IL MURO 2/2015

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FREEPRESS ART PHILOSOPHY VISUAL CULTURE ANNO 1, N.2 MAGGIO-GIUGNO 2015

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IL MURO è un magazine bimestrale, bilingue (ita, eng), indipendente. Iscritto al Registro Stampa del Tribunale Ordinario di Latina, Num. R.G. 115/2015 ISSN 2421-2261 www.ilmuromag.it IL MURO is a bimonthly magazine, bilingual (ita, eng), indipendent.

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freepress

art

philosophy

visual culture

anno 1, n.2

maggio-giugno

2015

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il muro

il muro Art, Philosophy and Visual culture

rivista bimestrale / bimonthly magazine

Anno 1, n.2, maggio - giugno 2015

Direttore responsabile / Director general Luisa Guarino

Direttore creativo / creative director

Jamila Campagna

caporedattore / editor-in-chief Gaia Palombo

multimedia manager

Alessandro Tomei

art Directorprogetto grafico / graphic project

Valentino Finocchito (grafica e impaginazione)

photo editorJamila Campagna

iconography researchJamila Campagna

Gaia Palombo

redazione / editorial address IL MURO

via Veio 2, 04100, Latina

hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico):

contributors (in alphabetical order): Fabio Appetito

Gabriele CameloJamila Campagna

Fabrizio CosciaArianna Forte

Giuseppina LavalleE.M.

Rossana MacalusoElide MassolariGaia PalomboGiulia Pergola

Nick TestaVera Viselli

per la consulenza in lingua inglese, si ringraziano:

For the english consulting, thanks to: Gabriella Campagna

Marco De CaveSerena Maccotta

Ilaria Palombo

editore e proprietario / publisher and owner IL MURO

associazione culturale via Veio 2

04100 Latina

sito webwww.ilmuromag.it

contatti / contacts

[email protected]

stampa / print Tipografia PressUp Roma

Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015

ISSN 2421-2504 (edizione cartacea)ISSN 2421-2261 (edizione online)

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contemporary Guida critica alla 56th Biennale di Venezia (All the World’s Futures) di Rossana MacalusoCritical guide for the 56th Biennale di Venezia (All the World’s Futures), Rossana Macaluso

eQuivalents Michele Pergola. Il giardino di pietra di Giulia PergolaMichele Pergola. The stone garden, Giulia Pergola

David LaChapelle. Dopo il Diluvio di Vera ViselliDavid LaChapelle, After the Deluge, Vera Viselli

Giulia Marchi, Multiforms di Gaia PalomboGiulia Marchi, Multiforms, Gaia Palombo

la rechercheScuola d’arte e dei mestieri Ettore Rolli. Un percorso nel tempo e nella cultura di Jamila CampagnaSchool of art and crafts Ettore Rolli. A path through time and culture, Jamila Campagna

intravista mZK

Paola Turci. Canto quindi Io sono di Jamila Campagna

Paola Turci. I sing therefore I am, Jamila Campagna

artist’s WorDViaggio contro la solitudine di Gabriele CameloTravel against solitude, Gabriele Camelo

FloppyVirtual heritage e l’orizzonte delle nuove tecnologie per i musei italiani di Arianna ForteVirtual heritage and new technologies in italian museum Arianna Forte

What’s happIl gioco del silenzio di E. M.Silent game, E.M.

legÊreFabrizio Coscia, Soli eravamo, recensione di Fabio AppetitoFabrizio Coscia, Soli eravamo, review by Fabio Appetito

la ruota panoramicathe Big Wheel Così furono presenti all’amore. Due scritti inediti di Fabrizio CosciaSo they were present to love. Two Fabrizio Coscia’s unreleased writings

la caverna Di platoneIl segno sul muro a cura di Elide Massolari e Nick TestaThe mark on the wall curated by Elide Massolari e Nick Testa

BacKlooKFisiognomica. Una disciplina in apparente trasformazione nel corso dei secoli? di Giuseppina LavallePhysiognomy. Is it a discipline in apparent transformation through the ages? Giuseppina Lavalle

microcultureWARIOS WRS ° TOKYO ELEMENT STOREWARIOS WRS ° TOKYO ELEMENT STORE

enDing titlesAlessandro Reale, Differenza

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il muro

È interessante la lettura dell’intervento del Presidente della

Biennale di Venezia, Paolo Baratta, che definisce «Curigier, Gioni, Enwezor, quasi una trilogia: tre capitoli di una ricerca della Biennale di Venezia sui riferimenti utili per formulare giu-dizi estetici sull’arte contemporanea, questione critica dopo la fine delle avanguardie e dell’arte non arte»1. Ci pensa Okwui

Enwezor a creare uno stacco critico netto rispetto al passa-

to. La 56. Esposizione Internazionale d’Arte è una Biennale

impegnata. La dichiarazione di intenti è esplicitata dal punto

di vista istituzionale ancora prima che espositivo: «Sono sta-ti chiamati 136 artisti dei quali 89 presenti per la prima vol-ta, provenienti da 53 paesi, molti da varie aree geografiche che ci ostiniamo a chiamare periferiche»2. Il rischio, nell’uso

dell’aggettivo periferiche, è di rimandare ad immaginari più

che altro esotici, che puntualmente Enwezor tradisce in tutti

i modi in cui è possibile farlo. Non è un caso che il Padiglio-

ne centrale dei Giardini si apra con Il Muro del Pianto di Fa-

bio Mauri3, omaggio alla codificata (termine che pare andare

molto di moda) arte italiana, ma sottilmente in riferimento ad

un preciso artista che ha lavorato non sulla politica ma sulla

coscienza. «Ho iniziato dalla mia biografia. C’era stato il fasci-smo, la guerra, lo sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri, il freddo, la fame, la paura, i bom-bardamenti. Impresso nella memoria trovai un raduno, i Ludi Juveniles a Firenze, nei giardini di Boboli. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto politico e storico del destino, a come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un inci-dente, ma è la sostanza di una vita.»4

Ricominciare dunque dalla forza concettuale della storia e

sulla potenza traspositiva che l’arte contemporanea ha nel

momento in cui sceglie una narrazione attraverso la presa di

posizione. All the World’s Futures. La prospettiva del futuro

è affidata alla coscienza del passato. Ancora nel Padiglione

centrale dei Giardini, All the World’s Futures presenta ARENA,

uno spazio attivo dedicato ad una programmazione interdi-

sciplinare dal vivo. Il cuore di questo programma è la lettu-

ra dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx, diretta

dall’artista e filmaker inglese Isaac Julien. La lettura dal vivo

sarà un appuntamento che si svolge senza soluzione di conti-

nuità per tutti i mesi di apertura della Biennale

La scelta curatoriale ha un taglio documentativo e di appro-

fondimento antropologico ed etnografico. Oscar Murillo ap-

pende sulla facciata del Padiglione Centrale dei Giardini tele

che sovvertono la maestosità della facciata neoclassica, ma

ancora più interessante appare l’opera Frequencies (an archi-ve, yet possibilities), (2013-in corso), che è consistita nel co-

prire in maniera temporanea de banchi di scuola di studenti

di diverse zone del mondo con dei teli per registrare le loro

attività attraverso i segni e disegni, così evidentemente dif-

ferenti da zona a zona per contenuti e messaggi. Christian

Boltanski presenta per il Padiglione Centrale un film da mol-

ti definito oppressivo dal titolo l’Homme qui tousse, (1969) e

per l’Arsenale un evocativo monumento alla memoria Anima-

1 La Biennale di Venezia. 56. Esposizione Internazionale d’Arte. Intervento di Paolo Baratta. Presidente della Biennale di Venezia.

2 ibidem.

3 Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.

4 “Senza paura del buio”. Intervista realizzata da Stefano Chiodi a Fabio Mauri, Flash Art n. 277 agosto-settempre 09.

tes, (2014) composto da una veduta di campane di piccole

dimensioni che oscillano in lunghi steli metallici come gli altari

dedicati ai defunti collocati in alcune zone del Cile. Con un

atteggiamento rivolto alle problematiche globali, è presente

Robert Smithson con l’earth-work, Dead Tree (1969/2015) in

cui la land art trova una distillata sintesi nella scultura solo ad

un prima superficiale battuta indifferente alle problematiche

sociali. L’installazione di Tiravanija, Demonstration Drawings,

(2015), affida ad alcuni artisti thailandesi la traduzione in dise-

gni di fotografie giornalistiche che immortalano ribellioni nei

confronti del potere istituzionale (pubblicati sull’International Herald Tribune) rielaborando dunque un’estetica alla quale

siamo ormai anestetizzati. Al Padiglione centrale sono pre-

senti Walker Evans con la famosa serie fotografica di lavora-

tori immortalati nel loro contesto quotidiano nelle campagne

dell’America negli anni della Grande Depressione e Andreas

Gursky con May Day IV, (2000/2004), con le riconoscibili

fotografie di grande formato che per la Biennale hanno per

oggetto emblematici centri dell’economia globale come Sin-

gapore, Hong Kong e Kuwait. Il tema del lavoro è sviluppato

da Jeremy Deller attraverso la raccolta e presentazione di di-

versi oggetti che rappresentano vita quotidiana e protesta dei

lavoratori, e da Sergej Ejzenštejn di cui viene trasmesso Scio-pero! (1925), che documenta la soppressione da parte della

polizia zarista di uno sciopero dei lavoratori di una fabbrica di

inizio ‘900. Vale la pena soffermarsi a visionare l’esteticamen-

te accattivante film a tre canali dell’artista John Akomfrah, dal

titolo Vertigo Sea, (2015) il cui il montaggio alterna materiale

d’archivio con filmati contemporanei, il tutto caratterizzato da

emotivamente frustanti rimandi ad immaginari coloniali e al

mancato rispetto della natura e dell’uomo.

Continuando il percorso curatoriale, il principio dell’Arse-

nale è affidato a Bruce Nauman, che apre la strada ad una

controversa riflessione sulla questione del restauro e quindi

conservazione delle tecnologie in uso nell’arte contempora-

nea. Le opere esposte sono realizzate da una serie di tubi di

neon, comunemente utilizzati negli anni ‘70. È l’artista Melvin

Edwards a dare seguito, attraverso numerose sculture saldate

in acciaio, alle principali tematiche affrontate nelle Corderie,

le diaspore (non solo africane), le controversie raziali e le pro-

blematiche post-coloniali, le rivendicazioni dei diritti civili. Il

massacro della guerra civile in Sierra Leone è affrontata da

Abu Bakarr Mansaray nell’opera THE MASSAKA, (1997) attra-

verso una serie di disegni che riproducono forme meccanizza-

te di fantasiose armi che vengono inserite accanto a Cannone Semovente (1965) di Pino Pascali, un monumentale cannone,

ma paradossalmente in realtà un giocattolo in quanto privato

della sua funzione, non può sparare. Molto interessante risulta

il linguaggio figurativo affettivo5 dell’artista Nidhal Chamekh

che, con l’opera De quoi revenet les martyrs 2, (2012), criticiz-

za il concetto di monumento sociale pubblico come espres-

sione di potere e di narrazione controllata. Chiude il cerchio

un interessante lavoro, a mio avviso il più interessante, di Hiwa

K, The Bell, (2015) in cui lo spettatore può ammirare una cam-

pana realizzata dalla fusione di residui bellici che l’artista ha

5 Questa definizione è data dal testo presente nella guida alla Biennale che mi ha permesso di recuperare numerose informa-zioni rispetto alle opere in mostra. Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura di: 56. Esposizione Internazionale d’Arte. All the World’s Futures, Marsilio Editori, Venezia, maggio 2015.

guida critica alla 56. Biennale di venezia (all the World’s Futures)di Rossana Macaluso

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cercato e trovato sul suolo iracheno facendo parallelamente

una ricerca per identificare da quale paese provenisse cia-

scuna arma trovata, sottolineando la responsabilità che molti

Stati hanno rispetto alla guerra in Iraq.

Partecipazioni nazionali (Giardini). Molto interessante il Pa-

diglione del Belgio che riflette sulla storia dello stesso padi-

glione nel contesto della Biennale, sottolineando come essa

abbia origine nelle Esposizioni Universali e Coloniali. Il Padi-

glione dell’Australia è affidato all’artista Fiona Hall che sceglie

di esporre numerosi oggetti: una Wunderkammer nella quale

lo spettatore entra in uno stato di continua ricerca di nuove

possibilità di senso attraverso le connessioni tra cose storiche

e attuali. Il Padiglione della Russia permette ancora una volta

grandi riflessioni sulla propria cultura e storia a partire del re-styling del prospetto del padiglione che torna alle origini con

un intenso verde. Il lavoro dell’artista Irina Nakhova destabi-

lizza e crea un viaggio nell’arte russa del XX secolo, attraver-

so una grande ricerca estetica e filosofica. Il Padiglione del

Giappone raccoglie grandi consensi con l’opera di forte effet-

to scenografico dell’artista Chiharu Shiota dal titolo The Key in the Hand, (2015). L’installazione che riempie l’intero spa-

zio del padiglione, presenta numerose chiavi che l’artista ha

in precedenza chiesto via internet a volontari donatori come

metafora di un oggetto transizionale verso ciò che più si desi-

dera. Canadissimo segue la moda di riprodurre fette di realtà

riproponendo un classico market di cui sono piene le grandi

città dello Stato, elementare metafora dell’iper produttività

contemporanea. Lo stesso approccio è visibile nel Padiglione

della Grecia con l’installazione di Maria Papadimitriou che tra-

sferisce in Biennale un negozio di pellami e cuoio e negli spazi

dell’Arsenale nel Padiglione della Lettonia nel quale viene ri-

costruito uno dei numerosi garage presenti nella periferia di

alcune città trasformate in residenze o piccoli laboratori. Alle

Partecipazioni nazionali in città va il grande merito di rende-

re fruibili al pubblico, come spesso è già accaduto, numerosi

palazzi storici altrimenti chiusi o difficilmente visitabili. Da non

perdere il Padiglione del Portogallo presso Palazzo Loredan

affidato all’artista concettuale Joao Louro che, attraverso non

poca ironia, sviluppa un lavoro semantico tra installazioni visi-

ve e fotografiche. Il Padiglione Islandese merita la popolarità

che ha ricevuto. L’artista Christoph Büchel affitta l’inutilizzata

e privata ma ancora consacrata Chiesa Santa Maria della Mi-

sericordia di Venezia e la trasforma in una perfetta moschea.

Lo spazio espositivo diviene immediatamente luogo di culto.

La gestione della moschea viene affidata alla comunità mu-

sulmana veneziana che raccoglie circa venti mila fedeli, che

abitualmente praticano il culto in un capannone nei pressi

di Marghera. A Palazzo Malipiero troviamo il Padiglione del

Montenegro, che grazie alla memoria dell’artista Aleksandar

Duravcevic, permette allo spettatore di respirare in maniera

intelligente aria montenegrina, nella sua dimensione più con-

troversa del passato ma in una prospettiva di futura apertura.

Isaac Julien DAS KAPITAL OratorioPadiglione Centrale – Central PavilionARENA56. Esposizione Internazionale d’Arte - la Biennale di Venezia, All the World’s Futures 56th International Art Exhibition - la Biennale di Venezia, All the World’s FuturesPhoto by Andrea Avezzù

Courtesy: la Biennale di Venezia

contemporary review

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il muro

Biennale di Venezia‘s President Paolo Baratta wrote an inter-esting text where he defines «Curiger, Gioni, Enwezor, a tril-ogy in a sense: three chapters in a research process engaged by la Biennale di Venezia to explore the benchmarks that can help us formulate aesthetic judgments on contemporary art, a critical question following the demise of the avant-gardes and non-art.»1 Okwui Enwezor creates a critical break from the past. The 56th International Art Exhibition is a Bienniale involved in a cause. The institutional statement is clear be-fore the exhibition point of view: «136 artists have been sum-moned, of these 88 for the first time. They come from 53 countries, and many of them from geographical areas that we paradoxically insist on defining as peripheral.»2 Using the word peripheral we face the risk to think about exotic imaginaries which Enwezor always eludes in every way. It's no coinci-dence that the Central Pavilion (Giardini) is opened by Il Muro del Pianto di Fabio Mauri3, homage to the coded (definition trendly in use) Italian art, but finely related to a specific artist who worked not just on politic but especially on conscience. «I started from my biography. There have been fascism, war, Jews extermination. I had to start again from there, analyzing disasters, cold, hunger, fear, bombing. Marked in my memory I found a meeting, Ludi Juveniles in Firenze, in Boboli's garden. Thinking about those days, I focused on political and historical aspect of destiny, on the way one's personal life is influenced by history. It looks like an incident but actually it's the sub-stance of a life.»4

So, restarting from the conceptual power of history, basing on contemporary art power of transposition, when it comes taking the stance through a narration. All the World’s Futures. The conscience of past owns the perspective on future. Also in the Central Pavilion (Giardini), All the World’s Futures pres-ents ARENA, an active space with a live interdisciplinary pro-gram. ARENA's main feature is the reading of Karl Marx's Das Kapital directed by the English artist and film maker Isaac Ju-lien, a live reading which will go on continuously for the whole duration of la Biennale.

The curatorial cut is documentative with an anthropologic and ethnographic focus. Oscar Murillo hangs canvas on the facade of the Central Pavilion (Giardini) to subvert the mag-nificence of the neoclassical style; also very interesting is the work Frequencies (an archive, yet possibilities), (2013-cur-rently): benches of worldwide schools have been temporary covered with canvas to capture students activities by signs and drawings, noticing a various kind of contents and mes-sages from zone to zone. In the Central Pavilion (Giardini), we'll also find the movie Homme qui tousse, (1969), presented by Christian Boltanski, a film often defined oppressive; in the Arsenale, Boltanski also presents an evocative memorial titled Animates, (2014): a perspective of small bells oscillating on metal beams which recalls the altars dedicated to the dead that can be found in some zones of Chile. Robert Smithson presents his earth-work, Dead Tree (1969/2015) where sculp-ture recaps land art; it seems not to care about social prob-lems at the first look, but it's actually involved questioning

1 La Biennale di Venezia, 56th International Art Exhibition. Intro-duction by the President of la Biennale di Venezia, Paolo Baratta.

2 ibidem.

3 Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.

4 “Senza Paura del buio”. Interview at Fabio Mauri by Stefano Chio-di, Flash Art n. 277 agosto-settembre 09.

about global warnings.Tiravanija's installation, Demonstration Drawings, (2015), shows the works of a group of Thai artists: journalistic pho-tographs which portrays act of rebellion against institutional power (published on the International Herald Tribune) are turned into drawings renewing a kind of aesthetic we got anesthetized to. In the Central Pavilion there are also Walker Evans, with the famous photographic series about workers in everyday life in USA country during the Great Depression, and Andreas Gursky's May Day IV, (2000/2004), a series of huge format photographs about the symbolic global econo-my centers as Singapore, Hong Kong and Kuwait. The theme of working class recurs in Jeremy Deller's work, who collects and presents everyday life and protest of several workers, and in the projection of Sergej Ejzenštejn's Strike! (1925) a movie about the zarist police suppression of workers strike in an early '900 factory. It's worth to take the time to watch John Akomfrah's Vertigo Sea, (2015), a three channel movie with a charming aesthetic: a mix of archive frames and contempo-rary clips, characterized by the evocation of colonial imagi-naries and disrespectful acts against humans and nature: im-ages emotionally frustrating. Going on through the curatorial path, the beginning of the Arsenale is given to Bruce Nauman who starts the matter of conservation and restoring of contemporary art technologies. His works at the Arsenale are made of neon lights used in 70's. Melvin Edwards' series of iron sculptures focuses on the main topics we can find in the Corderie: diasporas (not only the Af-ricans), racial and post-colonial matters, civil rights claim. THE MASSAKA, (1997), of Abu Bakarr Mansaray is a work about Si-erra Leone civil war represented through a series of drawings of mechanical and imaginary weapons exhibited next to Pino Pascali's Cannone Semovente (1965) a monumental cannon reduced as a toy: it cannot work, it cannot fire. The figurative affective language5 of the artist Nidhal Chame-kh is quite interesting: De quoi revenet les martyrs 2, (2012), focuses on the idea of the public social monument as an ex-pression of power and controlled narration. At the end of this path, there's an interesting work, probably the most interest-ing, The Bell, (2015), of Hiwa K: a bell realized with remnants of war fused together; the artist found the remnants on the Iraq territory and also tried to identify the origin Country of each weapon, to highlight the involvement in the Iraq war of many Countries.

