Il misticismo della ragione - Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche

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http://www.fupress.com/adf ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online) © 2013 Firenze University Press Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVIII (2012), pp. 5-51 Il misticismo della ragione Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche PAOLO FABIANI This paper investigates the concept of étendue intelligible, as used by Malebranche to frame a metaphysical theory on top of the concept of space, a new perspective on ideas and a solution (from his point of view) to Cartesian issues about the nature of thought and its relationships with extension. In particular, attention is paid to the reasons why the étendue intelligible is, for Malebrance, the joining link between the human mind and God. Such a connection is emphasized not only for its metaphysical meaning but also for the intrinsic relevance of a topological view of ideas. Keywords: Descartes, Malebranche, Intelligible extension, imagi- nation 1. L’archetipo dell’estensione Con questo studio mi pongo l’obiettivo di estendere le argomenta- zioni sviluppate ne La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche. 1 Malebranche, com’è noto, ha criticato i sensi come fonte e strumento di conoscenza, in questo ovviamente non discostandosi dagli altri razionalisti e dai sostenitori della scienza moderna anche se, da premesse condivise, è poi riuscito a costruire una psicologia originale e innovativa. Nel far ciò ha, a più riprese, fornito esempi di cosa intenda per esteso intelligibile e di come se ne possa avere una consapevolezza, epurata dalle interferenze dei sensi e dell’immaginazione. Si ha coscienza dell’estensione intelligibile ogni qual volta si pensa pur non pensando a niente di particolare, come se si contemplasse un infinito spazio vuoto su cui ed in cui si distende la 1 P. Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, FUP, Firenze 2002, soprattutto i capitoli L’aristotelismo come sublimazione logica della mente pagana; L’errore più pericoloso degli antichi; Esteso intelligibile, idea della morte ed idolatria; L’origine dell’idolatria.

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http://www.fupress.com/adfISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online)

© 2013 Firenze University Press

Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVIII (2012), pp. 5-51

Il misticismo della ragione Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche

Paolo Fabiani

This paper investigates the concept of étendue intelligible, as used by Malebranche to frame a metaphysical theory on top of the concept of space, a new perspective on ideas and a solution (from his point of view) to Cartesian issues about the nature of thought and its relationships with extension. In particular, attention is paid to the reasons why the étendue intelligible is, for Malebrance, the joining link between the human mind and God. Such a connection is emphasized not only for its metaphysical meaning but also for the intrinsic relevance of a topological view of ideas.

Keywords: Descartes, Malebranche, Intelligible extension, imagi-nation

1. L’archetipo dell’estensione

Con questo studio mi pongo l’obiettivo di estendere le argomenta-zioni sviluppate ne La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche.1 Malebranche, com’è noto, ha criticato i sensi come fonte e strumento di conoscenza, in questo ovviamente non discostandosi dagli altri razionalisti e dai sostenitori della scienza moderna anche se, da premesse condivise, è poi riuscito a costruire una psicologia originale e innovativa. Nel far ciò ha, a più riprese, fornito esempi di cosa intenda per esteso intelligibile e di come se ne possa avere una consapevolezza, epurata dalle interferenze dei sensi e dell’immaginazione. Si ha coscienza dell’estensione intelligibile ogni qual volta si pensa pur non pensando a niente di particolare, come se si contemplasse un infinito spazio vuoto su cui ed in cui si distende la

1 P. Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, FUP, Firenze 2002, soprattutto i capitoli L’aristotelismo come sublimazione logica della mente pagana; L’errore più pericoloso degli antichi; Esteso intelligibile, idea della morte ed idolatria; L’origine dell’idolatria.

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nostra mente. L’esteso intelligibile altro non è che la mente vuota da ogni rappresentazione, da ogni immagine di oggetti determinati, concentrata su sé stessa, sulla sua capacità di rappresentarsi un’infinità di figure, di oggetti, di forme, di concetti – tutti in potenza e nessuno in atto. Nel momento in cui, da questa condizione quasi ascetica (di vuoto mentale) si pensa a qualcosa, è come se quest’ultima emerge da tale infinito spa-zio mentale, rendendo poi impossibile vedere l’infinita superficie su cui poggiano i nostri pensieri determinati.

Lorsque nous fermons les yeux nous avons présente a l’esprit une étendue qui n’a point de bornes. Et dans cette étendue immatérielle, et qui n’occupe aucun lieu, non plus que l’esprit qui le voit, comme je l’ai prouvé ailleurs, nous pouvons y decouvrir toutes sortes de figures, de même qu’on peut former une sphére ou un cube d’un bloc de matière. Cette étendue et ces figures sont in-telligibles, parce qu’elles ne se font nullement sentir. Mais lorsqu’on ouvre les yeux, cette même étendue devient sensible à notre égard, par cela seul qu’elle nous touche plus vivement, et qu’elle produit dans notre âme une infinité de perceptions toutes différentes que nous appellons couleurs. J’expose mon sentiment sans le prouver: ce n’en est pas ici le lieu. Il me suffit que dans la vûë que nous avons des objets, de ce papier, par exemple, on n’y trouve que de la étendue et de la blancheur; encore un coup cela me suffit. Lorsque l’on ouvre les yeux au milieu d’une campagne, toute cette variété d’objets que la vûë de-couvre, ne vient certaiment que de la distribution des couleurs differentes qui semblent répanduës sur diverses parties de l’étendue. Car il est evident que ce n’est que par la variété des couleurs que nous jugeons de la différence des corps que nous voyons.2

In diversi altri passi della stessa opera si trova esposto lo stesso concetto,3 ciò su cui invece voglio qui porre l’attenzione è che in queste

2 N. Malebranche, Entretiens sur la métaphisique, sur la religion et sur la mort, Gallimard, Paris 1979, p. 214.

3 «Lorsqu’on pense à l’étendue les yeux fermés et le cerveau sans images, alors cette étendue intelligible affecte l’âme d’une pure perception. Elle paraît telle qu’elle est, immense, nécessaire, éternelle. On ne remarque point de différence dans ses parties intelligibles, parce qu’elle touche partout également l’esprit. Et comme cette étendue le touche légèrement, on la regarde ordinairement comme n’ayant point de réalité: car naturellement on juge de la réalité des choses par l’impression qu’elles font en nous. Il naît de la deux erreurs tout opposées; l’une que l’idée de l’étendue n’est rien; et l’autre que la matiere est éternelle et infinie, parce que telle est son idée. Ce la soit dit en passant, car il ne faut pas présentement nous arrêter à combattre ces erreurs. Mais lorsqu’on ouvre les yeux au milieu d’une campagne, alors cette même étendue intelligibile devient sensible, en conséquence des lois de l’union de l’âme et du corps. Je veux dire que l’idée de l’étendue touche l’âme plus vivement qu’elle ne faisait, et de plus elle la touche dif-féremment selon ses diverses parties intelligibles, ici d’une couleur, et là d’une autre. Car les différentes couleurs ne sont que diverses perceptions de l’âme imprimées en elle par

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parole è espresso (e perfettamente coerente con il quadro teoretico ma-lebranchiano come evoluzione teologizzante di quello cartesiano) quello che chiamerò l’esperimento dell’esteso intelligibile. Quando Malebranche consiglia di chiudere gli occhi e, in altri passi aggiunge di stare in un luogo senza rumori, in aperta campagna senza niente che possa distrarre e chiede al lettore di vuotare la propria mente non solo da ogni pensie-ro ma anche da ogni sensazione – compie un’operazione che va nella direzione di quella intrapresa da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche allorquando mette in dubbio (radicale) tutto il mondo manifestatoci dai sensi. Consiglia cioè di vuotare la propria coscienza da ogni pensiero particolare, da ogni rappresentazione di oggetti sensibili contemplan-do così non il nulla ma, al contrario, lo sfondo su cui è possibile ogni pensiero, ovvero l’esteso intelligibile. Questo esperimento è un punto di partenza teoretico, coerente con la visione d’insieme del Cartesio delle Meditazioni metafisiche, che faceva della riflessione del soggetto in sé stesso, e partendo da sé stesso, il cardine della propria metafisica. Non a caso il cristianesimo delineato negli Entretiens sur la métaphisique, sur la religion et sur la mort – ed ancor più nelle Conversations chrétiennes – prende le mosse dal cartesianesimo visto come strumento filosofico atto a scardinare i residui psicologici del paganesimo ancora insiti nella men-talità dei cristiani. Inoltre, e sul versante teoretico opposto, Malebranche ritiene che la filosofia delineata negli Entretiens è ancora più coerente con la Ragione universale che non quella di Spinoza perché, meglio di quest’ultima, riesce a negare ogni forma di antropomorfismo, cosa che la stessa Ragione universale teorizzata dal Pensatore olandese non riusciva a fare. A tal riguardo un primo elemento di discrimine è tra il concetti spinoziani di sostanza, intelletto e materia e quello malebranchiano di esteso intelligibile:

Vous avez raison, Théotime. Il n’y a point de substance plus imparfaite, plus éloignée de la divinité, que la matière, fût-elle infinie. Elle répond parfaitement à l’étendue intelligible qui est son archétype; mais ne répond a l’immensité divine que fort imparfaitement; et elle ne répond nullement aux autres attributs de l’Être infiniment parfait.4

l’idée de l’étendue. Et comme ces perceptions sensibile sont plus fortes que les perceptions pures, l’âme regarde l’étendue qui les cause comme un être réel, et dont les parties sont de différente nature, parce que les parties intelligibles font en nous des impressions de couleurs toutes différentes. C’est là ce qu’on appelle voir les corps: car on ne voit point les corps en eux-mêmes. Ils ne sont visible que par des couleurs différentes dont l’éten-due intelligible affecte notre âme en consequence des lois naturelles» (ivi, pp. 565-566).

4 Ivi, p. 365.

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Detto in altri termini: l’esteso intelligibile è l’archetipo dell’esten-sione; vi è quindi un parallelismo ontologico tra l’infinità dell’idea di estensione e l’estensione, tra l’idea e la cosa; ma la cosa (la materia), afferma Malebranche, è qualcosa di imperfetto e sebbene l’idea della cosa sia frutto della mente divina, quindi qualcosa di perfetto, quando si fa rappresentazione (sensibile) di una cosa, rappresenta l’imperfetto, la materia appunto. L’esteso intelligibile è così il perfetto che serve per rappresentarsi l’imperfetto, ma non può essere un’idea perché non rappre-senta qualcosa di determinato: è l’archetipo indeterminato che permette la determinazione degli infiniti enti limitati attraverso le idee.5 È un’idea ‘alla seconda’ se così si può dire. Non vi è dunque nessun parallelismo tra l’infinità del creato e l’infinità di Dio, neppure tra l’infinità dell’esteso intelligibile e l’infinità della divinità. Per questo motivo l’estensione (sia la cosa che l’idea [rappresentazione] della cosa) non può venir elevata ad attributo della divinità; l’una non è la riduzione in scala dell’altra ma soltanto una copia molto imperfetta, non sovrapponibile neppure in una prospettiva che ristabilisca le misure, che tenga conto delle proporzioni. Ecco: l’infinità del mondo e l’infinità di Dio hanno proporzioni differenti, non comparabili né compatibili; sono etimologicamente incommensura-bili. Anche su questo punto Malebranche si differenzia da Spinoza in un senso, e dal tomismo, in un altro, restando così fedele al suo cartesiane-simo. Per Malebranche il mondo non è perfetto e quindi non può avere una ‘perfezione geometrica’, non è neppure il migliore ( quello che più si avvicina alla perfezione) dei mondi possibili perché il concetto stesso di ‘possibilità’ non può esser lo stesso per la mente umana e per quella divina. Di fatto affermare che questo sia il migliore dei mondi possibili, seppur la conclusione a modo di epitaffio scaturisca da tutta una serie di ragionamenti logici, è una forma di antropomorfizzazione del pensiero divino. Ciò che è razionale per l’uomo assume i caratteri dell’universa-lità, mentre nella mente divina tale universalità viene ricontestualizzata all’interno di una infinità di piani di Ragione, che solo la mente divina percepisce nella loro infinita assolutezza, o assoluta infinità. La potenza della mente umana illumina soltanto una piccolissima porzione di uno degli infiniti piani di razionalità della mente divina.

La materia è quanto di più imperfetto esista, ciò non di meno è qual-cosa di creato. Malebranche deve così spiegare quale sia stato il motivo

5 Il concetto di idea in Malebranche non è sempre lo stesso, a seconda del discorso e dell’argomentazione che egli intavola assume connotazioni differenti e varia – a vol-te – anche da opera a opera. Si va dall’idea platonica all’idea cartesiana, in tutte le sue classificazioni. Nel nostro discorso, almeno nella maggior parte dei casi, per idea si deve intendere rappresentazione di un pensiero, quindi l’accento è dato al significato cartesiano piuttosto che a quello platonico.

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che ha spinto Dio a creare una cosa così imperfetta come la materia. Sta qui a mio parere il motivo profondo di una delle tesi più controverse della metafisica dell’Oratoriano: quella della semplicità delle vie. Una tesi sostenuta in campo teologico e morale ma che, a mio avviso, ha motivi prevalentemente metafisici: come è possibile che Dio avendo l’idea per-fetta dell’estensione, e che questa idea sia assolutamente indeterminata (ovvero non sia un’idea in senso proprio come l’idea del triangolo che trova nell’immaginazione la figura che la determina), abbia poi prodotto una sostanza così imperfetta come la materia? Un problema metafisico che diventa morale soltanto in un secondo tempo, quando il filosofo deve giudicare la natura del mondo e la sua stessa natura ma, in primo luogo, il problema è metafisico e come tale va posto: quale nesso lega l’archeti-po perfetto (sebbene soltanto nel suo genere e perfetto proprio perché indeterminato) alla cosa determinata ma imperfetta? La ‘cosa’ è soltanto il risultato ‘ponderato’, il prodotto tra la maggior varietà raggiungibile e la semplicità dei modi per raggiungerla, operazione compiuta per decreto da Dio e che prende il nome, nella tarda filosofia malebranchiana, della semplicità delle vie.

È evidente che per affrontare la questione dell’esteso intelligibile ci si debba rifare proprio a quest’ultima nozione che in Malebranche acquisisce un significato particolare, diverso sia da Spinoza che dai tomisti, da Leibniz ed anche da Cartesio sebbene, dal punto di vista di Malebranche, la concezione cartesiana rappresentasse la naturale evolu-zione della tesi cartesiana. Al centro vi è dunque il concetto di infinito o, meglio, i concetti di infinito: pensato e creato. Soltanto col cartesia-nesimo, afferma Malebranche, nel filosofare si è rotto ogni legame tra l’immaginazione umana e l’operare divino. L’aristotelismo ancorato alla religione cristiana manteneva ancora un residuo di paganesimo che non permetteva il costituirsi di una teologia autenticamente e perfettamente cristiana.6 Lo spinozismo d’altra parte rappresentava l’estremo opposto e, benché fosse contro le intenzioni del suo fondatore, invece di eliminare l’antropomorfismo, proponeva un antropomorfismo se possibile ancor più odioso del paganesimo: l’ambizione della ragione umana, l’ateismo. Soltanto un universo razionale, ma di una razionalità costruita sul modello della ragione umana, può diventare la logica premessa all’estromissione della presenza divina dall’universo. Soltanto quando si afferma che l’u-niverso è totalmente comprensibile o, ipoteticamente tale, allora diventa superfluo Dio. Ecco, per Malebranche la ragione universale di Spinoza

6 N. Malebranche, De la Recherche de la Vérité, VI, II, 5 in Œuvres complètes de Malebranche, Vrin, Paris 1955-1965, t. 2; Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico, cit., pp. 15-23.

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pur continuandola a definire nominalmente come ‘Dio’ altro non è che l’ipostatizzazione e l’estensione della ragione umana a ciò che non si comprende. Mentre il paganesimo degli aristotelici può dirsi un antro-pomorfismo del sentimento, l’ateismo di Spinoza si configura alla critica dell’Oratoriano come un antropomorfismo della ragione.

Ce que vous dites là me fait bien comprendre que cet impie de nos jours, que faisait son Dieu de l’univers, n’en avait point. C’etait un véritable athée.7

Per Malebranche non si deve estendere la mente umana all’universo ma, semmai, racchiudere in miniatura l’universo dell’ordine divino nella mente umana, non come semplice microcosmo della mente divina, ma come significativa parte di essa, sebbene infinitamente ridotta. La filosofia spinoziana, secondo Malebranche, dà l’idea di un mondo costruito sul modello della ragione umana; è quindi ovvio che un mondo così inteso elimini ogni autentica nozione di Dio. L’ateismo è allora l’effetto dell’an-tropomorfizzazione ‘geometrica’ dell’universo o, per essere più precisi, della nozione di infinito. Ora, per Malebranche, l’universo è costruito sul modello della Volontà divina ( la tesi che possiamo dedurre dalla sempli-cità delle vie) distinta dalla Ragione che tuttavia non può venir ricondotta al modello della ragione umana, come paradossalmente faceva Spinoza. Con l’evoluzione che la filosofia malebranchiana ha subito col Trattato della Natura e della Grazia8, l’universo per l’Oratoriano non è qualcosa di perfetto: se fosse perfetto come la Mente che lo ha prodotto potremmo non ancora affermare ma, almeno, ipotizzare uno sviluppo in senso spi-noziano (che vede l’identificazione della volontà con l’intelligenza nella natura divina). È questo un punto fondamentale per mettere a fuoco la concezione dell’esteso intelligibile e, in definitiva, l’ispirazione profonda del pensiero dell’Oratoriano. La semplicità delle vie è un fondamentale punto di discrimine tra Malebranche e Spinoza, ma per noi la teoria della semplicità delle vie serve soprattutto per comprendere in che rapporto stanno tra loro idea dell’estensione (l’esteso intelligibile) ed estensione materiale (il mondo realizzato da Dio). È questo un punto critico della filosofia di Malebranche in quanto egli a volte parla di estensione ed ‘idea di estensione’ come sinonimi, mentre l’idea di estensione non compendia necessariamente e/o esclusivamente un elemento presente nell’estensione realizzata: la semplicità delle vie.

