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I detectives dell’archeologia di C. W. Ceram Storia dell’arte Einaudi 1

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I detectives dell’archeologia

di C. W. Ceram

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:C. W. Ceram, I detectives dell’archeologia. Le grandiscoperte archeologiche nel racconto dei protagonisti,trad. it. di Luciana Bonaca Boccaccio, Einaudi, To-rino 1968Titolo originale:The World of Archaeology© 1965 Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg

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Prefazione

I. In luogo di un’introduzione 12

charles leonard woolleyL’archeologo ideale 12charles leonard woolleyCome comperare antichità 14carlo maurilio lerici Una difesa dei «tombaroli» 19charles leonard woolley Uno strano affare 30Furti d’arte legalizzati 34charles leonard woolley Il perfetto falsario 35La convenzione di Olimpia 38

II. Il libro delle statue 43

La fondazione del Museo Britannico 43horace walpole a Horace Mann Un noioso legato 49Il discusso lascito di Lord Elgin 51heinrich schliemann Il tesoro di Priamo 56heinrich schliemann Un tesoro rubato 64heinrich schliemann Un capo miceneo 66

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johann joachim winckelmann Winckelmann ad Ercolano 70I calchi in gesso dei cadaveri di Pompei 76claude tarral La scoperta della Venere di Milo 80L’auriga di Delfo 91ernst curtius La scoperta dell’Hermes di Prassitele 99paul mackendrick La ricostruzione della Stoà 101rupert leo scott bruce-mitford Il Mitreo di Londra 106george dennisTracce degli Etruschi 112arthur evans Il toro di Minosse 117arthur evans Opera di ricostruzione a Cnosso 123william taylour Ventris decifra la scrittura cretese 128

III. Il libro delle Piramidi 141

auguste mariette Il turista e i monumenti 141johann ludwig burckhardt Scavi in Egitto 145dominique vivant denon Una visita a Tebe 150giovanni battista belzoni L’apertura di una piramide 156

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giovanni battista belzoni Un deposito nascosto di mummie a Tebe 175johann ludwig burckhardt Il tempio di Abu Simbel 178amelia edwards Caffè ad Abu Simbel 182Appello del signor Vittorino Veronese direttore generale dell’Unesco 184gaston maspero Un deposito di mummie reali 187athanasius kircher Una falsa interpretazione dei geroglifici 194tomkyns hilgrove turner Come la stele di Rosetta giunse al Museo Britannico 200Champollion decifra i geroglifici 204charles piazzi smyth Una fantastica interpretazione della grande piramide 216william flinders petrie La tomba subacquea 224ernest budge La scoperta delle tavolette di Amarna 231howard carter Tutankhamon 235howard carter La bara d’oro 240zakaria goneim La piramide sepolta 256

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IV. Il libro delle torri 273

henry rawlinson Una seconda decifrazione della scrittura cuneiforme 273claudius james rice Sorgeva qui Babilonia? 284robert koldewey Le mura di Babilonia 293robert koldewey Una curiosa scultura 299paul emile botta Problemi dello scavo a Ninive 301austen henry layard Scavi a Nimrud 305austen henry layard Scoperte ed allarmi 312george smith Ritrovamento dell’epopea di Gilgamesh 318herman hilprecht Prime conquiste tecniche 325charles leonard woolley Le tombe reali di Ur 331

V. Il libro delle rocce e delle valli 338

carl humann Scavando Pergamo 338william wright La scoperta delle pietre di Hamah 345

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hugo winckler A Boghazköy! 354lubor matou\HroznØ decifra il cuneiforme ittita 361helmuth bossert Scavi alla Montagna Nera 369friedrich dörner La residenza reale sul «fiume delle Ninfe» (Ninfeo) 379claude schaeffer La scoperta di Ugarit 386nelson glueck Le fonderie di Salomone 393john marco allegro I rotoli del Mar Morto 400

VI. Il libro dei gradini 410

alexander von humboldt La piramide di Cholula 410jean de waldeck Viaggi nello Yucatan 418john lloyd stephens L’acquisto di una città 425john lloyd stephens Il palazzo di Palenque 432grafton elliot smith L’elefante in America? 444eduard seler Il tempio-piramide di Tepoxtlan 450

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alberto ruz Una tomba reale a Palenque 461hiram bingham Machu Picchu, la città sacra 472victor von hagen Il ponte di San Luis Rey 482arthur posnansky Un problema di Tihuanacu 491

VII. Nuovi metodi al servizio dell’archeologia 496

osbert crawford Archeologia aerea 496jacques-yves cousteau Il Museo azzurro 507thomas geoffrey bibby La fisica atomica nell’archeologia 522carlo maurilio lerici Il periscopio Lerici 527Fotogrammetria 536Decifrazione mediante calcolatori elettronici? 540

Elenco delle fonti 546

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Prefazione

«L’archeologia è al tempo stesso unascienza e un’arte».

Encyclopaedia Britannica, 1950

Come ogni altra definizione tratta da un’enciclope-dia anche questa è incompleta. L’archeologia, oltre aessere una scienza e un’arte, è infatti anche azione eavventura dello spirito. Non soltanto nel periodo clas-sico delle grandi scoperte archeologiche, il secolo xix, maanche oggi, in pieno secolo xx l’archeologo deve com-battere contro forze ostili che si possono presentaresotto vari aspetti: la giungla, il deserto, burocrati miopied ottusi, opposizione dei tipi piú svariati. Perciò laprima parte del nostro libro tratta dei ladri di tombe deinostri giorni e della lotta che gli archeologi devono soste-nere per proteggere i monumenti.

Sebbene i racconti degli archeologi di questo tipo diavventure, che accompagnano le loro ricerche scientificheserie, siano assai eccitanti, le avventure spirituali che glistudiosi possono incontrare nella quiete del proprio stu-dio, di cui Champollion con la decifrazione dei caratterigeroglifici offre un esempio clamoroso, sono di gran lungapiú stimolanti.

In questa antologia passeremo in rassegna avventuredi entrambi i tipi. Il libro non è stato composto comeun romanzo che si può leggere dalla prima all’ultimapagina in un sol fiato. Lo scopo di ogni antologia è quel-lo di dare la visione piú completa possibile di un pano-rama spirituale, ma solo il geometra misura un paesag-gio sistematicamente, mentre l’osservatore curioso notai luoghi ameni per una breve sosta.

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La scelta degli articoli è puramente soggettiva e nonavrebbe potuto essere altrimenti, data la mole del mate-riale disponibile. Il criterio principale fu di scegliere ciòche poteva interessare e di presentarlo in modo tale chene risultasse un quadro completo dell’attività archeologi-ca. In questa sede sarebbe stato fuor di luogo tener contodei pregi letterari. Molti studiosi sono narratori assai sca-denti, ma l’importanza dell’argomento è tale da far tra-scurare le pecche formali e perciò sono stati accolti in que-sto libro anche alcuni articoli letterariamente non moltofelici, si sono dovuti invece tralasciare molti scritti per-ché redatti in forma strettamente scientifica e perciòincomprensibile per l’uomo della strada, ma in compen-so si sono «rispolverati» anche alcuni argomenti che permolti anni furono ignoti anche agli studiosi.

In questo libro sono stati accolti solo scritti autenti-ci di archeologi. Per la compilazione mi sono ispirato aduno dei principî basilari dell’archeologia, il rispetto deidati, che ho cercato di non alterare minimamente, avver-tendo di ogni omissione. Sotto questo punto di vistacreavano un problema le varie grafie dei nomi, ma inquesto caso, per quanto possibile, ho conservato la gra-fia originale e tutte le varianti di ogni nome sono stateelencate nell’indice in cui si è indicata la forma oggi diuso piú comune.

Il mio scopo non è di compilare un’antologia com-pleta, tale lavoro essendo già stato fatto da altri. Perchiarire in pieno il raggio di azione della ricerca archeo-logica, anche dove ha sbagliato, sono state menzionatealcune conclusioni assolutamente astruse e prive disenso, come la fantastica analisi del significato dellepiramidi ad opera dello Smyth o la non meno fantasti-ca interpretazione della scrittura geroglifica del Kircher,che illustrano meglio di qualsiasi descrizione quantericerche pseudoscientifiche e in direzioni del tutto erra-te precedano il raggiungimento di una conclusione accet-tabile.

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Nei capitoli dell’introduzione sono stati inclusi alcu-ni articoli per illuminare certi problemi collaterali all’ar-cheologia vera e propria, per esempio l’esemplare con-venzione per gli scavi di Olimpia o le esperienze degliarcheologi a proposito di ricostruzioni, falsari, mercan-ti di antichità.

Il nostro libro riguarda il periodo compreso tra iprimi scavi sistematici e l’epoca attuale, in cui il fatico-so lavoro di pala e piccone dello scavatore è statoimprovvisamente alleviato e potenziato da complicatiritrovati tecnici. Topograficamente ci siamo limitatiall’Europa, al Nord Africa, al Vicino Oriente e alle dueAmeriche. Le scoperte preistoriche non sono state presein considerazione perché non rientrano nel panorama delnostro libro.

Avrei piacere di ringraziare la dottoressa Anne G.Ward, che ha scritto le note biografiche, per aver com-piuto un lavoro molto arduo in modo davvero esemplare.

c. w. ceram

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Parte primaIn luogo di un’introduzione

charles leonard woolley L’archeologo ideale

Il primo compito dell’archeologo militante è quello diraccogliere e ordinare materiale che non può trattaretutto da sé di prima mano. In ogni caso la sua non saràla parola definitiva e proprio per questo la pubblicazio-ne del materiale deve essere molto dettagliata, in modoche gli altri non solo siano documentati sulle sue con-clusioni, ma anche ne ricavino nuove osservazioni eulteriori chiarimenti. Non dovrebbe egli limitarsi a que-sto? Non è detto che chi possiede doti eccezionali diosservatore e di classificatore debba necessariamenteavere la capacità di sintesi e di interpretazione, lo spi-rito creativo e le doti letterarie che faranno di lui unostorico. In ogni caso nessuna relazione può essere esau-riente. Durante lo scavo, lo studioso è continuamenteesposto ad impressioni troppo soggettive e astratte peressere comunicate, da cui, tramite processi non sempreprecisamente logici, germogliano teorie che egli puòenunciare, sostenere, ma non dimostrare. La loro atten-dibilità dipenderà in ultima analisi dalla sua personalità,ma in ogni caso esse hanno valore come somma di espe-rienze che nessuno studioso dei suoi oggetti e delle suerelazioni potrà mai rivivere. Stabilito che lo scavatoresia all’altezza del suo compito, le sue conclusioni dovreb-bero avere peso ed egli è tenuto ad esporle; se sono pale-semente errate si possono giustamente avanzare riserveanche sulle sue osservazioni. Fra archeologia e storia nonci sono limiti ben precisi e lo scavatore che meglio esa-

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minerà e registrerà le proprie scoperte è precisamentequello che le considera materiale storico e le apprezzanella giusta misura. Se egli non ha capacità di sintesi edi interpretazione ha sbagliato mestiere. È chiaro chepuò anche non possedere alcuna dote letteraria e quin-di la presentazione formale dei risultati al pubblico puòessere fatta piú efficacemente da altri, ma è l’archeolo-go militante che, direttamente o indirettamente, haaperto per il lettore comune nuovi capitoli nella storiadella civiltà umana. Strappando alla terra tali reliquiedocumentate del passato che eccitano l’immaginazioneattraverso gli occhi, egli rende reale e moderno ciò chealtrimenti potrebbe sembrare un racconto remoto.

Digging up the Past, 1954

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charles leonard woolley Come comperare antichità

Prima che l’archeologo moderno conficchi la vanga nelterreno, apposite convenzioni hanno già deciso dell’as-segnazione di tutti i possibili reperti. Un’accurata legi-slazione ha ridotto al minimo la sottrazione degli ogget-ti antichi. Ma per quanto lungimirante sia stato il legi-slatore, la natura umana e il valore delle antichità hannospesso fatto sí che venissero eluse anche le leggi piú pre-cise in materia.

Per quanto riguarda le antichità la furfanteria non èsempre limitata ai mercanti.

Ero a Napoli, ospite di un mio amico, un inglese cheha vissuto lí tutta la vita. Un giorno si presentò uno sta-gnaro che aveva una casetta e una piccola bottega in unalocalità chiamata Pozzuoli, nei sobborghi settentrionalidella città: aveva sentito che ero lí e aveva qualcosa diinteressante da riferire. Aveva ingrandito la casa e sca-vando le fondamenta, aveva trovato numerosi blocchi dimarmo alcuni coperti di iscrizioni e uno scolpito. Liaveva mostrati al parroco che li aveva giudicati interes-santi e di una certa importanza ed egli ora desideravasapere se sarei andato a vederli e comperare tutto quel-lo che volevo.

Andai: fra molte iscrizioni c’era una lastra di marmomolto grande, circa un metro e ottanta o anche di piúdi altezza per uno e mezzo di larghezza, con un gruppodi figure scolpite a grandezza naturale, una ad alto rilie-

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vo e due a basso rilievo; quella ad alto rilievo era evi-dentemente un membro della famiglia di Augusto e lealtre due rappresentavano soldati. Mi resi conto che sitrattava di un frammento di un monumento straordi-nariamente importante e pregevole.

Dissi all’uomo: – Sono oggetti di altissima qualità!Valgono molto denaro, ma io non posso comperarli.– Perché no? – mi rispose. Cosí spiegai: – In primo luogonon posso portarli fuori d’Italia, in secondo luogo non hodenaro sufficiente per un oggetto di questo valore.

Allora chiese: – Bene, che cosa devo fare? – E io glirisposi: – Una cosa sola. Nessuno può trasportare dinascosto fuori dall’Italia un oggetto di queste dimensionie se provaste vi trovereste in un guaio davvero serio.Andate al Museo Nazionale di Napoli e riferite che cosaavete trovato. Vi manderanno un loro inviato che pren-derà i vostri oggetti, li valuterà e vi pagherà i tre quar-ti della somma. Un quarto andrà al governo, ma voiotterrete egualmente una cifra considerevole. Questo èla cosa migliore da farsi.

La cosa non gli garbava, non voleva che il governo sene immischiasse, ma alla fine, pensò che forse era megliofare quanto gli avevo suggerito io, andò al Museo e riferídella sua scoperta. Venne il secondo addetto al Museo,che era un ispettore alle antichità. Vide gli oggetti edisse: – Quanto chiasso fate per niente! Queste iscrizionihanno interesse per noi, ma il loro valore commerciale ènullo, cosí le porterò via senza pagarvele.

Lo stagnaro chiese: – E quanto a questa scultura?– Questa? – esclamò l’ispettore: – È un vero scarto

che non vale assolutamente niente; sareste ben fortunatose qualcuno ve la pagasse cinque lire. Non la voglio, lalascio in mano vostra, il Museo non si interessa di robac-cia del genere, – e se ne andò con le iscrizioni.

Lo stagnaro ritornò da me pochi giorni dopo e mi rac-contò la storia: – È una vera disdetta, – si lamentava, –

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pensavo che avrei guadagnato una bella sommetta didenaro e invece niente.

– Come? – dissi, – non riesco a capire: è un oggettodi grande valore

Egli osservò: – Io non mi intendo di queste cose, maieri è venuto da me un uomo – e mi fece una descrizio-ne dell’individuo e il suo nome – e mi ha offerto diecilire. Devo prenderle?

Io dissi «no» e feci alcune inchieste. L’uomo era unantiquario, cognato dell’ispettore, e tutto si spiegavacome un’astuta manovra. Cosí andai di nuovo dallo sta-gnaro e gli spiegai quale fosse la legge.

Gli dissi: – Se non vogliono la lastra, devono darvi ilpermesso per l’esportazione. Vi ho detto che non possopagare il valore effettivo dell’oggetto e ricordatevi chese lo vendete all’estero un terzo della somma va al gover-no. Posso offrirvi solo sessanta lire, ma voi potete diredi averne ricevute cento e io pagherò le trentatre lire ditassa. Questo è tutto il denaro che ho e non è nullarispetto al valore dell’oggetto, ma, se volete venderme-lo a queste condizioni e se vi danno il permesso di espor-tarlo, io lo compero.

Disse che era molto bello da parte mia e sarebbestato contento di fare cosí. Cosí ritornò al Museo, si pre-sentò all’ispettore alle antichità e chiese: – Volete darmiil permesso di esportazione per questa lastra che voi nonvolete?

L’ispettore rispose: – Ignorante contadino, siete pro-prio degli sciocchi. Perché viene un uomo e vi offre qual-che lira piú di un altro dicendo di voler portare all’esterola vostra lastra pensate di guadagnare di piú, ma inrealtà non e cosí, perché voi dovete dare un terzo delricavato al governo. Ora, supponendo che qualcuno viabbia offerto quindici lire, per bene che vi vada ne inta-scherete dieci.

– Oh no, – disse lo stagnaro. – Io vi pagherò trenta-tre lire.

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L’ispettore esclamò: – Che cosa?Egli ripeté: – Vi pagherò trentatre lire, un terzo del

valore dell’oggetto.L’ispettore disse: – Ah si? Non diamo il permesso di

esportare un bel niente. Il Museo non prende la vostrascultura. Rimane a voi ed è valutata quattromila lire. Laiscriverò tra i monumenti nazionali. Voi siete responsa-bile verso il governo di un oggetto del valore di quat-tromila lire. Se gli succede qualcosa il rischio è vostro.

Lo stagnaro ritornò da me in lacrime, dicendo: – Miavete rovinato! – e mi raccontò la storia.

Era presente il mio amico che ascoltò attentamentee poi esclamò: – Bene, mi pare che dobbiamo agire condecisione.

Io aggiunsi: – Certo farò qualunque cosa; l’ispettoreè un vero furfante e voglio fare qualche cosa per met-terlo al suo posto.

Il mio amico disse: – Datemi carta bianca e vedrete –.Accettai la proposta.

In quel momento in Italia il partito al governo avevain parlamento la maggioranza strettissima di un voto.Improvvisamente il primo ministro ricevette da Napoliuna lettera, firmata da un noto cittadino, in cui si richie-deva che il governo nominasse una Regia Commissioneper togliere dal Catalogo dei monumenti nazionali unacerta scultura romana che vi era stata inserita dal localeispettore alle antichità che cosí l’aveva resa inamovibile.La commissione doveva cancellarla e dare al contadinosuo possessore il permesso di esportarla; in caso contra-rio, le dimissioni immediate e inaspettate di tre parla-mentari (del partito di maggioranza) del distretto di Napo-li avrebbero provocato l’elezione di membri dell’opposi-zione e di conseguenza la caduta del governo. Il fatto erache eravamo riusciti a farci spalleggiare dalla società segre-ta chiamata Camorra, e la Camorra può tutto.

Entro tre giorni venne una Commissione reale, chemodificò subito la lista dei monumenti nazionali dell’I-

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talia meridionale e diede il permesso di esportare la lastradi Pozzuoli. L’acquistai ed ora il rilievo si trova a Fila-delfia (in quel tempo lavoravo per Filadelfia). Nessunoammirandola nel Museo potrebbe mai immaginare chec’è stato questo piccolo dramma dietro le quinte. Inrealtà nemmeno gli italiani sanno che cosa è accaduto.

Circa un mese piú tardi entrai nell’ufficio dell’ispet-tore delle antichità; sul tavolo c’era una copia di uno deipiú recenti bollettini governativi sulle scoperte di anti-chità in territorio nazionale, con una grande fotografiadi questo monumento augusteo. Quando l’ispettoreentrò (era fuori quando fui introdotto) esclamai: – Oh,dottor Gabrici, che bel monumento! Voglio andarlo avedere; è già sotto nella galleria?

Egli rispose di no.– È ancora in uno dei vostri magazzini? – Egli disse

di nuovo di no.– Ma allora dov’è? – È stato esportato.Esclamai: – Come mai dottor Gabrici non avete

potuto impedire che un capolavoro come questo se neandasse? È monumento nazionale, è un tesoro! Checosa vi ha indotto a permettere a qualcuno di portarlofuori del territorio nazionale?

Egli mi fissò, io ricambiai lo sguardo, e non seppe checosa dire. Egli ignorava le mie responsabilità e io nonavevo intenzione di rivelargliele; comunque egli nondiede mai una spiegazione di quell’esportazione, intera-mente imputabile a lui.

As I Seem to Remember, 1962

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carlo maurilio lerici Una difesa dei «tombaroli»

Nell’anno 1958 in occasione di un raduno del Rotarydi Roma, l’oratore designato ha accennato alla nuovaattività intrapresa dal Politecnico di Milano con le appli-cazioni di mezzi geofisici nella ricerca archeologica edopo aver riferito i risultati conseguiti con l’esplorazio-ne di una necropoli nella zona di Cerveteri, non hapotuto nascondere le sue impressioni in seguito alle con-statazioni fatte dai tecnici dei Politecnico, e che aveva-no messo in evidenza l’attività di scavo abusiva in quel-la stessa zona in confronto a quella legale effettuatadallo Stato o da enti autorizzati. Orbene, un’eminentepersonalità universitaria membro dello stesso Rotary, haapprofittato dell’occasione per una calorosa difesa del-l’attività dei «tombaroli». Egli ha usato argomenti inapparenza paradossali ma non privi di un fondo di veritàperché ha affermato che nella realtà essi rendono un ser-vizio alla causa della cultura perché è soltanto in graziaa loro che migliaia di collezionisti e di studiosi sono riu-sciti a raccogliere nelle proprie case queste preziose testi-monianze delle nostre antiche civiltà. Tutti sanno infat-ti che diversamente esse sarebbero tuttora sconosciuteperché rimaste sepolte oppure trattenute nei depositi deimusei italiani stracarichi di materiali condannati ad esse-re nascosti per sempre oppure dispersi e sottratti peraltre vie.

A questo argomento inteso in certo modo a giustifi-care l’aspetto morale dell’attività clandestina di scavo,

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possiamo aggiungerne un altro che ne riflette gli aspet-ti materiali.

La maggior parte dei «tombaroli» appartengono acategorie di disoccupati o di sottoccupati, ed è solo pernecessità di guadagno che tentano l’avventura. Lo con-ferma d’altra parte il fatto che nei periodi dei lavori sta-gionali agricoli che richiedono l’utilizzazione massima dimano d’opera ausiliaria, l’attività di ricerca archeologi-ca clandestina è ridotta al minimo, mentre è massima neiperiodi di maggior disoccupazione. Non vi è quindialcun dubbio che in molti casi vi sono motivi di neces-sità di gente priva di mezzi di sussistenza che possonospiegare se non giustificare il fenomeno.

È vero che la legge dà alle Soprintendenze la facoltàdi compensare con un premio gli scopritori di materia-le archeologico, come è certo vero che questo premio perquanto ridotto è superiore a quello che i tombaroli pos-sono ottenere dai ricettatori, ma questi almeno paganosubito mentre lo Stato... è meglio non parlarne. Losanno i pochi che in ossequio alla legge hanno denun-ciato e consegnato oggetti di valore come collezioni dimonete o bronzi o ceramiche, che a distanza di anniattendono ancora di essere compensati.

Primo tentativo di valutazione dei danni.

Passiamo ora all’esame di alcuni fatti concreti erecenti.

Il riferimento ad esempi rilevati nei territori del Lazionon deve far credere che la ricerca abusiva sia partico-larmente intensa in queste zone, ma è solo in relazioneal fatto che l’attività di prospezione del Politecnico diMilano ha potuto finora liberamente svolgersi soltantonei territori dipendenti dalla Soprintendenza alle anti-chità dell’Etruria meridionale, che fino dall’inizio haaccordato facilitazioni ed incoraggiamento alla applica-

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zione dei mezzi geofisici. Le numerose segnalazioni checi sono pervenute da ogni parte d’Italia hanno dimo-strato come in molte altre zone archeologiche, la squa-dra del Politecnico avrebbe potuto effettuare rilievi benpiú gravi di quelli che ha potuto finora documentare. Mapurtroppo dobbiamo dire che non tutte le Soprinten-denze hanno accolto con favore l’intervento del Poli-tecnico.

Nel 1957 una squadra di prospezioni del Politecnicodi Milano nell’intento di offrire alla Soprintendenzaalle antichità dell’Etruria meridionale una dimostrazio-ne pratica dei nuovi mezzi di indagine archeologica basa-ti sull’impiego di apparecchiature geofisiche, ha intra-preso una campagna nella zona, assegnata dalla stessaSoprintendenza, di Monte Abbatone, dove notoria-mente si trova una delle grandi necropoli etrusche diCerveteri.

È stato in occasione di questa campagna, effettuatanel corso del primo semestre 1957, che sono state iden-tificate alcune centinaia di tombe a camera la maggiorparte delle quali, sebbene violate in epoche remote,conteneva ancora materiali di scavo trascurati dai pre-cedenti scavatori che hanno sottratto solo materiali pre-ziosi come gioielli e bronzi. Quando si è trattato di pre-parare una planimetria topografica delle formazioniidentificate ed esplorate, si è ritenuto opportuno – perla prima parte allora esplorata che occupava circa il 20per cento dell’area complessiva della necropoli – diaggiungere anche le formazioni aperte in questi ultimianni dagli scavatori clandestini e facilmente riconosci-bili perché l’ingresso alle camere era tutt’ora aperto edi numerosi frammenti di ceramiche rimasti sul postodenunciavano senza ombra di dubbi la data recente dimolte fratture. Si è cosí potuto preparare per la primavolta un documento di eccezionale interesse in quantoha consentito di precisare la portata effettiva di unaattività abusiva di scavo svolta nel corso del periodo

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susseguente all’ultima guerra, cioè entro dieci-quindicianni. Evidentemente si trattava delle formazioni rico-noscibili con maggiore evidenza dallo stesso osservato-re superficiale, sia dall’esame della vegetazione chedagli affioramenti tipici sul terreno dei contorni stessidei tumuli primitivi, oppure di formazioni cosí vicinealla superficie da poter essere facilmente «sentite» congli assaggi sul terreno fatti a mezzo di una lunga puntadi ferro a forma di spiedo che, penetrando nel terreno,consente la ricerca delle trincee d’ingresso o dei fossa-ti di cintura, lungo i quali la punta penetra facilmentein profondità.

Il successivo sviluppo della campagna durante gli anni1957-58-59 ha portato all’identificazione di oltre 550tombe a camera, mentre si è potuto facilmente consta-tare come la ripartizione delle tombe saccheggiate inquesti ultimi anni si mantenga costante per tutta l’areadi questa importante necropoli. È pertanto lecito sup-porre che le tombe «lavorate» dopo la guerra dai tom-baroli raggiungano in questa sola zona il numero di 350-400 e che il bottino ricuperato si possa ragguagliarealmeno a quello medio ricuperato dalla Soprintendenzanelle tombe scoperte dalla squadra del Politecnico diMilano. Poiché quest’ultimo comprende oltre 5500pezzi valutati dalla Soprintendenza stessa nella cifraconvenzionale complessiva di 12 milioni, si può presu-mere che il materiale abusivamente sottratto abbia unvalore notevolmente superiore. Ora questa ipotesi,dedotta da elementi concreti come quelli che abbiamopresentato, può dare un’idea non solo del danno causa-to in questo caso particolare cioè in una zona archeolo-gica notoriamente povera, ma di quello causato nellerimanenti zone italiane dove il fenomeno si ripete conle stesse cause e i medesimi risultati. L’esempio dellanecropoli di Monte Abbatone si ripete notoriamente inmigliaia di siti sparsi dovunque in Italia, dove vi sonoantiche necropoli, deposito inesauribile di materiali di

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scavo che hanno fatto affermare al noto autore di Civiltàsepolte Ceram, come l’Italia possieda ancora sottoterrail suo piú grande «Museo del Louvre».

Nelle successive campagne svolte in altre zonearcheologiche italiane dal Politecnico di Milano, si sonoinfatti ripetute le stesse osservazioni tanto che si è potu-to praticamente constatare come per la delimitazionepreliminare delle necropoli che debbono essere esplora-te con mezzi geofisici, giova assai piú dell’esame stessodei rilevamenti aerei delle singole zone, la constatazio-ne in loco delle tracce esterne di violazione ancora visi-bili. I tombaroli di ogni tempo hanno cosí già provve-duto a segnalare queste zone ed in alcuni casi, come siverifica nella grande necropoli di Monterozzi a Tarqui-nia, hanno perfino graffito la data delle loro visite.

In quest’ultima zona tutte indistintamente le forma-zioni sono state violate nel corso dei secoli e non sonoinfrequenti le tracce di violazioni ripetute in epochediverse. Se la squadra del Politecnico ha ugualmenteproseguito qui le sue ricerche è perché, come è noto, sitrovano in questa necropoli formazioni dipinte, chealmeno in parte si sono ancora conservate. Vedremoperò come l’opera dei saccheggiatori abbia contribuitoal loro deperimento e spesso alla loro distruzione. Inun’altra località della zona di Cerveteri, la squadra diprospezioni del Politecnico di Milano si era proposta diestendere la sua attività dopo aver constatato la gravitàdelle devastazioni già operate recentemente dai tomba-roli. Nel corso di due sole settimane la squadra avevaindividuato una quarantina di formazioni tra le qualiuna col corredo originale intatto e di interesse eccezio-nale. Purtroppo per difetto di una autorizzazione for-male del proprietario, la squadra ha dovuto interrompereil suo lavoro, naturalmente con la maggiore soddisfa-zione dei «tombaroli» della zona che a quest’ora hannoprobabilmente completato la razzia delle altre forma-zioni esistenti.

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Non si tratta di un caso isolato: molte zone dell’Ita-lia meridionale e della provincia di Grosseto sono noto-riamente infestate dai ricercatori clandestini, come unapiccola zona cimiteriale nei pressi di Viterbo dove neglianni 1959-60 gli innumerevoli frammenti ancora visibi-li denunciarono senz’ombra di dubbio la natura e lavarietà dei corredi che erano stati asportati.

Ma possiamo ora aggiungere un’ulteriore prova cheriflette quello che forse è l’aspetto piú grave ed allar-mante del fenomeno della ricerca clandestina.

Questi «scavatori liberi» a favore dei quali per scru-polo di obiettività non abbiamo creduto di astenercidall’elencare quelle che possono essere considerate cir-costanze attenuanti a parziale giustificazione della loroattività, dimostrano d’altra parte di non possedere alcu-na nozione sul valore dei materiali di scavo e sulle indi-spensabili cautele per evitarne il danneggiamento e ladistruzione. Gli archeologi e gli specialisti nelle opera-zioni di scavo sanno per esperienza propria cosa tuttoquesto significhi, tanto piú che la quasi totalità delle for-mazioni archeologiche che si trovino in particolare nellezone cimiteriali o in quelle di templi o santuari che sonole piú ricche di materiale commerciale presentano chia-re tracce delle ripetute violazioni precedenti e delle con-seguenze del maldestro e affrettato lavoro dei rapinato-ri. Ma senza riferirci ai tempi remoti ci limitiamo a rife-rire quello che accade oggi o è accaduto ieri. Da una rac-colta sistematica di frammenti con fratture recenti messaa disposizione della Soprintendenza alle antichità nesono stati ricomposti alcuni, che provano come pezzi digrande valore siano stati nella fretta, trascurati e disper-si. Per alcuni di essi, sebbene ricomposti insieme nonabbiano potuto consentire che la ricostruzione di unquarto o un quinto del pezzo originale, si è ritenutaugualmente giustificata la spesa per il restauro ma si puòbene immaginare quale maggiore valore avrebbero secompleti.

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Ma uno dei documenti di accusa ancora piú impres-sionante è stato offerto da alcune tombe già dipintescoperte nel 1959-60 nella necropoli di Monterozzi.

Queste tombe, completamente affrescate, e spoglia-te come tutte le altre della zona delle suppellettili mobi-li, rivelavano evidentemente dal suono delle pareti, l’im-mediata vicinanza di un’altra camera sepolcrale. Ora gliscavatori non hanno esitato a demolire col piccone,come lo denunciano le tracce ancora visibili, intere pare-ti affrescate delle quali sono rimaste solo alcune traccesufficienti tuttavia per valutare quale era lo stato diconservazione originale dell’intonaco dipinto. È unesempio questo che dovrebbe fare riflettere anche per-ché non si tratta di un delitto dei secoli scorsi ma di que-sti ultimi anni e quindi purtroppo straordinariamenteattuale.

È noto che nella quasi totalità delle formazioni sepol-crali antiche contenenti suppellettili e arredi vari, è assairaro rinvenire pezzi intatti anche nei casi assai rari ditombe inviolate perché i movimenti di assestamento delterreno come quelli dovuti ai terremoti che si sono suc-ceduti numerosi nel corso dei secoli in tutte le zone sto-riche mediterranee hanno causato la rottura dei corredidi ceramica o di impasto, salvando in genere soltanto ipezzi di piccole dimensioni. Ora gli scavatori abusivifanno man bassa di ogni cosa e anche dei frammenti madifficilmente riescono a discriminare il valore dei diver-si oggetti e le condizioni stesse nelle quali si svolge il lorolavoro, spesso nelle ore notturne, rende difficile la scel-ta. Essi trascurano inoltre, per ignoranza, le precauzio-ni per la preservazione dei pezzi piú suscettibili di subi-re l’azione del cambiamento di ambiente termo-igrome-trico dimodoché può accadere che anche una parte deicorredi asportati venga successivamente distrutta. Se sidovesse, sulla base delle constatazioni fatte in occasio-ne delle campagne effettuate dal Politecnico di Milano,valutare la distruzione causata dall’attività dei «tomba-

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roli» per il solo fatto della maldestra procedura di scavoe di raccolta crediamo non essere lontani dal vero affer-mando che una buona metà del materiale di scavo mani-polato a loro cura va irrimediabilmente perduto.

Quindi oltre al danno sofferto dal patrimonio delloStato per il materiale abusivamente scavato, venduto oesportato, si aggiunge quello non meno grave per la distru-zione causata da questi inconsci vandali dell’archeologia.

Se infatti il materiale venduto o esportato abusiva-mente, non si può considerare perduto per il patrimo-nio culturale degli uomini civili, quello distrutto pernegligenza o ignoranza può dare da solo la misura del-l’immenso danno causato, danno che si ripete e si mol-tiplica in tutte le zone archeologiche del mondo anticoed in confronto al quale il danno causato dalle incursionidei barbari, dai saccheggi storici durante le grandi inva-sioni, al declino dell’impero, nel medioevo fino a quel-li avvenuti durante gli eventi bellici e rivoluzionari deisecoli XIX e XX appaiono piccola cosa. Perché il vanda-lismo che distrugge il patrimonio archeologico sepolto èopera di ogni giorno nelle mille e mille località che con-servano queste testimonianze di trenta secoli di storia.

Come rimediare?La legge stabilisce la proprietà dello Stato di quanto

si trova nel sottosuolo e dà alle Soprintendenze alleantichità la facoltà di riconoscere a favore del proprie-tario del terreno e dello scopritore un compenso checomplessivamente non può superare la metà del valoredel materiale rinvenuto. L’attività dei «tombaroli» comequella svolta dai proprietari dei terreni non è dunqueconsentita e per questo essa viene come è noto perse-guita dai rappresentanti della legge. Ma è pure ugual-mente noto che data la vastità del fenomeno e la mate-riale impossibilità di realizzare una sorveglianza in tuttele zone archeologiche, la legge lascia praticamente iltempo che trova cosicché gli scavi abusivi proseguonoovunque con le sole fluttuazioni dovute ai fenomeni

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stagionali di maggiore occupazione agricola oppure alleminori richieste del mercato. Perché evidentementeanche sul mercato libero delle antichità vi sono fluttua-zioni dovute ai diversi orientamenti della cultura; cosíad esempio da qualche decennio «vanno» molto le coseetrusche per l’accentuato interesse degli studiosi delquale è indice evidente la fioritura di pubblicazioni, ilsuccesso di superbe opere editoriali che illustrano gliaspetti piú tipici dell’arte e della civiltà etrusca, lemostre d’arte presentate nelle grandi capitali europee,l’interessamento crescente del turismo culturale stra-niero, infine le scoperte sensazionali dovute all’intro-duzione dei nuovi metodi scientifici di ricerca del Poli-tecnico di Milano. Tutto questo concorre ad accentua-re la gravità del fenomeno che la legge è impotente asopprimere.

Come rimediare? Intensificare la sorveglianza?Occorrerebbe un esercito di agenti e di guardiani. Epoi... «quis custodet custodes?»

Il contatto con questi resti di antiche civiltà, che nondi rado comprendono oggetti preziosi e monete facil-mente occultabili esercita a poco a poco anche sulle per-sone piú provvedute o investite di una autorità unostrano fascino al quale non tutti sanno resistere. È comese un «virus» misterioso penetrasse nelle vene, virus cheriesce ad animare un frammento che rechi una scrittamisteriosa o una immagine che richiami un attimo divita di una età lontana decine di secoli – oppure un pic-colo oggetto d’ornamento o di natura rituale che sappiarichiamare un sentimento umano. Bisogna vivere qual-che tempo in questo strano mondo per comprenderetutto questo ed apprezzare come virtú eroiche quelle deifunzionari dell’Amministrazione delle antichità chesanno superare queste tentazioni.

Data l’evidente impossibilità di fare rispettare lalegge, riproponiamo il quesito: come rimediare? Modi-ficare la legge? E in quale modo?

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I fatti che abbiamo esposto e quelli che hanno fattooggetto delle piú serie ed importanti inchieste giornali-stiche di questi anni, fanno chiaramente intravedere,con la gravità del fenomeno, le sue possibili soluzioni.

Vi è evidentemente qualche cosa che non va nellalegge sugli scavi e nei modi con cui viene interpretata edapplicata, ma non è tutto. Anche una legge perfettalascia il tempo che trova quando da parte di chi devefarla rispettare mancano i mezzi e la buona volontà.

Vediamo cosí lo Stato, proprietario per legge di quan-to si trova nel sottosuolo, depredato nella realtà di ognigiorno dagli scavatori abusivi e dagli stessi proprietariperché l’Amministrazione delle antichità non ha mezziper gli scavi e le autorità non sono in grado di impedi-re questo saccheggio. E la situazione, si badi bene, tendead un continuo peggioramento perché in buona partedelle zone archeologiche italiane sono in atto grandiprogrammi di bonifica o di riforma agraria che portanole nuove attrezzature di aratura profonda a sconvolgeree spesso a mettere in luce nuove formazioni cimiteriali– come si è già verificato e si verifica da oltre due decen-ni in tutte le zone del litorale tirreno. Al vomere primi-tivo del contadino virgiliano che scopre i resti dell’an-tico guerriero sepolto nel suo campo (Georg., I, 493) sisostituisce oggi l’opera dei bull-dozers capaci di rag-giungere le stratificazioni archeologiche piú remote. Ilmondo cammina rapidamente oggi e l’aumento conritmo senza precedenti della sua popolazione costringegli uomini ad utilizzare ogni lembo di territorio. Lenecropoli e le zone archeologiche produttrici di mate-riale di scavo occupano, in un paese come l’Italia,migliaia di chilometri quadrati e sono in gran partedestinate a scomparire travolte dalle esigenze crescentidella civiltà moderna. I grandi centri urbani ne dànnol’esempio estendendosi su aree archeologiche che l’in-teresse dei costruttori tende a nascondere o a minimiz-zarne l’importanza. Non sono possibili illusioni: la con-

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servazione del materiale sepolto che abbia un valorestorico o artistico dovrà essere necessariamente confi-nata ai Musei o a zone bene delimitate e suscettibili diadeguata sorveglianza e manutenzione.

Come salvare il patrimonio archeologico sepolto, Roma, 9ottobre 1960

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charles leonard woolley Uno strano affare

Un’altra curiosa esperienza capitò al defunto LordCaernarvon, l’uomo che scoprí la famosa tomba diTutankhamen. Egli era un finissimo collezionista diantichità egiziane ed un giorno si trovava nel suo alber-go al Cairo quando venne a cercarlo un uomo. Gli chie-se: – Voi collezionate antichità?

– Sí, – rispose Caernarvon.– Bene, io ho qualcosa di magnifico. Magnifico,

ripeto!Caernarvon rispose: – Che cosa è? Mostratemelo.– Oh, – egli replicò, – non posso farvelo vedere qui.

È a casa mia.– Bene, se è un oggetto cosí bello desidero vederlo.– Sí, – precisò l’uomo, – potete venire a vedere, ma

alle mie condizioni.– E quali sono?– Dovete venire di notte e lasciarvi bendare gli occhi:

solo a queste condizioni vi condurrò a casa mia perchénon voglio che sappiate dov’è. Inoltre dovete portarecon voi trecento lire in oro.

Le condizioni sembravano impossibili. Andare con unosconosciuto e per di piú bendato e con trecento moneted’oro in tasca non è certo una cosa che un uomo normalesia disposto a fare, ma Lord Caernarvon era audace, anzitemerario. Rispose: – D’accordo farò tutto ciò che dite, –e aggiunse: – è questo il prezzo che chiedete?

– Sí, – confermò quello, – trecento lire e non sonodisposto a togliere un centesimo, ma per questa somma,se volete, l’oggetto sarà vostro.

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Cosí quella sera dopo cena tre uomini vennero all’al-bergo a prendere Lord Caernarvon. Gli dissero – avan-ti –, lo portarono fuori e non appena furono sulla stra-da lo bendarono accuratamente e lo fecero salire su unacarrozza. Dopo un breve tratto lo fecero scendere, locondussero in una casa e gli tolsero la benda. Egli chie-se: – Dove sono le antichità? – e quelli gli mostraronodue oggetti. Uno era un piccolo vaso di pietra levigatacon un coperchio d’oro su cui era inciso il cartiglio diuno dei piú antichi faraoni conosciuti, un faraone dellaprima dinastia. Era un oggetto meraviglioso. L’altro eraancora piú notevole. Si trattava di un delizioso coltellodi selce, lungo circa venti centimetri, di squisita fattu-ra, con un manico d’oro decorato da animali in rilievo.Era evidentemente precedente ai primi faraoni, diun’antichità preistorica, e Lord Caernarvon non fece chespalancare gli occhi e disse: – Bene li compero –. Sape-va bene che a quel prezzo i due oggetti erano straordi-nariamente a buon mercato e cosí tirò fuori le trecentolire e i tre uomini, secondo i patti, glieli consegnarono,poi lo bendarono e lo ricondussero all’hotel.

Quando fu rientrato, riguardò con piú calma i suoiacquisti e si stupí di trovarli stranamente familiari: pensòche fossero una copia di qualcosa che aveva già visto.Cosí il giorno appresso tornò al Museo Nazionale delCairo e si diresse allo scaffale dove erano conservati alcu-ni dei piú antichi e preziosi tesori, un grande scaffalefoderato di velluto rosso in cui erano vari oggetti. Eglinotò sul velluto una macchia rotonda di colore scuro: ilresto era stato scolorito dal sole. Vi era anche un’altrachiazza scura di forma allungata che corrispondeva esat-tamente al suo coltello di selce. Capí subito che i dueoggetti che aveva comperato erano stati rubati al Museo.

Cosí chiese di vedere il direttore, il vecchio profes-sore Maspero, un francese, e gli disse: – ProfessorMaspero, vorrei chiedervi se al Museo è stato rubatorecentemente qualcosa di molto prezioso.

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E il professore: – Santo cielo, che cosa vi induce afare una domanda simile?

– Bene, – disse, – avevo dei sospetti. È proprio vero?E Maspero trasse un profondo sospiro e poi ammise:

– Sí, abbiamo perso due grandi tesori.– Avete fatto qualche passo per recuperarli?– No, – rispose Maspero, – non ho osato.E Caernarvon capí subito che cosa intendeva dire; chi

aveva preso i due oggetti era il vicedirettore, un tedesco,ed accusarlo significava provocare un incidente interna-zionale, cosa che essi non potevano permettersi.

Caernarvon disse: – Io ho questi oggetti. Li ho rice-vuti da un uomo di cui è impossibile ritrovare le tracce,perché ha preso bene le sue precauzioni. Li ho pagati tre-cento lire. Vi piacerebbe riaverli? Se sí, pagatemi tre-cento lire e li avrete perché non sono miei.

E il professore: – Dite davvero?– Sí, – confermò Lord Caernarvon, – sono disposto

a lasciarveli.Il professore commentò: – Questo è piú che genero-

so da parte vostra. Prego, portateli qui.Cosí Caernarvon portò i due oggetti nell’ufficio di

Maspero, li consegnò e disse: – Ora vorrei un assegnodi trecento lire.

Maspero rispose: – Certamente, – compilò l’assegno,lo diede in cambio degli oggetti ed aggiunse: – Oranaturalmente mi rilascerete una ricevuta ufficiale.

Caernarvon rispose: – Rilasciarvi una ricevuta? Nodavvero. Io non vi rilascerò una ricevuta per dei tesorirubati.

Maspero obbiettò: – Ma senza ricevuta io non possodarvi l’assegno.

E Caernarvon di rimando: – Senza denaro io non viconsegno gli oggetti. O voi mi date l’assegno senza rice-vuta o io me ne vado con gli oggetti.

Maspero rispose: – Io devo riaverli, ma devo ancheavere una ricevuta.

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Maspero si sedette un momento a pensare, poi suonòil campanello e venne uno dei suoi usceri, una specie dispazzino, e Maspero gli disse: – Qui c’è un modulo. Hobisogno di una firma. Andate al Bazar, prendete il primouomo che trovate, dategli qualche spicciolo e fategliscrivere il suo nome qui.

Cosí fu fatto e in venti minuti l’uomo ritornò con unaricevuta di trecento lire firmata, Caernarvon si prese ilsuo assegno e consegnò gli oggetti che sono ancor ogginel Museo Nazionale del Cairo.

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Furti d’arte legalizzati

Troppo spesso in passato i capolavori dell’arte classica sono stati

soggetti alle depredazioni di ricchi collezionisti che li deside-

ravano unicamente per la loro bellezza e non per il loro valo-

re archeologico. È stato fatto ogni tentativo per impedire un

simile scandalo mediante una legislazione appropriata ed ora è

quasi impossibile per un archeologo accampare pretese perso-

nalmente su qualche oggetto dei suoi scavi o su qualsiasi teso-

ro che egli possa scoprire, ma, quando un collezionista vera-

mente risoluto ha il potere di crearsi leggi proprie, allora non

ci si può difendere dalle appropriazioni. Una prova lampante

di ciò si ebbe quando l’esercito vittorioso di Napoleone sotto-

mise l’Italia nel 1796; fu seguito da un gruppo di commissari

cui era stato ordinato da Bonaparte di impadronirsi in nome

della Francia di tutte le maggiori opere d’arte che sembrassero

loro degne d’attenzione e fra le clausole del trattato di pace

offerto al Papa c’era un articolo che rendeva queste spoliazio-

ni legali e obbligatorie.

Articolo 8. Il Papa cederà alla Repubblica francese uncentinaio di pitture, busti, vasi o statue che dovrannoessere scelti da un’apposita commissione inviata a Roma;fra questi oggetti saranno compresi il busto in bronzo diGiunio Bruto e quello in marmo di Marco Bruto,entrambi al Campidoglio ed inoltre cinquecento mano-scritti, scelti dalla commissione summentovata.

Correspondence de Napoléon, vol. I, 1858

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charles leonard woolley Il perfetto falsario

Il crescente interesse del pubblico per gli oggetti del mondo anti-

co ha creato una richiesta di mercato che i falsari abili non

hanno esitato a soddisfare. Anche i piú grandi archeologi hanno

avuto i loro momenti di sfortunata credulità, come quando Sir

Arthur Evans acquistò con entusiasmo il cosiddetto anello di

Nestore, che fu piú tardi minutamente analizzato dallo studioso

svedese Nilsson il quale dimostrò che era di fattura moderna.

I metodi usati dai falsari sono ben documentati, perché spesso

sono stati colti sul fatto, come racconta Sir L. Woolley.

In realtà una volta fui perfettamente ingannato e nerimasi letteralmente sbalordito. A Creta nei primi annidei secolo mi trovavo presso Sir Arthur Evans che stavascavando a Cnosso: un giorno gli giunse un messaggioda Candia che gli ingiungeva di recarsi alla stazione dipolizia: cosí ci presentammo insieme, lui, DuncanMeckenzie, che era il suo assistente, ed io. Ci aspetta-va la rivelazione piú sorprendente del mondo.

Per anni Evans aveva affidato il restauro dei suoireperti a due greci, un vecchio ed un giovane, straordi-nariamente intelligenti. Li aveva opportunamente istrui-ti ed essi lavoravano sotto la guida dell’artista respon-sabile dei lavori; avevano eseguito magnifici restauri. Poiil vecchio si ammalò ed un giorno il dottore gli disse chestava per morire.

Egli chiese: – Ne siete ben sicuro? – Il dottore rispo-se: – Temo proprio che per voi non ci siano piú speranze.

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– Bene, – disse quello. – Mandate a chiamare la poli-zia. – Vorrete dire il prete, – rettificò il dottore. – No,ho detto la polizia, – insistette il malato e il medicomandò a chiamare la polizia, che venne e chiese: – Ebbe-ne, che cosa mai volete?

– Ora ve lo dirò, – disse il malato. – Sto per moriree perciò sono a posto, ma per anni sono stato in societàcon George Antoniou, il giovane che lavorava con meper Evans, e abbiamo falsificato oggetti antichi.

– Bene, – commentò il poliziotto, – ma non vedocome ciò mi riguardi. – Invece vi riguarda, perché abbia-mo venduto al Museo Nazionale di Candia una statuet-ta d’oro e avorio creduta cretese e questa è un’azioneperseguibile a termini di legge. George è un furfante, iolo odio ed ho atteso questo momento per consegnarlo.Andate di filato a casa sua e troverete tutti i falsi e lanostra attrezzatura completa.

La polizia andò, fece un’irruzione e trovò esattamen-te ciò che il vecchio aveva detto. Poi chiamò Evans adandare a vedere; io non ho mai visto una collezione difalsi bella come quella messa insieme dai due compari.

Vi erano oggetti ad ogni stadio di lavorazione. Peresempio, la gente si stupiva ultimamente di trovare lecosiddette statuette crisoelefantine cretesi, cioè sta-tuette di avorio ricoperte d’oro; ce n’è un esemplare nelMuseo di Boston, uno nel Museo di Cambridge, e unonel Museo cretese di Candia. Costoro avevano stabilitodi fabbricare oggetti del genere e qui avevano ogni cosa,dalla semplice zanna d’avorio alla figura rozzamentesbozzata, a quella ben rifinita e infine a quella già rico-perta d’oro. Il tutto poi veniva messo in un acido checorrodeva le parti piú tenere dell’avorio e dava l’im-pressione che fosse rimasto sepolto per secoli. Credo chenessuno avrebbe potuto accorgersi della differenza.

Inoltre c’era una collezione di monete greche. Que-ste sono talvolta assai rare e di valore inestimabile:recentemente una moneta greca è stata valutata in un’a-

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sta a Londra tremilacento lire ed un’altra duemilatre-cento: si trattava in entrambi i casi di esemplari unici.Naturalmente tali monete sono di solito una preziosaproprietà di diversi musei. I due greci scrissero ai museidove c’erano esemplari unici chiedendo che venisseroloro inviati i calchi in gesso. Questa è una richiesta piut-tosto comune e generalmente viene soddisfatta.

Avuti i calchi, essi avevano scoperto il modo di rica-vare dai calchi in gesso delle matrici di acciaio; feceroquindi delle matrici d’acciaio delle due facce della mone-ta forgiandone una ad incudine ed un’altra a testa dimartello. Poi consultarono i cataloghi delle collezioni dimonete da cui provenivano i calchi e vi trovarono il pesoesatto delle monete in milligrammi. Vi si davano anchele caratteristiche esatte della lega d’argento, di cui erafatto il pezzo. Cosí, imitata la lega, tagliavano un pezzodel peso esatto della moneta, lo scaldavano fino quasi alpunto di fusione, lo colavano nella matrice ad incudine,lo battevano con quella a martello secondo il metododegli antichi coniatori ed ottenevano un oggetto cosísimile all’originale che nessuno avrebbe potuto rilevarela differenza. Essi avevano in magazzino circa un cen-tinaio di falsi e non so quanti altri fossero già stati ven-duti, ma erano davvero sorprendenti.

Dissi ad Evans: – Non comprerò mai un oggetto anti-co greco!

Egli mi rispose: – Comincio anch’io ad avere deidubbi ora, – ed era un giudice molto competente.

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La convenzione di Olimpia

Questa è la convenzione che fu conclusa e firmata il 25 apri-

le 1874 tra il governo tedesco ed il governo greco. Si tratta di

un documento significativo perché fu il primo accordo moder-

no e legalmente chiaro tra due governi in fatto di scavi e diven-

ne il prototipo di un numero infinito di altri accordi interna-

zionali rivelatisi necessari nel corso della storia degli scavi

archeologici. Gli scavi di Olimpia divennero esemplari anche

da un altro punto di vista. Sotto la direzione di Ernst Curtius

e Friedrich Adler (in collaborazione con un gruppo di altri stu-

diosi tra cui l’amico e aiutante di Schliemann a Troia, l’ar-

chitetto Wílhelm Dorpfeld) qui furono sviluppati i metodi

scientifici dello scavo moderno. I risultati raggiunsero il culmine

ai nostri giorni sotto la direzione di Emil Kuntze con lo scavo

del grande stadio delle gare olimpiche (dove oggi viene accesa

la fiaccola dei moderni giochi olimpici) e la scoperta dell’offi-

cina del piú famoso scultore dell’antichità, Fidia.

Il Governo Imperiale Tedesco e il Reale GovernoGreco, spinti dal desiderio di eseguire insieme scavi nel-l’area dell’antica Olimpia in Grecia, hanno deciso di sti-pulare una convenzione e si sono accordati sui seguentipunti:

Articolo 1. Ciascuno dei due governi nominerà uncommissario che controllerà, per la parte che lo concer-ne, che durante gli scavi siano rispettati i seguentiaccordi.

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Articolo 2. La località dell’antico tempio di GioveOlimpio servirà come punto di partenza per gli scavi chesaranno eseguiti nella località dell’antica Olimpia.

Un ulteriore accordo tra i due governi deciderà se gliscavi andranno estesi ad altre località del regno greco.

Articolo 3. Il governo greco, mentre concede il per-messo per gli scavi nella località di Olimpia, promette difornire ai commissari ogni aiuto possibile nell’esecuzionedel lavoro, nel reclutamento degli operai e nelle determi-nazioni della loro paga: inoltre il sunnominato governodisporrà sulla località degli scavi un servizio di polizia cheprovvederà a fare in modo che gli ordini dei commissarisiano eseguiti, ricorrendo per questo scopo, qualora fossenecessario, anche all’uso delle armi, senza trasgredire inogni caso alle leggi del paese. Inoltre il governo greco siimpegna a pagare un compenso a quelle persone, pro-prietari o possessori del terreno (sia esso incolto o colti-vato) che hanno diritti di qualsiasi natura su di esso.

Articolo 4. La Germania si impegna ad assumersil’intero costo del progetto, cioè: gli stipendi degli uffi-ciali, degli operai, la costruzione dei magazzini e dellebaracche, se necessarie. Inoltre la Germania promette dipagare i danni alle piantagioni o alle costruzioni di qual-siasi genere com’è stabilito dalle leggi del paese o gliaccordi con i contadini che occupino terreni demaniali,in rapporto, come naturale, alla reale portata dei dannie alla legalità delle rivendicazioni dei diritti privati dellepersone. In nessun caso comunque il compenso puòsuperare la somma di trecento dracme per stremma (unastremma = mille metri quadri), anche se il governo grecoha ceduto parte di questo terreno a persone private.

La Grecia da parte sua promette, con l’aiuto di tuttii mezzi in suo potere, di eseguire lo sfratto o l’espropriodi quelle persone che ora possiedono terreni in cui sem-bra necessario intraprendere scavi.

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Va da sé che il lavoro sugli scavi non può in nessuncaso essere sospeso né dilazionato per eventuali obbie-zioni o proteste di privati o di persone che ora stianocostruendo sul terreno in questione.

Articolo 5. La Germania si riserva il diritto di indi-care quali tratti di terreno della pianura di fronte adOlimpia siano adatti allo scavo, di assumere e licenzia-re gli operai e di dirigere e assegnare i lavori.

Articolo 6. La Grecia mantiene i diritti di proprietàdi tutte le opere d’arte antica e di ogni altro oggetto chegli scavi porteranno alla luce. Rimane sua facoltà di deci-dere se concedere o no alla Germania, come ricordo dellavoro condotto insieme e come ricompensi dei sacrificiaffrontati dalla Germania per questa impresa, i doppio-ni e le copie degli oggetti trovati durante gli scavi.

Articolo 7. La Germania rivendica i diritti esclusividi fare copie e calchi degli oggetti che saranno scopertidurante gli scavi.

Questi diritti esclusivi saranno validi per cinque annidalla data di scoperta di ogni singolo oggetto. Il gover-no greco riconosce inoltre al governo imperiale germani-co il diritto, sebbene non l’esclusiva, di fare copie e cal-chi di ogni altra antichità in possesso dei governo grecoo che sarà trovato in futuro sul territorio greco senza lacollaborazione del governo tedesco. Non sono compresiin questa concessione solo quegli oggetti che secondo ilparere di esperti ministeriali potrebbero essere danneg-giati o deteriorati durante il processo per fare il calco.

La Grecia e la Germania si riservano il diritto esclu-sivo di pubblicare le scoperte scientifiche e artistichedegli scavi condotti a spese della Germania. Tutte que-ste pubblicazioni avverranno periodicamente ad Atenein greco e a spese dei Greci. Le stesse pubblicazioniavverranno simultaneamente in Germania con figure,

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tavole e fotografie che saranno eseguite e stampate soloin Germania. Quest’ultimo compito spetta esclusiva-mente alla Germania ed allo stesso tempo essa promet-te di mandare alla Grecia quindici copie ogni cento dellaprima edizione e trentacinque ogni cento delle successi-ve di dette figure, tavole e fotografie.

Articolo 8. Se il commissario greco incaricato dellasorveglianza degli scavi dovesse inaspettatamente oppor-si al lavoro ordinato dagli studiosi tedeschi il reale mini-stro degli Esteri greco e l’ambasciata imperiale germa-nica ad Atene comporranno insieme in ultima istanzaogni controversia.

Articolo 9. La presente convenzione ha validità dianni dieci dalla sua ratifica da parte dei rappresentantidel popolo.

Articolo 10. Ciascuno dei due governi contraenti siimpegna a presentare questo contratto per l’approva-zione popolare ai competenti organi rappresentativi alpiú presto possibile; quindi nessuna delle parti è obbli-gata a porlo in atto prima che sia stato ratificato dallarappresentanza popolare.

Articolo 11. La convenzione, a condizione che abbiaavuto il permesso delle rappresentanze popolari, dovreb-be essere ratificata entro due mesi, o anche prima, e laratifica avverrà ad Atene.

Testimoni del documento da parte tedesca: vonWagner, ambasciatore straordinario e ministro accredi-tato ad Atene dell’imperatore di Germania, professor E.Curtius, agente con speciale autorizzazione e, da partegreca, J. Delyanny, ministro degli Esteri di Sua Maestàil re di Grecia,

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P. Eustratiades, conservatore delle antichità, tuttiautorizzati dai rispettivi governi e dotati di proprisigilli.

Redatto in Atene in duplice copia il 13-25 aprile 1874.

E. von Wagner (l.s.)Ernst Curtius (l.s.)

Delyanny (l.s.) Eustratiades (l.s.)

e. curtius e f. adler, Olympia, vol. I, 1870

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parte secondaIl libro delle statue

La fondazione del Museo Britannico

Sir Hans Sloane (1660-1753) nacque in Irlanda a County

Down. Studiò medicina a Londra per quattro anni poi si tra-

sferí all’Università di Orange dove si laureò nel 1683. Al suo

ritorno in Inghilterra portò con sé una notevole collezione di

piante e continuò a raccogliere oggetti strani per il resto dei suoi

giorni; dimorò quindici mesi in Giamaica come medico del

duca di Albemarle e in questo breve periodo arricchí la sua col-

lezione di ottocento piante sconosciute. Ebbe numerosi inca-

richi accademici e professionali. Fu eletto segretario della Royal

Society e nel 1716 fu il primo medico a ricevere un titolo ere-

ditario con la nomina a baronetto. In seguito fu nominato

generale medico dell’esercito, protomedico di Giorgio II e pre-

sidente della Royal Society. Alla sua morte offrí alla nazione,

per la somma di lire ventimila, i suoi libri, manoscritti e ogget-

ti che formarono il primo nucleo del Museo Britannico.