National Participations (Giardini). Quite interesting the Bel-gium Pavilion which talks about the story of the Pavilion itself in the Biennale context, underlining how it originates from the Universal and Colonial Exhibitions. Australian Pavilion is orga-nized by the artist Fiona Hall who chooses to exhibit several items: a Wunderkammer where the visitor comes to search meanings through the connections between contemporary and historical things. Russian Pavilion gives way to an open thought about oneself culture and story since the restyling of the Pavilion itself that goes back to its roots also by a deep green. Irina Nakhova's artwork destabilizes making a journey in the Russian art of the 20th Century with a deep aesthetic and philosophic research. Japan Pavilion reached a big suc-

5 The definition is taken from the text of the Biennale guide who offered me many informations about the works exhibited. For an in-depth research look at 56. Esposizione Internazionale d’Arte. All the World’s Futures, Marsilio Editori, Venezia, maggio 2015.

critical guide for the 56th Biennale di venezia (all the World’s Futures)Rossana Macaluso

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cess with the scenographic work The Key in the Hand, (2015) of the artist Chiharu Shiota. The installation fills up the whole space in the pavilion and presents several keys donated to the artist from a huge number of online users; each key is a meta-phor, a transitional object towards the most desidered thing. Canadissimo follows the trend of reproducing slices of real-ity presenting a classic big city market, a basic metaphor of the contemporary hyper production. The same approach can be found in the Greek Pavilion, where the artist Maria Papad-imitriou presents an installation which rebuilt a leather shop inside the Biennale, and in the Latvia Pavilion, where a big garage converted in a small house or laboratory, as it happens in peripheral zones of many cities, is rebuilt in the Arsenale. Thanks to the National Participations is possible to visit sev-eral historical buildings usually closed or hard to get the ac-

cess in. It's not to be missed the Portugal Pavilion at Palazzo Loredan, committed to the conceptual artist Joao Louro who develops a semantic project among visual and photographic installations, using a good amount of irony. Iceland Pavilion deserves the fame it got: the artist Christoph Büchel takes for rent the Church of Santa Maria della Misericordia di Vene-zia, private and unused but still consecrated, and turns it in a real mosque. The exhibition space quickly becomes a place of worship. The mosque management is led by the Muslim community of Venezia with its 20000 believer who usually worship in a common building near Marghera. Montenegro Pavilion at Palazzo Malipiero offers the chance to breath mon-tenegrian air in a smart way, thanks to the memory of the art-ist Aleksandar Duravcevic, in its conflictual past but looking at a new future aperture.

Hiwa KThe Bell, 2015Installazione con video a due canali, suono, colore, scultura. Dimensioni variabili.56. Esposizione Internazionale d’Arte - la Biennale di Venezia, All the World’s Futures 56th International Art Exhibition - la Biennale di Venezia, All the World’s FuturesPhoto by Alessandra Chemollo

Courtesy by la Biennale di Venezia

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il muro

Ciò che voi chiamate Italia è, ai miei occhi, un giardino di pietra.Questa è la sua forza, la sua bellezza e la sua tragedia. Questo è il suo incanto, la sua immutevole sostanza, la struggente forma del suo destino.In questa Storia che ci sovrasta e ci supera, indifferente alle nostre storie, alle nostre piccole urgenze, alle nostre contingenze che, proprio nella loro caducità, sono la più autentica e sincera immagine della nostra vita, io non ho trovato mai il mio posto.

Il progetto fotografico di Michele Pergola Il giardino di pietra è la tragica presa d’atto di una condizione esistenziale divenuta ormai insostenibile. La dissoluzione di quel fecondo legame tra uomo e Storia ha inaridito il giardino nel quale vaghiamo silenziosi, e che da rigoglioso qua-le era, si è trasformato in un algido non-luogo nel quale l’alienazione cristallizza ogni slancio vitale.

Secondo un progressivo scollamento tra forma e sostanza, Michele Pergola ci introduce in una realtà e in una Storia nelle quali l’uomo riusciva ad essere perfettamente integrato; le figure mostruose del Sacro Bosco di Bomarzo accolgono e si lasciano accogliere in un’intricata rete di rimandi, in cui il dialogo con la Storia rimane vivido in un’allegra confusione di colori e di consistenze.La scintilla rinascimentale brilla ancora di luce propria e ci riporta ad un passato meraviglioso e monumentale in cui ogni immagine era aperta. L’umanità di quei mostri di pietra si manifesta nella loro alchemica fusione con il rigoglioso giardino in cui sono immersi.Decisamente più solitari e goffi sono i busti che invadono gli spazi del Gianicolo; la loro au-torevolezza sembra essere paradossalmente contraddetta dalla miriade di medaglie che ne affollano le uniformi, ma anche da baffi e barbe che a breve ritorneranno di moda. Queste figure sono sole in un paesaggio che si allontana silenzioso, e che diviene una sce-nografia astratta capace però di imprigionare questi ridicoli uomini baffuti in un’atmosfera sospesa e straniante.La pietra comincia ad emergere nella propria natura mortifera.Ma è nella deformità degli atleti dello Stadio dei Marmi, che si manifesta l’eleganza della tra-gedia, l’interruzione di un dialogo salvifico. Questi muscolosi uomini di pietra vivono insieme

michele pergola

il giarDino Di pietradi Giulia Pergola

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la loro condizione materica e il loro slancio (interrotto) verso la trascendenza. Non hanno bisogno di alcuna scenografia, il loro spazio è bianco, ovattato, privo di qualsiasi consistenza; la piattezza che li circonda è violentemente spezzata dalla loro decadenza fisica che emerge attraverso quei corpi brutali ricoperti di muschio e muffa.L’indagine attenta condotta dall’obiettivo fotografico evidenzia da un lato una mancanza on-tica, l’inadeguatezza di quell’esser-ci a cui invece anelano i nostri figli negletti; dall’altro la concretezza del dramma che qui diviene laconica catastrofe.Le atmosfere sospese attraverso cui queste foto ci conducono, sono il segno tangibile di un malessere pregresso, di un disagio latente nei confronti di una Storia che non è stata capace di riscattarsi.Questi nervi tesi, questi rettili dalle barocche spine dorsali, non sono altro che disperata inco-municabilità.Il metafisico giardino di pietra descritto da Michele Pergola è un territorio astratto e poco rassicurante nel quale inoltrarsi. È la casa in cui non ci sentiamo a casa, la casa che abbiamo abbandonato e che a sua volta non vuole più accoglierci; è l’Unheimlich che ritorna.Un legame di sangue troncato disumanamente.Un giardino fatto di fiori, arbusti e alberi se lasciato all’incuria del tempo può trasformarsi in un ambiente decrepito, in alcuni casi anche orrorifico; i fiori lasciano posto ai rovi, il verde alla cupezza dei marroni, la tenerezza alla rugosità del marcio. Ma è pur sempre un moto evolutivo, un progredire sbagliato forse, ma che denuncia la propria esistenza.Un giardino di pietra invece, se non viene curato, se non scorge traccia di abitanti compas-sionevoli che ne attraversano gli spazi, rimane isolato e contratto nel suo rigor mortis. Immo-bile ed eterno assume lentamente le sembianze di un deserto di rocce; la desolazione che lo attraversa è priva di qualsiasi vitalità, ma anche di qualsiasi tensione verso la morte. Non c’è dinamismo perché non c’è alcun turbamento.Un giardino di pietra va necessariamente abitato affinché se ne possa cogliere lo splendore; va amato, accudito e rispettato nella sua materialità apparentemente ostile eppure così elegante.Ancora una volta c’è bisogno di amore.Le foto sono tratte dal progetto fotografico Il giardino di pietra di Michele Pergola.Il progetto fotografico Il giardino di pietra è stato il tema di una recente mostra personale di Michele Pergola presso l’Associazione culturale Canova22 a Roma, nei mesi di febbraio e mar-zo 2015. In occasione della mostra sono stati stampati cataloghi in tiratura limitata.Attualmente il progetto continua ad ampliarsi, dopo aver incluso la serie relativa al Sacro Bo-sco di Bomarzo e al Gianicolo.

CONTATTIwww.michelepergola.com/www.facebook.com/michelepergola975

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What you call Italy is a stone garden to my eyes.This is its strength, its beauty, and its tragedy. This is its fascination, its unchanging essence, the heart-wrenching form of its destiny.In this history, which dominates and exceed us, emotionless to our stories, to our little urgen-cies, which are the most authentic and sincere image of our life exactly because of  their tran-sience, I’ve never found my place.

The photographic project by Michele Pergola The stone garden is the tragic acknowledg-ment of an existential condition that has become unsustainable. The dissolution of that fertile relationship between man and History has dried up the garden in which we silently wander, and which from flourishing , as it was, has turned into an icy non-place where the alienation crystallizes every vital impulse.According to a progressive disconnection between form and substance, Michele Pergola le-ads us into a reality and a History in which men were able to be fully integrated; the outrageous figures of the Sacro Bosco (Sacred Wood) of Bomarzo welcome and let themselves welcome into an intricate web of references, in which dialogue with History remains vivid in a cheerful confusion of colors and textures.The Renaissance spark still shines of its own light and brings us back to a wonderful and mo-numental past in which each image was open. The humanity of those stone monsters is mani-fested through their alchemical fusion with the flourishing garden where they are immersed.The busts that invade the spaces of the Gianicolo are definitely more solitary and clumsy; their authority seems to be paradoxically contradicted by the myriad of medals that crowd their uniforms, but also by mustaches and beards that soon will return to fashion.These figures are lonely in a landscape that silently runs away and becomes an abstract sce-nery yet able to imprison these ridiculous men with mustaches in a suspended and alienating atmosphere.The stone begins to emerge in its deadly nature.The elegance of the tragedy, the interruption of a salvific dialogue manifest themselves in the deformity of the athletes of the Stadio dei Marmi . These muscular stone men live together their material condition and their (interrupted) rush towards transcendence. They don’t need

michele pergola

the stone garDenGiulia Pergola

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il muro

any setting, their space is white, muted, deprived of any substance; the flatness around them is violently broken by their physical decline that emerges through those brutal bodies covered with moss and mold.The careful investigation conducted by the photographic lens shows on one hand an ontic deficiency, the inadequacy of Dasein which our neglected children yearn to; on the other hand the reality of drama which here becomes a laconic catastrophe.The suspended atmospheres through which these photos lead us, are a tangible sign of a pre-vious illness, a latent discomfort against a History which has not been able to redeem itself.These stretched nerves, these reptiles with baroque spines, are nothing more than a despe-rate lack of communication.The metaphysical stone garden described by Michele Pergola is an abstract and little reas-suring area in which to advance. It is the house where we do not feel at home, the house we have abandoned and, in turn, doesn’t want to receive us anymore; it’s the Unheimlich that comes back.A blood bond inhumanly truncated.A garden (made) of flowers, shrubs and trees if left to time carelessness can turn in a decrepit and in some cases, horror space; flowers give way to brambles, green to the brown gloom, tenderness to roughness of the rotten. But it’s still an evolutionary movement, a wrong pro-gress, maybe, but denouncing its own existence.

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A stone garden instead, if not looked after, if doesn’t see traces of compassionate inhabitants walking through its spaces, remains isolated and contract in its rigor mortis. Eternal and still, it slowly takes on the appearance of a stone desert; the desolation that crosses it is deprived of any vitality, but also of any tension towards death. There’s no dynamism because there’s no perturbation.A stone garden must be necessarily inhabited in order to capture its splendor; it must be lo-ved, cared for and respected in its seemingly hostile yet so elegant materiality.Once again, love is needed.

Photographs belong to the photographic project The stone garden, by Michele Pergola.The photographic project The stone garden was the theme of a recent personal exhibition by Michele Pergola at Associazione Culturale Canova22 in Rome, in February and March 2015. For the exhibition catalogs have been printed in limited edition.Currently, the project continues to grow, after including the series of Sacro Bosco of Bomarzo and the Gianicolo.

CONTACTSwww.michelepergola.com/www.facebook.com/michelepergola975

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il muro

Se l’arte americana contemporanea può essere racchiusa in un nome, è quello di David LaChapelle. Fotografo iniziato e scoperto da Warhol, regista premiato al Sundance, nel 2006 presta i suoi occhi e la sua attenzione alla pittura e alla scultu-ra italiane, grazie alle opere di Michelangelo, arrivando a con-cepire The Deluge, una serie monumentale finalizzata ad un’e-sposizione non più prettamente mediatica ma decisamente museale. Una sorta di ritorno alle origini (le sue opere sono state protagoniste di esposizioni presso il Musée D’Orsay di Parigi, il Brooklyn Museum di New York, il Museum of Con-temporary Art di Taipei, il Tel Aviv Museum of Art a Tel Aviv, il Los Angeles County Museum of Art a Los Angeles, la National Portrait Gallery di Londra, il Fotographfiska Museet di Stoc-colma e la National Portrait Gallery a Washington DC) attra-verso l’incontro tra il suo surrealismo post-Pop e la classicità artistica michelangiolesca, così potente e dirompente da im-primere una decisa svolta artistica alla sua produzione. Fino ad allora, LaChapelle aveva voluto inglobare in sé lo spirito del tempo: quello altamente, eccessivamente pop degli anni Ottanta, con l’idea di fotografare un decennio che arrivava a cavallo del nuovo millennio, basandosi sempre e comunque sull’osservazione e la rappresentazione della realtà, pur con alcune deviazioni surrealiste-astrattiste.

Debord vedeva nello spettacolo l’essenza di una società de-dita alle immagini, ennesima forma di rappresentazione in cui tutto ciò che si era vissuto tendeva ad allontanarsi, staccan-dosi da ogni aspetto della vita e fondendosi in un unicum1.

1 G. Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, Bolsena,

In LaChapelle quest’unicum combina la scena teatrale ed il fermo-immagine cinematografico, creando un sogno forse inverosimile, aggrappato a scenari strabilianti; ma, come egli stesso ha dichiarato «anche se si trattava di fantasie esage-rate, quello era quanto accadeva nel mondo». La narrazione postmoderna2 si inserisce prepotentemente nella sua fotogra-fia, creando combinazioni inedite prive di logica temporale; i segmenti narrativi arrivano ad intrecciarsi per andare a sfo-ciare in cortocircuiti visivi e significati in conflitto, tutte conse-guenze di una società che risulta ormai pervasa, impregnata e bombardata dalle immagini. Prendendo in prestito le parole del curatore Gianni Mercurio, «LaChapelle, che guarda alla cronaca del costume e del socia-le, attinge alla storia delle immagini per penetrare le pieghe della cultura popolare»: la volontà del suo sguardo - critica, estetica e spesso onirica - è rivolta al presente e agli esseri umani che lo vivono, alla realtà fluttuante, confusionaria che, invece di certezze, fa scaturire paure e fantasmi partoriti dalla fine delle utopie, dalla crisi della fede e del pensiero razionale. È in questo contesto che egli inserisce ed affronta temi come la catastrofe e la decadenza, la malattia, la morte e la pietà: inglobandosi con il consumismo e le nevrosi compulsive, con feticismi e ossessioni narcisiste, essi creano un insieme di po-tenza primordiale. È The Deluge: il sublime che viene messo in

2002.

2 «La narrativa postmodernista si caratterizza per il disordine tem-porale, il disprezzo della narrazione lineare, la commistione delle forme e la sperimentazione nel linguaggio», B.Lewis, Kazuo Ishigu-ro, Manchester University Press, 2000.

DaviD lachapelle

Dopo il Diluviodi Vera Viselli

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scena attraverso lo strumento-carne, riprendendo quell’idea propria della pittura sacra rinascimentale, il sublime che, per divulgare temi e messaggi spirituali e renderli comprensibili a tutti, adotta i codici della comunicazione visiva di massa.«Sin da bambino sono stato affascinato da Michelange-lo», spiega LaChapelle, «guardando la sua opera si guarda il mondo. Non è il mondo dell’arte, è il mondo, è l’umanità». Un’umanità che subito dopo, però, scompare, come l’artista stesso: egli si ritira dalla scena, voltando le spalle a quella mondanità consumata per abbracciare un diverso stile di vita, quello di un’isola selvaggia situata nel bel mezzo del Pacifico. Aveva detto tutto quello che voleva dire, parole sue. Elimina il corpo. Un corpo plasmabile, soggetto a esaspera-te pratiche estetiche e consumistiche, metafora di un’identi-tà sfaldata, non più protagonista ma oggetto d’indagine, che tuttavia manteneva un contatto con il reale. Ne troviamo sol-tanto un simulacro orrorifico nei frammenti di cera della serie Still Life. Già in After the Deluge: Museum, l’immagine è la sala di un museo allagato: non è rimasto nessuno a contemplare quel patrimonio artistico che, a un tratto, perde ogni valore e len-tamente affonda in uno specchio d’acqua che ne riflette l’im-magine in un doppio ribaltato. Anche i soggetti di Awakened sono persone che fluttuano sott’acqua, sospesi in un’apnea che è una soglia, una fase che prevede l’abbandono del corpo e il risveglio in un’altra dimensione. Il ciclo Still Life, emble-matico, non ritrae più personaggi dello star system ma le loro effigi inanimate. Le riproduzioni in cera di Ronald Reagan, Ca-meron Diaz, Michael Jackson, Lady Diana, Theodore Roose-velt, Bono Vox e di molte altre celebrità, risultano scomposte in più pezzi riassemblati su cartoni da imballaggio dopo che un pesante atto di vandalismo ha deturpato l'aspetto già ma-cabro delle statue di cera. Una rappresentazione inquietante e iperreale del disfacimento e della corruttibilità dei corpi che si estende anche alle icone e alla loro celebrazione, più inquie-tante se si pensa che molti di questi personaggi sono stati ritratti da LaChapelle in passato.

Tra i lavori più recenti spiccano la serie Land Scape e Gas Sta-tions. Land Scape mostra delle centrali industriali che svetta-

no come miraggi luminosi sullo sfondo di orizzonti desertici, con cieli sfumati e variopinti. Si tratta di agglomerati luccican-ti e bellissimi, emblemi di una metropoli futuribile, frutto di un incredibile lavoro di ricostruzione realizzato dall'artista insie-me a una squadra di modellisti cinematografici assemblando oggetti e materiali di riciclo di piccolo formato. Sono modelli che LaChapelle ha fotografato sullo sfondo di paesaggi veri. Il micromondo e l’ambiente a scala umana sono due verità a confronto che intersecandosi danno forma a una realtà au-mentata: nel fondere due livelli di realtà in un’unica immagine, la realtà risulta un’astrazione. Per quanto concerne invece Gas Stations, la serie verte sull’ef-fetto straniante di alcuni scorci paesaggistici con delle stazio-ni per il rifornimento di carburante che si stagliano isolate nel mezzo di una fitta vegetazione tropicale. Templi di quella che fu la nuova religione americana (il mito dell’automobile) che continuano a emettere energia con le loro insegne al neon, ma sembrano impianti sopravvissuti in un pianeta non più abitato: uno scenario da film postapocalittico in cui l’uomo non è più protagonista, in cui nessun corpo risulta essere presente.

A definire il passaggio di LaChapelle, dopo The Deluge fino a oggi, - afferma Mercurio - è l'idea che «la via della verità è quella indicata dalla ragione e non dai sensi. Se leggiamo l’immagine attraverso i sensi abbiamo una visione onirica, co-struita peraltro con i metodi tipici del surrealismo (deconte-stualizzazione e ricontestualizzazione dei dettagli), se la leg-giamo filtrandola attraverso la griglia della ragione abbiamo un immagine che si fa carico di denunciare la realtà.»