7 Malebranche, Entretiens sur la métaphisique, sur la religion et sur la mort, cit., p. 365.

8 Sarebbe interessante approfondire il confronto del Trattato della natura e della grazia con il Trattato di morale in relazione al ‘presunto’ spinozismo di Malebranche ma qui, per ovvie esigenze di spazio, si è costretti ad evitare l’argomento.

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Vi sarebbe dunque un’assoluta identificazione tra gli attributi divini fin anche a dissolvere nel nulla il concetto stesso di creazione (e così anche quello di Creatore): questo almeno concludevano gli oppositori del Pensatore olandese e Malebranche tra questi. Una concezione che potrebbe inclinare verso lo spinozismo dovrebbe prevedere quanto meno una perfetta linearità tra il mondo pensato e quello realizzato da Dio. Per Malebranche invece Dio non ha prodotto un mondo perfetto così come era in grado di pensarlo, dato che poteva pensare un universo perfetto, ma soltanto un mondo che fosse il più perfetto possibile (benché imperfetto in sé) per le vie più semplici possibili. La varietà della realtà per la sempli-cità della realizzazione, ecco come è stato prodotto il mondo. L’universo che Dio ha prodotto è quindi il risultato di un’operazione algebrica in cui da una parte e dall’altra dell’eguaglianza non vi è la perfezione ma prima la Ragione e poi la Libertà, come due opposti mediabili con il minor numero di operazioni logiche (le vie più semplici) possibile. L’esistenza non è quindi parallela – nel sistema malebranchiano – al pensiero; non esiste un parallelismo tra materia e ragione, ciò che esiste non è un attri-buto della divinità ma il prodotto di un’operazione matematica, ovvero soltanto razionale e quindi non ancora realizzata, appartenente cioè, per esprimersi in termini cartesiani, alla sfera della res cogitans e non della res extensa. La volontà divina non è allora semplicemente la realizzazione della Ragione divina, che vede un mondo perfetto, ma segue una sua ‘inclinazione naturale’ che la spinge all’azione (ovvero alla realizzazione del mondo) che consiste, non nel pensiero più perfetto in sé, ma nel pensiero più ‘semplicemente’ perfetto.

È attraverso il concetto di semplicità delle vie che Malebranche cerca di mediare due attributi che, a differenza di Spinoza, vedeva come opposti (e non paralleli): Intelligenza e Volontà. La semplicità ha per Malebranche un valore logico-matematico: è semplice (e per altro verso: tendente alla perfezione) ogni cosa che per esser compresa ed attuata necessita del minor numero possibile di operazioni logiche. La volontà però si prende la sua rivincita sull’intelligenza, se così si può dire, piegando la Ragione divina a realizzare non ciò che comprende ma ciò che resta più semplice, meno dispendioso (dal punto di vista matematico e, quindi, in definitiva dalla prospettiva reale) per la volontà realizzare, l’azione divina sembra quasi essere il risultato di una dimostrazione elegante. La volontà, in altri termini, subordina la Ragione alla semplicità delle vie ma, d’altra parte, la semplicità delle vie ha comunque una sua ragion d’essere, una sua costituzione razionale, logico-matematica. La ragione divina non attua una semplice uguaglianza del tipo A=A in cui la forma è identica per i diversi contenuti (i diversi attributi), un parallelismo spicciolo, ma cerca un’uguaglianza che passi per il minor numero di operazioni mentali, di

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pensiero, possibile. La metafisica di Malebranche non porta quindi ad un uguaglianza mondo = intelligenza ma a due uguaglianze: Ragione × Semplicità = Volontà; Volontà × Semplicità = Mondo. Ciò che colpisce nel pensiero di Malebranche è che la ragione moltiplicata (ovvero piegata) per la semplicità (che va sempre ricordato è essa stessa un prodotto della Ragione) conduce ad una riduzione dell’orizzonte razionale, cioè piega l’infinita varietà delle possibilità logiche ad uno solo dei suoi criteri. La ragione moltiplicata per sé stessa secondo Malebranche non produce dunque un potenziamento della razionalità ma al contrario una sua limitazione. Come è possibile un risultato così, almeno a prima vista, irrazionale? Infatti, non a caso, irrazionale era la teoria della semplicità delle vie secondo un altro pensatore: Leibniz.

La risposta è semplice e difficile al tempo stesso o, se si vuole, ovvia e per gli stessi motivi impossibile da sostenere. La semplicità delle vie, pur essendo un concetto di per sé matematico, intellettuale e astratto, in quanto consiste nel giungere da determinate premesse (infinità dei mondi possibili, così almeno o, meglio, attraverso questo concetto Leibniz interpretava la dottrina malebranchiana) ad una ben precisa conclusione (il mondo reale) attraverso il minor numero possibile di passaggi logici, ha un ‘risvolto’ metafisico causato da una implicita premessa morale: il tutto è più della somma delle parti. Ovvero, da una parte, l’operare di Dio che realizza il mondo ed il mondo in quanto opera di Dio e, dall’al-tra l’universo realizzato e, se si vuole, da una parte l’idea di estensione e dall’altra la somma delle infinite idee di enti particolari. Quindi, dato che Dio non avrebbe potuto duplicare sé stesso, per le stesse ragioni logiche che avanzava Leibniz, la realizzazione del mondo non poteva venir affidata al criterio della massima perfezione (che comunque non avrebbe portato ad una perfezione assoluta) ma al criterio della massima semplicità in vista della maggior perfezione possibile. Così Malebranche manteneva, almeno dal suo punto di vista, la perfezione dell’intelligenza divina e l’efficacia della sua Volontà. Dio può tutto, ma quel che può lo vuole nel modo più semplice, lineare e quindi razionale possibile. La semplicità delle vie però rappresenta per Malebranche una caratteristica che va ad esaltare l’onnipotenza divina. Dio è tanto più potente e perfetto quanto con maggior semplicità realizza le sue opere. Ma la semplicità pur essendo una ‘perfezione logica’ (una via è tanto più semplice quanto minore è il numero di operazioni razionali che sono necessarie per com-prenderla e, dal punto di vista divino, realizzarla) deve comunque avere al proprio fondamento un criterio di scelta morale. Dio infatti avrebbe potuto creare un mondo più semplice del nostro per vie ancor più semplici di quelle che gli sono servite per realizzare questo. Non possiamo infatti pensare che il mondo attuale sia stato realizzato per le vie più semplici

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possibili, in quanto è lo schema metafisico malebranchiano stesso a negare un’ipotesi del genere: infatti la semplicità delle vie deve comunque essere in un rapporto logico e necessario con la semplicità della realizzazione, altrimenti per la via più semplice avrebbe potuto creare un mondo per-fetto, ma così non sono andate le cose. La complessità delle vie è quindi in un qualche rapporto necessario con la complessità della realizzazione; si può quindi sospettare che il mondo realizzato – possedendo una note-vole varietà – non sia stato realizzato per le vie più semplici possibili, ma sia il frutto di una mediazione tra la semplicità delle vie e la varietà della realizzazione. Questa mediazione è stata fatta da Dio e non può essere il frutto di un’operazione logica, ma deve in qualche modo scaturire da una scelta morale. Infatti in termini logici qualsiasi mediazione tra varietà del creato e semplicità dell’azione divina vale tutte le altre, mentre Dio ha scelto. L’uomo contempla il creato con una mente limitata e, qualora riuscisse a pensare alla creazione nella sua totalità, non potrebbe pensarla comunque come Dio; gli sfuggirebbero molti degli infiniti rapporti che legano tutte le singole parti tra loro e al tutto di cui sono, appunto, parte.

Parrebbe che per Malebranche il tutto (ovvero Dio ed il suo operare) sia più della somma delle parti (ovvero l’universo reale ed i possibili che, nella mente divina, hanno una loro realtà). Per Spinoza, al contrario, sembrerebbe che il tutto sia la somma delle parti, ma al costo di identi-ficare Dio col mondo (e la volontà divina con la Ragione), «Dieu n’est point l’univers, c’est le Créateur de l’univers».9 Ecco come Malebranche mette in bocca ad Ariste la tesi spinoziana e la risposta che dà Théodore:

Ariste: Oui, nous sommes: mais nous ne sommes point faits. Notre nature est éternelle. Nous sommes une émanation nécessaire de la divinité. Nous en faisons partie. L’Être infiniment parfait c’est l’univers, c’est l’assemblage de tout ce qui est.

Théodore: Encore!Ariste: Ne pensez pas, Théodore, que je sois assez impie et assez insensé,

pour donner dans ces rêveries. Mais je suis bien aise que vous m’appreniez à les réfuter. Car j’ai ouï dire qu’il y a des esprits assez corrompus, pour s’en être laissé charmer.

Théodore: Je ne sais, Ariste, si tout ce qu’on dit maintenant de certaines gens est bien sûr, et si même ces anciens philosophes, qui ont imaginé l’opinion que vous proposez, l’ont jamais crue véritable. Car quoiqu’il y ait peu d’extrava-gances, dont les hommes ne soient capables, je croirais volontiers que ceux qui produisent de semblables chimères, ne sont guère persuadés. Car enfin l’auteur qui a renouvelé cette impiété, convient que Dieu est l’Être infiniment parfait. Et cela étant, comment aurait-il pu croire que tous les êtres créées ne sont que

9 Malebranche, Entretiens sur la métaphisique, sur la religion et sur la mort, cit., p. 365.

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des parties, ou des modifications de la divinité? Est-ce une perfection que d’être injuste dans ses parties, malheureux dans ses modifications, ignorant, insensé, impie? Il y a plus de pécheurs que de gens de bien plus d’idolâtres que de fidèles: quel désordre, quel combat entre la divinité et ses parties! Quel monstre, Ariste, quelle épouvantable et ridicule chimère!10

L’imperfezione dunque esiste realmente, e non come la semplice assenza o negazione della perfezione. In termini ontologici il peccato, l’errore, l’imperfezione sono negazioni di Dio e della perfezione, ma per un cristiano la differenza tra infinità del creato ed infinità del Creatore implica la differenza tra un’universalità piena, che a noi sfugge, e l’univer-salità delle cose prodotte; la somma di tante imperfezioni, anzi, di infinite imperfezioni, non può che condurre ad una ‘universalità imperfetta’, in un solo senso.

L’imperfezione esiste già per una motivazione razionale, logico-matematica oseremmo dire. L’imperfetto, l’irrazionale, il difetto, l’errore, la mancanza, il male, il nulla esistono non solo per negazione del perfetto. Ciò è vero ma soltanto se precisato: il limitato, l’imperfetto, l’irrazionale esistono per una necessità logica, razionale che esiste o, meglio, che sus-siste in sé e per sé. A fondamento dell’imperfezione potremmo trovare, se la nostra mente avesse un’estensione pari a quella divina, una motivazione logico matematica. Infatti ogni imperfezione è il risultato di un ‘mondo possibile’ realizzato, scelto con un criterio che non è in prima istanza morale ma matematico: la semplicità (logica) delle vie. Non è un criterio di scelta morale ma logico; ciò non di meno la scelta di tale criterio da parte di Dio è stata, come tutte le scelte devono essere per un cartesiano, morale; il criterio è logico ma la decisione di assumere tale criterio è in definitiva morale o anche morale.

Il Dio di Malebranche è meno vincolato ai suoi stessi principi di quanto non lo sia quello di Leibniz, in quanto la sua scelta non è cir-coscritta alla sola semplicità delle vie ma, al contrario, è il criterio della semplicità delle vie a venir in parte piegato alla necessità, questa sì morale, della varietà del creato. La varietà non rappresenta una scelta necessaria in sé, in quanto anche la varietà possibile viene piegata alla semplicità delle realizzazione per diventare varietà reale. La scelta morale del Dio di Malebranche non si esprime altro che nella scelta, assolutamente libera, della mediazione logica di due esigenze: la compossibilità dei diversi esseri e la semplicità nel renderli compossibili e quindi realizzabili.

Quando Leibniz rimproverava a Malebranche di pensare ad un Dio che non aveva fatto il meglio di ciò che poteva, aveva ragione, anche se

10 Ivi, p. 378.

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Malebranche poteva ribattere che il Dio di Leibniz, aveva una volontà vincolata completamente al principio di ragion sufficiente e si poteva sospettare che, esistendo l’imperfetto ed il male per un motivo morale, diventava problematico dimostrare la bontà di Dio. Invece, introducendo la semplicità delle vie, si spostava in secondo piano la scelta morale facen-do derivare l’imperfetto ed il male da una ragione logica che aveva sì, a suo fondamento, una scelta morale, ma la semplicità restava il principio regolatore e quindi l’esistenza del male e dell’imperfetto non soltanto non dimostravano la malafede o l’impotenza divina ma, al contrario, ne dava-no una giustificazione razionale. Quanto più semplicemente agisce Dio tanto più è perfetto; che esista il male, l’errore, l’imperfezione nell’opera non soltanto non significa che l’operaio non è bravo ma che è addirittura un artista perfetto. Se l’esempio può render l’idea: come Picasso vedeva nell’arte primitiva la perfezione, mentre questa sembra mediocre agli occhi del profano, così se l’universo non è perfetto secondo la ragione umana, non vuol dire che non sia opera di un artista perfetto e che in tale realizzazione non si manifesti una perfezione assoluta, almeno allo sguardo dell’Autore divino. Per un Essere onnipotente non vi è infatti contraddizione nel veicolare attraverso uno strumento imperfetto (come il mondo) la sua perfezione.

La cosa non convinceva Leibniz. Innanzi tutto perché mai la sem-plicità delle vie dovrebbe rappresentare una perfezione? Leibniz non era Ockham. È soltanto dal nostro limitato punto di vista che un modo di realizzare è più semplice di un altro; in Dio e per Dio, se egli è veramen-te onnipotente, tutte le vie portano immediatamente alla realizzazione. Non si può sostenere inoltre che una via implichi un minor numero di passaggi logici per ‘collegare’ tutti i compossibili. Ancora una volta: ciò vale per l’uomo che, avendo un’intelligenza limitata, pone un numero limitato di legami tra idee ed idee e tra le cose e le cose e tra le idee e le cose. Nella mente divina tutto è collegato a tutto da infiniti nessi logici e ontologici e, dato che il tutto e le sue parti possiedono infiniti legami, ogni via per la realizzazione passa per infiniti legami; tutte le vie, in altri termini, si equivalgono, tutte sono infinitamente semplici ed infinita-mente complesse. Ma cosa ancor più sconvolgente è per Leibniz che Malebranche finisce per sostenere che l’errore e il male esistono per necessità logica. Certo, anche in Leibniz assistiamo apparentemente a qualcosa del genere: il migliore dei mondi possibile contiene il male e l’irrazionale per consentire la libertà. Secondo Leibniz però il male e l’errore non avevano in sé una ragione logica, ma una ragione morale: era per garantire la libertà all’uomo che esistevano l’errore ed il peccato Tutti i mondi possibili essendo logicamente equivalenti, è soltanto per garantire il massimo di libertà che Dio ha realizzato il migliore: quello

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in cui l’uomo è più libero, ha più possibilità di sbagliare commettendo il minor male possibile. La razionalità per Leibniz come per Malebranche non a-morale ma include il miglior modo di impiegare la libertà. Sesto Tarquinio,11 pur conoscendo il suo destino, pur essendosi fatto mostrare dalle divinità la perfetta intellezione degli eventi (la sequenza e l’esito fi-nale) sceglie la perdizione; mosso dalla sua ambizione che non aveva però una causa ‘attuale’, ma una motivazione addirittura trascendente. Infatti la scelta del proprio destino precede la stessa esistenza dell’individuo: la vita è soltanto la realizzazione di una scelta trascendente la vita stessa; a niente è servito a Sesto Tarquinio conoscere il proprio destino, in quanto la sua scelta non dipendeva dalla conoscenza ma dal suo carattere – che è innato. Si assiste quindi ad un recupero, trasfigurato, teologizzato e semplificato del mito platonico di Er. Come dire: la predestinazione prende forma e si manifesta nel carattere degli uomini (un ordine generale si ‘concretizza’ in un evento, o serie di eventi, particolare), anche se la realizzazione delle opere invece dipende da circostanze che trascendono spesso la volontà dei singoli individui. Dio invece conosce non soltanto ciò che è, ciò che è stato e ciò che sarà, ma anche ciò che sarebbe stato se si fossero verificate queste o quelle situazioni e tutte le possibili relazioni tra questi universi paralleli.12

In Malebranche assistiamo a qualcosa di più radicale: la follia e l’errore hanno in sé, alla loro origine, a fondamento del loro essere, una ragione logica, con un’indiretta motivazione morale: la semplicità delle vie che è però, nella sua struttura, razionale. Se l’esempio di Sesto Tarquinio della Teodicea si potesse trascrivere nel Trattato della natura e della Grazia la semplice conoscenza del futuro sarebbe stata sufficiente a Sesto per modificare il proprio carattere? Se no, Malebranche si tro-verebbe nuovamente di fronte al problema della responsabilità divina nei confronti dell’esistenza del male. La questione richiederebbe altri argomenti, legati alle tante questioni teologiche che videro l’Oratoriano combattere su più fronti. In termini generali possiamo sostenere che sì, se Sesto avesse avuto conoscenza non tanto del suo destino futuro ma avesse avuto conoscenza, razionale, logica della sua ambizione, avrebbe potuto cambiare il proprio destino. In fondo, l’ottimismo di Malebranche, se lo possiamo definire tale, è proprio qui: anche l’irrazionale ha spiegazione

11 G.W. Leibniz, Essais de théodicée, § 414-416.12 Il molinismo aveva definito teoricamente questo concetto con il termine di

scienza media. I Teologi comunemente distinguono in Dio due specie di scienza delle cose: la scienza dei possibili, detta scienza di semplice intelligenza, e la scienza delle cose esistenti definita come scienza di visione. A queste il molinismo aggiunse la scienza media secondo la quale Dio è in grado di vedere cosa accadrebbe ad una cosa reale posta in una situazione ipotetica.

