Interferenze

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Luigi Ametta, mainstream

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LUIGI AMETTA

INTERFERENZE

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INTERFERENZE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-501-4 Copertina: “Riflessi sul Po” di Enzo Traversi

Prima edizione Marzo 2013 Stampato da

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Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmen-te esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.

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Ringraziamenti I miei più sentiti ringraziamenti a (senza alcun ordine particolare):

i miei familiari per il loro continuo supporto Riccardo Porcellana Stefania Lovati Oriana De Iulio Giusi Di Furia de La Feltrinelli Torino e a Jonathan Coe per l’incoraggiamento.

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A Katiuscia e Victoria le mie meravigliose ragazze

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interferenza [in-ter-fe-rèn-za]

s.f. Effetto di sovrapposizione di due fenomeni della stessa natura

con possibilità di sommarsi o di elidersi

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Capitolo 1

Ullapool Non riesco a immaginare nulla di più rilassante; fermarsi qui, di fronte al Loch Broom, ad ascoltare il rumore del mare e i suoni provenienti dalle immediate vicinanze mentre il vento porta fino alle mie narici tutti gli odori a cui mi sono abituato durante gli anni trascorsi qui. Sarebbe bello poter sentire il vento tra i capelli, se solo ne avessi ancora; invece il freddo mi induce a calcarmi bene il mio berretto di lana per proteggere il cranio dall’aria di questo ge-lido mattino, mentre minuscoli schizzi d’acqua di mare mi investono. Come sono finito qui? È da qualche tempo che questa domanda ricorre nella mia mente ogni qual volta mi fermo qui a guardare questo aspro ma quieto paesaggio marino. L’idea che questo po-tesse diventare per me un rifugio dove ritrovare pace e tranquillità si fece strada fin dalla prima volta che vidi questi luoghi: era il 1989, e con i miei soci Alessio e Vito decidemmo di trascorrere le vacanze estive in Scozia. Al termine della vacanza gli eventi pre-cipitarono repentinamente, e nel giro di pochi mesi l’idea divenne realtà; i paesaggi che tanto mi avevano affascinato durante quelle giornate di fine agosto divennero i luoghi del mio esilio. A distanza di tempo mi pare superfluo chiedermi il perché ho scel-to di cercare rifugio nella rude e genuina ospitalità di questi luoghi e di questa gente. Tutto ciò che sto per portarmi via da qui è la consapevolezza di aver trascorso tanti, troppi anni a nascondermi.

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Da chi o da cosa, non lo so. In verità avrei potuto rifugiarmi in qualsiasi altro posto meno sperduto di questo, nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi. A dire il vero, mi chiedo come abbiano fatto da New York a rin-tracciarmi qui a Ullapool; sicuramente è stato condotto quel tipo di ricerche che io, al posto loro, non mi sarei mai sognato di fare, o che certamente avrei abbandonato alla prima difficoltà. La perse-veranza non è mai stata un mio punto di forza, e in generale io non sono mai stato un gran combattente; è più facile fuggire, cosa che ho fatto quando ho abbandonato la mia città natale per rifugiarmi qui nelle Highlands, piuttosto che battersi, cadere, rialzarsi e bat-tersi ancora. La sirena del traghetto proveniente da Stornaway mi distoglie dai miei pensieri; tra pochi minuti attraccherà nel porto, e il coach di-retto a Inverness potrà finalmente partire. Butto un rapido sguardo al borsone in cui ho racchiuso tutti i miei pochi averi; possedere poco o nulla risolve un sacco di problemi quando bisogna trasfe-rirsi. «Mr. Mogiri, è meglio che si affretti, il suo bus sta per partire». La voce premurosa che giunge alle mie spalle è quella della signo-ra Fraser, l’anziana vedova che per tutti questi anni mi ha affittato la camera nella quale ho vissuto. Per lei, come per tutti gli altri residenti di Ullapool, io sono Mr. Mogiri: la corretta pronuncia del mio cognome, Maugeri, non la sento da una vita, ma nonostante ciò non vi ho ancora fatto l’abitudine. È stato molto più facile di-ventare Paul invece che Paolo, cosa che ho quasi incoraggiato io stesso, più che altro come forma di banale, forse stupida, cortesia nei confronti di questa gente che mi ha accolto nella propria co-munità senza problemi.