INFORMAZIONI Titolo: David LaChapelle, dopo il Diluvio Sede: Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 - Roma Curatore: Gianni Mercurio Periodo: 30 aprile – 13 settembre 2015 Orari: domenica, martedì, mercoledì e giovedì: dalle 10.00 alle 20.00; venerdì e sabato: dalle 10.00 alle 22.30; lunedì chiuso (Dal 13 luglio al 30 agosto: dalle 16.00 alle 24.00)

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Opposite:David LaChapelle, Museum, 2007 Chromogenic Print, ©David LaChapelle

David LaChapelle, Aristocracy #3, 2015, Chromogenic Print, ©David LaChapelle

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seZioni mostra

DAVID LACHAPELLEDOPO IL DILUVIO / AFTER THE DELUGE

a cura di Gianni Mercurio, in collaborazione con Ida Parlavecchio

Catalogo della mostra di Roma, Palazzo delle Esposizioni, 30 aprile-13 settembre 2015

EDITORE Giunti Arte mostre musei PAGINE 240

PREZZO DI COPERTINA ¤42

In questa sezione sono raccolte le opere che hanno segnato il punto di svolta della

produzione artistica di LaChapelle: The Deluge, 2006, che descrive la distruzione

di una società basata sul consumismo, ma con una speranza di redenzione.

Museum, 2007, Statue, 2007, in cui l’arte, massima espressione della creatività

dell’uomo, rimane solitaria a monito di una perfezione perduta e Cathedral,

2007, dove, tra lo sgomento dei fedeli in preghiera, il viso di una bambina ci colpisce nella sua inespressività. Nella

stessa sezione gli Awakened si risvegliano nell’acqua.

il Diluvio

Aristocracy rappresenta la serie di

lavori più recenti di David LaChapelle. Fa riferimento a una classe vip, a un

gioco d’alta società sospeso tra noia e autodistruzione e rappresenta la parabola esibizionista di uno snobismo che sfocia

nella performance acrobatica e nella perdita di senso. Qui, come in molti lavori di LaChapelle, il caos si tinge di rosa e il contrasto tra il dramma e la sua patina

iperreale rimane sospeso in una metafora seducente e caustica. Le evoluzioni e gli avvitamenti disegnati dai soggetti

suggeriscono un richiamo all’aeropittura di tradizione futurista; allo stesso tempo le atmosfere dense e turbinose evocano

le tempeste sublimi di Turner.

aristocracy

La sezione celebra il tema della vanitas, un motivo sotteso a molte opere di LaChapelle ma qui enfatizzato dal

riferimento alla tradizione iconografica barocca con il trionfo della natura morta

floreale. Il titolo della serie, che è una citazione letteraria tratta dalla poesia Hamatreya di Ralph Waldo Emerson

(scrittore e filosofo americano vissuto nel XIX secolo), offre una chiave di

lettura che riposiziona il concetto stesso di caducità: i fiori recisi, simbolo della

condizione effimera dell’esistenza, diventano un’espressione eccessiva, sfacciata come uno sberleffo della

natura.

la terra riDenei Fiori

L’inclinazione di LaChapelle verso i temi trascendentali trova la sua più

esplicita espressione nella presenza del divino tra gli spazi del quotidiano ed è rappresentata dal ciclo fotografico Jesus is My Homeboy, ma anche da

opere come Pietas e The Beatification series. Emblematica di questa sezione

è American Jesus dove LaChapelle ripropone l’immagine – già rivisitata in Pieta with Courtney Love – della Pietà

rinascimentale, con Gesù che giace esanime sulle ginocchia della Madonna, sostituendo alla figura materna quella

di Cristo stesso nei panni di un giovane hippie che regge il corpo senza vita di

Michael Jackson.

il mio gesù privato

Le stazioni di rifornimento viste da un luogo e da un tempo futuro saranno

scoperte come resti architettonici di un mondo perduto, come i templi aztechi o l’Isola di Pasqua. Le culture future, con

altre preoccupazioni, si interrogheranno sul loro significato. Fotografate nelle

foreste pluviali di Maui, le stazioni esemplificano un isolamento che

prolifera ed è profondamente radicato nella nostra cultura. I modelli analogici in scala rivelano le imperfezioni della mano dell’uomo, nello stesso modo in cui il nostro sistema artificiale per creare energia è imperfetto. Queste

immagini tuttavia non sono didattiche, non condannano e non giustificano.

Semplicemente esistono, sono ciò che ha reso possibile il nostro mondo. Sarà l’approccio che sceglieremo adesso a

decidere il nostro destino.

staZioni Di riFornimento

Natura Morta è il titolo di questa insolita serie fotografica attraverso la quale LaChapelle offre un’inquietante quanto macabra galleria di ritratti di

personaggi famosi. Dopo aver appreso che il Museo Nazionale delle Cere di Dublino è stato teatro di un violento

atto di vandalismo con danni all’intera collezione di statue, il fotografo ottiene il permesso di effettuare gli scatti che compongono questo ciclo. Le effigi

inanimate di personaggi noti giacciono smembrate e orribilmente ricomposte

sullo sfondo di cartoni per l’imballaggio. A questi ritratti è correlato il ciclo Last Supper, dove l’aspetto macabro cede il

passo a un effetto decantato, in un certo senso sublimato dalla rievocazione di un

capolavoro del passato: l’Ultima cena di Leonardo è ricostruita attraverso la

successione di tredici fotografie dedicate ai protagonisti del racconto evangelico,

riprodotti in cera limitatamente ai dettagli delle teste e delle mani.

natura morta

Land Scape segna un nuovo approdo della ricerca poetica di David LaChapelle,

che disegna orizzonti futuri dove l’umanità è scomparsa e le metropoli sono isole nel deserto, trasformate in

complessi industriali incessantemente attivi. Il backstage di questo progetto

fotografico, documentato in un video, svela che il processo tecnico con cui sono stati resi i paesaggi spettacolari

qui rappresentati non ha implicato nessuna manipolazione digitale o effetto

di postproduzione: il set è un modello realizzato da professionisti di Hollywood specializzati nelle scenografie. Un lavoro artigianale ad alta precisione, condotto

mediante l’assemblaggio di prodotti industriali e piccoli oggetti riciclati come

bicchieri di plastica, bigodini, cartoni per le uova, caricabatterie, cannucce,

lattine e contenitori di vario tipo. I plastici sono stati poi collocati nel panorama

reale delle colline californiane e ripresi durante diverse ore del giorno, quando

l’atmosfera vira nelle tinte dell’alba o della notte.

lanD scape

Negative Currency e The Crash sono due serie complementari realizzate nel 2008, anno nevralgico che segna l’esplosione di quella che è stata una delle peggiori crisi finanziarie della storia. Negative Currency richiama l’attenzione sugli effetti negativi,

quando non devastanti, del denaro e risulta profetico degli eventi disastrosi

che hanno precipitato nella recessione il sistema economico mondiale, in seguito allo scoppio della bolla immobiliare in

USA (crisi dei subprime) e al crack della Lehman Brothers. Il richiamo ad Andy Warhol è evidente in entrambe le serie (One Dollar Bills e Death and Disaster);

per LaChapelle, al contrario di Warhol, le banconote subiscono un vero e proprio oscuramento e sono presentate come un negativo fotografico che sottolinea l’inversione al ribasso di tutte le borse, innescata dalla moneta statunitense.

Gli Incidenti, invece, svuotati del tema originale – la censura della morte da parte di una società edonista e

indifferente – e caricati di significato metaforico, acquisiscono un nuovo valore

plastico-estetico.

valute al negativo/inciDenti

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David LaChapelle American Jesus, 2009 Chromogenic Print ©David LaChapelle

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If the American contemporary art can be summed up in a name, that name is David LaChapelle: a photographer dis-covered and introduced to the world of art by Andy War-hol; a director awarded at Sundance Festival; in 2006, David LaChapelle offers his eyes and pays attention at Italian his-torical painting and sculpture, Michelangelo's works above all, and gains the concept of The Deluge, a monumental series settled for a kind of exhibition conceived not only for media but especially for museums. A sort of return to the origin (his works have been exhibited at: The Musée D’Orsay of Paris, The Brooklyn Museum of New York, The Museum of Contem-porary Art of Taipei, The Tel Aviv Museum of Art, The Los An-geles County Museum of Art, The National Portrait Gallery of London, The Fotographfiska Museet of Stockholm and The National Portrait Gallery of Washington DC) made by the fu-sion of his post-Pop surrealism and the classical feature of Michelangelo's works, a kind of art so tough and massive to bring LaChapelle to a decisive turning point in his production. Till that moment, LaChapelle wanted to absorb in himself the spirit of the time: the spirit of the high-camp and exagger-ated 80's pop culture, trying to portray a decade which came between the past and the new millennium, always focusing on the observation and the representation of reality, sometimes going through surrealist-abstractist directions.

Guy Debord considered the spectacle as the essence of a society devoted to images, a form of representation where the experience went on and on further, disconnecting from

each element of life and merging in a unicum1. In LaChapelle's works, this unicum matches the theatrical set and the mov-ie frame, creating an absurd dream grabbed at astonishing sceneries; even if ,as the artist said: «although they were ex-aggerated fantasies, that was what happened in the world». Postmodern fiction2 strongly appears in his photography, giv-ing place to innovative combinations out of a linear temporal logic; narrative fragments intersect to result in visual short circuits and conflict of meanings: consequences of a society filled, saturated and bombarded with images.

According with the exhibition curator Gianni Mercurio, «LaChapelle, who looks at the news relevant to the way of living and social issues, draws on the history of images for understanding the trends of people's culture»: the will of his gaze - critical, aesthetical and often oneiric - is directed to the present and to the humans who live in it, to the fluctuat-ing and confusing reality, which brings no certainty but only fears and phantoms, those generated from the end of uto-pias, the crisis of faith and of the rational thought. This is the context where he puts and faces themes such as catastrophe and decay, illness, death and compassion: these themes cre-

1 G. Debord, Society of the Spectacle, Soul Bay press, East-bourne, East Sussex, UK, 2009.

2 «[...] postmodernist fiction is defined by its temporal disorder, its disregard of linear narrative, its mingling of fictional forms and its experiments with languages», B. Lewis, Kazuo Ishiguro, Manchester University Press, 2000.

DaviD lachapelle

aFter the DelugeVera Viselli

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ates a primordial force together with consumism and compul-sive neurosis, absorbed in fetishisms and narcissistic obses-sions. That's The Deluge: the sublime which sets up through the flesh-instrument, borrowing the idea proper of the sacred painting of the Renaissance, the sublime which uses massive visual communication codes to spread spiritual themes and messages and makes them clear to everyone. «Since I was a child Michelangelo has fascinated me», LaCha-pelle says, «looking at his works, one looks at the world. It's not the world of art, it's just the world, it is humankind». A kind of humanity that soon disappears as the artist himself: he pulls out of the show-business, turning his back on the con-sumed high society, choosing a different way of life on a sav-age island in the middle of Pacific. In his own words: he had already said everything he wanted to say.The body is removed. There was a malleable body which got used to the heightened cosmetic and consumistic practices, a body which was symbol of a shattered identity, not a subject anymore but just an object of analysis, nevertheless still an-chored in reality. Now we only find a horrific simulacrum of it in the wax fragments of the Still Life series.In After the Deluge: Museum, the image displays an empty hall of an overflowed museum: no one contemplates art ma-sterpieces anymore, the heritage suddenly loses its value and slowly sinks in a stretch of water which reflects its image and gives it back as an overturned double. Also the main cha-racters of Awakened, linked to The Deluge series, are persons who float in the water: the apnea as a gateway, a transition which requires them to leave the body and then wake up in another dimension. The Still Life series, with its emblema-tic title, presents inanimate effigies instead of the real star system characters. Wax reproductions of Ronald Reagan, Cameron Diaz, Michael Jackson, Lady Diana, Theodore Ro-osevelt, Bono Vox and other celebrities (living and not) are broken down in pieces and then put together on cardboards, after an act of vandalism destroyed the already macabre si-mulacrum of each wax statue. A disturbing and hyperreal re-presentation of bodies' decay and frailty that reaches icons and their celebration; it's way more unsettling if we think that several celebrities appearing in the series as wax pieces have been portrayed by LaChapelle in the past. Among the latest works, the series Land Scape and Gas Sta-tions stand out. Land Scape shows industrial plants towering as bright mirages in desert horizons, with soft and colourful skies. Shining and stunning complexes, signs of a future me-tropolis, made by a team of cinematographic pattern makers who worked together with the artist to realize an incredible project assembling small items and recycled materials. pla-

stic cups, curlers, egg boxes, battery chargers, straws, cans and containers of different kinds. Models have been photo-graphed by LaChapelle in the context of real landscapes such the Californian desert. The micro-world and the human-sca-le environment are two context compared with each other, which intersecting shape an augmented reality: when two levels of reality merge into one image, reality becomes ab-straction. About Gas Stations, the idea focuses on the estranged effect of landscapes views where gas stations pop up alone among an overgrown tropical vegetation. Temples of the so called new american religion (the car myth), gas stations keep on emitting energy by neon signs, but they look like plants sur-vived in a deserted planet, a set in a post-apocaliptic movie, where the man (mankind) doesn't have a leading role and no body appears. After The Deluge series till today, according to Mercurio, La-Chapelle came accross different steps in his works, following the idea that «the truth is the one shown by the reason and not by the senses. If one reads the image through senses, has a dreamlike vision, which is moreover built up by the typical methods of Surrealism (decontextualisation and recontextua-lisation of details); if it is read by filtering it through the reason, one gets a picture that charges of reporting reality.»

INFORMATIONSExhibition title: David LaChapelle, dopo il Diluvio Location: Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 - Roma Curator: Gianni Mercurio Calendar: April 30th – September 13th 2015 Hours: sunday, tuesday, wednesday, thursday: 10.00 am - 8.00 pm; friday - saturday: 10.00 am - 10.30 pm; monday: closed(July 13th - August 30th 4.00 pm - 00.00)

Opposite:David LaChapelle, Riverside, 2013 Chromogenic Print ©David LaChapelle

David LaChapelle, Anonimous Politicians, 2012 Chromogenic Print ©David LaChapelle

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In this section, there are works that define a turning point in LaChapelle’s

artistic production: The Deluge (2006) describes the ruin of a society based

on (consume) consumism but that still owns a chance of redemption; Museum

(2007) and Statue (2007) where art is considered the higher expression of human creativity and is the last word

about a lost perfection; Cathedral (2007) where we are hidden by the inexpressive

face of a young girl among a group of praying and shocked believers. In the

same section, the Awakeneds wake up in water.

the Deluge

Aristocracy is the latest series of LaChapelle’s works. It relates to a vip

class, a joke of the high society hanging between boredom and self-destruction;

it represents the exhibitionist parabola of a snobbery that flows into an acrobatic performance and into a loss of meaning.

Here, as in many LaChapelle’s works, chaos gets pink coloured and the conflict

between the drama and its hyperreal gloss stuckaaz in a seductive and caustic

metaphor. Subjects’ movements and barrel rolls remind Italian Futurism

aeropainting; at the same time, a dense and whirling atmosphere remembers

Turner’s sublime tempests.

aristocracy

The vanitas theme is celebrated in this section; vanitas is a leit motiv behind

several LaChapelle’s artworks and here it’s highlighted referring to the Baroque iconography especially in the floral still life. The section title is a quotation from

Hamatreya, a poem written by Ralph Waldo Emerson (American writer and

philosopher lived in XIX century); the line gives an interpretation that redefines the concept of caducity: cut flowers,

transience symbols, become an excessive and loud expression such as prank of

nature.

earth laughs in FloWers

Transcendental themes are explicit in the divine presence among everyday spaces; they are represented in the photographic

series Jesus is My Homeboy, in works like Pietas and The Beatification series. American Jesus is emblematic of this

section: LaChapelle proposes the image of the Renaissance Pietà - already recre-

ated in Pieta with Courtney Love - with Virgin Marie holding Jesus, but replaces the mother figure with a young hippie

Christ with an expired Michael Jackson in his arms.

my personalJesus In a future place and time, gas stations

will be discovered as architectonical ruins of a lost world, like Aztec temples

or the Easter Island. Future cultures with different worries will wander about those ruins meaning. Shot in the pluvial forests of Maui, the stations exemplify a kind of isolation that increases and

is deeply rooted in our culture. Analog models in scale show human artefact’s

imperfections, in the same way the artificial system to produce energy is defective. These photographs are not meant to teach anything, they don’t disapprove and don’t excuse. Gas

stations just exist, they are what made our world possible. The new approach

will make our destiny.

gas station

Still life is the title of an unconventional photographic series LaChapelle realized

to present an unsettling and macabre celebrities’ portraits gallery. The National

Wax Museum of Dublin came under a devastating act of vandalism; after it, the photographer had the chance to shoot this series: celebrities’ effigies

lie dismembered on a cardboard background with a horrific effect.

Last Supper is a work linked to these kind of portraits; here the macabre

feature gives way to a decanted effect, sublimated through the reenactment of a masterpiece from the past: Leonardo’s Last Supper is recreated by a sequence

of thirteen photographs. Each photo shows the head and the hands of each

evangelical event character reproduced in wax.

still liFe

Land Scape defines a new step in LaChapelle’s artistic research, drawing

future horizons where the humanity disappears and metropolis are islands

in the desert, cities converted into industrial plants in a non-stop activity. A video documents the backstage of

this photographic project showing that there is no digital manipulation or post-

production realizing these amazing landscapes: each set is a model created by a team of professionals specialized

in scenic design, from Hollywood industry. A handcrafted work made with high precision assembling small

recycled items and industrial products: plastic cups, curlers, egg boxes, battery

chargers, straws, cans and various containers. The models have been placed

in the Californian hills context and then have been shot at different time of

the day, when the sky changes colour following the dawn or the night.

lanD scape

Negative Currency and The Crash are two complementary series realized in 2008, the year of the worst economic crisis of the whole history. Negative Currency points out the destroying

effects of money; it had foreseen the disastrous events who brought to

recession the world economic system after the subprime crisis and the Lehman Brothers bankruptcy in USA. Both series (One Dollar Bills and Death and Disaster)

recall Andy Warhol; differing from Warhol, LaChapelle’s banknotes undergo

an effective blackout: they appear as a photograph negative that draws

attention to the stock market’s downward trend, started from the USA currency. On the other hand, The Crashes are deprived of their original meaning - the censorship about death in a careless and hedonistic society - and now they get metaphorical significance and acquire a new plastic-

aesthetic value.

negative currency/the crash

exhiBition’s sections

DAVID LACHAPELLEDOPO IL DILUVIO / AFTER THE DELUGE

Curated by Gianni Mercurio,in collaboration with Ida Parlavecchio

Exhibition catalogue, Rome,Palazzo delle Esposizioni, 30 april-13 september 2015

EDITOR Giunti Arte mostre musei PAGES 240 PRICE ¤42

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WILD STYLE TATTOO Via Saffi 48, Latina

0773.1714209

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«La sua presenza aveva la semplicità intelligibile di una pietra: in piena città, mi sembrava di essere di notte in montagna, tra solitudini senza vita».