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razionale del suo essere; da ciò però non consegue necessariamente ciò che sostenevano i manichei, ovvero l’esistenza del male quale principio di realtà. Il fatto che Dio per Malebranche non abbia realizzato il migliore dei mondi possibili, ma uno imperfetto per le vie più perfette possibili, indirettamente, mostra che l’imperfezione sfugge o che Dio la lascia sfuggire, alla sua scelta; se Dio avesse potuto fare un mondo perfetto per la via più semplice possibile, in esso tutte le varietà si sarebbero annullate, in quanto una differenza rappresenta sempre un limite – un mondo in cui è possibile la scelta è un mondo in cui esistono differenze e le differenze sono sempre limiti, confini, ma annullando il concetto di differenza si annulla anche quello di essenza. Le differenze tra un giglio bianco ed una rosa rossa sono gli stessi limiti che non permettono alla rosa di essere un giglio e viceversa: si è sempre differenti dagli altri nella misura in cui ciò che ci appartiene è anche ciò che ci rende differente dagli altri. Altrimenti detto: il problema della libertà umana e della scelta divina non ha a che fare solo con la ‘sostanza’ come riteneva Spinoza, ma pure con la ‘essenza’ come, giustamente, indicava Leibniz. Malebranche, suo malgrado, si trova spesso nel mezzo. La possibilità della scelta implica la varietà, la varietà la differenza, la differenza il limite (ciò che distingue, la linea di confine tra una cosa ed un’altra) e questo implica l’imperfezione, in quanto tutto ciò che è limitato è imperfetto. Dio avrebbe certo potuto creare un mondo perfetto per la via più semplice possibile ma lo avrebbe reso ‘in-differente’ (in tutte le accezioni del termine) e l’uomo indifferen-ziato (non potendosi distinguere una volontà dall’altra) al suo interno.

Una ragione non della totalità ma dei particolari, che può rifletter soltanto su idee di enti limitati, come è la ragione umana, non può che essere intellezione dell’imperfezione. La ragione umana è quindi una ragione dell’imperfetto, può avere idee (rappresentazioni) soltanto degli enti, non dell’Essere. Di fatto la visione dell’esteso intelligibile, come mostreremo, non è un’intellezione riflessiva ma una partecipazione estatica (nel senso etimologico di ‘esser fuori dai sensi’), una forma di contemplazione e, sotto certi aspetti, un atto mistico che potremmo anche definire intuizione indistinta della nostra possibilità di pensare. Messa così, Malebranche non avrebbe sostenuto una novità, ma la spiegazione razionale secondo lui non deriva soltanto dalla razionalità dell’analista, infatti fornire una spiegazione razionale del perché avviene qualcosa di irrazionale non serve a render quel qualcosa meno irrazionale. No, la spiegazione di Malebranche entra nel meccanismo e lo smonta. È pos-sibile dare una spiegazione razionale dell’irrazionale perché esiste una ragione dell’esistenza dell’irrazionale e perché, soprattutto, l’irrazionale è, nella sua struttura, razionalizzabile, comprensibile intellettualmente, anche se per comprenderlo si deve percorrere un itinerario contrario alla

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via più semplice possibile: insomma per comprendere l’irrazionale (che è l’effetto primo e principale della realizzazione per le vie più semplici) si deve compiere un percorso logico-concettuale inverso a quello della realizzazione per le vie più semplici. La comprensione dell’irrazionale però, non può coincidere con la razionalizzazione dell’irrazionale: non è perché vi può essere comprensione razionale della follia che la follia diventa razionale in sé. L’irrazionale resta ciò che è, non muta natura soltanto perché può esservi di esso un’intellezione. L’irrazionale è l’assolu-tizzazione del particolare: una follia se considerata oggettivamente (cioè, nello schema metafisico del sec. XVII, in relazione alle infinite catene di cause ed effetti che compongono l’universo, l’eternità, il reale ed il possibile) entra a far parte della totalità del pensabile e così relativizzato, diventerà razionalmente intelligibile: sarà l’inevitabile, logica, conseguen-za di un determinato stato di cose. Ciò però non rende una follia una follia meno folle ed un peccato meno peccato. All’interno di un quadro deterministico (come lo è in definitiva sia quello di Malebranche che quello di Spinoza e Leibniz) ogni ente ed evento ha una sua collocazione che non può essere altra e trova proprio in essa la sua ragion d’essere che non può essere altra. Lo stesso concetto di libero arbitrio, in un quadro teorico di riferimento rigidamente deterministico deve al determinismo inevitabilmente piegarsi.

La causa del male è nell’economia della realizzazione, la ragione di ogni singola realizzazione imperfetta, cattiva ed irrazionale in sé, può venir dedotta soltanto dando una spiegazione molto complessa della semplicità con cui tale cosa è stata realizzata, anzi tanto più l’irrazionalità di una cosa è semplice da realizzare, tanto più complessa è la catena di ragionamenti che la rendono intelligibile. E ciò avviene perché sempli-cità della realizzazione e varietà del realizzato sono in un rapporto non puramente matematico ma morale (altrimenti Dio avrebbe potuto creare un mondo monolitico per vie infinitamente semplici). Il male, il peccato, l’imperfezione, fin anche l’errore in generale, sono tali dal punto di vista morale (che sta a monte della razionalità); ma nell’ordine delle cause e degli effetti, nell’ordine della natura, e nell’ordine della natura umana, sono elementi perfettamente comprensibili razionalmente. L’uomo può quindi salvarsi nella misura in cui riconosce – e sa distinguere con l’intelletto e scegliere con la volontà – il razionale nell’irrazionale, la salvezza nel peccato, il bene nel male. L’uomo può salvarsi nella misura in cui comprendendo la ragione delle proprie passioni, della propria irrazionalità, le abbandona e si eleva a Dio.

Tutta la serie di circoli viziosi che la metafisica e la teologia positiva di Malebranche finiva, o poteva finire, per impelagarlo vengono risolti in un’ascesa mistico-razionale verso la divinità: un misticismo della ragio-

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ne, si è detto, un misticismo matematico – potremmo aggiungere – che riversa sul percorso umano quella semplicità delle vie che caratterizzava il percorso ‘realizzativo’ della volontà divina. È attraverso una compren-sione semplice, lineare, matematica, almeno come metodo, della propria natura che l’uomo può emendarsi dall’errore e, con l’aiuto della Grazia, dal peccato; ma anche il riconoscere che si ha bisogno della Grazia per potersi salvare è segno di una comprensione ‘anche’ razionale. È una psicologia del profondo quella della Recherche ma che tende a fornire risposte semplici e miranti tutte ad un unico obiettivo: l’emendazione dal peccato e l’ascesa alla comprensione della divinità. Ci possiamo quindi salvare con la Grazia, e cosa può fare la Grazia? Illuminarci e farci com-prendere il reale e quindi il razionale nell’irrazionale. L’uomo si trova a metà, in lui è presente sia il divino che il diabolico e lo strumento che la grazia usa per esaltare il bene ed annichilire il male è la comprensione razionale di tutto ciò che è del bene ma anche del male. Per questi motivi, se veramente vogliamo comprendere il pensiero di Malebranche dob-biamo renderci conto che il cartesianesimo (certamente rielaborato ma sostanzialmente accettato ed unito al platonismo agostiniano) vengono risolti in chiave mistica. Niente di più lontano quindi della teologia to-mista dal pensiero di Malebranche, in quanto per lui è la ragione stessa a condurci al misticismo: la ragione tanto più comprende quanto più ha idee semplici e la più semplice idea, quella che a rigore non potremmo neppure definire idea, ci fa comprendere Dio direttamente in sé: l’esteso intelligibile. La tensione verso il bene non ha una componente soltanto razionale per Malebranche, ma soprattutto una partecipazione emotiva. Il misticismo di Malebranche non è quindi un’applicazione al bene della razionalità matematica: bene e ragione matematica percorrono strade in parte diverse che però si avvicinano sempre più nella comprensione della divinità, nella contemplazione di Dio nell’Esteso intelligibile.

Dio ha un obiettivo (la realizzazione del mondo) ed un’infinità di modi (le vie) per realizzarlo. Egli sceglie i modi di realizzazione più sem-plici (quelli cioè che richiedevano un minor numero di azioni-creazioni). Ora: questi modi di realizzazione non sono indifferenti al risultato, ovvero al mondo realizzato. In che rapporto sta un modo di realizzazione rispetto al mondo realizzato? In un rapporto logico matematico dello stesso tipo che un’equazione, ad esempio, sta ai passaggi logici, che si richiede per risolverla? Se l’equazione misura la varietà e perfezione del mondo, Dio non elaborerà l’equazione perfetta in assoluto ma soltanto quella perfetta in rapporto ai passaggi richiesti per risolverla (ovvero per ‘realizzarla’). Si ritorna sempre lì: da un proposito razionale si finisce sempre per giungere all’irrazionalità del mondo imperfetto che abitiamo. La cosa interessante in Malebranche è che ciò avviene per una necessità razionale, logica,

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matematica e, soltanto in un secondo tempo, morale. Anche in questo Malebranche è allievo di Cartesio: come lui interpretata la geometria in termini algebrici e, in contrapposizione alla geometria magica di tanta filosofia rinascimentale, il mondo in termini geometrici. Eppure qualcosa mancava e l’Oratoriano lo avrebbe trovato soltanto in due correnti di pensiero ben differenti. Da una parte nel platonismo agostiniano ma, an-cor più, nell’esperienza mistica di San Bernardo di Clairvaux e, dall’altra, nella terza meditazione cartesiana. Si incorrerebbe quindi in un equivoco qualora si volesse mettere in relazione Malebranche a Spinoza soltanto delimitando la questione alla Ragione e alla Volontà.

L’equivoco nasce dal fatto che per Malebranche le verità eterne sono consustanziali alla divinità: ovvero che 2+2=4 vale sia per me che per Dio e che Dio non potrebbe cambiare questa verità senza nello stesso tempo cambiare la sua natura. La ragione umana non è quella divina solo per il fatto che ne rappresenta un’infinitesima parte. Senza accorgersene, oppure accorgendosene (ed allora ciò sarebbe avvenuto – secondo il Nostro – in mala fede) Spinoza ha ricostruito la Ragione divina partendo da quella umana: se la mia ragione pensa questo e quello allora la ragione divina deve pensare quest’altro ecc. Certo, non era il suo scopo. Spinoza secondo Malebranche, che spesso si è dovuto difendere da accuse di spi-nozismo, barava: cercava di capovolgere le carte in tavola e di nascondere i suoi veri scopi che erano di ridurre la divinità all’ordine dell’universo e, quest’ultimo, alla ragione umana.

In realtà, è la ragione umana ad essere un’infinitesima parte di quella divina e non possiamo in nessun modo farci un’idea del disegno divino partendo dalla ragione umana; in questo Malebranche è, più che spinoziano o tomista, cartesiano. Se quindi la strada che partendo dalla ragione umana cerca di ricostruire la ragione divina è errata, la strada che, partendo dalla ragione divina, giunge all’umana è impossibile, in quanto di Dio conosciamo solo un’idea, quella di estensione che, transitando dalla filosofia del maestro Cartesio a quella dell’allievo Malebranche, non è più neppure un’idea ma qualcosa di più rarefatto e, allo stesso tempo, qual-cosa dalla consistenza metafisica ben maggiore: l’estensione intelligibile.

Avvicinare Malebranche a Spinoza significa quindi non considerare il valore teoretico che le diverse finalità dei due sistemi comportano: se la ragione nei suoi stadi più ‘bassi’ è ragione geometrica, in senso assoluto è dissoluzione di tutte le forme, forme geometriche comprese. Un errore spesso commesso da chi studia Malebranche ‘a margine’ di altri filosofi (Cartesio, Spinoza, Leibniz, Locke, Hume, ecc.) consiste nell’interpre-tare l’esteso intelligibile come la Ragione divina, mentre ne rappresenta soltanto una forma particolare. Se l’esteso intelligibile fosse la Ragione allora come avrebbe mai potuto sostenere Malebranche una teoria come

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quella della semplicità delle vie? Se l’esteso intelligibile fosse la Ragione allora sì che dovremmo ammettere una ‘natura geometrica’ del pensiero divino, sì che potremmo ammettere un parallelismo tra il pensiero e la materia, un parallelismo che ci porterebbe alle stesse conclusioni a cui giunse Spinoza: consustanzialità tra pensiero e materia, in quanto ci deve essere una relazione di necessità tra l’ordine razionale del pensiero cre-ante e l’ordine razionale del mondo creato; da qui poi passeremmo in un lampo a considerare pensiero e materia non come sostanze differenti ma come differenti attributi di una stessa sostanza. Ma la teoria della sempli-cità delle vie sconfessa tutto questo; i casi possono quindi essere due: o Malebranche contraddiceva sé stesso (da cui un suo latente spinozismo) oppure realmente il concetto di Ragione divina, di esteso intelligibile, di rapporti tra pensiero ed estensione hanno una loro funzione specifica nel sistema metafisico dell’Oratoriano la cui motivazione non va cercata che in Malebranche stesso, non in Spinoza né, tanto meno, nel tomismo.

Ciò che in definitiva la teoria della semplicità delle vie negava era la pretesa ‘peseudo-razionalista’ (almeno del punto di vista dell’Oratoria-no) di fare della ragione divina una ragione geometrica. Per sostenere una tesi del genere dovremmo pensare tutte le idee di sostanza che Dio pensa e con le modalità con le quali Egli le pensa; dovremmo poter giudicare la sua ragione con la nostra, ma in quel caso saremmo anche in grado di pensare come Lui ed in Lui totalmente identificarsi. Un’in-sopportabile presunzione è insita in un tentativo che conduca, anche indirettamente, a conseguenze di tal genere. Qual è allora l’unica strada che si apre ad una prospettiva come quella di Malebranche? Proba-bilmente quella di un misticismo della ragione, ma di una ragione non geometrizzabile sebbene, in alcuni suoi esiti, geometrizzante: noi pensia-mo tutto ciò che pensiamo nella mente divina ma non in tutta la mente divina, bensì soltanto nell’idea di estensione della mente divina: quindi soltanto la nostra ragione è una ragione matematica, soltanto l’ordine che noi possiamo comprendere dell’universo è un ordine geometrico. Anche se la mente umana è soltanto ‘una porzione’ della divina e ciò che pensa lo pensa alla maniera divina, ciò che viene pensato non ha né potrà mai avere la stessa valenza in Dio e nell’uomo, perché mancano al secondo gli infiniti collegamenti e le infinite relazioni con cui legare quel singolo pensiero a tutti gli altri, molti dei quali sfuggono alla sua mente limitata, ma non a quella del Primo. Ciò che per noi è il tutto assoluto della ragione, in Dio è soltanto un’idea e relativo soltanto ad essa. Quindi considerare come geometrica la mente divina è, in fin dei conti, attribuire alla mente divina una caratteristica propria soltanto alla mente umana, è ridurre Dio all’esteso intelligibile, il pensiero divino alla sola idea di estensione.

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Perché mai Dio, che agisce sempre per le vie più semplici, deve pie-gare la sua volontà alla razionalità geometrica di una sola delle sue infinite idee? Se così facesse si comporterebbe in maniera irrazionale come un uomo che, pur avendo molte idee, finisce per agire sempre in relazione ad una sola idea. La fissazione su una sola idea è segno di follia. Ora, se Dio avesse creato un mondo perfetto in relazione alla sola idea di estensione, quindi un mondo geometricamente perfetto, sarebbe stato un folle. Egli, in fin dei conti, per creare un mondo geometricamente perfetto, avrebbe dovuto riordinare sé stesso e, quindi, modificare la sua stessa natura. Per creare un mondo geometricamente perfetto non soltanto non avrebbe agito per la via più semplice, ma addirittura per la via più complessa possibile e avrebbe finito per rendersi imperfetto.

La geometrizzazione del mondo condurrebbe quindi Dio a togliere l’imperfezione e l’irrazionalità dall’universo per doverle assumere su di sé. La ragione, per Malebranche, inizia sì con l’essere di natura matematica ma, elevandosi verso il proprio principio dissolve ogni forma ed ogni caratteristica particolare e, quindi, anche ogni caratteristica matematica della mente divina. La semplicità delle vie è una teoria che risponde quin-di ad una razionalità più elevata di quella geometrica a cui l’uomo può giungere soltanto attraverso un percorso che pur essendo iniziato con le matematiche, finisce per diventare mistico; l’uomo lo percorre sempre con un piede sull’idea dell’esteso intelligibile e della geometria e, con l’altro, sull’idea del bene e dell’idea della morte. Il misticismo di Male-branche quindi, a differenza del misticismo medievale, da cui comunque ha preso le mosse, non parte con l’elevazione dal mondo sensibile, non cerca l’astrazione dalla materia attraverso il pensiero, ma parte dall’idea di estensione, dalla geometria per giungere a Dio negando, non per astrazione (come avrebbe fatto un aristotelico) ma per ‘condensazione’ (il concretizzarsi dell’idea di Dio alla mente), ogni forma (geometrica) particolare di pensiero, ovvero ogni idea (rappresentativa).