Io, Sir Hans Sloane di Chelsea, nella contea delMiddlesex, baronetto, compilo il seguente codicillo daaggiungere al mio testamento e alle mie ultime volontà.Stante che io ho già dato nel citato documento alcunedirettive circa la vendita e l’ordinamento del mio Museoo Collezione di rarità, qui piú particolarmente menzio-nate, revoco ora in questa sede il sopraddetto testa-mento nella parte riguardante tali cose e fisso e stabili-sco quanto segue. Avendo avuto sin dalla giovinezza unaforte inclinazione allo studio delle piante e di ogni altroelemento naturale ed avendo nel corso di molti anni rac-

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colto con grande spesa e fatica tutto ciò che di strano edi curioso si poteva trovare nel nostro paese o in paesistranieri ed essendo fermamente convinto che nulla con-tribuisca piú che l’ampliamento delle nostre conoscen-ze delle opere della natura ad aumentare la nostra stimadella potenza, saggezza, bontà, provvidenza e altre per-fezioni della Divinità e alla consolazione e al benesseredelle sue creature, voglio e desidero che per la promo-zione di questi nobili fini, la gloria di Dio e il bene del-l’uomo, la mia collezione in tutte le sue branche sia, sepossibile, tenuta e conservata tutta intera nella mia resi-denza nel distretto di Chelsea, presso il giardino bota-nico da me donato alla Società dei farmacisti per gli stes-si propositi. E avendo grande fiducia e confidenza chel’onorevolissimo e le altre persone nominate qui appres-so saranno ispirate dagli stessi principî e assolverannofedelmente e coscienziosamente il compito loro com-messo, io do, affido e lego all’onorevolissimo CharlesSloane Cadogan: e a [qui segue una lista di 51 nomi]tutta la mia collezione o museo attualmente nella miaresidenza di Chelsea, che consiste di oggetti troppo variper farne una dettagliata descrizione. Intendo comunquetutta la mia collezione di libri, disegni, manoscritti,stampe, medaglie e monete antiche e moderne, anti-chità, sigilli e cammei, intagli, pietre preziose, agate, dia-spri e simili, vasi e simili di agata, diaspro ecc., cristal-li, strumenti matematici, disegni e quadri e tutti gli altrioggetti della mia suddetta collezione o museo piú parti-colarmente descritti, menzionati e numerati con unabreve storia o ragguaglio, con riferimento specifico incerti cataloghi compilati da me che occupano trentottovolumi in folio e otto volumi in quarto, eccetto certiquadri che non sono contrassegnati con la parola (colle-zione) che devono essere dati in perpetuo possesso a loroe ai loro successori ed eredi. Con il solo intento che lamia collezione o museo ed ogni sua singola parte e par-ticella possano essere affidate al dotto onorevolissimo e

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alle altre persone incaricate e per gli usi e i propositiindicati e per assoggettarla ad alcune direttive e limita-zioni specificate qui appresso; e per rendere piú effica-ce questa mia intenzione, cioè che la suddetta collezio-ne possa essere conservata e continuata intera nella suamassima perfezione e regolarità; ed essendo sicuro chenulla varrà al conseguimento di questo fine piú che ilmetterla sotto la direzione e la cura di persone colte,esperte e sagge che sono superiori ad ogni idea bassa omeschina, io desidero caldamente che accondiscendanograziosamente ad essere ispettori della mia collezione omuseo, il re, sua altezza reale il principe di Galles, suaaltezza William duca di Cumberland, l’arcivescovo diCanterbury allora sedente, l’onorevolissimo Lord PhilipHardwick e il lord alto cancelliere in carica in quelmomento, il lord presidente del Consiglio, il guardasi-gilli, il lord maggiordomo del palazzo reale, il lord ciam-bellano del palazzo reale, sua grazia Charles duca diRichmond, sua grazia John duca di Montague, sua gra-zia Holles duca di Newcastle, sua grazia John duca diBedford, e i due principali segretari di stato in carica inquel momento, l’onorevolissimo John, conte di Sandwi-ch e il lord alto ammiraglio o il lord comandante in capodell’ammiragliato, l’onorevolissimo Henry Pelham e illord alto tesoriere o il lord primo commissario del teso-ro e il cancelliere dello scacchiere, il lord presidentedella corte di giustizia, il lord capo dei tribunali ordinari,il lord barone capo dello scacchiere, il lord vescovo diLondra in carica, il lord vescovo di Winchester in cari-ca, l’onorevolissimo Archibald duca di Argyle, l’onore-volissimo Henry conte di Pembroke, l’onorevolissimoPhilip conte di Chesterfield, l’onorevolissimo Richardconte di Burlington, l’onorevolissimo Henry LordMontford, l’onorevolissimo Arthur Onslow e lo speakerdella Camera dei Comuni in carica e l’onorevole LordCharles Cavendish, l’onorevolissimo Charles LordCadogan, l’onorevolissimo John conte di Verney, l’o-

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norevolissimo George Lord Anson. Ed io mediante que-sto atto li nomino e li designo, con loro licenza, ispet-tori con pieno potere e autorità, per ogni gruppo di cin-que o piú, di entrare nella suddetta collezione o museoin qualsiasi ora e momento, di indagare, sorvegliare edesaminare la stessa e la sua amministrazione, di ispe-zionare, correggere e riformare di tempo in tempo secon-do la necessità, sia insieme ai suddetti fiduciari cheseparatamente, l’uso di essa per i propositi enunciati edi punire tutti gli abusi, mancanze, negligenze o catti-ve amministrazioni che possono verificarsi o che toc-chino o concernano la persona o le persone, il funzio-nario o i funzionari che sono o saranno designati adoccuparsene. È mio volere, desiderio e vivissima pre-ghiera che i suddetti fiduciari, o sette o piú di essi, pre-sentino a Sua Maestà o al Parlamento, nella sessione suc-cessiva alla mia morte, come si riterrà piú conveniente,umile istanza di versare ai miei fiduciari o ai loro eredientro dodici mesi dalla mia morte come prezzo della miacollezione o museo, la somma netta di ventimila sterli-ne di moneta legale inglese che non è, penso e credo,neppure un quarto del suo reale e intrinseco valore.Chiedano inoltre di ottenere poteri effettivi e suffi-cienti per porre nelle mani dei miei fiduciari tutta la miacollezione o museo summentovato in tutte le sue bran-che ed in ogni sua parte e anche di affidare ai miei fidu-ciari la mia già citata residenza di campagna con i suoigiardini e dipendenze che allora ancora le apparteneva-no, e di cui mi sono servito sino alla morte. È mio desi-derio che la collezione venga qui raccolta e conservata;sono compresi nel legato anche l’acqua della stessa casadi Chelsea che proviene da Kensington, soggetta a for-nire e ad approvvigionare la casa del lord vescovo diWinchester ed anche tutto il diritto al beneficio o pre-sentazione o diritto di patrocinio della chiesa di Chel-sea; concludendo, gli stessi diritti devono assolutamen-te passare ai detti fiduciari per conservare e continuare

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la mia già nominata collezione o museo nel modo cheloro sembrerà piú atto a rispondere al pubblico bene cuiio miro. I medesimi devono poi cercare di ottenere,come già detto prima, un fondo o provvigione suffi-ciente per mantenere e curare la mia suddetta collezio-ne e gli annessi per riparare e mantenere la mia resi-denza, opere idriche e immobili che saranno per sempredei suddetti fiduciari. Inoltre io qui fisso e stabilisco chei miei esecutori, dietro pagamento della suddetta sommadi ventimila sterline, affidino o stabiliscano che sia affi-dato ai suddetti fiduciari o a sette o piú di essi, per e innome di tutti loro, in presenza degli ispettori o di cin-que o piú di essi, sia il possesso della mia residenza e deigiardini di Chelsea, sia tutta la mia collezione o museogià menzionato e descritto ed ogni sua parte in tutte lesue branche, pieno ed intero, come si trova nella miaresidenza secondo i già citati cataloghi e insieme adalcuni volumi dei cataloghi relativi. È inoltre mio vole-re, ed io qui fisso e stabilisco, che in caso che Sua Mae-stà o il Parlamento accettino l’offerta suddetta e paghi-no la somma di ventimila sterline ai miei esecutori o ailoro eredi, avendo questi ottenuto poteri propri perun’effettiva cessione ai già citati fiduciari di tutta la miacollezione e di tutto il mio maniero principale con le sueadiacenze, acqua e beneficio, presentazione o diritto dipatronato della chiesa di Chelsea, come già detto essi siriuniscano insieme con i miei eredi naturali e testamen-tari e con tutte le altre parti interessate ed eseguano que-gli atti e cessioni che si pensino richiesti e necessari peril piú perfetto ed assoluto investimento, cessione e assi-curazione di quanto già citato ai fiduciari e loro eredi esuccessori, per sempre, per gli usi, intenti e propositi quicitati e intesi.

Testamento e codicilli stampati di Sir Hans Sloane, baronetto,1753

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horace walpole a Horace Mann Un noioso legato

Uno dei fiduciari di Sir Hans Sloane, Horace Walpole, consi-

derò piuttosto seccante l’incarico conferitogli per testamento,

come si può constatare da questa lettera ad un amico.

Arlington Street, 14 febbraio 1753

In queste tre ultime settimane sono stato lí lí per scri-verti ad ogni partenza di corriere, ma non ho potutodecidermi a cominciare una lettera con un «non ho nien-te da dirti». Bando agli scherzi; non interromperemocerto la nostra corrispondenza perché non ci sono guer-re, né avvenimenti politici, né feste, né pazzie, né scan-dali. Negli annali dell’Inghilterra non c’è mai stataun’età cosí priva di avvenimenti come questa: è piú dimoda andare in Chiesa che in Parlamento. Anche l’eradelle Gunning è ormai passata; le due sorelle si sono spo-sate meritando a malapena un trafiletto nei giornali,sebbene i loro nomi avessero raggiunto una notorietàtale che in Irlanda le mendicanti vi benedicono con que-sto augurio: «Vi tocchi la sorte delle Gunning».

Non ti immaginerai mai come impiego il mio tempo;al presente mi occupo principalmente della custodia diembrioni e di conchiglie. Sir Hans Sloane è morto e miha nominato fra i fiduciari che devono occuparsi del suomuseo che sarà offerto per ventimila sterline al re, alParlamento, alle accademie reali di Pietroburgo, Berli-no, Parigi e Madrid. Egli valutava la sua collezione

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ottantamila sterline e questo prezzo sarà senz’altro rite-nuto giusto da chiunque ami ippopotami, pescecani conun orecchio e ragni grandi quanto oche. È una caricaredditizia conservare i feti sotto spirito. State pur sicu-ro però che non acquisterà tali rarità chi considera ildenaro la piú pregevole delle curiosità. Il re si è scusa-to dicendo che non crede che nel tesoro ci siano venti-mila sterline. Noi siamo un consesso di saggi veramen-te simpatici, tutti filosofi, botanici, antiquari e mate-matici; abbiamo rimandato la prima riunione perchéLord Macclesfield, nostro presidente, era impegnato inuna seduta per determinare la longitudine. Fa parte deinostri un moravo che si firma Enrico XXVIII, conte diReus. I moravi hanno fondato una colonia a Chelseanelle vicinanze della tenuta di Sir Hans e credo che egliavesse l’intenzione di chiedere lo scheletro del conteEnrico XXVIII per il suo museo.

Sono davvero vergognoso di ringraziarti solo oraper una divertentissima lettera di due fogli del 22dicembre, ma sinceramente non avevo nulla da rispon-derti. Tre mattine fa è stato a colazione da me tuo fra-tello e mi rimproverava: – Ma tu non mi racconti nien-te.– No, – gli risposi. – Se avessi qualcosa da dire scri-verei a tuo fratello –. Ti do però la mia parola d’ono-re che il primo libro nuovo di successo, il primo delit-to, la prima rivoluzione, saranno tuoi e con tutti i par-ticolari. Intanto sta’ tranquillo; non c’è nessuna cittàpiú noiosa di Londra né alcun suo abitante piú privodi interesse del tuo ecc.

The Letters, vol. III, 1903

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Il discusso lascito di Lord Elgin

Thomas Bruce, settimo conte di Elgin (1766-1849) ereditò

questo titolo all’età di cinque anni. Nel 1785 entrò nell’eser-

cito dove raggiunse il grado di maggior generale. Nel 1790 ini-

ziò la carriera diplomatica e poco dopo fu nominato amba-

sciatore a Bruxelles e poi a Berlino. Dal 1799 al 1802 rivestí

la carica di ambasciatore straordinario a Costantinopoli e in

questo periodo si procurò il permesso dalla Turchia di ripro-

durre, e piú tardi portare via da Atene, molte opere d’arte clas-

sica. Le sculture furono trasportate in Inghilterra in piccoli

gruppi tra il 1803 e il 1812, ma quando arrivò Lord Elgin in

persona, si trovò violentemente attaccato tanto per la discuti-

bile legittimità delle sue appropriazioni quanto per il valore

artistico delle sculture. Egli pubblicò in sua difesa un memo-

randum e nel 1816 una commissione parlamentare giustificò la

sua condotta e confermò il valore dei suoi acquisti raccoman-

dando al Museo Britannico l’acquisto dei marmi per trenta-

cinquemila lire, somma di gran lunga inferiore al costo inizia-

le sostenuto da Lord Elgin.

Nel 1799 Lord Elgin venne nominato ambasciatorestraordinario di Sua Maestà alla Porta ottomana; percombinazione in quel periodo era in stretti rapporti conMr Harrison, un architetto di chiara fama nell’Inghil-terra occidentale, dove aveva dato numerosi e ottimisaggi delle sue capacità professionali, specialmente in unedificio pubblico di stile greco a Chester. Inoltre MisterHarrison aveva studiato molti anni, e con grande pro-

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fitto, a Roma. Perciò Lord Elgin gli chiese quali benefi-ci avrebbero potuto derivare all’arte inglese se si fossetrovato il modo di far studiare minuziosamente l’archi-tettura e la scultura della Grecia antica. La sua opinionefermissima era che un giovane artista, pur possedendo lemisure esatte degli edifici ateniesi, non avrebbe maipotuto farsi un concetto adeguato di tutti i loro minutiparticolari, delle varie combinazioni e dell’effetto gene-rale, senza avere davanti a sé una loro rappresentazioneconcreta quale può essere fornita dai calchi. Questo pare-re, che fu la base dell’attività di Lord Elgin in Grecia,portò all’ulteriore considerazione che si doveva sfrutta-re prima di tutto qualsiasi circostanza favorevole chel’ambasceria di Lord Elgin potesse offrire, dal momentoche tutte le cognizioni che si possedevano su tali costru-zioni erano state ottenute con tutti quegli svantaggi chei pregiudizi e le gelosie dei turchi avevano opposto a qual-siasi tentativo del genere; perciò, per strappare all’obliotutti quegli esemplari di architettura e di scultura grecafino ad allora sfuggiti alla rovina del tempo e alla barba-rie dei conquistatori, occorreva ricorrere non solo amodellatori ma anche ad architetti e a disegnatori.

In base a questo suggerimento Lord Elgin propose algoverno di Sua Maestà di mandare dall’Inghilterra arti-sti di notoria capacità, in grado di raccogliere questadocumentazione nel modo piú esatto, ma l’impresaparve ai ministri di esito troppo incerto per affrontarela spesa che comportava...

Dopo molte difficoltà, Lord Elgin ottenne dal gover-no turco il permesso di residenza ad Atene per sei arti-sti che per tre anni proseguirono il lavoro delle lorodiverse branche, ma con un unico sistema generale, conil vantaggio di un vicendevole controllo e sotto la sovrin-tendenza generale di Lusieri. Alla fine il progetto diLord Elgin trovò piena attuazione.

In tal modo tutti i monumenti di cui restavano trac-ce in Atene sono stati accuratamente e minuziosamen-

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te misurati e dagli schizzi degli architetti (tutti conser-vati), sono stati tratti disegni perfetti della pianta, del-l’elevazione e dei particolari degli elementi piú notevo-li: in essi Calmouk ha restaurato e inserito tutte le scul-ture con abilità e gusto squisito. Inoltre egli ha dise-gnato, con cura sorprendente, tutti i bassorilievi neivari templi, nel preciso stato attuale di conservazione edeterioramento.

Sono stati eseguiti calchi della maggior parte dei bas-sorilievi e di quasi tutti gli elementi architettonici carat-teristici dei vari monumenti di Atene e tali calchi sonostati portati a Londra.

Il secondo architetto Ittar ha inoltre misurato edescritto con scrupolosa esattezza tutti i resti di scultu-ra e di architettura reperibili in altre parti della Grecia...

Proseguendo in questo lavoro, gli artisti ebbero ildolore di assistere alla caparbia distruzione cui eranogiornalmente esposte tutte le sculture e anche i monu-menti architettonici da parte dei Turchi e dei viaggia-tori... Il tempio di Minerva era stato trasformato in unapolveriera e distrutto da un proiettile, durante il bom-bardamento di Atene ad opera dei Veneziani verso lafine del secolo xvii, neppure questo incidente avevadistolto i Turchi dall’usare il grazioso tempio di Nettu-no e l’Eretteo per lo stesso scopo, ragion per cui esso ècontinuamente esposto a una sorte simile. Molte dellestatue del posticum del tempio di Minerva (Partenone)distrutto dall’esplosione, sono state completamente pol-verizzate per ottenere calce, perché fornivano il legan-te piú bianco che si potesse trovare nelle vicinanze e sisono individuate le parti della moderna fortificazione ele miserabili case in cui questa calce è stata usata. Inol-tre è ben noto che i Turchi si arrampicano frequente-mente sui muri distrutti e si divertono a mutilare tuttele sculture che possono raggiungere o a spezzare colon-ne, statue o altre vestigia dell’antichità nella vaga spe-ranza di trovarvi nascosto qualche tesoro.

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In simili circostanze Lord Elgin si trovò spinto, dauna ragione piú forte che il desiderio di gloria persona-le, a tentare di salvare tutti quegli esemplari di sculturache poteva sottrarre senza danno a questa imminenterovina... Indotto da questi incitamenti, Lord Elgin feceuso di tutti i mezzi a sua disposizione e il suo successoè stato tale che ha portato in Inghilterra dalle rovine deitempli di Atene, dai muri e dalla fortificazione moder-na, in cui erano stati usati molti frammenti e molti bloc-chi di pietra, e da scavi intrapresi appositamente, piúsculture ateniesi originali, tra statue a tutto tondo, altoe basso rilievi, capitelli, cornicioni, fregi e colonne diquante ne esistono in qualsiasi altra parte d’Europa...

Il Partenone stesso, indipendentemente dalle suesculture decorative, è un esempio di architettura doricacosí puro e perfetto che Lord Elgin pensò che fossedella massima importanza per le arti assicurarsi degliesemplari originali di ogni elemento di quell’edificio,cioè un capitello, rocchi delle colonne per mostrare laforma esatta della curva della scanalatura, un triglifo,mutuli del cornicione e persino alcune delle lastre dimarmo con cui era coperto l’ambulacro, cosicché nonsolo lo scultore può avvantaggiarsi dello studio di ogniesemplare della sua arte, dalla statua colossale al basso-rilievo, eseguiti nell’età aurea di Pericle da Fidia stessoo sotto la sua direzione immediata, ma anche l’architettopuò esaminare ogni dettaglio dell’edificio, perfino ilmodo di unire i tamburi delle colonne senza l’aiuto dilegante in modo da dare al fusto l’aspetto di un bloccounico...

Si incontrarono maggiori difficoltà per formulare unprogetto che consentisse di trarre dai marmi e dai cal-chi la massima utilità. La prima idea di Lord Elgin fu difar restaurare le statue e i bassorilievi e per questo scopoandò a Roma a consultare Canova e ad affidargli l’inca-rico. Il parere di questo famosissimo artista fu decisivo.Esaminando gli esemplari che gli vennero mostrati e

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esaminando a fondo l’intera collezione, e particolar-mente ciò che proveniva dal Partenone, tramite perso-ne che avevano collaborato all’opera di Lord Elgin adAtene e che erano tornate a Roma con lui, Canovadichiarò che, per quanto si dovesse lamentare che que-ste statue avessero dovuto soffrire tanto per le ingiuriedel tempo e della barbarie, tuttavia era innegabile chenon erano mai state ritoccate; erano l’opera degli arti-sti piú abili che fossero mai esistiti, eseguite sotto il piúilluminato protettore delle arti in un periodo in cui ilgenio godeva l’incoraggiamento piú liberale e aveva rag-giunto il massimo grado di perfezione; ed erano stateconsiderate degne di decorare l’edificio piú ammiratoche sia mai stato eretto in Grecia. Lui stesso aveva trat-to il massimo diletto e vantaggio dall’occasione offerta-gli da Lord Elgin di avere in mano e di contemplare que-sti marmi inestimabili, ma (furono queste le sue parole)sarebbe stato un sacrilegio se lui o qualsiasi altro aves-se preteso di toccarli con lo scalpello. Dal loro arrivo inInghilterra le sculture sono state esposte al pubblico ele opinioni ed impressioni non solo degli artisti, madegli uomini di gusto in generale, hanno avuto modo diformarsi e di esprimersi. Il giudizio pronunciato dalCanova è stato accolto all’unanimità ed è stato depre-cato ogni tentativo di restaurare i marmi. Da sondaggieseguiti da Lord Elgin, su richiesta di professionisti, èstata accertata l’esistenza di una forte convinzione chel’opera degli scultori e il gusto ed il giudizio che la fannoprogredire e apprezzare, non possano essere stimolatipiú efficacemente che dagli esercizi atletici praticati inpresenza di opere simili, il cui merito peculiare è unaabile, scientifica, geniale ma esatta imitazione dellanatura. In nessun altro modo la varietà degli atteggia-menti, l’articolazione dei muscoli, la descrizione dellepassioni, in breve tutto ciò che lo scultore deve rappre-sentare, potrebbe essere compreso cosí attentamente evantaggiosamente...

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Con simili premesse e con una illuminata ed inco-raggiante protezione accordata al genio e alle arti, nonpuò essere troppo temerario abbandonarsi alla speranzache, data la prodigalità della natura nella perfezionedella figura umana nel nostro paese, data la gara dipatriottismo, di azioni eroiche e di virtú private degnedi ricordo, la scultura possa presto giungere in Inghil-terra e rivaleggiare con i piú alti capolavori del periodoaureo della Grecia.

Memorandum on the Subject of the Earl of Elgin’s

Pursuits in Greece, 1811

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heinrich schliemann Il tesoro di Priamo

Il dottor H. Schliemann (1822-90) nacque a Neu Buckow in

Germania. Fu un uomo di grandi e svariate doti naturali tanto

negli studi quanto negli affari; iniziando la sua carriera come

commesso in un piccolo negozio si procurò con il commercio

una grossa fortuna e fu cosí in grado di ritirarsi dagli affari e di

soddisfare l’ambizione di tutta la sua vita: la ricerca del luogo

in cui sorgeva l’antica Troia. A differenza degli altri studiosi

dei suoi tempi, egli prestò fede completa alla attendibilità sto-

rica dei poemi omerici e, seguendo le indicazioni topografiche

dell’Iliade, fu in grado di identificare la collina di Hissarlik

come località dell’antica Troia. La sua fiducia nei poemi ome-

rici ne uscí rinsaldata piú di una volta e lo indusse in seguito a

scavare la cittadella di Micene dove scoprí un’intera civiltà

preellenica di cui faceva parte un gruppo di tombe reali che con-

tenevano un immenso tesoro funerario d’oro. Fu spesso fuor-

viato dal suo entusiasmo per Omero e i suoi metodi di scavo

poco scientifici farebbero inorridire un archeologo moderno,

ma le sue scoperte furono di primaria importanza e grandezza.

Tra le sue molte doti, vi era una straordinaria disposizione

all’apprendimento delle lingue; ne imparò un gran numero ela-

borando un sistema personale che rassomiglia molto ai piú

moderni metodi d’insegnamento.

Nel nuovo grande scavo sul fianco nordoccidentale,attiguo a quello appena descritto, mi sono convinto chelo splendido muro di grandi pietre squadrate, che sco-prii nell’aprile del 1870 appartiene ad una torre, la cui

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parte inferiore sporgente deve essere stata costruita nelprimo periodo della colonia greca, mentre la parte supe-riore sembra databile al tempo di Lisimaco. A questatorre appartiene anche il muro che io menzionai nel mioultimo rapporto, dandone le dimensioni (due metri esettanta di altezza e uno e ottanta di larghezza) e notan-do che continuava il circostante muro di Lisimaco;altrettanto accade per il muro delle stesse dimensioniche sorge a quattordici metri di distanza e che io hougualmente tagliato. Dietro a quest’ultimo, a unaprofondità fra i sette e i nove metri, scoprii il murodella rocca troiana che si dipartiva dalla Porta Scea.Procedendo nello scavo di questo muro, proprio di fian-co al palazzo del re Priamo, mi imbattei in un grossooggetto di rame di forma notevolissima che attrasse lamia attenzione, tanto piú che credevo di vedervi die-tro dell’oro. Al di sopra di questo oggetto di rame c’erauno strato di rovine rosse e calcinate, spesso da unmetro e quaranta a due e venti, duro come pietra, eancora al di sopra correva il muro di fortificazione giàmenzionato, costruito con grandi pietre e con terra, aquanto pare immediatamente dopo la distruzione diTroia. Per sottrarre il tesoro all’avidità dei miei operaie salvarlo per l’archeologia dovetti essere rapidissimo;perciò, sebbene non fosse ancora l’ora della colazione,ordinai immediatamente il paidos. Questa è una paroladi origine incerta, passata nel turco e qui usata in luogodi ¶nßpausij o riposo. Mentre gli uomini mangiava-no e si riposavano, estrassi il tesoro con un grosso col-tello, cosa che non si poteva fare senza grandissimosforzo e grave pericolo di vita, perché il grande murodi fortificazione sotto cui dovevo scavare minacciava adogni momento di cadermi addosso, ma la vista di tantioggetti, ciascuno di inestimabile valore per l’archeolo-gia, mi rese temerario, e non pensai mai al mio rischiopersonale. Mi sarebbe comunque stato impossibilerimuovere il tesoro senza l’aiuto della mia cara moglie

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che mi assistette, pronta ad avvolgere nel suo scialle ea portare via ciò che io riportavo alla luce.

Il primo oggetto che trovai fu un grosso scudo dirame (l’¶spàj omfal’essa di Omero) a forma di vas-soio ovale, con una sporgenza a borchia al centro, cir-condata da una piccola scanalatura (afilax). Lo scudo èlungo poco piú di cinquanta centimetri, quasi piatto ecircondato da un bordo (®ntux) alto quattro centime-tri; la borchia (‘mfal’j) ha il diametro di sei centime-tri e lo spessore di sei; la scanalatura che la circonda haun diametro di diciotto centimetri ed è profonda 6 mil-limetri.

Seguiva un’altra coppa di oro purissimo, che pesavaesattamente seicento grammi (circa una libbra e sei onced’oro). È alta sette centimetri e mezzo, lunga diciotto elarga diciotto centimetri e mezzo; ha la forma di unabarca con due grandi manici; su un lato vi è un beccoper bere, largo tre centimetri, e sull’altro lato vi è unaltro becco, largo cinque centimetri e mezzo. Come notail mio stimato amico professor Stefano Kumanudes diAtene, la persona che presentava la coppa piena dove-va avere prima bevuto dal becco piccolo, in segno dirispetto, per permettere all’ospite di bere dal becco piúgrande. Questo vaso ha un piede sporgente di circa trecentimetri e mezzo, lungo tre centimetri e largo due cen-timetri. È sicuramente il dûpaj ¶mfik›pellon omeri-co. Ma io resto della mia opinione che tutti quegli altivasi di terra cotta rossa brillante, a forma di bicchieri dachampagne con due enormi manici, siano anche essidûpaj ¶mfik›pella, e che questa forma probabilmen-te esistesse anche in oro. Devo inoltre fare un’osserva-zione molto importante per la storia dell’arte: il dûpaj¶mfik›pellon su menzionato è ottenuto mediantefusione in un calco e i grandi manici, che non sonopieni, sono stati attaccati ad esso con una fusione suc-cessiva. La bottiglia d’oro e la coppa d’oro menzionatesopra sono invece lavorate con il martello.

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Il tesoro conteneva inoltre una piccola coppa d’oro inlega con un venti per cento d’argento; si tratta del metal-lo misto chiamato electrum. Essa pesava settanta gram-mi (due once e un quarto), era alta piú di sette centi-metri e larga piú di sei. Il suo piede è alto solo due cen-timetri e largo quasi due e mezzo, e inoltre non è per-fettamente verticale, cosicché sembra che la coppa siastata concepita per stare in piedi solo appoggiandosi albecco.

Poiché trovai questi oggetti tutti insieme, in unamassa rettangolare o infilati l’uno nell’altro, mi sembracerto che siano stati collocati nel muro della città in unacassa di legno (fwriam’j) come quelle ricordate daOmero nel palazzo del re Priamo. La cosa sembra anchepiú probabile perché accanto a questi oggetti trovai unachiave di rame lunga piú di dieci centimetri la cui testa(lunga e larga circa cinque centimetri) rassomiglia moltoa una grossa chiave di sicurezza di una banca. Abba-stanza stranamente questa chiave doveva avere un mani-co di legno; non ci possono essere dubbi su ciò per ilfatto che la parte terminale dello stelo della chiave è pie-gata ad angolo retto come nei pugnali.

È probabile che qualche membro della famiglia realeabbia raccolto frettolosamente in una cassa il tesoro e loabbia portato via senza aver il tempo di togliere la chia-ve; poi, quando ebbe raggiunto il muro, la mano di unnemico o il fuoco lo sorpresero ed egli fu costretto adabbandonare la cassa, che fu immediatamente copertaper uno spessore di un metro e mezzo o due dalle cene-ri rosse e dalle rovine del vicino palazzo reale.

Forse gli oggetti trovati pochi giorni prima in unastanza del palazzo reale vicino al punto in cui fu scopertoil tesoro appartenevano allo stesso personaggio sfortu-nato. Questi oggetti erano un elmo e un vaso d’argen-to, alto diciassette centimetri e lungo quattordici, con-tenente un’elegante coppa di electrum, alta dieci centi-metri e larga nove; l’elmo si ruppe mentre veniva estrat-

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to, ma mi fu possibile restaurarlo, poiché ne possedevotutti i pezzi. Le due parti superiori, che formavano lacresta (fßloj) sono intatte. Accanto all’elmo, come giàprima, trovai uno spillo di rame curvo, lungo circa quin-dici centimetri, che doveva appartenergli in qualchemodo, servire per qualche cosa.

A un metro e mezzo o due al di sopra del tesoro, i suc-cessori dei Troiani eressero un muro di fortificazione altosei metri e largo uno e ottanta, composto di terra e digrosse pietre squadrate e grezze; questo muro si spingefino a nove metri e dieci dalla superficie della collina.

Che il tesoro sia stato raccolto a terribile rischio divite, e nella piú grande ansietà, è provato tra l’altroanche dal contenuto del piú grande vaso d’argento sulfondo del quale trovai due splendidi diademi d’oro (krø-demna), una fascia e quattro graziosi orecchini di squi-sita fattura: sopra questi c’erano cinquantasei orecchinid’oro di forma estremamente curiosa, e ottomilasette-centocinquanta piccoli anelli d’oro, prismi e dadi perfo-rati, bottoni d’oro e altri gioielli del genere che ovvia-mente appartenevano ad altri ornamenti, poi seguivanosei braccialetti d’oro e sopra a tutto i due piccoli vasi.

Uno dei due diademi è formato da una fascia d’orolunga cinquantaquattro centimetri e larga quasi un cen-timetro e mezzo, da cui pendono da ambo le parti acoprire le tempie sette catenelle, ciascuna delle quali haundici foglie quadrate con una venatura: queste cate-nelle sono unite una all’altra da quattro piccole cate-nelle trasversali alla fine delle quali è appeso uno scin-tillante idolo d’oro della dea protettrice di Troia, lungoquasi due centimetri e mezzo. La lunghezza comples-siva di ogni catena con gli idoli è di circa ventisei cen-timetri.

Quasi tutti questi idoli hanno qualcosa di umanonella figura, ma la testa di civetta con i due grandi occhiè inequivocabile; la loro larghezza all’estremità inferio-re è di circa due centimetri e venticinque. Fra questi

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ornamenti per le tempie ci sono quarantasette catenellependenti decorate con foglie quadrate; alla fine di ognicatenella vi é un idolo della dea protettrice di Ilio, lungocirca un centimetro e ottanta; la lunghezza di questecatenelle con gli idoli non raggiunge i dieci centimetri.

L’altro diadema è lungo cinquanta centimetri e con-siste in una catena d’oro cui sono sospese da ogni parteotto catenelle completamente coperte con piccole foglied’oro, che dovevano pendere sulle tempie, e alla fine diognuna delle sedici catenelle pende un idolo d’oro lungotre centimetri con la testa di rapace della dea protettri-ce di Ilio. Fra questi ornamenti per le tempie vi sono set-tantaquattro catenelle lunghe circa dieci centimetricoperte di foglie d’oro, che dovevano pendere sulla fron-te; alla fine di queste catene è appesa una doppia foglialunga circa un centimetro e ottanta.

La fascia ¥mpux è lunga circa quarantacinque centi-metri, larga uno e venticinque e ha tre fori ad ogniestremità. Otto file quadruple di punti la dividono innove scompartimenti in ciascuno dei quali ci sono duegrandi punti; e una serie ininterrotta di altri punti deco-ra tutto l’orlo. Dei quattro orecchini solo due sono esat-tamente uguali. Dalla parte superiore, che ha approssi-mativamente la forma di un canestro ed è ornata con duefile di decorazioni a forma di perle, pendono sei cate-nelle in cui vi sono tre cilindri; all’estremità di questecatenelle sono appesi idoli della dea protettrice di Troia.La lunghezza di ogni orecchino è di otto centimetri. Laparte superiore degli altri due orecchini è piú grossa espessa, ma anch’essa quasi a forma di canestro, e ne pen-dono cinque catenelle interamente coperte di piccolefoglie rotonde cui sono ugualmente assicurati piccoli mapiú imponenti idoli della divinità tutelare di Ilio; la lun-ghezza di uno di questi pendenti è di otto centimetri,quella dell’altra è di poco superiore ai sette centimetri.

Dei sei braccialetti d’oro due erano semplicissimi echiusi, spessi circa cinque millimetri, un terzo è anch’es-

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so chiuso, ma è formato da una fascia lavorata, spessae larga sei millimetri. Gli altri tre sono doppi con leestremità arrotondate e guarnite di una testa. Le prin-cipesse che portavano questi braccialetti dovevanoavere mani eccezionalmente piccole perché sono cosístretti che una fanciulla di dieci anni avrebbe difficoltàa metterli.

Gli altri cinquantasei orecchini sono di varie dimen-sioni e tre di essi sembra siano stati usati dalle princi-pesse della famiglia reale come anelli. Nessuno degliorecchini ha una forma simile a quella degli orecchiniellenici, romani, egizi o assiri; venti di essi terminava-no con quattro foglie, dieci in tre foglie distese unaaccanto all’altra e saldate insieme, e sono quindi moltosimili a quegli orecchini d’oro e di electrum che trovail’anno scorso alla profondità di nove e di tredici metri.Diciotto altri orecchini terminano con sei foglie; all’ini-zio di queste ci sono due piccole borchie, al centro duefile di cinque piccole borchie ciascuna e alla fine tre pic-cole borchie. Due degli anelli piú grandi, che, dato lospessore di una delle due estremità non possono esserestati usati come orecchini, e sembra siano stati solo anel-li, terminano in quattro foglie e all’inizio di queste cisono due borchie, altre tre segnano il centro e infine duel’estremità. Dei rimanenti orecchini due hanno la formadi tre serpenti, e quattro di due serpenti distesi l’unoaccanto all’altro e graziosamente ornati.

Nello stesso grande vaso d’argento insieme agli orec-chini c’era un gran numero di altri oggetti infilati ad unfilo o applicati sul cuoio. Infatti come ho già detto,sopra e sotto gli orecchini trovai ottomilasettecentocin-quanta piccoli oggetti; e precisamente anelli d’oro deldiametro di appena tre millimetri, dadi perforati, sia lisciche a forma di stelline dentellate, del diametro di circaquattro millimetri, prismi d’oro perforati, alti due mil-limetri e mezzo e spessi tre millimetri, decorati longitu-dinalmente con otto o sedici incisioni; piccole foglie,

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lunghe circa cinque millimetri, larghe tre e perforate lon-gitudinalmente per infilarle; piccoli spilli d’oro lunghicinque millimetri con una borchia su un lato e un foroda parte a parte nell’altro; prismi perforati lunghi circacinque millimetri e spessi due e mezzo; anelli d’orodoppi o tripli saldati insieme, del diametro di sei milli-metri, con fori su ambo i lati per infilarli; bottoni e bor-chie d’oro alti cinque millimetri con una cavità in cui sitrova un anello per cucirli largo piú di due millimetri emezzo, bottoni doppi in oro esattamente simili ai nostrigemelli da polsi, lunghi sette millimetri e mezzo, cheperò non sono saldati ma semplicemente attaccati insie-me, perché dalla cavità di una delle due parti esce untubetto (a‹làskoj) lungo circa sei millimetri e dall’al-tro un perno (†mbolon) della stessa lunghezza e il pernoe semplicemente infilato nel tubetto a formare il doppiobottone. Questi doppi bottoni o borchie possono esse-re stati usati solo come ornamento su oggetti di cuoio,per esempio sulle cinghie per impugnare (telamÒnej)spade, scudi, o coltelli. Trovai nel vaso anche due cilin-dri d’oro, spessi circa due millimetri e mezzo e lunghi18 millimetri; inoltre un piccolo perno d’oro lungo circadue centimetri e spesso da uno e mezzo a due millime-tri, ad una estremità aveva un foro da parte a parte persospenderlo e dall’altra sei incisioni circolari che dava-no all’oggetto l’aspetto di una vite. Solo con una lentedi ingrandimento si è potuto appurare che non era unavite vera e propria. Trovai anche nello stesso vaso duepezzi d’oro, uno lungo circa 3,6 millimetri, l’altro piú dicinque centimetri; ciascuno presenta ventuno fori.

La persona che tentò di salvare il tesoro ebbe fortu-natamente la presenza di spirito di collocare in piedinella cassa il vaso d’argento, con i preziosi oggettidescritti sopra, cosí che neppure un grano di collanaandò perso ed ogni cosa si è conservata intatta.

Troy and Its Remains, 1875

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heinrich schliemann Un tesoro rubato

Passo ora a tre tesori piú piccoli, trovati nel 1873 allafine di marzo, alla profondità di nove metri, sul latoorientale del palazzo reale e molto vicino ad esso, da dueoperai, uno dei quali vive a Yeni Shehr e l’altro a Kali-fatli. Uno di essi fu trovato nel vaso con testa di rapa-ce n. 232, che era chiuso dal piede appuntito di un altrovaso; i due altri piccoli tesori furono trovati, insiemeall’ascia da guerra n. 828 lí vicino. Ma poiché i raccon-ti degli operai differiscono circa gli oggetti rispettiva-mente contenuti in ogni tesoro, sono costretto a descri-verli insieme. I due operai avevano rubato e diviso i tretesori tra di loro e probabilmente non ne avrei maiavuto notizia se non ci fosse stata una fortunata circo-stanza; la moglie dell’operaio di Yeni Shehr, che avevaavuto la sua parte di bottino (tutti gli oggetti dal n. 822all’833 oltre a due pendenti in piú simili ai nn. 832 e833) ebbe la spudoratezza di ornarsi una domenica congli orecchini e i pendenti nn. 822 e 823. Ciò suscitò l’in-vidia delle sue amiche e venne denunciata alle autoritàturche di Koum Kaleh, che misero in prigione lei e ilmarito. In seguito alla minaccia di impiccagione delmarito se non avessero restituito i gioielli, ella rivelò ilnascondiglio e cosí questa parte del tesoro fu subitorecuperata ed oggi si può ammirare nel Museo Imperia-le di Costantinopoli. La coppia denunciò anche il com-plice di Kalifatli, ma qui le autorità giunsero troppotardi, perché egli aveva già fatto fondere la sua parte di

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bottino da un orefice di Ben Kioi che, per suo deside-rio, ne aveva ricavato una collana molto larga, spessa epesante con vistosi ornamenti floreali secondo la modaturca. Cosí questa parte di tesoro è persa per sempre perla scienza. Posso perciò parlare solo della parte presa dalladro di Yeni Shehr, perché questa esiste e ognuno puòammirarla nel Museo di Costantinopoli. Poiché entram-bi i ladri dichiararono separatamente davanti alle auto-rità di Koum Kaleh sotto il vincolo di giuramento, cheil vaso con testa di rapace n. 232, con parte dell’oro, erastato trovato da loro immediatamente ad ovest del pozzoe che gli altri due tesori erano stati trovati proprio lí vici-no, e indicarono il punto esatto del ritrovamento, sul-l’esattezza non ci possono essere dubbi.

Ilios, 1880

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heinrich schliemann Un capo miceneo

Micene, 6 dicembre 1876

Per la prima volta dalla conquista degli Argivi nel 468a.C., cioè per la prima volta dopo 2344 anni, l’acropo-li di Micene ha nuovamente una guarnigione, i cui fuo-chi di bivacco la notte sono visibili in tutta la pianuradi Argo e fanno pensare alle sentinelle che erano dispo-ste per annunciare il ritorno di Agamennone da Troia eil segnale che avvertí Clitennestra e il suo amante del-l’avvicinarsi del marito.

Ma questa volta la guarnigione ha uno scopo pacifi-co: deve servire soltanto ad incutere timore agli abitan-ti della zona e ad impedire loro di scavare di nascostonelle tombe o avvicinarsi troppo quando noi vi siamooccupati...

Ma del terzo corpo, all’estremità nord della tomba,sotto la pesante maschera d’oro si era conservato mira-colosamente il volto rotondo con tutta la carne. Non c’e-rano tracce di capelli, ma si distinguevano benissimo gliocchi come pure la bocca che sotto il grosso peso si eraspalancata e mostrava tutti i suoi trentadue bei denti.

Da questo particolare tutti i medici venuti a vedereil corpo conclusero che l’uomo fosse morto all’età ditrentacinque anni. Il naso era del tutto scomparso. Poi-ché il corpo era troppo lungo per le due pareti interne,la testa era stata talmente ripiegata sul petto che la partesuperiore delle spalle era quasi in linea retta col cranio.

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Nonostante l’ampio pettorale d’oro, del torace si eraconservato cosí poco che in molti punti si vedeva laparte interna della spina dorsale. Cosí compresso e muti-lato il cadavere misurava appena sessantuno centimetridalla punta della testa all’inizio dei lombi; la larghezzadelle spalle non superava cinquantasette centimetri e lalarghezza del petto trentasette centimetri, ma i grossifemori non lasciavano dubbi sulle sue proporzioni reali.La pressione dei débris e delle pietre era stata tale che ilcorpo aveva appena uno spessore variante dai due cen-timetri e mezzo ai quattro.

Il colore del corpo è molto simile a quello delle mum-mie egiziane. La fronte dell’uomo era ornata di unasemplice foglia rotonda d’oro e una foglia anche piúgrande era posata sull’occhio destro.

La notizia che si era scoperto il corpo abbastanza benconservato di un uomo di età mitica, eroica, con orna-menti d’oro, si é diffusa come un lampo in tutta l’Argo-lide e migliaia di persone sono venute da Argo, da Nau-plia e dai villaggi per vedere il prodigio. Ma siccome nes-suno era in grado di darmi consigli per la conservazionedel corpo, ho fatto venire un pittore per farlo ritrarre aolio, nel timore che esso si decomponesse.

Ma con mia grande gioia esso si è conservato per duegiorni, finche uno speziale di Argo, chiamato SpiridonNikolaou, lo ha reso duro e solido versandovi sopraalcool con una soluzione di sandracca. Poiché sotto ilcorpo non si vedevano ciottoli, si pensò che si potevasollevarlo infilandovi sotto una lastra di ferro. Ma èstato un errore, perché si è visto subito che sotto c’erail solito strato di ciottoli. E siccome questi, per il fortepeso che vi aveva gravato sopra per millenni, erano piúo meno penetrati nella roccia tenera, si è cercato inutil-mente di infilare la lastra di ferro sotto i ciottoli e di sol-levare anche questi col corpo. Quindi non è rimastoaltro che scavare una fossetta attorno al corpo e poi fareun taglio orizzontale, staccare una lastra di roccia spes-

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sa sei centimetri, sollevarla insieme con i ciottoli e ilcorpo, deporla su una grossa tavola, fare attorno a que-sta una solida cassa e spedirla al villaggio di Charvati,per trasportarla poi ad Atene appena la Società archeo-logica avrà trovato un locale adatto per le antichitàmicenee.

Con i miseri attrezzi che abbiamo qui è stato diffici-le staccare dalla roccia la grossa lastra orizzontale, maanche piú difficile è stato sollevarla alla superficie den-tro la cassa di legno e poi trasportarla a spalla per piú diun miglio fino al villaggio di Charvati. Ma tutta questafatica e questo lavoro non possono essere paragonati algrande interesse che questo corpo della remota età eroi-ca presenta per la scienza.

Mycenae, 1878

A Sua Maestà il re Giorgio di Grecia, Atene.

Esulto di gioia nell’informare Vostra Maestà che hoscoperto le tombe che la tradizione, partendo da Pau-sania, indica come sepolcri di Agamennone, Cassandra,Eurimedonte e dei loro compagni, tutti uccisi al ban-chetto da Clitennestra e dal suo amante Egisto. Letombe sono attorniate da un doppio anello di lastre dipietra parallele che può essere stato eretto solo in onoredei nobili personaggi che ho nominato. Dentro latomba trovai un ricco tesoro costituito da oggetti arcai-ci in oro massiccio. Questi basterebbero da soli a riem-pire un grosso museo che sarebbe la meraviglia delmondo e che nei secoli futuri potrebbe richiamare inGrecia migliaia di visitatori da ogni paese. Poiché solol’amore del sapere ispira le mie ricerche, naturalmen-te non avanzo pretese su questo tesoro, che sono real-mente felice di offrire intatto alla Grecia. Voglia Dio

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concedere che esso diventi l’inizio di una grande pro-sperità per la nazione.

H. SchliemannMicene, 16 (28) novembre 1876.

Risposta di Sua Maestà.

Al dottor Schliemann, Argo.

Ho l’onore di informarvi che Sua Maestà il Re haricevuto il vostro dispaccio e mi ha graziosamente inca-ricato di ringraziarvi per il vostro lavoro, per la vostradevozione al sapere, e di congratularmi per le vostre pre-ziose scoperte. Sua Maestà augura che le vostre ricerchefuture siano sempre coronate da un successo ugualmen-te felice.

Il segretario di Sua Maestà il re dei GreciA. Calinskis

Mycenae, 1878

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johann joachim winckelmann Winckelmann ad Ercolano

Johann Joachim Winckelmann (1717-68) nacque a Stendal

nella Sassonia prussiana. I primi studi di letteratura classica

suscitarono in lui un gran desiderio di visitare Roma e nel

1754, nominato bibliotecario del cardinale Passionei, abbrac-

ciò la fede cattolica e si stabilí in Italia. In quel tempo si sta-

vano facendo importanti scoperte a Pompei e ad Ercolano, ma

i reperti erano custoditi gelosamente dagli scavatori che non

avrebbero permesso di esaminarli né in situ né nei laboratori.

Winckelmann, con la sua caratteristica astuzia, fece in modo

da aggirare il divieto quanto bastava per raccogliere materiale

per alcune pubblicazioni.

Nel 1768 si recò a Vienna dove fu ricevuto ed onorato da

Maria Teresa, ma la ricompensa pecuniaria che accettò per la

sua opera fu la causa della sua rovina; nel viaggio di ritorno si

dimostrò troppo liberale del suo denaro in una locanda di Trie-

ste e venne assalito e ucciso da un ladro. Egli fu il primo

archeologo che studiò l’evoluzione dell’arte antica e che tentò

di trarre deduzioni logiche della storia e della società del mondo

antico dagli elementi conservati.

Un pozzo scavato per il principe di Elbeuf, a pocadistanza dalla sua casa, forní la prima occasione dellescoperte che stanno ora intraprendendo. Il principeaveva progettato questo edificio per farne la sua dimo-ra abituale. Esso sorge dietro il convento francescano,all’estremità di una roccia vulcanica presso il mare. Inseguito la casa passò alla famiglia Falletti di Napoli,

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dalla quale l’attuale re di Spagna l’acquistò per farseneuna casetta per la pesca. Quel pozzo era stato scavatopresso il giardino dei carmelitani scalzi. Per farlo funecessario perforare la lava sino alla roccia viva dove glioperai trovarono, sotto le ceneri del Vesuvio, tre gran-di statue femminili panneggiate. Il vicerè austriaco giu-stamente le rivendicò per sé, e, tenendone parte in manosua, le fece portare a Roma dove furono restaurate. Inseguito esse vennero donate al principe Eugenio, che lecollocò nei suoi giardini a Vienna. Alla sua morte la suaerede le vendette al re di Polonia per seimila corone, ofiorini, non so di preciso. Sette anni dopo la mia par-tenza per l’Italia, esse si trovavano in un padiglione delgrande giardino reale, alla periferia di Dresda, insiemealle statue e ai busti di palazzo Chigi per cui il defuntoAugusto, re di Polonia, aveva sborsato sessantamilacorone. Questa collezione fu unita ad alcuni monumen-ti antichi che il cardinale Alessandro Albani aveva cedu-to allo stesso principe per diecimila corone.

Alla scoperta di queste antichità venne dato ordineal principe di Elbauf di sospendere i lavori. Comunquesi lasciarono passare trenta anni prima che vi si prestasseulteriormente attenzione. Alla fine l’attuale re di Spa-gna, non appena, in seguito alla conquista di Napoli, sene trovò pacifico padrone, scelse Portici come sua resi-denza primaverile e, poiché il pozzo era ancora in costru-zione, ordinò di riprendere i lavori sul fondo e di pro-seguirli fino a raggiungere qualche edificio. Il pozzo esi-ste ancora. Scende perpendicolare attraverso la lava sinoal centro del teatro (il primo edificio scoperto), che nonriceve luce se non attraverso di esso. Qui fu rinvenutaun’iscrizione con il nome di Ercolano, il che, consen-tendo di indovinare in quale località ci si era imbattuti,indusse Sua Maestà a proseguire gli scavi.

La direzione venne affidata a un ingegnere spagno-lo, di nome Roche Joachim Alcunierre, che aveva segui-to Sua Maestà a Napoli ed era colonnello e capo del

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corpo dei genieri a Napoli. Costui, che (per usare un pro-verbio italiano) si intendeva di antichità come la luna diaragoste, ha causato per incapacità la perdita di moltioggetti antichi. Basterà un solo esempio per fornirne laprova. Avendo gli operai scoperto una grande iscrizio-ne pubblica (non posso dire a quale edificio apparte-nesse) in lettere di bronzo alte due palmi, ordinò distaccarle dalla parete, senza prima farne una copia, e digettarle in un cesto alla rinfusa; poi le presentò al re inqueste condizioni. Esse furono in seguito esposte permolti anni nel gabinetto dove ognuno era libero di com-binarle a piacere. Probabilmente esse formavano questedue parole: Imp. Aug. Riferirò tra poco come venne con-ciata, sotto la direzione dello stesso ingegnere, una qua-driga di rame.

Avendo in seguito Don Roche ottenuto una caricapiú alta, la sovrintendenza e la direzione dei lavori ven-nero affidate a un ufficiale svizzero, il maggiore Char-les Weber, al cui buon senso siamo debitori dei progressifatti nel riportare alla luce questo tesoro di antichità.Prima di tutto egli ha tracciato una pianta esatta ditutte le gallerie sotterranee e degli edifici cui conduco-no, e l’ha resa ancora piú comprensibile mediante unaminuziosa descrizione storica di ogni scoperta. In essal’antica città appare libera da tutti i detriti che attual-mente la ricoprono. L’interno degli edifici, le stanzepiú interne e i giardini, come pure il punto preciso dovevenne rinvenuto ogni oggetto rimosso, compaiono inquesta pianta come comparirebbero se fossero statemesse completamente allo scoperto. Ma nessuno puòvedere questi disegni.

Il felice risultato dei lavori intrapresi ad Ercolano haindotto a scavare in altre località e ciò ha permesso distabilire subito la posizione della antica Stabia e di ripor-tare alla luce a Pompei i grandiosi resti dell’anfiteatro,costruito su di una collina, una parte del quale però èsempre stato visibile sopra il piano di campagna. Gli

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scavi in queste località si dimostrarono meno dispendiosidi quelli di Ercolano, perché qui non occorreva passareattraverso la lava. Gli scavi sotterranei a Pompei sonoquelli piú promettenti, perché qui non c’è solo la sicu-rezza di avanzare passo a passo in una grande città, maè già stata individuata la strada principale che procedein linea retta. Nonostante tutte queste prove che ci saràpossibile trovare tesori sconosciuti ai nostri antenati, ilavori proseguono con estrema lentezza e indolenza; intutti questi scavi sotterranei sono impegnati appena unacinquantina di operai, ivi compresi gli schiavi algerini etunisini. Per una città grande come si sa che doveva esse-re Pompei, nel mio ultimo viaggio ho trovato solo ottouomini al lavoro nelle rovine.

In compenso di tale negligenza il metodo di scavo ètale che neppure il piú piccolo punto può passare inos-servato; su entrambi i lati di una trincea principale, con-dotta in linea retta, gli operai svuotano quadrati alter-nati di sei palmi di lunghezza, larghezza e profondità,spostando man mano che procedono i detriti di ognunodi questi quadrati in quello opposto, scavato per ultimo.Si segue questo metodo non solo perché piú economico,ma per sostenere la terra al di sopra di ogni quadrato coni detriti estratti da un altro.

So che gli stranieri, particolarmente i viaggiatori, chenon possono avere che una visione superficiale di que-sti lavori, desiderano che tutti i detriti siano completa-mente rimossi, in modo da dare loro la possibilità divedere, come nella pianta di cui ho parlato, l’interno ditutta la città sotterranea di Ercolano. Essi accusano diciò la corte e chi dirige i lavori, ma si tratta puramentedi un pregiudizio, che un esame razionale della naturadel luogo e altre circostanze farà ben presto sormonta-re. Devo tuttavia consentire con i forestieri per quantoriguarda il teatro, perché avrebbe potuto essere intera-mente portato alla luce e ne sarebbe valso certamente lapena. Non mi riterrei però per nulla soddisfatto da una

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semplice rimozione dei detriti della gradinata, la cuiforma si può facilmente dedurre da tanti altri antichiteatri ancora esistenti, lasciando invece la scena come sitrova, sebbene sia la parte piú importante dell’interoedificio e la sola su cui ci mancano nozioni precise. Èvero che qualcosa è stato fatto per venire incontro adotti e curiosi, ripulendo i gradini che partono dall’A-rena o Pozzo alla Scena, cosí che si può sperare di gode-re un giorno o l’altro, magari sotto terra, una visionecompleta dell’intero teatro di Ercolano.

Per quanto riguarda la città nel suo complesso, devopregare chi brama una sua completa visione di conside-rare che, essendo stati i tetti distrutti dall’enorme pesodella lava sovrastante, non si vedrebbero in questo casonient’altro che i muri. Inoltre, poiché le decorazionipittoriche delle pareti sono state rimosse per sottrarrequeste opere di valore inestimabile ai danni dell’aria edella pioggia, non apparirebbero intatte che i muri dellecase piú povere e insignificanti. Ora lascio giudicare achiunque quanto sarebbe sproporzionatamente dispen-dioso rimuovere una crosta di lava cosí spessa ed estesae togliere la enorme quantità di cenere accumulatasi aldi sotto. E, dopo tutto, quale sarebbe il vantaggio?Quello di lasciare scoperta una piccola quantità di vec-chi muri in rovina, semplicemente per soddisfare lacuriosità malsana di alcuni conoscitori a danno di unasolida e popolosa città. Il teatro, invece, può essere inte-ramente scoperto distruggendo semplicemente il giardi-no dei carmelitani scalzi sotto cui si trova.

Infine chi desidera vedere muri di edifici antichiprima sepolti allo stesso modo, può soddisfare la suacuriosità a Pompei. Ma poche persone, tranne gli Ingle-si, hanno il coraggio di spingersi fin là per questo. APompei si può scavare e rivoltare il terreno sotto soprasenza rischio e con poca spesa, perché la terra che vi stasopra vale poco. Un tempo è vero, produceva il piú deli-zioso dei vini, ma quello odierno è cosí mediocre che il

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paese soffrirebbe ben poco per la completa distruzionedelle sue vigne. Devo poi aggiungere che questo paeseè piú esposto di ogni altro a quelle dannose esalazionichiamate musseta dagli abitanti, che distruggono ogniprodotto della terra. Ho avuto occasione di osservare iostesso quel fenomeno su un gran numero di olmi cheavevo visto in piena vitalità sei anni prima. Queste esa-lazioni in genere precedono un’eruzione e si avvertonoprima nei luoghi sotterranei. Per questo, alcuni giorniprima dell’ultima eruzione, alcuni abitanti caddero mortientrando nelle cantine.

Dall’indolenza con cui vengono condotti questi lavo-ri si deduce che alla posterità resterà un ampio campodi scoperte. Forse tesori altrettanto grandi si possonoscoprire con la stessa spesa, scavando a Pozzuoli, Baia,Cuma, e Miseno, dove i Romani avevano le loro piúfamose ville di campagna. Ma la corte è cosí soddisfat-ta delle attuali scoperte che sta ora facendo che ha vie-tato dovunque gli scavi oltre una certa profondità. Ècerto che nelle località che ho appena menzionate visono antichi monumenti finora poco o niente conosciu-ti, come si deduce da quanto sto per riferire. Un capi-tano inglese, la cui nave era ancorata da queste parti dueanni fa, scoprí sotto Baia una sala bella e spaziosa, acces-sibile solo dall’acqua, in cui ci sono ancora graziosedecorazioni in stucco. Ho saputo di queste scoperte solodopo il mio ritorno da Napoli, ma ne ho comunquevisto i disegni. Mr Adams di Edimburgo in Scozia miha fatto un racconto minuzioso; è un amatore d’arte eintende visitare la Grecia e l’Asia Minore.

A Critical Account of the Situation and Destruction of Her-

culaneum and Pompeii, 1771

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I calchi in gesso dei cadaveri di Pompei

Augustus Goldsmidt fece la seguente relazione della scoperta

di alcuni scheletri avvenuta a Pompei nella primavera di quel-

l’anno.

Trovandomi a Roma l’inverno scorso, in Quaresima,feci una breve visita a Napoli, ansioso di riportare, arichiesta di parecchi amici, notizie precise su alcuneinteressanti scoperte di resti umani avvenute ultima-mente a Pompei.

Grazie alla gentilezza del signor Vertumni, un arti-sta romano di una certa fama, che risiedeva allora aNapoli, ottenni una presentazione per il cavalier Fiorelli,allora direttore governativo dei lavori, che mi invitò aunirmi a un gruppo che sarebbe andato tra breve a visi-tare le rovine di Pompei.

Dopo aver visitato alcune strade e alcune parti dellacittà scoperte recentemente, ci recammo in un piccoloMuseo allestito sotto la direzione del signor Fiorelli, incui egli spera conservare sul luogo, il piú possibile, inumerosi oggetti interessanti che vengono giornalmenteportati alla luce nel corso delle piú estese ricerche intra-prese dall’avvento dell’attuale governo italiano. I corpigiacciono in due stanze del Museo disposti nel modo piúsimile possibile, nelle posizioni relative in cui furono rin-venuti; e io sono molto riconoscente alla gentilezza edalla cortesia del cavalier Fiorelli che mi ha fornito su que-sta scoperta ogni genere di spiegazioni e mi ha anche per-

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messo di consultare i diari in cui vengono annotati i pro-gressi e i risultati del lavoro di ogni giorno.

Sembra che all’inizio del febbraio scorso, rimuoven-do il terreno libero che copre ora i resti di Pompei, sisiano trovati frammenti di un sacchetto o telo di lino checonteneva alcune monete, ornamenti e due chiavi diferro. Proprio accanto ad esso un operaio fece acciden-talmente un buco con il piccone, ed esaminandolo ilsignor Fiorelli si accorse che esisteva una cavità di unacerta estensione. Da qualche tempo aveva concepito l’i-dea che probabilmente ci fossero nelle rovine della cittàdei corpi umani seppelliti, i cui resti erano forse andatiperduti, ma avevano lasciato un’impronta nel terrenosabbioso che li ricopriva. Egli aveva perciò fatto versa-re del gesso molto liquido nella cavità; continuò a ver-sarlo contemporaneamente soffiando con molta forzaaffinché il gesso liquido penetrasse al centro della cavità.

Non appena la cavità fu riempita di gesso, fece rimuo-vere accuratamente la terra tutto intorno. Le ceneri incui furono seppelliti i corpi devono essere cadute umideed essersi gradatamente indurite con il passar del tempo;via via che le parti deperibili del, corpo si decompone-vano e si ritiravano, si formava un vuoto tra i corpi e lacrosta di terra. Tale vuoto formava appunto la cavità incui fu versato il gesso. Sulle parti ossee, essendo picco-lo lo spazio lasciato vuoto, lo strato di gesso è relativa-mente sottile e molte parti dei cranio e delle estremitàrimangono scoperte.

Le ceneri penetrarono cosí a fondo e il calco è statopreso con tanta precisione che è distintamente visibileil tessuto degli indumenti intimi, calzoni e una specie disottoveste con maniche. Si deve notare che i corpi pre-sentano la regione addominale tumefatta come per azio-ne dell’acqua.

Nella prima stanza c’è il corpo di una donna dell’etàapparente di trent’anni o forse piú, che giace sul fiancodestro in una posizione contratta e un po’ contorta. La

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mano sinistra è alzata e al dito mignolo è infilato unanello molto corroso, pare d’argento; la testa è voltaall’indietro e i capelli, che sembra siano stati molto folti,sono ancora visibili. Le pieghe dell’abito sono bendistinte. Le ossa dei piedi, distesi, sono sporgenti; learticolazioni dei polsi e delle caviglie e le punte delle ditasono di forma delicatissima e la loro snellezza e la gran-de lunghezza e le migliori proporzioni dei pollici sem-brano indicare che questa donna fosse di condizionesociale piú elevata delle due descritte piú avanti.

Nella stanza successiva ci sono due scansie: sullaprima vi è la figura di un uomo supino; con una manostringe gli abiti che si è tirati sul petto lasciando scopertatutta la parte inferiore del corpo di belle proporzioni; unparticolare curioso, ancora ben visibile, è che i peli delpube sono rasati in forma semicircolare, come si puòosservare nelle statue, cosa che credo sia stata finorageneralmente considerata una pura convenzione sculto-rea. L’altra mano è distesa e strettamente serrata, lemembra sono in uno stato di rigidità quasi spasmodica.Questi particolari e l’espressione di dolore e di orroredistintamente visibile sul volto sembrerebbero dimo-strare che lo sventurato morí pienamente consapevoledell’orribile destino che lo aspettava, contro il qualelottò vanamente. Le ossa dei piedi sono visibili.

Sull’altra lastra, nella seconda stanza, giacciono duecorpi femminili, probabilmente della famiglia dell’uomo,secondo le supposizioni del signor Fiorelli.

Queste giacciono con le teste alle estremità oppostedella tavola, cosí che la parte inferiore di una figura èparallela all’altra; sono i corpi di una donna dell’etàapparente di trenta-qaranta anni e una fanciulla di quin-dici o sedici. La donna giace sul fianco sinistro con unbraccio leggermente alzato e l’altro disteso lungo il fian-co, apparentemente in una posizione meno contortadelle due figure già descritte, come se avesse soffertomeno.

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Anche la piú giovane giace sul fianco sinistro e latesta è quindi voltata in direzione opposta a quella dellapiú vecchia, la faccia è appoggiata sul braccio sinistroposto in modo da proteggere gli occhi, il braccio e lamano sono in atteggiamento come se tenessero un pannoo un fazzoletto sulla bocca, probabilmente per difendersiper quanto possibile dalla caduta delle ceneri. La lineadi questa figura è bellissima, specialmente le reni e lenatiche sono modellate in modo perfetto; anche bracciae mani sono assai delicate, sebbene queste due figuresembrino di rango inferiore alla prima. Il tessuto dell’a-bito è distintamente visibile. Ho dimenticato di direche, sulla piú vecchia, sono distintamente visibili trac-ce di calze di stoffa e i legacci di una specie di stivali.

La simmetria della schiena e delle reni di questa figu-ra, come della piú giovane già notate, sono notevolissi-me e, ritrovandosi in corpi conservati per caso, sem-brerebbero dimostrare in ultima analisi che gli antichiavevano realmente davanti a sé esemplari di quella per-fetta simmetria che ci hanno tramandato in quellemagnifiche statue che sono ancora la meraviglia delmondo, e non erano quindi un’accozzaglia di caratteri-stiche di diversi individui in una figura immaginaria.

Queste scoperte sono per molti versi degne dell’at-tenzione degli archeologi e hanno procurato moltoonore al signor Fiorelli, alla cui intelligenza critica sonodovute.

L’oratore fu ringraziato per questa comunicazione.

Proceedings of the Society of Antiquaries of London, 1863

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claude tarral La scoperta della Venere di Milo

Forse per un archeologo l’età piú feconda in cui vivere fu la

seconda metà del xix secolo. L’archeologia, considerata mezzo

di studio scientifico del passato, per mezzo dei prodotti, piutto-

sto che solo una copiosa fonte di pezzi da collezione, era anco-

ra ai primi passi ed offriva possibilità immense sia allo studio-

so sia allo scavatore. I loro reperti formano l’intelaiatura su cui

è stata in gran parte fondata la cronologia del mondo classico;

ma anche trascurando il valore di queste scoperte come docu-

menti storici, furono rinvenute statue che vanno annoverate tra

i piú grandi tesori dell’umanità come pure opere d’arte.