(Georges Bataile in Pierre Angélique, Madame

Edwarda, Éditions du Solitaire, 1937)

Giulio Carlo Argan sosteneva che nes-suno, prima di Marc Rothko, si era inter-rogato «nella psicologia del profondo1» sul concetto di parete, o meglio sulla pluralità di concetti che questa reca in sé. Il critico li riassumeva con la triade limite, protezione, diaframma, frap-posti tra due dimensioni: «un di qua, dove siamo, e un di là che è il mon-do2». Tale insenatura è luogo di una ricerca incessante: spogliata dalle dure sembianze di confinatrice, essa diviene membrana, ambiente esperibile.È nel titolo della serie fotografica di Giu-lia Marchi, dall’indubbia eloquenza, che risiede un chiaro manifesto d’intenti, più profondo di un vago richiamo alla lontana. Il gesto di Rothko, in pittura, ha edificato strutture, plasmato spazi attraverso la compenetrazione super-ficie – colore; l’obiettivo fotografico di Marchi, nella serie Multiforms, genera un campo di forze empirico sull’esempio di quell’impressionismo astratto3 proprio dell’artista statunitense. I materiali sta-gliati nelle fotografie dell’artista - lana, sabbia, pietre, detriti - si costituiscono come continuum tra il di qua e il di là, nuovi varchi per lo sguardo. L’irregolari-tà delle superfici, l’asprezza che le con-nota, sono dei percorsi visivi mediante i quali la distanza che intercorre tra im-magine e osservatore diventa un ponte, una forza in tensione.Affine a una modalità tipicamente pro-cessuale sta la concezione di materia, punto di coesistenza tra proprietà for-mali, puramente esteriori nella pienezza visiva, e ontologiche, pregne di sostan-za. Le immagini che ne derivano risulta-no autosufficienti, il legame che instau-rano con chi guarda non è relegato al piano visivo ma a quello corporale nel-la sua interezza, dove per corporale si vuole intendere tutto ciò che riguarda il corpo esternamente ma, prima di tutto, internamente.Questo tipo di processo scaturito dalle immagini di Marchi è in uno stato di con-tinuo divenire; esse si mostrano come inesauribile fonte di significati e, dun-

1 Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna,1770-1970. L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze, 2002, p.296. (Ed. Or. G. C. Argan, L’Arte moderna, Sansoni, Firenze, 1970).

2 ibidem.

3 ivi, p. 262

que, di sguardi possibili. In tal senso la congerie materica di Marchi si dà come manifestazione metafisica di paesaggi ancestrali, ambienti lunari, formazioni geologiche che riecheggiano il sublime matematico di matrice kantiana. L’opera non è oggetto estraneo di visione ma è il codice stesso secondo cui la visione è regolata e avviene. Sorge spontanea una riflessione per la quale è necessario chimare in causa Mi-chelangelo Antonioni.

Antonioni e Rothko, due maestri dell’a-strazione tra i quali è noto intercorresse una profonda stima, sono stati spesso accostati dalla critica a proposito della comune attitudine al dissolvimento in-forme di figure – nei film di Antonioni è quasi una costante4 –, questa tendenza

4 Alberto Giorgio Cassani, La visione del vuoto - in memoria di Michelangelo An-tonioni, http://www.accademiavenezia.it/upload/docs/docenti/file/28/Antonio-ni_La_visione_del_vuoto.pdf.

giulia marchi

multiFormsdi Gaia Palombo

Giulia Marchi, Multiforms N 17

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Giulia Marchi, Multiforms N 4

distingueva la cifra stilistica di Rothko e sembra tornare indirettamente nella serie fotografica in esame. Più precisa-mente è interessante porre l’attenzione sul termine temps mort che, ancora a proposito di Antonioni, Jeff Weiss chia-rifica come segue: «consiste [...] nello svuotamento dello spazio rappresenta-to, contenuto o tagliato dall’inquadra-tura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rive-la allo sguardo dello spettatore5». Una pienezza astratta, direi pregnante, è ri-scontrabile nel lavoro di Giulia Marchi, un lavoro che fonda la propria ragion d’essere su una riflessione ben precisa: la consistenza viva delle immagini e del-lo sguardo, forse mai del tutto rivelatore e assoluto ma pur sempre dinamico nel-la sua natura indagatoria.

«Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà».

(M. Antonioni, Prefazione, cit. p. 14).

La serie Multiforms è composta da 19 scatti fotografici ed è accompagnata da un libro d’artista, in edizione limita-ta, edito da Danilo Montanari Editore. Si trova attualmente in collezione pres-so il bookshop di Matèria, una galleria dedicata alla fotografia contemporanea situata nel cuore del quartiere storico di San lorenzo; una realtà dinamica e aper-ta, attenta agli sviluppi di artisti affer-mati ed emergenti.L’ampio respiro internazionale identifica lo spirito della galleria e si coniuga con iniziative che confermano, al contempo, uno spiccato interesse nei confronti del-le realtà territoriali.Dall’11 giugno, fino al 31 luglio, gli spazi di Matèria ospiteranno una mostra per-sonale di Giulia Marchi dal titolo Roko-voko. I lavori inediti in mostra, spaziando tra fotografia e installazione, denotano un approccio analogo a quello di Multi-forms; in questa affinità è rintracciabile il mantenimento di una linea coerente, nonché una solida consapevolezza di ricerca. A sancire l’affinità di cui sopra

5 J. Weiss, Temps mort: Rothko e Anto-nioni, in Rothko, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007-6 gennaio 2008), a cura di O. Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44-55: 52.

sono il rapporto parola-immagine e una ricerca spaziale ben esplicata nel comu-nicato stampa della mostra: «Matrici di polaroid alterate al servizio di una chi-mica del paesaggio; confini irrisolti trac-ciati da fili bianchi, da funamboliche funi sulle quali camminare, geometrie alie-ne in dialogo con scenari terrenamente eseguiti. La memoria non è lineare e lo-calizzare è fondamentale per ricordare; luoghi destinati al vuoto, lasciato, per-ché fosse occupato dalla memoria dive-

nuta selettiva e adagiata in cassetti che ne divengono dimora.La rotta appare incompleta, costretti ad avanzare al buio scandagliamo la spazio in apnea, direzionati dalla bacchetta del rabdomante che dà il ritmo al viaggio». MATÈRIA Via Tiburtina 149 00185 Roma www.materiagallery.com www.facebook.com/materiarome [email protected]

eQuivalents

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il muro

«Her presence had the unintelligible simplicity of a stone: in the middle of that city, I had the feeling of being in the mountains at night, lost in the midst of lifeless solitude».

(Georges Bataile in Pierre Angélique, Madame

Edwarda, Éditions du Solitaire, 1937)

Giulio Carlo Argan wrote about Marc Rothko, saying that none before him fo-cused on the depth psychology1 of the concept of screen, on the plurality of concepts that it owns in itself. The art critic resumed these concept in a triad: limit, preservation, diaphragm between two dimensions, «here where we are, there where the world is2». This gap is the place of a continual research, not a border but a membrane, an experience environment. In the symbolic title of Giulia Marchi’s photography series we find a her aim, deeper than a simple recalling. Rothko gesture built structures, shaped spaces, thanks to the merging of surface and colour in painting; in the Multiform se-ries, Marchi’s photographic lens creates an empirical field strength after the Rothko abstract impressionism3. Material displayed in Marchi’s photos - wool, sand, stones, rubbles - are a con-tinuum from here and there, new gate-ways for the gaze. Surfaces’ irregularity and their roughness feature are visual paths through which the distance be-comes a bridge between the image and the observer, a tension strength. Her idea about the matter is related to a processual method, the zone where formal characteristics, purely visual and exterior, and ontological features, full of contents, meet. Images obtained are self-contained; who looks at them gets bodily involved, not only externally but especially on the inner side of their body. It’s an ongoing process; these im-ages display themselves as an unlimited source of meanings and possible views.The materic heap is the metaphysical expression of ancestral landscapes, lu-nar environments, geological forma-tions which echoes Kant’s mathematical sublime. The work is not the object of vision but it’s the code of the vision itself. A thought spontaneously comes along with Michelangelo Antonioni’s figure.

1 Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna, 1770-1970. L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze, 2002, p.296. (first ed. G. C. Argan, L’Arte moderna, Sansoni, Firenze, 1970).

2 ibidem.

3 ivi, p. 262.

Antonioni and Rothko, two masters about abstraction linked to each other by respect and gratitude, have often been considered together by the critic because of their use of the fade-out technic. In Antonioni’s movies it is a permanent feature4 and it was a char-acteristic style in Rothko works: it also appears in the photographic series Mul-tiforms. It’s worth to pay attention to the con-cept of temps mort which Jeff Weiss defines about Antonioni: «it’s [...] in the emptying of the represented space,

4 Alberto Giorgio Cassani, La visione del vuoto - in memoria di Michelangelo An-tonioni, http://www.accademiavenezia.it/upload/docs/docenti/file/28/Antonio-ni_La_visione_del_vuoto.pdf.

a space included or cut by the view, a place occupied till the moment it reach-es a formal presence - an abstracted full-ness, pictorial in some way, after a nar-rative absence which is revealed to the spectator gaze»5. A weighty abstracted fullness can be found in Giulia Marchi’s work with a main reflection about the live matter of images and gaze, a kind of gaze never completely revealing and absolute but always dynamic in its search.

5 J. Weiss, Temps mort: Rothko e Anto-nioni, in Rothko, exhibition catalogue (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007-6 gennaio 2008), a cura di O. Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44-55, 52. Editor translation.

giulia marchi

multiFormsGaia Palombo

Giulia Marchi, Multiforms N 12

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eQuivalents

Giulia Marchi, Multiforms N 9

«We know that under the image revealed there is another which is truer to reality and under this image still another and yet again still another under this last one, right down to the true image of that reality, absolute, mysterious, which no one will ever see or perhaps right down to the decomposition of any image, of any reality».

(M. Antonioni, Preface, cit. p. 14)

Multiforms series is composed by 19 photos and comes with an artist’s book in a limited edition, from Danilo Mon-tanari Editore. The book is in collection

at the bookshop of Matèria, a gallery dedicated to contemporary photogra-phy, located in the San Lorenzo zone in Rome; an open and active context which follows famous and emerging artists. The gallery aims an international view together with a territorial focus. Rokovoko is the personal exhibition of Giulia Marchi’s work that will take place at Matèria from 11th June to 31st July. In-edited works, among photography and installations, shows a kind of approach similar to the Multiforms one, signs of a self-conscious research based on the connection between word and image and defined by the space dimension, as said in the exhibition press kit: «Polaroid matrixes altered to serve a landscape

chemistry; unsolved border traced by white strings, tightropes to walk on, alien geometries which dialogs with earthly sets. Memory is not linear, to localize is crucial to remember; places destined to the vacuum, an emptiness abandoned to be replaced by a selective memory which lays down in home-like closets. The route is uncompleted, forced to go on in darkness, we scan the space in ap-nea, directed by the rod dowser which rhythms the travel».

MATÈRIA Via Tiburtina 149 00185 Roma www.materiagallery.com www.facebook.com/materiarome [email protected]

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il muro

Nel panorama formativo italiano, in particolare nel setto-re dell’istruzione del Comune di Roma, esite un’interes-sante tipologia di scuole serali, che sono state ideate e strutturate per studenti lavoratori in tempi non sospetti, molto lontani dalla corsa alla specializzazione che è an-data crescendo dopo il boom economico degli anni 50 e persino antecedenti le riforme culturali avviatesi con i primi del Novecento. Le Scuole d’Arte e dei Mestieri del Comune di Roma, originariamente chiamate Scuole per Artieri, sono state infatti fondate nella città capitolina nel 1871, con l’intenzione di offrire corsi pratici e storico-te-orici che potessero ampliare la preparazione culturale di varie tipologie di artigiani (falegnami, fabbri, scalpellini, intagliatori, ceramisti, disegnatori, mastri vetrai, etc). Per la prima volta le Scuole per Artieri assurgevano le arti applicate alla cultura storico-artistica e mettevano le basi per una formazione interdisciplinare: i programmi preve-devano la combinazione di un approccio storico-uma-nistico accanto all’insegnamento scientifico di materie come l’aritmetica, la geometria, la fisica, la chimica, oltre ai laboratori pratici come quelli di disegno, arti meccani-che, arti del legno, arte muraria, impiantistica elettrica, per citarne alcuni.Le prime tre Scuole per Artieri fondate a Roma furono la Scuola Centrale (Rione Trevi), la Scuola Nicola Zabaglia (Rione Regola) e la Scuola Ettore Rolli (originariamente nel Rione Castro Pretorio), cui seguì, nel 1884, l’istituzio-ne dei corsi della Scuola Preparatoria del MAI - Museo Artistico Industriale di Roma (fondato nel 1874). L’impo-stazione dei programmi e gli intenti formativi di queste scuole andavano ad anticipare di quasi cinquanta anni le innovazioni portate su scala europea dall’istituto di arte e mestieri Bauhaus, fondato a Weimer da Walter Gro-pius nel 1919. Dall’atto costitutivo del 1871 delle Scuole per Artieri di Roma, si legge che lo scopo istituzionale delle scuole era, sin dal principio, quello di «provvedere all’istruzione tecnico-professionale, alla cultura artistica, nonché all’elevamento dell’educazione morale» degli al-lievi: proprio come nel Bauhaus, l’intento era superare il distacco tra arte e artigianato e quello tra cultura uma-nistica e dimensione industriale; si intendeva conciliare l’aspetto tecnologico con l’acquisizione di un linguaggio formale simbolico, veicolo di contenuti, di fronte a una maggiore consapevolezza degli aspetti etici e sociali del-la figura umana. Un’eccellenza, dunque, nel panoramo italiano, su cui non si pone la dovuta attenzione nonostante quattro di que-ste scuole siano ancora attive nella città di Roma, cariche di storia e con un’offerta formativa rinnovata a seguire le esigenze contemporanee. Una di queste è la Scuola Ettore Rolli: attualmente sita in via Macedonia 120 di fronte allo splendido Parco della Caffarella, prende il nome dal Professor Rolli che parte-cipò alla fondazione e fece una donazione annua di 500 lire per il sostegno della scuola. Come le altre scuole di Arte e dei Mestieri di Roma, la Ettore Rolli è comunale ma mantiene un’indipendenza rispetto ai programmi mi-nisteriali; ai suoi corsi si accede con il versamento di una quota e l’unico requisito di accesso è l’aver superato l’età della scuola dell’obbligo. Nei suoi archivi racchiude ancora le tavole degli studenti più meritevoli, raccolte e portate alle esposizioni inter-nazionali a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento: documenti storici che ci guidano fino al presente, con i corsi attuali, adeguati alle nuove esigenze dei cittadini.

scuola D’arte e Dei mestieri ettore rolli. un percorso nel tempo e nella culturadi Jamila Campagna

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la recherche

Si tratta di una tipologia di scuola che è stata postmo-derna ante litteram, già in origine proiettata verso una tipologia di formazione oggi definita longlife learning, in cui l’adulto è un apprendente in continua acquisizione di nuove competenze. Nel suo peculiare approccio, la Scuola Ettore Rolli insegna non solo a capire e a sapere ma, so-prattutto, a saper fare: oggi la scuola propone corsi di in-formatica, fotografia analogica, fotografia digitale, grafica pubblicitaria, grafica editoriale, photoshop, web design, storia dell’arte, storia dell’illustrazione e del manifesto, storia del design e laboratori di stampa fotografica, pittu-ra, trompe l’oeil e vetrate artistiche.

All’interno della riflessione sul senso della Bildung, la scuola mira allo sviluppo a 360 gradi dell’individuo, af-finché esso possa definire il suo ruolo nella società1. La mission della Scuola, partendo storicamente da quella ne-cessità di un’educazione estetica indicata da Goethe e poi definita da Schiller - secondo cui «[l]e attività dello spirito qualificano la persona umana in modo permanente»2 - ar-riva a costruire una consapevolezza

1 «Ogni formazione (Bildung) è formazione politica [...] un’introduzione continua e graduale nella polis.» e «[...] Ciò che per un popolo è la cultura - il vivere secondo principi riflettuti e voluti e la creazione di regolamenti consoni - è per il singolo la formazione (Bildung). Essa gli permette di vivere nella sua civitas, in cui gli assegna il suo posto.», H. von Henting, Bildung, Henser, Munchen-Wien 1996 p. 12 e p. 205, in S. Baur, La pedagogia e le sfide della pluralità, Edizioni Erickson, Gardolo (TN) 2008, p. 84

2 M. Gennari, Storia della Bildung, editrice La Scuola, Brescia 1997, p. 77.

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il muro

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la recherche

In the Italian educational field, especially in the city of Rome, there is a kind of evening schools which have been set up for student-workers back in times when no one would have imagined, long time before the secto-rial education growth after the economic boom of the 50’s, previously than the cultural reforms started at the beginning of the 20th century. The Scuole d’Arte e dei Mestieri1 of Rome, originally called Scuole per Artieri, have been established in 1871 to offer practical, histori-cal and theoretical classes to enrich artisans knowledge and competences. For the first time, this kind of school dignified handcraft as historical-artistic culture and put the basis for an multidisciplinary education: a historical-humanistic approach was set together with scientific teaching of subjects like arithmetic, geometry, physics, chemistry; also there were laboratories about drawing, mechanical arts, wood arts, building arts, electric plant design, to mention some. The first three Schools for Artieri established in Rome were the Scuola Centrale (in Rione Trevi), the Scuola Nicola Zabaglia (in Rione Regola) and the Scuola Ettore Rolli (originally in Rione Castro Pretorio); after them, the Preparatory School of MAI - Museo Artistico Industriale of Rome has been established in 1884. Schools program setting outs and educational aims came 50 years ahead of the innovations brought in Europe by Walter Gropi-ous’ Bauhaus (established in 1919). From the 1871 Scuole per Artieri’s deed, the institutional deed was, since the beginning, «to provide for a professional and technical education, for an artistic culture, to raise the moral con-sciousness» of the learners. Exactly as in the Bauhaus, the intent was to bridge over the distance between art and handcraft and the gap among humanistic culture and industrial dimension; the school was meant to match technic matters with the learning of a formal and sym-bolic language, a content media, along with the knowl-edge of the individual ethic and social aspects.

An excellence in the Italian education field not well known although four of the original schools are still opened in the city of Rome, they’re full of history and updated to meet contemporary demands. One of them is the Scuola Ettore Rolli: now located in via Macedonia 120, near to Caffarella park, is named after Professor Ettore Rolli who took part in the school (foun-dation) constitution also donating 500 lire every year for supporting. As the other schools of art and handcraft of Rome, Ettore Rolli’s is council-runned but indipendent from ministerial directive; being an adult learner is the only requirement to take part of its classes.

Late 1800’s worthy students’ drawings are collected in the school archive: plates exhibited at various interna-tional exhibitions accross the end of 1800’s and the be-ginning of 1900’s, historical documents which bring us to the present, with new classes fitting the contemporary citizen request.

A postmodern school ante litteram, established to gain a kind of education which is now defined longlife learning .A kind of learning not only to know a matter but also to know how to make it: now school’s classes embrace com-puter, analog photography, digital photography, graphic, photoshop, web design, history of art, history of design, history of illustration; there are also several laboratories of photographic print, painting, trompe l’oeil, artistic glass wall.

1 Schools of Art and Crafts.

Reflecting on the Building meaning, the school aims to reach a constant development of the learner, so he/she can find his/her role in the society2. The school mission starts from the necessity of an aesthetic education, the one pointed out by Goethe and then defined by Schiller - on the basis of which «the activities of the spirit quali-fy human being permanently3» -, and intends to create a knowledge about the visual culture necessary to get a correct understanding of the contemporary western so-ciety, a context where the visual channel is the main way to communicate each kind of content, from commercial to political.

2 See: H. von Henting, Bildung, Henser, Munchen-Wien 1996

3 M. Gennari, Storia della Bildung, editrice La Scuola, Brescia 1997, p. 77.

school oF art anD craFts ettore rolli. a path through time anD cultureJamila Campagna

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il muro

1 La voce, pura e distinta, l’arrangia-mento minimalista, il ritmo quasi bio-logico delle percussioni; tutto tende all’essenzialità, a metà tra un’elevazio-ne trascendente e il recupero di un’e-nergia viscerale, viscosa. Io sono è un album tra cielo e terra?

Se parliamo di elevazione trascenden-te ed energia viscerale allora mi per-metto di dire che Io sono è nel centro della mia anima, esattamente tra cielo e terra, dove l’inconscio è vivo e vitale. 

2 È anche un album antologico, un per-corso attraverso la tua carriera e la tua vita; hai scelto di reincidere anche dei brani degli esordi, come Quel fondo di

luce buona e Lettera d’amore d’inver-no. Possiamo considerarle un regalo che hai voluto fare al pubblico che ti segue dagli esordi e, al contempo, ai tuoi follower più giovani che così hanno occasione di apprezzare i tuoi classici?