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«Grazie Mrs. Fraser, sono pronto» le rispondo volgendomi verso di lei e sforzandomi di sorridere. Il mio è un sorriso che si spegne quasi subito, in coincidenza con la sua successiva domanda. «Pensa di tornare tra noi, o ritorna a casa sua?» Casa mia… e dove sarebbe casa mia? Ma non voglio rivolgerle questo mio pensiero sotto forma di domanda, alla quale lei non saprebbe rispondere così come non so rispondervi io. «Non torno in Italia, almeno non per il momento: ho degli affari di famiglia da sbrigare a New York, forse mi concedo una breve va-canza in qualche posto dove faccia caldo. Poi magari tornerò qui; si sta bene qui». Ma in cuor mio so già che non tornerò, probabilmente mai più. Questo viaggio a New York per assistere alla lettura del testamen-to dello zio Alfio è l’inaspettata occasione per decidere una volta per tutte se finire i miei giorni in un angolo sperduto della Scozia o se portare i miei acciacchi da qualche altra parte. Raccolgo da terra il mio borsone, percepisco che la signora Fraser segue con lo sguardo i miei movimenti, e so che probabilmente ha capito che non ci rivedremo. «Ora è meglio che vada. Grazie di tutto, Mrs. Fraser.». «Buona fortuna, Mr. Mogiri, abbia cura di sé». Il vento scompiglia i suoi capelli candidi come neve, noto i suoi occhi che sono inumiditi dalle lacrime; la saluto baciandole delica-tamente le guancie, improvvisamente un groppo alla gola mi rende difficoltoso parlare. «Anche lei», le rispondo, ma le parole escono come strozzate. Senza esitare oltre, mi incammino verso il piazzale dove il bus è in attesa, evito di guardare indietro. Volgo lo sguardo verso il mare, mentre con la mano sinistra frugo nella tasca del giaccone per as-sicurarmi di avere i documenti di viaggio. Mi rendo conto che all’improvviso provo dispiacere nel lasciare questa tranquilla cittadina, il suo lento ritmo di vita, i suoi pub e la

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sua gente semplice; al termine del viaggio che sto per iniziare, mi troverò proiettato in una realtà completamente diversa, e questo mi spaventa un po’. Sono sempre stato poco incline ai cambiamenti, se non dettati da effettiva necessità o da momenti di confusione mentale, come è stato quando ho deciso di trasferirmi in Scozia. E adesso non so, realmente, a cosa sto andando incontro: dove sarò tra una settimana, cosa farò, sempre ammesso che io sia ancora in circolazione. È uno strano impulso quello che mi sta portando via da qui, irrazionale, illogico, forse autodistruttivo e maligno: chi altri si accingerebbe ad attraversare l’Atlantico con i soldi contati in tasca senza sapere cosa ne sarà della propria esistenza, se non l’ultimo degli sconfitti, senza patria, senza famiglia, senza una sola ragione per vivere. Qui ero al sicuro, i miei pochi risparmi mi con-sentivano di condurre la mia abulica e monotona vita senza problema alcuno; dal momento in cui salirò su quel coach sarò fa-cile preda di qualunque persona ostile, potenziale vittima di qualunque evento contrario. Ma sento che devo andare. Prendo posto sul coach e comincio a guardare fuori dai finestrini cercando di immagazzinare nella mia memoria quante più imma-gini possibili dei paraggi che ora, visti dall’interno di questo veicolo che l’autista ha appena messo in moto, mi sembrano già minimamente estranei. Vedo passare barcollando il vecchio Derek Law; si narra che a casa sua produca una favolosa stout con cui si riempie durante l’orario di chiusura dei pub, ma non sono mai riu-scito a costatare la veridicità di questa voce. Lo vedo diventare una sagoma indistinta che si cammina verso il Seaforth mentre il mez-zo si dirige verso l’entroterra arrancando sulle strade in salita che conducono fuori dal paese. All’improvviso provo una gran voglia di urlare, un panico che riesco faticosamente a dominare: vorrei andare dall’autista e dirgli che se non è in grado di condurmi all’istante lontano da qui tanto vale che mi faccia scendere, che mi

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lasci libero di tornare sui miei passi; invece mi aggrappo con tutte le forze ai braccioli del mio sedile, mentre l’automezzo si lascia alle spalle le ultime case di Ullapool. I sobbalzi su questo tratto di strada mi inducono quasi a vomitare, mi sforzo di controllare i conati così come mi sto sforzando di dominare le emozioni; provo a immaginare come proseguirà il vi-aggio una volta raggiunta Inverness, lo spostamento fino all’aeroporto, il volo fino a Gatwick, il trasferimento a Heathrow, il volo verso New York… sento l’ansia crescere invece di placarsi, e mi rendo conto di essere già distrutto dalla stanchezza a quest’ora del mattino.

