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INCONTRO DI CIVILTÀ GIULIANA MARTIRANI Il Grande Gioco dell’Asia Centrale. Geopolitica dell’Hearthland e del Rimland Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroa- siatica comanda il mondo. Harold Mackinder Il Grande Gioco, The Great Game Il termine Great Game venne coniato dal colonnello Arthur Co- nolly (1807-1842), il quale paragonò le manovre diplomatiche e spionistiche in Asia a quelle di una partita a scacchi. La vulnerabili- tà delle regioni lungo i confini nord-occidentali dell’India, Punjab, Sind e Afghanistan, allarmava gli inglesi, preoccupati di una possi- bile minaccia zarista nei confronti dell’India e allo sviluppo della North West Frontier Policy. Da parte sua la Russia nutriva esigenze di sicurezza dei confini dell’impero, tormentato da incursioni uz- beke, dalle difficoltà nei commerci, dalle continue catture di russi addotti in schiavitù, e da una marcata fragilità politica. Tutto ciò contribuì alla spinta espansionistica dei territori centroasiatici. Nella seconda metà del XIX secolo, l’armata russa iniziò la con- quista sistematica dell’Asia Centrale. Nel 1884 la Russia arrivò a conquistare la città di Merv, la quale costituiva un importante cro- cevia per Herat, che a sua volta rappresentava un luogo di facile 149 Rivista di Studi Politici - S. Pio V

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INCONTRO DI CIVILTÀ

GIULIANA MARTIRANI

Il Grande Gioco dell’Asia Centrale.

Geopolitica dell’Hearthland e del Rimland

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona

centrale; chi governa la zona centrale comanda la

massa euroasiatica; chi governa la massa euroa-

siatica comanda il mondo.

Harold Mackinder

Il Grande Gioco, The Great Game

Il termine Great Game venne coniato dal colonnello Arthur Co-nolly (1807-1842), il quale paragonò le manovre diplomatiche e spionistiche in Asia a quelle di una partita a scacchi. La vulnerabili-tà delle regioni lungo i confini nord-occidentali dell’India, Punjab, Sind e Afghanistan, allarmava gli inglesi, preoccupati di una possi-bile minaccia zarista nei confronti dell’India e allo sviluppo della North West Frontier Policy. Da parte sua la Russia nutriva esigenze di sicurezza dei confini dell’impero, tormentato da incursioni uz-beke, dalle difficoltà nei commerci, dalle continue catture di russi addotti in schiavitù, e da una marcata fragilità politica. Tutto ciò contribuì alla spinta espansionistica dei territori centroasiatici.

Nella seconda metà del XIX secolo, l’armata russa iniziò la con-quista sistematica dell’Asia Centrale. Nel 1884 la Russia arrivò a conquistare la città di Merv, la quale costituiva un importante cro-cevia per Herat, che a sua volta rappresentava un luogo di facile

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passaggio per l’Afghanistan, da cui si poteva avere accesso all’India inglese. L’occupazione di Merv, vista la sua importante posizione strategica, nonché l’ulteriore avanzata verso il confine con l’Afgha-nistan, mise ulteriormente in allarme la Gran Bretagna e ne provocò le reazioni. Già nel 1938-42, e prima ancora nel 1878, gli inglesi avevano cercato in modo fallimentare di controllare l’Afghanistan. Dopo aver sconfitto i Sikh e conquistato la valle di Peshawar e il Punjab, gli inglesi guardavano alla catena del Pamir in concorrenza con la Russia. Fu così che intorno a Kashgar si scatenò un gioco politico-diplomatico tra Russia e Cina da una parte e tra Inghilterra e Turchia dall’altra. Ebbe così inizio il Grande Gioco, come venne chiamato dagli inglesi o come lo chiamarono i russi Il Torneo delle

ombre. L’arrivo di coloni russi, che si installarono nelle steppe kazake e

nei centri urbani, contribuì a cambiare la composizione etnica della regione e a russificare le élite locali. Nel 1911 i russi stanziati in Asia Centrale ammontavano a due milioni su una popolazione totale di dieci milioni di abitanti. Al cambiamento della composizione etnica si accompagnò anche la trasformazione dell’economia regionale. La costruzione di nuove reti ferroviarie come la Transcaspiana (1880-1899) e la Transuraliana (1901-1906), aprirono l’Asia Centrale al-l’economia russa e ai suoi prodotti che trovarono nuovi sbocchi.

L’Asia Centrale

La definizione ufficiale di Asia Centrale data dall’Unione Sovie-tica limitava la regione ai soli Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan, senza includere il Kazakistan. La nuova definizione data dalla Federazione Russa include ora anche il Kazakistan, men-tre l’Unesco definisce, invece, i confini della regione in base a cri-teri climatici includendo così anche altri Stati: la Mongolia, la Cina occidentale (incluso il Tibet), il nord-est dell’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan occidentale, parte della Russia e le parti settentrionali di India e Pakistan.

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L’Asia Centrale o Turkestan Occidentale comprende i seguenti 5 Stati, ora indipendenti, già facenti parte dell’Unione Sovietica, tutti di cultura e lingua turca, a eccezione delle popolazioni iraniche presenti nel Tagikistan:

Tabella 1: Gli Stati dell’Asia centrale

StatoSuperficie

(km2) Popolazione

(abitanti) Capitale (abitanti)

Kazakistan 2.724.900 15.143.704Astana

(538.000 ab.)

Kirghizistan 198.500 4.753.003Biškek

(700.000 ab.)

Tagikistan 143.100 6.863.752Dušanbe

(679.400 ab.)

Turkmenistan 488.100 4.603.244Aşgabat

(600.000 ab.)

Uzbekistan 447.400 27.727.435Tashkent

(2.148.000 ab.)

Turkestan Occi-dentale

4.002.000 59.091.138Tashkent

(2.148.000 ab.)

Carta n. 1 - L’Asia Centrale

██ definizione dell’Unione Sovietica██ definizione della Federazione Russa██ definizione dell’Unesco

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Geopolitica del III Millennio tra Hearthland e Rimland

La teoria geopolitica del Rimland, o Anello marittimo, è quella che gli Usa hanno adottato durante tutto il secolo e ancor più oggi che l’altro blocco, quello sovietico, prima Hearthland, Cardine del mondo, è stato sconfitto.

Il geografo tedesco Friedrich Ratzel, autore di Politishe Geo-

graphie (1897), aveva elaborato quelli che sarebbero stati i con-cetti fondamentali cui si sarebbero ispirati i geopolitici dopo di lui. Le concezioni geopolitiche, sistematizzate dallo svedese Rudolf Kjellen, venivano riprese soprattutto dai geopolitici tedeschi e in particolare da Karl Haushofer (1896-1946). La geopolitica tedesca si sviluppava secondo tre linee: - il concetto di spazio (Raum), sviluppato da Ratzel, in cui si

ribadiva la necessità per una grande potenza di avere spa-zio;

- il concetto di Isola Mondiale enunciato da Mackinder, che impli-ca la potenza marittima;

- l’asse Nord/Sud dei continenti sostenuto da Haushofer1.