Ho voluto un disco antologico essenzia-le ma che non trascurasse episodi per me significativi dal punto di vista arti-stico e sentimentale. Ho sempre avuto un debole per quei due brani - Lettera d’amore d’inverno e Quel fondo di luce buona - a partire dal titolo. Sono densi, profondi, eleganti e, secondo me, senza tempo. 3 L’essere umano è un animale politico e spesso nei tuoi testi hai affrontato

temi ben posizionati su questo aspet-to; nella selezione di Io sono, tuttavia, troviamo soprattutto canzoni d’amore. Sarà che poi alla fine è sempre «l’amor che move il sole e le altre stelle«?

L’amore, in ogni sua forma, anche se io prediligo quella sociale, cosmica - la mia Bambini ne è un esempio - è il tema più potente ed efficace di questo mondo. E la musica è lo strumento per diffon-derlo.

4 Dicevamo che le canzoni sono sta-te reincise; ora hanno una dimensione più intimistica e avvolgente rispetto alle originali, un tono più delicato, sus-surrato, vicinissimo a chi è in ascolto. Un dialogo: nell’incontro con l’altro si definisce se stessi, nella relazione sta l›identità. Come è avvenuto questo processo di trasformazione delle can-zoni?

Con l’aiuto di Federico Dragogna, che ha prodotto il disco, sono riuscita a dare alle canzoni del passato tutta la legge-rezza e la leggibilità di cui erano - sono -  capaci. È stato un lavoro maturato du-rante la scrittura della mia autobiogra-fia. In pratica ho fatto sul disco lo stesso lavoro che ho fatto su di me: mostrarsi per quello che si è, alleggerendo, libe-rando la propria natura da inutili impal-cature. 

5 Possiamo dire che questo album è il tuo vestito. In Quante vite viviamo, can-ti «Dovrei provare a dire cosa non sono più, mettere da parte tutti i malintesi, tutte le ferite, le notti appese»; questa frase e l’intero testo di Io sono sugge-riscono che tu stia misurando la tua persona tra presente e passato, come fossi un fiume, che è sempre lo stesso, seppur mai lo stesso.

Nelle tue domande ci sono già le rispo-ste, che sono bellissime come la metafo-ra del fiume. Grazie.

6 Sono io a ringraziarti, la tua figura è di grande ispirazione. A questo punto, per salutarci, ti chie-derei di cantare un pezzo per noi, ma siamo su carta! Ti chiedo, allora, una strofa della canzone che canteresti se ora fossimo in video o in radio.

Me l’hai appena fatta venire in mente: Noi siamo ancora qui, in quest’attesa che sa di infinito siamo ancora qui, in questa stanza che è il nostro vestito, siamo ancora qui, tra la vita che aspetta impaziente siamo ancora qui... Felici, sia pure un istante!

paola turcicanto QuinDi io sonodi Jamila Campagna

Il nuovo album di Paola Turci, Io sono (Warner Music), pubblicato lo scorso 21 aprile, è subito entrato nella top 10 dei dischi più venduti in Italia, mentre il primo estratto, dal titolo omonimo, proprio in questi giorni è nella Top 40 dei singoli più ascoltati su Spotify. Un esordio brillante per un disco che raccoglie canzoni storiche, reincise per l’occasione, e inediti, tra onde sonore elettroniche e strumentazione acustica. Il tour promozionale ha visto la sua prima tappa il 5 giugno scorso e attraverserà l’Italia per tutto il periodo estivo.

ph. Ilaria Magliocchetti Lombi

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intravieW mZK

Tour dates

13 giugno ARPINO (Frosinone)

19 giugno RIVERGARO (Piacenza)

20 giugno VASCON (Treviso)

27 giugno BOLOGNA

2 luglio RIMINI

9 luglio ROMA

12 luglio COCUZZO (Cosenza)

15 luglio PADOVA

27 luglio MONTALBANO DI FASANO (Brindisi)

30 luglio RECANATI (Macerata)

7 agosto MIGLIONCINO (Matera)

13 agosto BELLUNO

14 agosto SPINAZZOLA (Bari)

15 agosto TORTORETO LIDO (Teramo)

19 agosto BRESCIA

22 agosto ARZANA (Nuoro)

1 The voice, clear and neat, the minimal arrangement, the biological rhythm of percussions; everything tends to be es-sential, between a transcendent eleva-tion and a visceral, viscous energy. Is Io sono a record between sky and earth?

If we talk about transcendent elevation and visceral energy, then I say that Io sono is in the middle of my soul, exactly between sky and earth, where the sub-conscious is alive and active.

2 It’s also an anthological album, a path through your career and your life; you decided to record again some songs from your beginning, as Quel fon-do di luce buona and Lettera d’amore d’inverno. Can we consider them as a gift you made for the audience that’s always followed you and, at the same time, for the younger followers so they can get to know your classics?

I wanted an anthological and essential album that also could look at some peri-ods of my life which own a deep mean-ing both in the artistic and sentimental side. I’ve always loved those two songs - Lettera d’amore d’inverno and Quel fon-do di luce buona - beginning from their titles. They are dense, deep, elegant and, in my opinion, timeless.

3 The individual is a politic animal and you often faced this kind of topics in your lyrics; in Io sono tracklist, however,

we find a lot of love songs. Is it becau-se, at last, it’s always «the Love which moves the sun and the other stars»?

Love, in all shapes, - even if I prefer the social and cosmic one, my song Bambini is an example of it - is the most powerful and incisive theme of the world. Music is the instrument to spread it.

4 Your famous hits newly recorded have now got an intimate and embracing di-mension. Their tone is gentle and whi-spered, so close to whom is listening to. A dialog: we define ourselves meeting the other, identity is in the relationship. How has this transformation process developed?

With the help of Federico Dragogna, the producer, I’ve been able to render my past songs through the lightness and legibility that they hold – and still held. The work developed during the writing of my autobiography. Actually I worked on the album in the same way I worked on myself: knowing ourselves as we are, lighten and liberating our own nature from useless structures.

5 We can say this album is your dress. In Quante vite viviamo, you sing «Do-vrei provare a dire cosa non sono più, mettere da parte tutti i malintesi, tutte le ferite, le notti appese»12; these lines

1 The English translation of Io sono is I am.

and the whole lyrics of Io sono evoke that you are measuring yourself betwe-en past and present, as you’d be a river, which is always the same but never the same.

In your questions, there are the answers, which are so beautiful as the river meta-phora. Thank you.

6 It’s me to thank you, your figure is very inspirational. Now, to say goodbye, I’d ask you to sing something for us, but we are on paper! So I ask you a line from a song you would sing now if we were on video or on air.

You just brought it to my mind: Noi siamo ancora qui, in quest’atte-sa che sa di infinito, siamo ancora qui, in questa stanza che è il nostro vestito, siamo ancora qui, tra la vita che aspetta impaziente siamo ancora qui... Felici, sia pure un istante!23

2 «I should try to say what I am no more, lay away all the misunderstandings, all the wounds, the hanging nights»

3 We are still here, in this wait that tastes of infinity, we are still here, in this room that is our dress, we are still here, among life which awaits impatient we are still here... Happy, even just for an instant!

paola turci i sing thereFore i AMJamila Campagna

The new album of the italian singer-songwriter Paola Turci Io sono1 (Warner Music) is out from the 21st of April and has soon reached the Top 10 of the best selling albums in Italy. The first single, same titled, is currently in the Top 40 of the most listened songs on Spotify. A bright debut for an album which embraces hits from the past, now re-recorded, and unreleased songs, among electronic sound vibes and acustic instruments. The first step of the italian tour was last 5th of June and it will cross Italy for the whole summer.

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www.paolaturci.itwww.facebook.com/PaolaTurci

www.warnermusic.itwww.gibilterra.org

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il muro

Solitudine. Strano che una parola così possa iniziare con tre lettere ad indicare una nota musicale. Io ho iniziato a sentire quanto fosse stonata, quella nota, ultimamente. Prima la solitudine era inquietudine, poi ho avuto tutto chiaro quando mi sono ritrovato una tavola con un minestrone precon-fezionato davanti: ero io e quel minestrone, nessuno accanto a me. Era il giorno di Pasqua. Pur cercando di evitare che la cosa si ripetesse, anche a pasquetta ho avuto la stessa sorte.Quella tavola vuota mi ha fatto capire quanto io non appartenga a nessuno – una famiglia un po’ disgregata alle spalle e l’in-quietudine che mi ha condotto a far sì che la mia vita fosse animata continuamente da qualcosa di nuovo al quale non legarsi ma da poter assaporare. Così i tramonti le colline le ragazze le energie le vibrazioni il sesso i libri i film i cibi sono diventati la mia vita. Viaggio. Bello il viaggio, ti anima e ti fa capire quanto la vita sia bella, quanto la vita possa regalare e quanto valga la pena di essere vissuta. Arriva un momento in cui entri in crisi esistenziale.Quel momento è stato il giorno in cui Cristo è uscito dalla morte. Io, povero Cristo, ci sono entrato dentro alla morte. Il vuoto.Non voglio più tornare a casa e trovare il vuoto. Voglio svegliarmi ogni giorno per qualcosa o qualcuno. Non ho un passato dove mettere radici, ma vorrei quantomeno un futuro dove radicarmi. Come? Non lo so.Mi sono disperato a Pasqua e pasquetta. E, poi, preso da un impulso, ho fatto l’unica cosa di cui sono capace di fare: ho preso la mia telecamera, le chiavi della macchina e mi sono messo in viaggio, sorteggiando la provincia verso la quale dirigermi (in quel momento ero a Palermo, ed è uscita “Enna”), senza sapere dove dormire e dove mangiare, con l’idea di viaggiare a caso, senza meta, senza soldi. Ed affidandomi alla gente, perlomeno con l’idea di sentirmi meno solo. Chiedendo ospitalità, raccontando il viaggio con i video su facebook e ponendo la domanda che mi assilla: cos’è per te la solitudine?Dire ai quattro venti che mi sento solo, per giunta in un luogo pubblico come facebook, ha intercettato forse venti più grandi ed interiori di altri singoli individui che mi hanno scritto, e mi hanno dato disponibilità ad ospitarmi. La solitudine diventa meno solitudine quando la urli. Mettermi in viaggio mi ha fatto bene: la sera mi sono ritrovato in un paesino sperduto (Valguarnera) ospite di una combriccola di ragazzi, vino e spaghetti fra noi. L’indomani sono andato a tagliarmi i capelli da un barbiere di paese che mi ha raccontato del suo amore per sua moglie, poi una ragazza mi ha mostrato con i suoi occhi i posti più belli per lei di Vittoria, incluso il mare, poi un aereo per motivi lavorativi mi ha condotto a Roma ma non sentivo concluso il mio viaggio e ho continuato a dormire nelle case della gente, raccogliendo le vite dentro la telecamera e dando vita alla mia vita. Una ragazza che lotta per esistere ed essere indipendente dai propri genitori (a Viterbo), una donna che sarebbe capace di ammazzare se le toccassero sua figlia (a Roma), padre e figlio che vanno a pescare di notte a Fiumicino, una suora che fa accoglienza fra i monti sopra Subiaco, una ragazza che lotta contro il dolore antico della perdita di entrambi i genitori quando era diciottenne: la mia telecamera ha rac-colto un inanellarsi di storie che hanno reso il piatto del mio viaggio pieno di cibo succulento - vita. Oggi mi sento meglio rispetto a qualche mese fa, e non so neanche io perché. Ci dovrei riflettere bene: forse il viaggiare ha placato il mio malessere. Nella mia pagina facebook ancora non ho posto la parola fine. Ma forse la fine del mio viaggio contro la solitudine sta arrivando, la sento.Forse perché sento vicino quel futuro in cui io possa porre radici. Un futuro che si avvicina all’idea di costruire una famiglia ed essere papà.Ho sempre avuto difficoltà di fronte ai nodi. Non li so fare e non li so sciogliere. Durante questo viaggio però qualcosa è cam-biato, e sono in una condizione tale che – non so bene come e non so perché - forse sto imparando, quanto meno, a farlo, un nodo. Forse.No-do.Che strano. Anche questa parola contiene una parola musicale.

di Gabriele Camelo

VIAGGIO CONTROLA SOLITUDINEuna viaggio, da solosenza soldi, senza metacon la telecamera

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artist’s WorD

Solitude.It's strange how a kind of word like it can begin with three letters that show a musical note. I started to feel how much that note was out of tune, lately. At first the solitude was inquietude, then it appeared so clear to me when I found myself sat at the table in front of a pre-packed vegetable soup: it was me and the soup, no one else next to me. It was Easter day. I tried not to make it happen again, but the same happened in Easter Monday. That empty table let me understand I don't belong to anyone - a broken up family behind me and my personal unrest brou-ght me to a kind of life continuously excited by new things, good things to be tasted but not to tie at. So, sunsets, hills, girls, energies, vibration, sex, books, movies, food, have become my life. Travel. How beautiful to travel, it makes you alive and gives you the chance to know how wonderful life is, how much life offers you and how much it's worth to be lived. Then it comes a moment when you fall into an existential crisis. That moment was the day when Christ came out of death. Me, poor Christ, I came inside death. Vacuum.I don't want to come back home and find the vacuum anymore. I want to wake up each day to dedicate to something or some-one. I don't have roots in my past, but at least I would like to have a future to take roots in. How? I don't know. I was frantic during Easter and Easter Monday. And, then, on impulse, I did the only thing I'm good to: I got my camera and my car key and I left my house choosing the direction by chance (I was in Palermo and I picked "Enna"), I didn't know where I would have slept and eat, following the idea of a random travel, without a destination, without money. Entrusting myself to people, trying to feel less alone, at least. Asking for hospitality, narrating my trip through videos posted on facebook and making the question that hunts me: what is solitude for you?Telling to everyone I feel alone, in a public space as facebook, catching bigger inner winds of other people who wrote me and offered me a house to stay. Solitude is less solitude when you put it out loud. To start my trip made me feel better: in the evening I found myself in a small town in the middle of nowhere (Valguarnera) and welcomed by a group of guys, wine and spaghetti among us. The next day I got a hair cut from the town's barber who told me about his love for his wife, then a young woman showed me through her eyes all the places she considers the best places of Vittoria, sea included, then an airplane brought me to Rome for a job but I didn't feel my journey was ended yet and so I kept sleeping in people's homes, collecting lives inside my camera and giving life to my life. A girl who fights to exist and to be independent from her family (in Viterbo), a woman who could kill if someone would pick on her daughter (in Roma), a father and son who go fishing by night in Fiumicino, a sister who offers shelter on mountains near Subiaco, a girl who fights against the ancient pain for her parents lost when she was eighteen: my camera collected a chain of stories which made my travel a plate full of tasteful food - life. Today I feel better compare to a few months ago, I don't know why. I should deeply think about it: maybe travelling alleviated my disquiet. I didn't say the word end on my facebook page. Probably the end of my travel against solitude is close, I can feel it. Probably because I feel close the future where I could take roots in. A future that comes closer to the idea of having a family and becoming dad.I’ve always found hard to do knots. I don't know how to do them and how to untie them. During this journey something is changed, and now I'm in such a state that - don't know how, don't know why - maybe I'm learning how to do it, a knot. Maybe.To - do - a knot.That's strange. Once again a word is also a note.

Gabriele Camelo

TRAVEL AGAINSTSOLITUDEa lonesome journey,without money, without destinationwith a video camera

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Dai beacons alle wearable technology, passando per l’ultima generazione di sistemi di Virtual Reality, si delinea il lato tan-gibile del rinnovamento che si sta avviando nei musei italia-ni. Le istituzioni culturali si misurano con una società in cui l’esperienza del mondo è sempre più mediata dai dispositivi terzi o meglio, come ha emblematicamente e tristemente di-mostrato il recentissimo avvenimento della Marcia degli olo-grammi di Madrid1, non è esclusivamente determinata dalla nostra presenza fisica ma dalla nostra esistenza virtuale. Il Forum TECHNOLOGYforALL di Roma è stata una finestra su gli orizzonti che il digitale può offrire per avvicinare il patrimonio dei beni culturali ad un pubblico più vasto e su come le potenzialità dell'Hi Tech possano essere rese in una dimensione accessibile all'utente. «Ora che tutti hanno uno smartphone in tasca, nessun museo può prescindere dal po-tenziamento del digital»2è stato il monito della conferenza.Molte realtà si stanno muovendo in questa direzione, svilup-pando App, guide interattive, guide in realtà aumentata e al-tri strumenti digital e social che arricchiscono l'esperienza del

1 «La manifestazione, nata online, è stata organizzata dal coordi-namento 'No Somos Delito' per protestare contro una legge che entrerà in vigore il primo luglio prossimo e permetterà al governo di sanzionare chiunque decida di manifestare pubblicamente. So-stenuta dal Partito Popolare spagnolo è stata criticata dalle oppo-sizioni che l'hanno definita 'Ley Mordaza', ovvero Legge Bavaglio. Gli ologrammi dei partecipanti sono stati realizzati attraverso il sito www.hologramasporlalibertad.org dove gli utenti hanno potuto registrare le proprie grida di protesta o scannerizzare il proprio corpo. Le immagini digitali sono poi state proiettate di fronte al Congresso. […] Si tratta della prima manifestazione al mondo realizzata in questo modo» La Repubblica online, 12 aprile 2015.

2 Dichiarazione di Sebatian Chan, direttore del Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum di New York, in Susanna Legranzi, Il museo diventa partecipativo in Nòva, Il Sole 24 ore, 3 maggio 2015.

visitatore con nuovi contenuti e nuovi modi per raccontarli. A partire dal Museo Civico di Palazzo Farnese a Piacenza che è il primo museo italiano e uno dei primi cinque in Europa ad aver adottato la tecnologia iBeacon. Questi piccoli emetti-tori Bluetooth integrati con IMApp, l’applicazione dedicata, permettono un’esperienza di visita guidata interattiva, per-sonalizzata e con durata non circoscritta al periodo di per-manenza nell’edificio. Ogni volta che uno smartphone o un tablet entra nel raggio d’azione di un beacon, posizionato in prossimità di uno dei vari punti d’interesse dell’esposizione, vengono inviate delle notifiche sul dispositivo che consen-tono di accedere a informazioni testuali e contenuti audio-video, personalizzabili per ogni utente. Questa tecnologia sfrutta appieno la diffusione capillare degli smart device e consente la totale customizzazione dell’esperienza di visita.Inoltre al TECHNOLOGYforALL è emerso come alcune entità museali, soprattutto le meno visibili, si stanno impegnando a digitalizzare le loro collezioni o a scannerizzare in 3D i siti archeologici.Un esempio spettacolare è quello del progetto del laboratorio Visit di Cineca che ha superato la barriera dello spazio-tempo trasportando virtualmente due monumenti-simbolo della ci-viltà Etrusca. Il Sarcofago degli Sposi, esposto permanente-mente all'interno del Museo di Villa Giulia, è stato oggetto di una minuziosa ricostruzione digitale che è maestosamente proiettata in olografia al Museo della Storia di Bologna. Alla stessa maniera anche la Situla della Certosa si muove solo virtualmente da Bologna a Roma nella sua versione ologra-fica. Ad essere esposte sono delle repliche, degli avatar, dei fantasmi o delle nuove anime dell’opera originale, che le con-feriscono però una nuova vita. Attraverso il linguaggio delle nuove tecnologie, l’opera d’arte, pur mantenendo il suo va-lore di bene culturale unico, è moltiplicata e reiterata in un

virtual heritage e l’oriZZonte Delle nuove tecnologie per i musei italiani

di Arianna Forte

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sistema di comunicazione multilayer che non solo la rende accessibile in diversi tempi e modi (fuori e dentro il museo), ma la decontestualizza permettendone l’esistenza in diverse dimensioni3 avvicinandola a nuovi tipi di pubblico. Accanto le digital technologies un altro caposaldo del Forum sono state le pratiche di gamification e storytelling, sempre più nominate e diffuse, che sottintendono ai nuovi progetti museali. Come nel caso della ricostruzione multimediale del Museo della Valle del Tevere, realizzata con la collaborazione dell’artista digitale di fama internazionale Franz Fischnaller. Il progetto consiste in un’installazione di Realtà Virtuale, co-stituita da tre enormi schermi di fronte i quali il visitatore usa solo i movimenti del proprio corpo per avviare i contenuti ed esplorare gli scenari 3D. L’opera diventa una macchina del tempo che trasporta lo spettatore tra i villaggi di capanne dell’VIII secolo, tra le abitazioni della colonia romana di Lucus Feroniae o nelle stanze della bella Villa dei Volusii di epoca augustea. «L’idea – ha spiegato Eva Pietroni, ricercatrice del CNR e responsabile scientifico del progetto – è nata quasi tre anni fa per far conoscere quella zona dell’antica Roma, ricca di risorse ma poco frequentata. Per farlo abbiamo pensato a una modalità nuova, puntando su una chiave di lettura evocativa ed emozionale, dove la tecnologia ha un ruolo fon-damentale per veicolare importanti messaggi». Il Museo di-venta un ambiente immersivo crossmediale dove le nozioni archeologiche e storiografiche vengono acquisite attraverso il linguaggio del cinema e del videogames proprio facendo leva sulla dinamica ludica e quella della preponderanza della narrazione.