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Capitolo 2

Heathrow Airport, Terminal 5 Sono riuscito a trovare finalmente il momento in cui nelle toilette degli uomini non c’è troppo viavai, ne approfitto quindi per ra-dermi in attesa dell’imbarco sul mio volo; scruto con attenzione la mia immagine riflessa allo specchio, e mi vedo insolitamente rilas-sato. Mentre il rasoio scorre cautamente lungo i lineamenti precocemente invecchiati del mio viso, immagino quali potrebbero essere gli eventi che vivrò nelle prossime ore: probabilmente sco-prirò di avere qualche lontano parente nato e vissuto a New York o comunque negli States, convenuti a loro volta in un grigio studio legale per raccogliere qualche briciola dei pochi beni materiali ap-partenuti a un emigrante italiano partito più di mezzo secolo fa in cerca di fortuna. Non so molto a riguardo dello zio Alfio, a casa mia ho sentito par-lare raramente di lui, e credo di averlo visto solamente in qualche vecchia fotografia. Lasciò Torino nei primi anni del dopoguerra, e si tenne sporadicamente in contatto solo con l’altro fratello di mio padre, lo zio Primo (il quale era il primo di otto fratelli, una fami-glia numerosa come anche quella di mia madre, ma entrambe vennero decimate dai bombardamenti e dalle deportazioni): forse mio padre rimase tagliato fuori dal già scarso flusso di informa-zioni a causa del fatto che all’epoca era ancora un ragazzino, ma presumo che in breve tempo anche il fratello maggiore perse inte-

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resse nelle sorti del lontano familiare. Con il passare degli anni zio Alfio divenne uno sfocato ricordo del quale era possibile rievocare solo le fattezze giovanili frugando negli album di famiglia, ma e-videntemente la cosa aveva poca importanza, noi abbiamo fatto la nostra vita senza di lui, e lui ha vissuto senza di noi; e a quanto pare ha vissuto fino a pochi giorni fa, sopravvivendo ai suoi due fratelli e ai suoi parenti acquisiti, per lo meno tutti quelli dei quali io conoscessi l’esistenza. Chissà se lo zio Alfio ha vissuto un’esistenza incolore come la mia, o se ha messo su famiglia, lavorando onestamente e invec-chiando serenamente; è un dubbio, questo, che balena nella mia mente realizzando che le nostre vite sono accomunate dalla scelta che abbiamo compiuto entrambi di lasciare il nostro paese di ori-gine, anche se non conosco le motivazioni che lo spinsero a farlo. Chissà, probabilmente di qui a poco scoprirò di avere una zia or-mai vedova, e dei cugini cresciuti a loro volta ignorando la mia esistenza… però, chi mai poteva esserne a conoscenza, e perché venirmi a rintracciare dall’altra parte dell’Atlantico, magari al solo scopo di consegnarmi qualche oggetto o documento appartenuto alla mia famiglia? Finisco di radermi, getto nel cestino il rasoio monouso e, dopo es-sermi abbondantemente risciacquato il viso, esco dalla toilette; mi guardo intorno, nell’immenso atrio del terminal l’incessante bruli-care di persone mi toglie il fiato, non sono abituato alle grandi folle. Mi sento come sopraffatto, faccio qualche passo indietro fin-ché le mie spalle toccano il muro; getto lo sguardo al monitor più vicino, sospeso in alto a una decina di metri di distanza, socchiudo gli occhi per mettere a fuoco, e vedo che il gate di imbarco per il mio volo non è ancora segnalato. Mi guardo nuovamente intorno in cerca di un espediente per ingannare l’attesa: vedo un WHSmith e mi incammino rapidamente in quella direzione. Magari trovo un