Fu il britannico H. Mackinder ad esprimere l’idea (1904) che il Cardine del mondo o Hearthland, in ragione della sua massa terre-stre, fosse costituito dalla parte continentale dell’Eurasia. Secondo il geografo britannico, che vi ritornava a varie riprese (1919, 1943), la potenza che controllava questa massa terrestre – prima la Germa-nia, in seguito l’ex Unione Sovietica – minacciava le potenze marit-time – ieri la Gran Bretagna, dopo gli Usa. E controlla così l’Isola

Mondiale (World Island) ovvero il pianeta. I fattori che egli inseriva nella sua tesi sono: - le comunicazioni (allora compresa l’aviazione, ma ignorava na-

turalmente la comunicazione digitale e le autostrade elettroniche di oggi);

- la demografia (ma era lungi dalle cifre iperboliche della fine del secolo XX);

1 Quest’ultima teoria è adottata oggi nella politica euro-africana dell’Europa. G. Chaliand, J.P. Rageau, Atlante Strategico, Sei, Torino 1986, p. 19.

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- l’industrializzazione (di cui ignorava il passaggio attuale dal-l’economia produttiva alla finanziarizzazione dell’economia). La tesi di Mackinder era che la Russia, l’Europa orientale e

l’Asia centrale formassero un unico Heartland fossero, cioè, il perno attorno a cui ruotava il destino del predominio mondia-le. Attorno alla Heartland ci sono quattro regioni marginali del continente eurasiatico che corrispondono alle quattro grandi re-ligioni: 1) l’area marginale a est, una terra monsonica lungo le coste del-

l’Oceano Pacifico, patria del buddismo (Cina, Giappone, Co-rea…);

2) l’area marginale a sud, una terra monsonica lungo le coste del-l’Oceano Indiano, patria dell’induismo (l’India);

3) il Medio Oriente, la più fragile delle quattro aree, povera d’acqua e patria dell’islam;

4) l’Europa, lungo le coste dell’Oceano Atlantico, patria del cristia-nesimo.

Secondo Mackinder, la storia stessa dell’Europa era subordinata a quella dell’Asia, era il risultato della lotta contro l’invasione asia-tica.

Carta n. 2 - L’Hearthland e Mackinder

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Spykman e il Rimland

L’americano Mahan, precursore delle geopolitica nel 1900 (The Pro-

blem of Asia and its effects upon International Politics), preannunciando il concetto di World Island di Mackinder, proponeva l’idea che l’egemo-nia mondiale delle potenze marittime potesse essere mantenuta attra-verso il controllo di una serie di punti di appoggio attorno al continente euroasiatico. Arrivava, pertanto, a conclusioni opposte: le potenze marit-time dominano, imprigionandole, quelle terrestri. La Teoria del Conteni-

mento, nata dalla Guerra Fredda, trova qui il suo nucleo di base2.La Teoria del Contenimento era basata su due ipotesi:

1) l’accettazione delle ambizioni espansionistiche dell’Unione So-vietica a livello mondiale sarebbe stata disastrosa per gli interessi vitali dell’America;

2) un confronto diretto contro l’Urss non era necessario e sarebbe stato controproducente.

Mahan risulta ancora un importante autore, in quanto le sue teo-rie sono utilizzate per comprendere gli scenari attuali, tanto che tut-tora da alcune parti si afferma che: “Chiunque controlli l’Oceano Indiano domina l’Asia. Questo oceano è la chiave dei Sette Mari. Nel XXI secolo il destino del mondo sarà deciso nelle sue acque”3.

Mahan, che aveva previsto l’odierna importanza dell’Oceano Indiano, definiva una triade di elementi necessari per una dottrina navale efficace: 1) la costruzione di una marina con capacità di proiezione oceanica;

2) la creazione di un sistema logistico di basi navali;

3) il controllo delle comunicazioni marittime4. 2 Nel Long Telegram del febbraio 1946 da Mosca, il diplomatico americano

George Kennan, in seguito direttore del Policy Planning Staff del Diparti-mento di Stato con il presidente Truman, gettava le basi di quella che sarà poi conosciuta come la Teoria del Contenimento per prevenire l’espansione dell’Unione Sovietica emergente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa teoria è stata il fulcro di tutta l’architettura di politica estera degli Stati Uniti verso l’Unione Sovietica nel periodo della Guerra Fredda.

3 Citazione apparsa su «Limes», n. 6, del 2009.4 La Dottrina marittima indiana attualmente si rifà a queste regole, avendo

modificato la propria strategia da semplice difesa delle frontiere marittime

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Nicholas John Spykman, ispirandosi a Mackinder, ne aveva adattato le teorie agli anni Trenta. Secondo lui gli Stati Uniti dovevano tendere a mantenere divisa la fascia peninsulare che circondava il continente eurasiatico in modo che non cadesse sotto l’egemonia della Germania e del Giappone. A suo parere inoltre, gli Usa dovevano allearsi con la Russia poiché avevano gli stessi interessi e in seguito dovevano man-tenere una presenza permanente all’interno del continente, così da non permettere alle potenze dominanti di instaurare egemonie che avrebbe-ro obbligato in seguito gli Stati Uniti a un intervento massiccio.

Carta n. 3 - L’Isola Mondo

Carta n. 4 - Il Rimland

nazionali alla creazione di una flotta d’alto mare con capacità di proiezione oceanica.

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La tesi di Spykman veniva ripresa al termine della Guerra Fredda, evento che causò il riavvicinamento tra Mosca e Pechino grazie al crollo dell’Urss e all’incremento della potenza cinese. Gli interessi congiunti russo-cinesi si rivolgevano soprattutto alla zona dell’Asia Centrale (giacimenti petroliferi del Kazakistan e del Sinkiang)5. Dal 1989, con la caduta del blocco sovietico, gli Usa hanno intrapreso la definitiva chiusura dell’Anello marittimo e quindi del controllo dei mari, approfittando del momento loro favorevole per attestarsi su posizioni di maggiore forza, soprattutto laddove lo richiedevano gli interessi vitali, e cioè lungo i percorsi dei rifornimenti di materie prime e dove si potevano sostituire alle basi sovietiche (come la missione umanitaria in Somalia, Restore Hope). Dal Rimland sono nate le guerre fino al 2001 che hanno garantito agli Usa di essere i “guardiani del mare” e dell’Isola Mondo.

Restore Hope: restaurare la speranza o le basi militari fino al

Capo di Buona Speranza?

L’esempio dell’intervento militare in Somalia e della missione umanitaria Restore Hope, all’indomani della caduta dell’impero sovie-tico e della guerra del Golfo, nel 1990, è significativo e può far capire le geopolitiche per un’altra zona petrolifera, quella del Mar Caspio. I flussi di petrolio in partenza dal Golfo Persico e dallo Stretto di Hor-muz, infatti, approvvigionano il Giappone attraverso la rotta dell’est, l’Oceano Indiano e l’Indonesia. Approvvigionano, invece, i Paesi oc-cidentali attraversando il mare Arabico, le coste dell’Africa orientale, in primo luogo quelle somale, per poi scendere verso lo stretto di Mo-zambico e il Capo di Buona Speranza (Cap of Good Hope).

Lungo tale percorso vi erano, prima dell’intervento militare in Somalia le seguenti basi militari:

1. Francia: Gibuti, Riunione, Tromelin, Iles Glorieuses, Antsirana-na, Comore, Juan de Nova, Europa.

5 H. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The Geographical Journal», vol. 23, n. 4 (apr. 1904), pp. 421-437.

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2. Csi: Dahalak, Aden, Socotra, Maurizio, Beira, Maputo.

3. Usa: Mogadiscio, Mombasa, Berbera.

Sia la Francia che la Comunità di Stati Indipendenti, quindi, con-trollavano in quasi monopolio lo stretto di Mozambico, altamente strategico per il passaggio delle superpetroliere che dal Golfo Per-sico, facendo il periplo dell’Africa orientale, si dirigono nell’Occi-dente industrializzato e famelico di petrolio.