3 Davide Spallazzo, Alessandra Spagnoli, Raffaella Trocchianesi, Il museo come organismo sensibile. Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented, Dipartimento INDA-CO - Politecnico di Milano, 5 maggio 2010.

La progettualità che è dietro l’utilizzo di questi strumenti digitali, è in linea con il cambiamento di paradigma che ha visto il trasformarsi della tradizionale esperienza di fruizio-ne passiva in un’esperienza performativa e col rilievo via via crescente che la teoria delle arti moderne ha dato al ruolo dello spettatore4. Il museo quindi da tempio delle arti e luo-go di contemplazione è concepito come organismo sensibile che trova nell’interazione tra opera d’arte e visitatore la sua logica più evidente5. Superando il principio del vietato tocca-re, ora anche il pubblico entra in gioco, diventando – come dice Georges Dyens – spett-attore, figura ibrida di spettato-re attore e creativo6. È in questo passaggio che l’esperienza ludica si coniuga con lo stimolo cognitivo, se lo spettatore è messo nella condizione di articolare la sua relazione con l’opera, avrà sia la motivazione di una migliore conoscenza della stessa sia il desiderio di cooperare creativamente alla sua evoluzione7. Finora si è trattato tuttavia di un’interattività quasi sempre molto elementare, le tecnologie elettroniche, e la rete in primo luogo, hanno cominciato a rendere praticabili forme di interattività molto più radicali che ora possono vera-mente esaltare e arricchire l’esperienza del visitatore8.

4 Marie Rebecchi, Sull’interattività. Conversazione con Pietro Mon-tani in Alfabeta2, dicembre 2014.

5 op. cit. Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented.

6 Andrea Balzola, Per un uso politico, pedagogico ed estetico dell’interattività. Breve nota sulle relazioni attuali e possibili tra nuovi media nella società e nell’arte in Ateatro n.115, 2 febbraio 2008.

7 ibidem.

8 Cfr. Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e imma-ginazione interattiva, edizioni Cortina, 2014.

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il muro

virtual heritage anD neW technologies in italian museums

Arianna Forte

From the beacons to the wearable technologies, going through the next-generation Virtual Reality Systems, there is a renovation starting in the Italian museum. Cultural institu-tions face with a society where life experience is more and more filtered by technological disposal, a kind of experience not only determined by our physical presence but also by our virtual existence (as it's been demonstrated with the holo-gram march of Madrid1, a symbolic and unsettling event). TECHNOLOGYforALL Forum in Rome presented the new paths offered by the digital technologies about artistic and cultural heritage with the intent to involve a bigger audience in cultural contexts; at the same time the conference pointed out how High Tech can be more accessible to users.Conference statement was: Now that everyone got a smart-phone in the pocket, a museum cannot forget about digital2.Several contexts are moving through this direction develop-ing Apps, interactive guides, augmented reality guides and other digital and social tools made to enrich visitor experi-ence with new contents and new way to narrate them. Museo Civico di Palazzo Farnese in Piacenza is the first ital-ian museum which started using the iBeacon technology and

1 «The event, started online, was organized by the group No Somos Delito to protest against a regulation which will be active from the 1st of the next July: after it, it wont' be permitted to take part to public demonstrations. Promoted by the Spanish Popular party, the regulation has been criticized by oppositions which defined it as Ley Mordaza: Gag Law. The holograms have been realized thanks to the website www.hologramasporlalibertad.org where users recorded their own protest screams and they scanned their bodies. Digital images have been projected in front of the Congress. […] It's been the first public demonstration realized through this method in the whole world», La Repubblica online, 12 aprile 2015.

2 Sebatian Chan, Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum (NY) director, in Susanna Legranzi, Il museo diventa partecipativo in Nòva, Il Sole 24 ore, 3 maggio 2015.

it's also listed in the top five european museums using this tool. These small Bluetooth emitters integrated with IMApp, a dedicated App, give the experience of an interactive visit, customized and not delimited at the period spent in the build-ing. Each time a smartphone or a tablet comes in the beacon signal zone, near to an interesting point of the exhibition, the disposal receives notifications to access text information and audio-video contents, customizable by each user. This technology is powered by the smart devices' wide spread and gives the chance to get a customized experience of guid-ed visit. TECHNOLOGYforALL pointed out the digitalizing process that museums are making of their collections and also the 3D scans of archeological sites. An amazing example is offered by the project led by the Visit lab of Cineca, which comes through the wall of space-time virtually exhibiting two sym-bolic works from the Etruscan culture. The Sarcophagus of the Spouses, permanently exhibited in Villa Giulia Museum (Rome), has been digitally recreated and projected as an ho-logram at the History Museum of Bologna. In the same way, Certosa Situla comes from Bologna to Rome in its holographic version. Avatars, reproductions, phantoms or new souls of the original works are exhibited giving each work a new life. Through the new technology language, the art work, still holding its unique cultural value, is duplicated in a multilayered communication system that lets people com-ing in touch with the work in various ways and times (inside and outside the museum); the art work is decontextualized and exhibited in different dimensions, available for new kinds of audience3.

3 Davide Spallazzo, Alessandra Spagnoli, Raffaella Trocchianesi, Il museo come organismo sensibile. Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented, Dipartimento INDA-CO - Politecnico di Milano, 5 maggio 2010.

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Next to the digital technologies, we got the gamification and storytelling practices, increasing in museum projects. One of them is the multimedial project of the Museo della Valle del Tevere (Rome) realized in cooperation with the famous digi-tal artist Franz Fischnaller: a Vitual Reality installation with three huge screens where the visitor explores 3D views and activates contents just by moving his body. The work is a time travel machine which brings the visitor in small towns of VIII century, among buildings of the Roman colony of Lucus Feroniae or in the rooms of the wonderful Villa dei Volusii of Augustan age. Eva Petroni - CNR researcher and scientific manager of the project - explains that «The idea has been de-fined to get noticed an Ancient Rome zone full of sources but not enough visited. To make it possible we decided to choose a new method, which would involve emotional spheres, using technology to spread important messages».The museum becomes an immersive crossmedial environ-ment where archeological and historical information are pre-sented through cinematographic and videogame languages, using game and narrative methods. The project behind these digital tools is linked to the change from a kind of classic museum experience toward a perfoma-tive experience with a visitor involved as contemporary art often required4.The museum is not just a temple of arts anymore, it's not only a contemplation space, it's conceived as a sensitive organism which finds its logic matter in the interaction between visitor and artwork5. Going beyond the don't touch statement, now the audience get an active role and become spect-actor - as defined by Georges Dyens - an hybrid figure half spectator

4 Marie Rebecchi, Sull’interattività. Conversazione con Pietro Mon-tani in Alfabeta2, dicembre 2014.

5 ibidem, Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented.

and half actor-creative6.Ludic experience and cognitive input come together: if visi-tors can get actively in touch with the artwork, they'll be moti-vated to reach a complete knowledge about it and to collabo-rate creatively to increase the knowledge7. Till now we often found just a basic kind of interactivity; electric technologies and the web started a form of interactivity more intense that now can actually develop and enrich visitor's experience8.

6 Andrea Balzola, Per un uso politico, pedagogico ed estetico dell’interattività. Breve nota sulle relazioni attuali e possibili tra nuovi media nella società e nell’arte in Ateatro n.115, 2 febbraio 2008.

7 ibidem.

8 Cfr. Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e imma-ginazione interattiva, edizioni Cortina, 2014.

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Il gioco si svolge un teatro buio e immerso nel silenzio (se si fa eccezione per il solito brusio degli spettatori) quando il sipario si apre e compare una grande mano guantata che prende posizione sul palcoscenico. Passa qualche istante ed arriva in sala l’altra mano che interagisce con il pubblico prima raggiungere anch’essa la scena.Inizia così lo spettacolo dei Mummenschanz.Nascono nel 1972 a Parigi dall’incontro di tre giovani, Bernie Schürch, Floriana Frassetto e Andres Bossard (scomparso nel 1992) che si sono formati negli anni ses-santa nella pratica sperimentale in diverse discipline.Il significato del loro nome è ballo in maschera; in realtà mummen descrive una maschera indossata nel medio-evo dai mercenari svizzeri mentre giocavano a carte o ai dadi, per impedire che la mimica facciale li tradisse mentre schanz significa sorte, fortuna.Per circa due ore, senza subire il trauma del tornado di Dorothy, si entra in un mondo immerso nel silenzio dove i più disparati oggetti di uso comune – rotoli di carta igienica, tubi, sacchetti di plastica, scampoli di stoffa, bidoni, etc - prendono vita, si trasformano.Senza l’ausilio di scenografie o musica di sottofondo, queste bizzarre creature dialogano, s’innamorano, ci raccontano episodi di vita quotidiana.

Siamo rapiti ed incantati dal silenzio in una realtà pa-rallela dove tutto può accadere ed accade, in un luogo come il teatro dove spesso la parola è sopravvalutata – scelta decisamente coraggiosa in un mondo bombar-dato da starnazzi vari ed eventuali.In questa straordinaria realtà, ci si accorge della presen-za degli attori solo quando il gioco finisce e sono sulla scena per salutare il pubblico. E a malapena ci si accorge di aver trascorso le ultime ore nel più assoluto silenzio. «Words are trivial. […] Words are very unnecessary1».

Mummenschanz – Les musiciens du silence8-17 maggio 2015Teatro Olimpico, Piazza Gentile da Fabriano 17 Romawww.mummenschanz.comwww.teatroolimpico.it

Immagini: courtesy of © MUMMENSCHANZ

1 Martin Gore – Enjoy the silence; from Violator, Mute Re-cords, 1990.

il gioco del silenziodi E.M.

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The game takes place in a dark theater surrounded by silence (with the exception of the viewers usual buzz) when the curtain opens and a big gloved hand shows up and takes place on the stage.A few moments pass and here it appears the other hand that starts interacting with the public before reaching the scene too.Thus began the Mummenschanz show.Mummenschanz were founded in 1972 in Paris by Bernie Schürch, Floriana Frassetto and Andres Bossard (died in 1992), three young artists formed in the 1960s in experimental practice in different disciplines.The meaning of their name is masquerade; though actually mummen describes a mask worn in the middle ages by Swiss mercenaries while playing cards or dice, to prevent them to betray facial ex-pressions while schanz means fate, luck.For about two hours, without suffering the trau-ma of Dorothy’s tornado, you enter a silent world where the most diverse everyday objects – rolls of toilet paper, tubes, plastic bags, scraps of cloth, bins, etc.-come to life and morph in something else.Without scenery or background music, these bi-zarre creatures interact, fall in love, recount epi-sodes of our daily life.We are captured and enchanted by the silence in a parallel reality where anything can - and does - happen, in a place like the theater where often word is overrated. Surely a brave choice that makes a statement in a world bombarded by all possible and various noises.In this extraordinary reality, we notice the presence of the players only when the game is over and they are on the scene to greet us. And we barely notice that we have spent the last few hours in the most absolute silence.«Words are trivial. […] Words are very unneces-sary1».

Mummenschanz – Les musiciens du silence8-17 maggio 2015Teatro Olimpico, Piazza Gentile da Fabriano 17 Romawww.mummenschanz.comwww.teatroolimpico.it

All images courtesy of © MUMMENSCHANZ

1 Martin Gore – Enjoy the silence; from Violator, Mute Records, 1990.

silent gameE.M.

What’s happ

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il muro

Tutte le vite straordinarie sono vite comuni. Non è vero il contrario.

E questo precetto – fondamentale, giacché lo straordinario ci riguarda sempre –,

basterebbe a racchiudere il senso di questo libro. In un’intervista Louise Ferdinand

Céline1 dichiara di aver «messo la pelle in gioco, perché non dimenticate una cosa:

la grande ispiratrice è la morte.

Se non mettete la vostra pelle sul tavolo, non avete nulla. Uno deve pagare. Quello

che è fatto senza pagare sa di gratuito. Allora avrete scrittori gratuiti». In Soli Era-

vamo, il presagio céliniano è un fil rouge, un’enfasi dai contorni quasi paradossali2

che a tratti ci fa sorridere, altri commuovere ma puntualmente ci restituisce l’u-

manità celata dietro le esistenze di coloro che, grazie a quella pelle sacrificata, ci

parlano delle manie, delle fughe e dei deliri, dell’imprevedibile che è di tutti.

La prosa nitida ed esatta di Coscia ci riporta alla bellezza del dato biografico,

nesso imprescindibile per la comprensione della micro e della macro historìa di

un’opera. Ma l’operazione giunge ancora più a fondo e i dati biografici degli arti-

sti si miscelano con quelli dell’autore, permettendoci in tal modo di annientare le

distanze esperienziali e sensoriali. Quante volte ci siamo ritrovati, come Coscia,

a sentirci vicini al vissuto fazioso o lucente, in una fusione emotiva con quelli che

sono stati i nostri idoli? Quante volte abbiamo preso esperienze non nostre per

attuare una consolazione inconscia? Io stesso, nei momenti più bui, ho attuato

quello che ho definito come schieramento: alla stregua di una squadra calcisti-

ca, schieravo alla giornata diversi scrittori dalla vita malandata e dalle esperienze

oscene; artisti alcolizzati dal destino infame che giocavano al mio fianco la partita

contro la vita. Nella quarta di copertina, difatti, si specifica: «c’è stato un periodo in

cui l’arte, la musica, la letteratura erano un tutt’uno con la mia vita; […], un periodo

in cui anche la biografia degli artisti – spesso inquieta, tribolata, sofferta – mi sem-

brava capace, allo stesso modo della vita dei santi per un credente, di illuminare la

mia esistenza di nuove intuizioni».

Questo processo d’immedesimazione affonda le radici innanzitutto nella psico-

analisi. Secondo lo psicoanalista francese Jacques Lacan, «il bambino – e quindi

l’uomo in perenne crescita – costituisce la propria soggettività riconoscendo allo

specchio l’immagine di un altro accanto a quella che, intuisce, essere la propria3».

Per tale ragione il titolo non poteva essere dissimile. Il Soli eravamo4 di Coscia è da

intendersi innanzitutto come una negazione. Eravamo: ora, attraverso una simu-

lazione immaginifica, abbiamo cessato di esserlo. L’altro sguardo di Giano, altresì,

ha la premura di specificare quella solitudine necessaria, obbligata; un mandala

al quale si è costretti per trarre quell’arte che è dura sostanza5 da percorrere in

silenzio. Una solitudine, questa, generalista. Una solitudine che non permette vie

di fuga e che ci condanna tutti. Condanna perfino i due personaggi trattati nel pri-

mo capitolo, Tolstoj e Rimbaud: accomunati da un espediente comune, in questo

caso la fuga6, entrambi avranno la consapevolezza che il deserto interiore da cui si

fugge è un deserto che ci insegue.

È interessante individuare nella narrazione anche delle attinenze e dei rimandi me-

taletterari che possono fruttarci da spunto, da approfondimento o da scoperta.

Leggendo il capitolo su Kafka, ad esempio, in cui l’autore racconta di quando lo

scrittore cominciò a scrivere lettere per una bambina che aveva smarrito la sua

bambola, ho scoperto dell’esistenza di un altro libro sull’argomento: Kafka e la

1 Louise Pauwels, Intervista a Louise Ferdinand Céline, in En francais dans le texte, Meudon, 1959.

2 Un esempio di paradossalità è il capitolo su James Joyce in cui l’autore scopre, casualmente, un suo omonimo accanto alla tomba dell’uomo che in giovane età amò la moglie e verso cui provava una gelosia ossessiva.

3 Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, (ed. Or. 1969), in Paolo Bertetto, La macchina del cinema, Laterza, Roma/Bari, 2010, p. 8. Lo specchio si riferisce a immagine o percezione in grado di generare simulazione e/o identificazione.

4 Specificato dall’autore stesso, il titolo è ispirato da un passo del V canto dell’Inferno di Dante: «[…] noi leggiavamo un giorno per diletto/di Lancialotto come amor lo strinse; /soli eravamo e sanza alcun sospetto».

5 Alda Merini, Delirio Amoroso, Frassinelli, Milano, 2011, p. 13.

6 Tecnicamente il libro si focalizza, per la maggior parte della struttura, sul vissuto di due artisti o per meglio dire due vicende accostate per analogie esperienziali; attuando una sorta di flashback o flashforward, l’autore dirige la struttura narrativa con un io narrante onnisciente tendente alla diaristica.

FaBriZio coscia

soli eravamoe altre storie su rimbaud, Kafka, Joyce, leopardi, proust, Dante, Woolf, hopper, tolstoj, caravaggio, Keats, evans, vermeer, radiohead, mozartAd est dell’equatore (Collana Extras), Pollena Trocchia (NA), 2014.

bambola viaggiatrice7.

Il capitolo dedicato ai suicidi imperfetti si è accostato nel-

la mia mente, invece, a un romanzo sconcertante qual è

Suicidio di Edouard Levé. Come non accostare la sorte di

Levé – che, tre giorni dopo aver consegnato il manoscritto

all’editore, si toglie la vita nella stessa modalità presente

nella finzione letteraria –, a Virginia Woolf o Cesare Pave-

se? Facile è stato anche il rimando alla rubrica Mai Morti

curata da Terranullius8, un gruppo di autori giovanissimi

che, attraverso una sorta di epitaffi fulminei d’esisten-

za, riesumano quelli che furono i vivi di ieri e perdurano

nell’esserlo oggi, perché mai morti nella loro eredità.

Esattamente come gli artisti trattati da Coscia.

Soli eravamo è un libro che meriterebbe di finire nelle

scuole sia per la sua funzione educatrice, sia per la passio-

ne – non solo verso l’arte, bensì per la vita – che stimola

nei lettori.

Quando si termina ci si sente affranti.

La forza centrifuga delle parole porta quasi a prendersela

con l’autore per aver escluso alcuni personaggi. È come se

si sentisse il bisogno di un ulteriore aneddoto, di un altro

assaggio del tutto inedito; è come se si provasse il desi-

derio di un focolaio e di porsi in cerchio, di alternarsi nel

racconto di storie lontanissime e sconosciute.

Per fortuna questo è un libro che non finisce e che in alcu-

ne notti può dar voce a chi non ne ha.

Ognuno con la sua storia di solitudine.

Fabio Appetito

7 Jordi Sierra i Fabra, Kafka e la bambola viaggiatrice, Salani, Milano, 2010, p. 121.

8 www.terranullius.it

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All extraordinary lives are common lives. The contrary is not true. This precept –

which is fundamental, as the extraordinary always concerns us – would be enough

to summarize the whole essence of this book. In an interview, Louise Ferdinand

Céline1 declared to have «put my skin on the table, because there is a thing you

must never forget: the great enlightenment is death. I had to leave my skin on the

table. If you don’t leave your skin on the table you have nothing. You’ve got to pay.

Things done without paying seem to be for free. So, you’ll have free writers». In Soli

Eravamo, the prophesy of Céline is the fil rouge, emphasising almost paradoxical2

dimensions which at some points makes us laugh, at other points moves us, but

continually evidences its humanity which, thanks to that sacrificed skin, talks to us

about the manias, the escapes and the delirium – about the unforeseeable, which

is part of everyone.