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tascabile a prezzo stracciato che sicuramente come lettura sarà più interessante delle riviste distribuite a bordo dell’aereo. Dentro il negozio, mi soffermo a dare uno sguardo alle prime pagine dei quotidiani: sui giornali britannici campeggiano fotografie dei soliti volti noti e di procaci ragazze in bikini; sposto lo sguardo sui gior-nali italiani, e noto che le notizie, i problemi e i protagonisti sembrano gli stessi che riempivano le colonne nel periodo in cui io lasciai il paese. Mi rendo conto che il mondo non cambierà mai, e i giornali non fanno che ricordarcelo ogni giorno. Preferisco acqui-stare un libro, i libri prevalentemente sono opera di fantasia, e la fantasia è libertà, forse nella sua forma assoluta. Basti pensare a come sono liberi e felici i bambini durante la loro infanzia, quando la fantasia è regina del loro tempo, e il mondo ha colori vividi e profumi gradevoli. Questo fino a quando gli adulti non decidono di lasciare che le lordure del mondo penetrino in quel delicato siste-ma, opacizzando i colori e neutralizzando i profumi, ed è allora che l’infanzia finisce davvero. Ogni tanto mi capita di perdermi nei miei ricordi di infanzia, che nonostante l’umile condizione sociale della mia famiglia è stata felice; anzi i miei genitori, probabilmente senza nemmeno render-sene conto, l’hanno prolungata di qualche anno, grossomodo fino ai miei dodici o tredici anni di vita. Quella è più o meno l’età fino alla quale conservai intatto il mio candore. Mio padre si spezzava la schiena tutti i giorni in catena di montaggio, mentre mia madre per arrotondare assemblava penne a sfera nelle pause tra le fac-cende domestiche. Non c’erano soldi per ciò che non fosse strettamente necessario, ma a quei tempi ben pochi erano a cono-scenza dell’esistenza del superfluo. Dopo la scuola, io e i miei coetanei trascorrevamo interi pomeriggi a correre dietro a un pal-lone, a meno che le condizioni atmosferiche non fossero proibitive; altrimenti ci trovavamo davanti al bar situato all’angolo

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di una via interna poco trafficata, e lì davamo vita a interminabili discussioni su argomenti di poca o nulla importanza. Ricordo che gli argomenti rimasero gli stessi, puerili e irrilevanti, anche quando arrivammo nel pieno della nostra adolescenza. Ma come finì la mia infanzia? Non in modo traumatico, fortunatamente; finì quan-do mi innamorai, contemporaneamente, della musica e di una ragazza: la prima non mi avrebbe mai (o quasi mai) deluso, la se-conda invece mi deluse nel giro di pochi mesi. Entrambe però riempirono le mie giornate, mettendo fine all’immutabile fluire dei giorni che aveva segnato l’intero corso della mia infanzia. Incontrai Linda tra i banchi di scuola, in seconda media, e la sua bellezza inondò i miei occhi e il mio cuore; persi immediatamente interesse per i miei giochi da bambino, e dedicai tutte le mie ener-gie al solo obiettivo di riuscire a trascorrere quanto più tempo possibile con lei. Tutto mi sembrava più bello in quel periodo, e giunsi alla errata conclusione che il cammino verso l’età adulta sarebbe stato molto più interessante, felice e gratificante rispetto agli anni spensierati dell’infanzia. Quando, dopo alcuni mesi di blando corteggiamento, mi feci coraggio ed esternai a Linda i miei sentimenti per lei, collezionai la prima grande delusione della mia vita: lei mi respinse, e io improvvisamente capii che non esistono solo i colori vividi e i profumi gradevoli, ma anche il grigio e la puzza di fogna. Faticai parecchio a capacitarmene, non riuscivo a credere che nel mio mondo equilibrato e felice fosse possibile che una simile ingiustizia avesse luogo. Linda mi disse, con pochissi-mo tatto, che non aveva alcun interesse nei miei riguardi, e che a lei interessava Giulio, all’epoca uno dei miei migliori amici. Ov-viamente mi aspettavo, confidando in un senso di lealtà che credevo possedesse chiunque, che Giulio non avrebbe mai accetta-to di uscire con una ragazza per la quale un suo amico si era preso una cotta colossale. Due giorni più tardi Linda e Giulio comincia-