Poche le basi o scali di appoggio americani in quel tratto di mare, dal Golfo Persico al Capo di Buona Speranza: Mogadiscio, Mom-basa, Berbera.

Si capisce, pertanto, come questa debolezza strategica america-na e di altri paesi Nato, nello spazio tra Golfo Persico e Capo di Buona Speranza, andasse, dopo la caduta dell’impero sovietico e il mutamento degli assetti geopolitici, e dopo la guerra del Golfo, compensata “restaurando le basi americane e quelle Nato” dalla Somalia fino al Capo di Buona Speranza. Restore Hope, appunto, come veniva giustamente chiamata la missione militare, solo che per “Hope” deve intendersi Capo di Buona Speranza, Cap of Good

Hope, in inglese! E non un presunto “restaurare la speranza” per le popolazioni somale!

Kosovo, Cecenia e il petrolio del Caspio: i corridoi energetici

Le guerre si continuano a fare per motivi strategici legati alle risorse, anche se la propaganda le copre con considerazioni ora etni-che, ora religiose, ora per i diritti umani.

Le guerre in Kosovo e Albania, terminale dell’oleodotto del pe-trolio del Caspio, e in Cecenia, origine dell’oleodotto, ne sono un ulteriore esempio, e la scelta del Corridoio n. 8 per il transito del-l’oleodotto, che condurrà, nell’Europa assetata di petrolio, le riserve ancora tutte da scoprire del petrolio del Caspio, prima, e di quello siberiano, poi, ne sono un esempio. Questi territori sono strategi-camente instabili, e in aggiunta giocano i forti interessi consolidati delle mafie russe che contano tre milioni di affiliati, oltre che gli

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interessi delle mafie locali, le molte etnie, la lontananza dai grandi circuiti dell’informazione e l’estrema povertà delle popolazioni, in prevalenza musulmane.

Nell’ex Unione Sovietica ci sono i giacimenti petroliferi della Siberia orientale, ancora in via di sviluppo, quelli della Siberia occi-dentale, con oleodotti in progettazione verso Mosca e Kiev, i giaci-menti del Volga e degli Urali con oleodotti verso l’Europa occiden-tale e quelli dell’Asia centrale con oleodotti in progettazione verso Mosca. Ma sono i giacimenti del Mar Caspio, del Caucaso e del Mar Nero quelli più interessanti per l’Europa occidentale e meridionale.

La Comunità di Stati Indipendenti esporta, infatti, in Europa molto del suo petrolio:

- il primo 25% delle esportazioni è diretto in Italia e Finlandia;

- il secondo 25% in Norvegia e Germania;

- il terzo 25% in Svezia, Francia e Svizzera (12), Belgio (2), e Au-stria (1);

- il quarto 25% in Inghilterra (14), Irlanda (11), Spagna (10), Grecia (4) e Danimarca (5), ma anche in India (8), Sri Lanka (9), Ghana (7), Egitto (1), Marocco (6), Giappone (3) e Turchia (13) – i numeri tra parentesi indicano la loro posizione in quan-to importatori.

Il passaggio di un oleodotto su un territorio è un’occasione eco-nomica molto importante. Significa costruzione di aeroporti, strade, intere città vedono aumentare la circolazione di danaro: è un affare di miliardi di dollari! Da ciò si comprende che non è indifferente la scelta di un corridoio energetico invece di un altro. Il petrolio del Caspio in piena espansione può approvvigionare l’Europa mediante oleodotti con diverso transito:

- il Corridoio n. 8, caldeggiato da Italia, Francia e Usa, passando per Bulgaria, Macedonia, Kosovo e Albania (Durazzo) per poi arrivare a Brindisi.

- il Corridoio n. 10, caldeggiato dalla Germania, congiungendosi con il Corridoio n. 4 che passa per la Romania e arriva in Serbia a Belgrado, a Sisak in Croazia e poi a Fiume.

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Si comprende anche la mediazione della Russia, nel conflitto con il Kosovo, anomala se si pensa alle motivazioni etniche, ma più che giustificata se si pensa al percorso dell’oleodotto del petrolio del Caspio, che nasce in Cecenia e finisce in Kosovo/Albania.

Per il petrolio del Mar Caspio, nonostante la cessione di una partecipazione del 10% alla compagnia di Stato Lukoil, Mosca ha espresso la sua ostilità nei confronti di un consorzio internazionale incaricato del suo sfruttamento, e ha preso in considerazione, nel novembre del 1994, l’idea di adottare sanzioni economiche nei confronti dell’Azerbaigian, cui nel maggio del 1995 rispondevano gli Usa, esprimendo l’auspicio che l’Azerbaigian “stabilisse fonda-menti legali inattaccabili, al fine di condurre in porto i suoi progetti sul Mar Caspio”.

Mosca, però, continua a guardare con diffidenza progetti di oleo-dotti che esporterebbero il petrolio del Caspio verso i mercati occi-dentali.

La Turchia e le grandi compagnie occidentali sembrano privile-giare la linea turca: un oleodotto che passerebbe per la Georgia o l’Armenia per sfociare nel Mediterraneo, sulla costa turca.

La Russia ha prima proposto la sua rete di oleodotti: Baku-Grozny-Tikhretsk-Novorossisky/Tuapse, ma l’intervento in Cece-nia (inverno 1994) ha suscitato forti obiezioni da parte delle altre nazioni sulla sicurezza della regione. Successivamente, di fronte al rifiuto di Ankara di far passare le petroliere per il Bosforo, si è orientata verso una soluzione bulgara che porterebbe il petrolio da Astrakhan a Novorossisky e Tuapse, poi attraverserebbe il Mar Nero fino a Burgas in Bulgaria e, attraverso il porto di Brindisi, ver-so i mercati occidentali.

Vale la pena ricordare che le zone petrolifere del Caspio coinvol-gono aree a maggioranza musulmana, passate da forme di governo del tipo “clan” all’impero ottomano e a quello sovietico senza un processo di formazione di Stati moderni, e spesso ritornate, dopo la caduta dell’impero sovietico, alla formula “clan”. Le loro economie, occorre tenerlo presente, sono fortemente inquinate dall’economia

di predazione, di guerra, e soprattutto dalle economie claniche e ma-

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fiose, con i conseguenti collegamenti: economia illegale-corruzione politica-economia legale.

Da parte dei consorzi petroliferi e dei Paesi occidentali si fa ap-pello ai diritti umani e al timore degli integralismi islamici, e da parte musulmana si fa appello alle lotte antioccidentali. Di fatto, non sono motivi né umanitari né religiosi (anche se i conflitti sociali e religiosi sono una componente realmente esistente e utilizzata al-l’uopo) a decidere gli interventi armati, le guerre sante e le missioni umanitarie, ma motivi economici e la gestione delle risorse naturali, soprattutto quelle strategiche.

Carta n. 5 - Il bipolarismo mondiale

Fonte: Nuovissimo Atlante del Touring Club Italiano, 2001; carta ridisegnata da Nicolino Castiello.

The american Great Game

Nei primi anni Duemila vengono utilizzate due basi aeree in Asia Centrale: una in Uzbekistan (Karshi-Khanabad, o K2) e una in Kirghizistan (Manas Air Base), entrambe con la capacità d’ospitare poco più di mille uomini. La storia di queste due basi riflette lo sta-tus dei rapporti degli Stati Uniti con i Paesi dell’Asia Centrale.

