questo avrebbe aumentato la sua disperazione perché ancora un'altrarelazione era fallita. Le uscì detto che avrei pensato che lei non era

buona, che non aveva da dare niente che valesse e che non c'erascopo ad andare avanti con queste interviste. Riconoscevo la suadifficoltà nel verbalizzare le sue emozioni e forse anche nel conoscer­le, e le chiesi se per lei non sarebbe potuto essere più facile entrarein contatto con esse attraverso dei tests proiettivi. Chiarii che co­munque anche se sarebbe stata una collega a vederla per questoscopo, io avrei voluto vederla ugualmente, dopo. Menzionai anche lapossibilità di una terapia di gruppo, in un secondo tempo, comemodo di aiutarla a comprendere i suoi rapporti con i pari.

Ciò che avevo provato durante questa intervista era, da unaparte, un senso di completa disperazione circa la mia capacità dicomprendere, lasciata da sola a cercare di farla cooperare, mentredall'altra mi sentivo assai preoccupata della severità e la naturapsicotica della sua depressione e sulla possibilità di un suicidio.Sentivo di disperare di poter fare qualcosa, di poter trattenerequalche speranza di una possibilità di trattamento. Avevo sperato chelo stimolo a sottoporsi ai tests psicologici o di entrare in un gruppodi pari potesse almeno spingerla fuori dal suo stato di passività.

Dopo averne parlato con i colleghi, decisi che l'avrei vistaancora una volta prima di decidere qualunque altro piano di valuta­zione, essendo stata portata a prendere in considerazione alcuneeventuali possibilità alternative di uscire dalla disperazione e dalladifficoltà di contenere l'enorme preoccupazione e l'intensa dispera­zione che mi era stata messa dentro.

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Incontrando Jane per la terza volta rin1asi sorpresa dai grandicambiamenti che sembravano essersi verificati. Aveva un po' di coloresulle guancie, lo sguardo era più animato e si era anche messa un filo dirossetto. Si sedette rapidamente e cominciò subito a parlare. Disse:« Suppongo che dowei raccontarle come è andata questa settimana. Misono sentita molto meglio ed è stata proprio una buona settimana. Hodeciso di andare a trovare dei miei amici». Commentai come questofosse assai diverso dalla settimana precedente, quando aveva parlatodella pretesa che tutti andassero a bussare alla sua porta. Dissi chemostrava di non contare più sulla passività, ma che aveva invecedeciso di fare lei qualcosa per ottenere un cambiamento, incluso ilmodo di condurre il colloquio. Disse: «Mi sono sentita molto, moltodepressa dopo averla incontrata la settimana scorsa, mi sentivo moltopeggio uscendo da questa stanza che quando c'ero entrata ».

Mi raccontò che si era resa conto che anche in questa situazio­n~, dove «mi veniva reso facile parlare », lei non contribuiva permente. Pensava che si trattasse proprio di una sua brutta tendenza,

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perché si comportava esattamente allo stesso mo~o con i suoi amici.Sebbene non vedesse l'ora che la gente la chIamasse, una voltainvitata si diceva: «Perché dovrei far qualcosa per piacere? Sono ioche sto facendo loro un favore, in realtà ».

La notte dopo il nostro incontro aveva avuto un incubo che laaveva svegliata. Non ricordava quando avesse sognato l'ultima volta,ma certo era stato molto tempo prima. Andò avanti a raccontare ilsogno: era stata rapita da tre uomini che l'avev3.fo10 port~ta. viaficcandola con forza in un'automobile e portandola m un CImIterodove era stata fatta stendere per terra con gambe e braccia spalanca­te. I rapitori e forse anche altre loro vittime non le .stac~avano g~occhi di dosso. Incrociò le gambe, ma loro la mmaCCIarono ditagliargliele se ci avesse riprovato. Per un .po' l~ tenne d'occhio erestò ferma, quindi cominciò lentamente a InCrOCIare le gambe. seb­bene gli uomini stessero ancora gtuardandola. A questo punto SI ~r~

svegliata. Il cimitero le fece tornare in mente un p:ogramm~ televlSl­vo che aveva visto la sera prima in cui due scultorr modernI stavanofacendo delle lapidi a forma di fette ?-i ~ane. Non riusciva ~ c~pirn~

il perché, ma si supponeva trattarsI di arte moderna. ~I tl~ordo

quindi che aveva fatto un altro sogno nell~ stessa r:otte, m CUI unadonna e due bambini si sporgevano dalle frnestre dI un alto palazzodi mattoni. Erano parecchio in alto e apparentemente stavano chia­mando aiuto. Pensava che fossero stati rapiti e tenuti in ostaggio lì.10 strano era che lei stessa era all'interno dell'edificio come unodegli ostaggi e contemporaneamente aveva in mano un giornale chemostrava una fotografia della scena ripresa dall'esterno.