Malebranche in questo ha mostrato coerenza; per lui, soltanto col cartesianesimo ci si può dire veramente cristiani, perché il cartesianesimo ha epurato la materia da ogni tratto di antropomorfismo e di idolatria; inoltre, pensiamo in Dio, ma non pensiamo come Lui perché la nostra comunione con la divinità non riguarda tutta la mente divina ma sol-tanto un’idea, quella di estensione. Al vero cristiano Malebranche non resta allora che contemplare nelle matematiche (oltre che nelle Scritture ovviamente) Dio – sapendo però che Dio non è un’equazione, che la sua natura, la sua bontà ed il suo giudizio, travalicano infinitamente la ragione umana ed i suoi prodotti, che la riflessione razionale è certo una forma di preghiera e di comunione con la divinità ma che – di pari passo – con essa si deve volgere la propria anima al bene, emendandola

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così dal perseguimento di fini, passioni e desideri legati al corpo. Il Bene infatti, come la Ragione, può esser tale soltanto se è un bene assoluto, se si rivolge direttamente a Dio e non si arresta alle creature, altrimenti diventa causa efficiente del peccato e dell’idolatria.

2. Esteso intelligibile e rappresentazioni

L’estensione senza limiti in grado di accogliere ogni forma altro non è che la versione ‘teologica’ dell’idea (cartesiana) chiara e distinta di estensione: l’esteso intelligibile diventa l’intellezione divina dell’estensio-ne: «Dieu a dans lui même l’idée, par exemple, d’étendue; et cette idée est incorruptible. Il a voulu qu’y eut des êtres étendues, et ces êtres ont été produits.»13 Dunque, si deve fare una netta distinzione tra ciò che appartiene alla sostanza divina e ciò che invece dipende da un suo atto di volontà (la realtà dei corpi). L’idea di estensione appartiene alla sua essenza, invece l’esistenza dei corpi è soltanto un effetto della sua volontà. L’idea non è corruttibile, in quanto appartiene alla sostanza divina, mentre i corpi lo sono. L’idea di estensione ha un carattere differente dalle idee degli enti particolari; essa ha i caratteri della necessità e dell’assoluto men-tre le idee dei corpi sono contingenti e relative a particolari percezioni. L’esteso intelligibile assolve agli stessi compiti dell’idea chiara e distinta di estensione di Cartesio: ciò che muta è la collocazione ontologica, non più nella ragione umana ma in quella divina, e non è un particolare pur nella sua universalità ma un universale (pur nella sua particolarità) che permette di rappresentarsi qualsiasi oggetto esteso.

L’immaginazione è la facoltà umana di rappresentarsi i corpi (av-vicinabile in parte all’intelletto attivo dei neoplatonici) e la ‘superficie’ ove questa operazione avviene è appunto l’esteso intelligibile. Si è spesso parlato di un ‘anticartesianesimo’ di Malebranche, di una matrice aristote-lica del suo pensiero,14 ma si è potuto sostenere ciò soltanto non tenendo conto che per Malebranche pensare non implica necessariamente pensare idee di enti particolari. Mentre per gli aristotelici – seguiti non sempre consapevolmente da Arnauld e dagli empiristi – pensare è sempre pensare attraverso rappresentazioni, più o meno definite, per il Nostro pensare è soprattutto ‘dissolvere la propria coscienza nell’esteso intelligibile’, pensare il niente rappresentativo nel ‘tutto concettuale esteso’, nell’idea che dell’estensione ha Dio. Annullare i propri sensi e contemplare, in maniera assolutamente intellettuale, quel nulla immaginativo (ma che

13 N. Malebranche Conversations chrétiennes, Gallimard, Paris 1979, p. 65.14 M. Blondel, L’anticartésianisme de Malebranche, «Revue de Métaphysique et de

Morale», 33, 1916, 1, pp. 1-26.

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è in potenza anche il tutto rappresentativo) non iconico, della sostanza divina (almeno per quel che è possibile all’uomo) è per Malebranche la fonte del pensare umano e, contemporaneamente, il suo vertice più alto. Quando Laporte sostiene che Malebranche è stato costretto a reintrodurre ‘qualcosa di umano’ nell’idea di Dio per non identificare il suo pensiero con Spinoza, commette lo stesso errore che Malebranche imputa ad Ar-nauld e agli empiristi: l’Oratoriano non soltanto non reintroduce niente di umano in Dio ma al contrario epura ogni antropomorfismo dal concetto di divinità. È soltanto facendo ricorso alla fede che Malebranche può, in definitiva, restare cristiano: infatti è anche per questo che, nonostante tutto, resta un mistero il dogma dell’incarnazione, del Dio fattosi uomo. La ragione che osserva il mondo con gli occhi della scienza moderna ci pone di fronte ad un concetto matematico della divinità, concetto che potrebbe farci capitolare nello spinozismo che identifica Dio con l’ordine universale, ma la fede ci pone davanti ad un altro ‘fatto metafisico’, ovvero che accanto alla ragione vi è un altro elemento che regge l’universo: il Bene.15 In nessun modo per Malebranche il Bene è riducibile a raziona-lità. Intelletto e volontà sono facoltà distinte, Ragione e Bene due valori all’unisono assoluti, ma per vie e con modalità differenti: Dio è sommo bene e ragione assoluta ma non è riducibile a questi né ad altri attributi.

Contro Spinoza, attributo della divinità non è l’estensione ma soltanto l’idea di estensione, e ciò che conosciamo di Dio è appunto l’esteso intelli-gibile e non sappiamo in quale rapporto esso stia con gli altri attributi della sostanza divina che sono infiniti e totalmente sconosciuti all’umanità. Per questo Malebranche sosterrà con forza che non dobbiamo ridurre l’idea di Dio che Dio ha di sé stesso all’idea che noi abbiamo di Lui attraverso l’esteso intelligibile. Può anche darsi che l’idea di estensione non sia un attributo della sostanza divina, ma una caratteristica che si pone su un livello più basso di un attributo divino. Mentre per Spinoza gli attributi erano ‘legati’ da una logica per cui, su una scala ontologica, essi si cor-rispondono; per Malebranche questa corrispondenza geometrica tra gli attributi divini, ricostruita sulla geometria umana, non ha alcun senso. Anche se l’estensione fosse un attributo divino, cosa che Malebranche esclude, Dio non sarebbe necessitato a far corrispondere ad una cosa una rappresentazione nella sua mente; non c’è nessuna necessità logica affinché questo accada, ma soltanto una necessità metafisica di chi, come Spinoza, vuol rifiutare l’antropomorfismo superstizioso ma soltanto al costo di sostituirvi un antropomorfismo geometrico fondato sul paralle-lismo degli attributi.

15 Si veda a tal riguardo soprattutto il libro IV de La Recherche de la Vérité di Malebranche.

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In fin dei conti Spinoza stesso, resta in una forma di antropomorfi-smo non più dell’immaginazione (come nel superstizioso e nel pagano) ma dell’intelletto, per questo, Malebranche può dire che Spinoza è ateo anche dal punto di vista metafisico: si può pensare pur senza pensare niente di determinato e, se questo è possibile a noi, sebbene soltanto tramite Dio ed in Dio, a maggior ragione è possibile a Dio che pensa in sé stesso, nella sua immensità che non è necessariamente geometrica, così come non è necessariamente iconica. Soltanto la contraddittorietà è esclusa. Se Dio avesse un’essenza geometrica, egli si identificherebbe con i corpi, in quanto per i corpi l’essenza è cartesianamente geometrica. Supporre che l’estensione sia un attributo della sostanza divina conduce fatalmente a questa conclusione; il fatto che Malebranche abbia negato un Dio more geometrico, potrebbe voler dire soltanto che si è fermato un passo prima di Spinoza ma che, se fosse stato costretto a compiere quel passo, avrebbe proceduto nella direzione di Spinoza.

Ciò che ha indotto molti a ritenere che Malebranche procedesse verso una metafisica anti-teologica è il fatto che l’esteso intelligibile è l’idea di estensione della mente divina e che per Malebranche l’idea di estensione doveva venir intesa in senso cartesiano, l’essenza dell’idea di estensione essendo espressa da verità matematiche. Tutto vero, indubbiamente; ciò che invece non è vero è quel che normalmente si fa seguire a queste con-statazioni e cioè che Malebranche riduce, o finisce per ridurre, il pensiero divino all’estensione intelligibile. Non si può ridurre l’essenza divina ad una soltanto delle infinite idee (o, meglio, ‘modificazioni’) che ne compongono la Mente, che potrebbe anche avere idee del tutto differenti dall’esteso intelligibile. Il concetto fondamentale della metafisica malebrancheana è che si può pensare pur non pensando nessuna immagine: non tenendo conto di questo, e di come per Malebranche ciò sia possibile (con l’esteso intelligibile), sfugge la particolarità e la grandezza di questo filosofo.

Cartesio aveva proposto la possibilità di una separazione comple-ta, assoluta, dai contenuti sensibili nella Terza Meditazione e, da lì, era giunto alla differenza assoluta tra la sostanza pensante e quella estesa; in questo, Malebranche è cartesiano. Nella possibilità del pensiero senza il tramite della rappresentazione Malebranche vede aprirsi la porta per un vero misticismo cristiano. Il misticismo medievale era ancora legato alla concezione rappresentativa del pensiero, concezione su cui aveva pesato molto più Aristotele che non Platone, e anche per i neoplatonici si trattava di un Platone, da questo punto di vista, ‘aristotelizzato’.

Così, l’esclusione del sensibile dall’immagine diventava la via per l’astrazione.16 Il punto di partenza erano i sensi e si avviava una proce-

16 Ovviamente il mio non è un personale giudizio critico-storiografico sul misticismo

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dura di epurazione del concetto dai suoi rivestimenti ‘corporei’, fino ad arrivare alla completa astrazione. Malebranche attraverso Cartesio cerca la strada per Dio non nell’astrazione dell’immagine ma nella negazione dell’astrazione stessa. La sensibilità non è più il punto di partenza da cui distillare il sapere astratto. Nessuno prima di Cartesio aveva posto in dubbio il fatto che pensare era pensare per immagini. Si doveva partire dall’immagine e, astraendo da essa, arrivare alla pura concezione della divinità. Il misticismo medievale era in fin dei conti una ‘distillazione’ razional-religiosa del pensare per immagini così come inteso da Aristote-le. Nel De Anima infatti si sostiene che: «L’anima non pensa mai senza un’immagine mentale»;17 ed ancora «La facoltà pensante pensa le sue forme in immagini mentali»;18 «Nessuno potrebbe mai imparare o ca-pire qualcosa, se non avesse la capacità della percezione, anche quando pensa speculativamente deve avere alcune immagini mentali con cui pensare.»19 San Tommaso condivide tale concezione affermando che «l’uomo non può conoscere senza immagini; l’immagine è il simulacro di una cosa corporea, ma la conoscenza intellettuale è di universali che devono essere astratti dai particolari»,20 «Nihil potest homo intelligere sine phantasmate.»21 Seguendo invece la via di Platone proseguita da Sant’Agostino, Cartesio prima (nella Terza Meditazione) e Malebranche poi (con quello che abbiamo definito l’esercizio dell’esteso intelligibile)22 negano le modalità ‘scolastiche’ di concepire il pensiero: l’universale non deve essere astratto dal particolare, semmai l’universale è ciò che deve po-ter rendere pensabile il particolare. L’esteso intelligibile, così come l’idea di estensione, non si astrae dal particolare negandone le caratteristiche sensibili: è un universale che permette di pensare le immagini dei corpi e senza le immagini si può arrivare all’essenza stessa del pensiero. Si deve allora analizzare il rapporto che sussiste tra l’idea pura dell’estensione e le idee dei corpi, ove la prima non ha un carattere iconico ma permette

o sull’aristotelismo; mi sto riferendo alla concezione che dei filosofi, quindi anche dei mistici, Malebranche dà all’inizio della sua opera principale: con la sola, ma rilevante, eccezione di Sant’Agostino, tutti gli altri avevano condiviso con l’aristotelismo una stessa mentalità che faceva il fulcro di ogni loro metafisica il concetto di astrazione (per come viene poi analizzato e criticato nei sei libri de La Recherche) dal sensibile verso l’intellet-tuale, e ricavando (per astrazione appunto) il secondo dal primo.

17 Aristotele, De Anima, 432 a 17.18 Ivi, 431 b 2.19 Ivi, 432 a 9.20 Thomas Aquinas, In Aristotelis libros De Sensu et Sensato, De memoria et remini-

scentia Commentarium, ed. R. M. Spiazzi, Marietti, Torino-Roma 1949, p.85.21 Ivi, p.92.22 P. Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, cit., capitoli:

Esteso intelligibile, idea della morte ed idolatria; L’origine dell’idolatria.

27Il misticismo della ragione. Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche

alle altre di averlo. In questo caso può venirci in soccorso l’Alquié che ben riassume la questione:

Ce qui, en réalité, lui permet d’éviter le spinozisme, c’est la substitution, à la théorie médiévale d’une substance participable, de la conception cartésienne de l’idée comme représentative. L’étendue intelligible dévient alors, à propre-ment parler, une pensée de Dieu, et cette pensée se réfère à autre chose qu’elle, à savoir à l’être des créatures produites par Dieu hors de lui. Malebranche, il est vrai, semble en cela jouer sur deux tableaux, comme le remarque fort bien M. Gueroult23: il considère tantôt l’étendue intelligible comme chose aperçue, tantôt comme moyen d’apercevoir les choses. Et c’est pourquoi, au XVIIIe siècle, de nombreux penseurs estimeront ne pouvoir comprendre la théorie de Male-branche qu’en la ramenant à celle de Spinoza. Si au contraire, on veut séparer le malebranchisme du spinozisme, il faut considérer que l’expression ‘étendue intelligible’ est rigoureusement synonyme d’idée de l’étendue et invoquer, pour l’expliquer, l’analogie de la représentation humaine.24

Ciò che qui si vuol chiarire è se l’uomo si rappresenti o si possa rappresentare la divinità, se l’immaginazione entri direttamente o, più plausibilmente, indirettamente anche nella vera cognizione della Divinità, se si possa considerare la prova di ‘semplice visione’ (la coscienza che si può avere dell’esteso intelligibile) come contaminata dall’immaginazione. La prima questione sollevata dall’Alquié è che l’esteso intelligibile sembra essere a volte entità, altre volte modo, in ciò parrebbe esserci contrad-dizione. L’estensione intelligibile è ad un tempo entità e modo; se penso all’esteso intelligibile è ovvio mi riferisco a qualcosa; ma sotto un altro

23 Gueroult, da parte sua osserva che spesso in Malebranche l’assimilazione dell’idea a un pensiero di Dio è soltanto un ‘trompe d’oeil’. Si veda M. Gueroult, Malebranche, Aubier, Paris 1955-1959, vol. I, p. 163. «En bien des textes, l’idée est en Dieu et pour Dieu, non pensée représentante, mais chose représentée. Elle parait ainsi comme une sorte de Janus bifrons… Sous une face… elle est entièrement rejetée du coté de l’intel-ligence… sous une autre face elle est réalité, quoi qu’on dise, substantielle, de laquelle participent les corps créés… elle est entièrement rejetée du cote de l’étendue… D’où les deux dénominations d’idée d’étendue et d’étendue intelligible’» Ivi, p.174. Su queste affermazioni di Gueroult Alquié osserva che «Ces justes remarques mettent en lumière le fait que Malebranche n’a résolu ni en Dieu, ni en nous, le problème: comment l’esprit peut-il se représenter l’étendue, dont la nature lui est radicalement hétérogène? L’idée, nécessaire intermédiaire entre le pensée et l’étendue réelle, se trouve donc tantôt définie du coté de la pensée, et tantôt du coté de la chose. Mais come remarque encore Gueroult, ‘une équivoque ne saurait résoudre un problème, et si l’étendue intelligible se définit par des propriétés qui excluent celles de toute pensée, il ne suffit pas de la concevoir comme immatérielle et de la dénommer Idée pour instaurer entre cette étendue et l’âme la commune mesure souhaitée’» F. Alquié, Le Cartésianisme de Malebranche, Vrin, Paris, 1974, p. 214.

24 Ivi, pp. 214-215.

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aspetto, esso sta per la possibilità di riferirsi alle cose, infatti se percepisco un oggetto la sua idea, che poi è la sola ‘cosa’ che percepisco, prende posto dentro questa estensione intelligibile, vi si dipinge ‘sopra’. Infatti possiamo pensare gli oggetti soltanto come estesi, e per poterli pensare li collochiamo in questo spazio ideale. Se invece consideriamo l’esteso intelligibile come entità allora è un pensiero che rappresenta sé stesso.

Possiamo considerare quindi l’esteso intelligibile come l’idea dell’estensione ma, dobbiamo precisare, correggere in parte ed in parte circoscrivere il senso di quanto affermano Alquié, Gueroult e Laporte:25 l’analogia che ci permette di comprendere l’idea di estensione (come l’esteso intelligibile) non è con la rappresentazione umana, ma con la negazione di ogni rappresentazione umana (cioè limitata), come sostiene Malebranche; sebbene in sé non sia un’idea per negazione, così come la rappresentazione della sedia nega la rappresentazione della tavola pur non contraddicendola.