“Per quanto riguarda gli equilibri strategici globali – affermava Massimo Armellini all’inizio della guerra in Afghanistan – lascia per-

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plessi la disponibilità di Mosca a convincere alcune repubbliche ex sovietiche quali il Tagikistan, ma soprattutto il non del tutto affidabile (per i russi) Uzbekistan, a mettere a disposizione delle truppe ame-ricane non solo gli spazi aerei ma anche aeroporti e basi militari in cambio, in apparenza, solo di una distrazione occidentale sulla Cece-nia. Se, come pare, la X divisione di montagna americana, col prete-sto afgano, ha preso posizione in basi uzbeke, non si può non notare come consistenti truppe Usa si trovino, in prospettiva, a meno di 1500 km da quei giacimenti petroliferi delle Repubbliche ex sovietiche del Caspio dai quali gli Stati Uniti negli ultimi anni, secondo un’imposta-zione propria del Dipartimento di Stato (e di Zbigniew Brzezinski6) hanno cercato, senza molto successo, di tenere lontana la Russia.

La grande scacchiera

Secondo Zbigniew Brzezinski, infatti, l’odierno scenario interna-zionale ha una connotazione inedita, mai verificatasi prima nel corso della storia dell’umanità: fin dai tempi della scoperta dell’America, scoperta che segnò la nascita del rapporto dialogico tra i continenti, erano stati i popoli e, successivamente, le nazioni eurasiatiche a do-minare il mondo7.

6 Tra le principali iniziative da lui intraprese, si ricorda il finanziamento dei mujahiddin in Pakistan e Afghanistan durante la Guerra Fredda, e precisamente nel 1979. I maggiori sostenitori di tali combattenti furono la Cia, l’Isi (servizi segreti pakistani) e l’MI6 (servizi segreti inglesi). Tale provvedimento aveva lo scopo di liberare l’Afghanistan dai russi che lo avevano invaso, evitando che la minaccia sovietica si espandesse in Asia Centrale. È stato anche il crea-tore insieme a David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e altri dirigenti del gruppo Bilderberg e del Council on Foreign Relations, tra cui Henry Kissinger, della Trilateral Commission (Commissione Trilaterale), un’organizzazione fondata il 1973. Si tratta di un’organizzazione dall’ideologia mondialista nel cui atto costitutivo si legge: “Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini, impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni”.

7 Z. Brzezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi Editore, Milano 1997.

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Con il collasso dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fred-da, invece, sono gli Stati Uniti, una nazione non eurasiatica, ad aver assunto il ruolo di potenza dominante nel sistema globale.

L’Eurasia, tuttavia, racchiude ancora, secondo Brzezinski, buona parte del potere economico e politico mondiale: ecco, perché, nono-stante tutto, essa continua a rappresentare la scacchiera sulla quale si gioca la partita geo-strategica per la supremazia tra le potenze globali.

La scacchiera eurasiatica rappresentata da Brzezinski non è di tipo classico: i giocatori seduti al tavolo non sono soltanto due, ma molti di più. Secondo lo studioso di origini polacche, per far sì che il blocco occidentale a guida americana conservi il potere è neces-sario:1) attrarre lo spazio intermedio nell’orbita europea occidentale;

2) evitare che lo spazio intermedio divenga una sola entità (tradotto in termini pratici significa evitare la formazione di un blocco rus-so-sinico);

3) evitare il prevalere di qualsivoglia giocatore sullo spazio meri-dionale della scacchiera8.

Gli Stati Uniti, peraltro, secondo Brzezinski, rappresentano la prima vera potenza globalmente dominante della storia, in quanto i precedenti “Imperi”, da quello romano a quello cinese a quel-lo mongolo, erano di carattere regionale. Per Brzezinski l’Europa è un alleato naturale dell’America, con la quale condivide valori culturali ed eredità religiosa (cristiana): proprio la comune radice religiosa può fungere, secondo Brzezinski, da elemento collante

8 L’incomunicabilità continentale permise addirittura la coesistenza degli Im-peri, ognuno dei quali governava il suo mondo, ritenuto l’unico possibile ed esistente; in particolare, nel 221 a.C., all’epoca delle Guerre Puniche, mentre Roma si gettava alla conquista del Mediterraneo gli Han unificavano un ter-ritorio vasto che consentiva loro di governare su oltre 57 milioni di persone; quanto all’impero Mongolo, enorme per vastità, esso, grazie a straordinarie capacità di adattamento alle culture dei popoli conquistati (caratteristica che, successivamente, ne determinò lo smembramento), dominò per due secoli (dal 1280 al 1405) su un territorio che i moderni studiosi di geopolitica definiscono il perno geopolitico del potere globale.

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di un ampio sistema eurasiatico di sicurezza e cooperazione “pro-tetto” dagli Stati Uniti. Il problema principale è che l’Europa è ancora oggi un progetto politico incerto, che tende a illanguidir-si per mancanza di passioni e di un senso di missione, e fatica a emanciparsi da forme meramente intergovernative, soprattutto in politica estera. I progetti geopolitici di Francia e Germania ri-mangono divergenti, provocando incoerenze e fatali titubanze nel perseguimento delle politiche europee di dialogo con il resto del mondo. Proprio la condizione di eterna rivalità tra le potenze della Mitteleuropa crea, secondo l’autore, i presupposti per un’azione degli Stati Uniti per confermare il suo protettorato nei confronti dell’Europa, garantendosi in tal modo una testa di ponte per al-largare la zona democratica dell’Eurasia, facilitando il controllo americano sulle zone nevralgiche della scacchiera9.

Nell’attuale momento storico, alla luce delle espansioni a Est della Nato e dell’Unione Europea, la Germania è nelle condizioni di riproporsi come potenza leader “di fatto” dell’Europa Occiden-tale, senza però la forza e il consenso (in primis quello americano) necessari per assoggettare l’irriducibile vicino francese: una riac-cesa rivalità franco-tedesca farebbe implodere l’Unione Europea, riaccendendo paure e pulsioni anti-tedesche, e metterebbe a serio rischio gli interessi americani, in quanto una Germania “liberata” dal sogno europeo tornerebbe ad ambizioni di potenza globale, con interessi autonomi particolari nello spazio intermedio della grande scacchiera.

Sulla grande scacchiera è possibile individuare, secondo Brze-zinski:1) cinque giocatori geostrategici principali: Francia, Germania,

Russia, Cina, India;

2) cinque aree geopolitiche centrali (Ucraina, Azerbaigian, Corea del Sud, Turchia, Iran).

Francia e Germania sono giocatori geostrategici dinamici, che vogliono aumentare il loro potere con metodi e strategie diverse, 9 Per un approfondimento: G.J. Ikenberry, V.E. Parsi, Manuale di Relazioni

Internazionali, Editori Laterza, Roma 2007.

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ma condividono il progetto comune di un’Unione Europea forte e capace d’imprimere alla relazione euro-atlantica una prospettiva maggiormente equilibrata in termini di potere e responsabilità in-ternazionali.

Carta n. 6 - La grande scacchiera

La teoria dello Scontro delle Civiltà di S. Huntington

Nel 1993, Samuel Huntington diede il via a un dibattito tra i teo-rici delle relazioni internazionali con la pubblicazione in «Foreign Affairs» di un articolo estremamente influente e citato, intitolato The Clash of Civilizations? (Lo scontro di civiltà). L’articolo si op-poneva a un’altra tesi, relativa alle dinamiche principali della geo-politica post-Guerra Fredda, elaborata da Fukuyama10 in cui veniva

10 Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (titolo or. The End of History and the Last Man, 1992).