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rono a uscire insieme, il mio mondo ideale nel giro di quaran-tott’ore era stato squassato da due cataclismi che avevano prodotto danni irreparabili. Coltivavo però l’illusione che eventi del genere fossero rari, realizzabili solo se il caso mi avesse portato a imbat-termi in individui anomali, privi di sensibilità e di scrupoli, contrariamente (ne ero certo) al resto dell’umanità. Come era faci-le vivere di illusioni, a quella età. Inutile dire che la mia amicizia con Giulio cambiò radicalmente natura; qualunque pretesto divenne buono per azzuffarci, e le no-stre scazzottate proseguirono anche dopo che lui ruppe con Linda, alcuni mesi più tardi. Non lo perdonai mai per quello sgarbo, come non avrei mai perdonato nessuno di coloro che negli anni seguenti mi procurò sofferenza. Pago alla cassa il libro che ho scelto ed esco dal negozio, alzo lo sguardo verso un monitor, il gate è aperto, posso finalmente pro-cedere all’imbarco.

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Capitolo 3

49 Grove Bar, NYC Il barman mi ha appena versato il secondo bicchiere del più costo-so scotch disponibile nel locale, e io me lo rigiro davanti, seduto al bancone di questo bar di tendenza stranamente poco frequentato a quest’ora, mentre cerco ancora di riprendermi dalla sorpresa per quanto saputo poche ore fa. È incredibile, sono ricco! Ricco sfon-dato! Lo zio Alfio possedeva un incredibile patrimonio e io sono il suo unico erede! Pare che dopo i primi due anni dal suo arrivo in America, vissuti facendo lavori umili come il lavapiatti e il facchi-no, lo zio Alfio abbia conosciuto un’anziana e facoltosa vedova che lo prese immediatamente in simpatia, e con la quale ha vissuto parecchi anni fino alla sua scomparsa, ereditando buona parte dei suoi beni. Non riesco a ricordare che una minima parte delle pro-prietà che ora sono in mio possesso; domani mattina dovrò incontrarmi nuovamente con il legale che ha curato fino all’ultimo gli interessi di mio zio, e allora cercherò di capire la reale entità del mio patrimonio, ma so per certo che possiedo un ampio appar-tamento con vista panoramica su Central Park, uno a Miami, altri a Londra, Roma, forse anche in capo al mondo… e poi grossi pac-chetti azionari e una notevole liquidità. Il legale mi ha assicurato che per dissipare un simile capitale dovrebbero mettersi d’impegno intere generazioni di eredi, quelli che io non avrò. Mo-rirò solo, o probabilmente circondato da improbabili amici e opportunisti di ogni sorta che, come avvoltoi, mi spoglieranno di

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ogni avere. Comunque non dovrò più lavorare, nemmeno in ma-niera saltuaria come ho fatto durante i miei anni in Scozia: il mio lavoro da questo momento consiste nel dilapidare una fortuna nel tempo che mi è rimasto da vivere. Devo solo studiare come farlo. Da questo momento in avanti, la mia vita sarà una lunga, continua vacanza; girerò il mondo, incontrerò persone, andrò alla ricerca di me stesso. È un po’ quello che volevo fare da giovane, quando la voglia di vivere e di scoprire mi faceva fantasticare di viaggi av-venturosi, con qualche amico fidato, pochi soldi in tasca e mezzi di fortuna. Se ne parlava spesso, davanti a quel bar all’angolo della strada, soprattutto nei primi anni dell’adolescenza; sembrava una cosa che prima o poi avremmo realizzato, ma con il passare del tempo i miei amici persero gradualmente la voglia di fantasticare, e iniziarono a pensare alla loro collocazione nel mondo degli adul-ti. Presto mi fu chiaro che tutti loro si stavano già preparando a sostituire i loro indumenti casual con abiti grigi da ufficio o con tute da operaio; l’imminente anno di servizio di leva sarebbe stato lo spartiacque, il traumatico trapasso dall’adolescenza all’età adul-ta. Per loro una tabella di marcia a tappe forzate sembrava essere già scritta, e io non riuscivo ad accettarlo; non ero pronto per cer-carmi un lavoro, una moglie e una casa nella quale costruire una famiglia. Con esattezza, non sapevo nemmeno io cosa mai avrei voluto essere da adulto, l’unica certezza che avevo era che non volevo condurre una vita banale e omologata. Mentre tutti i miei legami di amicizia si indebolivano, trovai rifugio nella musica; con accanimento sempre più maniacale, cominciai a farmi registrare su audiocassette tutti i dischi in possesso di amici e compagni di scuola. Non possedevo, contrariamente a molti di loro, un giradi-schi o un impianto hi-fi, a casa dei miei genitori c’era solo un vecchio mangiacassette che aveva visto giorni migliori, e i pochi spiccioli che i miei genitori mi passavano erano sufficienti solo per l’acquisto di qualche nastro vergine. Quando i discorsi insulsi dei