L’immaginazione – ovvero la facoltà produttrice di rappresentazioni – nasconde l’essenza del pensiero che ‘produce immagini’, cioè l’idea stessa dell’estensione. Ed ecco che qui si ritorna a quanto sosteneva Cartesio nelle lettere alla principessa Elisabetta: l’immaginazione ci occulta la visione della terza nozione primitiva dell’unione anima-corpo.26 Per Malebranche l’unione che viene coperta dall’immaginazione è un’altra, quella con Dio, l’unione intelletto (cioè l’Intelligenza dal punto di vista della coscienza) estensione intelligibile. Con l’esperimento dell’esteso intelligibile la coscien-za umana si annulla nel pensare di Dio. L’idea di estensione è tale allora soltanto in senso derivato, cioè se si considera l’esteso intelligibile non in rapporto a Dio ma in rapporto ai corpi. L’idea di estensione è la possibilità di pensare i corpi, l’esteso intelligibile è pensare (dal nostro punto di vista limitato) Dio in Dio: cioè l’esatto contrario delle idee (come rappresenta-zioni particolari).27 Il concetto di idea come archetipo della cosa, presente

25 Alquié, Le Cartésianisme de Malebranche, cit.; Geroult, Malebranche, cit.; J. Laporte, La liberté selon Malebranche, in «Revue de Métaphysique et de Morale», XLV, 1938; V. Delbos, Ètude sur la philosophie de Malebranche, Vrin, Paris 1924. Si consulti inoltre il recente testo: R. Carbone, Infini et science de l’homme, Vrin, Paris – Naples 2007.

26 R. Descartes, Œuvres, publiées par C. Adam et P. Tannery, Cerf, Paris 1897-1913, t. III, pp. 663-668, pp. 690-695.

27 «Quindi noi vediamo i corpi e le loro proprietà in Dio e attraverso le loro idee; per questo la conoscenza che ne abbiamo è molto perfetta; voglio dire che l’idea che abbiamo dell’estensione basta a farci conoscere tutte le proprietà di cui l’estensione è capace» (N. Malebranche, La ricerca della verità, trad. it. a cura di M. Garin, Laterza, Bari 1979, pp. 229-230). Anche in questa citazione si espone molto bene che pensiamo i corpi attraverso l’idea di estensione e che essa basta a farci conoscere tutte le possibili modificazioni delle forme dei corpi, essa è cioè la possibilità stessa della rappresentazione della forma (geometrica).

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nella Mente divina proprio perché non applicato ed applicabile alle idee a carattere iconico, è l’elemento che permette di potercele rappresentare: archetipo di sé stesso, forma che nega sé stessa, cioè si libera dei limiti (geometrici) che la facevano essere propriamente una rappresentazione e, così facendo, si assolutizza. L’esteso intelligibile come visione di Dio è dunque l’esatto contrario della rappresentazione, mentre in quanto visione in Dio delle idee è la condizione a priori di ogni possibile rappresentazione.

Nella definizione ‘nominale’ dell’idea di estensione attraverso le verità matematiche, il concetto di estensione, l’idea dei corpi perde, o sembra perdere, anche quell’ultimo residuo di rappresentatività immaginativa che ancora la figura geometrica portava in sé. Con questa definizione puramente ‘nominale’ il problema però non viene risolto ma spostato sulla natura dei numeri, sull’intuizione delle verità matematiche ecc. Nessun pensiero, nessun concetto ha nell’esteso intelligibile, priorità sugli altri.

C’est ce que n’hésite pas a faire Laporte. Malebranche déclare que ‘les grandes parties intelligibles ne tiennent point plus de place que les plus petites, puisque ni les unes ni les autres n’occupent aucun lieu’ (Œuvres, VI,211) affirme n’avoir jamais pensé ‘que l’idée de longueur, largeur et profondeur fut longue, large et profonde, ou que le corps intelligible fut matériel, plus grand dans un plus grand espace que dans un plus petit’ (Œuvres, VI,242) L’extension des corps intelligibles n’est donc pas locale, le cercle intelligible n’est pas le cercle matériel, ‘les dimensions intelligibles… n’occupent aucun lieu’. Commentant de telles formules, Laporte est conduit pour les éclairer, à faire appel à la psy-chologie: ‘le propre de l’image, disent volontiers les psychologues, est de n’être pas localisable. Quand je me rappelle les rues d’une ville parcourue l’an passé, ou bien que je me forge des scènes de bataille, une tempête, une fête dans un palais, ces tableaux, vastes ou réduits, ne s’intègrent pas à ce que j’appelle l’espace réel. Je ne les situe pas à ma droite ou à ma gauche, au-dessus ou au-dessous de mon horizon… Quelle que soit leur ampleur, ils ne tiennent pas de place. Ainsi est-il, pour Malebranche, des corps intelligibles’. (Laporte, Etudes, p.180) Del-bos remarquait déjà que ‘l’étendue intelligible, c’est la substance divine en tant que représentative des espaces, et non en tant que répandue dans des espaces immenses’ (Delbos, Etude, pp.189,190) Mais Laporte va plus loin, en assimilant ici représentation et image. Laporte, pour expliquer comment Malebranche peut dire à la fois que Dieu contient l’étendue et que, pourtant, il n’est matériel, est donc amené à comparer l’étendue intelligible à la représentation humaine, et même à prendre cette dernière au niveau de l’image. A la notion d’une étendue intelligible conçue comme réalité participable par les corps se substitue alors la notion d’une image représentant les corps. Ne peut-on en conclure que Malebranche n’échappe au spinozisme qu’en mettant en Dieu quelque chose d’humain, en réintroduisant en lui le cogito lui-même?28

28 Alquié, Le cartésianisme de Malebranche, cit., p. 215.

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Laporte parrebbe ragionare ancora da una prospettiva che, in senso lato possiamo definire aristotelica. L’affermazione di Malebranche che le parti più piccole dell’esteso intelligibile non occupano più spazio delle più grandi, è motivata non in quanto i rapporti tra le immagini non differiscono per il luogo (mentale) che occupano, ma per i rapporti di grandezza, definibili in termini rigorosamente matematici, che le immagini riducibili a figure geo-metriche hanno tra loro. Assunta una prospettiva occasionalista, si conclude che anche i corpi non hanno una loro grandezza intrinseca ma soltanto quella data dai rapporti matematicamente definibili che intrattengono tra loro. È questa una completa negazione dell’aristotelica teoria dei luoghi. Un luogo è infatti per Aristotele una realtà per sé stante. Per Malebranche non soltanto tale teoria non ha nessun valore scientifico, ma neppure metafisico. Male-branche non ha mai cercato di ‘entificare’, ipostatizzare, l’esteso intelligibile: esso non è un luogo mentale infinito in cui possono prendere posto tutte le idee possibili. L’esteso intelligibile non ha estensione (mentale) in sé ma ha la capacità di dare estensione (mentale) a qualunque idea. È la modalità della percezione delle idee e, in quanto ente percepito, è percezione di sé stesso; ovvero il modo in cui la mente limitata dell’uomo – ontologicamente parte della mente divina ma gnoseologicamente separata da essa – percepisce la propria modalità del percepire. Un pensiero di tal fatta non può che essere un pensiero vuoto di qualunque contenuto particolare. Dio non è un ente matematico: le verità matematiche sono espressione, caratteristiche della razionalità dell’idea di estensione della mente divina e non, come potrebbe pensare uno spinozista, che la divinità ha una natura matematica; l’esteso intelligibile in sé non ha limiti e quindi, propriamente, neppure definizio-ne. Se però vogliamo utilizzare una formulazione scolastica possiamo dire che, pur non avendo nessuna estensione mentale determinata in sé, l’esteso intelligibile ha comunque una realtà oggettiva assoluta: è l’idea che più di ogni altra rappresenta una sostanza, l’idea di estensione propria della mente divina che non ha forma né figura.

Come tiene a precisare Malebranche, più che infinito l’esteso in-telligibile è indefinito. Sono le idee (le rappresentazioni a ‘struttura’ logico-geometrica degli enti particolari) che accoglie in sé a darne una forma; forma che subito muta col pensare ad altre idee e, se è infinito, è soltanto perché può dar forma ad infinite idee e anche ad idee infinite. Se proprio vogliamo possiamo dire che è il luogo dell’intuizione, il luogo dell’intuizione dell’idea di estensione in Dio, il luogo di intuizione delle verità matematiche, fin anche il luogo in cui si intuiscono, si producono le rappresentazioni dei corpi.

Le immagini dei corpi però non occupano nessun luogo (mentale) a sé stante così come gli oggetti fisici non hanno una loro collocazione reale né, tanto meno, un loro luogo naturale al quale ‘spontaneamente’ (e l’eco

31Il misticismo della ragione. Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche

aristotelico di queste parole è voluto) tendono a tornare o tendono a re-stare. Dato che l’esteso intelligibile è l’idea dell’estensione che ha la Mente divina, se una rappresentazione occupasse più spazio mentale di un’altra vi sarebbe nella sostanza estesa un oggetto grande o piccolo in sé – e questo ‘in sé’ verrebbe dato all’oggetto dal luogo reale che occupa o, meglio, che occuperebbe. Le idee di enti estesi inoltre, se così fosse, avrebbero al loro interno il principio del loro essere, perché soltanto così potremmo spiegarci come un’idea sia (e risulterebbe un assurdo) più grande o più piccola in sé di un’altra, soltanto facendo di ogni idea un luogo mentale – dandogli cioè una sua precipua, stabile e fissa estensione mentale potremmo comprendere che una rappresentazione è grande o piccola in sé e per sé stessa.

Questa ipostatizzazione delle idee di enti finiti è quanto di più lontano da ciò che Malebranche voleva sostenere. Egli vi si è sempre opposto in quanto sarebbe la premessa all’entificazione dell’esteso in-telligibile, al fare cioè dell’esteso intelligibile una tabula in cui, come in un puzzle, si vanno ad incastrare tasselli (le rappresentazioni dei corpi) che hanno una loro ben definita grandezza. Alla fine la composizione di tutte le tessere andrebbe a coincidere per estensione con la tavola sulla quale sono state disposte. In definitiva, idee dall’estensione mentale ben definita andrebbero a trovare il loro luogo in una mente essa pure di grandezza ben definita: ogni idea avrebbe un suo preciso luogo mentale in cui collocarsi. Si produrrebbe così un’entificazione dei luoghi mentali, cioè di un luogo che esiste per sé anche senza niente che lo occupi, ma anch’esso delimitato; da qui si ritornerebbe ad una variante ‘pseudo-occasionalista’ della teoria aristotelica dei luoghi: come ogni idea ha un suo ben preciso luogo mentale in cui collocarsi, così anche gli oggetti che le idee ci rappresentano devono avere un loro luogo naturale, un posto in cui devono adagiarsi. Bisognerebbe dimostrare come idea della mente ed oggetto nella natura siano legati, come siano somiglianti, una somiglianza in grado di ‘migrare’ dall’oggetto percepito al soggetto percipiente, una somiglianza che comunque dovremmo presupporre dato che sia l’idea nella mente sia l’oggetto nella natura occupano un loro spazio, hanno un loro luogo ben determinato. Paradossalmente, se un pericolo di tornare ad Aristotele c’è, allora è più in Spinoza che non in me, argomenterebbe un redivivo Malebranche in vena di polemica: lui (Spinoza) – non io – ha sostenuto il parallelismo psico-fisico, lui ha sostenuto che l’estensione è un attributo divino, io ho soltanto detto che noi pensiamo le idee degli enti finiti nella divina idea di estensione. Malebranche è quindi cartesiano su una questione non soltanto apparente, come voleva Blondel29 che fosse il suo cartesianesimo, ma fondamentale.

29 Blondel, L’anticartésianisme de Malebranche cit., pp. 21-26.

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L’esteso intelligibile è la ‘superficie indefinita’ sulla quale si distendo-no le immagini definibili e se si vuol comprenderlo, si devono eliminare dal pensiero tutte le immagini; esso è quindi la negazione delle immagini pur rendendole possibili. L’esteso intelligibile non ha però una misura fissa ma, come le maree, espande o restringe la sua superficie all’alzarsi e all’abbassarsi dell’oceano delle rappresentazioni. La nostra esperienza sensibile non è relativa ai corpi reali, ma alle idee dei corpi; la sensibilità, in altri termini, non si ‘distende’ sui corpi reali (il che riproporrebbe la tesi della sostanza per partecipazione) ma prende forma dalle idee che si generano nell’esteso intelligibile. La nostra esperienza sensibile non è dunque localizzabile, la memoria ricostruisce le immagini della realtà percepita in modo tale che si potrebbero anche invertire alcuni aspetti di ciò che fu percepito: se per esempio, devo ricordare una strada che finisce in una piazza posso sostituire l’immagine della piazza con quella di un muro; non c’è quindi una struttura spaziale statica. È l’immaginazione che nella memoria ricostruisce la rappresentazione come più l’aggrada, o per quanto può.

Cerchiamo di riassumere. Innanzi tutto Dio è l’infinito (e gli ‘infiniti’ infiniti) e l’infinito non può venir rappresentato da un’immagine che, per esser tale, deve essere limitata: «Per Divinità noi intendiamo tutto l’infinito, l’Essere senza limitazioni, l’essere infinitamente perfetto. Ora, nulla di finito può rappresentare l’infinito».30 Dio non è rappresentabile perché ci si può rappresentare soltanto l’estensione creata.

L’estensione creata è rispetto all’immensità divina, quello che è il tempo rispetto all’eternità. Nell’immensità di Dio tutti i corpi sono estesi, così come nella sua eternità tutti i tempi si succedono. Così come è sempre tutto ciò che è senza alcuna successione temporale, così egli pervade tutto con la sua sostanza senza alcuna estensione locale. Come nella sua esistenza non esiste né passato né futuro, perché tutto è presente, immutabile, eterno; così nella sua sostanza non c’è né grande né piccolo, perché tutto è semplice, uguale, infinito.31

Si può quindi predicare di Dio l’estensione ma non l’estensione che a noi è dato intuire così come le forme geometriche, gli oggetti nell’esteso intelligibile. Possiamo rappresentarci soltanto l’estensione locale (e uno specifico intervallo di tempo): un’immagine ci mostra l’oggetto esteso, una successione strutturata di immagini ci fornisce la concezione mnemonica del tempo. Dio pur conoscendo il nostro punto di vista ne adotta un altro, assoluto e non ‘ricostruibile’ per analogia dalla prospettiva umana. Dio è

30 N. Malebranche, Colloqui sulla metafisica, la religione e la morte, a cura di R. Crippa, Zanichelli, Bologna 1963, p. 228.

31 Ivi, p. 233.

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in tutto l’universo in quanto è creatore dell’universo e l’universo è in lui, ma non è ogni singola cosa pur essendo anche in ogni singola cosa. Detto in altri termini: la somma di tutti gli enti estesi dell’universo non è ancora l’attributo di estensione divina. «Dio infatti non è contenuto nella sua opera, ma la sua opera è contenuta in lui e sussiste nella sostanza divina, che la conserva con la sua efficacia onnipotente.» 32 In Dio la materia non è un attributo necessario, Dio l’ha creata – quindi – ne è la causa e ne penetra l’essenza ma, non per questo, Dio è materiale alla maniera dei corpi; in Dio infatti la materia non ha parti.

L’intelligenza è un attributo necessario di Dio, in quanto ne de-termina l’essenza, la materia no. Il pensiero puro, non rappresentativo non è assenza di pensiero ma assolutizzazione dello stesso. Il soggetto pensante può negare il pensiero di tutti i corpi senza per questo negare il pensiero, anzi affermandolo nella sua assoluta e divina infinità. Ora, se Dio può negare qualcosa senza negare sé stesso ciò significa che si è evitata ogni possibilità di spinozismo33; infatti se materia e pensiero fossero soltanto attributi della sostanza, Dio negando un qualunque oggetto, o una qualunque idea, annullerebbe con essa ed in essa sé stesso, ma ciò è contraddittorio; d’altra parte, Dio potrebbe pensare soltanto a sé stesso nella sua purezza e negare l’universo, che finirebbe di esistere. Con ciò non finirebbe però di esistere Dio. Come afferma Malebranche, le cose esistono perché Dio le ha volute, non sono quindi né suoi attributi né sue modalità, ma soltanto attualizzazioni del suo pensiero. L’idea di estensione può, in una vaga accezione, dirsi attributo della Sostanza divina, ma solo in quanto è parte di un attributo ‘vero’ della Sostanza stessa, sebbene non sia di essa ‘rappresentativa.’ Parafrasando Cartesio: l’idea di estensione, l’esteso intelligibile non ha, nella mente divina, la stessa realtà obiettiva dell’idea di Dio, dell’idea cioè che Dio ha di sé stesso. La materia però non è un attributo dell’idea di estensione e neppure le idee degli enti ma-teriali sono attributi dell’idea di estensione (o dell’esteso intelligibile che dir si voglia), ne sono anzi la negazione e, quella, la negazione di queste.

32 Ivi, p. 232.33 «Ciò che dite mi fa comprendere chiaramente che quell’empio moderno, il

quale faceva dell’universo il proprio Dio, era in realtà senza Dio. Era un vero ateo. Ma non so che pensate di tanta brava gente che non meditando abbastanza, ha sulla divi-nità idee tanto indegne di Dio. Tutto ciò che sanno è che il loro Dio non è l’universo ma il Creatore dell’universo; e questo sarebbe ancor molto, se si fermassero qui, senza corrompere la nozione dell’infinito.» Ivi, p. 239. Anche qui Malebranche dà di Spinoza un’interpretazione riduttiva e, in fin dei conti, inesatta, ciò è comprensibile se si tiene presente che, come osserva Gouhier (H. Gouhier, La philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, Vrin, Paris 1926, p. 372), Malebranche si riferisce più che a Spinoza allo spinozismo quale a lui veniva obiettato.