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tratteggiata la fine della storia con l’avvento della globalizzazione guidata dalle liberal-democrazie occidentali. Secondo Huntington, al contrario, la fine della Guerra Fredda non avrebbe portato a un modello unico, ma anzi avrebbe liberato le diverse civiltà dal giogo del bipolarismo politico e ideologico Usa-Urss, lasciandole libere di svilupparsi autonomamente. L’osservazione di Huntington è che gli equilibri di potere tra le diverse civiltà stanno mutando mentre l’influenza relativa dell’Occidente è in calo11. Secondo l’articolo e il libro, i conflitti successivi alla Guerra Fredda si sarebbero verifi-cati con maggiore frequenza e violenza lungo le linee di divisione culturale e non più politico-ideologiche, come accadeva nel XX secolo. Huntington crede che la divisione del mondo in Stati sia riduttiva, e che vada invece suddiviso a seconda delle civiltà e ne enumera nove:

1. Occidentale;

2. Latinoamericana;

3. Africana;

4. Islamica;

5. Cinese;

6. Indù;

7. Ortodossa;

8. Buddista;

9. Giapponese.

Suppone che, per capire i conflitti presenti e futuri, siano da com-prendere innanzitutto le divergenze culturali, e che la cultura (piut-tosto che lo Stato) debba essere accettata come luogo di scontro. Per questo motivo sottolinea che le nazioni occidentali potrebbero perdere il loro predominio sul mondo se non saranno in grado di riconoscere la natura inconciliabile di questa tensione.

11 Huntington, in seguito, ampliò l’articolo, facendolo diventare un libro, pubbli-cato nel 1996 da Simon and Schuster, intitolato The Clash of Civilizations and

the Remaking of World Order (Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione

dell’ordine mondiale).

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La critica alla teoria di Huntington e la teoria dell’Incontro delle

Civiltà e delle Identità Plurali di Amartya Sen

Amartya Sen definisce “riduzionista” questo approccio. “Rite-nere che la religione costituisca l’unica o la primaria identità di un individuo è fuorviante. Un individuo appartiene a una molteplicità di mondi [...]. Questa prospettiva riduzionista si combina con una percezione confusa della storia, che trascura anche la portata delle interazioni tra le diverse civiltà”. A questo punto i risvolti pratici – sostiene – diventano preoccupanti: si rischia di alimentare l’odio e la violenza che Huntington voleva scongiurare. Nel suo saggio, Sen spiega come la violenza sia anche un problema intellettuale. Per disinnescarla occorre insistere sulle identità plurime, identità che un individuo ha contemporaneamente. È importantissimo capire che non c’è solo la pluralità, ma una plural plurality, una pluralità nelle differenze che impedisce le grandi classificazioni. Sen parla anche di crisi del multiculturalismo, ma in direzione opposta: “Il multicul-turalismo nasce come affermazione dei diritti umani, sull’assunto che non ci devono essere discriminazioni basate su religione, cultu-ra o appartenenza razziale. Poi però è diventato qualcos’altro: oggi, a volte, diventa un pluralismo delle monoculture. Come navi che s’incrociano nella notte senza condividere nulla. E questo è molto pericoloso. Noi dobbiamo conoscere le altre culture. I ragazzi ita-liani, anche se frequentano una scuola tradizionale, devono sapere che la parola algoritmo deriva da al-Khowarizmi, il nome del mate-matico arabo che nel IX secolo ha prodotto un concetto che noi tutti usiamo nella cultura occidentale”.

Tra i critici di Huntington c’è anche l’Accademia delle Scienze americana, che ha bocciato per due volte la sua candidatura accu-sandolo di usare “metodi antiscientifici” nelle sue ricerche.

Dalla geopolitica alla geoeconomia: Edward Luttwak

Luttwak crea un neologismo, la geoeconomia, che, nella strut-tura teorica iniziale, avrebbe dovuto sostituire la geopolitica o

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quantomeno diventarne la componente predominante. Spiega che la logica della competizione geoeconomica è quella della guerra mentre la grammatica (la tattica) è quella dell’economia. Si tratta in sostanza di un approccio di tipo strategico-militare all’economia, pur con i dovuti distinguo poiché la competizione economica presenta comunque caratteristiche diverse da quella militare. La geoeconomia è, infatti, caratterizzata dai seguenti elementi:1. non è mai un gioco a somma zero, dove il beneficio di una parte

corrisponde a una perdita per l’altra. Non è mai un gioco a eli-minazione. I conflitti non tendono mai alla distruzione completa dell’avversario né si concludono generalmente con essa;

2. l’uso solo potenziale della forza a fini dissuasivi svolge un ruolo minore rispetto al significato che riveste nella geostrategia;

3. il dilemma della sicurezza del pensiero strategico, molto simile al dilemma del prigioniero, è sostituito dal paradosso della coo-perazione, secondo cui si ha tanto maggiore interesse a violare gli accordi e regole quanto più gli altri le rispettano;

4. in geostrategia di solito vi è un solo avversario, in geoeconomia sono avversari tutti gli Stati o i soggetti geoeconomici su cui si tende a conseguire vantaggi economici indebiti;

5. in geopolitica lo Stato ha il controllo completo dei suoi strumenti e ne conosce la vulnerabilità e la capacità, in geoeconomia tale controllo è solo parziale. Il sistema economico è a responsabilità decisionale diffusa ed è percorso da forze che sfuggono alla vo-lontà e al controllo degli Stati. Gli Stati possono solo attivare un comportamento favorevole ai propri fini mettendosi nella loro logica e predisponendo opportuni incentivi.

In questo nuovo modo d’iterazione conflittuale tra Stati, le co-siddette armi di distruzione di massa, che caratterizzano i moder-ni armamenti strategici e che rendono drammatico e difficilmente attuabile un conflitto armato tra grandi potenze, sono sostituite da quelle che Luttwak chiama “armi di distruzione commerciale” che consistono:

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− nelle restrizioni delle importazioni più o meno simulate;

− nelle sovvenzioni alle esportazioni più o meno occultate;

− nel finanziamento pubblico di progetti a valenza competitiva; − nell’educazione e preparazione professionale;

− nella fornitura di infrastrutture che rendano un differenziale eco-nomico in termini concorrenziali;

− in embarghi ecc.

Lo studioso americano tiene a precisare che la nuova era, ca-ratterizzata dal conflitto geoeconomico, non è una regressione verso una nuova forma di mercantilismo. L’obiettivo del mer-cantilismo era quello di massimizzare le riserve auree. In que-sto contesto le dispute commerciali tra Stati spesso diventavano scontri militari che culminavano in vere e proprie guerre. Un moderno Stato “geoeconomico”, invece, ha come obiettivo la prosperità economica della propria popolazione (piena occupa-zione, benessere e alto reddito) e la guerra è considerata poco conveniente per i suoi costi sociali ed economici troppo alti. Per-tanto mentre nel mercantilismo l’economia era la causa di molte guerre, nella moderna epoca geoeconomica, invece, l’economia non è solo causa di conflitto ma anche arma e strumento. Queste teorie nascono da un intenso dibattito che era in corso negli Stati Uniti dopo la caduta del Muro di Berlino. Da un lato c’era la convinzione che la fine della Guerra Fredda stesse provocando una vera e propria discontinuità nella politica mondiale. Era pre-sente il ricco settore di studio del Japan bashing, che attribuiva i successi economici nipponici e le difficoltà statunitensi, so-prattutto negli anni Ottanta, alle pratiche sleali messe in atto dal governo giapponese. Con la sostituzione della geopolitica con la geoeconomia si auspicava un profondo rinnovamento etico e politico americano, che avrebbe ricostruito le basi economiche e sociali della nazione. La rivalità geoeconomica avrebbe costi-tuito la nuova minaccia unificante delle energie del popolo degli Stati Uniti. In quest’ottica, la globalizzazione, il soft power e l’ideological dominance, avrebbero garantito la superiorità del-