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miei amici raggiungevano il mio livello di sopportazione, rientravo a casa, accendevo il mangiacassette e mi sdraiavo sul letto della mia stanza, perdendomi tra atmosfere lisergiche, melodie romanti-che, partiture cervellotiche e liriche fabulatorie o politicizzate. Spesso mi dimenticavo anche di studiare, tanto che ben presto i miei risultati scolastici cominciarono a risentirne. Per i miei geni-tori questo divenne un tormento, dal loro punto di vista io stavo vanificando tutti i sacrifici che loro facevano per mantenermi e permettermi di studiare; ma ovviamente era impossibile per loro comprendere il mio disagio, la sensazione di trovarmi su una via senza sbocchi che non fossero quelli consueti per un ragazzo ap-partenente al ceto medio-basso. La mia voglia di vivere un’esistenza gratificante al di fuori degli schemi era vista un po’ da tutti con scetticismo, spesso anche con sospetto. Presto nella mia zona divenni conosciuto come “quello strano”, e cominciaro-no a circolare su di me le voci più disparate, da quelle più scontate secondo le quali avrei fatto uso di stupefacenti, ad altre più fanta-siose che mi volevano alle prese con l’organizzazione di un viaggio negli Stati Uniti a bordo di un mercantile. Chissà che faccia farebbero, ora, se sapessero che negli Stati Uniti ci sono arrivato sul serio con pochi soldi in tasca, e che vi ho tro-vato una fortuna! Poveri stolti! Gretti e meschini prodotti del proletariato di periferia, privo di cultura e dispensatore di giudizi sommari. Come vorrei sbattervi sulla faccia la mia nuova condi-zione di nababbo! È vero, non è frutto del mio lavoro, ma giunge a proposito per risarcirmi delle amarezze e delle ingiustizie che ho dovuto subire in tutti questi anni a causa di gente che si crede mi-gliore di me. La gradazione alcolica di questo ottimo scotch mi sta annebbiando la mente, mi rendo conto a un tratto. Non devo abbandonarmi a propositi di vendetta o rivalsa, il mio passato mi tormenta già ab-bastanza, e fin troppo spesso. Finalmente ho la possibilità di

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andare oltre, facendo in modo che il mio futuro sia più sereno. Il denaro non mi restituirà gli anni persi, trascorsi sbagliando ogni singola mossa o rinunciando a fare qualsiasi tentativo per rimet-termi in gioco, ma potrà allietarmi quelli a venire. Bene, è meglio che non esageri con il bere, terminerò con calma questo bicchiere e poi me ne andrò in albergo; l’avvocato Perkins mi ha dato appuntamento per domani mattina all’appartamento che è appartenuto a zio Alfio, anticipandomi che deve illustrarmi un sacco di faccende delle quali oggi ha preferito non parlarmi, sic-come devo essergli sembrato piuttosto sconvolto. Quindi sarà meglio che domani io sia lucido e nella miglior forma possibile. Una buona dormita non mi farà sicuramente male, considerando come e quanto ho dormito durante gli ultimi due giorni. Magari chiederò se è possibile effettuare un upgrade per una camera di categoria Superior, o una junior suite, dato che ora posso permet-termelo. Presumibilmente dovrò fermarmi negli States più a lungo di quanto avessi immaginato inizialmente, ma adesso non è più un problema. Grazie zio Alfio, caro vecchio marpione, adesso posso guardare avanti da un’altra prospettiva. Vuoto il mio bicchiere, lo appoggio sul bancone interponendo un biglietto da dieci per il barman e mi allontano con passo lento; all’ingresso mi si fa incontro la sagoma scura di un membro della security, intuendone le intenzioni estraggo dal portafogli una ban-conota e gliela porgo. «Mi procura un taxi, per cortesia?» «Certamente, signore» mi risponde intascando in maniera fulmi-nea il biglietto verde. «E se non vuole viaggiare da solo, qui trova facilmente qualcuno che la accompagni». L’uomo mi indica con discrezione un punto del locale alla mia de-stra, dove scorgo una procace ragazza che, guardando nella nostra