The precision and clarity of Coscia’s prose repeatedly brings us back to the beau-

ty of the biographical data, an element which is fundamental to understand the

micro- and macro-history of his literary work. However, the artist’s attempt goes

further, as the biographical data of the artists described in the book becomes

mixed with the ones of the author, enabling us to annihilate any experiential and

sensorial distances.

How many times have we found ourselves, as Coscia has, close to our past idols

in an emotional fusion, living an imagined, shining past? How many times have we

used experiences not our own to provide an unconscious solace? In my darkest

moments I used the strategy of what I called a line-up: like a football club, I lined

up different writers in a single day, who were ramshackle and with obscene expe-

riences, or alcohol artists with an infamous destiny, to play next to me in the match

against life. In the back cover, it is specified: «There was a time in which art, music,

literature were the same as my life; […], a time in which also artists’ biography – of-

ten troubled, unsettled, suffering – seemed to me able, in the same way of saints’

life for a believer, to enlighten my existence with new intuitions». This process of

identification traces back to psychoanalysis. According to the French psychoa-

nalyst Jacques Lacan, «A child– therefore the ever-growing man – constitutes his

own subjectivity and recognizes in the mirror the image of another next to the

one he realizes as his own one3». For this reason, the title could not be different.

Coscia’s book Soli eravamo4 is first of all to be understood as a negation. We were

(Eravamo): now, through an imaginative simulation, we have hence ceased to be.

What is more, We were is connected to a needed solitude (Soli) which is obliged,

being a pathway to be walked on silently, in order to obtain that kind of art which

is hard substance5.

Hence, it is generalist solitude. It is a solitude which does not allow escape and

which condemns everyone. It even condemns the first two characters appearing

in the first chapter, such as Tolstoj and Rimbaud, both sharing a common solu-

tion, in this case the escape6, both bearing the consciousness that escaping from

the inner desert means that a desert is chasing us. It is also interesting to detect

nexuses and meta-literature connections throughout the narration which could be

the basis for a new starting point, further reflections or discoveries. For example,

after reading the chapter about Kafka, in which the author talks about how he

began writing letters for a young girl who had lost her doll, I became passiona-

te about such a situation, getting to know another book on the topic: Kafka e la

1 Louise Pauwels, Interview to Louise Ferdinand Céline, in En francais dans le texte, Meudon, 1959.

2 An example of paradox is the chapter about James Joyce, in which the au-thor discovers, by chance, a namesake next to a tomb of a man that in youth loved his wife, toward he feels an obsessive jeaulosy.

3 Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, (Or. ed. 1969), in Paolo Bertetto, La macchina del cinema, Laterza, Roma/Bari, 2010, p. 8. Mirror is related by an image or perception able to produce simulation and/or identification.

4 Specified by author, the title is inspired by a passage of Dante’s Inferno (Hell), V poem: «[…] One day we reading were for our delight/Of Launcelot, how Love did him enthral; /Alone we were and without any fear ».

5 Alda Merini, Delirio Amoroso, Frassinelli, Milano, 2011, p. 13.

6 Technically the book focuses, for the most part of the structure, on two artists’s life or even two events related to the experience; author makes a kind of flashback or flashforward and direct the narrative structure with an omniscient narrator that seems to be a diarist.

FaBriZio coscia

soli eravamoe altre storie su rimbaud, Kafka, Joyce, leopardi, proust, Dante, Woolf, hopper, tolstoj, caravaggio, Keats, evans, vermeer, radiohead, mozartAd est dell’equatore (Collana Extras), Pollena Trocchia (NA), 2014.

legêre

bambola viaggiatrice7. The chapter of the book dedicated

to imperfect suicides made me think of another baffling

novel that I read quite a few years ago –Suicidio by Edou-

ard Levé. How could one not compare Levé’s destiny – he

committed suicide three days after giving his manuscript

to the publisher in the same way described in his novel –

with the fates of Virginia Woolf or Cesare Pavese? It was

also obvious to cross-reference it with the online column

of short existential epitaphs called Mai Morti, supervised

by Terranullius8, in which a group of young Italian authors

aim to resurrect those who were living yesterday and who

keep on living today, as they have never been forgotten

for their heritage. This is exactly what Coscia tries to do

with the artists he deals with.

Soli eravamo is a book which would deserve to be stu-

died at school for its educational value and for the pas-

sion which he stimulates amongst readers, not only for

the arts, but also for the life.

Once ending the book, one can feel heartbroken. The cen-

trifugal force of words almost brings the reader to accuse

the author of having excluded other characters. There is

that kind of need for more anecdotes, of another unprece-

dented try which one could desire around a big fireplace

exchanging ancient and strange stories. Fortunately, this

is a book which does not end, and during certain nights it

can give voice to those who do not have one. Each one (of

them) with a story of solitude.

Fabio Appetito

7 Jordi Sierra i Fabra, Kafka e la bambola viaggiatrice, Salani, Milano, 2010, p. 121.

8 www.terranullius.it

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TRITTICO DI BACON

In una notte del 1960 a Londra, un giovane ladro entra in un appartamento nel West Land, ma fa troppo rumore e sveglia il proprietario della casa, un celebre e ricco pittore irlandese. Il ladro farfuglia qualcosa, non sa come giusti� care la sua presenza, ma l’uomo, per tutta risposta, lo invita a spogliarsi e a in� larsi nel letto con lui. Da quella notte i due diventeranno amanti e resteranno insieme per undici anni, dando vita a una delle relazioni più burrascose e chiacchierate della storia dell’arte. Quella tra Francis Bacon e George Dyer fu, più che una storia d’amore, un caso clinico di sadomasochismo, che forse potrebbe interessare più gli psichiatri che gli storici dell’arte, se non fosse che il corpo di George Dyer – ladruncolo maldestro dell’East Land, alcolizzato, ansioso e balbuziente – fu ritratto ossessivamente da Bacon, ispirando alcuni dei suoi quadri più celebri. Dyer aveva un � sico atletico e virile, e inoltre il suo lato naïf e la sua natura di perdente lo rendevano il tipo della vittima perfetto per uno come Bacon, che amava circondarsi di parassiti, debosciati e perditempo. Lui stesso lo prendeva spesso in giro, anche in pubblico, per la sua inadeguatezza e la sua ignoranza. Eppure, lo dipinse con tenerezza e pietà, con una cura a� ettuosa per il suo corpo muscoloso. Ma il prezzo che Dyer dovette pagare per quell’amore fu altissimo. Nell’ottobre del 1971 accompagnò Bacon a Parigi, per l’inaugurazione della sua mostra al Grand Palais, e morì, proba-bilmente suicida, per una miscela letale di psicofarmaci e alcol, la sera prima del vernissage. Bacon lo trovò senza vita, seduto sulla tazza del bagno. In quella stessa posizione lo ritrasse, due anni dopo, nel Trittico, Maggio-giugno 1973: nel pannello di destra l’uomo è intento a vomitare nel lavandino, in quello di sinistra è sulla tazza del bagno, già morto, e in quello centrale c’è solo la testa di Dyer, con davanti un’ombra di ali di pipistrello. «Una delle cose terribili del cosiddetto amore – ha detto una volta l’artista irlandese – è la distruzione». Ne portano tracce tutti i suoi quadri, dove i suoi modelli-amanti vengono letteralmente vivisezionati. Per questo, benché abbia sempre sognato di dipingere un sorriso, come lui stesso ammise, non c’è mai riuscito. Nella sua pittura, che non era interessata ai sentimenti, né alla mente, ma a quello che lui chiamava il sistema nervoso , c’era spazio solo per le smor� e spastiche, per i contorcimenti e la decomposizione dei corpi.

UN AMORE PER JEANNEUna notte verso le due, dopo che aveva come al solito rovesciato sedie e rotto bicchieri in un bar, e fu cacciato in malo modo, Modigliani si ritrovò su una panchina, esausto. Jeanne lo raggiunse, sedendogli accanto in silenzio, e lui le cinse le spalle. Restarono così per ore, senza dire una parola, paghi di quell’abbraccio protettivo. Una scena che mi pare suggelli alla perfezione il senso di questo legame d’amore. Jeanne Hébuterne era una studentessa d’arte dal volto serio e intenso, e dalla meravigliosa chioma castana, che portava legata in lunghe trecce con la scriminatura al centro e una fascia intorno alla fronte. Era minuta, spesso silenziosa, ma aveva fascino, spirito creativo ed era molto sicura di sé. Conobbe Amedeo Modigliani nella primavera del 1917 e divennero amanti una sera di maggio, all’Hotel Dieu. Da allora lei gli fu accanto � no alla morte, s� dando il parere contrario dei genitori, e consacrandosi completamente a quest’uomo di� cile e geniale, dalla salute cagionevole e dal temperamento imprevedibile. I due si amarono senza ri-serve, e si ritrassero a vicenda per tutto il tempo che vissero insieme. Lei divenne la sua principale modella, ra� gurata in tutti i modi – con cappello, scialle, in maglione giallo a girocollo o in abiti scuri, in camice bianco, di pro� lo o di fronte, coi capelli sciolti, legati a crocchia o intrecciati, e in� ne incinta, col ventre rigon� o, davanti a una porta – ma mai nuda, tranne che nel disegno sulla locandina della prima personale di Modigliani alla galleria di Berthe Weill, il 3 dicembre 1917. Lui divenne tutto per la giovane artista: padre, amante, marito, fratello, � glio. Spesso litigavano furiosamente, soprat-tutto quando Modigliani si ubriacava, al punto che molti proprietari di locali si ri� utavano di farli entrare, sapendo già come sarebbe � nita. Ma Jeanne Hébuterne non avrebbe potuto concepire la sua vita senza di lui. Gli diede una � glia – che chiamarono Jeanne – e portava un altro bambino in grembo quando, due giorni dopo la morte di Modigliani, la donna, distrutta dal dolore, decise di togliersi la vita, gettandosi dalla � nestra del quinto piano della casa dei suoi genitori.

il muro

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la ruota panoramicathe Big Wheel

BACON’S TRIPTYCH

During a night on 1960 in London, a young thief sneaks in a � at in West Land but, making too much noise he wakes up the house's owner, a famous and rich Irish painter. � e thief stutters something, he doesn't know how to justify its presence there, but the man invited him to undress and go to bed with him. Starting from that night the two men become lovers and remain together for eleven years, creating one of the most stormy and chatted relationship for art history. � at between Francis Bacon and George Dyer was, more than a love story, a case of sadomasochism which probably could a� ect more psychiatrists that art historians. Except that the body of George Dyer - petty and clumsy thief of East Land: alcoholic, anxious and stammering – was obsessively painted from Bacon, inspiring some of his most famous paintings. Dyer was athletic and virile, and his naive side and his nature of loser made him the perfect victim for so-meone like Bacon, who liked to surround himself by parasites, degenerates and time wasters. He himself often mock him even in public for its inadequacy and ignorance. Nevertheless, he painted him with a� ection and pity, with a loving care for his strapping body. But the price that Dyer had to pay for this love was the highest. On October 1971 he gone with Bacon to Paris for his exhibition opening at the Grand Palais, and died, probably suicidal, for a lethal mixture of drugs and alcohol, the night before the preview. Bacon found him dead, sitting on the toilet bowl. He painted him in this same position, two years later, in the Triptych, May-June 1973: in the right panel the man is throwing up in the sink, in the left one he's on the toilet bowl, dead, and in the middle one is the Dyer's head only, with a shadow of bat wings in front of. «One of the terrible things in this supposed love - once said the Irish artist - is the destruction». All his paintings are a proof of that: his models-lovers are totally dissected. � erefore, although Bacon has always desired to paint a smile, as himself admitted, he has never succeeded. In his painting, not interested in feelings, to the mind, but to what he called the nervous system, there was only place for spastic grimaces, contortions and for bodies decomposition.

A LOVE FOR JEANNE

One night about two o'clock after having, as usual, overturned chairs and broken glasses in a bar, and badly kicked out, Modigliani found himself exhausted on a bench. Jeanne joined him, sitting near him silently, and he put his arm around her shoulders. � ey stayed like that for hours without saying a word in this protective hug. � is is the scene that perfectly seals the sense of this love bond. Jeanne Hebuterne was an art student serious and intense faced, with wonderful brown hair, tied in long braids parted in the middle and a band around her forehead. She was small, often silent but charming from creative spirit and was very con� dent. She met Amedeo Modigliani in the spring of 1917 and they became lovers on a May evening in the Hotel Dieu. Since then she was close to him until death, defying also her parents advice and dedicating herself comple-tely to this man hard and brilliant, from poor health and unpredictable behaviuor. � e two loved each other unconditionally, and painted each other for all the time that they lived together. Jeanne became his main model, represented in all ways - with hat, shawl, in yellow sweater crew neck or in dark suits, white-coated, half face or front, with down hair tied in a bun or twisted, and � nally pregnant: the swollen belly in front of a door - but never naked, except for the drawing on the poster for the � rst Mo-digliani exhibition to Berthe Weill gallery on December 3, 1917. He became everything for the young artist: father, lover, husband, brother, son. � ey often discussed fu-riously, especially when Modigliani got drunk. Many local owners refused to let them come in, already knowing how it would be in the end. But Jeanne Hebuterne could not imagine her life without him. She gave him a daughter - they named Jeanne - and Jeanne brought another child in her womb when, two days after Modigliani's death, the woman destroyed by pain, decided to kill herself jumping from the � fth � oor window of her parents' house .

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il muro

«[...] basta osservare quando i borghesi parlano di esagerazione, isterismo, follia, per sapere che proprio là dove è più pronto

il richiamo alla ragione, si tratta sempre, in realtà, dell'apologia del suo contrario. Hegel ha messo l'accento sul sano spirito

di contraddizione con la testardaggine del contadino che ha appreso per secoli a resistere alla caccia e ai tributi dei potenti

feudatari. Il compito della dialettica è di dare lo sgambetto alle sane opinioni circa l'immodificabilità del mondo, coltivate dai

potenti che hanno preso il loro posto, e di decifrare nelle loro proportions l'immagine fedele e ridotta delle disparità cresciute

oltre ogni proporzione. La ragione dialettica è l'irragionevolezza di fronte alla ragione dominante: solo in quanto la confuta e la

supera. diventa essa stessa razionale. [...] La dialettica non può arrestarsi davanti ai concetti di sano e malato, e neppure davanti

a quelli, strettamente affini, di ragionevole e irragionevole. Una volta che ha riconosciuto per malato l'universale dominante e le

sue proporzioni, - e nel senso più letterale, definito dalla paranoia, dalla proiezione morbosa, - vede la sola cellula di guarigione

in ciò che, commisurato a quell'ordine, appare malato, eccentrico, paranoide o addirittura folle; ed è vero oggi, come nel Me-

dioevo, che solo i pazzi dicono la verità al dominio. Sotto questo aspetto, il compito del dialettico sarebbe quello di consentire

alla verità del pazzo di pervenire alla coscienza della propria ragione, senza la quale - del resto - perirebbe nell'abisso di quella

malattia che il sano buon senso degli altri impone senza pietà».

(T. Adorno, Minima Moralia, 45. E par malato tutto ciò che esiste, 1951)

P.P. Pasolini, Teorema, Italia (1968)P.P. Pasolini, Teorema, Italy (1968)

Luis Buñuel, Il Fantasma della Libertà, Italia-Francia, (1974)Luis Buñuel, The Phantom of Liberty, Italy-France, (1974)

Marco Risi, L’ultimo capodanno, Italia, (1998)Marco Risi, Kaputt Mundi, Italy, (1998)

Michelangelo Antonioni, L’eclisse, Italia-Francia, (1962)Michelangelo Antonioni, Eclipse, Italy-France, (1962)

il segno sul muroa cura di Elide Massolari e Nick Testa

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45

la caverna Di platone

«[...] one need only observe at what times the bourgeoisie speaks of exaggeration, hysteria, and foolishness, to know that it is

precisely where the appeal to reason emerges most promptly, that the issue unavoidably concerns an apology for unreason.

Hegel emphasized the healthy spirit of contradiction with the hardheadedness of the peasant, who has learned over the cen-

turies to withstand the hunts and tithes of the mighty feudal lords. It is the special concern of philosophy to knock the healthy

viewpoints held by later power-brokers regarding the immutability of the course of the world for a loop, and to decode in their

proportions [in English in original] the true and reduced mirror-image of immeasurably enlarged disproportions. Dialectical

reason [Vernunft: reason] is, against the ruling one, unreason [Unvernunft]: only by carrying over and sublating the latter, does

it become rational [vernünftig: reasonable, rational]. [...] Dialectics may not stop before the concepts of the healthy and the

sick, nor indeed before the latters’ family relations, the rational and the irrational. Once it recognizes the ruling generality and

its proportions as sick – and marked in the most literal sense with paranoia, with pathic projection – then it finds the cells of

healing solely in what the standards of that social order portray as sick, absurd, paranoid – indeed, insane, and it is true as today

as in the medieval era, that only fools speak the truth to power. In this respect it is the duty of the dialectician to help this truth

of the fool to attain the consciousness of its own reason [Vernunft], without which it would indeed perish in the abyss of that

sickness, pitilessly dictated by the common sense of others».

(T. Adorno, Minima Moralia, 45. Yet how ill does everything growing seem, 1951)*

* This translation was created in 2005 by Dennis Redmond and is reproduced for non-commercial, educational purposes only.

the mark on the wallcurated by Elide Massolari and Nick Testa

David Lynch, Velluto Blu, USA, (1986)David Lynch, Blue Velvet, USA, (1986)

Luchino Visconti, Gruppo di famiglia in un interno, Italia (1974)Luchino Visconti, Conversation Piece, Italy, (1974)

Bernardo Bertolucci, Il conformista, Italia (1970)Bernardo Bertolucci, The conformist, Italy (1970)

Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore, Italia (1972)Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore, Italy (1972)

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46

il muro

«Ogni volto umano è un geroglifico che, per la verità, si lascia decifrare, e l’alfabeto del quale ognuno porta in sé già pron-to. Anzi il viso di un essere umano, di regola, dice cose più interessanti di quelle che dice la sua bocca poiché il viso è il compendio di tutto ciò che la bocca non possa mai dire [...]. La bocca esprime soltanto pensieri dell’uomo, il viso invece, esprime un pensiero della natura».