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l’Occidente nel mondo e quella degli Stati Uniti nell’Occidente, a patto che si lasciassero agire liberamente le forze naturali del mercato. L’approccio “militarista” della geoeconomia è stato ri-preso da diverse scuole di pensiero molto differenti tra di loro: dai propugnatori della teoria della fine dello Stato della guerra e del territorio, fino ad arrivare ai critici della globalizzazione liberista. Vi sono aspetti delle teorie di Luttwak su cui tutti gli esperti sono concordi come l’esigenza che vengano perfezionati i sistemi di educazione e formazione professionale e l’adegua-mento della forza lavoro alle esigenze della nuova economia, an-che in termini di flessibilità e mobilità. L’impostazione geoeco-nomica luttwakiana è stata oggetto anche di critiche provenienti da diversi studiosi.

La Cina è vicina?

Appare quindi importante capire in quale misura, da quando l’impero sovietico è crollato, gli Usa non solo ambiscano all’Anel-lo del mondo, il Rimland, che pure già controllano da tempo, ma anche all’Hearthland, al Cardine del pianeta. Il petrolio del Caspio da una parte e l’apertura della Cina dall’altra, con il suo alto tasso di crescita e per il fatto di essere un mercato molto interessante, sono due fattori troppo importanti per non mettere stabile dimora nell’Hearthland da parte degli Usa e della Nato e quindi anche da parte dell’Europa.

Per la prima volta nella storia, le truppe di un impero pre-valentemente marittimo, come quello angloamericano, si trove-rebbero molto prossime al cuore stesso delle Hearthland, o nu-cleo centrale euroasiatico, il cui controllo geopolitico dovrebbe bilanciare il dominio degli oceani e che invece in questo caso rischia di associarsi a esse, determinando un’egemonia assoluta statunitense12.

12 M. Armellini, La posta in gioco è il controllo dello hearthland, in «Limes», supplemento al n. 4, 2001.

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La Cina, inoltre, entrata nel Wto (Omc, Organizzazione Mondia-le del Commercio) conterà nei prossimi 25 anni almeno 600 milioni di contadini in movimento dalla campagna alle città. Il fenomeno, in atto da tempo in semiclandestinítà, è diventato evidente dal 1°otto-bre, quando le regole per l’inurbazione imposte dalle autorità cinesi si sono fatte meno rigide, consentendo ai contadini di ottenere il permesso di trasferirsi permanentemente nei centri urbani. Lo spo-stamento regolamentato riguarda soprattutto centri fino a 5 milioni di abitanti, che per gli standard cinesi sono da considerarsi medio-piccoli13.

Ma è necessario anche riposizionarsi dal punto di vista geografi-co cinese, dove l’Occidente diventa Oriente e l’Oriente Occidente, cosicché: “Prospettive feconde possono rivelarsi a chi osservi da un nuovo punto di vista luoghi comuni” (L.L. Whith).

Carta n. 7 - Il mondo visto dalla Cina

13 «Famiglia Cristiana», n. 39/2001.

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Carta n. 8 - Dal Golfo alla Cina

Fonti: «Le Monde diplomatique»; Energy Map of the Middle-East and Ca-

spian Sea; Petroleum Economist & Arthur Andersen, London 2000; Central

Intelligence Acency’s 2000 maps and publications (Cia); United States Energy

Information Administration (Eia).

L’Isola Mondo americana: dal Nafta all’Agoa... all’Asia

Nel 1994, la secolare dottrina di Monroe “L’America agli ameri-cani”, – in cui non ci fossero quindi intromissioni politiche da parte dell’Europa ma una specie di protettorato economico degli Usa sul-l’America Latina, dottrina con la quale gli Usa hanno voluto giusti-ficare la loro ingombrante presenza in tutto il continente americano – trovò un’ulteriore affermazione attraverso la firma con Canada e Messico del Trattato Nordamericano per il Libero Commercio

(North American Free Trade Agreement, Nafta).

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Carta n. 9 L’Asia vista dagli Usa

Fonte: The Us government’s Energy Information Administration.

Il Nafta aboliva i diritti doganali (del 4% quelli Usa e del 10% quelli messicani) creando un mercato di 367 milioni di consumatori con un Pnl di 6450 miliardi di dollari (reddito medio Canada/Usa=21.000 dollari, Messico=2.490 dollari).

La libera circolazione non solo di merci, e quindi a vantaggio del Messico e dei suoi prodotti industriali, ma anche delle ben più lucrative banche e assicurazioni americane e canadesi significava, infatti, libera circolazione di denaro, che è la merce più redditizia, più mobile e più facilmente riconvertibile.

Accanto a quello americano c’è pure il cosiddetto Nafta for Africa, che include anche 25 Paesi caraibici, per un potenziale mercato di 700 milioni di consumatori.

Presentata al Congresso americano già nel 1998 una prima volta, la proposta di legge African Growth And Opportunity Act (Agoa), era stata promossa da una coalizione di multinazionali, l’Agoa Coalition Inc., di cui fanno parte tra le altre: Texaco, Mobil, Amoco, Caterpillar, Occidental Petroleum, Enron, General Electric, Chevron, Kmart...

Il Nafta for Africa richiedeva alle nazioni africane che avessero voluto ottenere i “benefici” derivanti dal commercio con gli Usa, di

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sottomettersi alle regole del Fondo Monetario Internazionale e alla certificazione del presidente degli Usa, ottenibile solo a determinate condizioni: - riduzione delle tasse per gli investitori nazionali e stranieri;

- privatizzazione dei patrimoni e dei servizi pubblici (trasporti, sa-nità, comunicazioni);

- accesso illimitato alle risorse naturali;

- adozione di politiche agricole per colture estensive destinate al-l’esportazione;

- ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Accanto al Nafta e all’Agoa, il progetto di Isola Mondo e glo-balizzazione economica a guida americana e a leadership militare angloamericana si andava compiendo anche intorno ai Trattati con i Paesi asiatici dell’Apec, contemporanei alla firma del Nafta, garantendo così anche sul Pacifico i vantaggi consolidati sull’Atlan-tico.

I partner asiatici dell’Apec si presentavano infatti come un part-ner privilegiato degli Usa, con un volume di scambi commerciali del 50% superiore rispetto a quello dell’America con l’Europa. E si presentavano per di più come un mercato fortemente appetibile per le future esportazioni americane, favorite sia da una produzione pro-capite che raddoppia ogni dieci anni facendo aumentare la capacità d’acquisto dei consumatori asiatici, sia dalla propensione di queste popolazioni al risparmio (oltre il 30% del prodotto interno lordo) e che rappresentava quindi un mercato di grande interesse per banche e assicurazioni, le più interessate a entrare nei mercati asiatici.

Una maggiore integrazione Usa-Asia raggiungeva anche un altro obiettivo strategico importante, facendo saltare la teoria dei tre poli Usa-Giappone-Europa, che si era sostituita al mondo bipolare Usa-Urss dopo la caduta dell’impero sovietico, mettendo in una diffi-cile situazione l’Unione europea a ovest e il Giappone a est (che esportava verso il resto dell’Asia molto più di quanto importasse).