Dissi che forse la nostra ultima intervista l'aveva messa incondizioni di vedersi dall'esterno, guardandosi per cos1 dire attraver­so i miei occhi e vedendo in che modo avesse reso schiave sia me chesua madre rendendomi inutile attraverso il suo atteggiamento alto epotente e 'avesse rubato, «rapito », i bambini ~ella. madre. Ma leistessa si era poi trovata intrappolata in questa SItuaZIone, come unodei bambini ai quali non era permesso ricevere aiuto sebbene neavessero un cos1 disperato bisogno. Dissi che i sogni suggerivano checome risultato di questo riconoscimento essa aveva isolato e si erastaccata da questa parte crudele identificata. con i. t~: ~om~i. chemaltrattavano e immobilizzavano le sue partI femminili (IdentifIcatecon la madre). Aveva anche mostrato che non voleva più giacere aterra e subire violenza, ma che aveva trovato abbastanza coraggio disfidarli, sebbene questo la terrorizzasse. Sembrava esserci qualchesperanza che potesse venire qualche aiuto dall'esterno, forse da unpadre poliziotto che avrebbe fermato la crudeltà e l'avrebbe combat­tuta.

DISCUSSIONE DEL MATERIALE CLINICO

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Discutemmo quindi della possibilità di un gruppo terapeutico.Disse che al riguardo non si sentiva molto sicura, il suo umore avevadegli alti e bassi, adesso si sentiva proprio bene ma sapeva anche chela sua depressione poteva tornare facilmente. Qualche volta pensavaal suicidio, pensava che non sarebbe stato male prendersi dei sonni­feri, non aveva paura di morire - sarebbe stato proprio belloandarsene semplicemente da questa vita. A questo punto le ricordaiche l'arte moderna aveva confuso le pietre tombali con le fette dipane, come se la morte non significasse la fine della vita, ma ilsalire in cielo per essere nutriti con il cibo celeste. Continuò aconsiderare per un po' se desiderasse o no un trattamento: mi sentiispinta a prendere io l'iniziativa, ma resistetti all'impulso. Dissi chemi sembrava estremanlente importante che fosse lei a prendersi laresponsabilità di chiedere aiuto piuttosto che farselo offrire solo perrifiutarlo come nell'ultima seduta, per mordere la mano che la nutri­va. Si vedeva che c'era lotta interiore in lei, e stava quasi per piange­re. Dissi che forse avrebbe voluto pensare a ciò che voleva fare, eme lo avrebbe potuto far sapere di Il a un mese. Alla fine fu d'ac­cordo per scrivermi e farmi sapere come stava e se avesse volutoun'altra intervista per parlare del trattamento in autunno. Dissiche se non avesse avuto sue notizie entro un certo periodo le avreiscritto io. Usd triste ma composta, e si allontanò con una certadeterminazione.

Ero rimasta colpita dallo sforzo di questa ragazza di fare qual­cosa ad onta delle formidabili difficoltà che aveva in sé stessa. È fuordi dubbio che i problemi di Jane interferivano con il suo sviluppo econ i suoi risultati in parecchi campi della vita, eccetto apparente­mente in ambito accademico. Doveva essere proprio una ragazzamolto brillante se era ugualmente riuscita a combinare qualcosanonostante le sue grosse difficoltà e i sintomi depressivi. Era sen­z'altro un gran proiettore di senso di disperazione ma era stataapparentemente - sebbene al principio si aspettasse un qualche tipodi cura magica - in grado di mobilitare slancio sufficiente percercare un aiuto terapeutico e per capire quello che faceva a chipoteva aiutarla. Mostrava una capacità considerevole di capire leinterpretazioni nonostante l'intenso negativismo. Ritenevo tuttaviache il livello di invidia e di passività avrebbero potuto a questopunto rendere un trattamento individuale troppo difficile da sostene-

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Riassunto

re. Per questo motivo avevo pensato che sarebbe potuta andar meglioin un gruppo, in parte anche perché gli altri avrebbero potutocontrastare la sua passività. Poteva inoltre fare un lavoro utile sullasua gelosia verso i pari ed esplorare la sua invidia degli adulti.Questo voleva dire una terapia con frequenza di una volta a settima­na. Ad onta delle sue proteste di dover aspettare una settimana perla seconda intervista, l'avevo ritenuta capace di padroneggiare unsimile intervallo tra le sedute.