Sono passati esattamente quarantaquattro anni daquando la sorte ha permesso di riportare alla luce l’in-cantevole Venere di Milo, la perla del Louvre. Sfortu-natamente questo breve periodo ha visto la scomparsadi tutti gli attori principali di questo magnifico trionfosul tempo. Il giovane portabandiera Dumont d’Urville,il primo che fu colpito dalla bellezza di questa preziosastatua e la disegnò e la descrisse con tanto intendimen-to, ha incontrato una tragica morte in un incidente fer-roviario; Fauvel, l’ultimo sopravvissuto della spedizio-ne Choiseul, il noto studioso Quatremère de Quincy, ildotto Clarac, Forbin Janson, il marchese de Rivière,Emeric David non sono piú con noi. Marcellus, cheebbe il segnalato onore di ricevere la Venere e di tra-sportarla in Francia, è morto recentemente ancora nellaprima giovinezza. Cosí siamo costretti a trarre quasi

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tutte le nostre informazioni dai ricordi che essi hannolasciato alla posterità. Brest, agente consolare francesea Milo, che dimostrò una energia cosí lodevole nell’ac-quisto del capolavoro, è ancora vivo; ma supera gliottant’anni e temo che la sua memoria non sia piú trop-po precisa: egli crede che tanto i superiori quanto gli sto-rici lo abbiano trattato ingiustamente; per lui, la nostraaffascinante dea, ben lungi dall’essere un piacevole ricor-do, è fonte di grande amarezza; se comunque le suerimostranze fossero fondate, dovremmo aver pietà diquesto vecchio venerabile e sarebbe tempo di cancella-re le amarezze dei suoi ultimi anni con una sollecita ria-bilitazione. Beulé dichiara apertamente che la Franciadeve la Venere di Milo a Brest; questo tributo richiedeuna valutazione piú precisa. Ho davanti a me un lungorapporto inedito, scritto due anni fa da Brest, in cui egliprecisa che «comperò la Venere immortale per la Fran-cia verso la fine del 1819 da un contadino greco, Teo-doro Kendrotas, per la somma di seicento piastre piúdiciotto piastre per l’imballo, un totale di seicentodi-ciotto piastre, a quel tempo equivalente alla stessasomma in franchi».

Brest poi fece trasferire la statua in casa sua e ve latrattenne a dispetto delle minacce del principe Mou-rousi, in seguito il torso fu rubato e portato a bordo diuna nave in disuso; Brest, assistito dal luogotenenteBerranger e da dodici uomini dell’equipaggio della golet-ta Estafette, la recuperò con la forza. Fu ancora Brest chesi impegnò a difendere i cittadini piú in vista dell’isoladi Milo contro la vendetta di Mourousi e dovette paga-re la multa di seimila piastre imposta da quel despota:questa spesa venne rimborsata a Brest solo dieci annidopo, ma nel frattempo il cambio era diventato moltosfavorevole ed egli ci rimise cinquemila franchi; questasomma con altre spese non gli venne mai rimborsata.Brest dichiara ancora che in assenza del marchese diRivière, Beaurepaire, incaricato di affari a Costantino-

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poli, riuscí ad ingannarlo facendosi consegnare tutti idocumenti e le ricevute che comprovavano i suoi dirit-ti. Queste sono accuse veramente gravi contro il morto;dobbiamo accettarle solo con riserva, perché può darsiche la memoria conduca Brest suo malgrado lontano dalvero; ci sono infatti alcuni motivi per dubitare di que-sto racconto. In primo luogo Brest non ha mai chiestodelle pubbliche scuse per le offese che afferma di averricevuto. Egli sostiene di aver comprato la Venere versola fine del 1819; non appena fu staccata e tolta dalla suanicchia l’avrebbe portata in casa propria, ma quest’ulti-ma affermazione è contraddetta da Dumont d’Urville.Almeno quattro mesi piú tardi (19 aprile 1820) vide laparte superiore della Venere nella capanna di un pasto-re greco e trovò la parte inferiore ancora nella sua nic-chia. Brest dice inoltre che non si trovarono braccia,mentre ancora il d’Urville vide due braccia e una manoche teneva una mela che vennero consegnate a Marcel-lus con la Venere e altri frammenti. Brest ricorda solodue figure di Ermete trovate con la Venere, mentre cen’erano tre. Qui vi sono prove sufficienti che Brest si èsbagliato in qualche particolare reale; ma può avereragione in altri. È compito della Cancelleria di Franciaesaminare le sue richieste e, se necessario, concedergliuna onorevole riparazione perché sarebbe vergognosoper la Francia se un’ingratitudine cosí macroscopicamacchiasse il possesso di un monumento di gloriaimmortale.

Ecco un racconto abbreviato della scoperta dellaVenere; è una vera sfortuna che le circostanze della sco-perta siano cosí poco documentate, perché numerosiparticolari archeologicamente importanti sono moltoconfusi. La prima descrizione del gioiello del Louvre èquella del giovane d’Urville, e resta finora la migliore;sebbene egli non sia un archeologo la sua istintiva osser-vazione è un modello per gli studiosi di antichità. Il suonotevole rapporto è poco noto; esso merita seri studi e

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poiché conferma la mia congettura, ne citerò i passi piúimportanti.

«Il 19 aprile 1820, – dice D’Urville (“Annales Mari-times”, Bajot 1821, p. 150), – andai a vedere alcuniframmenti classici trovati a Milo poco prima del nostroarrivo. Circa tre settimane prima che noi sbarcassimonell’isola, un contadino greco, scavando nel suo campo,che si trova nel perimetro dell’antica Milo, trovò alcu-ni frammenti di pietra intonacata; poiché questi blocchisono usati dalla popolazione locale per costruire le caseed hanno un certo valore, fu indotto a scavare piúprofondamente e cosí arrivò a scoprire una specie di nic-chia in cui trovò una statua di marmo, due figure diErmete e alcuni altri frammenti di marmo.

«La statua era in due pezzi, uniti per mezzo di duerobusti perni di ferro. Il contadino, temendo di perde-re il frutto delle sue fatiche, aveva portato in un nascon-diglio la parte superiore della statua e le due figure diErmete; la parte inferiore era rimasta nella nicchia. Esa-minai ogni cosa accuratamente e i vari pezzi mi sem-brarono di ottimo stile, per quanto mi permetteva di giu-dicare la mia scarsa educazione artistica.

«Misurai separatamente le due parti della statua etrovai che in totale la statua misurava circa due metri dialtezza. Era la rappresentazione di una donna nuda, lamano sinistra sollevata teneva una mela e la destra reg-geva un mantello a pieghe intricate che ricadevano negli-gentemente dalle reni ai piedi; ma entrambe le manisono danneggiate ed attualmente staccate dal corpo.L’unico piede conservatoci è nudo; le orecchie sonoperforate e probabilmente erano ornate di orecchini.Tutti questi attributi sembrerebbero sufficienti a faridentificare la Venere del giudizio di Paride, ma, allora,dove sono Giunone, Minerva, e il bel pastore? È certoche contemporaneamente furono trovati anche un piedecalzato di stivaletto e una terza mano; comunque, ilnome greco dell’isola, Melos, è molto simile alla parola

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melon che significa mela. Non è probabile che l’attributoprincipale della statua indichi questo rapporto verbale?

«Le due figure di Ermete che erano insieme nella nic-chia non sono ben caratterizzate; una ha testa di donnao di fanciullo e l’altra la faccia di un vecchio con unalunga barba. All’entrata della nicchia c’era una lastra dimarmo lunga circa un metro e quaranta e larga da quin-dici a venti centimetri, che portava un’iscrizione. Diquesta solo la prima metà è sopravvissuta alle intempe-rie: il resto è completamente cancellato. Questa perdi-ta è inestimabile; forse avremmo potuto ricavare dallaiscrizione qualche dato sulla storia di questa isola che,da alcuni indizi, un tempo fu molto prospera, ma la cuisorte dopo l’invasione ateniese, cioè per piú di ventiduesecoli, ci è completamente sconosciuta. Avremmo alme-no saputo in quale occasione e da chi queste statue furo-no dedicate. Ho copiato l’iscrizione. Anche il piedistal-lo di una delle figure di Ermete doveva avere un’iscri-zione, ma le sue lettere erano troppo rovinate per per-mettermi di decifrarle. Al momento del nostro viaggioa Costantinopoli l’ambasciatore mi interrogò su questastatua; io diedi la mia opinione e mandai a Marcellus unacopia della relazione che avete appena letto. Al mioritorno, de Rivière mi informò di aver acquistato la sta-tua per il Museo. Io ho poi saputo che Marcellus rag-giunse Milo proprio nel momento in cui la statua stavaaspettando l’imbarco per un’altra destinazione; ma,dopo varie difficoltà, questo amico delle arti finalmen-te riuscí a salvare per la Francia questa preziosa reliquiadell’antichità».

Cosí il giovane naturalista d’Urville vide personal-mente la parte inferiore della Venere nella sua nicchia:egli afferma che la parte superiore era unita all’inferio-re da due robusti perni di ferro; questo sembrerebbeconfermare la tesi che il contadino greco l’abbia porta-ta via e che la Venere fosse intera e in posizione verti-cale come descrive Brest. Altri resoconti però dicono che

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la Venere venne trovata in due pezzi separati; i segni delbadile, chiaramente visibili sul torso, sono a favore diquesta ultima versione. D’Urville è assai esplicito perquanto riguarda le due mani, di cui la sinistra tiene lamela e la destra il drappeggio: si è sbagliato nell’indica-re un Ermete, il nostro piccolo Mercurio, che egli hascambiato per una donna o un ragazzo, particolare chedimostra la sua mancanza di cultura classica; non riuscía decifrare l’iscrizione sulla base, quindi aveva scarsafamiliarità con gli studi di epigrafia. La copia da luifatta dell’iscrizione sulla lastra di marmo sopra la nicchiasi è dimostrata molto preziosa come mostrerò in segui-to. Io credo che Dumont d’Urville abbia avuto unaparte importantissima nell’acquisto della Venere; nonavendo Brest voce in capitolo nel mondo delle arti, lasua opinione non poteva influenzare l’ambasciatore aCostantinopoli, ma l’illuminato parere di d’Urville fu unimportante contributo a salvare per la Francia questomonumento unico.

Marcellus ci ha lasciato, riguardo agli scavi di Milo,alcune note che ci sembrano esatte, sebbene contraddi-cano Brest.

«Verso la fine di febbraio del 1820 un greco di nomeYorgos stava scavando nel suo campo quando trovò unaspecie di nicchia oblunga ricavata nella roccia; si diedea ripulire questo piccolo edificio e anche uno strettorecesso di un metro e mezzo o due sotto il livello delsuolo. Egli trovò qui in una confusione estrema la partesuperiore della statua che portò subito alla sua capanna,tre figure di Ermete, alcune basi di statue e altri fram-menti marmorei. Una quindicina di giorni piú tardi,continuando le sue ricerche, trovò la parte inferioredella stessa statua e alcune sculture classiche frammen-tarie». Ecco ora la descrizione della Venere fatta a vistada Marcellus: «La statua era composta di due blocchiuniti da un perno di ferro che non è stato recuperato;le pieghe del drappeggio sul fianco sinistro nascondeva-

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no il punto di giuntura dei due pezzi. L’intera massa dicapelli (dobbiamo intendere con questa espressione sololo chignon) era staccata, ma molto ben conservata e distile elegante. Sul ponte della galetta Estafette esaminaiuna dopo l’altra le tre figure di Ermete e i frammenticlassici, che mi erano tutti stati consegnati». In unanota Marcellus aggiunge: «Su una lastra di marmo lungaun metro e venti e larga venti centimetri c’erano alcu-ne parole che non sembra avessero alcun rapporto conla statua; questa iscrizione era parzialmente cancellatae fu lasciata a Milo». Quale straordinaria follia! Eppu-re l’intelligente d’Urville l’aveva giudicata molto impor-tante e ne aveva deplorato lo stato di degradazione.Marcellus fa questa osservazione:«Sono già apparsi volu-mi e volumi sul valore della Venere. Tra queste operenotiamo le pagine di Quatremère de Quincy, Clarac eSaint-Victor, piene di gusto e di dottrina. Alcuni dise-gni di pose restaurate secondo congetture sono stati sot-toposti al re: c’è stato anche un tentativo di affibbiarealla statua due braccia e una mano con una mela che ioavevo riportate; ma era facile vedere che queste bracciarozzamente sbozzate potevano solo appartenere allaVenere in un primo rozzo tentativo di restauro, attri-buito ai cristiani dell’viii secolo d. C. È stato dimostra-to (da chi?) che la statua appesantita di abiti, collaned’oro e orecchini aveva rappresentato la Panagia (SantaVergine) nella piccola chiesa greca di cui ho visto lerovine a Milo». Queste sono assurdità pure e semplici,se permettete; evidentemente la diplomazia non confe-risce a un uomo le prerogative dell’archeologo dilettan-te. Ho citato queste parole per mostrare che Marcellusportò realmente in Francia due braccia frammentariecon una mano che teneva un pomo, esattamente le brac-cia e la mano descritte da d’Urville. Come poteva Cla-rac ignorare questo fatto e scrivere quanto segue:«Si cre-deva che il braccio sinistro fosse irrimediabilmentedistrutto, ma, visitando Milo per appurare personal-

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mente tutto ciò che riguardava la statua, il marchese deRivière intraprese nuovi scavi e furono fortunatamentescoperti un braccio e una mano. Dalla qualità del marmoe dalla fattura si suppose che appartenessero alla nostraVenere e vediamo dai fori per i perni e dai segni di lace-ramento che il braccio vi era stato fissato». Sono que-sti il braccio sinistro e la mano cui fa riferimento Mar-cellus? Studiando Marcellus ed esaminando la sculturadella Venere là dove è modellato il frammento del brac-cio, si è tentati di accusare Clarac di confusione; sebbeneabbia letto nel rapporto inedito di Brest che egli ebbeinfatti da de Rivière l’ordine di fare nuovi scavi a Miloe che furono scoperte due braccia che Brest pensò appar-tenessero alla Venere. «Il braccio destro era in tre pezzi,le dita della mano stringevano una mela, mentre la sini-stra era in due pezzi, con tre dita piegate e il pollice el’indice uniti come se tenessero qualcosa». Brest affer-ma di aver mandato questi frammenti a Tolone, all’in-dirizzo di Bedfort.

Nel suo rapporto inedito Brest afferma che «la Vene-re non aveva braccia, il crollo della parte superiore dellanicchia deve averle spezzate e deve anche aver lieve-mente danneggiato il naso della statua».

Fra questi storici vi sono numerose divergenze; Brestsostiene che la Venere non aveva braccia, ma d’Urvillele vide e dice che la mano sinistra stringeva una mela.Marcellus ricevette le mani frammentarie da Brest e leportò in Francia. Clarac parla di una mano sinistra conla mela, Brest di una mano destra, ma, ad essere onesti,Brest può ben essersi sbagliato su questo punto; altri-menti vorrebbe dire che a Milo sono stati riportati allaluce due frammenti di Venere con la mela. Oggi il Lou-vre ha solo un pezzo del braccio e la mano sinistra; neho fatto un calco e non vi sono dubbi che appartengo-no alla nostra statua; credo che questi due pezzi sianogli stessi visti e descritti da d’Urville e portati in Fran-cia da Marcellus. Clarac menziona un solo braccio ricu-

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perato nel secondo scavo a Milo; Brest dice di avernetrovati due. Monsieur de Sartiges, ambasciatore aRoma, visitò Milo alcuni anni fa e mi assicura che Brestgli disse di aver mandato in Francia due braccia. Mon-sieur Gobineau, noto archeologo, oltre che abile diplo-matico, incontrò Brest a Costantinopoli al ritorno dauna missione in Persia e Brest gli ripeté gli stessi racconticirca le due braccia. Ciò che è certo è che alcuni fram-menti della Venere, frammenti di un braccio destro e diun braccio sinistro e una mano sinistra con una mela, trefigure di Ermete, un piedistallo con un’iscrizione grecae parte della base della statua passarono la soglia delLouvre; qui dobbiamo ammettere un fatto deplorevolee inesplicabile: oggi il Museo non possiede piú né lamano destra, né il frammento della base, né il piedistallodell’Ermete Mercurio con la sua preziosa iscrizionegreca. Monsieur de Longpérier ha fatto esaurienti ricer-che per recuperarle, scavando anche i pavimenti dellecantine, ma invano: questi frammenti sono perduti persempre. Nelle arti, come in politica, pregiudizi, vanità,orgoglio accademico e ignoranza rappresentano un ruolomolto importante. I Greci e i Romani avevano ragionedi condannare i custodi dei tesori d’arte a risponderedelle mancanze con la vita. Sotto il regno di Luigi Filip-po, un uomo molto influente al Louvre suggerí al re ditrarre dagli antichi monumenti egizi dei magnifici pianidi tavolo; l’arte, diceva quel dotto architetto, nonavrebbe perso niente e l’arredo della corte avrebbemolto guadagnato. Ho sentito io stesso un pittore allamoda e abile oratore dichiarare che se egli fosse statodirettore del Louvre avrebbe gettato a calci fuori dallaporta tutti quei brutti egiziani. Come possiamo spiega-re la misteriosa perdita di questi frammenti della Vene-re? Si affermava che essi non potevano aver fatto partedella statua originale, che erano restauri e perciò sem-plicemente pezzi di marmo senza importanza. Clarac,per sua stessa ammissione, considerava importante l’i-

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scrizione, ma ciò contraddiceva la sua teoria che la Vene-re fosse opera di Prassitele. Tutto ciò tendeva a espor-re i frammenti alla distruzione; la loro perdita sarà unamacchia eterna sulle autorità del Louvre, poiché la peg-giore mutilazione della Venere avvenne proprio fra lemura di questo santuario delle arti.

Quarantatre anni fa in questo ambiente, il vostrodistinto segretario permanente Quatremère di Quincy,venne a pagare un brillante tributo all’adorabile Vene-re di Milo; la sua dotta ed affascinante oratoria colpíprofondamente gli uditori, perché allora come adesso laVenere era il centro della conversazione in ogni salotto,la preoccupazione di ogni artista. La sua orribile muti-lazione eccitava l’immaginazione degli antiquari, ci sichiedeva quale fosse, prima del sacrilegio, la posa dellasuperba dea. Ognuno aveva mormorato il suo suggeri-mento. E chi meglio dell’autore di Jupiter Olympienavrebbe potuto fare luce su un problema cosí intricato?Quatremère spiegò con la sua solita lucida erudizioneche la nobile figura un tempo rappresentava Venere vit-toriosa, in gruppo o in conversazione con Paride oMarte, che era opera di Prassitele o della sua scuola. Manemmeno la grande autorità di Quatremère riuscí a con-vincere il mondo; Clarac era contrario all’idea di ungruppo proposto da Quatremère; egli pensava che lastatua sorgesse sola, ma collegata con altre figure cheavrebbero potuto essere Paride e le due dee alle qualimostrava con superbo disdegno la mela, premio della suavittoria. L’ipotesi di Clarac ebbe vita breve. Il dottoMillingen scoprí un medaglione corinzio coniato sottoSettimio Severo; su di esso, una figura femminile coper-ta a metà da un drappeggio tiene in mano uno scudo incui sembra ammiri la propria figura riflessa. Guidato daquesto, Millingen restaurò la Venere di Capua, che èmolto simile alla nostra, ma dimenticò che la base dellastatua di Capua un tempo portava i due piedini di Cupi-do; il povero Clarac si lasciò tuttavia sedurre da Millin-

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gen: la Venere di Milo doveva anch’essa essere nell’at-to di ammirarsi in uno scudo; addio mela, addio orgo-glio, addio disprezzo della dea vittoriosa! Emeric Davidaffermò che la Venere non aveva mai fatto parte di ungruppo e la considerò una statua isolata: «Essa non rap-presenta Venere, ma piuttosto la ninfa Milo, cioè lapersonificazione dell’isola di Milo». Monsieur Paillot deMontabert dice che è piú simile a una Musa. Nonpotrebbe essere piuttosto la cortigiana e musicista Gli-cera di Argo, una statua eseguita da quell’Erodoto diOlinto che lavorò con Prassitele alla statua di Frine?Non potremmo naturalmente immaginare che essa regganella sinistra la lira mentre la destra è pronta a suona-re? Chi oserebbe rispondere a queste domande? Mon-sieur di Montabert dice solo che la nostra preziosa Vene-re «è non piú di una copia che Erodoto di Olinto avreb-be ripudiato». Infine altri studiosi del calibro di Mon-tabert, immaginano la Venere in atto di tirare con l’ar-co, di pettinarsi i capelli, di ammirarsi in uno specchio,e come una Musa che scrive la storia su una grande tavo-la che avrebbe automaticamente nascosto il suo magni-fico busto. In conclusione il nostro famoso storico nazio-nale, Thiers, pensa che la Venere sia una vittoria chesuona una tromba; mi ha persino mostrato il punto dovela tromba era appoggiata al ginocchio; cosí anche que-sto grande conoscitore delle arti commise il suo piccolopeccatuccio... [Qui il manoscritto si interrompe].

«Revue Archéologique », serie IV, vol. VII, 1906

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L’auriga di Delfo

Martedí 28 aprile 1896 era evidentemente un giornosegnato a lettere rosse negli annali del grande scavo diDelfo. Infatti quel giorno la squadra che lavorava fra lerovine della casa di Kounoupis aveva appena spezzatoun condotto d’acqua rozzamente costruito in argillacotta, quando vi apparve la parte inferiore di una sta-tua di bronzo (inv. 3484) alta metri uno e ventotto conuna tunica a pieghe che cadono «con la regolarità di unacolonna ionica scanalata». Accanto si trovò la zampaposteriore di un cavallo, anch’esso di bronzo, in gran-dezza naturale (inv. 3485). Contemporaneamente fuestratto un blocco con un’iscrizione che era una dedicain versi (inv. 3517). Una fotografia scattata proprio nelmomento della scoperta mostra la statua e l’iscrizioneancora mezza sepolta. Due altri frammenti di bronzocompletavano il reperto: «un timone con attaccate leredini» (inv. 3542) e l’estremità curva di un giogo,anch’esso con «redini» attaccate (inv. 3543).

La sera di venerdí 1° maggio l’esplorazione della casadi Kounoupis portò alla luce «la parte superiore dellastatua i cui piedi erano stati scoperti martedí nello stes-so punto » (inv. 3520). Homolle al primo sguardo la datòesattamente («Inizio del v secolo »). Vennero estrattialtri frammenti di bronzo: l’avambraccio destro (inv.3540) con frammenti di redini ancora in mano, un’altrazampa posteriore (inv. 3538) e una coda di cavallo (inv.3541).

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Si continuarono a fare scoperte nello stesso puntoancora per alcuni giorni: giovedí 7 maggio, una zampaanteriore equina (inv. 3597) e l’altra estremità del giogo(inv. 3598), infine sabato 9 maggio, una sella triangola-re (inv. 3618) concluse la serie dei reperti che si può sup-porre appartengano allo stesso gruppo.

Tali furono le circostanze in cui l’auriga venne allaluce. Esse sono riferite secondo il Giornale degli scavi,conservato negli archivi della Scuola Francese. Questodocumento, va sottolineato, contiene le uniche notiziesicure. Scritto sul posto, giorno per giorno, da uno deimembri della Scuola che era sorvegliante dello scavo, èl’unica fonte per dettagli attendibili. Esso concorda coni posteriori rapporti degli scavatori Homolle, Bourguet,e Convert. Di fronte a queste testimonianze, confermatedal testo del Giornale, che era contemporaneo alle sco-perte, i ricordi di un operaio ignorante, ricercato alcu-ni anni dopo da uno studioso straniero che ignorava ilracconto autentico, non meritano fiducia.

Homolle si accorse subito dell’eccezionalità delreperto ed avvertí con due telegrammi, uno del 9 e unodell’11 maggio, l’Académie des Inscriptions. Il 12 mag-gio il direttore della scuola inviò a Parigi una lettera condue fotografie: egli trascrisse l’iscrizione identificandolacome la dedica di Polizalos il Deinomenide e accennòbrevemente ai pregi della statua. Il 5 giugno presentòall’Accademia una comunicazione in cui troviamo perla prima volta un catalogo dettagliato dei frammenti esi-stenti del gruppo, una descrizione dell’Auriga, noteprecise sulla esecuzione, un’opinione circa la datazione(inizio del secondo quarto del v secolo) e lo stile. Final-mente già l’anno seguente pubblicò in Monuments etmémoires, Fondation E. Piot, IV, 1897, pp. 169-208,tavv. 15-16, un articolo intitolato L’Aurige de Delphesche costituí la prima pubblicazione scientifica sulla sta-tua. Cosí questa opera, che rispondeva a tutti i requi-siti di uno studio accurato del periodo, offriva la testi-

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monianza di un esame approfondito appena un annodopo la scoperta.

Non si sa se ammirare di piú l’esemplare diligenzadell’autore o l’esattezza del suo giudizio. Se certe partidella sua analisi, su punti di minore importanza, sonoora scontate, tutta la parte essenziale resta valida. Quasitutti i commentatori successivi si sono fuorviati di tantodi quanto si sono allontanati da Homolle. Indubbia-mente l’archeologia moderna è piú pedante di quella dialcuni anni fa e richiede descrizioni assai dettagliate euna abbondanza di calcoli e misure. Se questo metodomoderno può arrivare in certi casi a inutili ostentazio-ni, esso risponde a una reale necessità che è il rispettoper il dato di fatto. Cosí diviene necessario, dopo cin-quanta anni di commenti e di controversie, ripubblica-re in forma piú dettagliata la magistrale pubblicazionedel 1897. L’opera di R. Hampe, nei Denkmäler diBrunn-Bruckmenn, opera in cui compaiono accanto adosservazioni di notevole valore degli errori madornali,rende nuovamente attuale questa pubblicazione. Mal’occhio che esamina è nulla senza lo spirito che inter-preta; Homolle al primo sguardo vide attentamente egiudicò esattamente. Questa opera non può cominciaresenza un aperto tributo alla sua persona...

L’auriga è un efebo di struttura atletica ma slancia-ta; le ampie spalle denotano forza, ma la delicatezzadelle estremità, mani e piedi, suggerisce un’idea didistinzione. L’impressione generale di snellezza è accen-tuata dall’abito, che è la lunga tunica degli aurighi, ilbianco xystis tradizionalmente indossato per le corse.Esso scende quasi sino alle caviglie, con pieghe paralle-le che partono dalla cintura posta molto in alto, sopralo stomaco. Questa posizione della cintura, molto piúalta della vita, sottolinea la snellezza della figura. Soprala cintura la tunica presenta un movimento blusante chesi nota soprattutto sui lati. L’abito ha una scollatura apunta sul petto e sul dorso e termina, sulle spalle e sulle

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braccia, con una cucitura che riunisce un gruppo di cre-spe. Il gioco combinato di questa cucitura e di una fasciache passa sotto le ascelle forma delle maniche lunghesino al gomito.

L’auriga è in posizione eretta, ma non rigida. I piedinudi, l’uno vicinissimo all’altro, sono posati saldamen-te, un po’ rivolti verso l’esterno, con le dita leggermen-te contratte, per dare al corpo adeguato appoggio sulfondo rigido del carro. Grazie a una rotazione dell’assedel corpo che diventa progressivamente piú pronuncia-ta, anche, spalle, testa e la direzione degli occhi si vol-gono progressivamente verso destra; questo movimentocontrollato anima l’intera figura. Le braccia sono tese areggere le redini, con i gomiti leggermente in avanti allivello dell’avambraccio: le spalle sono agili e arroton-date, tese per il movimento del carro. Il braccio destro,il solo conservato al di sotto della manica, è finementemodellato, con i lunghi muscoli indicati con grande pre-cisione. Le lunghe dita affusolate, le unghie tagliaterotonde con un utensile da incisore, stringevano unoggetto cilindrico oltre alle redini; qui possiamo imma-ginare ci fosse un pungolo (kûntron). Le quattro rediniche guidavano i due cavalli di destra dovevano esserestrette dal pollice contro il manico del pungolo, passan-do fra questo e il palmo della mano per poi ricadere ver-ticalmente all’altezza della vita. Tre di queste redinisono state trovate ancora a posto. La mano sinistradoveva avere una posizione simile, tenendo le quattroredini dei due cavalli di sinistra della quadriga.

La testa richiama un’attenzione particolare. Posta suun lungo e possente collo e modellata in un ovale allun-gato con il punto piú largo sopra le tempie. Le orecchie,piccole e prominenti, incorniciate da ricci di capelli inrilievo, sono l’unica cesura in questo rigoroso contor-no. I capelli sono aderenti al cranio in corti ciuffi, inci-si piú che modellati, tranne che sul collo e intorno alleorecchie dove sfuggono alcuni riccioli. Poche ciocche

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sciolte formano due basette sulle guance. Una largafascia attraversa la fronte e trattiene i capelli sulle tem-pie; essa è fissata alla meglio sul collo, dove le dueestremità sono semplicemente incrociate senza nodo.Questa fascia era decorata con intarsi che in parte sonoandati perduti: tra due fasce piú scure un semplicemeandro, ogni curva del quale forma la cornice di unacroce greca. Gli intarsi erano di rame (fasce orizzonta-li) e di argento (meandri e croce greca); i bordi eranoforse rivestiti di una leggera lamina di rame. I linea-menti, malgrado l’evidente stilizzazione, sono straor-dinariamente naturali. Il pronunciato mento arroton-dato scende senza cesure nella curva delle mascelle. Leguance sono piene, ma il loro squisito modellato lasciavedere gli zigomi. La bocca, dalle labbra segnate, èsemiaperta, e sembra stia respirando. Le labbra sonocontornate da un sottile rilievo e si vede una piccolaapertura ad ogni angolo. Il naso, abbastanza strettocon il setto piatto e ben marcato, sembrerebbe serrato,se le narici, messe in rilievo da una linea incisa, non fos-sero dilatate come per inspirare. Le sopracciglia, in bas-sorilievo, proseguono la linea del naso dopo un bruscomutamento di direzione alla sua radice, poi si allunga-no e svaniscono verso le tempie. Infine, gli occhi, lun-ghi e a mandorla, sono aperti in modo diseguale, il sini-stro un po’ meno del destro. Fra le ciglia, realizzate confili di rame inseriti nelle palpebre, gli occhi hanno con-servato i loro intarsi policromi. Il bulbo è ottenuto conpasta bianca, l’iride, di un marrone molto chiaro, è cir-condata da un cerchio nero che forma a sua volta unbordo piú stretto per il disco nero della pupilla. L’ar-monia di queste pietre dure è cosí perfetta che la lorocombinazione sembra un tutto unico; la loro superficielevigata assorbe i riflessi e dà all’espressione una stra-na intensità... Eretto per celebrare una vittoria ai gio-chi, il gruppo dedicato di Polizelo doveva essere primadi tutto fedele, ma di quella piú alta e sublime fedeltà

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caratteristica di tutte le offerte arcaiche. Non deve rap-presentare l’auriga vincitore e il suo carro, piuttosto siidentifica con il donatore, è l’auriga per antonomasia,per sempre. In piú nella dedica può parlare in primapersona con una formula tradizionale che non è privadi significato neppure oggi: poluxal’j m'¶nûqcen.Questa vitale verità di equivalenza, in una testimo-nianza destinata a sfidare i secoli, imponeva la ripro-duzione scrupolosa degli aspetti caratteristici, degli ele-menti funzionali, senza i quali lo spettatore non avreb-be avuto fiducia nell’immagine. Da ciò deriva l’accura-ta fedeltà nei dettagli anatomici dei cavalli e nella ese-cuzione della bardatura e del cocchio. Da ciò nascequell’impressione di presenza che la statua dà ancoroggi.

In quel periodo la dedica di un’offerta era prima ditutto un atto di pietà e la soddisfazione della vanitàumana c’entrava ancora solo fino a un certo punto. L’au-riga è il contemporaneo di Eschilo, Pindaro e Bacchili-de. Appartiene ad un’epoca di fede sincera, e di questosentimento è improntato. Nel suo portamento lieve-mente rigido, nel suo atteggiamento di severa riserva-tezza vi è qualcosa di religioso, l’evocazione dell’auste-ra nobiltà di un grande corale. Si potrebbe dire che staascoltando un inno. Ha appena tagliato il traguardodella vittoria; è un momento solenne che richiede medi-tazione e devozione. Con la sua abile, esperta mano –ªusàdifron ceéra paexàppoio fwt’j (Pindaro, Istmi-che, II, 21) ha saputo trattenere o indirizzare a buon finel’ardore dei suoi cavalli e cosí guadagnare il favore diFebo. Egli sta lí, come un buon servitore di Dio e delsuo principe. La statua è un’espressione dell’uomo,pieno di forza e di modestia, fiero del suo successo, maalieno da ogni superbia.

Lo stile severo in arte, piú di qualsiasi altro era adat-to a esprimere questo atteggiamento. Si addiceva egual-mente ai guerrieri ateniesi di Maratona e di Salamina e

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agli aristocratici signori delle città doriche, ancora tron-fi della grandezza del loro destino. Nella statua di bron-zo questa arte trova la sua suprema espressione. La forzadell’artista qui domina con il ferro e con il fuoco unamateria difficile e la sottomette al suo volere. Lo scul-tore, erede del veloce, continuo avanzare delle genera-zioni, considera ancora un punto d’onore gareggiare conla natura. Ma il suo cervello, che non tiene conto di ciò,subordina la creazione ad un equilibrio artistico. L’oc-chio, attratto da sottili indicazioni, può scoprire qua elà nella forma immobile il segno di un movimento. Cosíl’opera acquista una specie di vibrante immobilità cheaffascina.

Con ammirevole scrupolo, come un artigiano chedesidera perfetta ogni cosa, lo scultore si è accintopazientemente al suo compito; può a buon diritto affer-mare di averlo assolto. In esso non c’è sensualità terre-na, non esaltazione del corpo umano come collezionenaturale di forme plastiche. La preoccupazione realisti-ca che qui si rivela non ha radici nella valutazione dellabellezza fisica del mondo. Tutto è assoggettato al con-cetto astratto che informa l’intera figura fino alla puntadelle dita. È come un monumento di cui l’architetto hagià calcolato ogni parte. Anche quando riproduce unmodello con scrupolosa esattezza, si è sicuri che tutto èstato vagliato e riordinato nella sua mente.

È difficile concepire fuori di Atene uno stile cosíastratto. Qui soltanto si sviluppò nel periodo arcaicoun’idea nuova della scultura, in cui l’artista studia laforma viva come un geometra che la risolve in formule,come un naturalista che osserva per capire, come un tec-nico che vede ogni difficoltà come una sfida. Cosí l’ar-te attica possiede le qualità della purezza, della consa-pevolezza, della chiarezza. Questa arte lucida e devotaimpronta le sue migliori sculture di un intellettualismoun po’ freddo che le contraddistingue quasi come unmarchio: cosí a Delfo stessa le metope del tesoro degli

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ateniesi. L’auriga è dello stesso spirito. Poiché esiste selo si capisce, occorre esaminarlo, osservarlo e ricomin-ciare da capo. Esso non è fatto per la contemplazionepassiva; il freddo sguardo dei suoi occhi di pietra e dismalto lo proibisce.

Fouilles de Delphes, vol. IV, parte V, 1890

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ernst curtius La scoperta dell’Hermes di Prassitele

Ernst Curtius (1814-96) nacque a Lubecca in Germania. Viag-

giò molto in Grecia e raggiunse grande fama sia come storico

che come archeologo, accettando nel 1844 l’incarico di pro-

fessore straordinario all’Università di Berlino e di tutore del

principe Federico Guglielmo. Ma è noto soprattutto per gli

scavi ad Olimpia, dove concluse nel 1874 un accordo che assi-

curava diritti esclusivi di scavare nella località agli archeologi

tedeschi. I suoi diligenti e dotti scavi ad Olimpia, specialmen-

te quelli del tempio di Zeus e dell’Heraion, riportarono alla

luce motti superbi capolavori della scultura e dell’architettura

greca, fra i quali, giustamente, il piú famoso è l’Hermes mar-

moreo, che molti considerano una statua originale del iv seco-

lo, opera di Prassitele.

Un telegramma dell’8 maggio comunicava notizieimportantissime. Eccone il testo: «Ottanta metri a norddell’opistodomo del tempio sono stati scoperti notevoliresti dell’Heraion, largo quasi venti metri; abbiamoquindi riportato alla luce uno dei piú antichi e impor-tanti monumenti nell’“altis”, che secondo Pausaniaaveva proprio la lunghezza di venti metri».

I rapporti dell’8 maggio danno ulteriori informazio-ni sul tempio di Hera, un tempio dorico con peristilio escalinata. Alcuni tamburi di colonne con venti scanala-ture, come pure i resti della parete della cella alta due otre metri ancora in situ: i capitelli mostrano forme anti-che, la larghezza del gradino piú basso è di metri dician-

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nove e novantacinque. Non si sa come si possa metterein rapporto questa misura con il brano incompleto diPausania (V, 16, 1). Comunque l’identità dell’edificio èstata provata dal rinvenimento di una statua di marmopario che Pausania colloca nel tempio di Hera. Si trat-ta di un giovane Hermes che solleva tra le braccia Dio-niso, opera di Prassitele. La statua fu scoperta nellacella, appoggiata sulla faccia su cui era caduta, proprioaccanto alla figura femminile in abito romano menzio-nata nel Rapporto diciassette. Dell’Hermes sono anda-ti perduti il braccio e le gambe al di sotto del ginocchio,e del bambino la metà superiore. La testa di Hermes fuinvece trovata intatta.

Egli è in piedi, appoggiato negligentemente a un tron-co d’albero coperto con il mantello che si è tolto; lamano destra alzata sembra che in origine tenesse ungrappolo d’uva. L’altezza della figura è ora di metri unoe ottanta. La composizione ha strettissimi punti di con-tatto con il gruppo di Irene e Pluto a Monaco. Unaparte dell’abito che scende in magnifiche pieghe è rica-vata in un blocco di marmo separato; la superficie del-l’insieme è conservata magnificamente. I tratti menoimportanti come i capelli e il dorso sono trascurati. Visono tracce di pittura rossa sulle labbra e sui capelli. Inseguito a questa importante scoperta si è fatto di tuttoper scavare il piú possibile del tempio di Hera primadella fine di questa stagione.

«Archaeologische Zeitung », vol. XXXV, parte I, 1877

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paul mackendrick La ricostruzione della Stoà

Paul Mackendrick è americano ed ha compiuto gli studi alla

Harvard University e al Balliol College di Oxford. Fu prima

professore di lettere classiche all’Università del Wisconsin ed

ora è titolare della cattedra di studi classici alla Accademia

americana di Roma.

Gli Attalidi non si accontentavano di abbellire sol-tanto le loro città. Attalo II (158-138) era stato educatoad Atene e per gratitudine fondò sul lato orientale del-l’Agorà ateniese la stoà che porta il suo nome. Il fratellodi Attalo, Eumene II (197-159) aveva già dato l’esempiofondando una stoà sul fianco occidentale dell’Acropolid’Atene, fra il teatro di Dioniso e il luogo in cui piú tardidoveva sorgere l’odeon di Erode Attico. Tutti e due ser-vivano a scopi pratici: passeggiata, centro di acquisti,luogo di ritrovo; la processione panatenaica attraversavala stoà di Attalo nel suo cammino verso il Partenone. LaMedia Stoà, ad angolo retto con la Stoà di Attalo, mezzapasseggiata, mezzo mercato come la Stoà di Filippo V aDelo, era probabilmente il dono del re Ariarate V diCappadocia (162-130), cognato di Attalo, e suo compa-gno di studi in Atene. Quella che gli scavatori chiamanoStoà meridionale II appartiene allo stesso periodo. Ser-viva, come la Media Stoà a quella orientale, a staccareuna area piú piccola dalla piazza principale. Non eraun’agorà commerciale: gli scavatori non vi trovarono nénegozi, né baracche, né banchi, né pesi, né misure.

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La Stoà di Attalo è stata completamente ricostruitaed ora ospita il Museo dell’Agorà, depositi e uffici. Unadescrizione degli scavi dell’Agorà nel loro complesso èstata rimandata al capitolo sul mondo greco sotto ildominio romano, poiché l’Agorà raggiunse il suo massi-mo splendore sotto Augusto, ma ora è il momento didescrivere la Stoà e la sua ricostruzione.

Le sue dimensioni (centosedici metri e mezzo di lun-ghezza e quasi venti di larghezza) e la sua pianta (undoppio colonnato a due piani con ventuno negozi affac-ciati su di esso ad ogni piano) erano noti dagli scavi grecidel 1859-62. Fu allora che la scoperta di frammenti del-l’epistilio con il nome di Attalo tolse ogni dubbio sul-l’identificazione dell’edificio. Molti dei resti erano statiinclusi nel cosiddetto muro di Valeriano, che fu costrui-to proprio attraverso le rovine dell’edificio dopo che lesue parti lignee furono incendiate durante il sacco degliEruli del 267 d. C. Sotto l’estremità settentrionale ven-nero trovate alcune tombe a camera micenee, e unastanza in uso nel v e nel iv secolo che faceva parte di untribunale come si può dedurre da alcuni oggetti per levotazioni dei giurati che vi sono stati trovati. Sonodischi di bronzo attraversati al centro da un asse, fora-to per la condanna, pieno per l’assoluzione. Se il giura-to sollevava il disco tra il pollice e l’indice poteva lasciar-lo cadere nell’urna senza che gli altri sapessero comeaveva votato. Questi dischi erano apparentemente cadu-ti per caso al tempo in cui la stanza venne abbandona-ta. Un blocco di grondaia fuori posto serviva a chiude-re un pozzo che restituí sessantacinque recipienti dacinque galloni l’uno che contenevano cocci databili al520-480 a. C. ovviamente di un commerciante di cera-miche al minuto, poiché molti dei vasi erano dello stes-so tipo e forse anche della stessa mano. I negozi elleni-stici erano di vario tipo; alcuni sono stati restaurati perospitare mostre museografiche con scaffalature model-late su quelle antiche, la cui posizione fu ricostruita

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dagli incavi nei muri. Un negozio ha restituito stru-menti chirurgici. All’estremità settentrionale il piú anti-co finto arco della storia dell’architettura greca masche-ra l’estremità di una volta a botte che sostiene le scale.

La storia della ricostruzione della Stoà offre uno deipiú interessanti esempi nella storia dell’archeologia dideduzione scientifica in opera. L’animatore fu HomerA. Thompson, direttore degli scavi dell’Agorà, assistitocon tecnica e intelligenza da John Travlos, architettodell’Agorà. Grazie ad antichi blocchi ancora ritrovati siconoscevano i materiali occorrenti: marmo blu dell’I-metto per i gradini, calcare grigio del Pireo per le pare-ti, marmo bianco del Penteo per la facciata, le colonnee le divisioni interne, argilla delle cave dell’Attica perle tegole del tetto. Quando nel 1953 incominciò la rico-struzione vennero usati materiali della medesima pro-venienza. I rocchi per le colonne furono presi dalle cavedi pietra appena squadrati, gli angoli vennero successi-vamente smussati e con un accurato lavoro a mano ese-guito da sessanta marmorari che usavano scalpelli conpunta dentellata e dritta poco diversi da quelli antichi,il marmo cominciò ad assumere lentamente forma cilin-drica. I restauratori avevano dedotto dai capitelli rima-sti che le colonne esterne erano doriche a pianterreno eioniche incrociate sopra, con una balaustra di protezio-ne negli intercolumni. Solo le colonne della fila esternaerano scanalate, poiché la scanalatura è eseguita in vistadell’effetto che produce riflettendo i raggi del sole. Lecolonne interne al pianterreno erano ioniche e al pianosuperiore avevano il capitello a foglie di palma, capitel-lo per cui gli architetti pergameni hanno sempre mostra-to grande predilezione. Le colonne della fila esterna delpiano inferiore, costituite da tre rocchi ciascuna, furo-no scanalate in situ, lasciando l’ultimo rocchio non sca-nalato per evitare i danni prodotti dal continuo andaree venire. Per scanalare la prima colonna lavorarono persettantasei giornate squadre di quattro uomini e la spesa

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ammontò a trecento sterline. (I rendiconti della costru-zione dell’Eretteo mostrano che nel 407-406 a. C. grup-pi dai cinque ai sette uomini impiegarono trecentocin-quanta giornate lavorative per colonna a trecentocin-quanta dramme per uomo, ma quelle erano colonne piúalte, completamente scanalate e di pietra piú dura). Ipavimenti originali erano un rozzo mosaico di scheggedi marmo (lithostroton); la ricostruzione usò lo stessomateriale che, levigato, viene chiamato terrazzo. Leantiche travi vennero restaurate in gettate di cementorivestite di lamine di legno (importato, ma anche neitempi ellenistici, il legno doveva essere importato nel-l’Attica priva di foreste) per proteggerle contro il fuoco.La posizione e le dimensioni delle travi furono deter-minate dagli incassi nell’antica opera muraria. Nel cuoredei muri antichi furono inseriti pilastri di calcestruzzo,ma con quelli moderni sono stati legati numerosi bloc-chi antichi per mostrare le prove in base alle quali èavvenuto il restauro.

Nel settembre 1956 la Stoà finita fu consacrata dalpatriarca di Atene e di tutta la Grecia alla presenza delre Paolo, della regina Federica e di millecinquecentoinvitati per i quali l’edificio assolse magnificamente allasua funzione originaria, di fornire un po’ di refrigerio inun giorno caldo. Anche ora, come ai tempi di Attalo, laStoà serve da intermediario tra il mercato e la città. Poi-ché è bassa non gareggia con gli edifici dell’Acropoli odell’Hephaistaion e via via che l’amoroso lavoro manua-le subisce l’alterazione del tempo serve ognor meglio adoffrire ai visitatori moderni l’opportunità unica diapprezzare le dimensioni e l’effetto spaziale di unosplendido esemplare di architettura civile ellenistica.Inoltre le botteghe riunite al pianterreno ospitano ilMuseo dell’Agorà che documenta con i suoi reperti cin-quemila anni di storia ateniese, dal periodo neolitico aquello turco. Nel portico inferiore statue ed iscrizionisono collocate vicino al punto in cui sono state ritrova-

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te e si avvantaggiano di essere esposte alla luce raden-te. Nel basamento e al piano superiore è resa accessibi-le agli studiosi una gran quantità di materiale non adat-to al pubblico (oltre sessantottomila oggetti inventaria-ti ed oltre novantaquattromila monete, nel giugno 1961)ed un plastico dell’Agorà permette ai visitatori (qua-rantasettemila il primo anno, centocinquantamila ilsecondo e ogni anno un numero maggiore) di orientarsida un punto di vista vantaggioso. Cosí il gesto filelleni-co di un filantropo ellenistico dello oriente è stato ripe-tuto ai giorni nostri da filantropi dell’occidente; il nuovomondo ristabilisce l’equilibrio del mondo antico.

The Greek Stones Speak, 1962

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rupert leo scott bruce-mitford Il Mitreo di Londra

Rupert Leo Scott Bruce-Mitford (1914) è nato a Londra e ha

compiuto gli studi al Christ’s Hospital e all’Hertford College

di Oxford. Dal 1950 al 1954 fu segretario della Society of

Antiquaries e dal 1954 è conservatore di antichità britanniche

e medievali al Museo Britannico.

L’ultima indagine di questo panorama, necessaria-mente breve, comporta un ritorno al centro della città.

In termini topografici la località circondata dallemura comprende due colline, la collina del grano a est ela collina di St Paul a ovest, separate da una piccola vallepoco profonda, quella di un fiume che è stato chiamatosin dai primi tempi Walbrook, un nome conservato orada una piccola strada che collega la moderna area del-l’argine con Cannon Street.

Quando nel 1952 le notizie di imminenti amplia-menti edilizi sull’ampia area devastata dalle bombe sulfianco occidentale di Walbrook Street ne resero desi-derabile un’esplorazione, venne intrapreso uno scavoda est a ovest (con interruzioni, dati gli ostacoli moder-ni) con lo scopo di ottenere una sezione attraverso lavalle. Poiché quasi tutta l’area era coperta di rovineprovocate dalle bombe fino alla profondità di qualchemetro, la scelta del punto di scavo era in pratica limita-ta ad una stretta striscia attraverso le macerie, a unpunto approssimativamente a metà della WalbrookStreet.

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Lo scavo si dimostrò di notevole difficoltà per la pre-senza di vene acquifere sotterranee. La maggior partedelle trincee erano permanentemente allagate a circa unmetro e venti sotto i pavimenti delle cantine e l’acquacresceva a mano a mano che gli scavi scendevano inprofondità. Nonostante questi e altri ostacoli, comun-que, si ottenne un quadro abbastanza completo di que-sta parte della valle. Se ne stabilí il profilo naturale: unaconcavità larga e poco profonda il cui bordo occidenta-le si trovava vicino a Sise Lane, mentre quello orienta-le era proprio ad oriente di Walbrook Street. Il fiume,nel suo originario letto «romano», scorreva approssi-mativamente al centro di questa concavità ed era quin-di un po’ ad ovest della linea presunta cui abbiamo fattoriferimento prima. Sfortunatamente non si vedeva l’in-tera larghezza del canale, ma essa non doveva superarei tre metri, tre metri e mezzo; il fiume di per sé era pocoprofondo; il fondo del suo letto si trova a dieci-dodicimetri sotto il livello stradale moderno...

Il quadro è forse un po’ diverso da quello che vienenormalmente tracciato per il Walbrook romano, che, amano a mano che si avvicina al Tamigi, ora diventa unosquallido ruscello che scorre in un’area «in via di svi-luppo» di sparse baracche di legno, mentre case piú resi-stenti, e altri edifici stanno apparendo ai confini. Fu soloin epoca relativamente tarda che gli edifici cominciaro-no ad apparire nella depressione vera e propria. Il primoverso nord, presso Bucklersbury, era rappresentato daun minuscolo frammento di muro unito a un pavimen-to a mosaico, presumibilmente (ma non necessariamen-te) parte di una casa i cui resti sono stati completamen-te distrutti da successive attività in quel luogo. Il secon-do fu il tempio di Mitra di Walbrook.

I primi indizi di questo edificio vennero in uno sta-dio remoto, nella trincea piú orientale. Per buona for-tuna apparirono immediatamente sotto il pavimentodella cantina. A mano a mano che lo scavo veniva

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approfondito, si scoprirono piú pavimenti successivi. Ilpiú recente (cioè il primo che fu scoperto) era continuosu tutta la superficie; a un livello piú basso i pavimentipiú antichi erano collegati con un muro trasversale, alli-neato con lo stipite dell’abside, e recante dei «sentieri»di calcestruzzo o appoggiati per colonne. In base allalimitata visione offerta dalla trincea, era perciò possibi-le stabilire che l’edificio doveva essere in origine di tipobasilicale, cioè una sala con colonne con almeno unaestremità absidata, che in progresso di tempo era statarifatta internamente rimuovendo le colonne, sollevandoil pavimento e risistemandolo in modo da trasformare lasala in un ambiente unico...

Il Mitreo era costituito da due parti; il tempio veroe proprio rettangolare, di circa diciotto metri per otto,con l’asse maggiore in direzione est-ovest, e, contiguoalla sua estremità orientale, un nartece o vestibolo chevenne alla luce solo ad uno stadio posteriore dell’esplo-razione. Il corpo dell’edificio era diviso longitudinal-mente da due file di colonne in una navata centrale edue laterali. Nella forma originaria l’interno riflette lepratiche fondamentali del culto di Mitra: il pavimentodella navata centrale, dove si svolgeva il rito, era piúbasso; quelli delle navate laterali, su cui si riunivano ifedeli, erano piú alti e il numero di colonne, sette su ognilato, simbolizzavano i sette gradi in cui erano divisi idevoti del culto. All’estremità occidentale il pavimentodel santuario semicircolare era sollevato al di sopra diquello della navata; probabilmente qui si elevava la scul-tura piú importante, Mitra Tauroctono, il dio che ucci-de il bue sacro dal cui sangue sprizza la vita su tutta laterra. La fronte dell’abside era interrotta da una partecentrale leggermente sollevata, probabilmente traccia diuna disposizione che comportava l’uso di colonne o dialtri sostegni di una trave per reggere una cortina die-tro cui doveva essere nascosto il gruppo, tranne che neimomenti prescritti dal rituale. Mediante gradini di legno

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si accedeva dalla navata al santuario e uno o piú altaridovevano sorgere davanti ad esso, come probabilmentealtrove all’interno della navata.

All’estremità orientale si apriva l’ingresso dal narte-ce; la soglia di pietra è ancora conservata anche separecchio danneggiata, con gli anelli di ferro per i car-dini della porta ancora in situ nei loro incassi. Anchequi gradini di legno davano accesso al pavimento dellanavata. Il pavimento del nartece, che era probabilmenteal livello della strada romana, era circa settantacinquecentimetri piú alto, ma si conosce poco del nartece, lamaggior parte del quale probabilmente giace sotto ilmoderno Walbrook; ciò che resta deve essere ancoraesaminato.

Una caratteristica dell’esterno dell’edificio erano imassicci contrafforti esterni all’estremità occidentale. Icontrafforti semicircolari che fiancheggiavano l’absidedovevano dare, nello stato originale, l’impressione diuna triplice abside; essi e un grosso contrafforte qua-drato nel punto centrale della curva dell’abside furonoaggiunti durante la costruzione dell’edificio e riflettonochiaramente l’instabilità del terreno, con il Walbrookromano a soli pochi metri verso ovest.

Sembra che il tempio nella sua forma originaria siastato costruito verso la fine del II secolo d.C.; una data-zione piú esatta può derivare da un attento esame deidati emersi ultimamente. Col passar del tempo, comun-que, l’edificio subí notevoli modifiche. Senza dubbio, inconseguenza dell’area circostante imbevuta d’acqua, illivello del pavimento della navata venne gradualmentealzato durante il III secolo e i cambiamenti piú antichifurono accompagnati da alterazioni corrispondenti nellivello delle navate laterali. Come complemento di que-sta trasformazione ci furono drastiche modifiche dellasovrastruttura; le colonne vennero rimosse e infine unpavimento unico trasformò l’interno nell’unico ambien-te ricordato sopra.

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Ma prima che questo processo fosse completo, unarivolta, o la minaccia di una rivolta, raggiunse il tem-pio e indusse ad ogni modo a seppellire almeno alcunedelle immagini piú sacre. In una fossa presso l’angolonordorientale della navata erano state nascoste le testedi Mitra e di Minerva; in un’altra lí presso con unatinozza di pietra, una gigantesca mano di marmo chestringe il pomo di una spada, una piccola figura di Mer-curio e la testa di Serapide. Tutto indica che qui si ebbeun altro esempio del conflitto tra il culto di Mitra e ilcristianesimo, che indusse i fedeli di Mitra a seppellirei loro oggetti di culto e a distruggere i loro templi quan-do, all’inizio del IV secolo, la cristianità prese il soprav-vento. Eppure il tempio di Walbrook sembra non abbiaincontrato la stessa sorte delle immagini; almeno altridue pavimenti sigillano le fosse con i marmi, indican-do cosí che l’edificio continuò ad essere in uso e man-cano segni di una distruzione che si possa chiamareintenzionale.

Il gruppo di statue nel suo complesso non ha termi-ni di paragone in Britannia; sono tutte di lavorazionestraniera. Il Serapide particolarmente è in condizioniquasi perfette, ma Mitra, con gli occhi levati verso l’al-to che mostrano che faceva parte di una scena di sacri-ficio del toro, si distingue dalle altre statue per il suosensibilissimo modellato. La mano di dimensioni supe-riori al naturale presenta un problema particolare; infat-ti se faceva parte di un altro gruppo raffigurante unsacrificio l’opera completa doveva essere di dimensionitali che sarebbe stato difficile collocarla nel tempio. Inumerosi problemi sollevati da questo e da molti altrireperti devono comunque essere discussi in altra sede.Qui è sufficiente dire che la presenza di queste e di altredivinità rientra nel carattere eclettico del culto di Mitra,che cercava di assimilare i culti classici con attributisimili o aventi con esso qualche punto di contatto; unodi questi era il dio greco-egizio degli inferi, Serapide.

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In secondo luogo, il Mitreo di Walbrook esemplificail secondo dei due aspetti principali del culto mitriaco.Mitra, dio della forza e delle virtú virili, raccoglieva isuoi seguaci in gran parte nell’esercito romano; i suoitempli sono numerosi nelle zone militari dell’impero. MaMitra era anche il dio degli affari onesti e come tale erafavorito dalle comunità dei mercanti. I mitrei sono per-ciò comuni nei porti e il tempio di Londra con i suoi ele-menti architettonici piuttosto eccezionali e il suo foltogruppo di opere d’arte della piú alta qualità e finezza,che contrastano con gli elementi spesso rozzi ma vigo-rosi dei santuari militari, rispecchia la ricchezza e lerelazioni della prospera classe commerciale della city.

Recent Archaeological Excavations in Britain, 1956

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george dennis Tracce degli Etruschi

George Dennis (1814-98) era un diplomatico addetto succes-

sivamente ai consolati di Bengasi, Creta, Sicilia e Smirne.

Durante la sua carriera nell’area mediterranea il suo profondo

interesse per l’archeologia lo indusse ad organizzare spedizioni

in Cirenaica e in Asia Minore e viaggi di esplorazione in Etru-

ria nel 1842 e nel 1847. In gran parte come risultato della sua

pubblicazione sugli Etruschi, un modello di scrupolosa esat-

tezza per i suoi tempi, si ebbe una ripresa dell’interesse del pub-

blico per questa civiltà e nacque un ramo completamente

nuovo degli studi e delle ricerche archeologiche.

Nei capitoli precedenti ho parlato dell’antica città diVetulonia e delle varie località che sono state identifi-cate con essa; e ho mostrato che tutte le identificazionisono ben lontane dall’essere soddisfacenti. Durante imiei pellegrinaggi attraverso la Maremma toscana nellaprimavera del 1844 ebbi la fortuna di capitare in unalocalità che presenta, secondo me, elementi piú validiper essere considerata Vetulonia, di tutte quelle con cuiè stata finora identificata.

Mi erano arrivate alle orecchie vaghe dicerie di anti-chità etrusche scoperte presso Magliano, un villaggio tral’Osa e l’Albegna, a circa otto miglia dalla costa; ma ioimmaginavo che si trattasse semplicemente di scavi ditombe, cosí spesso intrapresi in Etruria in questa sta-gione. Risolsi comunque di visitare questa località nelmio viaggio da Orbetello a Saturnia. Per poche miglia

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ritornai sui miei passi verso Telamone, poi, voltando adestra, attraversai l’Albegna alcune miglia piú su, a untraghetto chiamato Barca del Grassi; da questo puntonon c’era strada carrozzabile per Magliano e il mio vei-colo dovette percorrere le restanti cinque miglia attra-verso sentieri fradici di pioggia.

Magliano è uno squallido villaggio di trecento anime,senza locanda, ai piedi di un castello medievale in pit-toresca rovina. Facendo qui delle ricerche venni indi-rizzato a un ingegnere, il signor Tommaso Pasquinelli,che allora costruiva una strada da Magliano alla salinaalle foci dell’Albegna. Trovai questo signore in un con-vento nel villaggio, in un cerchio di venerabili monacile cui barbe oscuravano con il loro candore il biancodelle tovaglie del refettorio. Fui felice di apprendere cheera stato lui a fare nei dintorni le scoperte di cui avevosentito parlare e che non si trattava semplicemente ditombe, ma di una città di grandi dimensioni, venuta inluce in modo abbastanza singolare. A fior di terra nonsi scorgeva nulla, non un frammento di rovina che indi-casse precedenti abitazioni, cosicché solo in circostanzestraordinarie fu in grado di appurare che qui era sortauna città. Il terreno su cui doveva correre la strada eraper lo piú basso e paludoso, e essendo la parte piú altadi tufo molle e friabile egli era in difficoltà per il mate-riale che gli occorreva, fino a che per caso scoprí alcunigrandi blocchi, seppelliti sotto la superficie, che identi-ficò con le fondamenta di un antico muro. Si accorse cheformavano una linea ininterrotta, che egli seguí estraen-do i blocchi man mano che venivano alla luce; rintrac-ciò cosí il perimetro di una città.

Con spontanea gentilezza tipica della Toscana, diquesto «raro paese della cortesia», come lo definisceColeridge, propose subito di accompagnarmi sul posto.Era la prima occasione che aveva avuto di fare gli onoridella sua città, perché, sebbene la scoperta fosse statafatta nel maggio del 1842 ed egli l’avesse comunicata agli

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amici, la notizia non si era diffusa, salvo che in vaghe edistorte dicerie e nessun archeologo aveva visitato ilposto. Le notizie in Italia camminano sempre a piedi egeneralmente cadono morte per la strada dopo essersiazzoppate. Avevo sentito dagli archeologi di Firenzeche da queste parti si era scoperto qualcosa, ma nessu-no sapeva che cosa. Uno pensava che si trattasse ditombe, un altro aveva sentito che si trattava di «roba»d’oro, un altro ancora ignorava completamente la loca-lità, ma aveva sentito che era stata scoperta una città sulMonte Catini, ad ovest di Volterra.

La città giace tra Magliano e il mare a circa sei migliae un quarto dalla spiaggia, su un basso tavolato, propriodove il terreno comincia a sollevarsi sopra la paludosapianura costiera. In lunghezza, secondo il signor Pasqui-nelli, è un po’ meno di un miglio e mezzo e un miglioscarso in larghezza, ma tenendo presente la sua formaquadrilatera, deve aver avuto un perimetro di almenoquattro miglia e mezzo. Sul lato sudorientale era limi-tata dal ruscelletto Patrignone, i cui argini si sollevanoin rocce di non grande altezza, ma da ogni altro lato iltavolato scende con un gentile declivio verso la pianu-ra. All’estremità sudoccidentale, accanto ad una casachiamata la Doganella, la sola abitazione della località,fu trovata una cerchia di mura piú piccola e piú internache, essendo questa anche la parte piú alta del tavolatovenne contraddistinta come la Rocca.

Sebbene rimanesse appena una traccia dei muri enessuna rovina emergesse alla superficie, non ebbi gran-di difficoltà a riconoscere che la località era etrusca. Ilterreno era coperto di uno spesso strato di frammenti diceramica, segno infallibile e incancellabile di preceden-ti abitazioni; e qui era di un carattere riscontrato soloin località esclusivamente etrusche, senza alcuna mesco-lanza di marmi o frammenti di verde antico, porfido ealtre pietre di valore che contraddistinguono gli stan-ziamenti lussuosi dei romani. Sebbene le mura, o meglio

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le loro fondamenta, siano state quasi interamentedistrutte dalla loro prima scoperta, alcuni blocchi rima-nevano ancora interi e attestavano il carattere etruscodella città. Da questo poco o nulla si può dedurre sulsistema di costruzione, ma i blocchi stessi indicavanoun’origine etrusca, essendo alcuni di macigno, simili aquelli di Populonia per le dimensioni e il rozzo taglio,altri di tufo o di friabile roccia locale, come quella diCorneto, simili in forma e dimensioni ai soliti blocchi diquesto materiale trovati in località etrusche. Se ne eranotrovati alcuni del primo tipo lunghi due o tre metri. Mai blocchi non erano generalmente di grandi dimensioni,sebbene sempre senza cemento. Nel punto dove unaparte delle mura era stata scoperta, sull’orlo di una buca,si vide che qui si apriva una fognatura.

Entro le mura, grazie alle fondamenta delle case suentrambi i lati, è stata rintracciata una strada o via mae-stra. Sono state riportate alla luce molte cose, ma né sta-tue né colonne di marmo, come nelle località romane,bensí oggetti di bronzo o ceramica. Io stesso ho visto unpezzo di bronzo, estratto dal suolo molti metri sotto lostrato superficiale, che venne identificato per un ago daimballaggio lungo venticinque cm, con l’occhio e lapunta intatti. Deve essere servito a qualche illustre etru-sco o per prepararsi per i suoi viaggi, forse al Faum Vol-tumnae, il parlamento dei Lucumoni, o forse per il grandtour come quello che fece Erodoto, che è press’a pocoancora il nostro grand tour; oppure, forse per spedire lesue merci in un paese straniero dal vicino porto di Tela-mone. Questo venerando ago è ora in mio possesso.

Mentre si deve lamentare che i futuri viaggiatori nonvedranno una traccia di questa città, si deve ricordareche, se non ci fossero state le particolari esigenze del-l’ingegnere, che condussero alla distruzione delle mura,ne avremmo ignorata anche l’esistenza. Altri incidentiavrebbero potuto portare a scoprire una parte del muro,ma è difficile immaginare che qualsiasi altra causa potes-

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se portare a scavare l’intero perimetro e per conseguen-za a determinare i precisi confini della città. Cosí, mal-grado sia stata completamente ricoperta dalla massic-ciata, il mondo ha un grosso debito con l’uomo che hafatto la scoperta.