Gli accordi chiusi dall’amministrazione Clinton con i Paesi del-l’Apec rafforzavano nel Pacifico la posizione dell’America, ma an-

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cora nel senso del Rimland e quindi dell’Anello marittimo. L’Apec, infatti, raccoglieva Usa, Canada, Giappone, Cina popolare con Hong Kong e Taiwan, Australia, Nuova Zelanda, e i sei Paesi dell’Asean (Asia del Sud est) Indonesia, Tailandia, Malaysia, Filippine, Singa-pore, Corea del Sud, tutti ad altissima crescita annua.

Ma non andava ancora al cuore del problema, e al cuore del con-tinente, l’Hearthland. Ciò poteva avvenire solo se gli Usa avessero realizzato sia una posizione forte tra Russia ed Europa, da una parte, che indebolisse la possibilità di loro legami economici più stretti, sia una vicinanza accattivante con la Cina, dall’altra parte, giocata sulla terraferma e non sul mare e soprattutto senza l’interposizione, sul Pacifico, del Giappone.

Questo problema veniva risolto con l’occupazione non più mediata dal comandante Massud (o da regimi voluti dagli Usa e poi rivelatisi, come i talebani, un losco affare) ma con l’occupa-zione diretta con basi militari del cuore dell’Asia, l’Hearthland, appunto, rappresentata non solo dall’Afganistan ma anche da quelle interessantissime Repubbliche Caucasiche ricche di risor-se energetiche.

In tale geopolitica, tuttavia, bisognava che l’America facesse i conti con tre problemi di marca fortemente asiatica:1) il rapporto tra mercato e democrazia: come garantire cioè la con-

tinuazione dello sviluppo mantenendo le strutture di potere attua-li, soprattutto delle Repubbliche Caucasiche a base fortemente clanica, strutture che spesso sono per nulla democratiche e con una dubbia possibilità di inserirsi nel sistema delle regole demo-cratiche;

2) i rapporti politici tra i Paesi asiatici che rendono problematiche le leadership regionali sia nel sud est, sia nel subcontinente indiano, sia nelle repubbliche caucasiche, senza una forte interposizione di Cina, Russia e Giappone;

3) i rapporti economici fortemente collusi con le mafie locali e con quelle transnazionali, che rendono ancor più problematica che in Occidente una separazione tra liberismo globalizzato e capitali-smo mafioso.

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Carta n. 10 - I comandi regionali militari Usa

(Carta tratta dall’editoriale: Cresci, compra e scappa,

di «Limes», n. 2/2010, Afghanistan addio!)

La carta mostra la divisione del mondo tra comandi regiona-

li militari americani. Indica inoltre gli alleati fidati dell’America,

l’avamposto latino americano, Israele e gli alleati Nato. Inoltre in-

dica le basi Usa che ospitano più di 400 soldati e altri Paesi in cui

ci sono concentrazioni di truppe Usa.

Dal Caucaso al Mediterraneo: mafie, clan e nuove aristocrazie

del danaro

Attualmente nei Balcani, gli Usa possono contare su alcuni ri-sultati sicuri: hanno costruito una grande base militare in Kosovo (Camp Bondsteel); hanno neutralizzato il Corridoio strategico n.10 sul quale convergevano gli interessi di Russia, Serbia, Grecia e an-che Germania; hanno dato il via al versante più occidentale del Cor-ridoio strategico n. 8, sul quale convergono invece gli interessi ame-ricani e inglesi; possono contare sull’alleanza di tre Paesi funzionali

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al Corridoio: Albania/Kosovo, Bulgaria e una parte della riottosa Macedonia14.

Dal Mar Ionio fino al Golfo di Batumi l’area presentava conflitti latenti e tensioni antiche. La caduta dell’impero sovietico, il contat-to di queste regioni con le pratiche occidentali di consumo e di im-moralità economica, la creazione di nuove aristocrazie mafiose del denaro, conseguenza della logica di mercato nella sua variante più liberista e deregolamentata, non fanno che aumentare i conflitti.

Il Caucaso, la Turchia e i Balcani offrono una rotta al traffico di eroina proveniente dalla prima zona di produzione oppiacea del mondo: Afghanistan, Pakistan e Iran, collegate alle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale e alla Russia asiatica, la quale sem-pre più si va trasformando in nodo di traffici di stupefacenti, meno controllato delle consuete rotte utilizzate dai trafficanti del Sud-Est asiatico.

Sia in Asia Centrale che in Caucaso la permeabilità delle frontie-re è favorita dall’enorme numero di etnie che vivono a cavallo delle frontiere stesse. Osseti, agiari, ceceni, azeri, armeni, megreli, ecc., per quanto riguarda l’area caucasica; kirghisi, kazakhi, turkmeni, bachiri, tatari, tagichi, osseti, curdi, pachtuni, balutchi, uzbechi, ecc. per la parte asiatica collegata al triangolo d’oro (Birmania, Laos Tailandia).

Questi gruppi formano comunità organizzate transfrontaliere dove vigono più i legami clanici e di solidarietà intragruppo che le regole democratiche. Per di più questi gruppi hanno vissuto per secoli in regioni a forti tradizioni imperiali, subendo trasferimenti forzati di popolazioni in aree periferiche degli imperi (russo, otto-mano, austroungarico prima, sovietico poi), sviluppando contempo-raneamente sia una forte solidarietà intragruppo e legami clanici ed etnici fortissimi, sia una forte avversione per l’etnia dominante e lo Stato che rappresenta. Questi due fattori non fanno che agevolare

14 Intervista di Alberto Negri al generale Jackson, in «Il Sole 24 ore», aprile 1999, in cui si affermava che i contingenti militari americano e inglese, erano nei Balcani “per rimanerci a protezione degli oleodotti strategici che attraverse-ranno questa regione”.

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un’economia parallela che, in situazione di disgregamento dell’im-pero sovietico e di forte deregolamentazione economica, non fa al-tro che favorire l’economia mafiosa.

Economia di produzione, di predazione e la mafizzazione del-

l’economia

L’economia che si sviluppa durante una guerra è fortemente ca-ratterizzata da elementi che possono definirla come economia di predazione piuttosto che di produzione, in quanto si basa su legami di tipo criminale e determina una generalizzazione dell’economia sommersa.

Tale predazione assume due forme sostanziali:1) una forma diretta ed estremamente violenta, che comprende le

pratiche del saccheggio e dell’estorsione associate alla pulizia etnica;

2) una forma più indiretta, che concerne le pratiche di tassazione e di rendita commerciale collegate all’approvvigionamento delle popolazioni isolate. Questa seconda forma può comprendere il prelevamento arbitrario dagli aiuti umanitari (verrebbe sottratto in tal modo il 30-50% degli aiuti) il controllo del mercato nero e l’imposizione di vari dazi di transito sui principali assi viari.

D’altra parte, l’aiuto umanitario provoca numerosi dibattiti fra le organizzazioni non governative (Ong), in quanto fungerebbe spesso da placebo nelle crisi che non interessano alle classi politiche, ma anche perché gran parte del denaro speso per quell’aiuto finisce ra-pidamente nelle mani dei gruppi armati attraverso il saccheggio dei convogli umanitari (come in Bosnia), la confisca degli aiuti alimen-tari (in numerosissimi conflitti), il reclutamento da parte delle orga-nizzazioni umanitarie di miliziani che sparano per motivi che hanno poco a che vedere con la protezione dei medici e degli ospedali. Ma le Ong sono semplici comprimarie in confronto alle agenzie delle Nazioni Unite che hanno fondi, attrezzature, personale e risorse ben maggiori.