Ho presentato i resoconti di due interviste di valutazione con due ragazzeadolescenti assai diverse tra loro e messo in evidenza le interazioni che si eranoverificate tra noi. Ho avuto in seguito la fortuna di poter seguire nel tempo en­trambe queste pazienti: Jane aveva dovuto aspettare parecchi mesi per iniziare laterapia di gruppo, che al momento in cui scrivo dura da un anno e mezzo. Inquesto periodo è riuscita a capire qualcosa del suo rapporto con i pari ed è mi­gliorata in maniera considerevole.

Helen invece iniziò una analisi a 5 sedu te per settimana con una analistainfantile in training due settimane dopo l'ultima intervista. Sono parecchi anni checontinua le sue sedute e per parecchio tempo ogni separazione ha causato unaangoscia catastrofica. lo credo che le tre interviste iniziali abbiano avuto l'efletto diaiu l'are entrambe queste adolescenti a capire qualcosa sulla natura dei loro pro­blemi, e a metterle in grado di decidere insieme a me la forma appropriata ditrattamento. Sono state capaci in seguito di avvicinarsi alla terapia in una manierache non era pensabile al momento della loro prima presa di contatto con l'ambu­latorio. Considerando con quanta frequenza gli adolescenti abbandonano il tratta­mento, un simile lavoro preparatorio pare non solo utile, ma addirittura consigliabile.

Come si sarà notato, io dedico molta attenzione al mio controtransfert e lo usocome guida di tutti i commenti interpretativi che faccio. Per quanto riguarda iltransfert invece lo prendo in considerazione solo nel caso che interferisca seria­mente con il lavoro esplorativo; in altri termini interpreto soltanto emozioni for­temente negative o idealizzazioni estreme. Metto poi sempre in relazione quel chesuccede nel qui ed ora, in qualità di esempio vivente della natura dei rapporti cheil paziente ha con gli altri nel suo mondo interno e in quello esterno, dal momentoche non voglio né eccitare né incoraggiare emozioni infantili nei miei confronti.Dal momento che nelle interviste esplorative si stabilisce una relazione temporanea,il mio scopo è quello di mettere in funzione nel paziente un processo di osservazionee di riflessione sulla natura dei suoi rapporti. Quello che io spero si comincierà adapprezzare alla fine del processo di valutazione è proprio questo processo di rifles­sione sulle azioni e sulle emCYkioni, piuttosto che me stessa come mezzo che facilitala comprensione. Se si riesce a raggiungere questo risultato, per il paziente è piùfacile aspettare che si liberi un posto per iniziare il trattamento. Si sarà anche resoun poco meno difficile il passaggio a un altro professionista, sebbene sia inevitabileun cetto grado di dolore e di angoscia al riguardo. Laddove tuttavia sia presenteuna storia di perdite precedenti, si può naruralmente cercare di evitare questopassaggio. Dove invece il paziente si tuffa in un rapporto terapeu tico fin dallaprima parola e si ritiene che il caso sia adatto per un trattamento a lungo termineda parte di un collega, può essere utile fare soltanto una breve valutazione, forseaddirittura di un solo incontro. È particolarmente importante tenere questo in mente

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Bibliografia

Valutazione in ambito psicoterapico

quando si fanno sedute di valutazione con bambini. Naturalmente non abbiamo mododi essere cer.ti che le nos~re v~utazioni siano corrette - solo il tempo proverà quantoil no:;tro p~o colpo d occhi? d~1 mond? interno di un paziente è stato giusto osbagliato. CIO ruttavla non Cl esune dall obbligo di apprendere dall'esperienza e di~ntr~llar~ d?!>? qualche tempo quello che avremo potuto cercare e scoprire nellelllterviste 1l11Zlali, aHmando coslla nostra capacità in vista di altre interviste esplorative.

Harris M., Meltzer D. (1977): A Psychoanalytic Model of tbe Child in tbe Farnily inthe Conununity. O.M,S.

Traduzione a cura di G. GIANNOTTU

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