(A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, 1851)

Schopenhauer non intende racchiudere la fisiognomica all’in-terno di una specifica definizione: non è arte né scienza, ma semplicemente natura, la visione stessa dell’uomo. Prima di arrivare ad una tale riflessione, per secoli, la discipli-na definita Fisiognomica ha viaggiato incessantemente da un ambito all’altro del sapere. Tra il XII e XIII secolo filosofi e intellettuali hanno cercato di definire la sua posizione epistemologica, i suoi fini e le meto-dologie. Senza esitazione è stata inserita nell’insegnamento universitario, in base ad una visione naturalistica e biologica: secondo lo scritto di Alberto Magno (1206 – 1280) De anima-libus, la fisiognomica affianca l’anatomia nello studio morfo-

logico e costitutivo delle parti del corpo. Le caratteristiche fisiche, morali ed intellettuali dell’uomo sono condizionate dall’equilibrio degli umori, secondo le recuperate teorie di Ip-pocrate e Galeno.Molto interessanti sono le inusuali concatenazioni della fisio-gnomica con altri campi di riflessione. Da una parte, l’idea che il corpo possa essere il mezzo principale per sondare l’inte-riorità dell’uomo crea una connessione con la vita spirituale e religiosa: Ugo di Foulloy (1100 – 1174) nel suo Medicina animae giunge ad usare fisiopatologia e psicopatologia umorali per spiegare il corretto andamento o la corruzione della comunità cristiana. D’altra parte la fisiognomica acquisisce una valen-za etico-politica: Guglielmo di Mirica, nel suo commento alla Fisiognomica dello Pseudo Aristotele, afferma che lo spazio politico è il luogo dove l’uomo deve valersi delle sue virtù, dunque è necessario individuare coloro che non possono far-ne parte. Gli uomini che somigliano alle bestie hanno perso il loro posto primario nell’ordine delle intelligenze in natura, dunque riconoscerli è fondamentale. La fisiognomica ha questo valore conoscitivo (o ri-conosciti-vo) in funzione del mantenimento dell’assetto sociale e civile.Quando l’arte figurativa stabilisce il suo rapporto con la fisio-gnomica? Superata la tendenza quattrocentesca di analizzare

Fisiognomica. una Disciplina in apparente

trasFormaZione nel corso Dei secoli?di Giuseppina Lavalle

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il mondo circostante che condusse all’elaborazione del meto-do prospettico quale affermazione della più elevata compren-sione dell’esterno, lo sguardo dell’uomo si volge all’interiorità. Non è un caso che sia stato Leonardo da Vinci (1452 – 1519), un artista, a teorizzare in maniera sistematica come l’arte pos-sa indagare nel profondo lo studio dell’ animo, e come la fi-siognomica possa essere un valido strumento per tale scopo. Egli era anche uomo di scienza e mostra il rapporto tra le due discipline in maniera empirica, con dimostrazioni pratiche e una grande varietà di disegni. Si è ipotizzata l’esistenza di un trattato sulla fisiognomica, ma attualmente le idee a riguardo sono desunte dal suo Trattato della Pittura. Egli scrive: «Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura). Il fine ultimo è quello di rendere, attraverso l’immagine, il bre-ve attimo in cui un sentimento si palesa su un volto e provo-ca un riflesso nel movimento del corpo. Le emozioni scaturi-te dall’interiorità dell’uomo, ciò che Leonardo chiama “i moti dell’animo”, emergono visivamente all’esterno e non sono controllabili, poiché fluiscono dall’inconscio. Tale terminolo-gia nacque alla luce delle scoperte della psicologia moderna, ma siamo comunque di fronte ad una sua elaborazione em-brionale.D’altronde all’epoca si cominciò a parlare di follia, o meglio “dell’oscuro psichico”. Fino ad allora la questione era relegata al magico e all’occulto, ma Leonardo guardò ad essa con oc-chio analitico attraverso la sua arte. Lo studio per la Battaglia di Anghiari , Testa di uomo urlante (Budapest, Szépmüvészeti Múzeum, 1503 – 1504) esalta la furia di cui l’uomo è capace, le sue passioni represse che in qualche modo devono essere manifestate. La forza del disegno è ancor più apprezzabile leggendo la descrizione del pittore stesso: «Alla figura irata farai tenere uno per i capelli con capo storto a terra, [...] abbia i capelli elevati, le ciglia basse e strette, e i denti stretti e i due estremi daccanto della bocca arcati, il collo grosso, e dinanzi, per il chinarsi al nemico, sia pieno di grinze» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura).Il seme gettato da Leonardo verrà recuperato, e definitiva-mente sconnesso dalla cinquecentesca cultura del magico, da Leibniz (1646 – 17169), quando nel 1705 scrive i Nuovi saggi sull’intelletto umano. È il primo filosofo a parlare di inconscio, teorizzando l’esistenza di percezioni insensibili o piccole per-cezioni prive di qualsiasi consapevolezza da parte dell’uomo. La fisiognomica progressivamente viene assimilata dalla psi-cologia in fase di formazione, e comincia ad entrare nel mon-do del reale e del vissuto. Allo stesso periodo risalgono le riflessioni di William Hoghart (1697 – 1764). Con l’incisione Caratteri e caricature (1743) si dimostrò un perfetto conoscitore degli studi della fisiognomi-ca: inserì nel foglio un centinaio di teste di sua creazione, ma nell’ultima fila incise esempi da Leonardo, Annibale Carracci, Ghezzi, ma anche dai cartoni di Raffaello. Egli volle affermare che le sue creazioni non erano frutto di un’esagerazione umoristica, ma derivavano da una nobile di-scendenza di conoscitori di caratteri. Peraltro gli intenti della sua produzione pittorica erano satirici e moraleggianti nel rappresentare i costumi inglesi del XVIII secolo, e il suo successo dipese anche dalla precisa descri-zione dei tipi. Realizzò diverse serie di dipinti, che ruotavano

intorno ad un tema, in cui ciascun quadro è inteso come un atto teatrale. Osserviamo ad esempio la scena La mattina della serie Il ma-trimonio alla moda (Londra, National Gallery, 1744). Il marito si abbandona sulla sedia con lo sguardo vuoto di chi ha gozzovigliato tutta la notte, mentre la moglie si stira prima di cominciare la colazione e con uno sguardo compiaciuto, ma di sottecchi osserva il coniuge. Sulla sinistra compare un servo con in mano i conti da pagare e gli occhi rivolti al cielo in estremo turbamento.Hoghart segna un punto di svolta nella possibilità di usare del-le tipologie umane ed espressive come mezzo per identificare comportamenti dell’uomo sul piano etico e sociale. Così, progressivamente, la fisiognomica verrà sempre più le-gata a teorie antropologiche con attributi criminologici. Con l’avvento del Positivismo ottocentesco lo studio dell’uo-mo diventa più analitico e scientifico, tanto da determinare la nascita della Frenologia. Non è più il volto a determinare le caratteristiche dell’individuo, ma la sua attività celebrale che può essere dedotta dalla forma del cranio. Viene avvia-to uno studio nella storia dell’arte secondo il quale anche le statue scolpite nell’antichità, quando non esistevano queste nozioni frenologiche, presentano una precisa corrispondenza tra topografia celebrale e le caratteristiche del personaggio rappresentato.La produzione artistica si vincola ad una crescente necessità di documentazione.La rappresentazione dei tipi non è più relegata a speculazioni artistico - filosofiche, né a mera caricatura. La follia non è rappresentata in scene d’invenzione o per sod-disfare velleità grafiche, diventa realtà, soprattutto realtà cli-nica. Lo psichiatra Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1772 – 1840) sosteneva che l’alterazione degli stati mentali si ma-nifesta a livello esteriore con variazioni significative dei tratti fisiognomici. In pittura questo si traduce nella misteriosa se-rie dei ritratti di alienati di Théodore Géricault (1791 – 1824). Non è ancora stata spiegata la genesi di questi dipinti: si ipo-tizza che possano essere una documentazione scientifica, forse per lo stesso Esquirol, o addirittura una sorta di terapia cui si è sottoposto il pittore per affrontare i propri disturbi psichici. Osservando l’Alienata con la monomania dell’invidia (Lione, Musée des Beaux-Arts, 1822 – 1823) si nota l’abbando-no delle distorsioni dei volti della pittura precedente a favore di una descrizione veritiera della patologia: gli occhi piccoli e sanguigni della donna rivelano la sua malizia, così come la fissità dello sguardo la sua ossessione.In questo ritratto di un’invidiosa patologica sembra, però, ri-suonare l’eco della descrizione allegorica dell’Invidia di Cesa-re Ripa nella sua Iconologia del 1593.Dunque, le elaborazioni fisiognomiche del passato sono state realmente abbandonate?

BibliografiaLeonardo da Vinci, Trattato della pittura, a cura di Ettore Camesasca, N. Pozza, Vicenza 2000.A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi Ed., Milano 2003.F. Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Mondadori Electa, Milano 2012.

BacKlooK

Opposite:William Hogarth, Caratteri e caricature/ Characters and caricaturas, 1743

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il muro

«[...] On the contrary, each human face is a hieroglyphic, and a hieroglyphic, too, which admits of being deciphered, too the alphabet of which we carry about with us already perfected. As a matter of facts, the face of a man gives us fuller and more interesting information than his tongue [...]. And moreover, the tongue tells the thought of one man only, whereas the face expresses a thought of nature itself».

(A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, 1851)

Schopenhauer does not intend to include Physiognomy into a specific definition: it is not art or science, but simply nature, that is how humans see themselves.Before getting to this consideration, for many centuries, the discipline known as Physiognomy had wandered ceaselessly from a branch of knowledge to another.Between the XII and XIII century, philosopher and intellectu-als had tried to figure out what Physiognomy’s meanings, aims and methods were.Without any hesitation, it was taken in by the academic teach-ings due to a naturalistic and biological point of view: accord-ing to Albert the Great (1206 – 1280) and his De animalibus, Physiognomy can be placed side by side with Anatomy in the morphological studies of human body. According to the retrieved theories of Hippocrates and Galen of Pergamon, physical, ethical and intellectual human features are influ-enced by humour’s balance.The unusual link of Physiognomy with other kinds of thinking fields is very interesting. In fact, on one hand, the idea that the body is the first medium used to investigate human inner nature makes a connection with religious belief and spiritual life. Let’s take as example Hugh of Fouilloy (1100 – 1174) and his Medicina animae: the author uses humoral physiopathology and psychopathol-ogy as an explanation of the Christian community’s behavior,

whether it is good or bad. On the other hand, Physiognomic gains an ethical – political value: William of Mirica, in his com-ment about the Pseudo-Aristotele’s Physiognomy, says that the political space is a place where humans have to make a good use of their virtues. Therefore, it is necessary to identify those who can’t be part of the political system: men who look like animals have lost their right to be among the intelligent beings, so, for this rea-son, it’s important to be able to recognize them. It follows that Physiognomy has this kind of cognitive worth that is related to the protection of social and civil system.When does the figurative art establish its bond with the Physi-ognomy? Once the tendence of analysing the reality (typi-cal of the XV century, which brought to the birth of perspec-tive as the most complete way of understanding the outside world) was overcome, mankind started to look at it’s own in-ner nature. It is not by chance that Leonardo da Vinci, an artist, theo-rised systematically how art can look deeply into the studies about human spirit, and how Physiognomy could be a means for such purpose. Moreover he was also a scientist, through demonstrations and a large quantity of drawings, he was able to show empirically what kind of link there is between art and science. The existence of a work about Physiognomy has been sup-posed, but currently speculations about this discipline are deducted from Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura. He wrote: «Represent your figures in such action as may be fitted to express what purpose is in the mind of each; otherwise your art will not be admirable» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura). The final aim shows through images the brief mo-ment in which feelings reveal themselves on one’s face and thus how the body moves by reflex. Emotions, that come out from human depth ,called by Leon-ardo da Vinci movement of  the  spirit ,show up clearly out-side, and they are not manageable because they flow from

physiognomy. is it a Discipline in apparent

transFormation through the ages?Giuseppina Lavalle

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the subconscious. This kind of terms was born after the new discoveries of the modern psychology, but it is still in its early stages. However at those times they talked about madness, or rather the psychic dark side. Even if until then this issue was relegated to magic and occultism, Leonardo da Vinci looked at it with an analytic look through his art.The Study of two warriors’ heads for the Battle of Anghiari (1504 – 1505) displays the fury which the mankind is capa-ble of, and its suppressed passions that in a way have to be shown. The power of the drawing is even more remarkable if we read its description written by Leonardo «The angry figure thou shall keep someone by the hair, his head turned to the ground […] having raised hair , low and narrow eyelashes and clenched teeth, and both ends of the mouth arched, the front of the thick neck full of wrinkles for leaning toward the enemy1»

(Leonardo da Vinci, Trattato della pittura).When Leibniz (1646 – 17169), wrote New Essays on Human Understanding (1705), he remembered the seed sowed by Leonardo but he set it free from the culture of magic typical of the XVI century. He was the first philosopher who talked about subconscious while theorizing the existence of insensi-tive perceptions and small perceptions that lack of any kind of awareness. Slowly Physiognomic started to be assimilated by the newborn psychology, and it began getting into reality and real life. Furthermore, William Hogarth ‘s theories (1697 – 1764) are dated from the same period. Through his engraving Characters and Caricaturas (1743) he proved to be a perfect connoisseur of the studies about Phys-iognomic: he drew on the sheet a hundred of heads made up by him, but in the last line we can see examples from Leon-ardo, Annibale Carracci, Ghezzi, and also from works by Raf-faello. In this way he claimed that his creation did not arise from a mere humoristic exaggeration, but instead from a no-ble chain of characters’ connoisseurs. Moreover the aims of Hogarth’s figurative production were satirical and moralistic while he described English habits of the XVIII century. He was very successful because of his care in showing exactly different kinds of characters. In fact, he made many series of paintings, related to a specific topic, in which each image looks like a theatrical act. Let’s take as example The Tête à Tête, the second canvas of the series called Marriage à-la-mode (1743): the husband is laying down on a chair with a vague look in the eyes due to a night party, in the meantime his wife is stretching before hav-ing breakfast and, with a pleased look, she is furtively glaring

1 translation by the author.

at him. On the left a servant stands still in an unsettled state, with a bunch of bills in his hands and his eyes turned to the sky. Hogarth’s art is a turning point for the possibility to use humans’ expressions and characteristics as means to identify the ethical and social behaviour of mankind. Therefore, slow-ly, Physiognomy will be linked to anthropologic theories with criminological features. With the birth of the Positivism in the XIX century, studies about mankind became more and more scientific and analy-thic, so much to cause the origin of Phrenology: the face does not determine anymore one’s characteristic, but the brain ac-tivity, which can be deduced from the head’s shape, will be able to do that. From this point of view it starts a new kind of studies in the field of History of Art in which it has been observed that even ancient sculptures show a specific connection between topo-graphic brain and the characteristic of the sculpted subject, but in a time when Phrenology did not exist. Consequently artistic production links itself to an increasing necessity of scientific documentation. Types’ representations are no longer bound to artistic and philosophical speculations, or to mere caricature. Madness is not showed through scenes made from imagina-tion or in order to satisfy graphic ambitions, but it becomes reality, and above all clinical reality. The psychiatrist Jean-Eti-enne-Dominique Esquirol (1772 – 1840) claimed that mental states’ alteration shows itself outwardly through meaningful variations of physiognomic features. In the artistic field all of this is translated in the mysterious series of the insane por-traits by Théodore Géricault (1791 – 1824). An explanation about the origin of these paintings has not been found yet: it has been supposed that they could be a scientific documentation, maybe made for Esquirol himself, or even a sort of psychological therapy under which Gericault went, due to mental disorders.While observing Insane Woman (La Monomane de l’envie) (Lyon, Musée des Beaux-Arts, 1822 – 1823), it can be seen the distance from the facial distortions typical of the previous paintings on behalf of the pathology’s truthful description: the woman’s small and bloody eyes show her wickedness, so as her mania is visible from her fixed gazeHowever, in this portrait of a pathologic envious person it seems to resound the allegoric description written in Iconolo-gia by Cesare Ripa in the 1593.Therefore, have the past physiognomic elaborations been truly abandoned?

BacKlooK

Opposite:William Hogarth, Masquerade Party at Somerset House in 18th Century England, early 1800

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Nata come attività commerciale online, Tokyo Ele-ment Store ha di recente allargato i suoi orizzonti dive-nendo un punto vendita fisico di sneakers e abbiglia-mento situato nel cuore di Roma, in via delle Medaglie d’Oro 251. La sede ospita una ricercata collezione delle firme più svariate: Nike, adidas, Reebok, Asics, Ewing; accompagnata da brand più classici come Gourmet e Clae e abbigliamento di griffe streetwear come BBC, Stussy e Undefeated. Una realtà interessante, frutto dell’intraprendenza di giovani uniti dalla passione per la cultura urban. La ricercatezza dei modelli proposti, spesso introvabili, ben si coniuga a un’attenzione par-ticolare alle ultime tendenze, alle esigenze della clien-tela e dunque all’accoglienza, conferita dalla profes-sionalità del personale e dall’arredamento efficace e accurato. La qualità è la cifra immancabile dello store, così come il variegato assortimento: si spazia dalle ri-produzioni di modelli vintage più lontani nel tempo a quelli d’avanguardia per i materiali impiegati e le tec-niche di realizzazione. Consapevoli della considerevole influenza delle forme artistiche contemporanee sulla moda, in parti-colare quella urban, lo staff di Tokyo Element incen-tra il proprio interesse sulla cultura visiva attraverso l’interazione con artisti, puntando così alla creazione di una rete dinamica di condivisione in cui porre la contaminazione a fondamento. È stato questo spirito a guidare l’iniziativa dello scorso 12 aprile, lo Spring Party - Food - Music - Art – Sneakers: un evento in cui musica, street food, moda e arte si sono integrati. Per l’occasione è stato chiamato Warios Wrs, lo street ar-tist romano, illustratore e specializzato nell’arte della calligrafia – di recente nominato Calligraffiti Ambassa-dor dalla Community Calligraffiti –, che già il 4 apri-le era intervenuto con una scritta su una parete dello

store in compagnia di un numeroso pubblico. Ancora più numerosi sono stati i partecipanti della serata del 12 aprile, quando l’artista, armato di vernici spray, ha realizzato un’opera sul retro di un’edicola di fronte lo store. Ad accompagnare la performance sono state le sonorità delle dj Sere Na [RNY] ed Eli Glam. L’arte applicata a a un tipo di moda accessibile, come quella street, è un fenomeno da sempre diffuso, radi-cata nel concetto stesso di visual art; la scarpa è un og-getto che acquisisce un valore aggiunto, un prodotto unico nella sua manifattura.

WARIOS CONTACTSOfficial website www.warios1.comBehance www.behance.net/wrsgraphicFacebook www.facebook.com/wariosvtInstagram https://instagram.com/warios1Tumblr warios1.tumblr.com

TOKYO ELEMENT STOREViale delle Medaglie D'Oro, 25100136, RomaTel. 06 3540 1264Official Website www.tokyoelement.com/itBlog factory.tokyoelement.comFacebook www.facebook.com/TokyoElementStore

WARIOS WRS � TOKYO ELEMENT STORE

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micro-culture

Born as an e-commerce, Tokyo Element Store has only recently broadened its horizons, becoming a physical shop located in the very heart of Rome (Via delle Medaglie d’Oro, 251), marketing sneakers and clothes. This shop stocks a selection of various brands, such as Nike, Adidas, Reebok, Asics, Ewing, including the more classical Gourmet and Clae, and griffe stre-etwear style clothes like BBC, Stussy and Undefeated. Young people’s enthusiasm, along with their common passion for urban culture, resulted in this interesting outcome. The models offered are of the most refined, often not to be found elsewhere; this goes together with a particular care for the latest trends, clients’ needs and a welcoming shop environment, where eve-ry assistant acts very professionally and the interior design is second to none. Quality is the keyword of the store, like the variety of items you can find here, from old reproduction vintage patterns to the most updated ones for material and techniques involved. Aware of the fact that fashion, especially urban fashion, can be very effectively influenced by contemporary art, Tokyo Element staff are focused on the visual cul-ture, giving importance to the interaction with artists and aiming at the creation of a dynamic network in or-der to share ideas and keep an inter-disciplinary base.It was in this guise that the 12th of April event was born. The Spring Party – Food – Music – Art – Sneakers: an occasion where music, street food, fashion and art were put together to interact. On the occasion, Warios Wrs, roman street artist, books designer, and expert in calligraphy – recently nominated Calligraffiti Am-bassador by the Calligraffiti Community – was invited to take part. He had already been there on the 4th of April last, writing a quote on one of the store’s walls, joined by a great audience, which on April the 12th was

even greater, when the artist, armed with spray cans, made one of his works of art on the back of a news agents located in front of the shop. Music played by dj’s Sere Na (RNY) and Eli Glam accompanied. Using art, such as street art, as an affordable kind of fashion, is not a new approach. On the contrary, is a fundament of the visual art concept. Shoes as unique products can only add value to that.

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alessandro reale, nato a Roma, vive e lavora tra Roma e Latina. Una riflessione sull’estetica contemporanea, con-dizionata dal dominio massmediatico, e il conse-guente concetto di tempo fondano la ricerca ar-tistica di Reale. L’originario medium espressivo risulta essere la fotografia, veicolo attraverso cui l’immagine viene rielaborata, destrutturata. La sopravvivenza di immagini ataviche perdu-ra nell’indagine di Reale senza tuttavia celarne le stratificazioni sedimentate, palesandone la natura dialettica.

alessandro reale (Rome) lives and works between Rome and Latina.His work is a reflection on contemporary aesthetic, influenced by the mass media power, and its idea of time. Photography is the base and the medium through which the image is destructured and elab-orated. Primordial images’ survive in Reale‘s research: they don’t hide stratifications left as sediments but dis-play images dialectic nature.

Alessandro Reale, Differenza, 2015

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LM GALLERY Corso Matteotti 88, Latina

[email protected]

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