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L’estensione come attributo di Dio non ha quindi la caratteristica della divisibilità; ciò che è divisibile può venir circoscritto, dalla mente umana, entro un contorno che funga da cornice; l’estensione come attributo di Dio quindi non può venir compresa per analogia all’immagine perché ne è l’esatto contrario. Come ciò sia possibile all’uomo non è dato sapere. Se lo potesse sapere, potrebbe anche rappresentarselo, lo potrebbe intuire, ma è possibile comprenderlo attraverso il ragionamento:

Io non pretendo, Aristo, di farvi comprendere chiaramente l’immensità di Dio, e in che modo egli sia dappertutto. Questo infatti sembra incomprensibile tanto a me quanto a voi. Solamente intendo darvi qualche idea dell’immensità di Dio, paragonandola con la sua eternità. Siccome avete riconosciuto che Dio è eterno, credevo di potervi convincere anche che è immenso, paragonando l’eternità, che accettate, con l’immensità che non volete riconoscere.34

Come si può constatare, Malebranche non cerca di spiegare l’idea dell’immensità di Dio in analogia all’immagine ma in paragone all’eternità; come dire, l’eternità del tempo rende comprensibile lo spazio. L’eternità sta al tempo come l’immensità sta allo spazio: un tempo infinito non è ancora l’eternità così come uno ‘spazio eterno’ non è ancora Dio. Spazio e tempo sono divisibili, Dio no.35 Si possono paragonare cose che rientrano nella stessa dimensione ‘metafisica’ non cose che rientrano in dimensioni differenti. È proprio ciò che spiega Teotimo ad Aristo subito dopo le affermazioni qui riportate di Teodoro: «Come volete, Aristo, che faccia Teodoro? Paragona le cose divine con le divine, e questo è l’unico modo di spiegarle, per quanto è possibile. Ma voi le paragonate con le cose finite, e questo è giusto il modo di cadere in errore». 36 D’altra parte non si può neppure confondere esteso intelligibile e sostanza divina. L’esteso intelligibile è l’idea (anche se il termine è improprio) che noi abbiamo di Dio, non l’idea che Dio ha di sé stesso. Quindi l’esteso intelligibile non può rappresentare Dio: esteso intelligibile e Dio non hanno la stessa realtà oggettiva. L’esteso intelligibile è la realtà oggettiva dell’estensione e non di Dio. Dio è ovunque diffuso ed ovunque intero, caratteristiche contraddittorie se applicate alle immagini che possono generarsi dalla stessa estensione intelligibile:

Come è possibile che confondiate l’immensità divina con l’estensione intelli-gibile? Non vedete che tra queste due cose c’è una differenza infinita. L’immensità di Dio è la stessa sostanza divina ovunque diffusa e tutta intera dovunque, che

34 Malebranche, Colloqui sulla metafisica, la religione e la morte, cit., p. 233. 35 «Similmente Dio è esteso come sono estesi i corpi, ma non vi sono parti nella

sua sostanza» (ivi, p. 236). 36 Ivi, p. 233.

35Il misticismo della ragione. Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche

riempie tutti i luoghi senza avere alcuna estensione locale. Questo è ciò che io affermo essere assolutamente incomprensibile. Ma l’estensione intelligibile è la sostanza di Dio solo in quanto rappresentativa (cioè che può rappresentare) dei corpi, e partecipabile da essi con le limitazioni o le imperfezioni che loro convengono, e che sono rappresentate dalla medesima estensione che, di quei corpi, è l’idea o archetipo.37

La partecipazione di cui qui si parla non è allora la partecipazione della sostanza da parte del soggetto pensante, ma la partecipazione dell’oggetto all’idea che lo rappresenta in Dio. Noi sappiamo che, se ci sono dei corpi, essi hanno la qualità dell’estensione perché noi li pensiamo in Dio come estesi. In questo ha ragione Alquié a dire che Malebranche sostituisce la teoria della rappresentazione cartesiana alla teoria scolastica della sostanza partecipabile, ma ciò avviene non tanto per evitare lo spi-nozismo ma perché vi è l’accettazione di fondo, da parte di Malebranche, del soggettivismo cartesiano, che lo porta a vedere come ontologicamente distinti, ed anche opposti, pensiero e materia. Tra la mente umana e quella divina non vi è partecipazione ma identificazione (ora totale e ora parziale); Malebranche non reintroduce quindi niente di umano in Dio per evitare lo spinozismo (se poi ciò avvenga non è questione che qui si possa sin-teticamente affrontare). L’accettazione del soggettivismo cartesiano da parte di Malebranche non può venir posta in discussione in quanto la teoria dell’esteso intelligibile non si pone in contrasto col cogito cartesiano ma ne rappresenta un’evoluzione – così almeno credeva Malebranche. Si tratta infatti, in Cartesio, come in Malebranche, di pensare il pensiero senza riferirsi ad altro, senza rappresentarsi niente di particolare perché nel particolare, nella figura, nell’immagine potrebbe insinuarsi l’inganno del genio maligno. Senza il criterio della chiarezza e della distinzione, senza la teoria del cogito, senza aver stabilito che il soggetto ha sempre e soltanto a che fare con le proprie idee, la teoria dell’esteso intelligibile non sarebbe mai potuta nascere.

La teoria malebranchiana rispetto a quella cartesiana muta soltanto la collocazione delle idee di ragione (e delle idee in genere) dalla mente umana a quella divina, in modo che la prima diventi soltanto una ‘pro-vincia’ della seconda. Ma questa evoluzione metafisica Malebranche l’ha potuta realizzare soltanto partendo da Cartesio: le idee degli enti finiti sono esclusivamente modificazioni dell’anima, nessuna somiglianza con gli enti materiali che esse ci rappresentano; reciso quindi ogni filo che lega le idee alle cose materiali, il cordone ombelicale che trattiene il pensiero alla materia, Malebranche ha potuto far tornare la mente alla sua origine: Dio.

37 Ivi, p. 238.

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Il rapporto di partecipazione è tra le idee dei corpi e l’esteso intelli-gibile e non più tra le idee ed i corpi: cartesianamente egli afferma che, se i corpi esistono, cioè se Dio veramente li ha creati, essi sono estesi; sarebbero quindi i corpi a partecipare dell’idea che Dio ne ha e noi attra-verso di Lui. Ma Dio non è affatto comprensibile per mezzo di immagini (rappresentazioni). Le idee dei corpi non si trovano tra la mente umana ed i corpi ma tra l’anima umana e l’idea di estensione della mente divina: un quadro ipotizzabile soltanto da un platonico mistico, da un agostiniano che ha compreso come modificare il cartesianesimo ai propri fini. Per un aristotelico o per qualsiasi altro filosofo una costruzione metafisica come quella di Malebranche risulterebbe assurda ed infatti così è stata giudicata. Alla generazione seguente, venute meno molte delle esigenze teologiche che avevano infiammato il ‘600, mancò il terreno sul quale collocare la metafisica di Malebranche; vennero sfruttate molte delle sue intuizioni filosofiche e antropologiche ma non se ne comprese la ragione profonda: il misticismo cattolico di derivazione cartesiana – un’eccezione assoluta in tutta la storia della filosofia.

In quanto ‘elemento teoretico’ l’esteso intelligibile è l’esatto contrario della rappresentazione; come modo (o medium) invece, la capacità uma-na di partecipare dell’esteso intelligibile, è il medio che rende possibile all’uomo di essere, sebbene sia un ente finito e, ciò non di meno, pensante: sostituisce allora à la théorie médievale d’une substance partecipable38 una comunione delle intelligenze nella sostanza divina. L’uomo non pensa in Dio per partecipazione ma per identificazione con la sostanza divina; non tutta la sostanza divina ovviamente, ma soltanto quella piccolissi-ma porzione che costituisce la nostra mente. L’uomo non è l’ente che partecipa dell’Essere di San Tommaso, ma l’Essere, da un punto di vista particolare e sotto un determinato aspetto (o dimensione, ovvero l’esteso intelligibile), che partecipa di sé stesso da un punto di vista assoluto, ma sempre sotto quel determinato aspetto che è l’idea di estensione. In Dio sono tutte le idee ed è lì che noi le pensiamo, non per emanazione, il che farebbe del pensiero umano una copia di quello divino, e quello divino un’antropomorfizzazione dell’umano – ma per partecipazione. È vero che in Dio è presente l’idea a cui la sua creatura sta pensando in un determinato momento ma, nella mente divina, tale idea sta in rapporto con tutte le altre infinite idee che Egli si può rappresentare in maniera

38 In realtà non esiste una teoria medievale della sostanza per partecipazione, il termine di partecipazione, già poco chiaro in Platone, con il Medioevo ha assunto un concetto ancor più farraginoso. Alquié si riferisce verosimilmente a San Tommaso: «Come ciò che ha fuoco e non è fuoco è infocato per partecipazione, così ciò che ha l’essere e non è l’essere è ente per partecipazione.» (San Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Pdul, Bologna 1996, t. I, q. 3, a. 4, p. 56).

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perfetta. Nella coscienza umana invece tale idea ha un rapporto di forza falsato dai suoi limiti.

Nell’uomo la visione delle idee particolari ‘oscura’, copre quella dell’esteso intelligibile in sé. La rappresentazione di Giulietta oscura alla mente di Romeo la visione della sostanza divina; per Dio invece questo pericolo ‘dell’oscuramento’ reciproco tra idee ed esteso intelligibile non esiste. Le idee particolari, le rappresentazioni intese alla maniera carte-siana (che caratterizzano la quasi totalità della vita cosciente dell’uomo) sono i limiti della mente pagana,39 per la mente divina sono soltanto un infinitesima parte di sé stessa e le considera dalla parte dell’assoluto, ovvero nell’infinità di tutte le relazioni possibili. Dio è persona assoluta e l’uomo partecipa direttamente dell’assoluto, ma è assoluto soltanto in parte:40 questa affermazione apparentemente contraddittoria, non lo è per

39 Si veda Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, cit., pp. 35-39, 55-73.

40 La mediazione del finito (l’uomo) che può comprendere l’infinito (Dio) viene risolta da Malebranche in una proporzionalità costante tra percezione e cosa percepita: «Per cercare di comprendere come uno spirito finito possa scorgere l’infinito, ammettiamo che la capacità che ha l’anima di vedere, sia, per esempio, di quattro gradi e che l’idea della sua mano o di un piede di estensione, la tocchi con un dolore così vivo da assorbire tutta la sua capacità di pensare; evidentemente, se l’idea di due piedi di estensione la tocca con metà della forza, la sua capacità di pensare basterà perché ne abbia percezione. Del pari l’oggetto che la tocca immediatamente è un milione di volte più grande, ma la tocca solo con una forza che sia di un milionesimo della prima, la sua capacità di pensare basterà perché ne abbia percezione e, per così dire, il prodotto dell’infinità dell’oggetto per l’infinita piccolezza della percezione sarà sempre uguale alla capacità che l’anima ha di pensare. Infatti il prodotto dell’infinito per l’infinitamente piccolo è una grandezza finita e costante come la sua capacità di pensare» (Malebranche, Ricerca della verità, cit., p. 435). Anche in questa dimostrazione, sulla cui validità probatoria non ci pronunciamo; Malebranche ha come obiettivo l’estromissione della rappresentazione quale tramite tra finito ed infinito, il passo riportato infatti è esplicativo di un concetto che poche righe prima egli aveva espresso in soli termini matematici. «Ciò è manifesto per la stessa ragione che prova che un millesimo sta a 1 come 1 sta a 1000; che 2, 3, 4 milionesimi stanno a 2, 3, 4 come il 2, 3, 4 stanno a 2, 3, 4 milioni: infatti pur aumentando gli zeri all’infinito, è chiaro che la proporzione resta sempre la medesima. Una grandezza o una realtà finita è uguale ad una realtà infinitamente piccola in rapporto all’infinito; dico in rapporto all’in-finito perché il piccolo ed il grande sono tali solo in base ad un rapporto. Quindi è certo che un modo o una percezione finita in sé stessa può essere la percezione dell’infinito, purché la percezione dell’infinito sia infinitamente piccola in rapporto ad una percezio-ne infinita o alla comprensione perfetta dell’infinito» (N. Malebranche, La ricerca della verità, cit., p. 434-435). Non c’è quindi nessuna immagine che migri dall’uomo in Dio ma soltanto una proporzionalità voluta da Dio stesso che lascia tutto quale è ed è sempre stato. A garantire la perfezione della cognizione dell’infinito da un finito punto di vista è il rispetto della proporzionalità. Reintrodurre una rappresentazione nell’idea di Dio (anche se rappresentazione della sostanza e quindi, in fin dei conti, non a carattere iconico) non soltanto finirebbe per abbassare Dio alla portata della creatura (sarebbe cioè un variare

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un cristiano cartesiano e, soprattutto, per un occasionalista che mantiene ontologicamente separate sostanza divina ed estensione. Torniamo con ciò ad una questione che Gueroult aveva aperta nella citazione su ripor-tata: «comment l’esprit peut-il se représenter l’étendue, dont la nature lui est radicalement hétérogéne? L’idée, nécessaire intermédiaire entre le pensée et l’étendue réelle, se trouve donc tantôt définie du coté de la pensée, et tantôt du coté de la chose.» Innanzitutto, l’idea di estensione non è l’intermediario, nell’uomo, tra pensiero ed una supposta estensio-ne reale; ed il perché, Gueroult e Alquié lo sanno bene. Affermare che spirito ed estensione sono eterogenei è da una parte una banale verità e, dall’altra, significa travisare completamente la questione: lo spirito e l’idea di estensione sono l’una una delle infinite espressioni possibili dell’altro. Inoltre l’estensione come sostanza ‘materiale’ o materializzabile in uno o infiniti oggetti, per quel che riguarda Malebranche, può anche non esistere in sé; l’uomo continuerebbe a rappresentarsela nell’estensione intellegibile se Dio volesse.

L’uomo pensa in Dio. Porsi quindi il problema di come possa l’uomo pensare qualcosa di radicalmente eterogeneo a sé equivale a supporre che esista qualcosa di radicalmente eterogeneo a Dio, e quindi ad am-mettere un principio eterogeneo a Dio. Gueroult ed Alquié pongono una questione a Malebranche come se fosse un manicheo invece che un agostiniano, ciò non senza ragioni ma non con tutte le ragioni. L’uomo può quindi pensare qualcosa di eterogeneo a sé in quanto pensa in Dio che, per suo conto, può pensare tutto ciò che vuole, senza con questo esser necessitato a crearlo. Le difficoltà cui va incontro Malebranche però non sono solo queste. Gueroult poneva la questione avendo come punti di riferimento il corpo e l’anima umana, avendo cioè in mente il quadro cartesiano; Malebranche invece del corpo in sé non si preoccupa mini-mamente. Nel suo quadro teorico i termini della questione sono spirito umano, limitato, e spirito divino, infinito. Il problema per Malebranche sta semmai, nella mediazione tra la mente finita umana e la mente infinita di Dio. Per un cartesiano un’idea non può essere il termine medio tra due sostanze eterogenee così come non può esserlo un corpo (si veda la non accettazione da parte di Malebranche della teoria della ghiandola

le proporzioni tra finito ed infinito) ma vorrebbe dire anche evocare un pericolo ‘terzo uomo’. Il medio tra finito ed infinito in Malebranche non è quindi la rappresentazione ma una costante matematica, un rapporto costante tra i due enti. Ora, se il rapporto è ‘formalmente’ matematico, sostanzialmente è metafisico in quanto il rapporto tra un ente finito, l’uomo, ed un ente infinito (Dio), è una costante infinita: si può dire anche che il rapporto tra Dio è l’uomo è parte di Dio, una sua creazione e come tale parte di sé, in quanto per Malebranche Dio è Ragione e tutto ciò che è razionale è divino.

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pineale ed il ruolo marginale che ha nella stessa metafisica cartesiana).41 Inoltre, per Malebranche pensiero (inteso come sostanza) nell’uomo ed idea di estensione si identificano perché, come riconoscono i maggiori critici (tra i quali Gueroult, Alquié, Laporte, Delbos) idea di estensione ed esteso intelligibile nell’uomo si identificano così come si identificano esteso intelligibile e pensiero. La materia in sé non ha nessun rapporto con l’esteso intelligibile, almeno nella prospettiva umana. Lo ha invece in Dio, nel quale l’esteso intelligibile è una delle infinite modalità di pensiero; la volontà di Dio è il medio tra le idee che Dio si fa delle cose e la realizzazione, nonché completa e perfetta intellezione, delle stesse. Il fatto è che stante la ‘piega metafisica’ che Malebranche ha dato al suo cartesianesimo il suo problema è evitare di venir assimilato a Spinoza. Il Dio di Malebranche, in relazione a questioni esclusivamente teoreti-che, finisce per essere un po’ troppo simile al ‘Dio non-dio’ di Spinoza; l’unica soluzione, sembrano suggerirci gli studiosi su citati, è far fare un passo indietro al Nostro differenziando il Dio del pio Oratoriano dalla finzione logica del ‘maledetto’ Ateo. Il rischio diventa allora quello di reintrodurre l’antropomorfismo in una filosofia che aveva fatto di tutto per scongiurarlo.

Idea come archetipo è, non in senso cartesiano né platonico ma ma-lebranchiano, ‘superficie’ metafisica, incolore, ‘luogo’ senza forma in cui ogni immagine può prender forma. La sostanza divina è rappresentativa dell’anima, né è l’archetipo, ma non si può dire il contrario, cioè, che l’idea che l’anima ha di sé stessa sia archetipo dell’idea di Dio42, e neppure che lo sia l’esteso intelligibile; Malebranche ha infatti spiegato che l’esteso intelligibile pur essendo parte della sostanza divina non può venir con

41 Si veda G. Cantelli, La parola come similitudine dell’uomo, Morano, Napoli 1992.42 Introdurre la rappresentazione in Dio per conoscerlo, a qualunque livello si

compia il ‘passaggio’, è per Malebranche un’operazione indebita in quanto la realtà è, rispetto ad essa, esattamente capovolta. Non l’anima ha una idea rappresentativa della sostanza divina ma, al contrario, è Dio ad avere un’idea chiara dell’anima umana. «Dio conosce chiaramente la natura dell’anima perché ne trova in sé stesso un’idea chiara e rappresentativa. (…) Quindi la sua sostanza è veramente rappresentativa dell’anima, perché ne contiene l’archetipo o modello eterno. Infatti Dio può trarre soltanto da se le proprie conoscenze. (…) Ma l’anima per sé stessa non è che tenebre, la sua luce le viene da altra fonte» (Malebranche, La ricerca della verità, cit., p. 431). Malebranche si riferisce poi alla teoria di S. Tommaso della partecipazione della sostanza relativamente alle rappresentazioni dei corpi che l’anima si ‘figura’ nell’esteso intelligibile mostrando che non è una teoria sostenibile in quanto le immagini dell’anima non partecipano della delle cose corporee ma dell’esteso intelligibile, d’altra parte la rappresentazione umana non partecipa della sostanza divina, ma soltanto della capacità raffigurativa dell’idea di estensione. «Tutti gli esseri che (l’anima) conosce e che può conoscere non sono a somiglianza della sua sostanza; non ne partecipano;essa non ne contiene eminentemente le perfezioni» (ivi, pp. 431-2).