Cities and Cemeteries of Etruria, 3ª ed., vol. II, 1883

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arthur evans Il toro di Minosse

Sir Arthur Evans (1851-1941) nacque a Nash Mills, Hertford-

shire, e studiò a Harrow, al Brasenose College di cui divenne

membro e all’Università di Gottinga. Avendo visitato i Balcani

nel 1875 si interessò profondamente all’archeologia della regio-

ne, ma la sua attenzione si concentrò su Creta in seguito allo

studio di gemme incise che si sapeva esser state trovate nell’i-

sola. Nel 1899, dopo lunghi negoziati, comperò la località di

Cnosso e i suoi scavi rivelarono le tracce di una civiltà brillante

e sofisticata, anteriore anche alla civiltà micenea da poco sco-

perta, che egli chiamò civiltà minoica. Da quel momento il suo

notevole patrimonio personale e tutte le risorse della sua vasta

cultura furono dedicate all’esame e alla pubblicazione dei suoi

reperti a Cnosso e al restauro e ricostruzione del palazzo. Le

notizie sulle pratiche religiose dei Minoici sono piuttosto scar-

se, ma la loro arte rappresenta spesso uno dei riti piú spettaco-

lari e pericolosi.

I resti di questi «Affreschi con tauromachia», comesi possono convenientemente chiamare, occupano varipannelli. Sebbene in essi le figure siano tre o quattrovolte piú grandi di quelle dei pannelli con miniature(trentadue centimetri contro dieci-otto centimetri)hanno in comune con essi l’altezza relativamente scar-sa. Quello che compare restaurato nella figura cento-quarantaquattro è alto centimetri settantadue e ottocompresa la cornice decorativa. Questa altezza, appros-simativamente di ottanta centimetri, corrisponde a quel-

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la congetturalmente assegnata agli «Affreschi delleminiature». Essa si accorda anche con quella a cui si ègiunti per i fregi dipinti della «Casa degli affreschi». Inquesti casi sembra che le fasce affrescate corresseroimmediatamente sotto i travi formando la continuazio-ne della decorazione dell’architrave e che sarebberostate sovrapposte a dadi alti circa un metro. Nel casodell’«Affresco della pernice» del Padiglione del Cara-vanserraglio, comunque, c’è una chiara prova che lafascia dipinta correva sopra l’architrave e, dal punto divista artistico, era perciò troppo elevata. In questo casopossiamo supporre che i pannelli con tauromachia fos-sero collocati su dadi a piena altezza, cioè un po’ piú altidi due metri, e questo sembra accordarsi meglio ai meto-di decorativi in voga nel palazzo al tempo del restaurodel Tardo Minoico I, sebbene una posizione piú bassa,come quella della «Casa degli affreschi», sarebbe statapiú adatta ai disegni. È certamente difficile datare que-sti «Affreschi di tauromachia» ad un periodo posterio-re al Tardo Minoico I. La delicata linea di contorno dialcuni e la superficie finemente smaltata, specialmenteper quanto riguarda il bianco, richiamano un’età in cuil’arte dell’affresco aveva raggiunto il punto piú alto.D’altra parte certi dettagli meno importanti, come l’i-mitazione del lavoro ad intarsio in pietre variegate chedecora i bordi, rivela una certa simpatia per uno stile dibordi assai di moda nell’ultimo periodo del palazzo(Tardo Minoico II).

I disegni erano in origine distribuiti su alcuni pan-nelli, e nel caso di uno di essi, fu possibile ricostruirel’intera composizione. Qui, accanto al personaggiomaschile, del solito colore rossastro, che sta eseguendouna capriola rovesciata sul toro, vi sono due donne tore-re, distinte non solo dalla pelle bianca, ma anche dal-l’abbigliamento piú ricco; il perizoma e la cintura sonoidentici a quelli dell’uomo, ma piú variegati di colore;quello dell’uomo è tutto giallo, quelli delle donne sono

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decorati con strisce e righe nere. Portano bande ai polsie doppie collane (di cui una a perline) e alcune figuremostrano anche nastri blu e rossi intorno alla fronte: Maforse l’elemento piú caratteristico è la disposizione sim-metrica dei corti riccioli sulle tempie e sulla fronte, giànotate nel caso della donna cow-boy della coppa diVafiò... I piedi sono coperti da corte ghette o calze e dascarpe appuntite tipo mocassini.

Nel disegno riprodotto nella figura 144 la fanciullaacrobata afferra le corna di un toro in corsa in pienogaloppo e una delle corna sembra passarle sotto l’ascel-la sinistra. Scopo di questa posa, che si vede chiaramentenella riproduzione di questa parte ingrandita nella figu-ra 145, sembra sia di sollevarsi per una capriola all’in-dietro sopra la schiena dell’animale, come quella che staeseguendo il ragazzo. La seconda figura femminile, die-tro tende ambo le mani come per afferrare la figuralibrata in aria o almeno per aiutarla a riprendere la posi-zione eretta quando toccherà terra. Il modo di fermar-si, facile come rappresentazione artistica solleva alcuniproblemi curiosi quanto alla sistemazione nell’arena.

A parte questo, certi aspetti del disegno hanno pro-vocato lo scetticismo di esperti di moderne rappresen-tazioni di «Rodeo». Un veterano di lotte contro i manzigiovani, consultato dal professor Baldwin Brown, eradell’opinione che chiunque abbia un po’ di pratica conquesto tipo di sport considererebbe l’impresa di affer-rare le coma di un toro come leva per una capriola, asso-lutamente impossibile, «perché un uomo non può riu-scire a riprendere l’equilibrio mentre il toro carica con-tro di lui ». Inoltre, come egli notò, un toro ha una forzatre volte maggiore di quella di un giovane manzo e quan-do corre «alza la testa di lato e infila con le corna chiun-que gli si pari davanti ».

«Che la capriola fosse eseguita sulla schiena di untoro mentre carica sembra evidente e non pare presen-ti molte difficoltà, ma sicuramente, se il toro fosse stato

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in pieno galoppo, l’atleta non sarebbe ricaduto a terradietro di lui, anziché sulla sua schiena? »

Tutto ciò che si può dire è che l’esercizio, come è rap-presentato dallo artista minoico, sembra di un tipodichiarato impossibile dai moderni campioni di questosport. Il disegno dell’affresco mostrato alla figura 144non era isolato, come vedremo, e gli atti successivi chesembra sottintendere trovano almeno una conferma par-ziale in una impronta di sigillo in creta e nel gruppobronzeo, dove il salto acrobatico è illustrato da una figu-ra diagrammatica...

Questi episodi altamente sensazionali sono prima ditutto esibizioni di abilità acrobatica. Sotto questo puntodi vista, come già notato, differiscono dalle parallele rap-presentazioni dei cow-boys minoici, il cui scopo era piut-tosto di prendere animali selvaggi o semi selvaggi. Chedelle fanciulle prendessero realmente parte a questoaspetto piú pratico dello sport, come occasionalmentenel «Selvaggio West» dell’America odierna, è statodimostrato da una scena della coppa di Vafiò, ma l’ele-ganza e gli ornamenti delle acrobate femminili degli«Affreschi di tauromachia» appartengono a una sferadiversa. I nastri e le collane a perline sono assoluta-mente fuori luogo in forre tra i monti o in radure inmezzo alla foresta, mentre sono piú appropriate al circodel palazzo. Gli animali stessi erano senza dubbio accu-ratamente ammestrati. Come i tori delle arene spagno-le, dovevano spesso avere un famoso pedrigree ed esse-re allevati in speciali mandrie o ganaderias. È chiaro chein tutte queste scene l’attenzione dell’artista minoico èconcentrata soprattutto sull’animale rappresentato spro-porzionatamente grande, come si conviene a quello cheper loro era evidentemente, al pari del leone, il re deglianimali...

L’idea dello spettacolo com’è qui concepita dall’au-tore di questo gruppo bronzeo sembra essere stata essen-zialmente la stessa di quella del pittore che eseguí l’ori-

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ginale della figura 44. In ogni caso il disegno si iscrivein tutta una serie tipologica di gemme incise, come quel-le già illustrate, che comportano tre azioni separate:afferrare le corna, collocarsi sopra la testa, ed infinecompiere una capriola all’indietro; talvolta una figurasecondaria porge aiuto in quest’ultima fase.

La prima parte di questo ciclo acrobatico, da unpunto di vista logico, è stata giustamente giudicata al dilà delle possibilità e dell’abilità di un mortale...

Non è affatto improbabile che i rilievi dipinti che rap-presentano un toro afferrato per le corna, come quelli,in parte almeno, rimasti al loro posto sopra il corridoiodell’entrata settentrionale al tempo in cui lo stanzia-mento greco esisteva già, abbiano lasciato la loroimpronta nelle tradizioni posteriori del Minotauro e digiovanetti e giovanette prigionieri, come già abbiamosuggerito. Ma non c’è ragione di andare piú in là di que-sto e di supporre che le figure acrobatiche maschili efemminili impegnate in queste pericolose gare rappre-sentino veramente dei prigionieri addestrati, come i gla-diatori romani, a «praticare dello sport» per il passa-tempo dei Minoici. Siamo poi ancora piú lontani daogni paragone con il costume primitivo e piú feroce illu-strato dai monumenti dell’Egitto preistorico, in cui pri-gionieri di guerra erano esposti a tori selvatici.

I giovani partecipanti a queste gare, come quelli chepartecipavano agli incontri di boxe e di lotta, che nonsi possono separare dalla stessa categoria generale, nonhanno certo l’aspetto di servi. Sono, come abbiamovisto, vestiti elegantemente e specie nelle contese acorpo a corpo, che descriveremo fra poco, hanno spes-so aspetto nobile. In questi campioni d’ambo i sessidobbiamo piuttosto riconoscere il fiore della razzaminoica, impegnata, in molti casi sotto una diretta san-zione religiosa, in prove di audacia e abilità cui l’interapopolazione partecipava appassionatamente.

Le snelle, vigorose forme dei giovani impegnati negli

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sports delle arene minoiche, con la loro violenta azionemuscolare e le vite convenzionalmente strette, erano iltema degli artisti contemporanei come le forme piúsimmetriche dei suoi «efebi» lo erano per quelli dellaGrecia classica. In entrambi i casi assistiamo alla glori-ficazione dell’eccellenza atletica, che si manifestava inimprese di cui gli dèi stessi erano testimoni. Cosí la par-tecipazione di donne alle gare minoiche di tauromachianon può affatto essere considerata come segno di servitúo del perverso capriccio di un tiranno. Era piuttosto,come abbiamo visto, la conseguenza abbastanza naturaledell’organizzazione religiosa in cui i sacerdoti femmini-li della dea avevano il primo posto al suo servizio. ASparta, dove sembra che le tradizioni religiose minoicheabbiano avuto notevole influenza, donne atlete conti-nuarono a prendere parte ai giochi pubblici.

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arthur evans Opera di ricostruzione a Cnosso

La conservazione del «Quartiere domestico», dovu-ta in gran parte alla relativa protezione contro le scossedi terremoto ottenuta tagliando su tre lati gli strati neo-litici del tell, è piú miracolosa di tutto quanto si potes-se ragionevolmente supporre che gli scavi riportasseroalla luce. In particolar modo la grande scalinata, di cuitre rampe furono dissotterrate intere e altre due in con-dizioni tali da permettere un restauro che le ha rese nuo-vamente praticabili dopo un intervallo di piú di tre mil-lenni e mezzo, ancora si erge come un monumento diabilità costruttiva.

In tutta l’esplorazione dell’area del palazzo la sor-presa maggiore ci aspettava allo sbocco meridionale delcorridoio degli intercolumni che fiancheggiava i magaz-zini reali dove erano conservati i «pithoi con medaglio-ne». Il marciapiede che stavamo seguendo, posato sul-l’argilla neolitica, sembrava segnare il livello al di soprae al di sotto del quale non c’era speranza di trovare inquesta direzione ulteriori resti. La stagione era già caldae il lavoro di scavo aveva cominciato a diventare pesan-te quando, aprendo una porta bloccata, venne alla luceun pianerottolo al di là del quale dopo ulteriori sgombrivennero alla luce due rampe di gradini di gesso, unaascendente e una discendente, le quali, in seguito, si sco-prí che appartenevano alla seconda e alla terza rampa diuna magnifica scala di pietra...

È già stato detto qualcosa delle peculiari difficoltà e

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anche dei pericoli incontrati nell’aprirci la strada attra-verso le scale, i corridoi e le sale del piano terreno. Fucertamente una circostanza fortunata che fra i nostrioperai di allora ce ne fossero due che avevano lavoratonelle miniere del Laurio e sotto la loro guida fummo ingrado, con l’uso continuo di puntelli da miniera, di sca-vare una galleria lungo le rampe inferiori e lungo lavolta al di sopra. Ci si accorse allora che, sebbene le mas-sicce intelaiature lignee che costituivano una parte cosíimportante tra gli elementi strutturali dell’ultimo perio-do Medio Minoico comprendendo pali portanti e travitrasversali come pure colonne lignee e capitelli, fosserocompletamente carbonizzate, piú per azione chimica chea causa del fuoco, l’edificio era ancora per la maggiorparte in piedi, in certi punti fino all’altezza del secon-do piano.

Questo fu il risultato dell’intrusione negli spazi sot-tostanti di materiali crollati, costituiti per la maggiorparte, senza dubbio, da mattoni cotti al sole, dai pianisuperiori di questa parte dell’edificio.

Ma la spiegazione completa del fenomeno non si ebbeche piú tardi, quando fu scavato il Caravanserraglio sullato opposto della gola a sud del palazzo. Si trovò chele sorgenti di questo lato, che erano largamente impre-gnate di gesso, combinandosi con l’argilla naturale e, inquesto caso, anche con mattoni crudi caduti dall’alto,avevano formato una concrezione dura come il cemen-to che poteva essere frantumata solo con picconi d’ac-ciaio taglienti e notevole sperpero di tempo e di fatica.È chiaro che un risultato identico a quello prodottonaturalmente dalle sorgenti della collina Gypsades conla loro azione sul materiale argilloso, si era avuto, nelcaso degli ambienti coperti dei piani inferiori e dellerampe di scale, all’effetto dissolvente delle acque pio-vane sui frammenti dei blocchi di gesso, sui pavimentie sulle lastre degli zoccoli dei piani superiori. L’effettodeleterio della pioggia sugli elementi di gesso del palaz-

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zo è rapido e la disintegrazione progressiva delle partiesposte dell’edificio fu molto sensibile fin dai primi gior-ni degli scavi. Il grado di dissolvimento dipende natu-ralmente dalla consistenza particolare della pietra. Alcu-ne lastre del palazzo piú antico sono di qualità partico-larmente bella, con venature traslucide ondulate e lami-ne di colore marrone chiaro e ambra e sembra che que-ste abbiano ancora una resistenza agli elementi pratica-mente illimitata. Ma le superfici esposte di regola siriducono poco per volta ad un ammasso confuso di cri-stalli e in alcuni casi si è quasi tentati di paragonare l’ef-fetto a quello di una goccia d’acqua su una zolletta dizucchero.

Una conclusione inevitabile di questo processo didisintegrazione era la necessità di ricoprire le parti espo-ste per salvare tutti i pezzi di questi resti. Ma lo scavodella scala e delle sale cui dava accesso resero ancora piúurgente questa necessità. L’estrazione delle concrezionidi gesso e dei vari detriti e materiali terrosi dagli spaziintermedi lasciava un vuoto tra gli spazi superiori e infe-riori che minacciava di far crollare tutto. Gli stipiti, letravi e le colonne carbonizzate, sebbene se ne potesse-ro spesso osservare la forma e le misure, si spezzavanoa contatto dell’aria e non potevano naturalmente offri-re alcun sostegno. Il ricorso a puntelli da miniera e adaltre armature per sorreggere la massa sovrastante eratutt’al piú un rimedio temporaneo ed in molti casi cosíinsufficiente che accaddero pericolosi crolli.

Nuova era nelle ricostruzioni grazie all’uso delcemento armato.

Rallentare i nostri sforzi avrebbe voluto dire far cade-re i resti dei piani superiori su quelli inferiori e il risul-tato sarebbe stato un ammasso confuso di rovine. Lasola alternativa era quella di intraprendere una qualche

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sostituzione permanente dei supporti delle strutturesuperiori. Nei primi giorni di scavo l’architetto Mr Chri-stian Doll, che affrontò coraggiosamente questo compi-to immane, aveva dovuto per forza contare largamentesu travi di ferro portate dall’Inghilterra con grandespesa, e queste in parte erano mascherate con cemento.I fusti delle colonne furono sostituiti da blocchi di pie-tra coperti con un rivestimento di stucco e i capitellifurono praticamente abbattuti. Anche cosí il legno, cheera difficile ottenere stagionato a dovere, fu tenuto arappresentare una parte in queste ricostruzioni. I tron-chi e i travi di cipresso, che avevano sostenuto una note-vole massa di muratura nell’antica costruzione, non sipotevano naturalmente piú ottenere, e dovemmo con-statare che anche il legno di pino del Tirolo, importatoattraverso Trieste, che negli chalets del paese d’originepuò resistere agli elementi per generazioni, sarebbe statoridotto in schegge e polvere in pochi anni dai violentiestremi del clima cretese.

Ma il crescente uso del cemento armato, il cui mate-riale era rinforzato da robusti cavi di ferro, per costru-zioni di tutti i tipi aprí una nuova era di ricostruzionee conservazione sull’area del palazzo. È già stato mostra-to come nell’ala occidentale dell’edificio il nuovo meto-do permise di sostituire con maggior efficacia e minorspesa i piani superiori con gli antichi resti al loro livel-lo originario, mentre colonne, capitelli e altri elementi,anche quelli che comportavano elaborati dettagli, nondovevano piú essere staccati e scolpiti in pietra, mapotevano essere gettati tutti interi in matrici lignee, chei carpentieri locali erano abilissimi a preparare. Con-temporaneamente con lo stesso metodo vennero restau-rati in cemento gli stipiti e le travi carbonizzate mentre,bagnandolo su un tavolato provvisorio sostenuto da pun-telli, fu possibile tracciare considerevoli aree del pavi-mento e allo stesso tempo proteggere permanentemen-te dalle intemperie le lastre e i blocchi di gesso e gli altri

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elementi deperibili delle stanze del seminterrato e deimagazzini. L’intera intelaiatura dell’edificio in questolato fu cosí ben tenuta insieme da questo nuovo mate-riale che resistette con successo al grave terremoto del26 giugno 1926.

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william taylour Ventris decifra la scrittura cretese

Michael George Francis Ventris (1922-56) era nato a

Wheathampstead e divenne architetto. Fin dai primi anni aveva

provato profondo interesse per le lingue e per i problemi di deci-

frazione e durante la guerra divenne un esperto nell’interpre-

tazione di cifrari. Il metodo usato dall’esercito era basato prin-

cipalmente sull’analisi statistica e Ventris pensò che questo

metodo avrebbe potuto essere applicato con gli stessi risultati

alle tavolette della lineare B, dove i problemi di tradurre un lin-

guaggio ignoto scritto in un alfabeto ignoto si erano dimostra-

ti fino ad allora insolubili. Sentendo la necessità dell’assisten-

za di un esperto filologo, si rivolse al Professor J. Chadwick che

fu cosí colpito da accettare subito di cooperare. Quando i loro

risultati vennero pubblicati, si dimostrarono cosí convincenti

da sollevare ben poche obbiezioni, ma Ventris non poté assi-

stere a questo trionfo del suo metodo perché morí in un inci-

dente stradale a soli trentaquattro anni.

Per definizione, nella storia antica viene indicatacome società civile quella che conosce l’uso delle lette-re. In realtà la complessità di una società civile richiedeper funzionare sotto tutti i punti di vista lo studio deidocumenti. La civiltà micenea non costituí un’eccezio-ne a questa regola, sebbene gli scavi piú antichi abbia-no fornito pochi dati relativi a questo suo aspetto. Qual-che notizia sull’uso della scrittura venne tratta dai curio-si segni dipinti su un certo numero di giare a staffa tro-vate a Micene, Tirinto, Orcomeno, e Tebe, ma finché

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gli scavi iniziati a Pilo nel 1939 non fornirono centinaiadi tavolette di argilla coperte di caratteri simili non cisi rese conto che l’uso della scrittura doveva esser statogenerale e diffuso nella Grecia micenea. Queste tavo-lette di argilla non erano uniche, né erano già state rin-venute nell’isola di Creta, a Cnosso, sin dal 1900 da SirArthur Evans che ne comprese subito l’importanza;Cnosso ha anzi fornito il numero maggiore di questidocumenti (da tremila a quattromila) sebbene molti diessi siano frammentari, ma sono anche stati trovati altro-ve in questa isola, nei palazzi di Festo, Hagia Triada eMallia. Numericamente seguono quelle di Pilo, piú dimilleduecento, che aumentano ogni anno con il proce-dere degli scavi in questa località. Micene ne ha fornitifinora poco piú di settanta esemplari che provengonoper la maggior parte da case fuori della cittadella.

Sembra davvero strano che il centro dinamico e ispi-ratore della civiltà che chiamiamo micenea abbia con-servato una documentazione cosí scarsa. La spiegazio-ne sembra duplice: la deperibilità del materiale e forsel’incapacità dei primi scavatori a riconoscere questiammassi indistinti di argilla per quello che erano real-mente. Quest’ultima spiegazione è di gran lunga piúaccettata dagli archeologi moderni, ma non penso chetutte le tavolette avrebbero potuto sfuggire all’occhiopenetrante dello Schliemann che si vantava della curacon cui raccolse e conservò quelli che, anche per lui,erano oggetti assolutamente insignificanti. Le cosid-dette tavolette della lineare B, le uniche trovate sul con-tinente greco, sono pezzi di argilla oblunghi, lunghicirca nove centimetri. Alcune sono molto piú grandi equasi quadrate; altre sono lunghe, strette e affusolatecome una foglia di palma. Tra la polvere e i detritidello scavo le tavolette potrebbero essere scambiateper frammenti di ceramica comune, ma una delle duefacce rivela a un occhio esercitato dei segni incisi. Alcontrario della ceramica, non sono cotte nella fornace,

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il che le avrebbe rese indistruttibili. Esse erano fatte dicreta comune, venivano ricoperte di scrittura quandol’argilla era molle e poi messe a seccare al sole. Finchéerano conservate all’asciutto potevano mantenersi intat-te, ma una volta esposte agli effetti dell’acqua si dis-solvevano rapidamente in una massa uniforme. (Questasorte disgraziata toccò ad alcune tavolette raccolte daSir Arthur Evans in una capanna il cui tetto sgocciola-va). È grazie alla distruzione violenta di uno stanzia-mento che le tavolette molto spesso hanno potuto con-servarsi. Il fuoco dell’incendio le ha cotte e portate algrado di resistenza della ceramica; anche cosí alcunesono abbastanza friabili.

A Pilo la maggior parte delle tavolette era concentratain un solo punto e nel corso degli scavi si dimostrò chia-ramente che si trattava degli archivi del palazzo. Letavolette venivano conservate vicino all’ingresso delpalazzo in una piccola camera con bassi banconi chesostenevano delle scaffalature non fissate al muro, alme-no per quanto si poté dedurre dalla accurata osserva-zione delle macerie bruciate che riempivano la stanza.Si poté anche dedurre che le tavolette erano riposte incesti di vimini, perché si rivelò l’impronta di un intrec-cio di vimini su alcuni pezzi di argilla bruciata trovatiattaccati alle «tavolette descrittive» cioè alle tavoletteche indicavano il contenuto in forma abbreviata. Sem-bra che un altro modo di conservarle fossero casse dilegno. Nella cittadella di Micene non sono stati trovatiarchivi. Poche tavolette, otto in tutto, furono ritrovatenel 1960 in ulteriori scavi delle case micenee entro la cit-tadella e accanto al recinto delle tombe, ma erano moltoframmentarie. Le circostanze del loro rinvenimento sug-geriscono che esse fossero solo i resti di un gruppo nume-roso andato quasi completamente distrutto dal fuoco cheabbatte l’edificio in cui erano conservate. Le tavoletterimaste vennero trovate affondate in masse conglome-rate di pietra, mattoni e argilla fusi e poi induriti tanto

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da raggiungere la consistenza e la durezza del calce-struzzo. Sparsi qua e là tra queste rovine calcinate simi-li a rocce c’erano chiazze e frammenti di una sostanzarosso-bruna che poteva essere il resto di ceramica e dipezzetti di tavolette disintegrate. Se è cosí, sembrereb-be che le tavolette in questo caso fossero conservate incredenze o contenitori in pietra. I segni molto evidentidel fuoco che distrusse il palazzo nel punto piú altodella Cittadella dimostrano che anche qui la conflagra-zione fu di eguale intensità e violenza di quella avvenu-ta piú lontano lungo il declivio della collina. In questomodo tutti gli archivi che potevano esistere nel palazzofurono annientati o lasciarono tracce cosí trascurabili daeludere la vigilanza degli scavatori.

Questi documenti in argilla della Grecia, di Creta ealcuni di Cipro, sono praticamente gli unici documentiscritti sopravvissuti del mondo egeo del II millennio.Può darsi naturalmente che per scrivere venissero usatialtri mezzi, sostanze come legno, cuoio, pergamena,foglie di palma o papiro, nessuna della quali sopravvi-verebbe in condizioni normali. La trasformazione dellapianta di papiro in materiale adattissimo alla scrittura,era un’industria specializzata dell’Egitto e ci sono nume-rose testimonianze di relazioni commerciali tra l’Egeo equesto paese. La scrittura sull’argilla era il sistema adot-tato in Babilonia e nei regni limitrofi, dove le tavoletteerano cotte in fornace. Per incidere la scrittura cuneifor-me veniva usato uno strumento con un’estremità acuneo. Ma gli scribi egei preferivano uno stilo o stru-mento appuntito e può darsi che i documenti piú impor-tanti fossero scritti su altri materiali piú adatti ad unostrumento di questo tipo. Le tavolette d’altra parte, chepotevano essere prodotte piú facilmente ed economica-mente sul posto, servivano per gli appunti degli affariquotidiani ed è proprio questa la loro natura.

Come lo sappiamo? Lo dedusse Sir Arthur Evans daisegni pittorici sulle tavolette di Cnosso, riconoscibili

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come cavalli, carri, armi, ma fu solo in tempi recenti, eprecisamente nel 1952, che i numerosi tentativi di deci-frare lo scritto ottennero successo. Questo si dovette ingran parte al genio, all’acume, allo studio di un giovanearchitetto, Michael Ventris, assistito nel momento cri-tico del suo lavoro da un filologo di Cambridge, JohnChadwick. Per comprendere la grandezza del successosi deve tener conto che Ventris affrontava un compitomolto piú difficile di quello che si presentava a Cham-pollion nel districare l’enigma dei geroglifici egiziani, aGrotefend e Rawlinson nella decifrazione del cuneifor-me. Questi primi pionieri avevano l’aiuto di testi bilin-gui o trilingui e almeno conoscevano il gruppo linguisticocui apparteneva la lingua. L’egiziano antico, sebbenemolto modificato, viveva nella lingua copta; l’assiro e ilbabilonese erano chiaramente legati all’antico ebraico eai linguaggi semitici in generale. Ma Ventris dovevaaffrontare solo una scrittura, senza nessun indizio diquale lingua esprimesse.

Naturalmente molti avevano preceduto Ventris nellaricerca, ma senza successo. Lo stesso Sir Arthur Evansfu un pioniere e gettò le basi per la ricerca futura. Eglipoté dimostrare i diversi gradi di sviluppo dello scrit-to. Primo, i segni geroglifici rinvenuti principalmentesulle gemme cretesi e sulle pietre da sigilli, appartenentialla prima metà del ii millennio; si conoscono anchepoche tavolette con geroglifici. Secondo, una versionecorsiva e semplificata di questi segni, che Sir Arthurchiamò lineare A; questa compariva su tavolette (si dicecotte in fornace), vasi, pietra e bronzo. Infine una scrit-tura piú tarda e piú progredita strettamente simile allalineare A, che egli chiamò lineare B. Non si può dareuna datazione esatta per i periodi in cui queste scrittu-re furono in voga, ma si può dire che il lineare A sisovrappone agli scritti geroglifici e può essere entratoin uso fin dal xviii secolo, mentre sembra sia statoabbandonato nella prima metà del xv secolo. La linea-

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re B, che è quasi esclusivamente documentata su tavo-lette, comincia poco prima o subito dopo il 1400 a. C.Le ultime tavolette possono essere datate intorno al1200 a. C. La lineare B è l’unica forma di scritturaconosciuta in Grecia.

Nel suo studio del materiale Evans ha stabilito certipunti fondamentali; che le tavolette erano elenchi oresoconti, che si poteva chiaramente riconoscere unsistema numerico, che alcuni dei segni erano ideogram-mi (rappresentazioni degli oggetti indicati), e che altrisegni erano piú probabilmente sillabici. Adottò questadistinzione perché aveva notato che alcuni gruppi disegni erano separati da altri da barre verticali; quindiogni gruppo probabilmente rappresentava una parola dialtrettante sillabe. Evans non era in grado di affermarealtro oltre queste conclusioni generali. Molti dei suoiimmediati seguaci, meno cauti (e fra questi noti studio-si) si affidarono troppo alle congetture, scegliendo unalingua che potesse mostrare qualche affinità con lo scrit-to e cercando di far coincidere le due cose. In quasi tuttiquesti schemi mancava un metodo. Senza un’analisi det-tagliata delle iscrizioni c’erano poche speranze di suc-cesso. Uno dei pochi che tentarono un metodo fu l’a-mericana Alice Kober. Ella riuscí a dimostrare con la suaanalisi dei segni del lineare B che si trattava di un lin-guaggio declinato, in cui le parole hanno dei suffissivariabili per denotare il genere, il numero, ecc. (come illatino). Per esempio notò che la formula del totale pergli uomini e per certe classi di animali era diversa daquella usata per le donne e per altre classi di animali eciò suggerí una distinzione di genere. Ma il suo contri-buto maggiore alla decifrazione fu la dimostrazione checerte parole costituite di due, tre o piú segni sillabicipotevano avere due varianti aggiungendo un segnodiverso o cambiando il loro segno finale con un altrosegno (un esempio in inglese sarebbe wo-man, woman’s,wo-men). Queste variazioni sono citate dai cultori di lin-

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guistica come terzetti della Kober! Il professor EmmettL. Bennett jr fu un altro dei pochi ad usare un sistemascientifico. Oltre ad avere spiegato il sistema di pesi emisure usato nello scritto, il suo contributo piú impor-tante fu l’ordinamento e la classificazione di tutti i segnidella lineare B. La divisione dei segni in due classi, ideo-grafici e sillabici, fu chiarita anche da uno studio detta-gliato delle varianti ortografiche (la brutta grafia non ècosa nuova); egli poté cosí restringere il numero deisegni sillabici a poco meno di novanta.

Per affrontare il problema della decifrazione c’erauna via aperta, ma insidiosa. In Cipro si trova una scrit-tura simile che viene indicata come Cipro-minoica. Quisono state trovate solo poche tavolette, di cui la piú anti-ca pare databile all’inizio del xv secolo e ha affinità conla lineare A. Due caratteristiche di queste tavoletterichiedono un commento speciale. Veniva usato unostilo spuntato e le tavolette erano cotte sul fuoco. La tec-nica è perciò diversa da quella delle tavolette di cui stia-mo discutendo ed è piú strettamente legata a quelladelle civiltà dell’Oriente. Ciò non è strano se si tieneconto della posizione geografica di Cipro. Inoltre nel-l’isola dal vi al iii e ii secolo a. C. fu in uso un’altra scrit-tura, la cipriota classica che è ovviamente messa in rela-zione con il lineare B. Nella maggior parte dei casi senon in tutti, il greco era scritto cosí, perciò fu possibi-le la decifrazione. Sette dei segni sono simili o possonoessere identificati con altrettanti della lineare B e i valo-ri fonetici del sillabario cipriota sono noti. I segni rap-presentano o una vocale o una consonante piú vocale.Poiché questa è una scrittura sillabica e non alfabeticasi incontrano difficoltà nelle parole dove due o piú con-sonanti si susseguono l’una all’altra o dove una parolafinisce in consonante. Usando questa scrittura sillabicapastor dovrebbe essere sillabato pa-so-to-re.

La vocale finale di -re non dovrebbe essere pronun-ciata e neppure la o di so; queste dovrebbero essere con-

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siderate come vocali «morte». Ma la scelta del segno sil-labico -so (fra i cinque segni sillabici che cominciano per-s: -sa, -se, -si, -so, -su) è regolata e deve conformarsi allavocale del segno sillabico seguente, in questo caso la odi to. Cosí per prison la sillabazione dovrebbe essere pi-ri-so-ne (la vocale morta finale e sempre e). Un’ulteriorecomplicazione nel sillabario cipriota è che la n davantia una consonante non è scritta. Cosí contralto appari-rebbe co-ta-ra-lo-to. Dovrebbe essere chiaro da questoesempio che quello sillabario sarebbe un metodo moltogoffo di scrivere l’inglese. Lo è ancora di piú per ilgreco. La parola anthropos, uomo, deve essere scritta a-to-ro-po-se. Ora un numero molto considerevole di paro-le greche finisce in s e, poiché il segno sillabico cipriota-se è identico a uno dei segni della lineare B, dovrebbeessere facile dimostrare se la lineare B è un candidatoprobabile per il greco o no. Si trovò che il segno -se ricor-reva molto raramente come segno terminale nella scrit-tura lineare B. La conclusione naturale fu perciò che illinguaggio non era il greco.

L’opera preliminare, fondamentale ed essenziale con-dotta dalla Kober e dal Bennett fu di valore inestima-bile per Ventris che ora portava un nuovo elemento nel-l’affrontare il problema della decifrazione, una cono-scenza di criptografia. In teoria qualsiasi codice puòessere interpretato, purche vi sia abbastanza materialecodificato su cui lavorare. Una analisi dettagliata delmateriale potrebbe rivelare certi elementi ricorrenti eschemi fissi. Abbiamo già commentato quelle notatedalla Kober. Ventris poté aggiungere numerose osser-vazioni pregnanti. In base al materiale a disposizione,notevolmente accresciuto nel 1951 dalla trascrizione delBennett delle tavolette trovate a Pilo nel 1939, preparòdelle tavole statistiche che mostravano la frequenza com-plessiva di ogni segno. Egli poté dedurre, e qui ebbe lacollaborazione di Bennett e dello studioso greco Kti-stopoulos, che tre di questi segni erano probabilmente

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vocali dal fatto che si trovavano di solito all’inizio digruppi di segni. Un suffisso venne provvisoriamenteidentificato come la congiunzione e usata come il -quelatino. Vennero notate altre varianti di flessione di paro-le identificate come nomi e poiché alcune di questericorrevano con l’ideogramma di uomo e donna, si potévedere che in questi casi la variante era spesso di gene-re piuttosto che di caso.

I dati relativi accumulati furono da lui disposti informa di tabella, in quella che chiamava la «rete». Larete era continuamente rivista e risistemata. In una dellesue ultime forme consisteva in un complesso di quindi-ci file di consonanti e di cinque colonne di vocali. Poi-ché nessuna delle consonanti o vocali era nota, c’eranosemplicemente dei numeri. In questi settantacinquespazi vennero disposti i segni sillabici piú spesso ricor-renti nel lineare B (cinquantuno su un totale possibiledi novanta) sulla base dei dati statistici raccolti in pro-posito. Se il sistema era giusto e i dati identificati cor-rettamente, i segni nella stessa colonna avrebbero dovu-to contenere la stessa vocale e i segni nella stessa rigaavrebbero dovuto cominciare con la stessa consonante.Perciò se i valori fonetici anche solo di pochi segni sil-labici avessero potuto essere stabiliti, il valore degli altrisarebbe risultato automaticamente dalla rete.

Abbiamo già ricordato che sette dei segni del silla-bario cipriota potevano essere identificati con segni dellineare B; era perciò possibile fare un esperimento conil valore fonetico cipriota di questi segni: Ventris feceproprio questo. Inoltre egli aveva concluso dalla posi-zione costantemente ricorrente di certi gruppi di segninelle tavolette che questi segni-gruppi rappresentavanonomi di località. Lavorando su queste due supposizio-ni fece delle prove con antichi nomi di luogo. Per letavolette di Cnosso la scelta venne fatta naturalmentetra i nomi cretesi noti ai tempi classici o menzionati daOmero (Cnosso stessa, Amniso un porto lí accanto, e

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Tulisso) e questi poterono essere riconosciuti nelleseguenti divisioni sillabiche: Ko-no-so, A-mi-ni-so, Tu-ri-so. Queste identificazioni erano certamente validenella convenzionale divisione sillabica cipriota, essen-do le doppie consonanti (Rm, mn) risolte in sillabe. Lari invece di li in tu-ri-so (Tulisso) non era una difficoltà.Ventris si era già accorto che r ed l erano intercambia-bili, come in molte lingue tra cui l’antico egizio. Unanotevole differenza dal cipriota è che la s finale non èscritta. Ugualmente l, m, n, r, s sono tralasciate alla finedi una parola o quando precedono un’altra consonan-te, e ci sono altre regole di ortografia imposte dal deci-framento che non corrispondono con le convenzionicipriote.

Il risultato di queste prove era promettente, ma nonprovvedevano però alcun indizio circa la lingua celatanello scritto. L’opinione personale di Ventris era che lalingua fosse l’etrusco e fino all’ultimo egli tentò delleconclusioni in tal senso. Fu solo per «una frivola digres-sione» (sono le sue parole) che allo stadio finale delladecifrazione fece un tentativo con il greco. Con suagrande sorpresa con il greco molte delle tavolette ave-vano un senso. È vero che almeno altrettante rimane-vano incomprensibili, ma se la lingua era veramente ilgreco, era necessariamente una forma molto arcaica dellalingua documentata nella lineare B cinquecento anniprima di Omero, e il greco di Omero è già arcaico. Sela lingua era il greco, ci si aspettava di trovare molti diquesti arcaismi omerici adombrati nei testi della lineareB, e il fatto che questi siano stati realmente riscontraticontribuí molto all’accoglienza favorevole accordatadalla maggior parte degli studiosi alla rivelazione rivo-luzionaria del Ventris. Basta ricordare le contese e lecontroversie che sorsero quando si annunciò il successoottenuto con la decifrazione della scrittura cuneiformee dei geroglifici egiziani per meravigliarsi del consensoe degli applausi che salutarono questo successo ben piú

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spettacolare e polemico. Ci furono naturalmente delleopposizioni, ma prima che potessero assumere formadistinta, venne alla luce una prova di notevole impor-tanza critica.

Circa nello stesso tempo in cui Ventris giungeva allasoluzione del problema della lineare B, venne scopertaa Pilo una tavoletta che confermò l’esattezza del suosistema. Era una delle quattrocento che furono scoper-te durante gli scavi del 1952. All’inizio dell’anno suc-cessivo esse vennero ripulite e studiate ad Atene dal pro-fessor Blegen che le aveva trovate. Egli esperimentò sualcune il sillabario di Ventris e con una ottenne risulta-ti sorprendenti. Era una tavoletta con un inventario ditripodi e di vasi di vario tipo, alcuni con quattro mani-ci, alcuni con tre e uno senza; i diversi ideogrammi usatinei vari casi chiarirono la cosa. Ma ogni ideogramma erapreceduto da una descrizione e, sebbene non di tutte leparole della descrizione il significato fosse evidente, adalcuni si potevano dare i seguenti valori fonetici (e nes-sun altro) secondo il sillabario di Ventris: ti-ri-po, que-to-ro-we, ti-ri-o-we. Solo la parola ti-ri-po appare con ilsegno del tripode. Seguendo le regole di ortografia giàdimostrate, questa è chiaramente la parola greca tripos,cioè tripode. O-we, che si incontra in tre delle altreparole su citate, significa «con orecchie», la parola«orecchio» è normalmente usata in greco per indicare ilmanico di un vaso. Nelle parole su citate si trova unitaa quetro (greco tetra, latino quattuor), tri (come in tripos)e an, il prefisso negativo greco, cioè senza manici. Chele parole su citate si presentassero solo con gli ideo-grammi a cui si riferiscono, non poteva verificarsi perpura coincidenza. La fondamentale esattezza della deci-frazione della lineare B come di una forma arcaica delgreco fu perciò confermata e la pubblicazione di questatavoletta nel 1953 serví a convincere molti di coloro chefino ad allora erano solo parzialmente d’accordo. Manon convinse tutti, e ancora oggi c’è una piccola mino-

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ranza di studiosi che non accetta la decifrazione. Nono-stante ciò, l’esponente piú famoso di questa corrente, ilprofessor Beattie, apprezza pienamente le incerte con-clusioni della tavoletta del tripode e ciò deve esserespiegato in qualche modo. Egli perciò è stato condottoal disperato espediente di suggerire che Ventris cono-sceva questa tavoletta prima di arrivare alla sua solu-zione finale. Una simile ipotesi non solo è indegna, macompletamente priva di fondamento.

Come spiegare l’opposizione, per quanto diminuita,all’idea che la lineare B sia greco? Le obbiezioni riguar-dano difficoltà di traduzione riconosciute. Molte paro-le ancora oggi non danno un senso e, tenendo contodella grande varietà di possibili alternative di lettura, incerti casi, non si può sempre essere sicuri della formagreca di queste parole in dubbio... Si è argomentato chenessuno scriba avrebbe potuto essere intelleggibile perun altro con una scrittura cosí elastica. Per esempio ilsegno per ka può rappresentare almeno settanta sillabediverse: ka, ga, kha, kas, kan, ecc... È vero, ma non ècerto questo il caso di tutti i segni sillabici e i segni nonerano letti isolati, ma in combinazioni formanti parole.Certe combinazioni ricorrono con grande frequenza.Spesso ad aiutare la memoria esitante si incontra un pit-togramma. Ma vi sono molti casi nelle nostre stesse lin-gue in cui abbiamo la scelta fra letture diverse. Unaparola come «invalido» ammette due significati e duediverse pronunce... Come lo scriba miceneo possiamoesitare un momento prima di fare una scelta, in ultimaanalisi sono la conoscenza e il contesto a decidere.

Se oggi è generalmente accettato, almeno dal maggiornumero di famosi studiosi greci, che la lingua dellalineare B è il greco, si deve ammettere che il materialescritto valutabile sotto questo punto di vista è limitatoin quantità e qualità. Qual è la qualità? Per lo piú,inventari e cataloghi, inventari di provviste, bestiamee prodotti agricoli; cataloghi di uomini, donne e bam-

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bini. Di questa ultima categoria una gran parte del testoè costituito da nomi propri e dalle occupazioni degliindividui in questione. Almeno il sessantacinque percento dei gruppi di segni sono nomi propri... Circa due-cento o giú di li sono quasi certamente nomi di località,sebbene solo una parte di queste possa essere geografi-camente identificata. Sono state studiate circa tremila-cinquecento tavolette e queste hanno fornito un voca-bolario totale di seicentotrenta parole, di cui circa ilquaranta per cento può essere letto con una discretasicurezza. Il numero dei testi che contengono frasi diuna certa lunghezza è limitato e di conseguenza sonopoche anche le nostre nozioni di grammatica e sintassi.Queste sono le tavolette di «carri» «possedimenti ter-rieri» e «arredamento». È necessario mettere in risaltoqueste limitazioni per mantenere un certo senso di pro-porzione. La decifrazione della lineare B ha allargatoconsiderevolmente la nostra prospettiva della civiltàmicenea, ma non possiamo sempre essere certi di avercentrato il bersaglio.

The Mycenaeans, 1964

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parte terza Il libro delle Piramidi

auguste mariette Il turista e i monumenti

Auguste-Ferdinand-François Mariette (1821-81) nacque a Bou-

logne. Si recò in Egitto per la prima volta nel 1850 con l’in-

carico di cercare e comperare per la collezione nazionale tutti

i manoscritti reperibili in lingua copta, siriaca, araba ed etio-

pica, ma egli abbandonò ben presto questa missione e si diede

attivamente ad esplorare e scavare monumenti antichi. Dopo

aver scoperto il Serapeo, dove venivano sepolti i sacri buoi di

Api, spese i quattro anni successivi scavando ed inviando i suoi

reperti al Louvre, di cui al ritorno venne nominato vice diret-

tore. Nel 1858 fu nominato conservatore dei monumenti egizi

e si trasferí con tutta la famiglia al Cairo. Fra le molte località

che egli esplorò minuziosamente compaiono Menfi e le piramidi

di Saqqara, Meidum, Abido e la necropoli di Tebe, Karnak,

Madinat Habu e Dair al-Bahri e il tempio rimasto a lungo

nascosto da mucchi di sabbia tra le zampe della Sfinge. I suoi

inestimabili contributi all’archeologia gli ottennero dagli Egi-

ziani i titoli successivi di Bey e Pascià.

Non occorre diffondersi sull’importanza dei monu-menti che coprono le sponde del Nilo. Essi testimonia-no l’antica grandezza dell’Egitto e sono, per cosí dire,gli stemmi della sua antica nobiltà. Agli occhi degli stra-nieri rappresentano le pagine strappate dagli archividella piú gloriosa nazione del mondo.

Ma quanto piú alta è la stima in cui teniamo i monu-menti dell’Egitto, tanto maggiore è l’impegno a conser-varli con cura. Dalla loro conservazione dipende in gran

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parte il progresso di quegli interessanti studi che hannoper oggetto la storia dell’antico Egitto. Inoltre sonodegni di essere conservati non solo nell’interesse di quel-li tra noi che li apprezzano, ma anche per amore degliegittologi futuri. Fra cinquecento anni l’Egitto dovràessere in grado di mostrare agli studiosi che lo visite-ranno gli stessi monumenti che descriviamo noi oggi. Ilcumulo di informazioni già ottenute decifrando i gero-glifici, sebbene questa scienza sia appena ai primi passi,è già immenso. Che cosa sarà quando alcune generazio-ni di studiosi avranno esaminato quelle mirabili rovinedi cui si può giustamente dire che quanto piú sono cono-sciute tanto piú ripagano la fatica spesa per loro?

Per questo preghiamo caldamente e ripetutamentetutti i visitatori dell’alto Egitto di astenersi dall’abitu-dine infantile di scrivere i loro nomi sui monumenti. Sequalcuno per esempio visita la tomba di Tih a Saqqaranoterà che in realtà questa tomba ha sofferto piú danninegli ultimi dieci anni per mano dei turisti che non neiprecedenti seimila anni della sua esistenza. La bellatomba di Seti I a Babel-Molouk è quasi completamentedeturpata e non possiamo far altro per impedire che ilmale aumenti. Ampère, che visitò l’Egitto nel 1844, haforse calcato la mano nelle seguenti righe estratte dal suodiario; comunque le trascriveremo per mostrare a qualeobbrobrio si espongono quei viaggiatori che incidonosconsideratamente il proprio nome sui monumenti. «Laprima cosa che colpisce chi si avvicina al monumento(colonna di Pompeo) è il gran numero di nomi tracciatia caratteri cubitali dai viaggiatori che hanno cosí impru-dentemente inciso un segno della loro nullità su unacolonna veneranda. Nulla può essere piú sciocco di que-sta mania ereditata dai Greci, che deturpa i monumen-ti quando non li distrugge completamente. In molti luo-ghi sono state spese ore di paziente lavoro per incideresul granito le grandi lettere che lo deturpano. Comepuò un essere umano preoccuparsi tanto di far sapere al

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mondo che un individuo, perfettamente sconosciuto,ha visitato un monumento e che questo individuo sco-nosciuto lo ha mutilato?» Raccomandiamo la lettura diqueste righe al giovane viaggiatore americano che nel1870 visitò tutte le rovine dell’Alto Egitto con un reci-piente di catrame in una mano e un pennello nell’altra,lasciando su tutti i templi la traccia indelebile e davve-ro orribile del suo passaggio.

Non abbiamo consigli da dare a quei viaggiatori chedesiderano comperare oggetti antichi e portarseli a casacome souvenir della loro visita all’Egitto. Ne troveran-no a Luxor piú di una ottima fabbrica. Ma ai viaggia-tori che desiderano veramente trarre qualche utilità dalproprio viaggio, raccomanderei la ricerca dei papiri.Infatti nel campo dei monumenti non c’è nulla di piúprezioso di un papiro. Si sa con una certa approssima-zione che cosa ci si può aspettare da un tempio o da unatomba, ma con un papiro si è nell’oscurità piú comple-ta. In realtà può darsi che si scopra un papiro che sidimostrerà piú importante di un intero tempio; e certose in egittologia si facesse mai una di quelle scoperte cheprovocano una rivoluzione nel mondo scientifico, ilmondo la dovrebbe a un papiro.

Poiché in Egitto sono vietati tutti gli scavi e non è maistato concesso alcun permesso, si potrebbe immaginareche le occasioni di acquistare papiri non si presentinomai. Invece le cose non stanno cosí. Tutti i viaggiatorinell’Alto Egitto avranno visto dei fellah che lavorano frale rovine dove i muri di mattoni crudi si stanno sbricio-lando. Cercano la polvere creata dal disfacimento deimattoni, che essi usano per concime. Comunque qua ela può loro arridere la buona fortuna e non è un fattoinsolito che un papiro venga ritrovato in mezzo a questoconcime. Non si deve poi dimenticare che, malgradotutte le proibizioni, si fanno ricerche clandestine, spe-cialmente a Tebe, e anche per questa via si sono scoper-ti, fra molti altri monumenti ,anche dei papiri. Sta al

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viaggiatore fare ricerche e interrogare sull’argomentonon solo a Tebe, ma in tutte le stazioni dove ferma ildahabeah. La bella collezione di Mr Harris ad Alessan-dria venne creata proprio in questo modo, e Madamed’Orbiney comprò per puro caso il papiro, attualmenteal Museo Britannico, che ha reso famoso il suo nome.Allo stato attuale dell’egittologia non si può rendere allascienza un servizio maggiore di quello di salvare qualsiasipapiro caduto accidentalmente nelle mani dei fellah, eche, presto o tardi, andrebbe completamente perduto, senon sarà cosí salvato dalla distruzione.

Monuments of Upper Egypt, 1877

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johann ludwig burckhardt Scavi in Egitto

Johann Ludwig Burckhardt (1784-1817) nacque a Losanna e

compí gli studi in Germania. Visitò l’Inghilterra con lettere di

presentazione per il presidente della Royal Society che era anche

il fondatore dell’Associazione africana. Dopo aver studiato tre

anni a Londra e a Cambridge venne inviato in Siria dall’Asso-

ciazione a studiare la lingua e i costumi arabi per prepararsi ad

un viaggio di esplorazione nelle regioni a sud del Sahara.

Cosí fece e nel 1812 arrivò al Cairo ma, non riuscendo a tro-

vare una carovana adatta per la meta che si era proposto, risalí

invece il Nilo, verso est da Shendi a Suakin e di lí alla Mecca

ed a Medina, attraverso Suez ritornò al Cairo dove arrivò nel

1815. Vi rimase due anni e morí senza aver mai compiuto la

spedizione nel Sahara.

Sarete contento di sentire che la colossale testa teba-na, dopo molte difficoltà, è finalmente arrivata sana esalva ad Alessandria. Il signor Belzoni, che si è offertodi eseguire questa missione, l’ha condotta a termine congrande spirito, intelligenza e perseveranza. La testaattende ora ad Alessandria un mezzo di trasporto adat-to per Malta. Mr Salt ed io abbiamo sostenuto insiemele spese e il signor Belzoni si è accollato tutti i fastididell’impresa e io desidererei che il suo nome fosse ricor-dato se i nostri lo saranno in questa occasione, perchéegli fu mosso da spirito di solidarietà tanto quanto noi.La commissione non deve avere alcun timore che que-sta transazione abbia reso il mio nome noto in Egitto,

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il che sarebbe certamente accaduto se si fosse saputo cheio prendevo parte allo affare. Gli abitanti del Cairo loattribuiscono interamente a Mr Salt e al signor Belzoniche, dicono, mandano la testa in Inghilterra per ricupe-rare i gioielli inestimabili che contiene.

La permanenza in Egitto di studiosi francesi non hainsegnato loro a formarsi delle opinioni migliori e lo stes-so tipo di credenze che ha indotto lo sceicco di Tedmora impedirmi di portar via un piccolo busto mutilato, tro-vato presso il portico di Palmira, opera ancora in ogniparte dell’Egitto.

I contadini di Gourne mi riferirono che i Francesi ave-vano tentato invano di portare via questa testa; aveva-no anche praticato un buco nella parte inferiore del bustoper raschiare via una parte della pietra e renderla cosí piútrasportabile. Ignoro perché abbiano abbandonato il pro-getto, ma è abbastanza curioso notare che nel disegno diquella testa che hanno pubblicato nella loro grande opera,l’hanno rappresentata come sarebbe stata probabilmen-te dopo la distruzione della parte inferiore.

Le scoperte del signor Belzoni nell’Alto Egitto sonotroppo interessanti per non meritare qui una segnala-zione. Egli ha ripulito per metà dalla sabbia che loostruiva il tempio di Ebsambal in Nubia. Il frontespi-zio del tempio che è stato cosí scoperto è pieno di gero-glifici; dei quattro colossi che vi si ergono davanti la fac-cia di uno solo (di cui ho fatto cenno nel mio diario) èintatta; una delle altre tre è stata ridotta per le mutila-zioni ad un puro ammasso di roccia.

Dietro Gourne egli ha scoperto una nuova tombaregale, distante circa un miglio dalla piú occidentale«tomba isolata» come l’hanno definita i Francesi nellaloro mappa. Egli afferma che è bella e piú grande diqualsiasi altra, con un sarcofago all’interno. Tutti gliaffreschi sono eseguiti sopra uno stucco bianco, pocoaderente al muro, per cui è facile rimuoverli.

Scavando a Gourne nella pianura tra Memnonium. e

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Madinat Habu, ad ovest dei due colossi seduti, a circamezzo miglio di distanza trovò una testa colossale di gra-nito, mutilata, di dimensioni molto maggiori di quellache portò via o di ogni altra di Tebe, dato che misuradai tre ai sei metri di larghezza frontale.

Ricordate il piccolo stagno nel recinto della parte piúinterna del tempio di Karnak, verso Luxor, che circon-da su tre lati un piccolo rialzo dei terreno. Qui c’era unafila di Androsfingi o come altro si possono chiamare, chei Francesi hanno dissotterrate e William Banks l’annoscorso ha portato via le due migliori. Scavando piú in làsulla stessa linea in cui si ergevano le statue, il signorBelzoni ne ha scoperte altre diciotto di forma simile madi esecuzione molto piú raffinata, tutte in ottimo statodi conservazione. Egli ne ha portate sei a Salt che lo hasovvenzionato con il preciso scopo di fornirgli oggettiantichi; inoltre gli ha affidato il compito di portare viala testa. Accanto a queste figure ha trovato un’altra sta-tua, di arenaria dura a grana grossa; è una figura nudaa grandezza naturale, seduta su una sedia con una testadi ariete sulle ginocchia; la faccia e il corpo sono interi,i capelli a treccia cadono sulle spalle. Questa è una dellepiú belle, anzi oserei dire la piú bella statua egizia cheabbia mai visto; l’espressione del volto è squisita e iocredo sia un ritratto. Dal buono stato di conservazionedi tutte queste figure, che è cosí raro in Egitto, Belzo-ni deduce che gli Egizi abbiano usato questa località pernascondere i loro idoli quando i Persiani vennero adistruggerli ed egli spera, recandosi una seconda volta aTebe, di trovare nello stesso luogo altri tesori. Egli hatrovato anche a Karnak il monumento quadrilatero configure in alto rilievo su tre lati, di cui i Francesi parla-no cosí a lungo nella loro opera e di cui hanno pubbli-cato un disegno. Ma è un luogo completamente diversoda quello che essi hanno indicato, perché Belzoni lo hatrovato sotto il livello di campagna molto a est del-l’adytum di Karnak. È stato costretto a lasciarlo, con

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una dozzina di sfingi, sulle rive del fiume, presso Kar-nak, essendo già la barca sovraccarica. Credo che la solatesta pesi da dodici a quindici tonnellate inglesi.

Belzoni, che è tanto intraprendente quanto intelli-gente, spirito elevato e disinteressato, ci informa inol-tre di aver dissotterrato il colosso indicato dai Francesinella loro mappa di Karnak sul lato nordoccidentale delgià citato stagno, contraddistinto con il nome di «Colos-se renversé». Egli lo ha rimesso in piedi e ha scopertoche si tratta di un torso senza testa e senza piedi, lungooltre nove metri, di buona officina: egli dice di nonaver visto nulla in Egitto, neppure la nostra testa, diparagonabile a questa opera per la sua fedele imitazio-ne della natura non fatta nel solito rigido stile, ma secon-do le migliori regole d’arte.

Se Belzoni avesse avuto a sua disposizione una barcadal fondo piatto, assicura che sarebbe riuscito a tra-sportare uno dei piccoli obelischi di File, lungo oltresette metri. Egli maneggia massi di questo tipo con lastessa facilità con cui altri maneggiano ciottoli e gli egiziche lo vedono di statura gigantesca, è alto un metro enovantasette, lo ritengono uno stregone. Il lavoromanuale è cosí a buon mercato nell’Alto Egitto che conpoco denaro si fa molta strada; la paga quotidiana di unfellah è di circa quattro pence; sebbene intorno allanostra testa siano stati occupati circa un centinaio di fel-lah per molti giorni e nonostante solo la barca ci siacostata cento sterline e che abbiamo fatto un dono a Bel-zoni, piccolo in verità ma quale le nostre condizioni celo permettevano, la spesa totale da noi sostenuta fino adAlessandria non ammonta a trecento sterline e l’interaspedizione di Belzoni è costata circa quattrocentocin-quanta pounds. Il Pascià dell’Egitto è ancora fortuna-mente all’oscuro del valore di queste statue, altrimentiimiterebbe con ogni probabilità Wely, pascià dellaMorea, e chiederebbe un diritto di passaggio perché egliestende le sue estorsioni su tutto quanto l’Egitto pro-

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duce, e si abbassa perfino ad appaltare il commerciodello sterco di cammello e di pecora. Belzoni, che ènoto in Inghilterra come ingegnere idraulico ed è ammo-gliato con una inglese che lo ha accompagnato in Egit-to, entrò l’anno scorso al servizio del pascià come mec-canico, ma non essendo in grado di tener testa agli intri-ghi di una corte turca e troppo onesto per parteciparvi,è stato esonerato all’incarico come incapace e deve anco-ra ricevere lo stipendio di cinque mesi. Cosí il pasciàincoraggia gli artigiani europei. Essi sono allettati al suoservizio dai suoi emissari nel Mediterraneo, ma devonoben presto rimpiangere la propria credulità.

Troverete nelle note che accompagnano la mia tradu-zione di Macrizi il resoconto di alcune altre scoperte moltointeressanti, nelle montagne orientali dell’Alto Egitto; ilmese scorso l’antica e cosí spesso visitata piramide diGjzeh fu esaminata cosí minuziosamente che sono venutialla luce molti nuovi elementi curiosi. Caviglia, un italia-no, e Kabitch, un tedesco, stabiliti colà, hanno concepitoil progetto di esplorare il pozzo nella grande piramide. Nelcorso dell’operazione hanno scoperto che una continua-zione del corridoio discendente conduce a una camerasotto il centro della piramide e hanno trovato che nessunaltro pozzo scende nel passaggio.

Da varie circostanze sono stato indotto a credere chequesta continuazione appena scoperta del corridoiod’entrata sia stata aperta al tempo del califfo che feceviolare la piramide e che dopo d’allora sia sempre statachiusa. Se devo credere a Sherif Edrys, autore di unastoria delle piramidi, libro, credo, sconosciuto in Euro-pa e che ho acquistato qui, poco tempo fa, l’interno dellapiramide è pieno di passaggi e di stanze e parecchi sar-cofagi non sono ancora stati scoperti. Questo autorescriveva nel xii secolo ed esaminò lui stesso minuta-mente la piramide.

Travels in Nubia, 1819

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dominique vivant denon Una visita a Tebe

Dominique Vivant, barone Denon (1745-1825) nacque a Cha-

lon-sur-Saône e studiò legge a Parigi. Era un uomo assai dota-

to e versatile, si dedicò quindi alle arti e alle lettere, scrivendo

a soli ventidue anni una commedia di successo; in seguito col-

tivò il disegno e la pittura. Ottenne il favore dei circoli di corte

e portò a termine parecchie missioni, sia diplomatiche che arti-

stiche, per Luigi XV. Allo scoppio della rivoluzione era in

missione a Napoli, ma tornò immediatamente in Francia dove

riuscí a salvarsi, malgrado i suoi legami con l’aristocrazia, gra-

zie alla protezione del famoso pittore David. Napoleone, la cui

mente universale non trascurò nulla che potesse contribuire alla

grandezza della Francia, invitò Denon a far parte del gruppo di

studiosi che seguí l’esercito in Egitto per studiare le antichità

ed egli descrisse e disegnò meticolosamente quanto vide, spes-

so impegnandosi nel suo lavoro con la massima freddezza nel

bel mezzo di una grande battaglia. In seguito fu nominato

direttore generale dei Musei e seguí alcune altre campagne con

lo stesso incarico.

Arrivammo nel territorio di Tebe verso mezzogiornoe scorgemmo a tre quarti di lega dal Nilo le rovine di ungrande tempio, di cui nessun viaggiatore ha mai fattomenzione e che può dare un’idea dell’enorme estensio-ne della città, poiché, supponendo che questo edificiofosse l’ultimo sul lato orientale, esso dista piú di dueleghe e mezzo da Madinat Habu, dove osservammo iltempio piú occidentale. Era questa la mia terza visita a

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Tebe, ma, come se il fato avesse stabilito che io doves-si avere invariabilmente fretta, non potei vedere chemolto superficialmente ciò che aveva invece per me unprofondo interesse; mi limitai perciò a stendere un breveresoconto di ciò che vidi e a prendere pochi appunti suciò che avrei voluto annotare in una visita successiva,ammesso che fossi piú fortunato. Desideravo accertarese a Tebe le arti avevano avuto diverse epoche e una cro-nologia. Se mai esistette un palazzo in Egitto, le suerovine vanno cercate a Tebe, poiché questa è stata lacittà piú importante e se ci furono in realtà delle epo-che nelle arti, sarà piú facile rintracciarle in questa capi-tale perché lusso e magnificenza si staccano progressi-vamente dalla semplicità, procedendo di pari passo conl’opulenza e l’abbondanza. Alla fine arrivammo a Kar-nak, un villaggio costruito in una piccola parte dell’areadi un solo tempio la cui circonferenza, come è statodetto, richiede circa una mezz’ora per essere percorsatutta. Erodoto, che non lo visitò ci ha però dato un’i-dea esatta della sua grandezza e magnificenza. Diodoroe Strabone, che lo esaminarono solo allo stato di rovi-na, sembra ne abbiano descritto le condizioni attuali etutti i viaggiatori che li hanno imitati hanno scambiatouna estensione di masse per belle proporzioni e, lascian-dosi sorprendere piú che dilettare da un esame dellerovine piú grandi dell’universo, non hanno osato prefe-rire il tempio di Apollinopolis ad Etfu, quello di Tinty-ra, o il semplice portico di Esneh a tali rovine. I templidi Karnak e Luxor furono probabilmente eretti al tempodi Sesostri, quando le fiorenti condizioni economichedell’Egitto favorivano la nascita delle arti, e quandoqueste arti apparivano forse per la prima volta ad unmondo meravigliato. La ricchezza portò immediata-mente l’ambizione di costruire colossi; allora non sisapeva che la perfezione artistica conferisce una gran-dezza indipendente dalle proporzioni relative: di primoacchito non è infatti facile ammettere che la piccola

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rotonda di Vicenza sia un edificio piú notevole di SanPietro a Roma, e che la scuola chirurgica a Parigi sia, sti-listicamente, grandiosa quanto il Panteon della capitalefrancese; oppure che un cammeo possa essere superiorea una statua colossale. A Karnak si può perciò notaresolo la suntuosità degli Egizi che qui riunirono insiemenon solo intere cave, ma montagne e le scolpirono inmassicce proporzioni, mentre i singoli elementi sonoeseguiti in maniera debole e appaiono goffi; inoltre que-ste masse sono coperte di bassorilievi ordinari e gero-glifici senza gusto, barbari quanto la scultura di per sé.Gli unici oggetti sublimi, sia per proporzioni che per lafinezza della lavorazione, sono gli obelischi e pochi restidelle porte esterne il cui stile è davvero mirabile. Se inaltre parti di questo edificio gli Egizi ci appaiono deigiganti, in questi ultimi sono dei geni. Perciò io sonoconvinto che questi sublimi abbellimenti siano statiaggiunti in seguito ai monumenti colossali. Non si puòcomunque negare che la pianta del tempio sia nobile egrandiosa. Ma in architettura le belle piante hanno inva-riabilmente preceduto la perfetta esecuzione delle sin-gole parti e sono sopravvissute per alcuni secoli alla lorodecadenza, come risulta evidente almeno dal paragonedei monumenti di Tebe con quelli di Esneh e di Tinty-ra e come risulta dal paragone degli edifici del regno diDiocleziano con quelli dell’età aurea di Augusto.