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Per esempio, pare che i campi dei rifugiati svolgano una parte notevole nella logistica dei movimenti armati, dai khmer rossi ai combattenti del Sudan meridionale. Ma bisogna anche considerare l’appoggio che l’aiuto umanitario può fornire ai Paesi che non riescono a procurarsi divise estere. In certi con-flitti possono assumere grande importanza le diaspore. Ci si ap-poggia all’azione dei militanti emigrati. Intervengono tuttavia grandi differenze nel modo in cui le diaspore si strutturano (o vengono strutturate) per la raccolta del denaro e per l’organiz-zazione delle relazioni con il gruppo armato. A questo stadio, l’economia di tipo mafioso che si può sviluppare riflette non più l’immagine di un corpo sociale unito dietro ai vincitori, ma di vari gruppi tenuti assieme dalla forza degli interessi particolari. L’economia mafiosa non stabilisce, quindi, solo uno specifico legame transnazionale, ma impone nuove relazioni economiche alla popolazione, forzandola entro un nuovo ordinamento eco-nomico15.

In Asia Centrale le popolazioni dei Paesi caucasici, afgane e quelle albanesi di Albania, Kosovo e Macedonia sono unite dalle reti di narcotraffico che hanno stabilito ponti e percorsi privile-giati proprio a partire dai legami familiari e di clan, che sono la trama su cui si tessono le economie mafiose dell’area balcanica

e caucasica. Oltre ai traffici di droghe slave, che sembrano pre-ferire sempre più Tirana al confine italo-sloveno, e quelli in pro-venienza dalla Macedonia, ci sono le droghe turche provenienti dai Paesi caucasici ma trafficate da georgiani e armeni, cui ora

sembrano collegarsi direttamente gli albanesi senza più l’inter-mediazione turca.

15 Lo Stato del mondo, Il Saggiatore 1996.

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Tabella n. 2

Carta n. 11 - Le vie della droga

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Carta n. 12 - Le coltivazioni del papavero

I settori di specializzazione delle mafie dei Paesi in transizione

Il crimine organizzato e i clan mafiosi, inoltre, non sono solo

articolati etnicamente, ma anche secondo settori di specializzazione nazionale delle mafie, secondo una sorta di “divisione internaziona-le del lavoro criminale”.

- Jugoslavia: contrabbando di eroina e armi pesanti;

- Albania: armi, droghe, mercurio bianco, prostituzione, immigrati;

- Armenia: traffico di armi leggere;

- Ebrei ex sovietici insieme a polacchi: auto rubate in Occidente, soprattutto in Germania;

- Russia: racket della prostituzione, mercurio rosso e uranio e ...tutto;

- Ucraina: traffico sostanze radioattive in Europa occidentale ed

estorsioni agli uomini d’affari;

- Rumeni di origine sovietica (Moldavi): racket;

- Europa dell’Est, specialmente Russia, Bulgaria e Cecoslovacchia: traffico di antiquariato, diretto specialmente in Italia, Austria, Fran-

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cia e Germania. Nell’ex Unione Sovietica l’80% del patrimonio di icone (30 milioni di icone) è stato rubato e trafficato all’estero;

- Russia, Stati Baltici e Ucraina: auto rubate provenienti prevalen-temente dalla Germania;

- Asia Centrale e Caucaso: auto rubate una seconda volta da Rus-sia, Stati Baltici e Ucraina;

- Mosca con agenzie a New York: oltre alle vendite legali, anche vendite semilegali di armi e componenti di armi (con l’aiuto di fi-nanzieri e militari) diretti in Transcaucasica, Moldavia e Balcani;

- Turchia: forte differenziazione e inserimento in attività legali (immobiliare, casinò, trasporti, turismo, agenzie di viaggio, pel-legrinaggi e immigrazione).

Carta n. 13 Il nucleare indiano e pakistano

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Il terrorismo nucleare e quello biologico-chimico

La Teoria del Contenimento sarebbe stata tuttavia non credibi-le se non fosse stata accompagnata da un altro strumento, ovvero la Teoria della Deterrenza. A sua volta la Teoria della Deterrenza richiedeva una minaccia esistenziale di annichilimento globale tra-mite l’arma più potente che l’uomo fosse mai stato in grado di con-cepire, costruire e usare che è la bomba nucleare (usata proprio alla fine della Seconda Guerra Mondiale contro le città giapponesi di

Hiroshima e Nagasaki). In popoli quali quelli dell’Asia Centrale, senza una tradizione statale ma prevalentemente clanica e che rie-mergono dalle macerie di guerre e occupazioni a opera di occupanti differenti, l’economia predatoria viene facilmente riorganizzata in economia mafiosa.

La proliferazione nucleare accresce fortemente il rischio del ter-rorismo nucleare, che può assumere due forme: l’uso di armi nuclea-ri e chimiche a fini terroristici e l’organizzazione di attentati contro

obiettivi nucleari e chimici. Nel periodo susseguente alla fine della

Guerra Fredda si sono moltiplicati gli attentati con esplosivi sul ter-ritorio statunitense (la prima volta contro il World Trade Center di New York, il 26 febbraio 1993, la seconda volta a Oklahoma City, il 19 aprile 1995, la terza l’11 settembre 2001), con gas nervino nella metropolitana di Tokyo, con lettere all’antrace in territorio Usa.

Essi hanno dimostrato la debolezza delle difese delle democrazie, facendo dubitare della loro capacità di risposta in caso di attentato con un ordigno nucleare. Gli obiettivi nucleari e chimici (centrali, traspor-ti di materiale radioattivo, ecc.) sembrano protetti in misura insuffi-ciente. La loro vulnerabilità ha assunto rilievo strategico internazionale quando, nell’agosto 1992, Radovan Karadžić, il capo dell’autopro-clamata Repubblica serba di Bosnia, ha minacciato di bombardare le centrali nucleari europee se l’Occidente fosse intervenuto nella guerra in Bosnia. Lo stesso è accaduto anche quando l’ha fatto Bin Laden.

Accanto a quella nucleare, la guerra chimico-biologica, in un clima di globalizzazione mafiosa, terrorismi internazionali e caduta

del patto di solidarietà internazionale, sembra ancor più angoscian-

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te. Normali sostanze usate nell’industria per produrre detergenti o ceramiche, se combinate tra loro si trasformano in gas letali, in armi letali. L’unica possibilità che gli Stati oggi hanno di impedire che circolino queste sostanze e che vadano a finire in mano a regimi

guerrafondai o a organizzazioni terroristiche e criminali, è control-lare le industrie che le producono e di quei cinquanta componenti con cui si fa il gas nervino e che fanno parte della warning list, la lista nera di materie strategiche, permettere le esportazioni solo di prodotti finiti.

Concludendo, occupare l’Herthland appare sempre più perico-loso, rispetto alle epoche precedenti, quasi come sedersi su una polveriera di fuoco, il Paese dei Fuochi come lo chiamava Marco Polo, un fuoco fatto di petrolio, guerra, mafie e nucleare: una mi-scela apocalittica16.

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16 Il Paese dei Fuochi è il titolo del mio articolo nel prossimo numero, in cui si analizzerà la geoeconomia collegata al petrolio del Caspio e ai corridoi di Creta.

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