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questa identificato. Non si può quindi paragonare l’esteso intelligibile alla rappresentazione umana se non travisando il concetto del primo e utilizzando la seconda come lo stratagemma per intenderla quale capacità di rappresentare la sostanza, cosa che sembrerebbe voler fare Laporte.

Ora, noi non sappiamo se Dio nell’esteso intelligibile è capace di rappresentare sé stesso perfettamente anche attraverso un’immagine. Sappiamo però che egli è onnipotente e che ciò che per noi è una con-traddizione ed un errore pagano (rappresentarsi Dio in un’immagine), per Dio potrebbe essere possibile, senza contraddizione, ovvero senza che Egli sia costretto a cambiare le verità eterne che ha stabilito una volta per tutte e di cui le verità logiche e matematiche, per Malebranche, fanno parte. Immaginando che l’esteso intelligibile sia una tela di un quadro, non possiamo valutare le capacità artistiche di Dio con la nostra capacità di dipingere. Una tela però ha già una sua forma mentre l’esteso intelligibile non ha forma, quindi a maggior ragione non possiamo comprenderlo in paragone all’immagine. Dio potrebbe anche rappresentarsi l’infinità dei suoi infiniti attributi nell’esteso intelligibile e noi non sappiamo se e come possa farlo. Esteso intelligibile e idea di estensione sono oggettivi non perché ne esista un corrispettivo ma perché sono idee chiare e distinte, l’una nella mente umana, l’altra nella mente divina. Sono archetipi della rappresentazione ma non sono riducibili alla rappresentazione.

Non attribuite dunque al Dio che adoriamo se non quello che potete pen-sare nell’essere infinitamente perfetto, escludendo da lui solo ciò che è finito, solo ciò che partecipa del nulla. (…) Dovete sapere infatti che, per giudicare degnamente Dio, bisogna attribuirgli soltanto attributi incomprensibili. E ciò è evidente, se si pensa che Dio è infinito in ogni senso, e che nulla di finito gli conviene, perché tutto ciò che è infinito in ogni senso è in tutti i modi incom-prensibile all’intelligenza umana.43

Malebranche giunge dunque ad un paradosso per il quale Dio non può essere ciò che si comprende; si dovrebbero perciò attribuire a Dio solo attributi incomprensibili. Il paradosso è evidente, ma egli stesso si rendeva conto di star per precipitare nel baratro dello spinozismo (ridurre cioè Dio a logica del creato e sostanza della natura). L’unica strada era allora mantenere fermo un principio a cui fin dall’inizio, d’altronde, si era sempre attenuto: non si può comprendere niente di infinito attraverso qualcosa di finito. L’esteso intelligibile, che è qualcosa di infinito o, se si preferisce, di infinitamente indefinito, non può venir ridotto allo ‘spazio’ delle rappresentazioni, che sono finite.

43 Malebranche, Colloqui sulla metafisica, la religione e la morte, cit., p. 236.

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Quando contemplate l’estensione intelligibile, voi vedete ancora soltanto l’archetipo del mondo materiale da noi abitato e l’archetipo di un’infinità di altri mondi possibili. A dire il vero, voi vedete allora la sostanza divina, perché essa solo è visibile, essa sola può illuminare la mente; ma non la vedete in sé stessa, o in ciò che essa è voi la vedete solamente nel suo rapporto con le creature mate-riali, la vedete soltanto in quanto è partecipabile da esse o ne è rappresentativa. E di conseguenza, per essere esatti, non è Dio che voi vedete, ma solamente la materia che può produrre.44

Il problema di confondere l’esteso intelligibile con la sostanza divina si presentava anche nelle Méditations chrétiennes ove veniva definito come «l’immensità dell’essere divino, in quanto infinitamente partecipabile dal-la creatura corporea in quanto rappresentativa di una materia immensa».45 Sempre nelle Méditations chrétiennes si legge: «C’è differenza tra vedere l’essenza di Dio e vedere l’essenza delle cose in Dio, si vede Dio solo in rapporto alle creature. In modo che, si può dire, in un altro senso, che non si vedono che le creature, poiché lo spirito è colpito solo dalle loro idee, o dai loro archetipi».46 Alla fine si giunge ad una conclusione quasi ovvia ma le cui conseguenze hanno creato una serie di difficoltà che qui solo in parte abbiamo riportato: una cosa è il pensare di Dio in sé stesso ed un’altra il pensare dell’uomo in Dio.47 Finché si tengono separati, o si integrano ad altri livelli, non c’è pericolo di cadere in nessun trabocchetto spinoziano. Il pensiero di Dio è la negazione dell’immagine e la negazione dell’immagine si ottiene con un atto di de-astrazione. Ciò che di umano si deve reintrodurre in Dio per non cadere nello spinozismo è soltanto il nostro punto di vista parziale. Egli non introduce le immagini in Dio per spiegare Dio – anzi per conoscerlo se ne libera totalmente: l’intelletto umano si lascia alle spalle tutte le rappresentazioni, tutte le sensazioni e rivolge il proprio sguardo nell’immensità (senza limiti e senza ‘detriti’) di Dio. Siamo noi a vedere le immagini in Dio: ciò che noi creiamo, per così dire, delle immagini è la prospettiva da cui la nostra mente vede la mente divina, siamo noi a rappresentarci le immagini nell’esteso intelligibile.

È Dio l’ente attivo, non l’intelletto umano o almeno l’intelletto umano è attivo in quanto parte di quello divino, quindi in quanto intelletto e non

44 Ivi, p. 11.45 Malebranche, Méditations chrétiennes, (IX, §9); in Œuvres complètes de

Malebranche, cit., t. X, p. 99.46 Ivi, (III), p. 30.47 Come opportunamente notava Gouhier: Il sistema della natura e della grazia può

esser guardato in due modi: dal punto di vista di Dio e dal punto di vista dell’uomo. Dal punto di vista di Dio si parlerà di giansenismo, dal punto di vista dell’uomo di molinismo. Se li si unisce in un solo sguardo si parlerà forse di malebranchismo (H. Gouhier, La philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, cit., p. 202).

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in quanto umano. È vero che in Dio sono presenti formalmente tutte le idee; anche quelle dell’omicidio, delle depravazioni, di Satana ecc. ma non fanno parte della sua essenza; alla stessa maniera in Dio sono presenti tutte le rappresentazioni sebbene non sia lui a rappresentarle all’uomo, ma l’uomo a rappresentarsele in Lui. All’essenza di Dio, sotto questo aspetto, compete soltanto l’esteso intelligibile. L’immagine è un atto umano che l’uomo colloca in questo spazio della ‘Ragione’; e può far ciò perché Dio stesso si può rappresentare le cose che anche l’uomo lì si rappresenta. La domanda allora è: come può un intelletto finito e passivo rappresentarsi qualcosa in un intelletto infinito ed attivo. In realtà non ci sono due intel-letti ma uno solo. L’uomo si rappresenta le cose perché ha una sensibilità (cioè l’immaginazione ‘creativa’, almeno sotto un aspetto) e una volontà, attive: sono queste due facoltà ‘attive’ a far sì che l’uomo si rappresenti le cose nell’esteso intelligibile: la questione quindi ha una componente psicologica dalla quale anche in sede metafisica non si può prescindere.

L’occasionalismo inoltre, ed è qui che la problematica si fa partico-larmente stridente, conduce a fare dell’uomo un essere ‘convenzionale’. Infatti se è la volontà divina a ‘coordinare’ mente e corpo, l’umanità dell’uomo, ovvero sia la sua essenza, non è una sostanza (non esiste la sostanza uomo bensì la res cogitans e la res extensa) ma semplicemente il frutto, l’effetto di una legge divina di ‘coordinamento universale dei piani del reale: l’estensione intelligibile, la materia – il mondo intellettuale e quello fisico.48

In Malebranche il rifiuto dello psicologismo è possibile soltanto passando ‘attraverso’ lo psicologismo, non negandolo in partenza, ma ‘superandolo’ comprendendone la reale valenza ontologica, identifican-done genesi e strutture, ‘rovesciandone’ la prospettiva, permettendo così il manifestarsi della vera metafisica che è comprensione dell’essere. Nell’esteso intelligibile sono presenti formalmente tutte le cose che l’uomo si può rappresentare: la volontà e la sensibilità umana vanno ad attualiz-zare quelle che le corrispondono. D’altra parte, Dio in questo gioco non è passivo (e per passività divina è sempre da intendere il consentire che qualcosa avvenga per ragioni logiche), in quanto non è Lui che si rap-presenta le cose al posto dell’uomo (non crea il miracolo continuo della rappresentazione) ma sono le cose che l’uomo si rappresenta (le idee) che trovano in Lui (Dio) posto. Dio, in altre parole, non è costretto a rappre-sentarsi le cose ogni qual volta se le rappresenta l’uomo, ma formalmente Dio dà all’uomo la possibilità di rappresentarsi tutto ciò che poi di fatto, quest’ultimo si rappresenta. Infatti come ci è possibile concepire l’este-

48 Per un primo approfondimento si rimanda quindi al fondamentale testo di Fran-cisque Bouillier, Histoire de la philosophie cartésienne, Durand, Paris 1854.

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so intelligibile? Non rappresentandoci niente. Se Malebranche volesse porre le immagini direttamente in Dio, l’esercizio spiritual-cognitivo di conoscenza dell’estensione intelligibile avverrebbe attraverso l’uso della sensibilità, invece è l’esatto contrario, l’esteso intelligibile in sé nega la sensibilità e quindi l’immaginazione. Quel nulla che vediamo in Dio è soltanto il nulla dei sensi, quel nulla divino è allora soltanto un nulla sensibile ma, per contrappasso, è il tutto intelligibile, l’assoluto ideale.

La differenza di Malebranche rispetto ad altri filosofi credo si pos-sa ben comprendere, come giustamente hanno osservato Alquié, Gueroult e Laporte, in rapporto alla concezione delle rappresentazioni ma questa, a sua volta, si può inquadrare correttamente soltanto in riferimento alla negazione dell’astrazione, del peccato originale e dell’idea della morte. La visione razionalista e, sotto molti aspetti, determinista di Malebranche può dar luogo ad accostamenti, per lui, scomodi. La differenza dallo spinozismo è più nella mentalità che nella parola del Filosofo. Di fatto per Malebranche l’uomo si trova veramente tra la natura e Dio, soltanto che la natura sta ‘sotto’ e Dio ‘sopra’; nessuno confonderà il soffitto con il pavimento, Malebranche con Spinoza. La dissoluzione della rappre-sentazione nella visione incolore ed illimitata dell’estensione intelligibile rende evidente che l’universo potrebbe anche essere senza la materia ma mai senza l’Intelligenza e che la sostanza potrebbe avere le modalità che Dio vuole. Egli è, se si vuole, la nostra possibilità di pensare ogni corpo e di negare la rappresentazione pensata di un qualunque corpo. Ora, se l’esperimento dell’esteso intelligibile ha per Malebranche valore di prova teologica ed ontologica, perché non dovrebbe averlo anche in ambito metafisico? Se, con l’annullamento dei contenuti sensibili, l’uomo annulla tutto il mondo materiale, lo annulla cioè nella sua coscienza, se l’uomo, ancora, ha la capacità di negare concettualmente l’esistente materiale, ciò significa che, innanzi tutto, pensiero e materia sono due sostanze differenti e non semplicemente due modalità differenti di una stessa sostanza.

Il problema del peccato originale e l’idea della morte danno al pen-siero malebranchiano una dimensione diacronica che Spinoza non ha e, dalla sensazione al pensiero dell’esteso intelligibile, la mente umana compie un viaggio intuitivo tra le idee, è un’ascesa mistico-razionalista, non con l’astrazione, ma verso una concretizzazione ideale. Malebranche sostiene che l’idea dell’estensione è ‘la struttura’ a priori che permette all’uomo di avere un pensiero a carattere rappresentativo ma, per far ciò, non può avere essa stessa carattere rappresentativo; nel qual caso la rappresentazione che le è propria escluderebbe la possibilità di rap-presentarsi immagini di altro genere. La centralità del peccato e l’idea della morte intesa quale porta verso un’eternità non vuota ma, a seconda del giudizio divino, piena di infinita felicità o dannazione, pongono la

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teoria della rappresentatività malebranchiana in una prospettiva diversa rispetto a Spinoza. La stessa difficoltà a capire l’esteso intelligibile è un effetto del peccato, se l’uomo non avesse mancato nei confronti di Dio, riconoscerebbe nella limpida visione dell’infinito la sostanza divina, almeno sotto quell’aspetto. L’idea pura della morte, d’altro canto, è essa stessa l’esteso intelligibile in una prospettiva morale: la negazione di ogni rappresentazione. Quindi la morte non può arrecarci nessun male, perché non è la rappresentazione del male. L’idea della morte, di per sé, è soltanto la negazione della sensazione, della rappresentazione; è quindi la visione in Dio di Dio.49

3. Concezione del soggetto e rappresentazioni

L’esteso intelligibile dunque per Malebranche non è la rappresenta-zione dell’infinito alla stessa maniera che la rappresentazione (geometrica, ovvero riducibile in termini matematici) di un ente finito manifesta tale ente, in quanto l’esteso intelligibile non ha forma, non ha ‘dimensione’ (geometricamente rilevabile) ma la possibilità di ogni forma e ogni dimen-sione. Ciò che di umano Malebranche deve porre in Dio allora non è niente di sensibile, bensì lo spazio che partendo dal punto zero della coscienza si dispiega tra i due assi cartesiani in un infinito spazio metafisico, pensato, reale, ideale e non materiale, almeno non direttamente (non essendoci una ragione metafisica all’esistenza dei corpi ma ‘soltanto’ una teologica, sono infatti le Scritture a rivelarci, secondo Malebranche, che i corpi esistono). Dio, in sintesi, non contiene nell’esteso intelligibile l’estensione (al che sarebbe veramente spinozista) ma l’idea di estensione; l’umanizzazione di Dio da parte di Malebranche non è quella allora di introdurre in Dio l’immagine umana, ma di inserire nell’idea di estensione della mente divina le tre idee chiare e distinte che Cartesio riteneva fondative del pensiero umano, e cioè l’idea di estensione, l’idea di pensiero e l’idea di Dio.

Ora, in Malebranche queste idee si ritrovano tutte direttamente in Dio e non si chiamano più ‘idea di res extensa’, ‘idea di res cogitans’, ‘idea di Dio’, ma esteso intelligibile e non sono totalmente sovrapponibili; lo sono semmai dal nostro particolare e limitato punto di vista umano. Noi abbiamo, per Malebranche come per Cartesio, conoscenza di Dio attraverso la sua idea, soltanto che per Cartesio, l’idea di Dio è nella mente del soggetto pensante, mentre per Malebranche la percepiamo direttamente nella sua essenza, è l’esteso intelligibile. Lo stesso dicasi per l’idea di pensiero. Quindi non soltanto idea di estensione è sinonimo di

49 Si veda Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, cit., pp. 123-135.

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esteso intelligibile ma anche idea di Dio e idea chiara e distinta di pensiero. Cambiando da Cartesio a Malebranche la ‘collocazione’ dalla coscienza umana al pensiero Divino è da ribadire però che per Malebranche l’esteso intelligibile non è l’idea di Dio ma è l’idea di Dio che noi ci possiamo fare, ciò che di Dio direttamente sperimentiamo in noi. Ora se si ha l’idea di Dio non attraverso un idea particolare, ma direttamente nella visione in Dio cioè nell’esteso intelligibile, e se questo è a sua volta l’idea di estensione, perché non trarre le ultime conseguenze del discorso? E cioè che anche l’idea di res cogitans è l’esteso intelligibile? Spinoza aveva ridotto le sostanze cartesiane da tre ad una, Dio; Malebranche invece riduce l’idee delle sostanze da tre ad una, l’esteso intelligibile che non è Dio ma soltanto, utilizzando un termine scolastico in parte improprio, una sua modificazione. Ora, l’atto del ridurre possiamo dire che è simile nei due Pensatori, diversa invece la cosa ridotta: Spinoza riduce le so-stanze, Malebranche le idee e soltanto per quel che riguarda l’uomo. È per questo che Malebranche è un vero cartesiano e a ragione si professa tale, in quanto mantiene invariato l’ordine delle sostanze, ciò che muta è soltanto la collocazione delle idee.