Alle descrizioni già note di questo grande edificio diKarnak devo aggiungere che era solo un tempio, e nonpoteva essere altro. Ciò che esiste ancora oggi appartie-ne ad un piccolissimo santuario, ed era stato cosí dispo-sto per suscitare un adeguato spirito di venerazione e performare una specie di tabernacolo. Mentre si esamina ilcomplesso di queste rovine l’immaginazione si stanca alsolo pensiero di descriverle.

Il solo portico del tempio contiene un centinaio dicolonne; le piú piccole hanno un diametro di due metrie quaranta e le piú grandi di tre metri e trentacinque.

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Comprendeva nel suo perimetro laghi e montagne, men-tre viali di sfingi giungevano proprio fino alle porte. Inbreve, per farsi un’idea adeguata di una tale magnifi-cenza, è necessario che il lettore immagini che ciò chegli sta di fronte è un sogno, perché nemmeno vedendo-lo può credere ai propri occhi. Occorre però osservareche allo stato attuale una gran parte dell’effetto va persoper il pessimo stato di conservazione. Le sfingi sonostate scioccamente abbattute, ma il vandalismo, stancodi distruggere ne ha risparmiato alcune ed esaminando-le è facile notare che alcune avevano testa femminile,altre di leone, di ariete, di toro. La strada che conduceda Karnak e Luxor era appunto un viale di questo tipo;e per la lunghezza di mezza lega si osserva una continuasuccessione di queste figure sparse a destra e a sinistracon frammenti di muri di pietra, di piccole colonne e distatue. Essendo questa zona al centro della città, nellaparte meglio esposta, c’è ragione di supporre che il palaz-zo dei re o dei dignitari sorgessero qui; ma sebbenealcune trame sembrino convalidare questa ipotesi, essanon è provata da alcuna magnificenza straordinaria.

Luxor, il piú bel villaggio in questi dintorni, èanch’esso costruito sulle rovine di un tempio, non cosígrande come quello di Karnak, ma in miglior stato diconservazione, poiché il tempo non ha ancora distruttoi massi, e non sono caduti sotto il proprio peso. Gli ele-menti piú colossali sono costituiti da quattordici colon-ne di dieci piedi di diametro e da due statue di granitodella porta esterna, seppellite sino a metà braccia, difronte alle quali sorgono i due obelischi piú grandi emeglio conservati di tutto il paese. È senza dubbio lusin-ghiero per il fasto di Tebe che la piú ricca e potenterepubblica del mondo non avesse mezzi sufficienti néper spezzare né per trasportare questi due monumenti,che non sono se non frammenti di uno dei numerosi edi-fici di questa sorprendente città.

Una peculiarità del tempio di Luxor è un argine, for-

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nito di una fiancata e facciata di bastione, che difende-va la parte orientale vicina al fiume dai possibili dannidelle inondazioni.

Questa opera difensiva, riparata piú volte e alzata conmattoni, dimostra che il fiume non ha cambiato letto; eil suo stato di conservazione prova anche che il Nilo nonè stato mai munito di altri argini poiché in città non sisono trovate altre tracce di costruzioni del genere.

L’entrata del villaggio di Luxor mostra una stranamescolanza di miseria e di magnificenza e mi ha lascia-to un’idea grandiosa della successione delle età in Egit-to. Esso mi sembra il gruppo piú pittoresco e la rap-presentazione piú sorprendente della storia dei tempi;mai i miei occhi e la mia immaginazione furono cosí for-temente colpiti come alla vista di questo monumento.Andavo spesso a meditare in quel luogo, a gioire delpassato e del presente, a paragonare generazioni suc-cessive di abitanti mediante le loro rispettive opere cheavevo davanti a me e a imprimermi in mente volumi dimateriale per meditazioni future. Un giorno lo sceiccodel villaggio mi si accostò mentre sedevo su queste rovi-ne e mi chiese se erano stati i Francesi o gli Inglesi aderigere i monumenti; questa domanda pose fine allemie riflessioni.

Ci sono due obelischi di granito rosa che sporgonoancora piú di due metri sul piano di campagna e, a giu-dicare dalla profondità cui sembra che le figure sianocoperte, possiamo supporre che altri novanta centime-tri siano nascosti; questi monumenti raggiungerebberoquindi un’altezza totale di circa tre metri. Il loro statodi conservazione è perfetto, i geroglifici che li coprono,intagliati in profondità e in rilievo in basso, testimo-niano la mano sicura di un maestro. Che ammirabileincisività doveva possedere chi riuscí a incidere materialicosí duri! Quanto tempo occorse per un simile lavoro!Quali congegni per estrarre simili blocchi dalle cave, pertrasportarli fin qui e per rizzarli! Ci sono anche due

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colossi dello stesso materiale, ma consunti e sciupati;eppure le parti superstiti mostrano che essi furono rifi-niti in modo squisito. Possiamo qui notare che gli anti-chi Egizi conoscevano l’uso di forare le orecchie, poichéqueste statue mostrano ancora il segno di perforazioniauricolari. I due grandi blocchi che formano la portasono coperti di sculture con rappresentazioni di batta-glie fra carri disposti in file, trascinati da due cavalli econ un solo guerriero.

Nulla può essere piú grandioso della porta che abbia-mo appena menzionato, né piú semplice dei pochi ele-menti di cui si compone questa entrata. Nessuna cittàoffre all’ingresso uno spettacolo cosí superbo, come que-sto miserabile villaggio di due o tremila abitanti chehanno costruito le loro abitazioni sui tetti e sotto le gal-lerie del tempio che tuttavia conserva il suo aspettodesolato.

Mentre ero intento a tracciare una pianta, la nostracavalleria era impegnata con un gruppetto di Mameluc-chi sparsi, di cui due furono uccisi e gli altri si salvaro-no a nuoto attraverso il fiume, lasciando dietro a séarmi, cavalli ed equipaggiamento.

Travels in Upper and Lower Egypt, 1802

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giovanni battista belzoni L’apertura di una piramide

Giovanni Battista Belzoni (1778-1823) nacque a Padova e

cominciò la sua sorprendente carriera in un circo come uomo

forzuto. In questa qualità viaggiò a lungo e nel 1815 rivelò un

altro aspetto della sua indole versatile quando andò in Egitto ad

offrire al governo una macchina idraulica per irrigazione da lui

inventata. La sua offerta non fu accettata, ma le sue doti di inge-

gnere vennero sfruttate quando, grazie all’influenza del conso-

le britannico, gli venne affidato l’incarico di recarsi a Tebe per

sovrintendere al trasporto per il Museo Britannico della testa

della statua di Ramesse II, nota come colosso di Memnone. Il

successo di questa impresa lo indusse a continuare la sua atti-

vità nel campo delle antichità egiziane, ciò che fece con grande

spirito di iniziativa ed entusiasmo. Esplorò Edfu, Elefantina,

File, spazzò la sabbia dal tempio di Abu Simbel, scavò estesa-

mente a Karnak, scoprí la tomba di Seti I che conteneva un

magnifico sarcofago che ora si può ammirare al Museo Soane di

Londra e fu il primo a penetrare nella seconda piramide a Giza.

Nel 1819 ritornò in Inghilterra per sovrintendere ad una mostra

dei reperti e nel 1823 ebbe l’incarico di intraprendere un viag-

gio a Timbuctú, ma morí durante il cammino.

Prima di ritornare a Tebe visitai ancora una volta lepiramidi con due altri viaggiatori europei: intanto ch’es-si entrarono nella prima, feci il giro della seconda, em’assisi all’ombra d’alcune pietre, che trovavansi all’e-st, e ch’avevano fatto parte d’un tempio. Stetti consi-derando questo masso enorme, il quale da tanti secoli fu

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causa d’innumerevoli congetture d’ogni genere, tantopiú ancora in quanto che li sacerdoti egiziani avevanoassicurato Erodoto, falsamente, siccome vedrassi, chequesta piramide non capiva alcuna camera. Io meditaisopra tale monumento singolare, sul fine suo ennigma-tico, sul mistero che ne ricopriva l’interno di esso. Glisforzi inutili fatti da tanti viaggiatori, e soprattutto daun corpo intiero di dotti francesi per discoprirvi qual-che entrata, erano ben atti a scoraggiarmi, ed anche afar parere follie li nuovi miei tentativi. Il sig. Salt e ’lcapitano Caviglia aveano scavato per quattro mesi attor-no alle piramidi, senza trovarvi ció che cercavasi da sílungo tempo. Pochi mesi prima alcuni Franchi dimorantiin Egitto, aveano formato il progetto d’intraprenderenuovi scavamenti, d’ottenerne il permesso da Maomet-to-Alí, e d’aprire presso le corti Europee una soscrizio-ne di circa un mezzo milione di franchi per le spese d’unnuovo tentativo di penetrare nella piramide sia permezzo della mina, sia per altri modi. Erasi discusso lun-gamente sull’onore di dirigerne i lavori, ed era stato sta-bilito che ’l sig. Drovetti sarebbe alla testa dell’impre-sa. Quindi come era mai possibile ch’io potessi lusin-garmi d’eseguire coi deboli soccorsi ch’erano a miadisposizione, quello che altri istimavano non potersiimprendere che col mezzo di somme enormi? Dovevapure temere, in conseguenza dei successi riportati negliscavamenti dell’Alto-Egitto, che mi venisse negato ilpermesso di aprire la piramide, o che vedendo la possi-bilità di penetrare nell’interno s’incaricasse dello ese-guimento dell’impresa uomini di me piú autorevoli.

Tuttavia era stimolato dal desiderio di trovare ilsecreto di quella piramide, in un modo sempre piú vivo;il perché tormentato da questa idea, m’alzai per esami-nare la parte meridionale del monumento; ne visitaitutte le parti; e non avendovi scoperto indizio alcunoche potesse mettermi sulla via, presi a visitarne il nord.Da questa parte la piramide ebbe per me un aspetto dif-

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ferente: le osservazioni frequenti da me fatte sui monu-menti in Tebe m’aveano abituato maggiormente deglialtri viaggiatori, a riconoscere gli indizj appena percet-tibili; e per tale rispetto la pratica serviami piú che lateoria non serve agli altri. In fatto alcuni viaggiatori chem’aveano preceduto, non aveano veduto qualche voltaniente in quei luoghi, ne’ quali scopriva io cose impor-tanti, perché deboli indizj ch’erano per me tanti lumi,sfuggivano loro intieramente. Non per tanto veggonsispesse volte questi viaggiatori, ostinati nella teoria chesi credono aver fissata saviamente, sostenere con perti-nacia le loro opinioni, e meravigliarsi straordinariamen-te quando alcune persone, le quali null’altro hanno conloro che l’esperienza, provano col fatto che vivono inerrore. Io stesso alcuna volta ho avuto il piacere di pro-durre appo loro tale meraviglia: ma non per questo pensonemmeno di voler sprezzarne la scienza; solo pretendoaffermare che l’uomo sapiente non esamina sempre ilmateriale colla stessa precisione colla quale fassi dal-l’uomo che meno confida nel suo sapere.

Osservai dunque sulla parte settentrionale della pira-mide tre segni che m’incoraggiarono a fare una prova,onde vedere se potessi da questa scoprirne l’entrata.L’osservazione di questi segni non fu precisamente ilrisultato dell’esperienza ch’io aveva acquistata nelletombe di Tebe; giacché quasi nulla di comune eravi trale piramidi e le tombe; le une sono costruzioni immen-se innalzate dalla mano degli uomini: le altre sono roccenaturali che si sono scavate; quello che giovommi in taleoccasione, si fu l’applicazione d’un’osservazione da mefatta sulla prima piramide, la quale parvemi tanto sicu-ra che da quel momento mi determinai a fare un tenta-tivo. Osservai che, precisamente sotto il mezzo dellafacciata della piramide, l’ammasso dei materiali cadutidalla superficie, il quale poteva nascondere l’entrata, erapiú alto dell’entrata della prima piramide, misurata dallabase, e che questi materiali non erano cosí compatti

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come sulle due altre parti; dal che io conchiusi che daquesto lato li grossi ceppi erano stati tolti dopo la cadu-ta del rincalzamento: quindi ne conchiusi la possibilitàdi trovare in questo stesso luogo l’entrata della pirami-de, e mi maravigliai, che non si potesse sperare di tro-varla, prima che si fosse scavato il solo luogo, nel qualepotevasi supporre ragionevolmente un’entrata, se pureve n’era una. Confermatomi maggiormente in tale ideaandai a raggiugnervi li miei compagni nella prima pira-mide; e dopo d’avere visitata la grande sfinge ritor-nammo al Cairo nella sera.

L’indomani volli dedicarmi ad un nuovo esame deiluoghi; e quinci senza comunicare a nessuno idee cheavrebbono eccitato molta sensazione nei Franchi delCairo; cosa che avrebbe potuto cagionare alcuni ostacoliall’eseguimento del mio progetto, ritornai alle piramidi,e quivi mi riconfermai nella mia speranza. Non volen-do indirizzarmi alla corte del bascià od a persone didistinzione, che potessero nuocermi, preferii d’attra-versare il Nilo all’indomani, e recarmi ad Embabeh dalcacheff comandante sul territorio delle piramidi. Pre-sentatomi a lui, gli dimandai la licenza di fare scavarein que’ monumenti, e n’ebbi quella risposta che m’a-spettava: dissemi che bisognava chiedere al bascià o alKakia-bey un firmano, senza il quale non poteva accor-darmi il permesso di scavare le harrans o piramidi: gliridomandai se null’altro ostacolo eravi; e risposemi: nes-suno affatto. Recaimi allora alla cittadella, e non tro-vandosi nel Cairo il bascià, mi presentai al Kakia-bey,mio conoscente fino dal tempo in cui soggiornai inSubra. Quando gli chiesi il permesso di scavare le pira-midi, non fecemi ch’una sola obbiezione, quella cioè dinon essere sicuro, ch’attorno ad esse non fosservi terrenilavorati, i quali potrebbono impedire, che quivi si lavo-rasse: quindi per assicurarsene mandò un messo alcacheff d’Embabeh; ed avendo questi risposto ch’at-torno agli harrans non eravi che un terreno sassoso, e

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nulla terra lavorata, ottenni un firmano indiritto alcacheff nel quale ordinavagli di somministrarmi i lavo-ratori necessarj per iscavare.

Non si trattava fino allora di niente meno che divenire a capo d’una impresa che ’l pubblico ritenevacome impossibile; non poteva ignorare che se non vi riu-sciva, m’andava ad esporre alle risa di tutti; ma sapevad’altronde ch’eravi ancora molto merito anche nel solotentare questo grande progetto. Tuttavia stimai pru-dente lo tenerlo segreto per quanto fosse possibile, e nolconfidai che al sig. Walmas, degno negoziante levanti-no, stabilito nel Cairo, e legato in società colà casa diBriggs. Ciò non faceva, perché volessi guardare per mesolo il risultamento della scoperta qualora vi riuscissi; manon voleva essere disturbato ne’ miei lavori dalle visitedegli importuni, e di piú non voleva somministrare ainostri avversarj l’occasione di suscitarmi contro nuoviostacoli, e d’interrompermi nel bel mezzo dell’impresa.Provedutomi dunque, senza darne sentore, d’una piccolatenda e di pochi viveri, per non essere obbligato ad ognimomento di ritornare al Cairo, partii dalla capitale allavolta delle piramidi, lasciando credere che volessi fareuna gita per alcuni giorni al monte Mokatam. Giuntoalle piramidi, vi trovai gli Arabi già disposti al lavoro, ene feci conseguentemente cominciare tosto lo scava-mento. Malgrado la vendita delle due statue cedute alconte di Forbin non aveva duecento lire sterline (quat-tromila e ottocento franchi): con questa somma biso-gnava terminar l’opera, o sospenderla, e lasciare ad altriil lieve merito di ridurla a termine con poca spesa.

La parte settentrionale non era la sola, nella quale fecicominciare gli scavi; poiché parvemi di tentare quellaeziandio all’oriente. Sorgeva ancora da questa parte unframmento di portico d’un tempio fabbricato davanti allapiramide, e d’onde un argine discendeva in retta lineaverso la grande sfinge. Conobbi che aprendo il terrenofra mezzo al portico e alla piramide, perverrei necessa-

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riamente alle fondamenta del tempio; lo che in fatti ebbeluogo. Impiegai nel lavoro ottanta Arabi, cioè quarantasul luogo indicato, ed altrettanti nel mezzo della partesettentrionale, dove aveva trovato il terreno meno soli-do che all’est e all’ouest. Dava a ciascun lavoratore unapiastra, o dodici soldi al giorno; ed aveva meco purealcuni fanciulli d’ambo i sessi per trasportarne la terra, iquali guadagnavano venti paras o sei soldi per giorno.Affine di mantenere una concorde contentezza nei pae-sani, dava loro di tempo in tempo alcune piccole cose, efaceva conoscere il vantaggio che sarebbe loro venutoaprendo la piramide; perché tale successo trarrebbe colàmolti forestieri, e ne avrebbero conseguentemente moltibakchis. Niente produce tanto buon effetto sullo spiritod’un Arabo quanto ciò che gli si dice relativamente a’suoi interessi, e gli si prova essere a suo vantaggio per-sonale; tutt’altra ragione ordinariamente nulla vale: econfesso il vero che anche in Europa non ho provatomeno l’efficacia di questo metodo.

Parecchi giorni furono consumati in quei lavori senzala menoma apparenza d’alcuna scoperta. A settentrionedella piramide i rottami caduti dal rincalzamento chefaceva uopo asportare erano legati in una maniera sítenace che i lavoratori duravano fatica a scalfirli, quan-tunque sembrassero ammassati al restante posterior-mente. Il solo strumento ch’avevamo per zappare, erauna specie di piccone serviente soltanto in un terrenomolle, e troppo debole per rompere un ceppo formatodi pietre e di calce. Apparentemente la rugiada, che diprimavera e d’autunno rende molle la terra d’Egitto,aveva disciolta la calce caduta dalla piramide, e l’avevalegata tanto strettamente colle pietre, che n’era risulta-to un tutto assieme infrangibile.

Proseguendo lo scavamento dalla parte di levantetrovammo la parte inferiore d’un gran tempio unito alportico, ed estendentesi per ben cinquanta piedi dallabase della piramide. Le sue mura esterne erano forma-

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te di grossi macigni, ch’ora trovansi allo scoperto: alcu-ne pietre dei portici aveano ventiquattro piedi di altez-za. Nell’interno questo tempio e fabbricato di pietre cal-caree di varia grossezza; parecchie delle quali sonotagliate negli angoli con molta precisione; questa parteè forse assai antica del muro esterno, il quale tuttaviasembra dell’epoca delle piramidi medesime. Per trovareda questa parte la base della piramide, e sapere se dessacomunicava coll’antico tempio, doveva rompere un riu-nimento di materiali ch’innalzavansi piú di quarantapiedi, e che consistevano, come dalla parte settentrio-nale, in grossi ceppi di pietra e di calce caduti dal rin-calzamento. Finalmente giugnemmo alla base, e trovaiun lastricato piano, tagliato nel vivo sasso: feci aprire indiritta linea una strada dalla base della piramide fino altempio; e conobbi che tale lastricato continuava fino aquell’edificio; dal che si conosce che un largo camminoha dovuto essere tagliato anticamente tra il tempio e lapiramide, e non dubito piú di credere che lo stesso lastri-cato circonda tutte le piramidi. A me sembra che lasfinge, la piramide e ‘l tempio siano stati innalzati tuttie tre in una volta, giacché sembra essere tutti sopra unastessa linea, e della medesima antichità.

Dalla parte di settentrione gli scavamenti prosegui-ronsi verso la base; erasi tolto un grande numero di pie-tre, ed una buona parte della facciata della piramideera stata di già scoperta; ma nullo segno appariva anco-ra di entrata, né ‘l menomo indizio che quivi ve nefosse mai stato.

Gli Arabi avevano avuto molta speranza di scoprir-la; la promessa dei bakchis che loro aveva fatta, e ’l pen-siero del profitto che trarrebbero dalle visite dei fore-stieri gli animavano e gli stimolavano vivamente. Madopo alcuni giorni di lavoro faticosissimo dietro ad unammasso di pietre tanto difficile da tagliarsi, che i loropicconi erano quasi tutti rotti, cominciarono a dubitaredella nullità del loro tentativo, e che fosse una pia a rom-

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pere una roccia cosí dura senza speranza di successo:divenne meno il loro zelo, ma non per tanto continua-rono a lavorare. Quanto a me non mi lasciai scoraggia-re cosí subito dalle difficoltà, e dalla poca speranza, cheeravi pel buon riuscimento dell’impresa: anzi conti-nuando il lavoro osservai tale cosa che diedemi buonasperanza. Le pietre dove eravamo giunti scavando, nonerano piú cosí solidamente riunite come dai lati. Final-mente li 18 febbraio dopo sedici giorni d’un lavoroinfruttuoso, un lavoratore osservò una piccola fessura tradue pietre, e credendo d’aver trovato di già quell’entratach’era il fine della nostra impresa misesi ad esclamare digioja. Corsi tosto ad osservare la fessura; nella qualespingendo una pertica di palma, s’internò fino allaprofondità d’una tesa; per cui stimolati da questa pic-cola scoperta gli Arabi si rimisero con zelo al lavoro, ela loro speranza ne fu rianimata, e l’opera avanzò pron-tamente. Io vedeva bene che una stretta fessura nonpoteva essere l’entrata d’una grande piramide; ma spe-rava che tale apertura ci porrebbe sulla via della veraentrata. Proseguendo a lavorare m’accorsi che una dellepietre incastrate nella piramide, era staccata dal rima-nente: questa venne levata nello stesso giorno, e ci fececonoscere un’apertura che conduceva nell’interno.

Questa rozza entrata non aveva piú di tre piedi dilarghezza, ed era ingombra di piccole pietre e di sabbia;e dopo che fu disimbarazzata trovossi all’indentro piúlarga; furono impiegati il secondo e ’l terzo giorno nelripulimento; ma con piú ci avanzavamo, trovavamomaggiore quantità di rottami. Al quarto giorno osser-vai che andavano cadendo dall’alto di questa cavernasabbia e pietre con mia grandissima sorpresa: e final-mente scopersi ch’eravi un passaggio dall’esterno dellapiramide per mezzo d’una piccola apertura, la quale nonavevamo neppure supposto che fosse in comunicazionecon alcuna caverna. Dopo che tutto questo sotterraneofu disgomberato, feci riprendere il lavoro a basso sotto

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ai nostri piedi; due giorni dopo arrivammo ad un’aper-tura che conduceva nell’interno; la quale allargata, viguardai dentro al lume d’una candela, e vidi una cavità,molto vasta senza che vi potessi formare sopra nessunacongettura. Questa fu parimente sgomberata dalla sab-bia e dalle pietre; e riconobbesi che tale caverna, diri-gendosi verso il centro della piramide, era un passaggioaperto violentemente da qualche mano possente, conintenzione di trovare il cammino per al centro. Si sonotagliate d’un colpo solo alcune pietre d’una grossezzaprodigiosa; altre sono state asportate, ed alcune minac-ciano ancora di cadere, avendo perduto il loro sostegno:l’aprimento di questo passaggio deve essere costatopene e spese immense. Si vedeva chiaramente che s’e-stendeva piú lungi; ma crollata essendo la volta, eraingombro a segno che non potemmo avanzarci piú dicento passi. A mezzo di tale distanza dall’entrata eraviun’altra cavità che discendeva fino a quaranta piedi, mapiuttosto irregolare, dirigendosi anch’essa, come l’altra,verso il centro, dove coloro che aprirono tali passaggivolevano giugnere sicuramente. Era assai pericoloso ilfar entrare molta gente per lavorarvi; parecchie pietrestavano per cadere superiormente alle nostre teste; altredi già staccate, erano state sospese in cadendo daglisporti di quelle ch’erano ancora attaccate. Smovendo-ne la caverna si correva pericolo di far cadere le une ele altre, e d’esserne schiacciati, siccome n’avemmo unesempio. Sedutosi un lavoratore per iscavare il passag-gio, corse rischio d’essere fracassato da un ceppo enor-me lungo sei piedi e largo quattro, il quale cadde dallavolta, e fortunatamente restò sospeso sopra due pietresporgenti; ma desso trovossi rinchiuso a segno chedurammo molta fatica a trarlo da quella posizione tantodolorosa, dalla quale fu libero con una contusione suldorso. La caduta di quel ceppo ne trasse seco alcunialtri; e se non sospendevamo di scavare in quel luogo,correvamo pericolo d’averne chiusa la ritirata da qual-

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che ammottamento, ed essere sepolti vivi. Fino dalprincipio non aveva contato molto sopra questo pas-saggio, dubitando assai che quella potesse essere la veraentrata della piramide. Tuttavia sperava che tale cavitàvi ci conducesse; ma sfortunatamente non finiva mai,e dopo grandi e penosi sforzi non mi trovai piú avan-zato di quello ch’era.

Fino allora non era stato visitato ne’ miei lavori da’viaggiatori stranieri: ma non poteva lusingarmi di restarsempre cosí tranquillo, poiché li Franchi del Cairo fannosovente nella domenica gite alle piramidi, e li viaggiatorisi danno premura, appena arrivati in quella capitale, divisitare cotali maraviglie. Il giorno nel quale abbando-nai i lavori del falso passaggio, vidi dopo mezzodí moltagente sulla cima della prima piramide: ed era sicuro cheerano Europei, poiché li Turchi e gli Arabi non vi mon-tano sopra mai, a meno che non sia per accompagnarequalcuno e guadagnare danaro. Veggendo quelli li mieilavoratori che operavano ai piedi della seconda pirami-de, ne conchiusero subito che qualche Europeo vi face-va scavare, e trassero in segno di saluto un colpo dipistola, cui risposi con un altro. Essi allora discesero dal-l’angolo che conduceva verso quel luogo dove ci trova-vamo noi, e giuntivi riconobbi il sig. Abate di Forbin,il quale aveva accompagnato in Egitto suo cugino, ilconte, ma che non aveva rimontato il Nilo. Questi eraaccompagnato dal padre superiore del convento diTerra-Santa, il signor Costa, da un ingegnere, e dal sig.Gaspard, vice-console di Francia, il quale presentommiall’abate. Essi entrarono tutti nel passeggio da noi aper-to, ma quella cavità recò meno piacere al sig. abate diquello che una tazza di caffè ch’ebbi l’onore d’offrirglinella mia povera tenda. Dopo una tale visita non era damaravigliarsi che tutti li Franchi dei Cairo venissero asapere quello ch’io faceva, e fino da quel momento nonpassò quasi mai un giorno senza ch’io ricevessi una qual-che visita.

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Il cattivo successo della mia ultima operazione nonm’aveva reso che piú ostinato nel mio progetto di sco-prire l’entrata della piramide: avea concesso agli Arabiun giorno di riposo, ch’io impiegai ad esaminare piúattentamente le piramidi. Avviene parecchie volte ch’unuomo trovasi troppo avanzato in un’intrapresa, perchépossa ritirarsene con onore; in maniera che null’altropartito gli rimane, che quello di proseguirla; e tale fudella mia. Io m’era ingannato perdendo e tempo e fati-ca a seguire un passaggio che non mi conduceva a nien-te; ed era per me una perdita considerevole, la qualebisognava che riparassi con un felice successo.

Nello esaminare attentamente l’entrata della primapiramide, osservai che invece d’essere collocato nelmezzo il passaggio dirigevasi dal di fuori sul lato orien-tale della camera del re; e siccome questa camera è situa-ta quasi nel centro della piramide, l’entrata deve esserelontana dal mezzo della facciata nella proporzione delladistanza, che v’ha tra il centro della camera e la partesua orientale.

Da questa osservazione semplice e naturale conchiu-si che se v’era qualche camera nella seconda piramide,l’entrata o passaggio che vi metteva capo non poteva tro-varsi nel luogo dove aveva scavato, vale a dire, nelmezzo della facciata; ma giudicandone dalla posizionedel passaggio della prima piramide, bisognava che quel-lo della seconda fosse trenta piedi circa piú verso l’o-riente.

Trattane questa conchiusione mi diedi tutta la pre-mura di farne l’applicazione, e di recarmi alla secondapiramide; dove giunto non fui poco sorpreso veggendo,alla distanza di trenta passi circa dal luogo nel qualeaveva cominciato gli scavi, un terreno simile a quelloch’aveva scavato; e ad una tale vista la mia speranza furianimata. Osservai che in questo luogo le pietre e lacalce non formavano un assieme cosí compatto comedalla parte di levante: e ciò che mi riusciva ancora piú

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piacevole si fu l’osservare, che dalla parte dove supposiio fosse l’entrata, erano state tolte alcune pietre dallasuperficie della piramide per uno spazio di alcuni piedi,lo che riconobbi tirando una linea sul rincalzamentosuperiormente al luogo concavo fino alla base; pel qualeesperimento ho potuto riconoscere che la concavitàaveva maggiore profondità verso là dove era per comin-ciare a scavare. Chiunque avrà occasione di visitare lepiramidi troverà facilmente questa concavità al disopradella vera entrata che discopersi di poi.

Combinando per tal modo due circostanze, vale adire, la qualità poco compatta del terreno, qualità chem’aveva servito di guida negli scavamenti che avea fattiin Tebe; e poi la direzione dei passaggio della prima pira-mide, tornai a por mano al lavoro con nuovo ardore. GliArabi furono pieni di maraviglia in veggendomi a ripren-dere il lavoro; ma la brama del guadagno fu per loro ilsolo motivo di rallegrarli; giacché nulla speranza avea-no di buon successo, ed io stesso gl’intesi piú d’unavolta pronunciare sotto voce la parola magnoun equiva-lente un pazzo. Il giorno nel quale ricominciai era l’an-niversario di quello in cui aveva scoperta l’entrata dellatomba di Psammi in Tebe, ed uno per me di quelli difelice augurio; indicai a’ lavoratori il luogo, onde biso-gnava scavare; e da lí a poco riconobbesi ch’aveva síbene calcolato, che v’era sbaglio solamente di due piedi,perché li nostri scavamenti cominciassero precisamentedinnanzi all’ingresso. Quando gli Arabi cominciarono ascavare, incontrarono rottami cosí teneri come quelli delprimo scavamento; e di piú trovarono grossi ceppi cheavevano appartenuto alla piramide, ma non caduti dalrincalzamento: ed a misura che noi scavavamo, dessimassi aumentarono di grossezza.

Alcuni giorni dopo la visita del sig. Abate di Forbin,n’ebbi una seconda da un altro viaggiatore europeo, ilcavaliere Frediani, il quale, ritornando da un viaggiofatto alla seconda cateratta del Nilo, veniva a visitare

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le piramidi: aveva fatta la conoscenza di lui, quandorimontò il Nilo, e fui preso da grande piacere al suo arri-vo, poiché era egli un testimonio imparziale delle mieoperazioni, principalmente quand’esse erano seguite daun prospero successo. Sfortunatamente approvando eglicompiutamente la mia intrapresa, non poteva aspettar-ne la fine, e volle ripartire due giorni dopo il suo arri-vo, quantunque non fosse egli meno curioso degliArabi, che mi chiamavano magnoun, di vederne la fine.Ma in quel giorno medesimo in cui si disponeva egli diritornare al Cairo, trovai nello scavamento un grossoceppo di granito, inclinato verso terra sotto l’angolostesso del passaggio della prima piramide, dirigentesiverso il centro: per tale trovamento pregai il cavalieredi sospendere la sua partenza fino all’indomani, il per-ché avrebbe avuto forse il piacere d’essere uno de’primi a vedere l’ingresso della piramide: v’acconsentí,e fui contentissimo d’avere uno de’ miei compatriottiper testimonio della scoperta ch’era per fare. Il primomasso di granito era stato veduto li 28 febbrajo; e l’in-domani, 1° marzo, scoprimmo tre altri grossi ceppidella stessa pietra, uno da ciascun lato, l’altro nell’alto,e tutti in una posizione inclinata verso il centro: per talescoprimento, presago d’un pronto successo, s’accreb-bero le mie speranze, e la mia aspettazione. In fatto nelgiorno seguente 2 marzo, verso mezzodí, giugnemmofinalmente al vero ingresso della piramide. Gli Arabi lacui curiosità erasi raddoppiata alla vista di tre pietre,abbandonaronsi intieramente alla gioja, per avere digià ritrovato un nuovo mezzo onde guadagnare bakchisdai viaggiatori.

Sgombrato ch’avemmo il davanti de’ tre massi, rico-noscemmo ch’essi servivano d’entrata ad un passaggioalto quattro piedi, e largo tre e mezzo, formato di gros-si sassi di granito, e discendente fino a centoquattropiedi e cinque pollici verso il centro con un’inclinazio-ne di ventisei gradi. Questo passaggio era ingombro

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quasi tutto di grosse pietre, cadute dalla volta, e roto-late a cagione del pendio del terreno fino a che massi piúenormi le avessero trattenute.

Durammo in vero una fatica penosissima a trarretutte quelle pietre da quel passaggio, tutto ingombroquasi da un capo all’altro; e vi impiegammo una giornatae mezzo a ripulirlo: quindi arrivammo ad un grossomacigno il quale turava il passo cosí esattamente chesembrava, ci dovesse togliere ogni speranza d’andare piúoltre. Tuttavia esaminandolo piú da vicino vidi ch’eraalzato otto pollici circa al disopra del suolo, ove la pie-tra era stata tagliata per riporvi quel ceppo, e mi con-vinsi ch’era semplicemente una gronde di granito d’unpiede e tre pollici di grossezza, destinata a celare l’in-terno della piramide. Difatti avendo introdotta per unapiccola apertura superiormente alla gronde una lungapaglia d’orzo, la potetti spingere all’indentro fino a trepiedi di profondità, per cui mi convinsi che di dietro adessa era vuoto: ma lo smuoverla, e farnela uscire, era unafatica difficilissima.

Il passaggio non aveva, siccome lo dissi già, che quat-tro piedi di altezza, e tre e mezzo di larghezza; dueuomini in pari non potevano lavorare; e tuttavia eranonecessari parecchi lavoratori per togliere la gronde ch’e-ra alta sei piedi e larga cinque. Non potevansi usare levemolto lunghe, perché non eravi bastante spazio permaneggiarle; e se le leve erano corte, ve n’abbisognava-no molte, cui non bastavano per manovrare li pochilavoratori che vi potevano entrare. Il solo mezzo ondetrarsi da quell’imbarazzo era quello di sollevare con levela gronde al punto di potervi passare sotto, e farlasospendere sopra alcune pietre introdottevi per di sottodalle due estremità; lo che venne da noi eseguito. Tostoche la gronde fu sollevata bastevolmente perché unuomo vi potesse passare, un Arabo passò nell’internocon una candela; e ritornò assicurandoci che la cameraera bellissima. Io continuai a far alzare la gronde, e

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finalmente riuscii a far sí che l’apertura fosse grandeabbastanza da potermivi introdurre.

In tal modo dopo trenta giorni di lavori, ebbi la sod-disfazione di entrare nello interno d’una piramide, ch’e-rasi sempre ritenuta impenetrabile. Io dunque v’entraie meco il cavaliere Frediani.

Passati che fummo sotto alla gronde, ci trovammo inun passaggio ch’era né piú alto, né piú largo del primo.Il telaio della gronde ha sei piedi e undici pollici di gros-sezza, e ’l secondo passaggio ne conta ventidue e settedi lunghezza. In fine di esso li sassi di granito finisco-no, e giugnesi ad un pozzo perpendicolare di quindicipiedi, ed a due direzioni diverse di esso passaggio, isca-vate nella roccia. Quella a diritta si prolunga, salendo,per uno spazio di trenta piedi, e s’avvicina all’estremitàdalla parte inferiore del passaggio aperto nella piramide,onde ho parlato di sopra. Dinnanzi a noi il passaggiodirigevasi orizzontalmente verso il centro; ma in vece diseguirlo ci calammo col mezzo d’una corda nel pozzo; edarrivati sul fondo, vidi un altro passaggio inclinato comequello dell’alto sotto un angolo di ventisei gradi verso ilnord: quindi essendo mio fine principale quello di cono-scere il centro della piramide, presi via per quel verso;montando il pendio incontrai l’altro passaggio pratica-to orizzontalmente, il quale continuò a condurmi diret-tamente al centro. In partendo dal pozzo tutti li passaggich’incontrammo erano scavati nel sasso vivo; e l’ultimonel quale eravamo entrati, aveva cinque piedi e undicipollici di altezza sopra tre e mezzo di larghezza.

Incamminandoci per tale passaggio vedemmo le pare-ti ricoperte di ramificazioni di nitro, le quali imitavanoora le corde, ora la lana d’un bianco agnello, ed ora lefoglie della cicoria: quando finalmente giunsi alla came-ra centrale della piramide. Fatti alcuni passi nell’inter-no, mi fermai per esaminare quel luogo, il quale da tantisecoli era stato tolto alla vista di tutti ad onta deglisforzi fatti dalla curiosità dei sapienti per riconoscerlo.

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La torcia che rischiarava li miei passi quantunque bastas-se per farmi distinguere i principali oggetti, spargeva undebole lume sopra l’assieme di questa sala. Li miei occhisi portarono naturalmente sull’estremità occidentaledella sala, dove m’aspettava di trovare un sarcofago col-locato siccome quello della prima piramide; ma ne fuingannata la mia aspettazione, giacché nulla trovai daquella parte: ma continuando ad esaminare l’ouest dellacamera fui sorpreso gradevolmente dal trovamento d’unsarcofago seppellito a fior di terra.

Mi raggiunse appunto allora il cavaliere Frediani, efemmo assieme una revista generale del sotterraneo; ilquale è alto ventitre piedi e mezzo, lungo quarantaseie un quarto, e largo sedici piedi e tre pollici; e iscava-to nella roccia dal suolo fino alla volta, o fino alla som-mità; poiché li grossi massi di pietra calcarea si ravici-nano sui lati, e si riuniscono nel centro della volta, dimaniera che la sala imita la forma della piramide stes-sa; e la sua volta è dipinta. Il sarcofago è lungo ottopiedi, largo tre e mezzo, e nell’interno profondo duepiedi e tre pollici: grossi ceppi di granito lo circonda-no, come per impedire che venga asportato, lo che vera-mente non potrebbesi fare che con una pena grandissi-ma. Il coperchio era stato rotto dalle parti in guisa chel’interno è mezzo scoperto. Desso è fabbricato col piúbel granito, ma a simiglianza di quello della prima pira-mide non ha sopra di sé un solo geroglifico. Guardan-do all’indentro, vi trovai una grande quantità di terrae di pietre; e siccome io non cercava che un’iscrizionepropria a spargere qualche luce sulla costruzione dellepiramidi, non mi curai in quel giorno d’osservare leossa, che trovavansi mischiate ai rottami.

Esaminammo le mura minutamente; in parecchi luo-ghi erano state levate alcune pietre probabilmente perassicurarsi se v’era qualche tesoro nascosto. Vi trovam-mo alcuni scarabocchi segnati col carbone; i quali eranocaratteri sconosciuti appena percettibili, che si confon-

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devano tosto che si toccavano. Sul muro dell’estremitàoccidentale della camera, trovai un’iscrizione araba...

Io mi fermerò un poco sopra questa iscrizione, giac-ché è stata interpretata in diverse maniere, ed è osser-vabile d’altronde sotto una relazione istorica. Pare chequello che ha fatte variare le interpretazioni sia il sensodegli ultimi caratteri trovato oscuro, perché questi carat-teri erano talmente confusi colla pietra, che appena sidistinguevano. Non volendo fidarmi di me stesso, avevafatto copiare tale iscrizione da un Coptico, condottomeco per questo effetto dal Cairo; e non essendo anco-ra soddisfatto di ciò, quantunque m’assicurasse d’averecopiato colla piú grande fedeltà, pregai varie persone delCairo, versatissime nella lingua araba, di voler riscon-trare attentamente la copia coll’originale inscritto sulmuro della piramide. Eglino la trovarono corretta per-fettamente, ad eccezione però degli ultimi caratteri suiquali non furono d’accordo, perché realmente, siccomel’ho detto di già, non potevansi leggere: ma però tali, chegli ha copiati il Cofto, rendono un senso ragionevole; esembra effettivamente, sia quello che l’autore dell’i-scrizione ha voluto esprimere. Ed eccone la traduzioneletterale di questa inscrizione fatta dal sig. Salame:

«Il Signor Mohammed-Ahmed, intraprenditore dicave, l’ha aperta, e ’l sig. Othman vi ha assistito, e ’l reAly-Mohammed di poi fino al compimento».

Da essa si riconosce che la piramide era di già stataaperta, e poscia venne di nuovo chiusa; lo che aveva digià compreso io stesso dall’ispezione dei luoghi.

In alcuni luoghi della camera sepolcrale, il nitro avevaformato ramificazioni, ma piú grandi e piú consistentidi quelle dei corritoi: ve n’erano di quelle lunghe sei pol-lici, che somigliavano alle foglie dentate ed increspatedella cicoria. Sotto ad un masso di pietra che smovem-mo, trovai un frammento che figurava la parte grossod’un’ascia, ma talmente arrugginita che n’era divenutadeforme. Dalla parte di nord e di sud della camera eran-

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vi due buchi scavati in una direzione orizzontale, sicco-me quelli che veggonsi nella prima piramide, ma salgo-no piú in alto.

Dopo essere usciti dalla camera sepolcrale ritornam-mo per lo passaggio inferiore. In fondo al pozzo per-pendicolare le pietre si trovavano talmente ammucchia-te da turarne quasi l’entrata: e solo quando le avevamosmosse vedemmo il passaggio che dirigesi al nord comeil superiore, sotto un angolo d’inclinazione di ventiseigradi, e che alla fine di quarantotto piedi e mezzo va araggiungere l’altro passaggio che continua sopra unospazio di cinquanta piedi, dirigendosi verso settentrio-ne. Alla metà di quest’ultimo vedesi sulla diritta unacavità lunga undici piedi, e profonda sei, di fronte allaquale sulla sinistra havvi un altro passaggio discenden-te verso l’ouest sopra uno spazio di ventidue piedi, e conun’inclinazione parimenti di ventisei gradi. Lo seguim-mo, e giunti alla fine ci trovammo all’entrata d’unacamera lunga trentadue piedi, larga nove ed altrettantipollici, ed alta otto piedi e sei pollici. Il suolo era selciatodi piccole pietre, alcune delle quali avevano solo duepiedi di lunghezza. Questa camera, scavata nel vivosasso, siccome tutto il rimanente ch’incontrasi nel monu-mento, dopo d’avere oltrapassato il pozzo, va termi-nando a foggia di piramide, siccome la grande camera.Veggonsi sulle pareti e sulla volta alcune iscrizioni incaratteri sconosciuti, come nella prima camera; forsesono desse iscrizioni coptice. Ritornando quindi al pas-saggio superiore prendemmo via per questo cammino,onde uscire: alla sua estremità trovammo una specie ditelajo atto a rinchiudere una gronde, come all’entrata.Ve n’era stata una effettivamente, ma n’era stata toltae gettata fra mezzo ai rottami.

Passati che fummo da questo telajo trovammo unpassaggio montante come all’entrata, e lungo quaranta-sette piedi e mezzo. Alla sua estremità eravi un grossopezzo di pietra, oltre cui erano altre pietre; il perché cal-

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colammo che questo passeggio doveva metter capo allabase della piramide; e cosí questo monumento avrebbedue entrate. Nulla fabbricazione trovammo nell’internose non alla metà della lunghezza del passaggio orizzon-tale che conduce alla grande camera; ma io credo che ser-visse unicamente a riempire una cavità nella roccia.

Dopo d’avere fatte tutte queste osservazioni uscim-mo dalla piramide contentissimi di tutto quello ch’ave-vamo veduto: ed io specialmente mi trovai, per questobuon successo, ampiamente ricompensato della miaintrapresa, la quale non m’era costata neppure un mesedi lavoro, e le cui spese non montarono a tremila e sei-cento franchi, abbenché si fosse presunto prima, che viabbisognassero centinaja di mille franchi per aprire que-sta piramide.

Essendo ritornato al Cairo nello stesso giorno il cava-liere Frediani, si seppe subitamente infra li Franchi dellacapitale la nuova dell’apertura della piramide, e dieder-si tosto premura di venire a visitare l’interno di questomonumento. Io l’aveva lasciato aperto perché tuttipotessero entrarvi; e al luogo del pozzo feci porre unapietra, onde lo si potesse attraversare, senza che impe-disse però di discendere al passaggio inferiore.

Viaggi in Egitto ed in Nubia, 1825

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giovanni battista belzoniUn deposito nascosto di mummie a Tebe

Solitamente il viaggiatore contentasi di ammirarel’entrata, la galleria, la scala, tutte le parti insomma ovepuò penetrare con poca pena: gli oggetti strani che vedescolpiti in piú luoghi o pinti sulle pareti occupano la suaattenzione; e giunto ai passaggi ristretti e impraticabili,conducenti ai pozzi ed a piú profonde caverne nonimmagina che offrano cotali abissi orrendi cose tantocuriose da meritare l’incomodo dello scendervi: se neritorna persuaso d’aver visto ciò che le catacombe con-tengono di piú stupendo. È vero che un grande ostaco-lo arresta la curiosità dell’intrepido viaggiatore; regna intali antichi sepolcri un’aria soffocante che li fa caderesoventi volte in deliquio: una polvere finissima, infettatadalle esalazioni di migliaja di cadaveri, s’innalza sotto ipassi del viaggiatore, penetra gli organi del respiro e neirrita i polmoni. Quanto ai passaggi scavati nella rocciaove sono deposte le mummie, parecchi sono turati dallasabbia caduta dal volto. In qualche sito non havvi cheuno stretto adito dal quale bisogna arrampicarsi col ven-tre a terra sopra acute pietre taglienti come vetro. Pas-sati li corritoi, dei quali alcuni hanno cento e fino centocinquanta tese di lunghezza, s’incontrano le cavernealquanto piú spaziose: dove sono ammassate a centi-naja, a migliaja le mummie da ogni lato: e questi reces-si sono ributtanti per l’orrore che inspirano. I mucchi dicadaveri onde si trova circondato, il bruno delle paretie della volta, la luce fievole che nell’aere denso manda-

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no le torce degli Arabi compagni e guide per questisepolcri, i quali macilenti, nudi, e coperti di polvere,sembrano alle mummie che fanno vedere al viaggiatore,la distanza onde vedesi dal mondo abitato, tutto ciò con-tribuisce a sgomentare l’anima dell’Europeo in siffattesotterranee escursioni. Ne ho fatte parecchie, spesso nerivenni sfinito dalla fatica e quasi ammalato: pure l’abi-tudine mi ha fatto forte contro l’orrore di tale spetta-colo; e quantunque la polvere delle mummie abbia sem-pre spiacevolmente urtati li miei sensi di maniera che l’o-dorato mi rimase molto imperfetto; sentiva molto purel’effetto soffocante di questa polvere quasi impercetti-bile, che proviene dalla decomposizione dei cadaveriimbalsamati, la quale ad un leggere movimento in mezzoa quegli ammassi di corpi s’innalza come una densanuvola. Una volta, passato un lungo e stretto corritojo,arrivai in una caverna e per riposarmi sedetti sopra unodi tali mucchi, il quale si sciolse sotto il peso del miocorpo; le vicine mummie cui voleva appigliarmi siannientarono egualmente, e cadendo fui circondato davortice di polvere che forzommi a rimanere immobile unquarto di ora, aspettando che fosse dissipato. Ma ilnumero dei corpi in questi sepolcri è tale, che talora eimpossibile avanzare un passo senza far cadere in pol-vere una mummia. Un’altra volta dovendo passare dauna in altra tomba, traversai un passaggio lungo ventipiedi, ove le mummie erano ammucchiate in modo, chenon restava che lo spazio della larghezza del corpo, e adogni istante il mio volto era in contatto con quello d’unantico egiziano. Siccome il suolo pendeva, il mio stessopeso ajutavami ad avanzare, ma non potei giungere infine del passaggio che facendo rotolar meco delle teste,delle braccia e delle gambe: tutte le caverne sepolcraliche trovai erano piene di cadaveri coricati, ammucchia-ti, in piedi, o drizzati anche in modo che avessero latesta in giú. Il mio scopo principale, visitando questirecessi, era di ricercare rotoli di papiri; de’ quali ho tro-

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vati molti celati nel seno delle mummie, sotto le lorobraccia o piegati sulle coscie e le gambe, e avviluppatida lunghe fasciature di tela.

Il popolo di Gúrnah, che si è arrogato il monopoliodelle antichità, è gelosissimo quando i forestieri fannoricerche per conto proprio: guardansi bene di mostrarei luoghi ove sanno certamente trovarsi qualche antichitàconsiderevole, e sostiene a quelli cui serve di guida chesono arrivati in fine de’ sotterranei, quando non sonoancora che sul loro principio. Soltanto in questo secon-do viaggio potei ottenere d’essere condotto nei verisepolcri; e infatti pervenni allora solamente a vederetutti i depositi delle mummie che trovansi nelle visceredi queste rocce.

A forza d’istanze ottenni queste facilitazioni duran-te il mio soggiorno in Tebe; applicandomi particolar-mente a conoscere l’entrata delle tombe non poteronogli Arabi celarmi sempre la vista dei loro scavi, perquanto ponessero cura abitualmente per farne un segre-to ai forestieri. Impiegano tante precauzioni a tale pro-posito, che se un forestiere si stabilisce appo loro alcu-ni giorni, preferiscono di sospendere le loro ricerche,anziché fargli conoscere i luoghi delle antichità. Se ilviaggiatore dimostra curiosità di penetrare nell’internod’una tomba, mostransi pronti a soddisfare la sua curio-sità, ma hanno la malizia di condurlo in una tomba aper-ta, ove erano mummie, ed ove ne restano di quelle spo-gliate da molto tempo di quanto aveano di pregevole: dimodo che il forestiero ingannato da questi furbi partecon una falsa idea di quelle grandi catacombe della cittàdi Tebe.

Gli arabi di Gúrnah vivono presso l’entrata medesi-ma delle caverne che hanno essi scoperte: innalzandomuraglie di recinto, si formarono abitazioni per essi, estalle per i loro cammelli, bufoli, pecore, capre e cani.

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johann ludwig burckhardt Il tempio di Abu Simbel

Il tempio rupestre costruito da Ramesse II ad Abu Simbel rima-

se sepolto sotto la sabbia per molti secoli e quando Burckhardt

fece il suo viaggio in Nubia dei colossi Ramessidi affioravano

solo le teste. Toccò al piú energico degli egittologi, il Belzoni,

spazzare la sabbia ed esplorare il tempio, che divenne inevita-

bilmente un punto di attrazione per seri studiosi e per avven-

turosi viaggiatori vittoriani come Mrs Amelia Edwards che

accompagnò una spedizione posteriore ad Abu Simbel. Ma il

tempio era destinato ad emergere dalla sabbia solo per un breve

periodo della sua lunga storia, perché venne presto minacciato

da un’inondazione piú duratura e distruttiva; si calcolò infat-

ti che quando la nuova diga di Assuan fosse stata terminata, il

livello dell’acqua sarebbe salito fino ad inondare il tempio e

le sculture di arenaria porosa sarebbero state completamente

distrutte. Dall’Unesco venne allora lanciato un appello con la

speranza di raccogliere una somma sufficiente a sollevare l’in-

tera struttura sopra il livello dell’acqua, ma non era facile rac-

cogliere in breve tempo i fondi per un’impresa cosí costosa e

per salvare i templi, si decise perciò di ridurli in blocchi di tren-

ta tonnellate, di asportarli e ricostruirli dove il Nilo non potes-

se raggiungerli.

Avendo visto, come credevo, tutte le antichità diEbsambal, stavo per risalire la pendice sabbiosa dellamontagna per la stessa via per cui ero sceso, quando,essendomi fortunatamente diretto piú a sud, mi imbat-tei in ciò che è ancora visibile di quattro immense sta-

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tue colossali scolpite nella roccia alla distanza di circaduecento metri dal tempio. Esse si levano in un profon-do recesso, scavato nella montagna, ma si deve vera-mente rimpiangere che siano ora quasi interamente sep-pellite sotto la sabbia che si è riversata qui a torrenti.Ora emergono al di sopra della superficie solamentetutta la testa, parte del petto e le braccia di una statua,di quella successiva non se ne vede quasi niente essen-do la testa spezzata e il corpo coperto di sabbia finosopra le spalle; delle altre due affiora solo il berretto. Èdifficile determinare se queste statue sono sedute o stan-ti; la schiena è appoggiata ad una parete di roccia chesporge dietro il corpo principale e che può rappresenta-re parte di una sedia o essere semplicemente una colon-na di supporto. Esse non guardano il fiume, come quel-le del tempio che abbiamo appena descritto, ma hannoil viso rivolto regolarmente a nord, verso la zona piú fer-tile dell’Egitto, cosí che il loro allineamento risulta quin-di ad angolo retto con la corrente del fiume. La testa cheemerge ha un viso giovane, assai espressivo, piú vicinoall’ideale greco di bellezza di quello di qualsiasi altra sta-tua dell’Antico Egitto che io abbia veduto; perciò, senon fosse per una sottile barba oblunga, si potrebbe pen-sare ad una testa di Pallade. Questa statua indossa l’al-to berretto normalmente chiamato la misura di grano, alcentro del quale c’è una sporgenza con la rappresenta-zione di un nilometro. La statua è coperta di geroglifi-ci, di ottima esecuzione, scavati profondamente nell’a-renaria e ha spalle larghe sette metri e perciò, se stante,non può essere piú bassa di venti o venticinque metri;l’orecchio è lungo un metro. Sulle pareti della roccia, alcentro dello spazio occupato dalle quattro statue, vi è lafigura di Osiride con la testa di falco, sormontata da unglobo; io sospetto che sotto ad essa, se si potesse spaz-zare la sabbia, si scoprirebbe un grande tempio, di cuile figure colossali appena descritte ornavano probabil-mente l’ingresso, come le sei del vicino tempio di Iside.

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Sono indotto poi, dalla presenza della figura a testa difalco, ad immaginare che il tempio fosse dedicato adOsiride. La superficie levigata della roccia dietro le figu-re colossali è coperta di caratteri geroglifici; al di soprasi snoda una fila di piú di venti figure sedute, alte circaun metro e mezzo, intagliate nella roccia come le altre,ma cosí sciupate che dal basso non ho potuto capire chia-ramente che cosa significavano. A giudicare dalle carat-teristiche della statua colossale visibile sopra la sabbia,io proporrei di attribuire queste opere al periodo miglio-re della scultura egizia; d’altra parte però i geroglificisulla superficie rocciosa sono di esecuzione ben diversae sembrano contemporanei di quelli del tempio di Derr.Pochi passi a sud delle quattro statue colossali c’è unrecesso ricavato nella roccia, accessibile dal fiumemediante alcuni scalini; le sue pareti sono coperte diiscrizioni geroglifiche e di rappresentazioni di Iside; c’èpure Osiride con la testa di falco.

Il tempio di Ebsambal serve come rifugio agli abitantidi Ballyane e agli Arabi vicini, contro una tribú diBeduini del Magreb che regolarmente ogni anno faincursioni in queste parti. Si tratta di uomini delle tribústanziate tra la grande oasi e Siout.

Quando si mettono in cammino, in primo luogo ripa-rano ad Argo, dove cominciano il loro viaggio a scopodi rapina, saccheggiando tutti i villaggi sulla riva occi-dentale del fiume; in seguito visitano Mahass, Sukkot,Batn el Hadjar, Wady Halfa, i villaggi di fronte a Derre infine Dakke; accanto a questa ultima località risalgo-no la montagna e ritornano verso Siout attraverso ildeserto. La squadra in genere è composta da circa cen-tocinquanta cavalieri e di altrettanti cammellieri; nes-suno osa opporsi a loro in Nubia; al contrario i gover-natori rendono loro visita quando arrivano di fronte aDerr e portano regali. Le incursioni di queste tribú sonouna delle ragioni principali dello spopolamento dellamaggior parte della riva occidentale del Nilo. Non appe-

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na avanzano verso Ballyane i suoi abitanti si ritirano conil proprio bestiame nel tempio di Ebsambal. I Magrebi-ni, lo scorso anno, tentarono di impadronirsi di questorifugio, ma dovettero desistere dopo aver perduto alcu-ni uomini.

Travels in Nubia, 1819

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amelia edwards Caffè ad Abu Simbel

A questo punto, vedendo che i nostri uomini nonavevano niente da fare, il nostro pittore ebbe l’idea dimetterli a pulire la faccia del colosso piú settentrionaleancora deturpato dal gesso rimastovi quando Mr Hay,piú di mezzo secolo fa, ne eseguí il grande calco. Que-sta brillante idea venne subito messa in atto. Fu imme-diatamente improvvisata una impalcatura di travi e diremi, e gli uomini, felici come bimbi che giocano, comin-ciarono a sciamare su tutta l’enorme testa, proprio comedeve essere avvenuto al tempo del re Ramesse.

Dovevano togliere tutti i pezzettini rimasti attaccatialla superficie e poi colorare le macchie bianche concaffè. Questo veniva fatto con pezzi di spugna legati incima a dei bastoni; ma Reis Hassan, come segno didignità, aveva un vecchio pennello del pittore di cui erafierissimo.

Il lavoro richiese tre interi pomeriggi e fummo tuttispiacenti quando finí. Vedere Reis Hassan che ritocca-va artisticamente un naso gigantesco, lungo quasi quan-to lui; Riskalli e l’aiuto cuoco barcollare qua e là conrinforzi di caffè fatto per l’occasione «denso e spesso»;Salame appollaiato a gambe incrociate, come un follet-to compiacente, sul bordo torreggiante dell’immensacorona sul capo; tutti gli altri a chiacchierare e sgam-bettare sull’impalcatura come scimmie era, oserei dire,lo spettacolo piú comico che si sia mai goduto ad AbuSimbel.

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L’avidità di Ramesse per il caffè era formidabile; neconsumava non so quanti galloni al giorno, e il nostrocuoco era letteralmente terrorizzato dal vuoto apertonelle sue provviste; prima di allora non gli era mai statochiesto di accontentare un ospite con la bocca larga unmetro.

Alla fine, il risultato giustificò la spesa. Il caffè sidimostrò un rimedio magnifico per l’arenaria e, sebbe-ne non sia stato possibile restaurare completamente l’u-niformità della superficie originale, riuscimmo almeno anascondere quelle macchie spettrali che per tanti anniavevano deturpato questa bella faccia quasi come unalebbra.

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Appello del signor Vittorino Veronesedirettore generale dell’Unesco

Sono iniziati i lavori della grande diga di Assuan.Entro cinque anni la media valle del Nilo sarà trasfor-mata in un grande lago. Meravigliose strutture, anno-verate tra le piú magnifiche della terra, corrono il rischiodi sparire sotto l’acqua. La diga porterà fertilità a un’e-norme fascia di deserto, ma l’apertura di nuovi campi aitrattori, la conquista di nuove fonti di energia a futurefabbriche minaccia di costare un prezzo terribile.

Certo quando è in gioco il benessere di uomini chesoffrono, allora, se necessario, immagini di granito e diporfido devono essere sacrificate senza esitazione. Manessuno costretto a fare una simile scelta potrebbe con-templarne la necessità senza angoscia.

Non è facile scegliere fra un’eredità del passato e ilbenessere attuale di un popolo che vive nel bisognoall’ombra di uno dei piú splendidi legati del passato: nonè facile scegliere tra templi e messi. Mi spiacerebbe chechiunque, chiamato a compiere questa scelta, potessefarla senza un senso di disperazione; mi spiacerebbe chechiunque, qualunque fosse la sua decisione, ne potessesopportare la responsabilità senza un sentimento dirimorso.

Non è perciò strano che i governi della Repubblicaaraba unita e del Sudan si siano rivolti a una organiz-zazione internazionale, l’Unesco, per cercare di salvarei monumenti minacciati. Questi monumenti, la cuiscomparsa può essere tragicamente vicina, non appar-

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tengono solamente ai paesi che li hanno in custodia.Tutto il mondo ha diritto di vederli sopravvivere. Essifanno parte di un’eredità comune che comprende il mes-saggio di Socrate e gli affreschi di Ajanta, le mura diUxmal e le sinfonie di Beethoven. I tesori di valore uni-versale sono affidati alla protezione universale. Quandova perduto un oggetto prezioso, la cui bellezza aumen-ta anziché diminuire quando viene spartito, tutti gliuomini lo perdono in eguale misura.

Inoltre non si tratta semplicemente di salvare qual-cosa che altrimenti andrebbe distrutto; si tratta di por-tare alla luce, a vantaggio di tutti, tesori ancora nasco-sti. In cambio dell’aiuto che il mondo darà loro, i gover-ni del Cairo e di Kartum apriranno tutto il loro territo-rio agli scavi archeologici e permetteranno di portare inmusei stranieri la metà di tutte le opere d’arte scoperteper caso o grazie a ricerche scientifiche. Acconsenti-ranno inoltre al trasporto, pietra per pietra, di alcunimonumenti della Nubia.

Cosí nel campo dell’egittologia si apre una nuovaera di magnifico arricchimento. Invece di pensare ilmondo privato di una parte delle sue meraviglie, l’u-manità può sperare nella rivelazione di altre meravi-glie finora ignote.

Una causa cosí nobile merita una risposta non menogenerosa. È perciò con piena fiducia che invito gover-ni, istituzioni, organizzazioni pubbliche o private euomini di buona volontà di tutto il mondo a contribui-re al successo di un’impresa senza precedenti nella sto-ria. Si richiedono aiuti personali, attrezzature e denaro.I modi di portare aiuto sono infiniti. È giusto che unpaese che attraverso i secoli è stato il teatro - o la posta- di tante controversie dettate dall’avidità offra unosplendido esempio di solidarietà internazionale.

«L’Egitto è un dono del Nilo», questa è stata laprima frase greca che innumerevoli studenti hannoimparato a tradurre. Possano i popoli del mondo unirsi

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per far sí che il Nilo, diventando una fonte ancora piúgrande di fertilità ed energia, non seppellisca sotto le sueacque meraviglie che noi abbiamo ereditato da genera-zioni da gran tempo sparite.