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direzione, mi rivolge un sorriso invitante, quindi raccoglie il so-prabito e si dirige verso di me con passo felino. «OK» dico rivolto più a me stesso che all’uomo «in qualche modo i soldi vanno pure spesi».

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Capitolo 4

279 Central Park West, NYC L’avvocato Perkins è andato via da pochi minuti; dopo che abbia-mo pranzato insieme, gli ho chiesto la cortesia di riaccompagnarmi all’appartamento di mio zio. Squisita persona, Mr. Perkins: mi ha raccontato che il suo studio legale, Davies, Perkins & Rowland, ha lavorato per più di vent’anni per lo zio Alfio, facendomi capire che sarebbe lieto di poter offrire i loro servizi anche a me. Non gli ho fatto mistero della mia poca dimestichezza con tutti gli aspetti connessi alla successione in corso, e che quindi mi sembrava più che sensato avvalermi delle loro competenze. In maniera fintamen-te disinteressata, mi ha anche chiesto se mi piace guidare automobili sportive; zio Alfio possedeva una Porsche e una Lam-borghini, ma ho spiegato a Mr. Perkins che non guido da anni e che non ho intenzione di mettermi a farlo ora nel traffico di New York, considerando poi che difficilmente mi tratterrò qui a lungo. Ci siamo conseguentemente accordati nel modo che lo scaltro le-gale auspicava, le due auto costituiranno il suo compenso per le prestazioni professionali che mi fornirà nel prossimo e nel più lon-tano futuro; visibilmente soddisfatto, Mr. Perkins mi ha fornito una lunghissima serie di ragguagli, tanti che li ho già dimenticati quasi tutti. Confido sul fatto che potrò raggiungerlo telefonicamen-te in qualunque momento; «Mi chiami anche di notte, per qualunque tipo di problema» mi ha detto congedandosi. Non man-cherà occasione, caro volpone!

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La luce pomeridiana inonda quasi completamente l’ampio salone, dalla cui finestra mi sto godendo la spettacolare vista su Central Park. Sto cercando di rilassarmi così come usavo fare in riva al mare, a Ullapool, ma la digestione in atto è piuttosto faticosa, e l’acidità di stomaco cattura l’attenzione dei miei sensi. Mentre parlavo con Mr. Perkins ho notato un paio di grossi album fotografici spiccare da un ripiano della libreria, spinto dalla curio-sità li prendo e mi accomodo su una poltrona posizionata in modo da ricevere dalle spalle la luce naturale proveniente dalla finestra. Rimango per qualche minuto seduto con gli album poggiati sulle ginocchia, la schiena e il capo contro lo schienale della poltrona, gli occhi chiusi. C’è una quiete inattesa intorno a me, tanto che potrei anche appisolarmi, se non fosse che il peso dei due album mi costringe a tenere in tensione le gambe per poterli sostenere, e ciò mi mantiene vigile. Dopo qualche minuto riapro gli occhi, e decido di dare uno sguardo alle fotografie appartenute a mio zio; le foto presenti nelle prime pagine del raccoglitore mi sono familiari: sono poche e ingiallite copie di quelle che ricordo aver visto da bambino, le stesse attraverso le quali avevo conosciuto le sem-bianze giovanili del mio parente emigrato negli States. Noto quindi un primo piano di zio Alfio, una foto tessera, presumibil-mente una di quelle che utilizzò per il passaporto. Mi soffermo sui lineamenti del suo volto, cercandovi delle somiglianze con i miei, ma noto che in comune abbiamo solo le labbra sottili e il naso schiacciato, per il resto non mi sembra affatto di avere i tratti di mio zio. D’altronde ricordo che tutti dicevano che io somigliavo a mia madre, da parte mia non ho mai dato peso a questo genere di cose; “somiglia alla mamma, somiglia al papà …” ma in fatto di fisionomia ho sempre ritenuto che si tratti di una cosa opinabile, ognuno vede ciò che vuole vedere. Le foto risalenti al periodo immediatamente successivo al suo arri-vo nel nuovo continente non sono molte, e per lo più lo ritraggono