Si è invocato la rappresentazione umana per spiegare l’esteso intel-ligibile, si doveva però andare fino in fondo e sostenere che Malebran-che non invocava il concetto di rappresentazione in quanto tale, ma la capacità di negare qualsiasi rappresentazione umana. Oltre che essere riconducibile a quanto esplicitamente sostiene Malebranche, questo con-cetto si può anche derivare dalle parole di Laporte. Le rappresentazioni non sono collocabili in un ordine paritetico a quello spaziale nell’esteso intelligibile. Un’immagine, un ricordo sono come folgorazioni che si generano dall’interno, dal centro dell’idea espandono i loro limiti fino alla periferia del pensiero in modo tale da assumere lo status di rappre-sentazione. Posso pensare ad un quadrato, poi ad un leone, poi ad una stella, ecc.; tutte queste rappresentazioni si susseguono, si accostano, si sovrappongono nella mia mente, per diretta visione nello schermo infinito del pensiero divino, senza assumere un rapporto spaziale statico le une verso le altre. Le immagini riflesse nell’esteso intelligibile, così parrebbe, non rispettano e non si collocano in un ordine come le cose nel mondo sensibile. Ma quando Malebranche ha sostenuto che mondo fenomenico e rappresentazioni dell’immaginazione e della memoria appartengono a due realtà diverse? Sono al contrario della stessa natura: non aveva egli infatti avvertito all’inizio del secondo libro de La Recherche che sensibi-lità ed immaginazione variano nel più e nel meno ma non nella sostanza, quindi che mondo percepito (fornitoci dai sensi) e mondo prodotto dall’immaginazione ‘mnemonica’ sono la stessa cosa? Sembra che fin quando ci si arresti alla superficie delle teorie non si faccia fatica a capire

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il soggettivismo cartesiano, ma ogni qual volta ci si spinga nel profondo di un pensiero si cada nel pregiudizio, pre-cartesiano, di considerare mondo reale (quello cioè percepito) e mondo immaginato come due cose differenti. Il dualismo ‘cognitivo’ in Malebranche è invece un altro: mondo percepito, da una parte e esteso intelligibile (considerato sub specie aeternitatis) dall’altra. Il mondo reale non lo conosciamo, non sapremmo neppure che esiste con certezza se non fosse per le Scritture; l’idea che ne abbiamo è quella fornitaci dalla sensibilità e dall’immaginazione, da due ‘facoltà’ che all’origine sono una sola cosa.

Pur condividendo le osservazioni di Alquié si vuol qui rilevare che lui e gli altri critici non hanno tenuto nella dovuta considerazione il rap-porto esteso intelligibile, idea della morte, peccato originale e la funzione dell’immaginazione e non come elementi distinti ma nella loro interre-lazione. Si deve rilevare un altro fatto relativo alla ‘reintroduzione’ del cogito in Dio: la coscienza di Malebranche è coscienza per sensazione, il cogito di Cartesio no; ma se la coscienza di Malebranche è coscienza per sensazione (dato che anche Malebranche ha sempre professato la distin-zione reale di mente e corpo) non è il soggetto puro delle Meditazioni ma qualcosa di assimilabile all’effetto della terza nozione delle lettere ad Elisabetta, in cui la coscienza del soggetto era coscienza per sensazione.

Malebranche parte da là dove Cartesio era giunto; parte dall’unione, ma dall’unione seguente la separazione reale delle sostanze. Non procede quindi da scolastico ma da puro cartesiano. Cartesio sarebbe senz’altro concorde con Malebranche nel dire che la coscienza per sensazione non dà conoscenza di sé (anche se Malebranche potrebbe ribattere che nep-pure la terza nozione primitiva dà conoscenza altro che per coscienza, che non è cognizione chiara e distinta e che proprio per questo è necessario considerare la mente umana come parte della mente divina). La teoria dell’esteso intelligibile non nega quindi il cogito cartesiano ma semplice-mente lo assolutizza: l’intelletto umano non guarda più in sé ma in Dio, ed in Dio vede sé stesso come puro intelletto, come estensione intelligibile. L’idea di Dio, l’idea dell’infinito e l’idea del soggetto che per Cartesio erano idee chiare e distinte vengono da Malebranche assolutizzate tutte nell’esteso intelligibile, negandosi in quanto idee ma fondendosi come essenza e sostanza del pensiero. L’dea di Dio non è più un’idea della mente umana, ma il pensiero stesso di Dio, non è più quindi un’idea (come lo sono le idee dei corpi) anche se a volte Malebranche sembra contraddire sé stesso chiamandola idea. Ma quando egli usa questo termine riferito a Dio non ha in mente il termine idea in senso platonico (il che sarebbe una contraddizione) ma inizialmente, di primo acchito, in senso cartesiano, come contenuto di pensiero; soltanto che, in questo caso, essa è tutto il contenuto (possibile, assolutizzabile) del pensiero ed

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anche il suo contenitore. È un’idea assoluta che assolutizzandosi perde il suo carattere di idea come contenuto particolare di pensiero (perde il suo carattere cartesiano), proprio perché non è un contenuto particolare ma assoluto, universale. Malebranche applica il platonismo alla filosofia cartesiana nell’unico modo per non rendere la sua filosofia eclettica.

L’idea di Dio è quindi l’esteso intelligibile e questo a sua volta è l’idea dell’infinito ma – tutte essendo, dalla prospettiva umana, la stessa cosa – non sono idee (né in senso platonico né in senso cartesiano – ma in parte l’uno e l’altro) ma puro pensiero; l’idea di infinito non è quindi la premessa alla visione in Dio ma è la visione stessa di Dio. L’esteso intelligibile, quando l’uomo lo pensa in sé gli si presenta, per usare un termine vichiano, come indiffinito. Idea di Dio, esteso intelligibile, idea dell’infinito non sono quindi idee in senso platonico o cartesiano e, quindi, Malebranche ha ragione (all’interno del suo sistema) a dire che non sono idee; né cade in contraddizione quando si riferisce all’idea di Dio o all’idea dell’infinito chiamandole ‘idee’ perché quando le chiama così non pensa né a Cartesio né a Platone ma a sé stesso. Quando Malebranche chiama ‘idee’ l’idea di Dio e l’idea di infinito è perché intende il termine ‘idea’ come ‘esteso intelligibile’, perché nella mente di Dio e per Dio, non per noi, esse sono effettivamente idee. Quando nella Recherche Malebranche dice che si conoscono le cose in quattro modi: per congettura, per rap-presentazione (idea in senso cartesiano), per idea (in senso platonico) e per diretta conoscenza, intende dire che la diretta conoscenza è pensare direttamente Dio in Dio (avere coscienza di Dio, una coscienza questa si paragonabile al cogito cartesiano anche se con la non secondaria dif-ferenza che il secondo è interno alla coscienza umana, mentre nel primo è la coscienza umana ad essere dentro il pensiero assoluto, dentro Dio) ma pensare è avere idee e l’idea in questo caso (l’esteso intelligibile) è un’idea senza limiti, opposta ad ogni rappresentazione e ad ogni forma perché senza limiti. È idea in senso malebranchiano.

Si può obiettare a Malebranche che quando si fa l’esperimento dell’e-steso intelligibile l’estensione sconfinata che si pone davanti alla nostra mente sia nulla (ed era quello che pensava Arnauld) invece che possibilità assoluta di pensiero. Tutti però possono fare quell’esperimento e dare il proprio giudizio sulla mia teoria, dice Malebranche, possono confermarla come falsificarla perché mostro con precisione quel che penso e ciò a cui mi riferisco. Si può dire che l’esteso intelligibile non esiste e che non è un’idea (ed infatti Malebranche stesso precisa che non è un’idea nei sensi diffusi del termine, cioè in senso platonico e cartesiano) ma questa teoria non è un parlare a vuoto, un teorizzare oscuro e privo di contenuti bensì un’argomentazione chiara, logica e da tutti comprensibile e quindi accettabile o confutabile; questo perché, ed è la motivazione di fondo,

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quando noi abbiamo fatto tacere completamente i sensi l’esteso intelligi-bile ci appare nella sua infinità e completa indeterminatezza; ora, quando noi da questa situazione di vuoto rappresentativo pensiamo nuovamente a qualcosa, l’idea prende posto in questo spazio mentale indeterminato andando a determinarlo, definirlo in un’immagine.

Se l’esteso intelligibile fosse un nulla (come voleva Arnauld) o una tabula rasa (come voleva Locke) non sarebbe possibile rappresentarci alcunché, come potrebbero infatti le idee trovare posto nel nulla? Se la coscienza del vuoto mentale, di cui tutti possono fare esperienza asso-pendo i sensi, fosse un nulla e non un’estensione intelligibile allora sì che Dio sarebbe costretto a fare un miracolo continuo affinché noi potessimo pensare. Solo Dio infatti può creare le cose dal nulla e lo può fare solo direttamente perché se delegasse questa capacità alle creature, automati-camente queste si trasformerebbero in creatori, tesi questa, nella sostanza, pagana. L’esteso intelligibile quindi non è un nulla ma la possibilità pura di ogni pensiero: questa è la tesi cristiana di Malebranche. Egli ha dato un significato nuovo al concetto di idea, ha sviluppato il cartesianesimo in senso platonico riuscendo ad andare, almeno nei suoi intenti, oltre Cartesio ed oltre Platone.

L’esperimento degli Entretiens (per cui per aver coscienza dell’esten-sione intelligibile si devono assopire tutti i sensi ed evitare di rappresentar-si qualcosa di determinato, ovvero una qual si voglia immagine), va oltre la semplice astrazione, non si prende infatti un oggetto, o alcuni elementi di un oggetto e si astraggono da tutto il resto; in verità non si prende niente, non si determina qualcosa in particolare per negare tutto il resto ma, direttamente, si nega tutto senza preventivamente prender qualcosa. Si tratta di un procedimento simile a quello consigliato da Cartesio nelle lettere ad Elisabetta per prender coscienza delle nozioni primitive; si deve far tacere i sensi che ottundono alla vista della nostra intelligenza le fondamenta della nostra mente e del nostro essere. Comunque sia, anche per astrazione, si può arrivare a negare tutti i pensieri rappresentativi, ma si tratta, se la definizione è più consona, di un’astrazione assoluta; d’altra parte Malebranche non è molto interessato al procedimento col quale si arriva a negare tutti gli elementi sensibili e rappresentativi, quanto al fatto che è possibile arrivare, in determinate circostanze (quando i sensi non esercitano il loro imperio), a negarli. Ora – ci viene suggerito con questo esperimento – per determinare il pensiero puro bisogna negare tutti i pensieri determinati. Fatto ciò, è ovvio che non resta più nessun pensiero, ma era proprio questo infatti lo scopo dell’esperimento, e quel che si è raggiunto non è un nulla assoluto, ma un nulla raggiunto, il nulla dei sensi e non la negazione della mente. Il nulla che si è raggiunto è sempre, e non per ultimo, la possibilità di pensare qualsiasi cosa.

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L’assenza di pensiero se considerata come assenza di una mente o assenza in una mente (nell’ipotesi in cui non si fosse cartesiani) della capacità di determinati tipi di pensiero non può essere, per definizione, possibilità di pensiero. Al contrario lo scopo cui mira questa argomen-tazione di Malebranche è proprio descrivere l’esteso intelligibile come pura ed assoluta possibilità di pensare; anche per questo non può essere che negazione di ogni contenuto determinato di pensiero. Il soggetto che non ha mente (ammesso che lo si possa ancora definire soggetto) ed il soggetto che ha una mente e che fa completa astrazione da tutti i contenuti di essa, non possiedono ‘in atto’ nessuna rappresentazione, ma mentre nel primo ciò avviene per una mancanza strutturale che non gli permette di avere pensiero neppure ‘in potenza’, nel secondo il ‘nulla’ è la conquista compiuta da una mente con notevoli capacità di autocontrollo.50 Il fatto poi che ciò che è oggetto di pensiero è sempre reale in quanto oggetto di pensiero: «quando un pazzo, o un uomo che ha la febbre vede dinanzi ai suoi occhi qualche animale, è evidente che ciò vede non è niente; tuttavia l’idea di questo animale esiste veramente»,51 conferma quanto sostenuto. Se oggetto del pensiero più astratto di tutti è nullo, è non di meno reale (è cioè una reale estensione mentale senza limiti) in quanto attualmente (nel momento in cui ci si presenta senza limiti) privo di ogni rappresen-tazione che verrebbe a porle ed a crearle dei limiti. La mente vuota non è però un nulla, bensì la ‘capacità’ di qualsiasi rappresentazione, è pura possibilità di pensare.

Malebranche, nota Alquié, ha come centro della sua riflessione la critica a chi vuol estendere la conoscenza umana ad oggetti che la travali-cano infinitamente: «Comme Descartes, Malebranche reconnaît à l’esprit humain des limites qu’il importe de ne pas vouloir dépasser. (…) Dans la Recherche de la Vérité, c’est en invoquant les limites inhérentes à notre connaissance qu’il désapprouve ceux qui méditent sur des objets infinis, ou des questions demandant une capacité d’esprit infinie».52 Voler ‘ragio-nare’ sull’infinito è l’errore degli eretici in teologia, degli atomisti nelle scienze della natura e, soprattutto, degli scolastici in filosofia – i quali, a suo avviso, con la ragione volevano svelare e comprendere i disegni divini: «Malebranche condamne en même temps qu’eux, les scolastiques qui

50 Si ripropone qui la distinzione scolastica tra negazione (ad es. il cavallo per sua natura non può volare, è cioè dalla sua stessa essenza privato della capacità del volo) come imperfezione assoluta, e la semplice privazione (un cavallo azzoppato che per sua natura potrebbe correre è privato della corsa dalla sua –contingente rispetto alla sua essenza – menomazione).

51 Malebranche, Recherche de la Vérité, III, I, 2 e III, II, I, 1, in Œuvres complètes de Malebranche, cit., t. I, pp. 390-395.

52 Alquié. Le cartésianisme de Malebranche, cit., p. 69.

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ont admis que notre raison peut pénétrer les mystères divins».53 Alquié si riferisce qui a Œuvres, I, pp. 394-6 in cui Malebranche condanna con diverse argomentazioni i Sociniani, i Calvinisti, coloro che negano che l’uomo abbia un libero arbitrio e, con loro, gli scolastici i quali oppongono ai ragionamenti ‘umani’ degli eretici, altri ragionamenti umani.

Car les raisonnements de l’École ne sont pas toujours supérieurs à ceux des héretiques. Il faut donc distinguer avec soin les vérités révélées et les explications, purement humaines, quel es théologiens en ont données. A ces explications, il convient d’opposer le mystère, la tradition et l’autorité.54

Non possiamo comprendere con ragionamenti umani l’infinità dell’Essere divino, non possiamo neppure affermare che tutto ciò che esiste sia o corpo o spirito. Certo, tutte le nostre conoscenze si riducono a conoscenza di corpi e di spiriti ma ciò non significa che, tutto ciò che è, sia corpo o spirito.55 Può darsi benissimo che vi siano altri esseri di cui noi non abbiamo alcuna idea, o che, Dio stesso abbia un’infinità di altri attributi che a noi restano completamente ignoti. Il problema – e Alquié se lo pone subito – è se dobbiamo considerare questa presa di posizione dell’Oratoriano assimilabile alla teoria spinoziana degli attributi sconosciuti di Dio:

…faut-il rapprocher cette thèse de la doctrine spinoziste des attributs inconnus? Le texte de Malebranche remarque en effet que, par la seule raison, on ne peut établir que Dieu soit esprit. N’est il pas plutôt «l’être sans restriction, tout être, l’être infini et universel»? Mais Spinoza affirme l’existence d’attributs divins inconnus, alors que Malebranche se contente d’indiquer la possibilité de créatures inaccessibles à notre savoir. Son intention est donc seulement de marquer les limites de l’esprit humain, pour condamner à la fois ceux qui seraient tentés de raisonner sur des êtres inconnaissables, et ceux qui croiraient pouvoir nier l’existance de tels êtres. Or cette position est strictement cartésienne.56

Il problema centrale è quindi quello di ben definire il concetto di infinito e mostrare l’impossibilità per l’uomo di teorizzare su tale con-cetto confuso: identificare l’esteso intelligibile con l’idea di infinito è per Malebranche un grossolano errore. L’esteso intelligibile, non è un’idea in senso stretto, è modo di percepire e cosa percepita ad un tempo, è un’idea, nel senso che è un contenuto ed una forma di pensiero che ci dà

53 Ibidem.54 Ivi, pp. 69-70.55 Malebranche, Recherche de la Vérité, III, I, 2 e III, II, I, 1, in Œuvres complètes

de Malebranche, cit., t. I, p. 470.56 Alquié, Le Cartésianisme de Malebranche, cit., pp.70-71.

51Il misticismo della ragione. Alcune considerazioni sulla metafisica di Malebranche

si consapevolezza di un’infinità, l’infinità dell’estensione dell’intelletto, è l’infinità nella mente divina dell’idea di estensione. Ma non è l’idea dell’infinito come concetto, della natura divina conosciamo direttamente soltanto l’esteso intelligibile, per il resto non possiamo fare che illazioni, le quali, inevitabilmente, finiscono per attribuire alla natura divina le fantasie umane. L’infinità dell’esteso intelligibile è l’indeterminatezza dell’idea di estensione della mente divina che può pensare idee di enti piccolissimi come estesi all’infinito, si tratta cioè di un’infinità ‘unidirezionale’ ed ‘unidimensionale’. L’esteso intelligibile rende possibile la concettualiz-zazione dello spazio o, meglio, rende possibile a Dio (ed in piccolissima parte anche a noi) di avere idee vere di enti limitati, queste idee sono essenzialmente verità geometrico matematiche. Attraverso esse l’uomo può elevarsi a Dio, può contemplare Dio in termini matematici, il che ovviamente non fa di Dio un ente matematico, almeno per Malebranche. In realtà questa elevazione mistica dell’anima all’infinito della razionalità ‘estesa’, attraverso le verità della matematica è soltanto il primo passo di un percorso che compie, o può compiere, almeno altri due passi: la contemplazione di Dio attraverso l’idea pura della morte e il darsi della volontà all’idea pura del Bene, al Sommo Bene.

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