«Courier de l’Unesco», 1960

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gaston maspero Un deposito di mummie reali

Gaston-Camille-Charles Maspero (1846-1916) nacque a Pari-

gi. Quando frequentava il secondo anno alla Ecole normale

incontrò il grande egittologo Mariette, che era a Parigi per

sovrintendere alla sezione egiziana della grande Esposizione e

per suo consiglio e incoraggiamento indirizzò i suoi studi all’ar-

cheologia. A tempo debito divenne professore di lingua egizia-

na e archeologia alla Ecole des hautes études e dal 1874 tenne

la cattedra di Champollion al Collège de France. Nel 1880 si

recò in Egitto alla testa di un gruppo di scavatori e poco dopo

gli venne offerto il posto di direttore generale degli scavi e delle

antichità di Egitto che, tranne tre anni trascorsi a Parigi dal

1886 al 1889, egli tenne sino a quando si ritirò. A lui si devo-

no grandi lavori di sistemazione e catalogazione delle collezioni

e importanti scoperte.

Già da alcuni anni si era capito che gli Arabi diGurna avevano trovato una o due tombe reali sulla cuiubicazione si rifiutavano di fare rivelazioni. Nella pri-mavera del 1876 un generale inglese di nome Campbellmi aveva mostrato il papiro ieratico rituale del gransacerdote Pinotem comperato a Tebe per quattrocentosterline. Nel 1877 Monsieur de Saulcy mi mandò, tra-mite uno dei suoi amici di Siria, delle fotografie di unlungo papiro appartenente alla regina Notmit, madre diHerihor, la cui fine è ora al Louvre e l’inizio in Inghil-terra. Anche Mariette aveva trattato a Suez l’acquistodi due altri papiri scritti nel nome di una regina

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Tiuhathor Henttaui. Quasi contemporaneamente appar-vero sul mercato statuette funerarie del re Pinotem,alcune di ottimo stile, altre grossolane. In breve la noti-zia che era stata fatta un’importante scoperta divennecosí certa che già nel 1878 potevo affermare a proposi-to di una tavoletta di proprietà di Rogers Bey che «essaproveniva da una tomba assai vicina alle tombe nonancora topograficamente identificate della famiglia diHerihor ...»

Quindi l’identificazione della località di queste tombereali era se non il massimo, almeno uno dei principaliscopi di un viaggio che compii nell’Alto Egitto nelmarzo-aprile 1881. Non avevo intenzione di fare qual-che sondaggio o di intraprendere scavi nella necropolitebana; il problema era ben piú complesso. Era neces-sario estorcere ai fellah il segreto che avevano custodi-to sino ad allora cosí gelosamente. Sapevo una cosa sola;i piú importanti mercanti di antichità erano un certoAbd-er-Rassoul Ahmed, di Sheik Abd-el-Gurna, e uncerto Mustafà Aga Ayad, viceconsole di Inghilterra eBelgio a Luxor. Cogliere in fallo quest’ultimo non erasemplice; grazie all’immunità diplomatica poteva sfug-gire ai provvedimenti della Direzione degli scavi. Il 4aprile mandai al capo della polizia di Luxor un ordinedi arresto per Abd-er-Rassoul Ahmed e telegrafai a suaeccellenza Daud Pasha, mudir (governatore) di Qena,come pure al ministro dei Lavori pubblici, chiedendol’autorizzazione ad aprire un’inchiesta immediata con-tro costui. Interrogato a bordo di una nave prima daEmile Brugsch e poi da De Rochemonteix che gentil-mente mi diede l’assistenza della sua esperienza, negòtutto quanto gli imputavo: la scoperta della tomba, lavendita di papiri e di statuette funerarie, la rottura disarcofagi, in contrasto con le asserzioni quasi unanimidei viaggiatori europei. Accettai la sua offerta di far per-quisire la sua casa, non tanto sperando di trovare deglioggetti che lo incriminassero quanto per offrirgli una

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possibilità di cambiare parere e di scendere a un com-promesso con noi. Dolcezza, minacce, niente ebbe suc-cesso e il 6 aprile arrivò il mandato di aprire un’inchie-sta ufficiale; cosí mandai Abd-er-Rassoul Ahmed e suofratello Hussein Ahmed a Qena, dove il mudir richie-deva la loro presenza per iniziare il processo.

Le indagini vennero svolte accuratamente ma nelcomplesso non diedero alcun risultato. Le domande e gliargomenti avanzati dai magistrati della Mudiria (pro-vincia) alla presenza del nostro delegato, l’ispettore diDendera, Aly-Effendi Habib, furono notevoli per laconvocazione di un gran numero di testimoni favorevo-li all’accusato. I piú importanti cittadini e i maggioren-ti di Gurna dichiarano piú volte sotto vincolo di giura-mento che Abd-er-Rassoul Ahmed era uno degli uomi-ni piú onesti e disinteressati del distretto, e che, lungidal saccheggiare una tomba reale, era incapace di far spa-rire il piú insignificante oggetto antico. La sola notiziainteressante che venne alla luce durante l’inchiesta ful’insistenza con cui Abd-er-Rassoul Ahmed affermava diessere al servizio di Mustafà Aga, il viceconsole inglesea Luxor, e di vivere nella sua casa. Pensava che facen-do presente di essere al servizio del viceconsole avreb-be beneficiato dei privilegi diplomatici e si sarebbeavvalso della protezione belga o britannica. MustafàAga aveva incoraggiato lui e i suoi soci a fare questoerrore; li aveva persuasi che nascondendosi dietro a luisarebbero stati da allora in poi al sicuro dagli agenti del-l’amministrazione locale, e con questo semplice espe-diente era riuscito a concentrare nelle sue mani tutto ilcommercio di antichità della pianura di Tebe.

Abd-er-Rassoul Ahmed venne perciò lasciato inlibertà provvisoria con la cauzione di due dei suoi amici,Ahmed Serour e Ismail Sayid Nagib, e ritornò a casa conun certificato di onore senza macchia conferitogli dai piúimportanti cittadini di Gurna. Ma il suo arresto e i duemesi di prigionia oltre alla severità con cui sua eccellenza

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Daud Pasha aveva condotto l’inchiesta, gli avevano chia-ramente dimostrato che Mustafà Aga non era in gradodi proteggere nemmeno i suoi agenti piú fedeli; si sape-va inoltre che io intendevo riaprire le indagini al mioritorno a Tebe durante l’inverno e che anche la Mudi-ria avrebbe continuato le indagini. Cominciarono adarrivare al Museo alcune vaghe denunce, e venimmo aconoscere da altri alcune nuove informazioni dall’este-ro; ma le notizie migliori riguardavano le liti scoppiatetra Abd-er-Rassoul e i suoi quattro fratelli; alcuni con-sideravano il pericolo definitivamente passato e le auto-rità del Museo sconfitte, altri giudicavano piú pruden-te venire a patti con il Museo e divulgare il segreto.Dopo un mese di liti e di discussioni, il piú vecchio deifratelli, Mohammed Ahmed Abd-er-Rassoul, improvvi-samente decise di parlare. Si recò segretamente a Qenae disse al mudir di conoscere la località cercata invanoper parecchi anni; la tomba non conteneva solo una odue mummie, ma circa quaranta e la maggior parte deisarcofagi era contraddistinta da un piccolo serpente suldavanti simile a quello che compare sul copricapo delfaraone. Sua eccellenza Daud Pasha riferí immediata-mente la notizia al ministro dell’Interno, che inviò untelegramma a sua eccellenza il kedivè. Sua altezza, cuiavevo parlato dell’affare al mio ritorno dall’Alto Egit-to, riconobbe senza difficoltà l’importanza di questadenuncia inaspettata e decise di mandare a Tebe unfunzionario del Museo. Io ero appena tornato in Euro-pa, ma avevo lasciato a Monsieur Emile Brugsch, miovicedirettore, i poteri necessari per agire per me in miavece. Avendo ricevuto ordine di procedere, partí perTebe il sabato, Iº luglio, accompagnato da un amicofidato e dal segretario-interprete del Museo AhmedEffendi Kamal. A Qena li aspettava una sorpresa: DaudPasha aveva sequestrato in casa dei fratelli di Abd-er-Rassoul alcuni preziosi oggetti, tra cui tre papiri dellaregina Makere, della regina Isiemkheb e della princi-

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pessa Nesikhonsu. Era un inizio promettente. Per assi-curare il felice esito della delicata operazione appena ini-ziata, sua eccellenza aveva messo a disposizione deinostri agenti il suo wekil e alcuni dipendenti del mudir...

Il mercoledì 6, i signori Emile Brugsch e AhmedEffendi Kamal vennero condotti da Mohammed AhmedAbd-er-Rassoul direttamente nel punto dove si trovavail sotterraneo funebre. L’ingegnere egizio che l’avevaprogettato tanti anni prima era stato assai abile; mai unnascondiglio era stato celato piú accuratamente. La lineadelle colline che separa la Biban-el-Moluk [Valle dei Re]dalla pianura tebana è interrotta qui da una serie divalli naturali a forma circolare tra Assassif e la Valledelle Regine, di cui la piú nota è quella in cui fu erettoil tempio di Deir el-Bahari. Nella parete rocciosa chesepara Deir-el-Bahari dalla valle successiva, proprio die-tro la collina Sheikh Abd-el-Gurna, circa sessanta metrisopra il livello del terreno coltivato, era stato scavato unpozzo profondo undici metri e mezzo e del diametro didue metri. In fondo al pozzo, sul lato occidentale s’a-priva l’accesso ad un corridoio largo metri uno e quat-tro e alto ottanta centimetri. Dopo sette metri e qua-ranta centimetri svoltava improvvisamente a nord e con-tinuava per altri sessanta metri cambiando continua-mente dimensioni: in certi punti era largo due metri ein altri non piú di un metro e trenta; verso la metà cin-que o sei gradini rozzamente sbozzati mostravano unsensibile mutamento di livello e una nicchia non finitasul lato destro indicava che un tempo si era pensato adun nuovo mutamento nella direzione del corridoio. Infi-ne si allargava in una camera irregolare, allungata, dicirca otto metri.

Il primo oggetto che si presentò allo sguardo di EmileBrugsch quando raggiunse il fondo del pozzo fu un sar-cofago bianco e giallo con il nome di Nesikhonsu. Eranel corridoio a circa sessanta centimetri dall’ingresso, unpo’ piú in là c’era un sarcofago dello stile della XVII

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dinastia, poi la regina Tiuhathor Henttaui, poi Seti I.Accanto ai sarcofagi e sparsi sul terreno c’erano sta-tuette funerarie di legno, vasi canopici, vasi bronzei perlibagioni e, al fondo nell’angolo formato dalla deviazio-ne a nord del corridoio, la tenda funebre della reginaIsiem kheb arrotolata e stropicciata come un oggettosenza valore, che un prete nella fretta di uscire avevabuttata negligentemente in un angolo. Il grande corri-doio era ugualmente ostruito in tutta la sua lunghezza ealtrettanto disordinato; fu necessario avanzare a quat-tro gambe, non sapendo dove si mettevano mani e piedi.I sarcofagi e le mummie osservati rapidamente alla lucedelle candele portavano nomi storici: Amenhetep, I,Tuthmose II, nella nicchia presso i gradini, Ahmose I esuo figlio Siamun, Sequenre, la regina Ahotpe, Ahmo-se, Nefertari e altri. La confusione raggiungeva il colmonell’ultima camera, ma era possibile individuare diprim’acchito che predominava lo stile della XX dinastia.Il rapporto di Mohammed Ahmed Abd-er-Rassoul, cheera sembrato a tutta prima esagerato, diceva appena laverità; dove mi aspettavo di trovare uno o due re mino-ri, gli Arabi avevano scoperto un sotterraneo pieno difaraoni. E che faraoni! Probabilmente i piú famosi dellastoria egizia, Tuthmose III e Seti I, Ahmose il Libera-tore e Ramesse II il Conquistatore. Emile Brugsch cre-dette di sognare capitando cosí improvvisamente in unsimile consesso. Come lui anch’io mi chiedo se sogno oson desto quando tocco i corpi di tutti quei personaggi,mentre non avrei mai pensato di conoscerne altro che inomi.

Per l’esame preliminare bastarono due ore poi comin-ciò il lavoro di portar fuori i sarcofagi. Dagli ufficiali delmudir vennero presto raccolti e messi al lavoro trecen-to Arabi. L’imbarcazione del Museo, subito chiamata,non era ancora arrivata, ma era presente uno dei suoipiloti, Reis Mohammed, assolutamente degno di fiducia.Egli scese in fondo al pozzo e sorvegliò la rimozione del

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suo contenuto. Emile Brugsch e Ahmed Effendi Kamalricevevano gli oggetti e li smistavano alla meglio perterra senza allentare un momento la loro vigilanza, poigli oggetti venivano portati ai piedi della collina e dispo-sti l’uno accanto all’altro. Per svuotare il sotterraneooccorsero quarantotto ore di duro lavoro, ma il compi-to non era affatto finito. Era ancora necessario che ilconvoglio attraversasse la pianura tebana fino alla spon-da del fiume presso Luxor. Per alcuni sarcofagi, sollevatisolo con grandissima difficoltà da dodici o sedici uomi-ni, occorsero da sette a otto ore per raggiungere il fiume,e si può ben immaginare che cosa fosse un viaggio delgenere fra la polvere e il caldo di luglio.

Finalmente, la sera dell’11 tutte le mummie e i sar-cofagi erano a Luxor, accuratamente avvolti in stuoie etele. Tre giorni dopo arrivò il vaporetto del Museo cheappena caricato subito ritornò a Bulaq con il suo caricodi re. Accadde allora una strana cosa. Da Luxor a Quftsulle due rive del Nilo, le donne fellah seguivano labarca piangendo con i capelli sciolti e gli uomini spara-vano con i fucili come fanno ai funerali. MohammedAbd-er-Rassoul fu ricompensato con cinquecento sterli-ne e pensai che la cosa migliore era di nominarlo capodegli scavi a Tebe: se avesse servito il Museo con lo stes-so zelo e la stessa abilità che aveva impiegati per tantianni contro di esso, avremmo potuto sperare in magni-fiche scoperte.

«Bulletin de l’Institut Egyptien», serie II, n. 2, 1881

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athanasius kircherUna falsa interpretazione dei geroglifici

Athanasius Kircher (1601-80) nacque a Geisa presso Fulda.

Entrò nel collegio gesuita di Fulda e nel 1618 divenne novizio

di quest’ordine. Raggiunse la carica di professore di filosofia,

matematica e lingue orientali a Würzburg, ma nel 1631 i

tumulti della guerra dei trenta anni lo spinsero a rifugiarsi ad

Avignone. Nel 1635 il cardinale Barberini gli assicurò a Roma

il posto di insegnante di scienze matematiche al Collegio Roma-

no e dopo otto anni egli rassegnò le dimissioni per dedicarsi

completamente allo studio delle antichità. Non era un dotto di

grande originalità, e la sua opera, che comprende una decifra-

zione assolutamente sbagliata dei geroglifici egizi, ha valore solo

come fatto storico e dimostrazione degli errori dei piú antichi

archeologi. Il passo che riportiamo è tratto dalla sua introdu-

zione esplicativa; non è assolutamente il caso di citare la sua

grammatica e il suo vocabolario geroglifici completamente

immaginari.

Lettera di prefazione al saggio e benevolo lettore.

Non ho mai constatato la verità del detto ebraico«Chi accresce il sapere, accresce il dispiacere» come nelriesumare lo studio di questa lingua finora ignota inEuropa, in cui vi sono tanti disegni quante lettere, tantienigmi quanti suoni, in breve tanti labirinti da cui distri-carsi quante montagne da scalare. La storia illustra chia-ramente le difficoltà che si incontrano nell’intraprendere

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compiti ardui ed inconsueti, nell’aprire senza l’aiuto diuna guida sentieri mai percorsi e nell’affrontare i peri-coli inerenti all’indagine dei misteri di una lingua maistudiata prima. Comunque, la perseveranza ha trionfa-to delle difficoltà di questo astruso compito, un interesseappassionato per tale problema ha alleviato il lavoroimmane che esso comportava e l’ardente desiderio insi-to in me dalla natura di promuovere e far rivivere studiabbandonati a causa della loro difficoltà ha superatotutti gli ostacoli. La fatica si è ben presto trasformata inriposo, la noia in piacere e i timori che nutrivo circa ledifficoltà di giungere alla radice del problema e di risol-verlo si è tramutata in gioia.

Sapendo di dover essere giudicato da voi, non dovreitemere le critiche degli altri, né cercare di difendere lamia opera. Sono conscio comunque di essere capitato intempi in cui le cose piú nobili sono le piú esposte allacensura, i luoghi comuni piú seri sono quelli maggior-mente derisi e le imprese piú onorevoli sono considera-te con il sospetto piú profondo. Inoltre la mentalità dimolti è tale che non sono disposti a credere a nulla dinuovo e di strano che trascenda la loro esperienza, ameno che sia attestato da prove convincenti e dalla testi-monianza di uomini degni di fede e che ne risulti chia-ra la utilità pratica. Cosí, per accrescere la fiducia nellamia opera e conquistarle maggiore autorità, ho pensatosia bene spiegare chiaramente e brevemente come essavenne composta, come l’autografo venne nelle mie mani,aggiungendo nello stesso tempo un esempio che mostriquanto l’opera sarà utile. In questo modo confido mi siapiú facile sfuggire l’assurda ma vergognosa accusa difalso, che la fertile immaginazione di certe persone mal-disposte può concepire.

È accaduto cosí. Spinto dal suo amore per la filoso-fia e l’antichità, l’onorevole Petrus à Valle, cavaliere epatrizio di Roma, viaggiò come un secondo Apollonioattraverso Grecia, Palestina, Persia, India, Arabia e

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quasi tutto il mondo orientale e giunse finalmente inEgitto, fertile sorgente di ogni conoscenza, per esplora-re lui stesso le meraviglie di cui aveva letto. Tra le cosememorabili che esaminò accuratamente egli si imbattéin questo vocabolario, o elenco di parole, copto-arabonascosto fra uomini le cui menti ignoranti erano incapacidi apprezzarlo. Lo esaminò accuratamente e trovò chesarebbe stato di inestimabile valore per far rivivere l’an-tica lingua d’Egitto che era quasi morta con il tempo.Perciò lo comperò per una somma considerevole e dopoun viaggio lungo e pericoloso lo portò felicemente aRoma, trattandolo con la massima cura, perché moltipotessero usarlo e ricavarne qualche utile. Per offrireuna prova convincente di questo racconto è bene aggiun-gere la testimonianza di un passo all’inizio dell’auto-grafo:

«Alla fine dell’anno di grazia 1615 ero nella città delCairo, la piú famosa delle città egiziane dell’epoca,intento a studiare minuziosamente i monumenti trascu-rati dell’antichità e qui trovai questo libro, nascosto trauomini le cui menti ignoranti erano incapaci di apprez-zarlo. Dopo un viaggio lungo e difficile lo portai final-mente a Roma affinché, con il suo aiuto, l’antica linguaegizia, che era quasi morta tra gli stessi Egiziani, possainfine rivivere e gettare luce sulla letteratura sacra esecolare. Possa la posterità gradire il mio contributo aquesta impresa e il servizio che rendo alla città eterna eal mio paese, fonte della buona cultura. Addio».

Intanto Nicolaus Fabricius, senatore reale alla cortedi Aquisgrana, questa splendida gloria delle lettere, erastato pienamente informato di questo tesoro appenaportato dall’Egitto e non lasciò nulla di intentato perpubblicarne il piú presto possibile una traduzione lati-na. Si cercò all’estero una persona in grado di affronta-re questa impresa, specialmente in Francia dove lo stu-dio delle lingue straniere e delle lettere in generale èstraordinariamente vivo. Infine io, che avevo eletto la

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Francia a mia seconda patria dopo aver abbandonato laGermania in seguito all’incursione svedese, fui spinto adaccettare il compito, sebbene non me ne sentissi affat-to all’altezza, per le insistenze dei miei amici e special-mente per le pressanti richieste del mio caro amicoFabricius. Quando giunse notizia di questi tentativi alleorecchie di sua eminenza il cardinal Barberini, anch’e-gli si votò alla causa con non minor entusiasmo. Miinvitò a recarmi a Roma di gran fretta per compiere quil’opera e far rivivere lo studio dei geroglifici. Raggiun-si Roma, non senza qualche pericolo, incominciai il lavo-ro affidatomi, e, con l’aiuto di Dio lo portai in due annialla conclusione sperata. Il libro era finito e pronto perla stampa, ma io venni trattenuto da un viaggio cheavevo intrapreso in Sicilia e a Malta, e la pubblicazionevenne piú volte differita per la mancanza dell’attrezza-tura necessaria per stampare i caratteri. A causa di que-sti ostacoli l’opera rimase ferma per alcuni anni, e l’au-tore non aveva quasi piú l’intenzione di pubblicarla.Anzi non sembrava improbabile che un tesoro strappa-to con tanta fatica alle tarme e ai vermi dovesse torna-re al suo caos primitivo. Mentre meditavo su queste coseil Santo Romano Imperatore, ben conoscendo le ragio-ni di questo ritardo, con la sua grande e naturale muni-ficenza provvide con gran generosità i fondi sufficientiper procurare i caratteri di tutte le lingue orientali e altrecose necessarie a completare il lavoro. Ricordo ciò affin-ché il lettore possa apprezzare le virtú incomparabili diquesto ferreo imperatore che non era tanto sopraffattodalla barbarie della guerra e da ondate su ondate diinvasioni da dedicarsi interamente a Marte dimentican-do Pallade Atena. Si potrebbe dire di piú della grandesaggezza di questo invincibile imperatore, del suo entu-siasmo per tutte le arti, della sua cortesia quasi incredi-bile. Comunque intendo considerare altrove queste cosee, non potendone trattare qui con la dovuta brevità, peril momento le tralascio. Vennero quindi acquistati, gra-

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zie alla generosità dell’imperatore, i caratteri e l’operatanto attesa passò alla stampa e vide finalmente la luce.

Vedrete che è in tre parti, la prima comprende lagrammatica, la seconda il vocabolario e la terza un elen-co di parole in ordine alfabetico. Non crederete la fati-ca che ci è costato fare una traduzione accurata deinomi di cosa. Saremmo crollati se non avessimo avutol’aiuto di due copti e di altri, specialmente di AbrahamEcchell, studioso in molte branche del sapere, tra cui lelingue orientali, che ci aiutò in ogni modo particolar-mente collazionando attentamente ogni passo con l’au-tografo.

Inoltre nella nostra traduzione abbiamo avuto cura direndere ogni cosa in latino parola per parola. Nell’inte-resse dell’integrità e anche della chiarezza, abbiamo evi-tato qualsiasi congettura e segnato con un asterisco queipunti in cui la traduzione è dubbia perché l’umidità hareso illeggibile l’originale. Per evitare gravi errori nellatraduzione di altre parole ambigue ed equivoche, leabbiamo confrontate - e vi lasciamo immaginare la por-tata di un tale lavoro - con il manoscritto della SacraScrittura al Vaticano. Con l’aiuto di Dio, abbiamo otte-nuto con il nostro lavoro indefesso l’accuratezza di tra-duzione necessaria per far rivivere lo studio dei gero-glifici e per la rinascita di questa disciplina trascurata.

Confido che ciò sia sufficiente ad evitare gli attacchidi coloro che potrebbero mordere la nostra opera con identi dell’invidia. Questo libro è stato sostenuto eardentemente atteso dal gran pubblico e da lettori qua-lificati; infatti gli uomini piú eminenti del nostro temponella repubblica delle lettere, non solo in Europa, maanche in Asia e in Africa, gli hanno concesso la loroapprovazione e ne hanno desiderato il completamentocome potremmo ampiamente dimostrare con le letterericevute da Ebrei, Greci, Arabi, Armeni, Siriaci, Etio-pi e Persiani, da Costantinopoli, Aleppo. Damasco,Alessandria, il Cairo, Efeso, Tunisi e altre località.

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Comunque lasciamo a Edipo di convalidare ciò cheabbiamo detto. Infatti se la bontà divina ne prolunga lavita, Edipo dimostrerà che cosa abbiamo ottenuto nelfar rivivere questa lingua. Se io non mi sono clamoro-samente sbagliato, gli studiosi di questo astruso proble-ma nei tempi futuri ammetteranno che le monumentalifatiche di Edipo non sarebbero mai state utili senzal’aiuto di questa lingua e confidiamo di esserci acqui-stato da una posterità riconoscente qualche ringrazia-mento quando a tempo debito avrà tratto tutti i fruttidel nostro lavoro. Noi abbiamo prodotto un Sileno rozzoe incolto al suo apparire, ma che al momento giusto, nesiamo sicuri, risplenderà illuminando luoghi bui. Que-sti sono i fatti di cui, o lettore, abbiamo pensato fossebene informarti. E cosí addio e sii abbastanza buono dasecondare il mio lavoro facendomi sapere se scopriraiqualcosa che possa aiutare Edipo.

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tomkyns hilgrove turnerCome la stele di Rosetta giunse al Museo Britannico

Sir Tomkyns Hilgrove Turner (1766-1843) fu militare di pro-

fessione e ottenne fama notevole sia come soldato che come

archeologo. Dal 1793 in poi fu continuamente impegnato in

campagne nei Paesi Bassi e in Francia e nel 1801 si recò con il

suo reggimento in Egitto dove combatté nelle battaglie della

baia di Abukir e di Alessandria. Dopo la capitolazione di que-

sta città, uno degli articoli delle condizioni di resa chiedeva ai

Francesi di cedere molte delle antichità che la loro commissione

scientifica aveva raccolto, e fu Turner a trattare il vero e pro-

prio trasferimento di questi oggetti e a insistere affinché la col-

lezione comprendesse il reperto piú importante portato alla

luce dai Francesi, la stele di Rosetta. Turner scrisse una rela-

zione di questi negoziati per la Society of Antiquaries, nei cui

locali la stele fu esposta prima di venir trasferita al Museo Bri-

tannico, dove in seguito rimase.

Letto l’8 giugno 1810.

Argyle Street, 30 maggio 1810

Signore,poiché la stele di Rosetta ha suscitato vivo interesse

nel mondo dei dotti e in particolare in questa società,vi chiedo di poter esporre, per mezzo vostro, qualcheparticolare sul modo in cui venne in possesso dell’eser-cito inglese e come fu trasportata nel nostro paese, pen-sando che ciò sia ben accetto al mondo della cultura.

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Secondo l’articolo XVI della capitolazione di Ales-sandria, il cui assedio pose fine alle operazioni dell’e-sercito inglese in Egitto, tutte le curiosità, naturali eartificiali, raccolte dall’Istituto francese e da altri, dove-vano essere consegnate ai vincitori. Il generale franceserifiutò, dicendo che erano tutte proprietà privata. Siebbe un fitto scambio di epistole; alla fine, consideran-do che la cura di custodire insetti e animali li aveva resiin qualche modo proprietà privata, Lord Hutchinson virinunziò; ma le curiosità artificiali, che consistevano inmanoscritti arabi e in antichità, fra cui la stele di Roset-ta, vennero richiesti con insistenza dal nobile generalecon il suo solito zelo per la scienza. Su questo punto ebbinumerosi colloqui con il generale francese Menou, chealla fine si arrese, dicendo che la stele di Rosetta era suaproprietà privata, ma che essendone costretto, avrebbeceduto come gli altri proprietari. Quindi, essendo mala-to il segretario Fourier, ricevetti secondo gli accordi, dalsottosegretario dell’Istituto, Le Père, un foglio con unalista delle antichità e il nome dei proprietari di ogni sin-golo pezzo; la stele vi era descritta di granito nero, contre iscrizioni, di proprietà del generale Menou. Seppidagli studiosi francesi che la stele di Rosetta era statatrovata durante i lavori di restauro tra le rovine delforte St-Julien quando fu riparato dai Francesi e riatta-to a scopi difensivi: sorge alla foce del Nilo, sul ramo diRosetta, dove si trovano con ogni probabilità i pezzimancanti. Fui anche informato che c’era un’altra stelesimile a Menouf, nascosta, o quasi, dalle brocche diargilla accatastate su di essa, dato che sorgeva pressol’acqua, e che un frammento di una terza stele era statoreimpiegato nei muri delle fortificazioni francesi di Ales-sandria. La stele fu accuratamente portata ad Alessan-dria nella casa del generale Menou, coperta con una sof-fice stoffa di cotone e una doppia stuoia, dove io la vidiqui per la prima volta. Il generale aveva scelto per sestesso questa preziosa reliquia della antichità. Quando

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l’esercito francese seppe che le antichità sarebbero pas-sate in mano nostra, l’imballaggio della stele venne lace-rato e abbandonato; anche gli eccellenti imballaggi dilegno del resto vennero sfasciati, perché essi, all’inizio,s’erano dati molta pena di salvare e difendere le anti-chità da qualsiasi danno. Feci grandi rimostranze, maincontrai le difficoltà maggiori a proposito di questastele e del grande sarcofago, che in primo tempo vennerecisamente rifiutato dal Capitan Pasha che se lo eraprocurato essendo il proprietario della nave su cui l’a-vevano imbarcato i Francesi. Ottenni comunque un per-messo d’ingresso alla spiaggia da Monsieur Le Roy, pre-fetto marittimo, che, come il generale, si comportò congrande cortesia, cosa che non fecero alcuni altri.

Quando raccontai a Lord Hutchinson come era statatrattata la stele, egli mi diede un distaccamento di arti-glieri e una macchina di artiglieria chiamata, per la suaefficacia, macchina del diavolo, con cui la sera stessa mirecai dal generale Menou e trasportai la stele a casa miasenza danni, ma con qualche difficoltà a causa dellestrade strette, seguito dal sarcasmo di numerosi Fran-cesi, soldati e ufficiali; mi aiutava abilmente un intelli-gente sergente di artiglieria, che comandava il gruppotutto felice del proprio compito; erano i primi soldatiinglesi a entrare in Alessandria. Nel periodo in cui lastele rimase nella mia casa, alcuni gentiluomini del corpodegli studiosi mi chiesero di fare un calco, il che io per-misi senza difficoltà, purché la stele non ne riportassedanni. Essi portarono il calco a Parigi, lasciando la steleben ripulita dall’inchiostro da stampa con cui era statacosparsa appena scoperta per ricavare alcune copie dainviare in Francia.

Avendo badato a che gli altri resti dell’antica cultu-ra egizia venissero imbarcati sulla nave ammiraglia, laMadras di Sir Richard Bickerton, che gentilmente mioffrí tutta l’assistenza possibile, mi imbarcai con la steledi Rosetta, deciso a condividerne la sorte, a bordo della

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fregata Egyptienne, ancorata nel porto di Alessandria earrivai a Portsmouth nel febbraio 1802. Quando la naveattraccò a Deptford, posi la stele su una barca e appro-dai alla dogana. Lord Buckinghamshire, allora segreta-rio di Stato, accolse la mia richiesta e permise che essarestasse per qualche tempo nella sede della Society ofAntiquaries, prima di collocarla nel Museo Britannico,dove confido resterà a lungo, una delle piú preziose reli-quie dell’antichità, il tenue, ma finora unico, legame chesi sia scoperto dell’egizio con lingue conosciute, unsuperbo trofeo delle armi inglesi (potrei quasi dire spo-lia opima), non rapito ad abitanti indifesi, ma onore-volmente conquistato con la fortuna di guerra.

Ho l’onore di essere, signore, il vostro piú ubbidien-te e piú umile servitore.

H. Turner, maggior generale

Nicholas Carlisle segretario della Society of Antiquaries

«Archeologia», vol. XVI, 1812

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Champollion decifra i geroglifici

Jean-François Champollion (1790-1832) nacque a Figeac e

mostrò presto una sorprendente disposizione per le lingue favo-

rita e incoraggiata dal fratello maggiore. A sedici anni lesse

all’Accademia di Grenoble un articolo che meravigliò gli stu-

diosi presenti, e all’età in cui la maggior parte dei giovani fanno

la domanda di ammissione, egli venne nominato insegnante. Il

suo lavoro venne spesso interrotto dai disordini politici dell’e-

poca, ma nel 1821 poté pubblicare l’articolo che si rivelò la

soluzione definitiva dei geroglifici egizi. La sua idea era in

piena contraddizione con quelle propugnate dalla maggior parte

degli studiosi suoi contemporanei e incontrò vivaci opposizio-

ni, ma la sua opera superò con successo tutte le prove e non poté

mancargli a lungo l’approvazione. Nel 1831 venne creata appo-

sitamente per lui al Collège de France una cattedra in ricono-

scimento dei suoi meriti.

Lettera a Monsieur Dacier circa l’alfabeto dei gerogli-fici fonetici.

Signore,è al vostro generoso patrocinio che devo l’indulgen-

te attenzione che l’Académie Royale des Inscriptions etBelles Lettres si è compiaciuta di accordare alla miaopera sulle scritture egizie, permettendomi di sotto-porre al suo giudizio i miei due rapporti sulla scritturaieratica, o sacerdotale, e sulla demotica, o popolare;

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dopo questa prova lusinghiera posso finalmente spera-re di aver dimostrato con successo che nessuno di que-sti due tipi di scrittura è composto di lettere alfabeti-che, come è stata diffusa convinzione, ma piuttosto diideogrammi come gli stessi geroglifici, che esprimono iconcetti piuttosto che i suoni di una lingua; posso anchecredere, dopo dieci anni di intensi studi, di essere giun-to al punto di fornire una visione quasi completa dellastruttura generale di queste due forme di scrittura, del-l’origine, natura, forma e numero dei loro segni, delleregole per combinarli mediante quei simboli che assol-vono a funzioni puramente logiche e grammaticali, get-tando cosí le prime basi di ciò che si potrebbe chiama-re la grammatica e il dizionario di queste due scritture,che si incontrano nella maggior parte dei monumenti,la cui interpretazione getterà tanta luce sulla storiagenerale dell’Egitto. Per quanto riguarda in particola-re il demotico, basta la preziosa iscrizione di Rosetta peridentificare il tutto. La critica dotta deve essere gratain primo luogo alle doti del vostro illustre collega, Mon-sieur Silvestre de Sacy, e successivamente al defuntoMonsieur Akerblad e al dottor Young per la prima ideaprecisa tratta da questo monumento, ed è dalla mede-sima iscrizione che ho dedotto la serie dei simbolidemotici che, assumendo valori sillabici-alfabetici, furo-no usati nei testi ideografici per esprimere i nomi pro-pri di persone non egiziane. È anche con questo mezzoche fu scoperto il nome dei Tolomei, sia in questa stes-sa iscrizione, sia in un papiro manoscritto recentemen-te portato dall’Egitto.

Perciò, per completare il mio studio dei tre tipi discrittura egizia, mi resta solo da pubblicare la mia rela-zione sul vero e proprio geroglifico. Oso sperare che imiei ultimi sforzi avranno una favorevole accoglienzadalla vostra famosa società, la cui benevolenza è stataper me un cosí valido incoraggiamento.

Comunque, allo stato attuale degli studi egizi, in cui

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reliquie abbondano in ogni parte raccolte tanto da requanto da amatori, e quando, anche, a proposito di que-sti monumenti, gli studiosi di tutto il mondo si dedica-no appassionatamente a laboriose ricerche e si sforzanodi capire a fondo questi documenti scritti che dovran-no spiegare il resto, io non penso di dover differire lapresentazione, sotto i vostri onorati auspici, a questi stu-diosi di una breve ma fondamentale lista di nuove sco-perte, che appartengono propriamente alla mia relazio-ne sulla scrittura geroglifica e che indubbiamente rispar-mieranno loro le fatiche che sono costate a me e forseanche qualche grave errore circa i vari periodi della sto-ria della cultura egizia e del governo in generale; noi trat-teremo infatti di una serie di geroglifici, che, facendoun’eccezione alla natura generale dei segni di questascrittura, avevano la proprietà di esprimere i suoni dellaparola e servivano per l’iscrizione sui monumenti nazio-nali egizi dei titoli, nomi e soprannomi dei sovrani grecio romani che governarono successivamente il paese. Daquesti nuovi risultati delle mie ricerche, cui sono giun-to assai naturalmente, sgorgheranno molte precisazionicirca la storia di questo famoso paese.

L’interpretazione del testo demotico nell’iscrizione diRosetta per mezzo del testo greco che l’accompagna, miaveva fatto capire che gli Egizi usavano un certo nume-ro di caratteri demotici, che avevano la proprietà diesprimere suoni, per introdurre nella loro scrittura ideo-grafica nomi propri e parole straniere alla lingua egizia. Sivede subito l’indispensabile necessità di un tale metodoin un sistema di scrittura ideografico; infatti i Cinesi,che usano anch’essi una scrittura ideografica, hannoadottato un espediente esattamente uguale creato per lastessa ragione.

La stele di Rosetta ci mostra l’applicazione di questometodo di scrittura ausiliario, che ho chiamato fonetico,cioè che esprime suoni, nei nomi propri dei re Alessan-dro e Tolomeo, delle regine Arsinoe e Berenice e nei nomi

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propri di sei altre persone, Aetes, Pyrrha, Philinus, Areia,Diogene e Irene e nelle parole greche XYNTAXIS eOUHNN...

Il testo geroglifico dell’iscrizione di Rosetta, che sisarebbe prestato magnificamente a questo studio, acausa della rottura. rivelò solo il nome di Tolomeo.

L’obelisco trovato nell’isola di File e recentementeportato a Londra contiene anche il nome geroglifico diun Tolomeo scritto con gli stessi simboli dell’iscrizionedi Rosetta e ugualmente rinchiuso in un cartiglio, segui-to da un secondo cartiglio che deve contenere il nomeproprio di una regina tolemaica, poiché questo cartigliotermina con i segni del geroglifico femminile che segueanche i nomi propri geroglifici di ogni dea egizia, senzaeccezione. L’obelisco era, per cosí dire, assicurato a unpiedestallo con un’iscrizione greca che contiene una sup-plica del sacerdote del tempio di Iside a File al re Tolo-meo, a sua sorella Cleopatra e a sua moglie Cleopatra.Se questo obelisco e la sua iscrizione geroglifica risulta-vano dall’orazione del sacerdote, che in realtà ricorda laconsacrazione di un monumento simile, il cartiglio conil nome femminile poteva essere solo quello di una Cleo-patra. Questo nome e quello di Tolomeo, che hanno ingreco alcune lettere uguali, dovevano servire per unostudio comparato dei simboli geroglifici che compone-vano entrambi, e se segni identici in questi due nomivenivano usati per gli stessi suoni in ambedue i cartigli,essi avrebbero dovuto avere carattere completamentefonetico.

Un confronto preliminare mi aveva già permesso distabilire che questi stessi due nomi, scritti fonetica-mente nel demotico, contenevano un certo numero dicaratteri identici. La somiglianza tra le tre scritture egi-zie nei loro principi generali mi indusse a osservare lostesso fenomeno e le stesse corrispondenze quando glistessi nomi erano scritti in geroglifici; ciò venne ben pre-sto confermato da un semplice paragone del cartiglio

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geroglifico contenente il nome di Tolomeo con quellodell’obelisco di File che credevo, secondo il testo greco,contenesse il nome di Cleopatra.

Il primo segno nel nome, Cleopatra, che rassomigliaad una specie di quadrante, e che dovrebbe rappresen-tare la K, avrebbe dovuto mancare nel nome di Tolo-meo. Cosí era.

Il secondo segno, un leone accovacciato, che avrebbedovuto rappresentare la L è esattamente simile al quar-to segno nel nome Tolomeo, anch’esso una L (Ptol).

Il terzo segno nel nome Cleopatra è una piuma ofoglia che sta per la vocale breve E; anche alla fine delnome Tolomeo, vediamo due foglie simili che, per la loroposizione, possono solo avere il valore del dittongo AIin AIOS.

Il quarto carattere nel cartiglio del geroglifico diCleopatra, la rappresentazione di una specie di fiore constelo curvo, starebbe per la O nel nome greco della regi-na. Infatti è il terzo carattere nel nome Tolomeo (Pto).

Il quinto segno nel nome di Cleopatra, che si presentacome un parallelogramma e deve rappresentare la P èparimenti il primo segno del nome geroglifico Tolomeo.

Il sesto segno che sta per la vocale A di KLEOPA-TRA è un falco e non si trova, in realtà, nel nome Tolo-meo.

Il settimo segno è una mano aperta, che rappresentala T; ma questa mano non ricorre nella parola Tolomeo,dove la seconda lettera, la T è espressa da un segmentocircolare che nondimeno è anch’esso una T; infattivedremo oltre perché questi due geroglifici hanno lostesso suono.

L’ottavo segno di KLEOPATRA che è una boccarappresentata frontalmente e che dovrebbe essere la P,non si dovrebbe incontrare, e non si incontra, nel car-tiglio di Tolomeo.

Infine il nono e ultimo segno del nome della regina,che deve essere la vocale A, è in realtà il falco che abbia-

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mo già visto rappresentare questa vocale nella terza sil-laba dello stesso nome. Questo nome proprio terminacon due simboli geroglifici per il genere femminile; quel-lo di Tolomeo termina con un altro segno, una barra pie-gata, equivalente al S greco, come vedremo in seguito.

I segni dei due cartigli combinati, analizzati foneti-camente, ci davano cosí già dodici segni, corrisponden-ti a undici consonanti, vocali o dittonghi dell’alfabetogreco: A, AI, E, K, L, M, O, P, R, S, T.

Il valore fonetico di questi dodici segni, già moltoprobabile, diviene assolutamente certo se, applicandoquesti valori ad altri cartigli, o piccoli pannelli con con-torno, contenenti nomi propri, tratti dai monumentigeroglifici egiziani, siamo in grado di leggerli facilmen-te e sistematicamente ottenendo i nomi propri di sovra-ni estranei alla lingua egizia...

Senza dubbio anche voi, signore, condividerete tuttala mia meraviglia quando lo stesso alfabeto di geroglifi-ci fonetici, applicato ad un gruppo di altri cartigli inci-si sullo stesso monumento, vi daranno titoli, nomi eanche soprannomi di imperatori romani, pronunciati ingreco e scritti con questi stessi geroglifici fonetici.

Leggiamo infatti:Il titolo imperiale Autocratwr che occupa da solo

un intero cartello, o che viene qualche volta seguito daaltri titoli ideografici ancora persistenti, trascrittoAOTOKRTR, AOTKRTOR, AOTAKRTR ed ancheAOTOKLTL essendo la L usata come sostituto bastar-do (scusate l’espressione) del R.

Il cartiglio con questo titolo segue quasi sempre unsecondo cartello che contiene, come vedremo tra breve,i nomi propri degli imperatori o è comunque in relazio-ne con un cartiglio del genere. Talvolta però troviamoanche questa parola in cartigli assolutamente isolati...

Ma, signore, ci resta ancora da esaminare brevemen-te la natura del sistema fonetico che regola la scritturadi questi nomi, da valutare accuratamente il carattere

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dei segni usati e da scoprire le ragioni per cui si adotta-va l’immagine di un oggetto piuttosto che quella di unaltro per rappresentare una determinata consonante ovocale...

Sono sicuro, signore, che, se noi potessimo identifi-care esattamente l’oggetto rappresentato e indicato datutti gli altri geroglifici fonetici compresi nel nostro alfa-beto, sarebbe relativamente facile per me mostrare, nellessico egizio-copto, che i nomi di questi stessi oggetticominciano con la consonante o la vocale che la loroimmagine rappresenta nel sistema geroglifico fonetico.

Questo metodo, seguito nella composizione dell’al-fabeto fonetico egizio, ci da un’idea di fino a che punto,volendo, potremmo moltiplicare il numero dei gerogli-fici fonetici senza sacrificare la chiarezza della loroespressione. Ma tutto sembra indicare che, general-mente parlando, il nostro alfabeto li contiene tutti.Siamo infatti pienamente giustificati in questa conclu-sione, poiché questo alfabeto e il risultato di una seriedi nomi propri fonetici incisi su monumenti egizi duran-te un periodo di circa cinque secoli in varie parti delpaese.

È facile constatare che le vocali dell’alfabeto gero-glifico sono usate indiscriminatamente una per l’altra.Su questo punto possiamo solo stabilire le seguenti rego-le generali:

1) il falco, l’ibis e tre altre specie di uccelli sonocostantemente usati per A;

2) la foglia o piuma può stare per le vocali brevi Aed E e talvolta anche per O;

3) le due foglie o piume possono rappresentare ugual-mente bene le vocali I ed H o i dittonghi IA ed AI.

Tutto ciò che abbiamo appena detto sull’origine, for-mazione e anomalie dell’alfabeto geroglifico fonetico sipuò estendere quasi interamente all’alfabeto foneticodemotico...

Questi due sistemi di scrittura fonetica erano tanto

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intimamente collegati quanto il sistema ideografico iera-tico con quello ideografico popolare, che non e altro cheuna sua derivazione, e il geroglifico puro che ne era lafonte. In realtà, come ho già detto, le lettere demotichesono eguali ai segni ieratici per i geroglifici che sono diper se fonetici. Non avrete alcuna difficoltà a verifica-re la verità di questa affermazione, se vi prenderete ildisturbo di consultare la tavola comparativa dei segniieratici classificati accanto ai corrispondenti geroglifici,tavola da me presentata alla Académies des Belles Let-tres piú di un anno fa. Cosí tra gli alfabeti geroglifico edemotico non vi è fondamentalmente altra differenzache la forma dei segni, essendo identici i loro valori eanche il motivo di questi valori. Infine vorrei aggiunge-re che, dato che questi simboli fonetici popolari sonosemplicemente dei caratteri ieratici, non vi potevanonecessariamente essere in Egitto piú di due sistemi discrittura fonetica:

1) la scrittura fonetica geroglifica, usata sui monu-menti pubblici;

2) la scrittura ieratico-demotica usata per i nomi pro-pri greci nel testo centrale dell’iscrizione di Rosetta e nelpapiro demotico della biblioteca reale ... e che forsevedremo un giorno usato per trascrivere il nome di qual-che sovrano greco o romano nei rotoli di papiro scrittiin ieratico.

La scrittura fonetica, quindi, era usata da tutte leclassi in Egitto e venne per lungo tempo adoperata comeun’aggiunta necessaria ai tre metodi ideografici. Quan-do, come risultato della loro conversione al cristianesi-mo, gli Egizi ricevettero dagli apostoli la scrittura alfa-betica greca e poi dovettero scrivere tutte le parole dellaloro lingua materna con questo nuovo alfabeto, la cuiadozione li separava per sempre dalla religione, la sto-ria e le istituzioni degli avi, essendo con questo atto«messi a tacere» per questi neofiti e per i loro discen-denti tutti gli antichi monumenti, tuttavia questi Egizi

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conservarono ancora qualche traccia del loro anticometodo fonetico; vediamo infatti che nei piú antichitesti copti in dialetto tebano la maggior parte delle voca-li brevi sono completamente tralasciate e che spesso,come nei nomi in geroglifici degli imperatori romani,consistono unicamente in sfilze di consonanti separatea lunghi intervalli da poche vocali, quasi sempre lunghe.Questa coincidenza mi è sembrata degna di nota. Gliscrittori greci e latini non ci hanno lasciato considera-zioni formali sulla scrittura fonetica egiziana; è moltodifficile dedurre anche solo l’esistenza di questo siste-ma forzando il senso di certi passaggi dove sembrereb-be che si accenni vagamente a qualcosa del genere. Cosídobbiamo abbandonare il tentativo di studiare attra-verso la tradizione storica il periodo in cui nella scritturapittografica dell’antico Egitto vennero introdotti segnifonetici.

Ma i fatti sono abbastanza eloquenti da sé per per-metterci di affermare con discreta certezza che l’impie-go in Egitto di una scrittura ausiliaria per rappresenta-re i suoni e le articolazioni di certe parole precedette ladominazione greca e romana, sebbene sembri piú natu-rale attribuire l’introduzione della scrittura egiziasemialfabetica all’influenza di queste due nazioni euro-pee che usavano già da lungo tempo un alfabeto vero eproprio.

Baso questa mia opinione sulle due considerazioniseguenti che possono sembrarvi abbastanza pesanti perfar pendere la bilancia.

1. Se gli Egizi avessero inventato la loro scritturafonetica a imitazione degli alfabeti greci o roma-ni, avrebbero naturalmente stabilito un numero disegni uguale agli elementi noti dell’alfabeto grecoo latino. Ma non c’è niente del genere; e la provaincontestabile che la scrittura fonetica egizia nac-que per uno scopo completamente diverso da quel-

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lo di esprimere i suoni dei nomi propri di sovranigreci o romani si trova nella trascrizione egiziaproprio di questi nomi, che sono per lo piú corrottial punto di essere irriconoscibili; in primo luogo acausa della soppressione o della confusione dellamaggior parte delle vocali, in secondo luogo perl’uso persistente delle consonanti T per D, K perG, P per F e infine per l’uso accidentale di L perR e R per W.

2. Sono convinto che gli stessi segni del geroglificofonetico usati per rappresentare i suoni dei nomipropri greci e romani erano usati anche nei testiideografici incisi molto prima che i Greci giun-gessero in Egitto, e che avevano già in certi con-testi lo stesso valore di rappresentare suoni o arti-colazioni come nei cartigli incisi sotto i Greci e iRomani. Lo sviluppo di questo importante e deci-sivo punto è in relazione con la mia opera sui gero-glifici puri. In questa lettera non potrei darne unaprova senza impegolarmi in complicazioni straor-dinariamente lunghe.

Cosí, signore, credo che la scrittura fonetica esi-stesse in Egitto in tempi molto antichi; che essa fossedapprima una parte necessaria della scrittura ideo-grafica e che in seguito, dopo Cambise come possia-mo constatare, venne usata per trascrivere, rozza-mente, certo, in testi ideografici nomi propri deipopoli, paesi, città, sovrani e individui forestieri chedovevano essere ricordati in testi storici o in iscrizio-ni monumentali.

Oserei dire di piú; sarebbe possibile rilevare, in que-sta antica scrittura fonetica egizia, per quanto possaessere imperfetta in sé, se non la fonte almeno il model-lo su cui vennero costruiti gli alfabeti delle nazioni del-l’Asia occidentale, prima di tutto quelli degli immedia-ti vicini dell’Egitto. Infatti, se notate:

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1) che ogni lettera degli alfabeti che chiamiamo ebrai-co, caldeo e siriaco, porta un nome distinto, appel-lativi molto antichi, poiché vennero trasmessiquasi tutti dai fenici ai greci quando questi ultimiadottarono l’alfabeto;

2) che la prima consonante o vocale di questi nomi èanche, in questi alfabeti, la vocale o consonanteche va letta,

vedrete come me, nella creazione di questi alfabeti,una perfetta analogia con la creazione dell’alfabeto fone-tico in Egitto; e se alfabeti di questo tipo sono, cometutto sembra indicare, formati inizialmente di segni cherappresentano idee od oggetti, è evidente che dobbiamoriconoscere la nazione che inventò questo metodo diespressione scritta in quelle che usarono particolarmen-te una scrittura ideografica; insomma, voglio dire chel’Europa, la quale ricevette dall’antico Egitto gli ele-menti delle arti e delle scienze, deve a lui anche l’ine-stimabile dono della scrittura alfabetica.

Comunque qui ho solo cercato di indicare breve-mente le molte importanti conseguenze di questa sco-perta, ed essa nacque naturalmente dal mio soggettofondamentale, l’alfabeto dei geroglifici fonetici, di cuimi sono proposto di esporre contemporaneamente lastruttura generale con alcune applicazioni. Ciò ha giàdato risultati che hanno incontrato un giudizio favore-vole dei membri illustri dell’Académie, i cui dotti studihanno dato all’Europa i principî fondamentali di unasolida cultura, e continuano a offrirle il piú notevoledegli esempi. I miei sforzi possono forse aggiungerequalcosa all’elenco delle conquiste di cui essi hannoarricchito la storia dei popoli antichi, alla storia degliEgizi, la cui giusta fama risuona ancora nel mondo: enon è certo una piccola conquista il fatto di potere oggimettere con sicurezza la prima pietra dello studio deiloro documenti scritti e raccogliere cosí qualche nozio-

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ne precisa sulle loro istituzioni basilari, a cui la stessaantichità conferí una fama di saggezza che nulla ha anco-ra distrutto. Per quanto riguarda i notevoli monumenticostruiti dagli Egizi, possiamo finalmente leggere, neicartigli che li adornano, la loro cronologia sicura daCambise in poi, e il periodo della loro costruzione o dellemodifiche successive sotto le varie dinastie che gover-narono l’Egitto; la maggior parte di questi monumentiPorta contemporaneamente i nomi di faraoni e di Grecie Romani; i primi, caratterizzati dal loro piccolo nume-ro di segni, resistono sempre a ogni tentativo di appli-care loro con successo l’alfabeto che ho appena scoper-to. Tale, signore, spero sarà il valore di questa opera chesono lusingato di presentare sotto i vostri onorati auspi-ci; il pubblico illuminato non mi rifiuterà la sua ammi-razione o il suo appoggio, dato che ho ottenuto quelli delvenerabile Nestore della cultura e della letteratura fran-cesi, da lui onorate e ornate con gli studi appassionati,mentre con mano ad un tempo protettrice e incoraggia-trice, egli ha sempre amato sostenere e guidare nel dif-ficile cammino da lui percorso cosí gloriosamente, tantigiovani imitatori che hanno piú tardi pienamente giu-stificato la sua entusiastica protezione. Felice di goder-ne anch’io, non avrei comunque osato rispondere senon per la mia profonda gratitudine e il mio rispettosoaffetto. Permettetemi, vi prego, signore, di attestarviancora pubblicamente tutti i sensi di questo affetto.

J. F. Champollion, il giovane.

Parigi, 22 settembre 1822.

Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet

des hiéroglyphes phonétiques, 1822

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charles piazzi smyth Una fantastica interpretazione della grande piramide

Charles Piazzi Smyth (1819-1900) nacque a Napoli e il suo

secondo nome venne scelto in onore del famoso astronomo sici-

liano. Giustificò questa scelta diventando astronomo pure lui

ed ottenne dapprima un posto di assistente nell’osservatorio

reale del Capo di Buona Speranza e poi la carica di astronomo

reale di Scozia. Finché rimase nel campo dell’astronomia e in

quelli collaterali della meteorologia e della spettrologia otten-

ne risultati di grande valore e originalità, ma a metà della sua

vita dimostrò un vivo interesse per la piramidologia e fece un

viaggio in Egitto per esaminare e misurare la Grande Pirami-

de, essendo fermamente convinto che questi dati avrebbero for-

nito rivelazioni inestimabili sul passato e sul futuro dell’uma-

nità. Tra le sue curiose illusioni vi era quella che il disegno della

piramide fosse stato rivelato divinamente al «suo creatore Mel-

chisedec», che annunciasse l’inizio del millennio nel 1882

(per sua sfortuna visse abbastanza da vedere sconfessata questa

sua profezia) e che le misure, interpretate rettamente, avrebbe-

ro fornito una soluzione crittografica del problema della qua-

dratura del cerchio. Le sue interpretazioni vere e proprie sono

troppo lunghe e troppo fantastiche per rientrare nell’ambito di

questo libro, e cosí si è scelta una parte della sua introduzione

esplicativa.

Le piramidi di Egitto sono state considerate moltogiustamente, dato l’accordo universale degli archeologipiú eminenti di tutte le nazioni, i piú antichi resti esi-stenti della forma e costruzione piú antica dell’architet-

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tura del paese abitato prima di ogni altro. Perciò fratutte le opere intellettuali dell’uomo, esse costituisconoil contatto piú vicino alle sue azioni immediatamentesuccessive ai giorni della biblica dispersione dell’uma-nità; sono infatti le uniche prove contemporanee chepossiamo rivendicare, o a cui possiamo fare riferimentoper ciò che accadde in quei tempi lontanissimi, prece-denti la nascita della storia scritta.

Il numero di questi notevolissimi monumenti puòessere di trentasette o trentotto, ma il numero esatto hapoca importanza, poiché dopo avere esaminato le primesette o otto piú grandi, costruite con ammirevole abilitàin pietre squadrate, che si stagliano su quel lontano oriz-zonte come colossali cristalli delle dimensioni di unamontagna, le altre diminuiscono cosí rapidamente inaltezza, larghezza, qualità del materiale e durata, chesono crollate in masse arrotondate di rovine e in alcunicasi si possono appena distinguere da colline di mode-ste dimensioni.

Sono, o erano, tutte piramidi a base quadrata conquattro facce triangolari inclinate che si incontrano sullacima in un punto al di sopra del centro della base. Sono,inoltre, costruzioni quasi piene, di pietra o mattoni cottial sole e sono tutte situate sulla riva occidentale del Nilo,quella libica e la piú deserta, ad intervalli, lungo una lineadi circa settanta miglia, che comincia accanto alla puntameridionale del Delta del Basso Egitto, cioè dell’Egittosettentrionale, in vista della moderna città del Cairo, madall’altra parte del fiume e si estende di qui verso sud,cioè verso l’Alto Egitto, ma senza raggiungerlo. Infattiqui tutta l’architettura è del tipo ornato dei templi, ed èdi data molto piú recente nella storia egizia, sebbeneancora di un’antichità molto maggiore di quella di qual-siasi rudere classico della Grecia o di Roma.

Se a questo stadio puramente preliminare della nostraricerca dichiarassimo che le piramidi d’Egitto in gene-rale sono state costruite per servire da eterno sepolcro

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per i grandi egizi morti, i faraoni e i loro parenti, avrem-mo il consenso di tutta la scienza egittologica dei tempimoderni. Eppure fra le piramidi ve n’è una che non siconfà a questo tipo di spiegazione, e sfortunatamente èla piú grande, la meglio costruita, la meglio conservatadi tutte; una che per secoli ha ottenuto il nome di Gran-de Piramide per eccellenza, di cui si è parlato piú fre-quentemente di qualsiasi altra, perché da sola ha attira-to l’attenzione di viaggiatori e scrittori di tutti i tempie di tutte le epoche; e anche stata considerata tra i piúantichi, se non il piú antico in senso assoluto, dei monu-menti costruiti dall’uomo; al tempo dei Greci era repu-tata la piú grande e la piú antica delle sette meravigliedel mondo, ed è ora l’unica fra esse ancora esistente sullasuperficie terrestre.

Localmente questa piramide è nota come quella diJeezeh o Geezeh o Ghizeh, perché si eleva su una bassacollina dalla cima appiattita che porta questo modernonome arabo, e si erge in quella parte del deserto africa-no già descritta; essa in verità si leva qui in compagniadi alcune altre piramidi posteriori e piú piccole. Eppu-re questo fatto è sufficiente a dividere tutti i viaggiato-ri che la visitano in due categorie ben distinte; quelliche, con il mondo in generale, sono entusiasti delle«Piramidi» (al plurale) «di Egitto», anche con tutto ciòche vi è di esclusivamente egiziano; e d’altra parte quel-li che limitano la propria ammirazione e il proprio inte-resse alla sola grande piramide, proprio in grazia di ciòche in essa è di carattere antiegiziano. Perché ci sonostate persone di questo tipo, comunque si sia manife-stato, in tutte le età, sebbene l’idea abbia cominciato aportare frutti intellettuali solo in epoca recente ed abbiaricevuto ultimamente una giustificazione degna di indur-re ad esaminarla tutti gli studiosi della Bibbia e i cre-denti cristiani.

Questa nuova idea che scioglie con una certezza fino-ra ignota il problema principale del mondo civile di

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tutte le età, il detto mondo la deve al defunto JohnTaylor di Londra, in un libro pubblicato nel 1859 e inti-tolato The Great Pyramid; why was it built? and who builtit? [La Grande Piramide; perché fu costruita e chi lacostruí?] Egli non aveva visitato la piramide di personama aveva raccolto e confrontato per trenta anni tutte lerelazioni pubblicate e specialmente tutte le misurazionipiú sicure (perché alcune erano davvero degne di pocafede) di coloro che vi erano stati; mentre faceva questolavoro, in modo del tutto spontaneo (come mi assicuròper lettera) si schiuse davanti a lui la nuova teoria.

Sebbene le conclusioni di Taylor derivino soprattut-to da una rigida deduzione da fatti di portata e caratte-re scientifico, gli fu indubbiamente di aiuto la mentalitàe lo spirito da cui cominciò le ricerche e che, a grandilinee, è semplicemente questo:

dato che altri scrittori hanno generalmente presup-posto che un essere grande ma sconosciuto, che tuttiammettono nelle loro ricerche storiche, abbia diretto lacostruzione della sola Grande Piramide (alla quale gliEgizi nelle loro tradizioni piú antiche e per i secoli suc-cessivi attribuirono un carattere immortale e persinosacrilego); questo doveva essere stato davvero moltocattivo, se tutto il mondo da quel tempo a oggi, ha pro-vato gusto a calpestare e insultare questo leone morto dicui in realtà non sapeva niente; egli, John Taylor, veden-do in ogni citazione loro caratteristica nella Bibbia,quanto cattivi sotto l’aspetto religioso fossero gli Egiziinventori di idoli, fu indotto a concludere che l’ignotoinventore e architetto che essi odiavano e che non pote-vano saziarsi di insultare, poteva forse essere superlati-vamente buono; o era, in ogni caso, di una fede religio-sa piú pura di quella dei Mizraiti figli di Cam.

Quindi, ricordando, mutatis mutandis, ciò che Cristostesso dice riguardo al sospetto di essere attaccato quan-do tutto il mondo parla bene di qualcuno, Taylor haappoggiato questa idea a ciò che l’Antico Testamento

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ricorda trattando la parte piú vitale e specifica dellareligione israelita; questa vi è descritta, alcuni secolidopo la costruzione della Grande Piramide, come noto-riamente una «abominazione per gli Egizi», e combi-nando ciò con certi fatti storici inequivocabili e ammes-si da tutti, è riuscito a dedurne ragioni fondate e cri-stiane per credere che il direttore della costruzione eforse i suoi immediati collaboratori che controllarono lemigliaia di lavoratori indigeni della Grande Piramide,non erano affatto Egizi, ma stranieri della razza eletta,figli di Sem e nella linea di Abramo, sebbene preceden-ti, anzi cosí antichi da essere piú vicini a Noè che adAbramo. In ogni caso uomini che per una particolaregrazia divina erano stati messi in grado di apprezzare l’i-dea designata, come la necessità assoluta di un sacrifi-cio e di un’espiazione per i peccati dell’uomo medianteil sangue e l’offerta spontanea di un Mediatore divino,come nella piú seria forma evangelica del cristianesimo.

Questa idea assolutamente fondamentale della nostrafede attuale era nondimeno di una antichità pari allalotta tra Caino e Abele ed era discesa attraverso il Dilu-vio in alcune famiglie umane predestinate; ma era un’i-dea che nessun egizio di nascita avrebbe potuto prenderein considerazione neppure per un momento. Infatti ogniantico egizio dal primo all’ultimo, e piú di tutti ogni lorofaraone, cosí come gli abitanti di Ninive e i Babilonesiin genere, era fino al midollo un feroce Cainita nei pen-sieri, le azioni, e i sentimenti: egli credeva (e non pro-fessava niente altro cosí a fondo e cosí costantemente)nella propria perfetta onestà e assoluta libertà derivan-tigli dalla propria innata purezza e dalla immutabile,completa e incrollabile rettitudine di tutta la vita difronte a ogni forma di peccato, piccolo o grande, con-tro Dio o l’uomo.

È da questa premessa generale che Taylor ha presole mosse e dopo aver sconfessato l’opinione mondiale,da gran tempo accolta, di un accordo troppo passiva-

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mente obbediente a una tradizione profana egizia, eavendo cosí anche annullato alcuni dei piú venerandipregiudizi dei moderni egittologi, in modo da esamina-re pienamente, chiaramente e imparzialmente l’interavicenda dall’inizio, annunciò di aver scoperto in alcunedisposizioni e misure della Grande Piramide, una voltaaccuratamente corretta dai danni e dalle dilapidazionidel tempo, certi risultati scientifici che non parlano diuna sapienza egizia né babilonese e tanto meno greca oromana, ma di qualcosa di nettamente superiore, e diassolutamente diverso, dai soliti mezzi umani di queitempi.