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al lavoro; in una lo si vede in un cantiere insieme a tutta la sua squadra, in un’altra è il garzone in una bottega, in un’altra ancora lo si vede all’interno della cucina di un ristorante con indosso un grembiule bianco, insieme ai camerieri e agli altri inservienti di cucina. Altre fotografie scattate per strada e in altri luoghi fanno risaltare il suo aspetto poco curato, con indosso indumenti di sca-dente fattura che rendono immediatamente riconoscibile l’umile provenienza e la condizione di immigrato anche a un miglio di di-stanza. Posso affermare senza timore di smentita che mio padre aveva un aspetto migliore alla fine di un turno di lavoro in fabbri-ca. È così che, quando giro una delle pagine immediatamente seguen-ti, rimango sbalordito dall’evidente cambiamento documentato dalle successive fotografie, e il fatto di conoscere per sommi capi come è andata la storia non mitiga comunque lo stupore. L’umile emigrante è ora un elegante giovanotto che potrebbe essere scam-biato facilmente per un divo del cinema degli anni ‘50, perfettamente a suo agio in abiti di ottima qualità spesso abbinati con gusto a pochette nella tasca della giacca e altri accessori; un gusto probabilmente appannaggio dell’anziana signora che si vede al suo fianco in quasi tutti gli scatti, una donna che anni addietro era sicuramente molto bella ma sulla quale il trascorrere del tempo ha calcato pesantemente la mano. Visti insieme, più che due amanti sembrano nonna e nipote, un nipote molto giovane che deve aver avuto il suo da fare per farla divertire di notte o comunque quando la signora desiderava. Non so dove trovasse il coraggio lo zio Alfio, o che cosa si inventasse per rimanere legato alla ricca vedova; improvvisamente però mi è chiaro il perché lui e i suoi fratelli a un certo punto avessero chiuso le comunicazioni, il tradizionalismo della mia famiglia era molto più atavico di quanto possa esprimere il detto “mogli e buoi dei paesi tuoi”. Sicuramente trovarono inaccettabile che lo zio Alfio si

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fosse legato a una donna straniera e molto più vecchia di lui, indi-pendentemente dal vantaggio economico che ne potesse trarre facendosi mantenere da lei invece di lavorare duramente ma one-stamente come mio padre e zio Primo. Ma a giudicare dalle fotografie successive nelle quali l’anziana signora non compare più, quindi presumibilmente successive alla sua dipartita, lo zio Alfio non deve essersi dato eccessiva pena del-la disapprovazione dei suoi familiari: località esotiche, grandi metropoli, villaggi alpini, paesaggi campestri fanno da sfondo a decine e decine di fotografie scattate in giro per il mondo, e in molte di esse è accompagnato da belle donne, che diventano sem-pre più giovani man mano che per lui gli anni aumentano. Le foto delle ultime pagine lo mostrano invece in età avanzata, solo e ma-linconico; l’ultimo primo piano ritrae un vecchio con barba e capelli bianchi, lo sguardo triste nonostante le labbra sottili siano tirate agli angoli della bocca in una smorfia che somiglia a un sor-riso. Indugio a lungo su quello sguardo, e dopo un attimo di smarrimento capisco che è lo stesso sguardo che vedo ogni qual volta mi guardo allo specchio. Chiudo l’album fotografico, una certa inquietudine si è impadronita di me. Mi sembra quasi di sen-tirmi addosso lo sguardo di mio zio, è una sensazione assai poco confortevole; mi guardo intorno per sincerarmi del fatto che la mia sia solo suggestione, la quiete dell’ampio appartamento è diventata insopportabile, sento il bisogno di uscire di corsa da qui. Scatto in piedi e ripongo in tutta fretta gli album fotografici al loro posto, quindi raggiungo rapidamente l’uscio e altrettanto velocemente lo richiudo alle mie spalle. Con un certo affanno traffico un po’ con le chiavi e la serratura della porta, finché riesco a chiudere pro-priamente l’appartamento e posso finalmente allontanarmi. FINE ANTEPRIMAContinua...