Infatti, oltre a essere nata improvvisamente dalla sto-ria antichissima, senza alcun periodo preliminare di svi-luppo o gradi di evoluzione e preparazione, i fatti realidella Grande Piramide (cioè una costruzione che dimo-stra una conoscenza numerica esatta dei piú grandiosifenomeni del cielo e della terra) non solo trascendono,e di gran lunga, le conoscenze estremamente limitate. equasi infantili, della scienza raggiunta con mezzi umanidalle nazioni pagane quattromila, tremila, duemila eanche solo trecento anni fa, ma sono anche, a qualun-que dei grandi segreti fisici della natura si riferiscano,essenzialmente al di sopra delle massime conoscenze deifilosofi anche nostri contemporanei.

Questa è certamente un’affermazione sorprendente,fatta davanti ad un antico monumento di pietra. Nes-suno si sarebbe sognato neppure di concepirla, tenia-molo bene in mente, per «Le piramidi di Egitto» al plu-rale, ma solo per l’unica, grande e strana piramide inEgitto; la quale, sebbene sorga qui, non appartiene affat-to, né è conforme, alle idee egizie, sia scientifiche sia reli-giose, come erano incise nei geroglifici d’Egitto e comela piramide stessa le ha descritte nella propria storia.Certo questa affermazione ammette confutazioni totalie positive, se non altro come falsa per la Grande Pira-mide, come è indubbiamente falsa per ogni altro antico

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monumento. Infatti la scienza esatta odierna, parago-nata con quella di appena un centinaio d’anni fa è unameraviglia di sviluppo; ed è in grado sia di dare affer-mazioni sicure, sia facendosi valere, di stabilire non soloil fatto, ma l’ordine e il tempo dell’invenzione di tutti imezzi pratici necessari all’uomo per i minimi passi diogni singola scoperta fatta finora.

Molto piú positivamente può quindi parlare questamoderna scienza matematica, se si paragonano le sueattuali estese conoscenze al poco conosciuto dall’uomo,con i suoi sforzi personali e con i metodi scolastici diallora, in quei periodi antichi prima che si iniziasse, o sipotesse iniziare, a coltivare seriamente una scienza fisi-ca precisa e numerica. Cioè nei tempi assolutamenteprimordiali, quando gli uomini erano pochi sulla terra;eppure allora la Grande Piramide venne costruita, fini-ta, sigillata, lasciata come la vediamo ora, tranne le dila-pidazioni moderne, a custodire il proprio segreto neisecoli, in mezzo a un mondo incredulo e a servire allafine al proposito per cui fu costruita, qualunque esso sia,negli ultimi giorni dell’umanità.

Procediamo quindi a esaminare tutti i dati di fattoben noti della Grande Piramide alla luce della scienzamoderna, fino al punto a cui questa può essere portata,tenendo gli occhi sempre ben aperti alla necessità diguardarci, da una parte dalle accidentali coincidenze infavore di questa teoria della Grande Piramide, e l’altradalle possibilità di qualsiasi elemento intenzionale sco-perto qui e comune anche a qualche altra piramide.

Di fronte alle numerose difficoltà di una simile ricer-ca e all’abilità pratica richiesta, lo stesso sarei moltoritroso a trarre qualsiasi conclusione positiva solo leg-gendo i cosiddetti scrittori autorevoli, per quanto nume-rosi. Ma avendo visitato di persona la piramide in Egit-to, essendo rimasto ivi accampato per vari mesi nel 1864e nel 1865, facendo uso quotidiano di vari apparecchidi misura scientifici, e avendo poi speso piú di venti anni

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a elaborare, lottando, ogni passo di questa ricerca, credoumilmente di aver potuto arrivare con l’aiuto di Dio nonsolo a molti risultati sicuri, ma di poter anche dimostrareche i passi del lavoro e il progresso della dimostrazionesono piú facili di quanto avrebbero potuto pensare tutticoloro che hanno in cuore di seguire la mia ricerca e desi-derano di farne una loro.

Our Inheritance in the Great Pyramid, 1890

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william flinders petrie La tomba subacquea

Sir William Matthew Flinders Petrie (1853-1942) nacque a

Charlton e dimostrò ben presto vivo interesse per le antichità.

Cominciò con uno studio di Stonehenge e pubblicò un libro su

questo argomento nel 1880 che fu anche l’anno della sua

prima spedizione in Egitto. A lui si deve in gran parte la deter-

minazione della cronologia egiziana nella forma oggi general-

mente accettata; e, come fondatore della Scuola britannica di

archeologia in Egitto, sotto i cui auspici venne scoperta e sca-

vata la località di Menfi, assicurò la continuità degli studi

scientifici di antichità egizie. Esplorò fra gli altri il tempio di

Tanis, la città greca Naucratis, le città di Delta, il Fayum,

Meydum e le piramidi di Giza.

Considerando le località adatte a futuri scavi, nomi-nai a Grébaut tra le altre anche Hawara e Illahun, edegli mi propose di lavorare nella provincia del Fayum ingenerale. L’esplorazione delle piramidi di questo distret-to era il mio obbiettivo principale, poiché non se neconoscevano né l’ordinamento, né la datazione, né inomi dei sovrani che le avevano fatte costruire. Hawa-ra non si prestava come base di lavoro, poiché dista duemiglia dalle piramidi da cui è separata anche da un cana-le; stabilii perciò di creare un campo di operai che vives-sero sul posto come a Daphnae. Per questo scopo dove-vo reclutare una squadra a poca distanza e perciò comin-ciai il mio lavoro ad Arsinoe o Crocodilopolis, propriovicino a Medinet el Fayum. Qui ripulii il pilone del

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tempio di cui restano solo pochi blocchi sconnessi, e tro-vai, accanto a quella già nota, una seconda menzione diAmenembat II, ma l’edificio era stato tutto rimaneg-giato e ricostruito, probabilmente da Ramesse II. Sipotevano rintracciare quattro o cinque diversi strati diedifici e ricostruzioni, e la profondità dei detriti nelleadiacenze del tempio nella parte piú bassa della colli-netta era di oltre sette metri. Entro il grande recinto dimattoni di fango si poteva ritrovare la località del tem-pio seguendo il letto di sabbia su cui erano state postele fondamenta, ma non ne rimaneva una sola pietra. Unblocco reimpiegato mostrava la figura di un re dellaXIX dinastia, probabilmente Ramesse II, e ciò ci indu-ce a datare all’epoca di Tolomeo II il tempio che si puòrintracciare qui. Senza dubbio egli costruí un grandetempio, poiché in quell’epoca questa località era assai invista, e lo dedicò alla sorella e sposa Arsinoe, venerataspecialmente insieme ai grandi dèi, come sappiamo dallastele di Pithom. I soli oggetti molto antichi ivi rinvenutierano dei coltelli di selce nel pavimento del tempio,databili alla XII dinastia come dimostrarono scoperteposteriori.

Un breve lavoro di pochi giorni a Biahmu risolse ilproblema circa le cosiddette piramidi di qui. Non appe-na cominciammo a rivoltare il terreno trovammo fram-menti di colossi di arenaria; il secondo giorno fu rinve-nuto il naso gigantesco di una statua grande quanto ilcorpo di un uomo; poi vennero alla luce pezzi di troniscolpiti e un frammento di iscrizione di AmenemhatIII. Era evidente che i due grandi piloni di pietra ave-vano servito da piedistallo a colossali statue sedutemonolitiche, ricavate in quarzite arenaria dura e leviga-ta a lucido. Queste statue guardavano verso nord eintorno a ciascuna c’era un muretto con superficie a sci-volo verso l’esterno e una porta di granito rosso nellafacciata nord. L’altezza totale dei colossi era di circadiciannove metri da terra. Il piedistallo di calcare si ele-

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vava di sei metri e mezzo e il colosso di arenaria avevaa sua volta una base di un metro e venti, su cui la figu-ra seduta sul proprio trono raggiungeva un’altezza di piúdi dieci metri. Cosí tutta la statua e parte del suo pie-distallo dovevano essere visibili al di sopra del murettodi cinta del cortile e dovevano apparire a distanza comeal di sopra di una piramide tronca. La descrizione diErodoto è perciò pienamente confermata, e dimostrache egli vide realmente le figure, sia pure a distanza, per-ché chiunque le avesse osservate piú da vicino non leavrebbe descritte cosí.

Avendo nel frattempo costituito ed organizzato unbuon gruppo di operai, mi diressi verso Hawara, contutti gli uomini che volevo, la difficoltà era anzi quelladi limitarne il numero. In tempi moderni nessuno eraentrato nella piramide e la sua disposizione interna eradel tutto sconosciuta; gli esploratori avevano inutil-mente distrutto gran parte dell’opera muraria in mattonisul lato nord, ma l’ingresso non era stato scoperto. Intempi romani era stato tolto il rivestimento di pietra eil corpo della struttura essendo di mattoni di fango, erain parte crollato; ogni lato era perciò ingombro di fangoe di detriti. Dopo aver vanamente esaminato il terrenosul lato settentrionale per trovarvi un ingresso, sgombraiil centro del lato orientale, ma non comparve alcunatraccia di porta. Era evidente che la pianta era comple-tamente diversa da quella di qualsiasi altra piramideconosciuta; ripulire il terreno tutto intorno avrebberichiesto un lavoro immane; decisi perciò di fare un tun-nel nel mezzo. L’impresa era piuttosto ardua perché igrossi mattoni erano stati disposti nella sabbia, con lar-ghi spazi tra l’uno e l’altro; quindi, appena se ne move-va qualcuno, la sabbia usciva dalle fessure e sconnette-va tutte le parti vicine. Perciò ogni mattone venivarimosso con la massima cautela e io dovevo recarmi sulposto tre volte al giorno a inserire tavole di sostegno,lavoro che richiedeva abilità e attenzione superiori a

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quella degli operai indigeni. Dopo un lavoro di moltesettimane (perché c’era spazio solo per un uomo) miaccorsi di essere a metà della piramide, ancora tutta inmattoni. Su un lato del tunnel comunque, scorsi i segnidi un muro e, pensando che esso dovesse circondare ilpozzo fatto per la camera sepolcrale al momento dellacostruzione, esaminai il pavimento scavato nella rocciae trovai che scendeva leggermente verso il basso lonta-no dal muro. Ci dirigemmo quindi a ovest e conti-nuando a scavare raggiungemmo in pochi giorni i gran-di travi di sostegno della camera sepolcrale. Comunquenessun muratore del distretto era in grado di spezzarlie io dovetti abbandonare il lavoro fino alla stagione suc-cessiva. Poi, dopo un’ulteriore ricerca dell’ingresso sututti e quattro i lati, i muratori attaccarono il tetto dipietra a scivolo e in due o tre settimane vi aprirono unbuco. Aspettai ansiosamente che lo allargassero fino apotermici infilare dentro, quindi entrai nella camerasopra il sepolcro; su di un lato vidi un buco piú basso eandandovi a fondo trovai un passaggio interrotto versoil sepolcro di arenaria, ma troppo stretto per le miespalle. Dopo aver sondato l’acqua che lo riempiva, vivenne calato un ragazzo con una scala di corda, e allafine, guardando nel buco, potei vedere alla luce della suacandela i due sarcofagi saccheggiati e vuoti. In un gior-no o due togliemmo le macerie dal corridoio d’ingressoalla camera originale, e cosí entrammo in una serie dicorridoi che giravano su e giú. Questi erano cosí pienidi fango che in molti punti l’unico modo di percorrerliera quello di sdraiarsi, e scivolare sulla mota aiutando-si con mani e piedi. In questo modo, scivolando, stri-sciando e avanzando a fatica, giunsi il piú vicino possi-bile all’imbocco esterno del nostro corridoio; quindimisurando all’indietro fino alla camera stabilii con unabuona approssimazione la posizione dello sbocco all’e-sterno della piramide. Ma esso era nascosto sotto un talecumulo di detriti e cosí ostruito da grandi blocchi di pie-

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tra che occorsero quindici giorni per raggiungerlo dal-l’esterno.

La piramide era stata elaboratamente progettata peringannare e stancare i ladri, che sembra abbiano dovu-to spendere molta fatica per entrarvi. Lo sbocco era alivello del piano di campagna, sul lato meridionale a unquarto di distanza dall’angolo sudoccidentale. I primiesploratori discesero dalla camera per un passaggio agradini, da cui apparentemente non c’era uscita. Il tettoera formato da una botola scorrevole e passando attra-verso ad essa si raggiungeva un’altra camera ad un livel-lo piú alto.

Quindi verso est si apriva un altro corridoio, chiusocon una porta di legno, che conduceva ad un’altra came-ra con il tetto a botola. Ma di fronte all’esploratorec’era un passaggio accuratamente ostruito con pietre;questa, pensarono, conduceva al tesoro, cosí tutte lepietre erano state tolte solo per arrivare a niente. Dallaseconda camera con porta a botola un corridoio porta-va a nord alla terza camera. Da questa un passaggioportava ad ovest a una camera con due pozzi che sem-brava conducessero alla tomba, ma erano entrambi falsi.Anche questa camera era quasi ostruita da muri, che nonnascondevano nulla, ma dovevano aver occupato a lungoi ladri che li avevano rimossi invano. Una fossa riempi-ta sul pavimento della camera portava realmente alsepolcro, ma arrivando qui non si trovò alcuna porta,poiché l’ingresso era dal tetto, un enorme blocco delquale era stato messo in modo da chiudere la camera;cosí alla fine i ladri si erano aperti una via praticandoun foro nell’orlo dell’arenaria dura come cristallo delblocco di chiusura e raggiungendo cosí la camera e i suoisarcofagi. Mediante un piccolo allargamento del foro deisaccheggiatori riuscii a entrare nella camera per la stes-sa via. L’acqua mi arrivava alla cintola e rendeva diffi-cile l’esplorazione, ma il pavimento era coperto di detri-ti e di frammenti che potevano contenere parte del

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vasellame funerario e che richiedevano perciò delle ricer-che. Pulii io stesso i detriti nei sarcofagi, poi incaricaialcuni ragazzi di raccogliere dal pavimento i frammenti(che erano sott’acqua, fuori di portata di mano) sullalama piatta di una zappa e dopo averli esaminati li get-tavano nei sarcofagi. Cosí lavorammo ansiosamente allaricerca di qualche frammento con iscrizioni; io deside-ravo il cartiglio del re, i ragazzi il lauto bakhshish pro-messo per ogni geroglifico trovato, oltre un premio spe-ciale per i cartigli. Il sistema funzionò, perché nel primogiorno ottenni il premio desiderato, un pezzo di un vasodi alabastro con il nome di Amenemhat III, che prova-va finalmente a chi apparteneva la piramide; si trovaro-no anche altri pezzi di vasi con iscrizioni. Vi era anco-ra un problema riguardo al secondo sarcofago che erastato sistemato tra quello grande centrale e il lato dellacamera. Sgombrando la camera che porta al sepolcro,tuttavia, si trovò un bell’altare per sacrifici in alabastro,coperto con le figure delle offerte tutte elencate, in tota-le piú di cento, dedicate alla figlia del re Neferuptah;accanto ad esso c’erano parti di tazze a forma di metàanatra, recanti anch’esse il suo nome; cosí senza dubbioil secondo sarcofago era il suo; doveva essere mortamentre il padre era ancora in vita ed essere perciò stataseppellita prima della chiusura della piramide. Dei corpiveri e propri trovai solo poche ossa carbonizzate, insie-me a frammenti di carbone e grani di diorite bruciati neisarcofagi; nella camera venne trovata anche una puntadi lapislazzuli per intarsi. Il sarcofago ligneo interno,intarsiato di pietre dure, era perciò stato bruciato. Lacamera è di per sé un’opera magnifica; quasi tutta la suaaltezza è ricavata da un solo blocco di quarzo arenariadura, formando una enorme cisterna in cui fu depostoil sarcofago. All’interno misura sette metri in lunghez-za e due e mezzo in larghezza mentre i lati sono spessiquasi un metro. La superficie è levigata e gli angoli sonotagliati cosí netti che io li scambiai per opera muraria,

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e ne cercai invano le giunture. Naturalmente in originela stanza sepolcrale era al di sopra del livello dell’acqua,ma tutta questa regione era stata allagata da un canalead alto livello del periodo arabo. Dopo feci rimuoveretutta la terra dai passaggi della piramide, fino a render-li quasi praticabili, ma non si trovò niente di nuovo; nésulle pareti né sui sarcofagi esistono tracce d’iscrizionie se non fosse stato per gli arredi funebri, non si sareb-be ricuperato nemmeno il nome.

Ten Years’ Digging in Egypt, 1892

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ernest budge La scoperta delle tavolette di Amarna

Sir Ernest Alfred Wallis Budge (1857-1934) nacque in Cor-

novaglia e studiò al Christ’s College di Cambridge dove si spe-

cializzò in ebraico ed assiro. Nel 1883 entrò al servizio del

Museo Britannico e divenne infine conservatore delle antichità

egizie ed assire; nel 1920 venne creato cavaliere per i suoi meri-

ti archeologici. Fece molte spedizioni nelle regioni del Medi-

terraneo orientale e oltre a dirigere scavi ottenne per il Museo

Britannico un gran numero di antichità, papiri e manoscritti,

in lingua greca, copta, araba, siriaca ed etiopica. Comunque il

suo acquisto piú significativo fu una collezione di documenti

scritti alla fine della XVIII dinastia e noti come tavolette di

Amarna.

Durante il giorno venne da me un uomo arrivato daHaggî Kandîl che portava con sé circa mezza dozzina ditavolette di argilla trovate accidentalmente da unadonna a Tall al-‘Amârnah e mi chiese di esaminarle e didirgli se erano kadim cioè «antiche» o jadid cioè «moder-ne», in altre parole se erano autentiche o false. La donnache le aveva trovate pensava fossero inutili «pezzi divecchia argilla» e cedette tutto il reperto di oltre tre-cento tavolette a un vicino per dieci piastre (due scelli-ni)! Il compratore le portò al villaggio di Haggî Kandîled esse cambiarono mano per dieci lire egiziane. Macoloro che le comperarono non sapevano nulla di ciò chestavano acquistando, e dopo aver fatto l’affare manda-rono al Cairo un uomo con alcuni esemplari per mostrar-

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li ai commercianti locali ed Europei. Alcuni dei com-mercianti europei pensarono che fossero «antiche», ealtri che fossero «nuove», ma si accordarono tutti perdichiarare false le tavolette in modo da poterle acqui-stare a un prezzo conveniente come «esemplari di imi-tazioni moderne». I commercianti dell’Alto Egitto le sti-marono autentiche, si rifiutarono di venderle e avendoudito che avevo qualche nozione di cuneiforme, mi man-darono l’uomo che ho già ricordato a chiedermi se eranofalse o no e offrirono di pagarmi per l’informazione.Quando esaminai le tavolette mi accorsi che il proble-ma era piú difficile di quanto sembrasse a prima vista.Per forma, colore e materiale le tavolette differivano datutte quelle che avessi mai visto a Londra o a Parigi e laloro scrittura era di un carattere assai insolito e mi lasciòperplesso per ore. Pian piano venni alla conclusione chele tavolette non erano certamente false e che non eranoné annali reali ne iscrizioni storiche nel senso strettodella parola, né documenti commerciali o comunque diaffari. Mentre esaminavo la mezza dozzina di tavoletteche mi era stata portata, arrivò da Haggî Kandîl unaltro uomo con altre settantasei tavolette di cui alcunemolto grandi. Sulla piú grande e meglio scritta del secon-do gruppo potei riconoscere le parole «A-na Ni-ib-mu-ari-ya» cioè «a Nibmuariya» e su un’altra le parole «(A)-na Ni-im-mu ri-ya shar mâtu Mi-is-ri» cioè «a Nimmu-riya re del paese d’Egitto». Queste due tavolette eranocertamente lettere indirizzate ad un re d’Egitto chia-mato «Nib-muariya» o «Nimmuriya,». Su un’altra tavo-letta lessi chiaramente le parole iniziali «A-na Ni-ip-khu-ur-ri-ri-ya shar mâtu (Misri)» cioè «a Nibkhurririya,re del paese di (Egitto)» e non c’era dubbio che questatavoletta era una lettera indirizzata ad un altro re d’E-gitto. Le parole iniziali di quasi tutte le tavolette indi-cavano che si trattava di lettere o dispacci ed ero sicu-ro che le tavolette erano autentiche e di grande impor-tanza storica.

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Fino al momento in cui arrivai a questa conclusione,nessuno degli uomini di Haggî Kandîl mi aveva offertole tavolette in vendita e io sospettavo che essi stesserosemplicemente aspettando un mio verdetto sulla loroautenticità per portarle via e chiedere per esse un prez-zo molto alto, un prezzo superiore a qualsiasi cifra potes-si offrire. Perciò, prima di esporre ai mercanti la mia opi-nione circa le tavolette, mi accordai con loro a non rice-vere alcun compenso per esaminarle, ma ad essere incambio autorizzato a prendere senza altro possesso delleottantadue tavolette. Essi mi chiesero di fissare il prez-zo che ero disposto a pagare, e io lo feci; sebbene abbia-no dovuto aspettare un anno intero per ricevere lasomma, non tentarono neppure di chiedere di piú diquanto avevano pattuito.

Cercai in seguito di accordarmi con gli uomini diHaggî Kandîl per prendere possesso del resto delle tavo-lette di Tall al-‘Amârnah, ma essi mi dissero che appar-tenevano a mercanti già in trattative con un agente delMuseo di Berlino al Cairo. Fra le tavolette ve n’era unamolto grande, lunga piú di cinquanta centimetri e largain proporzione. Ora sappiamo che conteneva una listadegli oggetti portati in dote da una principessa meso-potamica che andava a nozze con un re d’Egitto. L’uo-mo che la portava al Cairo la nascose fra gli indumentiintimi e si coprí con un ampio mantello. Quando salínella carrozza ferroviaria questa tavoletta gli scivolò ditra gli abiti e cadde sui binari rompendosi in vari pezzi.Molti egiziani sul treno e sulla banchina assistetteroall’incidente e ne parlarono liberamente; cosí la notiziadella scoperta delle tavolette giunse alle orecchie deldirettore delle antichità. Egli telegrafò subito al mudirdi Asyût e gli ordinò di arrestare e mettere in prigionechiunque fosse trovato in possesso di tavolette e, comeabbiamo visto, partí personalmente per l’Alto Egitto perimpadronirsi di tutte le tavolette che poteva trovare.Intanto un gentiluomo del Cairo che aveva comperato

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per cento lire egiziane quattro delle tavolette piú picco-le, le mostrò a un professore inglese che subito scrissesu di esse un articolo su un giornale inglese. Egli abbas-sò la cronologia delle tavolette di circa novecento annie travisò completamente la natura del loro contenuto. Ilsolo effetto del suo articolo fu quello di accrescere l’im-portanza della scoperta agli occhi dei mercanti e di con-seguenza, di alzarne il prezzo e di rendere l’acquisto delresto del reperto piú difficile per tutti.

By Nile and Tigris, vol. I, 1920

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howard carter Tutankhamon

Howard Carter (1873-1939) nacque a Swaffham, nel Norfolk

e studiò privatamente. All’età di diciassette anni entrò al servi-

zio della Fondazione per le esplorazioni in Egitto e fra coloro

che ne sorvegliarono gli studi di tecnica archeologica vi era Flin-

ders Petrie. Prese parte a numerose campagne di scavi sotto gli

auspici della fondazione fino al 1899 quando venne nominato

dal governo egiziano ispettore generale delle antichità. Dal 1902

in poi sovrintese agli scavi di Davis’ nella Valle dei Re, che por-

tarono alla luce le tombe di Tuthmose IV e della regina Hat-

shepsut. In seguito venne incaricato di uno scavo sotto il patro-

cinio di Lord Caernarvon e nel 1922 scoprí la tomba di

Tutankhamon, faraone della XVIII dinastia, che fu la prima ed

unica tomba reale scoperta intatta nella Valle dei Re.

Il 3 febbraio (1924) avemmo per la prima volta unachiara visione di questo capolavoro sepolcrale, da anno-verare tra i piú perfetti esemplari mondiali del genere.Ha una ricca trabeazione consistente in una cornice acavetto in una modanatura a toro e in un fregio con iscri-zioni. Ma l’elemento piú eccezionale del sarcofago sonole dee che lo custodiscono, Isis, Neftis, Neith e Selkitscolpite ad alto rilievo ai quattro angoli e disposte inmodo che le ali completamente spiegate e le bracciadistese lo circondano quasi in un abbraccio di protezio-ne. Attorno alla base c’è un dado con i simboli di Dede Thet; gli angoli del coperchio poggiano su lastre di ala-bastro. Tra l’ultima cella e il sarcofago non c’erano

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oggetti tranne un simbolico Ded posto all’angolo meri-dionale per «Forza» ed eventualmente per «Protezione»del proprietario.

Quando la nostra luce illuminò il nobile monumentodi quarzite e rivelò i vari dettagli di questo ultimo solen-ne appello agli dèi e agli uomini ci fece sentire che nellacassa del giovane re era stata conferita dignità anche allamorte. Il profondo silenzio che regnava accresceva l’e-mozione; sembrava che passato e presente si incontras-sero. Il tempo s’era fermato in attesa e ci si chiedeva seil giovane re non era stato deposto in questo sepolcrocon fastosa cerimonia il giorno precedente. Questi com-moventi richiami alla nostra pietà erano cosí freschi, cosírecenti in apparenza, che quanto piú si guardavanoattentamente tanto piú l’illusione acquistava forza. Ciòspingeva a desiderare che questo viaggio attraverso leorride gallerie del mondo sotterraneo potesse essereindisturbato fino a raggiungere la completa felicità comequelle quattro dee scolpite in alto rilievo agli angoli sem-bravano infatti dichiarare, proteggendo chi era statoloro affidato. Non vedevamo forse in esse una perfettaelegia egiziana scolpita nella pietra?

Il coperchio di granito rosa tinto per accompagnarela quarzite del sarcofago, era spezzato al centro e salda-mente incastrato agli orli superiori ribattuti. Le screpo-lature erano state accuratamente stuccate e dipinte inmodo da accompagnare il resto e non lasciare dubbi chenon era stato manomesso. Certo l’intenzione originariadoveva essere di realizzare il coperchio in quarzite inarmonia con tutto il sarcofago; sembrerebbe perciò chesia accaduto qualche imprevisto; può darsi che il coper-chio progettato non fosse pronto in tempo per la sepol-tura del re e che sia perciò stato sostituito da questalastra di granito di rozza fattura.

La rottura complicava assai il nostro compito finale,il sollevamento di questo coperchio, infatti l’operazio-ne sarebbe stata di gran lunga piú facile se esso fosse

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stato intatto. La difficoltà, comunque, venne superatapassando dei ferri ad angolo e serrando strettamente ilati della lastra, che poté essere sollevata come un solpezzo con pulegge differenziali...

Nella Valle delle Tombe dei re devono essere acca-dute molte scene strane da quando era divenuta il luogodi sepoltura dei re del Nuovo Impero Tebano, ma midovete permettere di raccontarvene una pensando chenon è né la meno interessante né la meno drammatica.Per noi rappresentava il momento supremo e culminan-te, un momento atteso da quando divenne chiaro che lecamere scoperte nel novembre 1922 dovevano essere latomba di Tutankhamon e non erano un nascondiglio delsuo arredo come si era affermato. A nessuno di noisfuggí la solennità del momento, tutti erano commossial pensiero di ciò che stavamo per vedere, la composi-zione funebre di un re dell’antico Egitto di trentatresecoli fa. Come sarebbe stato trovato il re? Questi eranoi pensieri che si agitavano nella nostra mente nell’atte-sa e nel silenzio.

Il paranco per sollevare il coperchio era a posto. Diedil’ordine. Fra il profondo silenzio la pesante lastra, spez-zata in due, pesante piú di una tonnellata e un quarto,si sollevò. La luce brillò nel sarcofago. I nostri occhifurono colpiti da una vista che a tutta prima ci lasciòperplessi e un po’ delusi. Il contenuto era completa-mente coperto di fini lenzuoli di lino. Mentre il coper-chio era sollevato a mezz’aria tirammo via, uno per uno,i lenzuoli di protezione e quando venne tolto l’ultimo cisfuggí dalle labbra un grido di meraviglia, tanto splen-dida era la vista che si presentò ai nostri occhi: un’effi-ge d’oro del giovane re fanciullo, della piú fine esecu-zione, riempiva tutto l’interno del sarcofago. Questo erail coperchio di una magnifica bara antropoide, lungacirca due metri, appoggiata su un basso piedistallo aforma di leone e senza dubbio la piú esterna di unaserie di bare disposte l’una dentro l’altra a racchiudere

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i resti mortali del re. Abbracciavano il corpo di questomagnifico monumento due dee alate; Isis e Neith rea-lizzate in oro su gesso, brillanti come il giorno in cui fufatto il sarcofago. Ulteriore fascino era aggiunto dalfatto che, mentre questa decorazione era resa in finebassorilievo, la testa e le mani del re erano a tutto tondoin oro massiccio e del migliore stile, superiore a tutto ciòche si potesse immaginare. Le mani, incrociate sul petto,stringevano gli emblemi reali (il pastorale e il flabello)incrostati di ceramica azzurro cupo. La faccia e i linea-menti erano magnificamente lavorati in lamina d’oro.Gli occhi erano di aragonite e ossidiana e le sopraccigliae le palpebre intarsiate di lapislazzuli. C’era un tocco direalismo, perché, mentre il resto di questa bara antro-poide, coperta con ornamenti di piume, era d’oro bril-lante, faccia e mani sembravano diverse, essendo l’orodi una diversa lega che suggeriva cosí l’impressione delgrigiore della morte. Sulla fronte di questa figura gia-cente del re fanciullo c’erano due emblemi delicata-mente eseguiti in brillante intarsio, il cobra e l’avvoltoio,simboli dell’Alto e del Basso Egitto, ma forse piú com-movente nella sua umana semplicità era la sottile ghir-landa di fiori attorno a questi simboli, l’ultimo addio,come ci piace immaginare, della fanciulla regina cosípresto vedova, offerto allo sposo, il giovane rappresen-tante dei due regni.

Fra tutto questo splendore regale, questa regalemagnificenza, dovunque il luccichio dell’oro, non c’eraniente di cosí bello come questi pochi fiori appassiti cheancora conservavano il loro colore. Essi ci fecero con-statare che breve periodo rappresentavano in realtà tre-mila trecento anni, un ieri ed un domani. Infatti, que-sto piccolo tocco della natura congiungeva quell’anticaciviltà e la nostra moderna.

Cosí dalla scala, dal ripido corridoio in discesa, l’an-ticamera e la camera sepolcrale, da quella cella d’oro eda quel nobile sarcofago, i nostri occhi erano ora rivol-

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ti a ciò che esso conteneva, una bara rivestita d’oro cherappresentava la figura giacente del giovane re, simbo-leggiante Osiride o, sembrerebbe dal suo sguardo senzapaura, l’antica fede dell’uomo nell’immortalità. Molte esconcertanti furono le emozioni suscitate in noi da quel-la effige di Osiride. La maggior parte erano mute. Maascoltando in quel silenzio era quasi possibile udire ipassi spettrali delle lamentatrici che si allontanavano.

Le nostre luci si erano abbassate, risalimmo ancorauna volta quei sedici gradini, rivedemmo ancora unavolta la volta azzurra del cielo, dove è signore il Sole,ma i nostri pensieri piú intimi indugiavano ancora sullosplendore di questo faraone scomparso, impresso nellenostre menti era il suo ultimo appello sul sarcofago: «OMadre Nût, stendi su di me le tue ali come le stelleimmortali».

The Tomb of Tut-ankh-Amen, vol. II, 1927

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howard carter La bara d’oro

Cosí era cominciata la nostra stagione; la valle sve-gliata dal suo sonno estivo negli ultimi due giorni dagliurli degli operai e dagli schiamazzi dei ragazzi, era tor-nata nuovamente in pace e la quiete l’avrebbe avvoltafino a che gli emigranti invernali e i loro seguaci nonavessero nuovamente disturbato il suo aureo silenzio.

L’anticamera sgombra del suo bell’arredo, la camerasepolcrale privata della sua cella aurea, lasciavano nelcentro il sarcofago di pietra appena aperto con le suebare, sole a conservare ancora il loro segreto.

Il nostro compito era ora quello di sollevare il coper-chio della prima bara piú esterna, cosí come si trovavanel sarcofago.

Questo grande sarcofago di legno dorato, lungo duemetri e venti, di forma antropoide, con l’acconciaturatipo Khat, con la faccia e le mani in lamina d’oro piúpesante è del tipo Rishi, termine usato quando la deco-razione principale è fatta di piume, moda comune allebare del precedente periodo intermedio e della XVIIdinastia tebana. Durante il nuovo impero nel caso disepolture di alti ufficiali e di borghesi, lo stile di deco-razione dei sarcofagi cambia completamente all’inizio,della XVIII dinastia, ma nel caso della bara reale, comevediamo ora, la moda piú antica sopravvisse ancora conla semplice aggiunta di leggere modifiche come le imma-gini di certe dee tutelari. Siamo di fronte ad una inver-sione completa dell’ordine comune delle cose; in gene-

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re la moda cambia piú rapidamente negli strati socialipiú alti che in quelli piú bassi. Ma questo fatto non puòessere in rapporto con qualche idea religiosa del re?Dietro ad esso ci può essere tutta una tradizione. Untempo la dea Iside protesse il corpo di Osiride copren-dolo con le sue ali, cosí essa protegge questo nuovo Osi-ride com’è rappresentato nell’effige.

Dopo un accurato esame della bara si decise che imanici d’argento originari, due per ogni lato, manife-stamente fatti per questo scopo, erano ancora abba-stanza ben conservati per sopportare ancora il peso delcoperchio e avrebbero potuto essere usati per sollevar-lo senza pericolo. Il coperchio era fissato all’involucroper mezzo di dieci solide linguette di argento (quattroper ogni lato, una all’estremità della testa ed una all’e-stremità dei piedi) infilate in fori corrispondenti nellospessore dell’involucro dove erano tenute a posto dasolidi chiodi d’argento con la capocchia d’oro. Avrem-mo potuto togliere i chiodi d’argento mediante i qualiil coperchio era fissato all’involucro della bara senzatogliere la bara stessa dal sarcofago? Poiché la barariempiva quasi completamente l’interno del sarcofago,lasciando solo uno spazio piccolissimo, specialmente alleestremità dei piedi e della testa, non era affatto sempli-ce estrarre i chiodi. Comunque, mediante accuratemanovre, si vide che era possibile compiere l’operazio-ne tranne che con il chiodo all’estremità della testa dovec’era appena spazio per tirarlo fuori a metà. Si dovetteperciò limarne una parte prima di poterlo estrarre com-pletamente.

Dovevamo ora piazzare il verricello necessario a sol-levare il coperchio; questo arnese era formato da duegruppi di tre pulegge provviste di freni automatici fis-sate a un’impalcatura sovrastante; le pulegge venneroportate immediatamente al di sopra del centro del coper-chio, di fronte a ciascun paio di manici. Il verricello fuattaccato ai manici del coperchio della bara per mezzo

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di cinghie e cosí si assicurò un’esatta centralizzazione delpeso, diversamente ci sarebbe stato il pericolo che ilcoperchio nel momento in cui era libero e pendentepotesse urtare contro le pareti del sarcofago.

Fu un momento pieno d’ansia e di eccitazione. Ilcoperchio si sollevò abbastanza rapidamente, rivelandouna seconda magnifica bara antropoide, coperta con unsottile lenzuolo di garza di lino, annerito e in pessimostato di conservazione. Sopra questo velo di lino giace-vano ghirlande floreali, composte di foglie d’olivo e disalice, petali di loto blu e fiordalisi, mentre una piccolaghirlanda simile era stata posta, anche sopra il lenzuo-lo, sugli emblemi della fronte. Sotto questo lenzuolo sipoteva intravvedere qua e là una ricca decorazione mul-ticolore di paste vitree incastonate nell’oro finementelavorato della bara.

Nell’estate precedente si era dedicato parecchiotempo a elaborare i metodi da seguire in questa impre-sa e a provvedere gli attrezzi necessari, cosí fu eseguitain una sola mattina mentre diversamente sarebberooccorsi almeno alcuni giorni. La tomba venne chiusalasciando ogni cosa al proprio posto, per attendere ladocumentazione fotografica di Mr Harry Burton.

Finora i nostri progressi erano stati abbastanza sod-disfacenti, ma ora ci accorgemmo di un elemento di cat-tivo augurio. La seconda bara, per quanto si potevavedere attraverso il lenzuolo di lino che la copriva, avevatutto l’aspetto di essere un magnifico esempio di arti-gianato, ma mostrava chiari segni degli effetti dell’umi-dità e, qui e là i suoi begli intarsi tendevano a cadere.Ciò era, devo ammetterlo, sconcertante, dato che sug-geriva l’esistenza di umidità precedente nella nicchiadelle bare. Se le cose stavano cosí, la conservazionedella mummia reale sarebbe stata meno soddisfacente diquanto avevamo sperato.

Il 15 ottobre arrivò Burton e il 17 alla mattina pre-sto completò felicemente la documentazione fotografi-

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ca del sudario e delle ghirlande floreali che coprivano laseconda bara, cosí come era posata nell’involucro dellaprima nel sarcofago.

Completata questa documentazione, dovevamo orastabilire il modo migliore di trattare la seconda bara el’involucro della prima. Le nostre difficoltà erano chia-ramente accresciute dalla profondità del sarcofago ed eraevidente che la parte esterna della prima bara e la secon-da bara, né l’una né l’altra essendo in condizione di veni-re molto maneggiate, avrebbero dovuto essere sollevateinsieme. Ciò si poteva ottenere per mezzo di pulegge,come avevamo già fatto per il coperchio, procurandociun punto di attacco per mezzo di chiodi d’acciaio pas-sati attraverso i fori delle linguette del primo involucroesterno. In questo modo il sollevamento era possibilecon poche manovre.

Malgrado il gran peso delle bare, molto superiore aquanto sembrasse a prima vista, esse vennero felice-mente sollevate subito sopra il livello della cima del sar-cofago; a questo punto sotto di loro vennero introdottetravi lignee. Dato lo spazio limitato e lo stretto posto perla testa il compito si dimostrò non poco difficile, ancheper la necessità di evitare danni alle fragili superfici digesso dorato della bara piú esterna.

Dopo che furono prese altre fotografie, potei rimuo-vere la corona e le ghirlande ed arrotolare il sudario. Eraun momento molto eccitante. Avremmo potuto vedere,con occhi pieni di ammirazione, il piú bell’esempio maivisto dell’arte di costruire bare: rappresentava ancoraOsiride, ma la concezione ispiratrice era piú delicata ebellissima la linea. Poiché la bara giaceva adesso nel-l’involucro esterno appoggiata su moderni cavallettiimprovvisati essa mostrava una magnifica rappresenta-zione della maestà in tutta la sua pompa.

La corona e le ghirlande poste sul sudario in memo-ria delle «Ghirlande offerte ad Osiride nella sua uscitatrionfante dalla sala del giudizio di Eliopoli» che, come

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nota il Gardiner ci ricordano la «Corona della rettitu-dine» (2 Tim., IV, 8) non erano altro che l’illustrazio-ne della descrizione di Plinio delle antiche corone egi-zie. Se si riconosce la cura e la precisione con cui que-ste venivano confezionate si possono trovare saldi moti-vi per immaginare che questa occupazione particolarepresso gli antichi Egizi fosse, come in un periodo poste-riore, un mestiere specializzato.

Questa seconda bara, lunga due metri, con suntuosiintarsi di paste vitree opache tagliate e incise in unaspessa foglia d’oro che imitavano il diaspro rosso, il lapi-slazzulo e la turchese, è simile in forma e disegno allaprima bara. Rappresenta Osiride, è Rishi per quantoriguarda la decorazione, ma differisce per certi dettagli.In questo caso il re indossa l’acconciatura Nemes e alposto delle figure protettrici di Iside e di Neftis il corpoè avviluppato dalle ali dell’avvoltoio Necbet e del ser-pente Buto. L’elemento che colpisce maggiormente è lasuperiorità e la profondità della concezione che le con-feriscono all’istante la posizione di un capolavoro.

Dovevamo ora affrontare un complicato problema,non dissimile da quello che avevamo dovuto risolveredue stagioni prima quando erano state smantellate lecelle di protezione. Ancora una volta accadde l’inaspet-tato. Le conclusioni tratte da prove o esempi preceden-ti non erano fededegni. Per qualche ignota ragione trop-po spesso accade il contrario di ciò che si attende.Vedendo che vi erano manici per sollevare o abbassarela bara esterna eravamo stati indotti ad attenderci deimanici di metallo dello stesso genere anche sulla secon-da bara. Non ce ne erano e la loro assenza ci pose difronte ad un dilemma. La seconda bara si dimostrò ecce-zionalmente pesante e la sua superficie decorata assaifragile, inoltre questa bara riempiva cosí completamen-te quella piú esterna che non era neppure possibile pas-sare il mignolo tra le due. Il suo coperchio era fissato,come nel caso della bara piú esterna, con chiodi d’ar-

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gento dalla capocchia d’oro, e non poteva essere estrat-to dato che la bara si trovava nell’involucro piú ester-no. Era evidente che avrebbe dovuto essere sollevatatutta insieme dall’involucro esterno prima di poter farequalunque altra cosa. Cosí il problema che ci si presen-tava era quello di trovare un metodo di fare ciò con ilminimo rischio di danneggiare i suoi delicati intarsi,che avevano già sofferto per una qualche forma di umi-dità la cui origine ci era allora ignota.

Può darsi, nella tensione di operazioni come queste,che uno sia anche troppo consapevole del rischio di dan-neggiare irreparabilmente un oggetto raro e preziosoche si desidera conservare intatto. Senza dubbio neiprimi tempi delle ricerche archeologiche egizie molto èandato perso per manovre troppo impazienti o impru-denti, e molto di piú ancora per mancanza degli stru-menti necessari al momento giusto; ma contro la catti-va fortuna non si può far nulla, anche quando si è presaogni possibile precauzione. Può sembrare che tutto vadaper il meglio quando all’improvviso, nel momento cul-minante del processo, sentite un rumore e piccoli fram-menti della decorazione della superficie si staccano ecadono. I vostri nervi sono tesi sino allo spasimo. Checosa sta accadendo? Tutto lo spazio disponibile nellastretta cella è riempito dai vostri operai.

Che cosa si doveva fare per evitare la catastrofe? C’èinoltre un altro pericolo. Quando il coperchio sta peressere sollevato, l’eccitazione di vedere qualche nuovooggetto straordinariamente bello e prezioso può attira-re l’attenzione degli operai, che per un momento dimen-ticano il proprio dovere e per conseguenza può accade-re un danno irreparabile. Tali sono spesso le ansioseimpressioni che vengono per prime nella mente dell’ar-cheologo quando i suoi amici gli chiedono quali emo-zioni ha provato in questi momenti di grande eccitazio-ne. Solo chi ha dovuto maneggiare degli oggetti antichipesanti eppure fragili in circostanze ugualmente diffici-

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li può comprendere come la tensione e le responsabilitàpossano diventare opprimenti e snervanti. Inoltre nelnostro caso non potevamo essere sicuri che il legno delsarcofago fosse abbastanza ben conservato da reggere ilsuo stesso peso. Comunque, dopo lunghe consultazionie dopo avere studiato il problema per quasi due giorni,tracciammo un piano. Per rimuovere la seconda bara dal-l’involucro della prima era necessario qualche puntod’attacco. Occorre ricordare che non vi erano manici,cosicché fu giudicato che la cosa migliore fosse usare ichiodi di metallo che tenevano il coperchio.

Un esame piú accurato mostrò comunque che sebbe-ne lo spazio tra l’involucro della bara esterna e la secon-da bara fosse insufficiente a permetterci di estrarre com-pletamente questi chiodi, essi potevano essere tiratifuori di circa mezzo centimetro in modo da fissare unrobusto filo di rame ad essi e all’impalcatura sovrastan-te. Facemmo quest’operazione con successo. Dei robu-sti occhielli di metallo vennero poi avvitati nello spes-sore del bordo superiore dell’involucro della bara piúesterno in modo da poterla abbassare dalla seconda baraper mezzo di corde scorrenti su pulegge.

Il giorno seguente, dopo questi preparativi, potemmoprocedere allo stadio successivo che si dimostrò uno deimomenti piú importanti nella apertura della tomba. Ilprocedimento, adottato fu esattamente il contrario diquello che potrebbe a prima vista sembrare l’ordinenaturale delle cose. Noi abbassammo l’involucro ester-no della seconda bara, invece di togliere la seconda barafuori dalla prima. La ragione di questa scelta va ricer-cata nell’insufficiente spazio dalla parte della testa;essendo il peso stazionario, vi era in questo modo menorischio di eccessiva tensione sopra questi antichi chiodid’argento. Le operazioni riuscirono bene. L’involucrodella bara piú esterna venne calato nuovamente nel sar-cofago lasciando per un momento la seconda bara sospe-sa a mezz’aria per mezzo di dieci robusti cavi. Una tavo-

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la di legno abbastanza larga per coprire l’apertura delsarcofago fu poi passata sotto di essa, e cosí la secondabara ben appoggiata rimase davanti a noi libera e acces-sibile. Una volta staccati i cavi e rimosso il meccanismosovrastante, Burton prese le fotografie, e noi potemmoimpiegare le nostre energie a sollevare il coperchio.

Tutta la superficie intarsiata era, come abbiamo giàdetto, molto fragile e si doveva quindi evitare per quan-to possibile ogni manovra. Perciò per sollevare il coper-chio senza provocare danni, vennero avvitati degliocchielli di metallo che dovevano servire come manicinei quattro punti dove non c’erano pericoli di deturpa-zioni permanenti. A questi quattro occhielli vennerofissate le sospensioni delle nostre pulegge; i chiodi diargento con la capocchia d’oro vennero estratti e ilcoperchio fu lentamente sollevato. Dapprima esso ten-deva a rimanere attaccato, ma gradualmente abbandonòil basamento e quando fu abbastanza alto da lasciarvedere il contenuto della bara venne appoggiato su unatavola di legno posta di fianco per riceverlo. Apparveuna terza bara che come le altre rappresentava Osiridema i dettagli dell’esecuzione erano nascosti da un ade-rente lenzuolo di lino rossastro. La faccia d’oro brunitoera nuda; sul collo e sul petto vi era una elaborata col-lana di grani e fiori cucita su un sostegno di papiro, eimmediatamente sopra l’acconciatura Nemes vi era untovagliolo di lino.

Burton prese subito le fotografie. Poi io rimossi lacollana floreale e il sudario. Ci apparve una visione stu-pefacente: questa terza bara lunga un metro e novantacirca era fatta d’oro massiccio. Il mistero dell’enormepeso che ci aveva finora sorpresi appariva ora chiaro. Sispiegava anche il perché il peso era cosí poco diminuitodopo che la prima bara e il coperchio della secondaerano stati rimossi. Il suo peso era ancora tale che ottouomini robusti potevano sollevarla a malapena.

La faccia di questa bara d’oro era ancora quella del

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re ma i lineamenti, sebbene convenzionali perché dove-vano simbolizzare Osiride, erano ancora piú giovanili diquelli delle altre bare. Il disegno nelle sue linee genera-li ripeteva quello della bara piú esterna, in quanto eraRishi e aveva incise le figure di Iside e Neftis, ma oltrea queste vi erano le figure alate di Necbet e Buto. Que-ste ultime figure protettrici, emblemi dell’alto e delbasso Egitto, erano gli elementi salienti perché sovrap-posti in oro cloisonné sopra la decorazione riccamentescolpita della bara, con intarsi di pietre naturali semi-preziose. Oltre a questa decorazione, sopra il collarinoconvenzionale del «Falco», anch’esso in lavorazionecloisonné, vi era una doppia collana staccabile di grossigrani a forma di disco di oro rosso e giallo e di porcel-lana azzurra che accresceva la ricchezza dell’effetto com-plessivo. Ma gli ultimi dettagli degli ornamenti eranonascosti da una patina nera lucida dovuta agli unguentiliquidi che erano stati evidentemente versati a profu-sione sulla bara. Di conseguenza questo monumentosenza eguali non solo era deturpato, come si vide inseguito solo temporaneamente, ma era fortemente attac-cato all’interno della seconda bara poiché il liquido con-solidatosi riempiva lo spazio tra la seconda e la terzabara quasi fino al livello del coperchio della terza.

Questi unguenti di consacrazione, che erano statiovviamente usati in grande quantità, erano senza dub-bio la causa della disintegrazione osservata maneggian-do le bare piú esterne, che essendo praticamente in unsarcofago di quarzite sigillato ermeticamente, non pote-vano essere state intaccate da influenze esterne. Comeulteriore conseguenza si può ricordare che il sudario edil collarino di fiori alternati con elementi di porcellanaazzurra avevano anch’essi sofferto danno e, sebbeneessi a prima vista apparissero in buone condizioni, sidimostrarono cosí fragili che caddero a pezzi non appe-na furono toccati.

Sollevammo la terza bara contenuta nell’involucro

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della seconda che ora era appoggiata sulla cima del sar-cofago e la portammo nell’anticamera dove sarebbe statapiú accessibile per esaminarla e per maneggiarla. Fu allo-ra che la meraviglia e la grandezza della nostra ultimascoperta apparvero davanti a noi in tutta la loro impo-nenza. Questo monumento unico e magnifico, un sar-cofago lungo piú di un metro e ottanta, di splendida fat-tura eseguito in oro massiccio spesso dai due millimetrie mezzo ai tre millimetri e mezzo, rappresentava unamassa enorme di oro puro.

Quanto doveva essere stata grande la ricchezza sepol-ta con questi antichi faraoni! Quante ricchezze dovevanascondere un tempo questa valle! Dei ventisettemonarchi qui sepolti Tutankhamon era probabilmentedi secondaria importanza. Quanto deve essere statagrande la tentazione per l’avidità e la rapacità degliaudaci ladri di tombe dell’epoca! Quale incentivo mag-giore si può immaginare di questo grande tesoro di oro.Il saccheggio di tombe reali, ricordato nel regno diRamesse IX, diventa facilmente comprensibile quandol’incentivo per questi crimini è misurato sulla base diquesta bara d’oro di Tutankhamon. Essa deve avererappresentato una ricchezza favolosa per i tagliatori dipietra, gli artigiani, i portatori d’acqua e i contadini, inpoche parole per gli operai di quel tempo, quali eranogli uomini implicati nel saccheggio delle tombe. Questisaccheggi avvennero durante i regni degli ultimi Rames-sidi (1200-1000 a. C.) e sono ricordati in documentilegali ora noti come il papiro Abbott, il papiro Amher-st, il papiro di Torino e il papiro Mayer scoperti a Tebeverso l’inizio dell’ultimo secolo. Probabilmente i ladriche fecero la loro incursione, praticamente senza esito,nella tomba di Tutankhamon erano al corrente dellaquantità d’oro che copriva i resti del giovane faraonesotto le sue celle protettive, il sarcofago e le varie baredisposte una dentro l’altra...

Rimossi gli ornamenti esterni e le decorazioni d’oro

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intarsiato, la mummia del re apparve con la sua sempli-ce copertura esterna e la maschera d’oro. Essa occupa-va tutto l’interno della bara d’oro misurando in tutto unmetro e ottantaquattro.

La copertura esterna era costituita da un ampio len-zuolo di lino tenuto a posto da tre fasce longitudinali,una sul centro ed una ad ogni lato, e da quattro fascetrasversali dello stesso materiale che corrispondevanoper disposizione agli intarsi d’oro flessibili già ricorda-ti. Queste fasce di lino erano state evidentemente assi-curate al lenzuolo di lino mediante qualche materialeadesivo come è stato descritto da Erodoto. Le fasceerano doppie e variavano in larghezza da sette a novecentimetri. La fascia centrale longitudinale comincian-do a metà dell’addome (in realtà torace) era passatasotto lo strato inferiore di ciascuna delle tre fasce tra-sversali, sopra i piedi, sotto la pianta, e rivoltata all’in-dietro sotto il secondo strato delle fasce trasversali. Adogni lato dei piedi i panni di lino erano stati sfrangiatiprobabilmente a causa della frizione contro i fianchidella bara di metallo durante il trasporto alla tomba. Lamummia giaceva leggermente spostata e questo indica-va che aveva ricevuto qualche colpo mentre venivaabbassata nel sarcofago. Vi era anche un’altra prova adimostrare che gli unguenti erano stati versati sopra lamummia e la bara prima che esse venissero adagiate nelsarcofago; il liquido infatti raggiungeva due livelli diver-si sui due lati, probabilmente proprio a causa dell’oscil-lazione della bara.

Data la condizione di fragilità e carbonizzazione dellafasciatura di lino, tutta la superficie esposta fu cospar-sa con paraffina liquefatta a temperatura tale che indu-rendosi formasse un sottile strato sulla superficie, pene-trando il meno possibile nelle bende sottostanti. Quan-do la paraffina fu convenientemente raffreddata, il dot-tor Derry fece un’incisione longitudinale nel centro dellebende esterne fino alla profondità in cui era penetrata

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la paraffina, permettendo cosí di rimuovere in grossipezzi lo strato consolidato. Ma le nostre preoccupazio-ni non finirono qui. Il voluminoso avvolgimento al disotto venne trovato in condizioni di carbonizzazione edi deterioramento anche peggiori. Avevamo sperato,rimuovendo un sottile strato esterno di bende dallamummia, di staccarla nei punti di adesione alla bara inmodo da poterla rimuovere, ma provammo una nuovadelusione. Si scoprí che le bende di lino sotto la mum-mia e il corpo stesso erano stati cosí saturati dagliunguenti che formavano una massa appiccicosa come lapece al fondo del sarcofago e la trattenevano cosí sal-damente che era impossibile sollevarli senza rischio digravi danni. Anche dopo che la maggior parte dellebende era stata accuratamente rimossa, il materiale indu-rito dovette essere staccato con lo scalpello da sotto legambe e il tronco prima che fosse possibile sollevare iresti del re.

Le bende che avviluppavano la testa vera e propriaerano in uno stato di conservazione migliore rispetto aquelle del resto del corpo, poiché non erano state satu-rate dagli unguenti, e in conseguenza avevano solo sof-ferto per l’ossidazione indiretta. Questo era anche finoad un certo punto il caso delle bende che avvolgevano ipiedi.

Il sistema generale di fasciatura, per quanto si pote-va vedere, era di tipo normale; comprendeva una seriedi strisce, lenzuola e tamponi di lino dove questi ultimierano richiesti per completare la forma antropoide e iltutto mostrava di essere stato eseguito con estrema cura.Il lino era evidentemente di un tipo assai fine, simile apercalle. I numerosi oggetti trovati sopra la mummiaerano avvolti in strati alterni della voluminosa fasciatu-ra, e coprivano completamente il re dalla testa ai piedi;alcuni degli oggetti piú grossi vennero trovati in moltidiversi strati di bende che erano avvolte trasversalmen-te e incrociate.

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Sebbene il vero e proprio esame avesse dovuto perforza essere eseguito partendo dai piedi verso la testa,per maggiore chiarezza nella descrizione che segue iopartirò dalla testa verso i piedi enumerando ognioggetto e punto di interesse secondo la sua successio-ne logica.

In cima alla testa vi era un grosso tampone di formaconica composto di stoffa di lino avvolta a guisa di unamoderna fasciatura chirurgica della testa e in una fog-gia che suggeriva la corona Atef di Osiride, senza i cornie le piume che la completavano. Lo scopo di questotampone ci sfugge; si potrebbe pensare dalla sua formache esso rappresentasse una corona, ma d’altra parteavrebbe potuto semplicemente essere un’altra imbotti-tura per sostenere e riempire lo spazio vuoto dentro laparte cava dell’acconciatura Nemes della maschera d’oro,specialmente in vista del fatto che la maschera è parteintegrante dell’addobbo esterno della mummia e devecoincidere con le effigi sopra la bara.

Sotto questa imbottitura simile a una corona, sulretro della maschera, vi era un piccolo guanciale Urs oappoggio per la testa fatto di ferro che secondo il cen-tosessantaseiesimo capitolo del Libro dei morti ha ilseguente significato: «Levati dalla non esistenza, o tuche sei prostrato... Sconfiggi i tuoi nemici, trionfa su ciòche fanno contro di te». Amuleti di questo tipo sononormalmente fatti di ematite, ma in questo caso il ferropuro ha preso il posto del suo minerale, fatto che ci dàuna pietra miliare assai importante per lo sviluppo e ilprogresso della storia della civiltà...

Vicino all’imbottitura e attorno alla cima della testavi era una doppia striscia (l’aqal arabo), non dissimile daquella dell’acconciatura dei beduini, fatto di fibra stret-tamente legata con corde e fornita di cappi alle estremitàai quali erano senza dubbio attaccati dei nastri da lega-re dietro la testa. Non se ne conosce l’uso perché non siè trovato niente di simile o corrispondente in prece-

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denza. Serviva forse ad alleviare la pressione della coro-na sul capo.

La rimozione di pochi strati di fasciatura rivelò unmagnifico diadema che circondava completamente latesta del re, un oggetto di estrema bellezza, del tipo sem-plice a listello. Come disegno comprende una fasciad’oro riccamente ornata di cerchi contigui di cornalinacon al centro minuscole borchie d’oro e sul retro unnodo a fiori a forma di disco da cui scendono due pen-dagli aurei simili a nastri decorati nello stesso modo. Aidue lati del listello vi sono altri pendagli di tipo similema piú grandi, che hanno attaccato al bordo anterioreun massiccio ureo; le insegne della sovranità sul Nord esul Sud dell’Egitto di questo diadema, devo ricordarloqui, vennero ritrovate piú in basso separate e rispetti-vamente sulla coscia destra e sinistra e, quando il regiace nel sarcofago, a est e a ovest – con la testa rivol-ta verso l’ovest – l’ureo di Buto si trova sul lato sinistroe l’avvoltoio di Necbet sul destro; queste insegne assu-mevano cosí la loro corretta posizione geografica, comepure gli stessi emblemi sul sarcofago. Entrambi questiemblemi d’oro della regalità avevano dei ganci scanala-ti sul retro in cui si infilavano delle linguette corrispon-denti a forma di T sul diadema. Era cosí possibile rimuo-verle e infilarle su qualsiasi corona che il re portasse.

La Necbet d’oro con gli occhi di ossidiana è un note-vole esempio di bella lavorazione metallica. La formadella testa, l’occipite coperto di grinze e sul retro delcollo un collarino incompleto di corte piume rigide, ren-dono ben chiaro che questo uccello che rappresentava ladea dell’Alto Egitto era il Vultur auricularis, l’avvoltoiosocievole. Questa specie particolare e oggi assai comu-ne in Nubia, ma si incontra raramente nelle provincedell’Egitto centrale e meridionale ed è assai rara, sepure è possibile trovarla, nel basso Egitto.

Questo diadema deve avere un’origine molto anticain quanto sembra che abbia derivato il nome, Seshnen,

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e la forma dal nastro portato sulla testa dagli uomini edalle donne di ogni classe già nell’Antico Regno, circamillecinquecento anni prima del Nuovo Impero...

Quasi sempre quando questo tipo di diadema è rap-presentato sui monumenti, il re raffigurato lo portaattorno a una parrucca insieme con la corona Atef diOsiride che lo sormonta.

Attorno alla fronte, sotto alcuni altri strati di lino, viera una larga fascia di oro brunito sulle tempie che ter-minava sopra e dietro alle orecchie; alle estremità vierano delle fessure attraverso le quali passavano deinastri di lino riuniti in un nodo sulla nuca. Questa fasciateneva a posto sopra la fronte e le tempie una acconcia-tura Khat in lino fine tipo percalle sfortunatamenteridotto dal deperimento in tali condizioni che era rico-noscibile soltanto da una specie di codino sul dietro,comune a questo tipo di acconciatura. Cucite su questaacconciatura Khat erano le insegne reali, la seconda paru-re trovata sul re; l’ureo col corpo e la coda in sezioni fles-sibili d’oro infilate insieme e contornate da piccole perleera infilato sopra l’asse della corona della testa indietrofino al punto del lambda, mentre l’avvoltoio Necbet (inquesto caso con le ali aperte e con caratteristiche iden-tiche a quelle già descritte) copriva la parte piú alta del-l’acconciatura essendo il suo corpo parallelo all’ureo.Per permettere al soffice lino di questa acconciatura diprendere la forma convenzionale, sotto di essa e soprale tempie erano stati inseriti dei tamponi di lino.

Sotto all’acconciatura Khat vi erano altri strati difasciatura che coprivano una papalina di fine lino ade-rente alla testa calva del re e ricamata con un elaboratodisegno di urei eseguito in minuti grani d’oro e di por-cellana. La papalina era tenuta a posto da una fasciad’oro intorno alle tempie, simile a quella appena descrit-ta. Ogni ureo del disegno portava al centro il cartiglioAten del sole. Il tessuto della popalina era sfortunata-mente molto carbonizzato e in pessimo stato di conser-

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vazione, ma il ricamo in perle aveva sofferto molto menoessendo ancora il ricamo praticamente perfetto poichéaderiva alla testa del re. Pensare di rimuovere questosquisito lavoro sarebbe stato disastroso e cosí esso vennetrattato con un sottile strato di paraffina e lasciato al suoposto.

La rimozione dell’ultima fasciatura che proteggeva lafaccia del re richiese la massima cura, perché, dato lostato carbonizzato della testa, c’era sempre il rischio didanneggiare i lineamenti molto fragili. Eravamo piena-mente consapevoli della eccezionale importanza eresponsabilità del nostro lavoro. Al tocco di un pennel-lo di martora caddero gli ultimi pochi frammenti di linodecomposto rivelando una fisionomia serena e tranquil-la, quella di un giovane. Il volto era fine e gentile, ilineamenti ben delineati, specialmente le labbra eranonettamente disegnate e io credo di potere notare qui,senza invadere il campo dei dottori Derry e Saleh BeyHamdi, la prima e piú forte impressione di tutti i pre-senti: la straordinaria somiglianza nelle forme con ilvolto del suocero Achenaton, un’affinità che si puòvedere anche sui monumenti.

The Tomb of Tut-ankh-Amen, vol. II, 1927

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zakaria goneim La piramide sepolta

Zakaria Goneim nacque in Egitto. Si diplomò in egittologia

All’Università di Giza nel 1934 sotto la guida di Newberry

junker e Vikent’ev. Nel 1937 venne destinato all’ufficio per

le antichità e iniziò la sua carriera a Saqqara. Nel 1939 venne

nominato ispettore delle antichità di Assuan ed Edfu e nel

1943 conservatore della necropoli tebana. Adempí il suo com-

pito con tanto successo che nel 1946 venne promosso alla cari-

ca di ispettore in capo dell’Alto Egitto e nel 1951 gli fu affi-

data la sola custodia delle antichità di Saqqara. Qui fece la

notevole scoperta del recinto di una nuova piramide. Sfortu-

natamente il suo lavoro venne interrotto nel 1956 per cause

politiche ed economiche ed egli morí in circostanze assai tra-

giche nel 1959.

Durante gli ultimi pochi giorni del settembre 1951Hofni e io percorremmo il vasto apprezzamento cer-cando un punto adatto per cominciare il nostro lavoro.La nostra attenzione venne attratta dall’affioramento diun muro in pietrisco che appariva appena sopra la super-ficie al limite occidentale della terrazza. Cosí comin-ciammo a scavare in questo punto. Con nostra grandegioia il primo giorno apparve un massiccio muro costrui-to a file di pietrisco. Scavammo fino in fondo al muro,che era profondo circa otto metri, e trovammo che eracostruito su strati rocciosi e aveva uno spessore di oltrediciotto metri. Era costruito in tre parti come unsandwich: la parte centrale del sandwich era un corso

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verticale spesso circa tre metri fronteggiato su ambi i latida un altro corso spesso circa dodici metri le cui paretiesterne erano inclinate verso l’interno con un angolo disettantadue gradi. Gli architetti chiamano questo tipodi costruzione muro «inclinato».

Questa scoperta mi assicurò che la mia concezioneoriginale era giusta e durante i due mesi seguenti con-tinuammo a fare altri scavi in altri punti lungo questomassiccio muro. Aumentai la mia squadra di operai finoa cinquanta. Sotto la direzione di Hofni Ibrahim, venneimpiantata una «Decauville» per portare via la sabbiae la roccia scavate dalla cavità in un luogo di scaricoconveniente. La terrazza sorge all’angolo sudorientaledella grande depressione situata a sud-ovest del recin-to di Zoser. Scelsi come luogo di scarico un’area a ovestdell’orlo occidentale della terrazza, dopo aver esami-nato il posto scavando altri pozzi di saggio per esseresicuro che ci fossero solo strati rocciosi e che nonnascondesse qualche tomba o monumento. La «Decau-ville» è una ferrovia leggera a scartamento ridotto chepuò essere rapidamente sistemata e altrettanto rapida-mente spostata in una nuova località quando occorra.Su di essa corrono vagoncini ribaltabili in acciaio e illoro rombo, unito ai canti e alle nenie ritmiche deglioperai è un suono familiare per tutti gli archeologi cheabbiano lavorato in Egitto. È una musica per l’orecchiodello scavatore!

Il muro era costruito di grossi blocchi uniformi di cal-care grigio locale e sembra che la parte superiore sia statausata come cava di pietra già nell’antichità. Quandoebbi definito la natura di questo muro ne ricercai gliangoli per stabilirne i limiti. Trovai che esso costituivaun recinto rettangolare con un asse in direzionenord-sud di circa cinquecentodiciotto metri e un asse indirezione est-ovest di circa centottantatré metri.

A tutta prima mi lasciarono perplesso l’enorme spes-sore di questo muro, venti metri, e il fatto che non

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fosse rivestito di bella pietra calcarea come il muro delrecinto di Zoser. In seguito mi accorsi che questa erauna piattaforma di base su cui in origine era statocostruito il muro. La ragione di questo fatto va cercatanella configurazione del terreno. Il complesso della pira-mide di Zoser si leva in un punto predominante propriosull’orlo dell’altipiano sovrastante la valle, ma il re percui venne costruito il recinto appena scoperto non gode-va di questo vantaggio. Il suo monumento doveva esse-re costruito in una depressione e per ovviare a questoinconveniente il suo architetto aveva costruito dappri-ma questa massiccia piattaforma di calcare locale, cheforse non si doveva vedere, e in cima ad essa avevacostruito il vero e proprio muro del recinto, di un tiposimile a quello di Zoser, con bastioni sporgenti e pro-babilmente con finte porte, il tutto visibile da lontano.La maggior parte di questo muro di protezione era scom-parso, poiché il fine calcare con cui era stato costruitoaveva rappresentato una tentazione troppo grande per icostruttori successivi. I re dell’antico Egitto infatti sac-cheggiavano spesso i monumenti dei loro predecessori equesto muro ne era stato una vittima come il resto. Ciònon di meno non avevo dubbi che la parte superiore delmuro fosse stata completata, poiché ne trovammo alcu-ni frammenti alla estremità settentrionale del recinto,con bastioni rivestiti di pannelli e una cortina di rive-stimento della stessa misura di quella del muro di Zoser.Questa, tra l’altro, è una delle ragioni per cui credo cheil re che costruí questo recinto sia posteriore a Zoser,poiché, se il monumento di quest’ultimo non fosse giàesistito, i costruttori di questa altra struttura l’avrebberofatta sorgere piú vicina all’orlo dell’altipiano non sola-mente perché la posizione era piú vantaggiosa, ma per-ché sarebbero stati piú vicini alla riva occidentale delNilo su cui dovevano essere scaricate le pietre del rive-stimento. Infatti sebbene la parte interna delle pirami-di fosse costruita di calcare locale, la pietra a grana fina

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dei blocchi di rivestimento era estratta dalle colline sullariva orientale del Nilo.

Ulteriori scavi nell’area settentrionale della terrazzarettangolare rivelarono alcuni muri di pietrisco paralle-li l’uno all’altro in direzione estovest e uniti da piccolimuri trasversali anche essi di pietrisco; il complesso ras-somigliava stranamente ad alcuni dei terrazzamenti e deiriempimenti del recinto a gradini della piramide diZoser. Ci occorsero circa due mesi per scavare ed esa-minare questo sconcertante complesso di muri trasver-sali, perché era difficile sapere dove incominciare a sca-vare in questo vasto recinto. A questo punto devo sot-tolineare l’immensità dell’area. Non era come scavareuna semplice tomba in un piccolo appezzamento circo-scritto, ma si trattava di scavare in un’area alcune voltepiú grande di Trafalgar Square a Londra. Mi recai doz-zine di volte con Hofni Ibrahim a riesaminare il recin-to di Zoser, particolarmente alla sua estremità setten-trionale, con la, speranza di trovare indicazioni per com-prendere la pianta del recinto appena scoperto. Tro-vammo lo stesso complesso di muri in molti punti, maparticolarmente all’estremità settentrionale.

La ragione per cui esistevano questi muri trasversaliera la seguente. Quando i costruttori di questo remotoperiodo desideravano elevare il livello di un’area, dap-prima costruivano muri trasversali, dividendo l’area incompartimenti che in seguito riempivano con pietre. Èanche molto importante ricordare che gli edifici nelrecinto di Zoser non erano veri edifici progettati per abi-tazioni umane ma edifici finti. In pratica erano pieni equesti muri servivano per la costruzione di tali struttu-re finte.

In altre parole, se si scava, poniamo, una casa o untempio, si può dire quali erano i muri e quali erano glispazi tra i muri che costituiscono gli ambienti. Ma inquesto caso gli spazi lasciati tra le strutture erano cosípiccoli che l’intera costruzione si presentava come una

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sola massa piena. La maggior parte di questi edificierano infatti simbolici e concepiti per rappresentarecerti elementi del palazzo del re a Menfi che venivanoconsiderati necessari per la sua abitazione nell’aldilà eper l’affermazione dei suoi diritti di sovranità.

La difficoltà di stabilire la pianta di simili edificiquando sono ridotti al livello delle fondamenta si puòimmaginare facilmente ed era questo il motivo per cuitornai spesso al recinto di Zoser che era stato scavatosistematicamente per vedere se potevo trarre qualcheinformazione che mi permettesse di interpretare la pian-ta della nuova struttura. Le somiglianze erano sorpren-denti, ed io mi convinsi sempre piú che si trattava delrecinto di una piramide a gradini, sebbene in quel tempopochi altri fossero d’accordo con me.

In lavori di questo tipo talvolta gli archeologi si inol-trano in vicoli ciechi, sia letteralmente che metaforica-mente, ed una disavventura del genere capitò anche anoi mentre scavavamo in questa area. Avevamo notatoche la maggior parte dei frammenti usati nel riempi-mento erano pezzi di soffice argilla, chiamata in arabotafl, trovati normalmente fra i detriti delle gallerie sot-terranee. Questo ci indusse a supporre che potesseroesserci delle gallerie sotterranee, che forse conducevanoalle tombe, tanto piú che complessi di muri di questotipo nella parte settentrionale del recinto di Zoser sor-gevano proprio su gallerie come quelle di cui sospetta-vamo l’esistenza. Cosí cominciammo la ricerca dell’in-gresso, e io e i miei due capi operai perdemmo moltotempo a congetturare dove l’ingresso potesse essere. Glialtri operai si unirono entusiasticamente alla ricerca e,come capita normalmente in questi casi, ciascuno avevala sua speciale teoria. Ogni tanto si alzava un grido: -L’ingresso è qui!... - No, è qui! - E cosí via. Ogni gior-no portava nuove congetture. Era molto difficile vede-re la via d’uscita di questo labirinto, specialmente per-ché i visitatori e gli altri archeologi che venivano a

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vederlo, dopo averlo esaminato, esprimevano l’opinio-ne che il recinto non fosse mai stato completato e chenon avremmo trovato nulla.

Essendo risultata vana la ricerca di una tomba, allafine decisi di spostare tutto il lavoro poche yarde piú anord. A Natale del 1951 dissi a Reis Ofni di spostare la«Decouville» verso nord. Immaginate la nostra gioiaquando il primo dell’anno 1952 trovammo improvvisa-mente una rampa di scale che portava a un enorme murotrasversale che correva da est ad ovest attraverso ilrecinto. Questo muro era assolutamente diverso da quel-li che avevo scoperto prima. Era rivestito di fine calca-re bianco ed era costruito con bastioni e cortine propriocome quelli del muro del recinto di Zoser. Era anchediviso a pannelli in modo analogo. Per qualche ignotaragione non era mai stato completato ed era stato incor-porato in una massa di muratura a secco fatta di muritrasversali di pietrisco costruiti a intervalli sopra e con-tro i suoi bastioni e le sue cortine, mentre i vuoti eranostati riempiti con materiale di scarico. Grazie a que-st’ultimo il muro fu trovato intatto per una lunghezzadi quarantadue metri nello stesso stato in cui la suacostruzione venne interrotta, probabilmente a causa diun cambiamento nel piano dell’architetto. Man manoche il muro si rivelava in tutta la sua bellezza, esatta-mente come gli operai lo avevano lasciato circa cinque-mila anni fa, mi accorsi che si trattava di un reperto dellamassima importanza...

L’anno nuovo sembrava pieno di speranza per tuttinoi. Hofni, suo fratello e gli altri operai erano contentiquanto me. In passato avevano lavorato in alcuni gran-di scavi ed era per loro un punto d’onore che in ogni loca-lità in cui avevano lavorato si trovasse qualcosa di impor-tante. Naturalmente a simili aspettative non corrispon-de sempre la realtà; ma quando ciò accade la gioia ègrande; tali esperienze diventavano allora parte della sto-ria della loro vita, che essi raccontavano ai propri figli.

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Forse qualche lettore si meraviglierà che si facessetanto chiasso per un semplice muro di pietra, ma que-sto non era un muro ordinario. È molto raro in Egittotrovare una struttura del genere inalterata dal tempo ea mano a mano che noi la riportavamo alla luce trova-vamo prove evidenti che il muro bianco, come lo chia-mavamo, doveva essere stato seppellito poco tempodopo la sua costruzione. Avevamo sotto gli occhi qual-che cosa che nessun uomo aveva visto per quasi cin-quanta secoli.

Queste prove consistevano in contrassegni e disegnidi colore rosso lasciati sul calcare bianco dagli antichicostruttori. Per esempio su alcuni blocchi di pietra vierano i contrassegni di cava, dipinti sulle pietre primache esse lasciassero le cave sulla riva opposta del Nilo;quelli sul muro bianco erano puri simboli di cui si è persoil significato, ma sappiamo da altri esempi trovati inpiramidi posteriori che alcuni di questi contrassegniindicavano i nomi delle squadre o dei gruppi che ave-vano tagliato la pietra. Si crede che queste squadre fos-sero costituite da ottocento o mille uomini. Per esem-pio abbiamo i nomi di alcune delle squadre che cavaro-no la pietra per le piramidi di Cheope e di Micerino:

la squadra «Cheope suscita amore». la squadra «la bianca corona di Khnmn-Khufa(Cheope) è potente».

Altri segni sono stati tradotti come segue:

lato superiore da asportare per la tomba reale.

Questi contrassegni e iscrizioni rozzamente tracciatici avvicinano molto agli antichi costruttori. Sul murobianco per esempio trovammo delle vere e proprie linee

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di livellamento fatte tendendo una corda bagnata divernice rossa attraverso la superficie e sbattendola pro-prio come fanno ancor oggi i muratori moderni. Questelinee erano evidentemente tracciate per essere sicuri chegli operai disponessero le pietre allo stesso livello lungotutto il muro, e sebbene questo fosse appena il secondoo il terzo tentativo di costruire muri monumentali in pie-tra, i costruttori avevano evidentemente acquistatogrande abilità.

Poi trovammo qualche cosa che portò il remoto pas-sato molto vicino a noi, un tocco umano raro in unmonumento reale egizio. Qui e là gli operai avevanoingannato l’ozio dei momenti di riposo disegnando sulmuro in ocra rossa o in nero fumo figure di uomini dianimali e di barche. C’era la figura di un libico con unlungo abito e un’alta acconciatura che portava un arco.I libici nomadi che vivevano nel deserto occidentaleerano normalmente degli stranieri per gli Egizi il cuicostume era molto diverso; c’erano poi disegni inequi-vocabili di leoni. In quel tempo nei deserti d’Egitto sipotevano ancora trovare leoni e altri, animali feroci egli operai debbono averli visti molte volte errare lungoil margine del deserto. Altri disegni mostravano bar-che, alcune con vele ed altre senza, e chiatte simili aquelle che erano usate dagli antichi Egizi per portareblocchi di calcare dalle rive orientali a quelle nordorientali del Nilo.

Devo ripetere a questo punto che finora non era statoscoperto nulla che dimostrasse che io avevo trovato unapiramide. Avevo semplicemente scoperto una recinzio-ne che recava certi punti di contatto con quella del reZoser e un magnifico muro trasversale cosí simile a quel-lo del recinto del re da non lasciare dubbio sul fatto cheera stato costruito in un periodo molto vicino a quellodi Zoser. Ma era tutto qui. Oltre al muro bianco i visi-tatori della località in questi primi mesi del 1952 trova-vano poco di interessante, soltanto il nudo terrapieno di

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sabbia e di roccia butterato da pochi fori, da uno deiquali la Decauville correva alla fossa di scarico. - Dov’èla piramide? - mi chiedevano scherzosamente i miei col-leghi archeologi, e io non sapevo che cosa rispondere; miispirava soltanto la fede interiore che in qualche puntosotto questa vasta distesa di sabbia avrei alla fine tro-vato ciò che cercavo. Ma quando pensavo al mio mode-sto assegno che svaniva rapidamente, diventavo ansio-so perché se il denaro veniva speso in scavi senza risul-tato, sarebbe stato difficile ottenerne dell’altro. Si dove-va perciò scegliere con grande cura il punto di ognipozzo di saggio e una notte dopo l’altra, quando torna-vo a casa dopo il lavoro quotidiano, studiavo la piantadell’area, consultavo le opere degli altri archeologi cheavevano lavorato alle piramidi, costruivo e distruggevoteorie e parlavo fino a notte tarda con i miei capi ope-rai Hofni e Hussein.

A questo punto vorrei ricordare ai miei lettori lapianta del recinto della piramide... Troveranno che anord del punto dove il muro bianco si unisce alle muradel recinto in direzione nord-sud vi è un curioso muta-mento di direzione. Lo scoprimmo poco dopo aver por-tato alla luce il muro e ciò mi lasciò perplesso per qual-che tempo. In realtà, c’erano due elementi che mi dava-no da pensare. In primo luogo c’era il fatto che dalmuro bianco in poi, verso nord, le mura del recinto indirezione est-ovest non seguivano lo stesso allineamen-to di prima, ma erano sprofondate di circa un metro eottanta formando un angolo. Ciò indicava o la presen-za di un altro monumento addossato al primo sul latosettentrionale o un allargamento del primo monumento;piú tardi trovai che quest’ultima era la supposizioneesatta.

Il secondo elemento strano era che questa estensio-ne settentrionale, al di là del muro bianco, era ad unlivello superiore a quello della parte meridionale delrecinto, formando una specie di piattaforma rialzata. Per

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quale motivo? Soltanto ulteriori scavi avrebbero forni-to una risposta definitiva.

Nel frattempo, nel tentativo di trovare una rispostaal problema, cominciai a scavare in tutta la larghezza delrecinto da ovest ad est seguendo la linea del muro bian-co. Incontrammo da prima grandi blocchi di fine calca-re disposti in modo da formare una rampa di scaliniaddossata all’estremità occidentale del muro massiccio,con lo scopo di facilitarne l’utilizzazione come cava dimateriale.

Il muro stesso si dimostrò costruito di uno spessonucleo interno regolarmente fatto di calcare locale, rive-stito esternamente con bianco calcare intonacato. Tuttala faccia esterna del muro era a pannelli e costruita conbastioni e cortine. Tutta la magnifica struttura presen-tava esattamente lo stesso disegno del muro di recin-zione di Zoser. I pannelli avevano la stessa larghezza eprofondità. I bastioni e le «cortine» avevano le stessemisure, con spazi eguali tra i bastioni piú grandi perdelle imitazioni scolpite di doppie porte chiuse come nelmuro di Zoser. Ero felice perché era ora chiarissimo cheavevo trovato una recinzione costruita su una piantasimile a quella di Zoser.

Durante il resto della stagione 1952, da gennaio amarzo, continuammo a lavorare a questo muro e ne sca-vammo in lunghezza quasi quarantasei metri fermando-ci solo quando ci accorgemmo che la sua estremità orien-tale, la piú vicina alla necropoli, era stata danneggiatadal saccheggio dei blocchi di pietra.

Comunque notammo due differenze essenziali nelladisposizione strutturale delle pietre. Le dimensioni deiblocchi erano qui molto maggiori di quelle del recintodi Zoser; nel nuovo muro l’altezza dei corsi è di cin-quanta-cinquantadue centimetri, mentre nelle parti infe-riori del muro di Zoser è solo di ventiquattro-ventiseicentimetri. D’altra parte il fine calcare è stato usatomolto piú parsimoniosamente.

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Questi due fattori sono estremamente importanti perla datazione del monumento. È certo che già nel regnodi Zoser c’era stata la tendenza ad aumentare le dimen-sioni dei blocchi di pietra, perché i costruttori alla fineavevano capito che aumentare le dimensioni dei blocchisignificava una economia nel lavoro di squadratura dellepietre e conferiva maggiore forza e maggiore coesione aimuri. Perciò la dimensione dei blocchi e il loro modo diimpiego in questo nuovo muro indicano una data poste-riore a Zoser, sebbene ancora nella III dinastia. L’eco-nomia del rivestimento suggerisce anch’essa metodicostruttivi piú razionali e quindi piú evoluti. Ma il muroera stato abbandonato durante la costruzione e il limi-te settentrionale del recinto era stato portato centot-tantadue metri piú a nord. Che esso sia stato abbando-nato durante la costruzione è provato dal fatto che ilsesto corso superiore non è stato rivestito ed è statolasciato grezzo. Inoltre alcuni muri divisori di calcarecorrente poggiano direttamente contro la facciata a pan-nelli e la superficie del muro non era stata levigata, mamostrava numerosi segni di cava e le linee dei muratoriche ho già descritto.

Nel frattempo io e i miei operai cercavamo semprequalche indizio di gallerie sotterranee come quelle cheesistono sotto la parte settentrionale del recinto diZoser, e un giorno trovammo qualcosa che rialzò lenostre speranze. Era un foro praticato da un antico pre-done di tombe... Per gli archeologi buchi di questo tipopossono essere contemporaneamente causa di speranzae di disperazione. Di speranza, perché indicano chemigliaia di anni prima un intraprendente furfante avevasaputo o sospettato che lí c’era una tomba; di dispera-zione, perché se l’aveva trovata l’aveva saccheggiata!

In questo caso trionfò la speranza. Scendemmo nellabuca e seguimmo per diciannove metri la galleria scava-ta dal ladro. Essa si addentrava nella roccia e descrive-va un largo semicerchio. Dovevamo procedere con cau-

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tela per timore che cadesse qualche blocco o che crol-lasse addirittura tutto il tunnel, ma quando Hofni e ione raggiungemmo la fine e trovammo solo la roccia,fummo rallegrati e sollevati. In questo caso il ladro erarimasto con un pugno di mosche e si era allontanatoscornato. Ma era forse riuscito in un altro punto? Stia-mo ancora aspettando la risposta.

Il periodo da gennaio all’inizio di aprile del 1952venne impiegato a ripulire il muro bianco fino alla baseper tutta la sua lunghezza fino al punto in cui la sua uti-lizzazione come cava di materiale l’aveva molto dan-neggiato. Durante questo periodo la pianta del recintomi si era chiarita un po’ meglio. Quando scavo una certalocalità cerco sempre di immedesimarmi con gli antichicostruttori, di entrare nella loro mente per capire perchéil loro monumento ha assunto quella determinata forma.Essi cambiavano spesso le piante durante la costruzio-ne e osservando e riflettendo con l’aiuto della cono-scenza di altri monumenti, è talvolta possibile stabiliredove e perché si sono verificati questi mutamenti e anti-cipare che cosa può nascondersi sotto la sabbia...

Per esempio mi convinsi che il Muro Bianco avevacostituito in origine il limite settentrionale del recinto,ma che per qualche ragione ancora inspiegata i costrut-tori decisero di estenderlo verso nord a un livello piúalto. Quindi, dato che avevamo chiaramente di fronteun recinto, ci doveva essere un edificio centrale, chedoveva sorgere piú o meno nel punto centrale del recin-to originario. Si sarebbe potuto obbiettare che i costrut-tori potevano avere abbandonato il recinto prima dicominciare l’edificio centrale, qualunque esso fosse,piramide o mastaba; ma questo era improbabile perchésappiamo da altre strutture che la costruzione delle varieparti avveniva contemporaneamente. Ma qui non c’eraalcun segno di qualche edificio centrale, non affioravaneppure una traccia di muratura come quella che miaveva guidato al recinto.

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All’inizio di aprile esaminai il recinto originale conl’aiuto di un teodolite per determinarne l’esatto centrogeometrico. Spiegai a Hofni la mia idea ed egli se nedimostrò entusiasta. Egli non aveva mai lavorato in unapiramide cosí antica, sebbene avesse avuto una parteimportante nello scavo della famosa piramide del reSenusret II (XII dinastia) a el-Lahun. Infatti fu HofniIbrahim a trovare uno dei piú begli oggetti che sianostati scoperti in una piramide egizia. Piú di trenta annifa lavorava per Flinders Petrie nella tomba della princi-pessa Sit-Hathor-Iunet, figlia di Senusret II, quando,sgombrando un recesso nell’angolo della tomba, trovòun raro esemplare dell’ureo regale, o serpente sacro, inoro, con testa di lapislazzuli, occhi di granato e cappuc-cio ornato di cornaline, turchesi e lapislazzuli. Questosimbolo reale, che rappresenta il dominio sul Basso Egit-to, era portato dai faraoni sulle corone. Caduto nelfango, fu trascurato dai ladri quando violarono la tombae rimase intatto per quattromila anni finché Hofni lotrovò. Una volta egli mi confessò che visitava spesso ilMuseo del Cairo proprio per ammirare l’ureo nella suavetrina di cristallo e ricordare quel giorno di trentaseianni prima quando egli lo aveva tenuto fra le mani perprimo. Sono proprio ricordi come questo che irradianodi gloria la vita di questi uomini e ispirano loro speran-za quando si accostano a una nuova località. Cosí i mieioperai cominciarono con grande eccitazione la fase suc-cessiva dello scavo, intesa a localizzare l’edificio cen-trale, se esisteva.

In ogni lavoro di questo tipo entrano in gioco fortu-na ed intelligenza; in questo caso fummo fortunati.Avevo stabilito il punto in cui doveva sorgere l’edificiocentrale, ma quando diedi ordini di scavare il primopozzo di saggio non sapevo se avremmo incontrato ilperimetro della struttura o qualche punto interno. Imma-ginate la mia gioia quando il 29 gennaio 1952 Hofnivenne da me tutto eccitato a dirmi che avevano trovato

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delle strutture murarie. Per buona fortuna avevamo sco-perto l’estremità meridionale della struttura nascosta e diqui non sarebbe stato difficile seguirla lungo gli angoli edeterminare l’estensione di tutto l’edificio.

Questo era composto di una serie di muri indipen-denti appoggiati l’uno all’altro e inclinati verso l’inter-no con un angolo di circa settantacinque gradi; i pianidi posa delle pietre erano ad angolo retto con lo scivo-lo dei muri. I lettori che hanno seguito attentamente ilcap. I in cui ho descritto la costruzione di piramidi a gra-dini, comprenderanno che questo era un elemento pre-zioso per la datazione della struttura. Infatti nei pochiesempi sopravissuti di piramidi a gradini che noi cono-sciamo, i muri aggiunti successivamente sono costruitiin questo modo, mentre nelle piramidi piú tarde, poste-riori all’epoca di Snofru, i piani di posa sono orizzonta-li. Mi recai immediatamente da Lauer, l’architetto delDipartimento delle antichità, che aveva lavorato permolti anni alla piramide a gradini di Zoser (è il respon-sabile dei restauri e del consolidamento dei monumen-ti). Lo trovai come al solito al lavoro accanto alla pira-mide e insieme ci recammo alla terrazza dove HofniHussein e gli altri operai ripulivano i muri appena sco-perti. Quando egli li ebbe visti ed esaminati esclamò: -Non c’è dubbio che si tratta di una parte di una pira-mide a gradini.

Eppure c’era ancora chi non era d’accordo e, sfortu-natamente, eravamo alla fine della stagione 1952 e sape-vo che sarebbe passato qualche tempo prima che questidubbi potessero essere finalmente dissipati, come erosicuro che sarebbe successo. Gli scavi si conclusero amaggio del 1952 e non furono ripresi fino a novembredel 1953. Il lavoro era giunto a un punto critico ed iomi accorgevo di aver bisogno di tempo per studiare ireperti e decidere con calma la mia linea di azione futu-ra. Era anche necessario ottenere una ulteriore sovven-zione per poter continuare il lavoro.

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Nel novembre del 1953 riunii nuovamente i mieioperai ed ancora una volta i carrelli carichi cominciaro-no a rombare lungo la Decauville mentre faticavamo ascoprire altre parti del misterioso edificio. In primoluogo mi applicai a definirne il perimetro. Dapprimaampliammo la buca di saggio e accertammo che le strut-ture continuassero sia sul lato orientale che su quellooccidentale; poi diedi ordine di spostare il lavoro a unacerta distanza a ovest lungo la stessa linea, nel puntodove pensavo dovesse trovarsi l’angolo dell’edificio.Trovammo che il lato meridionale era coperto di argillamolle, ricavata dallo scavo di gallerie sotterranee, cosíche questa prova quasi impercettibile ci mostrò dovefiniva il riempimento artificiale e dove cominciavano idetriti causatí dalla utilizzazione posteriore della pira-mide come cava di materiale. Quando scavammo sottola superficie del deserto, risultò chiaro dove terminavail riempimento artificiale. Poco dopo l’inizio di questolavoro, mentre ero impegnato in un altro punto delrecinto Hussein Ibrahim, fratello di Hofni, mi venneincontro di corsa a braccia tese gridando: – Mabrukelnasia! – che significa: «Congratulazioni! abbiamo tro-vato l’angolo!»

Lo seguii e vidi con mia grande gioia, che ci eravamoimbattuti nell’angolo di una piramide, perché ero sem-pre piú convinto che lo fosse. Difficilmente poteva trat-tarsi di una mastaba, in parte per le dimensioni, masoprattutto perché, che si sappia, non esiste alcuna masta-ba con muri ad aggiunte successive e piani di posa incli-nati. Questi sono tipici della costruzione di piramidi.

Ogni località archeologica ha le sue caratteristiche ebisogna lavorare molto a lungo per trovarle e capire checosa accadde nei tempi antichi. Data l’immensa super-ficie coperta dal recinto, adottai il metodo di identifi-care prima i punti piú importanti; altrimenti avrei dovu-to spendere molto tempo e denaro in lavori inutili primadi poter capire la pianta.

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Per esempio avendo scoperto questo primo angolo,era facile per noi trovare gli altri tre. Dalle fotografie sivedrà che si trattava di una struttura a gradini, ma chene resta uno solo. La muratura è di buona qualità, ma iblocchi di calcare sono relativamente piccoli come nellapiramide di Zoser. I costruttori non avevano ancoraraggiunto lo stadio in cui edificavano con enormi bloc-chi megalitici. L’intera struttura misura trecentosettan-tacinque metri quadrati; la base è cosí piú grande diquella della piramide di Zoser. Allo stadio incompiutoraggiunge un’altezza massima di circa sette metri, macredo che secondo il progetto originario l’altezza doves-se essere il doppio di cosí e che sia stata ridotta allo statoattuale in tempi posteriori a causa dell’estrazione dimateriale. Non si trovarono tracce di rivestimento ester-no e si può presumere che sia stata iniziata e mai finitasolo la struttura della piramide.

Questa è una struttura a ripiani a pianta quadrata for-mata probabilmente da quattordici strati di muraturache diminuivano in altezza dal centro verso l’esterno eche si appoggiavano ad un nucleo centrale con un ango-lo variante tra i settantuno e i settantacinque gradi, coni piani di posa ad angolo retto con le linee che li fron-teggiano. Le facce di «accrescimento» erano lasciateallo stato grezzo. Supponendo che ogni gruppo di duestrati di muratura dovesse formare un gradino, comenella piramide di Zoser, possiamo concludere che que-sta piramide dovesse contare sette gradini invece dei seidella piramide di Zoser.

Se questa piramide fosse stata finita avrebbe proba-bilmente raggiunto un’altezza di circa cento metri, cioèavrebbe superato di nove metri quella di Zoser. Essa ècostruita direttamente sulla roccia ed è realizzata nelcomune calcare grigio locale. I blocchi sono rozzamen-te squadrati e disposti in un legante composto di argil-la molle (tafe) ottenuta dallo scavo dei corridoi mesco-lata con frammenti di calcare. Le pietre erano disposte

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a corsi alterni di punta e di piano ad imitazione delladisposizione dei mattoni di fango. I piani di posa sonoperfettamente livellati e paralleli e le giunture orizzon-tali sono molto piú grandi di quelle verticali. Nella mura-tura venne ritrovato reimpiegato un frammento di steleterminale con il nome di Zoser, a ulteriore conferma chela nuova piramide deve essere stata costruita in un perio-do posteriore a Zoser.

The Buried Pyramid, 1956

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parte quarta Il libro delle torri

henry rawlinsonUna seconda decifrazione della scrittura cuneiforme

Sir Henry Creswicke Rawlinson (1810-95) nacque a Chad-

lington nella contea di Oxford. Nel 1827 si recò in India come

ufficiale cadetto dell’East India Company e dopo sei anni fu tra-

sferito in Persia con alcuni altri ufficiali per riorganizzare le trup-

pe dello shah. In quel periodo si conosceva un discreto numero

di esemplari di scrittura cuneiforme, ma solo il tedesco Grote-

fend aveva trovato una chiave per la decifrazione e Rawlinson,

che non conosceva l’opera di Grotelend, si interessò profonda-

mente al problema. Con notevole pericolo e difficoltà scalò la

roccia di Behistun e trascrisse parte della iscrizione, ma la ten-

sione politica internazionale lo costrinse a lasciare il paese prima

di aver terminato il suo lavoro. Nel 1840 divenne agente poli-

tico per Kandabar e chiese di essere mandato nell’Arabia turca;

si stabilí a Bagdad e continuò le sue ricerche sul problema del-

l’iscrizione. In questo periodo trascrisse, decifrò e interpretò il

resto dell’iscrizione di Behistun. Durante un congedo di due

anni in Inghilterra affidò la sua notevole collezione di antichità

al Museo Britannico che gli concesse una sovvenzione per con-

tinuare gli scavi iniziati da Sir Austen Layard, ed egli li prose-

guí fino al ritiro nel 1855. Per i suoi meriti ottenne il titolo di

commendatore dell’Ordine del Bagno e per il resto della sua

vita, trascorsa quasi tutta a Londra, continuò a interessarsi della

scrittura cuneiforme e di affari internazionali.

«Al mio arrivo a Bagdad quest’anno decisi di riman-dare il completamento delle mie traduzioni e del saggioche avevo steso come dimostrazione e spiegazione fino

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a che avessi ricevuto dall’Inghilterra libri che mi per-mettessero di approfondire la mia conoscenza delle pecu-liarità della grammatica sanscrita; e nello stesso tempomi occupai di geografia comparata. In questo periodoricevetti, tramite il vicepresidente della Royal AsiaticSociety, professor Lassen, una lettera contenente unsommario del suo ultimo sistema di interpretazione per-fezionato, e capii subito che l’alfabeto di Bonn era infi-nitamente superiore a tutti gli altri che avevo prece-dentemente avuto occasione di esaminare. Infatti i prin-cipi del professore coincidevano con i miei in tutti ipunti essenziali e poiché io, grazie all’aiuto del sanscri-to e alle affinità dello zend ero in grado di analizzarequasi ogni parola delle iscrizioni cuneiformi finora copia-te in Persia, e quindi di verificare il valore alfabetico diquasi tutti i caratteri cuneiformi, ho avuto motivi anchemaggiori per ammirare l’abilità del professor Lassen,che con il limitatissimo materiale a sua disposizione inEuropa è ugualmente arrivato a risultati cosí esatti. Lastretta analogia del mio alfabeto con quello adottato dalprofessor Lassen apparirà chiaramente dalla tavola com-parativa e, sebbene in pratica i suoi lavori non mi abbia-no fornito altro aiuto che quello di aggiungere un nuovocarattere al mio alfabeto, e di confermare opinioni tal-volta congetturali e in genere bisognose di verifica, puresembra che il miglioramento apportato dal suo sistemadi interpretazione rispetto all’alfabeto impiegato da Bur-nouf abbia preceduto non solo l’annuncio, ma l’adozio-ne dei miei principî, ragion per cui non posso conte-stargli la priorità della scoperta. Mentre scrivevo questosaggio ho avuto altre occasioni di esaminare le iscrizio-ni persepolitane del Rich e l’iscrizione persiana di Sersetrovata a Van; e tramite le pagine del «Journal Asiati-que», ho migliorato, con la guida del dottor Müller, lemie conoscenze del pehlevi ed ho potuto avere qualchenotizia delle traduzioni del professor Lassen dalla letturadi una delle notizie critiche di Jacquet.

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«Avendo cosí brevemente descritto i progressi deimiei studi sul cuneiforme negli ultimi quattro anni eavendo esposto con quali mezzi sono giunto a comple-tare il mio alfabeto, devo ora fare qualche osservazionesulle traduzioni. Questo ramo dello studio, sebbenedipendente e necessariamente successivo alla esatta defi-nizione dei caratteri, è naturalmente l’unica parte dav-vero importante della ricerca. È infatti la messe natadalla precedente coltivazione di un suolo arido e, perquanto mi consta, è stata finora scarsamente raccolta.

«Le traduzioni del professor Grotefend e di Saint-Martin sono in complesso errate e non meritano atten-zione. Il saggio di Burnouf sulle iscrizioni di Hamadanè limitato all’illustrazione di venti brevi righe di scrit-tura che contengono un’invocazione e Ormand, pochinomi propri ed una nuda enumerazione di titoli reali. Èvero che alcune peculiarità grammaticali sono corretta-mente sviluppate grazie alla loro identità con analogheforme nello zend; ma la natura delle iscrizioni ha neces-sariamente reso le fatiche del segretario di Parigi, perquanto ampie ed erudite, prive di interesse storico einoltre la condizione lacunosa del suo alfabeto lo haportato ad alcuni gravi errori di traduzione. La parte digran lunga piú interessante delle sue ricerche consistenell’esame incidentale dei nomi geografici contenuti inuna delle iscrizioni persepolitane del Niebuhr, eppure inun elenco dei titoli di ventiquattro delle piú celebrinazioni dell’antica Asia, egli ha decifrato correttamen-te solo dieci nomi.

«Non ho modo di giudicare le traduzioni del profes-sor Lassen, se non in base agli esemplari che mi ha man-dato del suo sistema di interpretazione applicato all’i-scrizione geografica dei Niebuhr che mi ha inviati luistesso e alla critica del Jacquet sullo stesso soggetto. Ilnotevole miglioramento dell’alfabeto di Bonn ha per-messo al professore un’identificazione dei nomi geogra-fici a Persepoli molto piú corretta di quella di Burnouf,

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ma credo che essa non sia ancora esatta nella lettura enell’identificazione di questi nomi, e che in molti casiegli abbia anche sbagliato l’etimologia delle parole e lastruttura grammaticale della lingua, come si vedrà dal-l’appendice del presente saggio dove ho confrontato latraduzione della iscrizione del Niebuhr eseguita dal pro-fessore e la mia.

«In questo caso poi, rivendico la mia originalità,essendo stato il primo a presentare al mondo una tra-duzione letterale e credo grammaticalmente corretta diquasi duecento righe di scrittura cuneiforme apparte-nenti a un monumento commemorativo, di Dario Ista-spe, di cui la maggior parte è in stato di conservazionecosí perfetta da fornire ampie e sicure basi per unaminuta analisi ortografica ed etimologica, e il cui valo-re per lo storico credo sia assolutamente identico a quel-lo che rivestono per il filologo le peculiarità del suo lin-guaggio. Non pretendo con questo di considerare per-fette le mie traduzioni: chi si aspetta di trovare in que-sto articolo le iscrizioni cuneiformi tradotte e spiegatecon la stessa sicurezza e chiarezza delle tavolette grechee romane, proverà una forte delusione. Si deve ricorda-re che il persiano delle età prealessandrine non è piú dagran tempo una lingua viva, che la sua interpretazionedipende dall’aiuto collaterale del sanscrito, dello zend edei corrotti dialetti sopravvissuti nelle foreste e nellemontagne della Persia al naufragio dell’antica lingua; inpochi casi, in cui queste lingue affini e derivate nonhanno perpetuato le antiche radici, o in cui la mia limi-tata conoscenza dei diversi dialetti non mi ha permessodi scoprire i punti di contatto, sono stato costretto adassegnare un significato arbitrario, ottenuto sfruttandola proprietà comparativa valida in un campo di ricercamolto limitato. Mi rendo conto perciò che in alcunipochi casi le mie traduzioni solleveranno dubbi e che,grazie al continuo accumularsi di materiale di studio eallo studio da parte di orientalisti piú qualificati, si possa

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rivelare la necessità di modificare o cambiare alcuni deisignificati che ho assegnato; al tempo stesso però io nonposso dubitare di aver determinato accuratamente ilsenso generale di ogni paragrafo e di aver cosí espostoun profilo storico esatto, autorevole come testimonian-za regale e contemporanea, di molti grandi avvenimen-ti che hanno preceduto l’ascesa e segnato la carriera diuno dei piú famosi fra gli antichi sovrani persiani».

Quando nel 1839 scrivevo questa introduzione eramia intenzione pubblicare semplicemente il testo delleiscrizioni di Behistun con a fianco un commentario illu-strativo di quei punti filologici, storici, geografici che misembrassero particolarmente degni di attenzione, e con-fidavo che il resoconto in questa semplice forma fossepronto per la stampa prima della fine dell’anno. Mano amano che procedevo nel mio compito però il lavoro micresceva insensibilmente fra le mani. Mi sembrava chel’esame di una lingua cosí venerabile per età e cosí inte-ressante per le sue strette affinità con il sanscrito vedi-co richiedesse un’attenzione maggiore di quella che pote-va essergli accordata solo in una serie di note critiche;mentre i problemi storici e geografici che nascevano inrapida successione ad ogni passo successivo della ricercaminacciavano di seppellire il testo sotto un cumulo dicommenti e di oscurare, e forse cancellare completa-mente, la forza e la chiarezza dell’argomentazione. Per-ciò nell’autunno del 1839 mi accinsi a riscrivere il sag-gio, distribuendo il materiale secondo diverse voci ededicando un capitolo separato alla trattazione di ognisingolo argomento. Questo piano di lavoro mi fu di gran-de aiuto. Necessariamente procedevo con lentezza, macostantemente e uniformemente; e avrei potuto ancorasperare di pubblicare la nuova versione del saggio nellaprimavera del 1840 se alcune circostanze indipendentidalla mia volontà e da me né desiderate né previste, nonavessero arrestato a metà strada le mie indagini impe-dendomi per molto tempo di rimettermi al lavoro.

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Non intendo soffermarmi minutamente sull’interru-zione che dovetti subire, basterà dire che i miei servizierano richiesti dal governo, e venni improvvisamentetrasferito dal dotto eremitaggio di Bagdad a coprire unposto di grande responsabilità e impegno in Afganistan,e che rimasi in questa situazione per tutto il periododella nostra movimentata occupazione del paese. Chi hasperimentato le difficoltà di combinare un intenso stu-dio di argomenti letterari con le distrazioni connesse congli affari, ammetterà, credo, che nel caso di un pubbli-co ufficio in Afganistan, che richiedeva completa dedi-zione e cure indefesse, io non avevo altra alternativa chel’abbandono delle mie ricerche archeologiche. Conti-nuare i miei lavori sulle iscrizioni nelle poche ore di ozioche potevo legittimamente concedermi non avrebbedato alcun risultato; dedicare alla ricerca una parte note-vole del mio tempo non sarebbe stato compatibile con imiei doveri verso il governo.

Ma gli anni passarono e nel dicembre 1843 mi ritro-vai nuovamente a Bagdad. L’interesse per le iscrizioni,che aveva ispirato all’inizio la mia ricerca, non si era maispento, anzi si era forse accentuato per gli imprevistiche ne avevano differito per tanto tempo la legittimasoddisfazione e cosí approfittai con impazienza delprimo intervallo di riposo di cui potei godere dopo moltianni per riprendere il filo dell’indagine. Mr Wester-gaard, ben noto per i suoi contributi alla letteratura san-scrita, che aveva viaggiato in Persia nel 1843 con l’e-spresso scopo di raccogliere materiale palcografico earcheologico, mi forní molto cortesemente in questoperiodo alcune nuove iscrizioni da lui copiate a Perse-poli. L’iscrizione sul portale accanto al grande scalone,sfuggita a tutti i precedenti visitatori, si rivelò moltointeressante; lo stesso accadde per le correzioni delleiscrizioni H ed I del Niebuhr e per il restauro di tuttele tavolette minori della piattaforma; ma io notai che lagemma della sua collezione era la lunga iscrizione inci-

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sa nel sepolcro rupestre di Dario a Nakhsh-i-Rustam, inpratica il piú importante documento, dopo le tavolettedi Behistun, del tipo esistente in Persia. Questa iscri-zione è notevole sia per la sua estensione e per il suocontenuto sia per l’esattezza dei caratteri. Non poteifare a meno di osservare che la copia di Mr Wester-gaard, per quanto necessariamente difettosa com’eraper forza sia per l’abrasione della roccia sia per la diffi-coltà di decifrare lettere poste cosí in alto per mezzo diun telescopio mostrava tuttavia nella sua superioritàrispetto a tutti gli esemplari del Niebuhr, del Le Brun,del Porter e del Rich, l’immenso vantaggio di cui puògodere un trascrittore che abbia familiarità con il carat-tere e la lingua rispetto ad uno che deve dipendere perla fedeltà della sua copia solo dall’accurata imitazionedi un artista.

Nei miei recenti lavori ho tratto grande vantaggiodalle iscrizioni di Mr Westergaard e dalla copia in lin-gua meda dell’iscrizione di Nakhsh-i-Rustam, che subi-to dopo il mio arrivo a Bagdad mi venne cortesementefornita dal signor Dittel, un orientalista russo, che col-laborò con Westergaard a Persepoli. Spero che questidue studiosi mi permetteranno di esprimere pubblica-mente la riconoscenza che pertanto devo loro.

Con ogni probabilità avendo sotto mano un materia-le cosí ampio e la conseguente possibilità di migliorarela mia conoscenza della lingua, avrei comunque giudi-cato opportuno intraprendere comunque una terza revi-sione del saggio che stavo scrivendo, ma la necessità diun tale lavoro apparve ineluttabile in seguito ai fortunatirisultati di una visita che potei fare nell’autunno del-l’anno scorso alla roccia di Behistun. Potei cosí copiaretutte le iscrizioni persiane di quella località ed anche unaparte notevole delle trascrizioni mede e babilonesi. Nonparlerò delle difficoltà o dei pericoli dell’impresa, chesono tali da poter essere felicemente superati da qualsiasipersona con un sistema nervoso normale, ma anche tali

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che per lungo tempo costituirono l’unica ragione per cuile iscrizioni non furono presentate prima al pubblico daqualcuno tra i numerosi viaggiatori che le contemplaro-no avidamente a distanza.

Al ritorno a Bagdad dal mio viaggio nel Curdistanmeridionale, pubblici impieghi e motivi di salute miimpedirono nuovamente per qualche tempo di conti-nuare i miei lavori. Le stesse cause con piú o meno suc-cesso mi hanno costretto a rinunciare alla loro prose-cuzione anche nella primavera e nell’estate e se io nonavessi potuto fortunatamente valermi dell’aiuto delluogotenente Jones, un colto ufficiale della marinaindiana, che ha descritto le sculture di Behistun e con-tribuito in larga misura alla stesura del testo, avreiprovato una nuova delusione nelle mie speranze dipronta pubblicazione. Devo però osservare che a feb-braio di quest’anno presi la precauzione di inviare allaRoyal Asiatic Society una traduzione letterale di ogniesemplare di scrittura persiana a Behistun, afferman-do cosí, al di là di ogni dubbio, già a quella data i dirit-ti della Società sui risultati pubblicati nel seguentesaggio.

Noterò ora le scoperte contemporanee sul continen-te nell’intervallo trascorso dalla pubblicazione dei reso-conti di Bonn e di Parigi del 1836. Credo che il pro-fessor Lassen abbia fondato a Bonn nel 1838 un gior-nale dedicato esclusivamente agli studi di paleografia eletteratura orientale, e mi pare di aver capito che ditempo in tempo sono apparse pagine sulle iscrizionicuneiformi. Uno di questi articoli, che conteneva unatraduzione dell’iscrizione di Artaserse Ochus, mi venneletto nel 1843 a Calcutta dal dottor Aloys Sprenger,perché io sfortunatamente non so il tedesco; ma igno-ro completamente il contenuto degli altri. Sono rico-noscente a Mr Westergaard per l’informazione che ilprofessor Grotefend nel 1839 decise di porre in discus-sione le scoperte del professor Lassen e di opporre a

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queste le infallibili rivendicazioni dell’antiquato alfa-beto del 1815, procedimento giudicato giustamente dailetterati tedeschi, a dir poco fatuo.

Il professor Grotefend può pretendere l’onore dellaprima scoperta, anche se imperfetta, ma il professorLassen può competere con lui anche per l’identificazio-ne numerica dei valori alfabetici, mentre in tutti gli ele-menti essenziali dell’interpretazione, il sistema anticonon può avanzare nessuna pretesa di venire confronta-to con quello moderno. Dalla stessa fonte apprendo chenella ricerca sono impegnati anche altri orientalisti di cuiconosco poco l’opera. Sembra che in Germania vengariconosciuta al dottor Beer di Lipsia la scoperta di duecaratteri, h e y, e che il Jacquet si sia arro-gato la determinazione delle lettere ch e jh.Credo che le sole identificazioni di questo rapportosostanzialmente diverse da quelle adesso accettate datutti sul continente sono i e m’, ma anchel’attribuzione del valore sh invece di s al carattere edi tr. (con una liquida debole anziché una forte) al carat-tere sono modifiche di un certo peso e bisognaanche notare due nuove lettere e cui ho datorispettivamente il valore di n e n. Chi si interessa aseguire i precisi progressi delle scoperte alfabetichetroverà le informazioni piú esatte e soddisfacentinella tavola che inizia il capitolo III sull’alfabetocuneiforme persiano. I valori fonetici indicati nellacolonna a destra della tavola saranno una guida ampiae sufficiente per la pura e semplice lettura delle iscri-zioni.

Devo ancora pagare un altro tributo all’acume e allericerche del professor Lassen. Pare che Westergaard almio ritorno in Europa agli inizi del 1844 mise le mieiscrizioni persiane nelle mani del professor Lassen chegiustamente ritenne questi nuovi materiali sufficiente-mente importanti da richiedere un’analisi accurata edimmediata. Perciò il professor Lassen dedicò uno dei

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primi numeri del suo giornale a questo soggetto e nellostesso tempo colse l’occasione per raccogliere tutte lealtre iscrizioni di questo tipo e pubblicare insieme l’in-tera serie in un testo emendato e con traduzioni rive-dute. Credo che questo sia l’ultimo lavoro pubblicatosull’argomento ed esso anticipa, com’è naturale, alcu-ne delle novità del presente saggio. Ho ricevuto unacopia del giornale mentre scrivevo queste pagine e mene sono servito come di un manuale di consultazione.Anzi le note marginali che ho aggiunto a questo testomostreranno con quanta cura l’abbia consultato; devoperò anche dire che le mie traduzioni, già completequando arrivò il libro, erano, se non indipendenti dalsuo aiuto, per lo meno non passibili di mutamenti edevo ancora una volta rammaricarmi della mia igno-ranza del tedesco che mi ha impedito di valermi neipunti dubbi della grammatica, dell’aiuto che avreisenz’altro trovato nelle opinioni meditate di questo stu-dioso cosí eminente e corretto, se fossi stato in gradodi seguire le sue argomentazioni.

Devo ancora osservare che questo saggio, sebbeneper il grande aumento di dati sia stato riscritto nelcorso di quest’anno, nella parte che riguarda il mate-riale originario e in tutti i punti essenziali della costru-zione grammaticale ed etimologica, è assolutamenteidentico all’articolo che avevo preparato per la stampanel 1839. Se le traduzioni possono venire corrette (edata la mia scarsa conoscenza delle finezze della gram-matica zend e sanscrita, le espongo al pubblico con dif-fidenza e deferenza) si dovrà attribuire tale migliora-mento a un esame critico del testo. Credo infatti cheil materiale da verificare e analizzare non sia ancoracompletamente esaurito, e a meno che vengano intra-presi scavi su larga scala a Susa, Persepoli o Pasargadedobbiamo accontentarci della triste convinzione diavere qui, racchiusi in poche pagine, tutto ciò che restadegli antichi linguaggi persiani e tutto ciò che i docu-

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menti contemporanei locali ricordano delle glorie degliAchemenidi.

The Persian Cuneiform Inscriptions at Behistun, 1846

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claudius james rich Sorgeva qui Babilonia?

Claudius James Rich (1787-1820) nacque a Digione in Borgo-

gna ma crebbe a Bristol. Si interessò sempre di lingue e cominciò

a studiare l’arabo all’età di nove anni. Probabilmente grazie a

questa dote, quando divenne cadetto nel 1803, la East India

Company lo designò per un incarico in Egitto, ma nel viaggio

verso la sua prima sede fece naufragio e dopo aver vissuto qual-

che tempo a Malta e poi in Italia, si diresse a Costantinopoli e

Smirne. Viaggiò in lungo e in largo in Asia Minore e poi si recò

in Egitto. La sua conoscenza della lingua e dei costumi arabi era

cosí perfetta che riuscí a spacciarsi per mamelucco e viaggiare senza

essere scoperto in Egitto, Siria e Palestina riuscendo perfino a

entrare nella grande Moschea di Damasco. Nel 1807 venne invia-

to a Bombay ma ben presto la compagnia decise che le sue ecce-

zionali qualità avrebbero potuto essere sfruttate meglio in Asia

Minore e gli conferí un incarico a Bagdad dove si dimostrò un

amministratore abilissimo e degno di rispetto. Il suo lavoro non

lo impegnava in modo tale da non lasciargli il tempo di proseguire

gli studi; nel 1811 fece un viaggio alle rovine di Babilonia e nel

1820 progettò una spedizione di maggiore impegno attraverso il

Kurdistan, Ninive, Shiraz, Persepoli e discendendo il Tigri fino a

Bagdad. Nel frattempo a Shiraz era scoppiata una epidemia di

colera e quando il Rich vi si fermò per portare il suo aiuto con-

trasse anche lui il male e morí. I suoi libri, manoscritti e molti

notevoli oggetti antichi furono acquistati dal Museo Britannico.

Gli studiosi che hanno fatto ricerche sulle antichitàbabilonesi hanno dato troppo peso all’autorità di Dio-

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doro, badando probabilmente piú alla quantità che allaqualità delle notizie che egli fornisce. Egli non visitò maipersonalmente la località; visse in un’età in cui, comeconfessa egli stesso, l’area della città era solcata dagliaratri, fu perciò costretto a ricorrere a Ctesia. Si devericonoscere che la mancanza di spirito critico degli anti-chi e la credulità di Diodoro in particolare, non pote-vano essere esemplificate meglio che dalla sua scelta diuno scrittore che confonde l’Eufrate con il Tigri e ci rac-conta che Semiramide costruí per il marito un monu-mento che, in base alle dimensioni da lui fornite, dove-va essere piú alto del Vesuvio e raggiungere quasi la cimadel Monte Hecla. Se questi non sono «racconti fiabe-schi», non so a che cosa si possa applicare questa defi-nizione. Quando un autore si dimostra in tanti casi cosíesagerato e ignorante non possiamo certo avere giusti-ficazioni quando alteriamo ciò che vediamo con i nostriocchi per adattarlo alla sua descrizione. Per il secondopalazzo e il magnifico tunnel sotto il fiume, abbiamosolo i dati molto discutibili di Ctesia, ma nemmeno luidice se la torre di Belo sorgeva sulla riva orientale o suquella occidentale. Erodoto, che si dimostra sempre piúdegno di fede quanto piú viene esaminato e compreso,è il solo storico che visitò personalmente Babilonia ed èsotto ogni punto di vista il piú autorevole testimonecirca le condizioni della città ai tempi suoi. Il perimetroche egli le assegna viene generalmente considerato esa-gerato, ma dopo tutto non possiamo provarlo. Egli nondice nulla che possa aiutare a determinare la posizionedel palazzo (perché parla di uno solo) e del tempio; nonparla di oriente od occidente né della vicinanza al fiume.È vero che si è tentato di stabilire in base alle sue indi-cazioni che il tempio era esattamente al centro di unadelle due metà in cui la città era divisa dal fiume: se ciò,sia detto per inciso, risultasse chiaramente non si accor-derebbe con la posizione sulle rive del fiume attribuita-gli dal maggiore Rennel; ma sembra che l’errore sia

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dovuto alla traduzione di mûsoj, centro... Strabone,naturalmente, è molto meno ricco di particolari rispet-to a Erodoto e gli altri storici greci e romani lo sonoancora meno, per cui risultano di scarso aiuto per unaricerca topografica. Quindi in conclusione nessuno degliantichi dice se la torre di Belo era ad est o a ovest del-l’Eufrate; la sua posizione al centro della città, o anchedi una delle sue suddivisioni, non è affatto affermatachiaramente e mentre la descrizione del migliore auto-re antico non comporta difficoltà, gli unici particolariche ci mettono in imbarazzo sono sostenuti solo dallatestimonianza dei peggiori...

Ripeto perciò la mia convinzione, nata dall’esamedelle rovine intorno a Hilla, che esse hanno tutte lo stes-so carattere e devono o essere considerate come unaparte di Babilonia o essere completamente rifiutatesenza riserva. Devo qui esporre quella che mi sembra laprova piú convincente della loro antichità indipenden-temente dall’aspetto, dalle dimensioni e dalla corri-spondenza con le descrizioni degli antichi. I mattonicotti, che compongono la maggior parte delle rovine esono coperti di iscrizioni cuneiformi, trovate solo a Babi-lonia e Persepoli, sono tutti disposti invariabilmentenello stesso modo, cioè con le facce o i lati scritti versoil basso. Questa collocazione presuppone un motivo benpreciso, ma non determinabile allo stato attuale dellenostre conoscenze e prova comunque con sufficientecertezza che gli edifici devono essere stati costruiti quan-do furono fatti i mattoni e la forma antichissima e pecu-liare dei caratteri usati. Quando si trovano mattoni diquesto tipo impiegati in costruzioni piú moderne, comea Bagdad e a Hilla, essi sono naturalmente disposti senzatener conto del lato scritto. Ho trovato io stesso neglistrati piú profondi degli scavi di Kassr, nel passaggio sot-terraneo o canale, piccoli frammenti di argilla cottacoperti di caratteri cuneiformi e talvolta di figure indub-biamente babilonesi; li descriverò quando parlerò delle

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antichità babilonesi. Se le rovine fossero state piú recen-ti di quanto suppongo, queste iscrizioni non sarebberostate trovate né in questo ordine né in questo modo econ ogni probabilità ne avremmo trovato anche altre coni caratteri del linguaggio in uso al tempo di costruzione.In altre parole, se la città fosse stata maomettana o cri-stiana avremmo potuto ragionevolmente attenderci ditrovare frammenti di cufico o di stranghelo. Inoltre inqueste rovine c’è un altro elemento egualmente notevo-le e quasi conclusivo per quanto riguarda la loro anti-chità. Proprio al centro del monte chiamato Kassr eanche nelle rovine sulle rive del fiume, sgretolate e fra-nate per l’azione dell’acqua, ho visto delle urne di terrapiene di cenere frammista ad alcuni piccoli frammentidi ossa, e nella parete settentrionale dei Mujelibé ho sco-perto una galleria piena di scheletri chiusi in bare dilegno. Nessuno dubiterà neppure per un istante dellagrande antichità delle urne sepolcrali e quella degli sche-letri è sufficientemente provata sia dal tipo di sepoltu-ra, che non è mai piú stato adottato in questo paesedopo l’introduzione dell’islamismo, sia da un curiosoornamento d’ottone che ho trovato in uno dei sarcofa-gi. Queste scoperte sono interessantissime e, sebbene siacertamente difficile conciliarle in qualche modo conqueste rovine, pure sono sufficienti di per sé a stabilirela loro antichità. I due diversi tipi di sepoltura sonodegni della massima attenzione. Credo non ci sia ragio-ne di supporre che i Babilonesi seppellissero i loro morti,sappiamo che gli antichi Persiani non lo fecero mai.Non è impossibile che la differenza indichi parecchi usidi Babilonesi e Greci e che le urne contengano le cene-ri dei soldati di Alessandro e dei suoi successori...

Mi resta ora da parlare del piú notevole ed interessantedi tutti i monumenti babilonesi, cioè il Birs Nemroud. Sesi deve pensare che qualche edificio abbia lasciato note-voli tracce, uno fu certamente la piramide o torre di Beloche per forma, dimensioni e solidità di costruzioni era

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stata progettata per resistere agli attacchi del tempo eche, se non fossero intervenute distruzioni volontarie,con ogni probabilità sopravviverebbe ancora oggi in unostato di conservazione quasi perfetto come le piramidid’Egitto. Nonostante la dilapidazione notoriamente subi-ta in epoca molto antica, possiamo ragionevolmente cer-carne le tracce dopo che tutte le altre vestigia di Babilo-nia erano scomparse dalla faccia della terra.

Perciò quando a poca distanza dalla località indicatadai geografi, archeologi e dalla tradizione locale comearca dell’antica Babilonia, si nota uno stupendo edificioche sembra costruito in periodo remoto e reca tracceindiscutibili di distruzione violenta da parte dell’uomoe dell’azione del tempo, eppure continua a torreggiaresul deserto, meraviglia di successive generazioni, èimpossibile che la sua perfetta corrispondenza con tuttele notizie sulla torre di Belo non colpisca anche l’osser-vatore piú superficiale e non lo induca a cercare di vin-cere le difficoltà opposte del maggiore Rennel a inclu-derlo nel perimetro di Babilonia. Secondo me questarovina ha caratteristiche tali da fissare di per sé i confi-ni di Babilonia, anche a prescindere dai resti sul latoorientale del fiume e se anche gli antichi avessero real-mente assegnato alla torre una posizione inconciliabilecon il Birs sarebbe piú ragionevole supporre un errorenei loro ragguagli che rifiutare la piú notevole di tuttele rovine. Ma non è necessario ricorrere a nessuna delledue supposizioni. Dall’esame degli antichi storici, dame accennato nella parte iniziale di questo saggio, appa-rirà che nessuno di essi ha fissato esattamente il puntoin cui sorgeva la torre di Belo e, se accettiamo le dimen-sioni di Babilonia citate dal migliore degli storici anti-chi - egli stesso testimone oculare - il Birs e le rovineorientali rientrano nel suo perimetro. Per non accettarela sua testimonianza abbiamo solo le nostre nozioni sullaprobabilità. Abbiamo ridotto le misure semplicementeperché non concordano con le nostre teorie sulle dimen-

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sioni di una città, ma sappiamo che Babilonia era piú uncircondario che una città e non possiamo naturalmenteesitare a trascurare prove meno sicure e ad accettare ilracconto di Erodoto, se si trovano sul posto tracce chelo giustifichino.

L’altezza totale del Birs Nemroud dal livello della pia-nura alla sommità del muro di mattoni è di centoduemetri. Il muro di mattoni che si leva sull’orlo della som-mità e costituiva indubbiamente il rivestimento di unaltro ripiano è alto undici metri. Di fianco alla costru-zione, un po’ sotto alla cima, possiamo ancora vederechiaramente parte di un altro muro di mattoni perfet-tamente simile al frammento che cinge la sommità, mache ancora contiene e sorregge la sua parte del monte.Questo indica chiaramente un altro ripiano di diametromaggiore. La muratura è infinitamente superiore a qual-siasi altra del genere che io abbia mai visto e, trala-sciando ogni congettura circa lo scopo originario di que-sta rovina, l’impressione che dà a prima vista è quelladi una costruzione piena, composta all’interno di mat-toni crudi e forse di terra e di detriti, costruita a ripia-ni rientranti e rivestita di bei mattoni cotti con iscri-zioni, disposti in un sottilissimo strato di calce, ridottacon la violenza allo stato attuale di rovina. I piani supe-riori sono stati distrutti a viva forza e per completare ladistruzione è stato usato anche il fuoco, sebbene sia dif-ficile dire come o perché. Il rivestimento di bei matto-ni è stato in parte rimosso e in parte coperto dalla cadu-ta della massa che esso sorreggeva e teneva insieme.Parlo con la massima sicurezza dei diversi ripiani diquesta costruzione perché le mie osservazioni personalisono state recentemente confermate e ampliate da unviaggiatore intelligente, il quale ritiene che siano chia-ramente visibili tracce di quattro ripiani. Siccome credoche egli abbia intenzione di pubblicare il resoconto deisuoi viaggi, non vorrei anticipare nessuna delle sue osser-vazioni; ma non posso fare a meno di notare che ne

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emerge una notevole conclusione. La torre di Belo eraalta uno stadio, perciò se supponiamo che gli otto ripia-ni che la componevano avessero la stessa altezza, secon-do la tesi del maggiore Rennel, che mi sembra preferi-bile a quella del conte de Caylus (cfr. Mém. de l’Acadé-mie, vol. XXXI) dovremmo trovarne tracce nel fram-mento che resta, che misura centodue metri di altezzaed è questo precisamente il numero che Mr Buckin-gham crede di aver scoperto. Questo risultato è il piúdegno di attenzione poiché non è stato notato nemme-no da Mr Buckingham in persona.

Sembra che il Birs Nemroud sia la torre di Belo diBeniamino di Tudela, il quale afferma che fu distruttadal fuoco celeste, notazione curiosa in quanto prova cheegli osservò le masse vetrificate alla sommità. Beau-champ parla di questo monumento sotto il nome diBrouss; ma non lo visitò mai di persona; in realtà, nonsi può condurre a termine questa impresa senza unaforte scorta. L’eccellente Niebuhr, la cui intelligenza,attività e accuratezza non possono mai essere troppolodate, sospetta che il Birs fosse la torre di Belo. Egli nedà una magnifica descrizione, malgrado la frettolosaocchiata che le circostanze gli consentirono di dare. «Ausud ouest de Hellé à 1 1/4 mille, et par conséquent al’ouest de l’Euphrate, on trouve encore d’autres restesde l’ancienne Babylone; ici il y a toute une colline de cesbelles pierres de murailles dont j’ai parlé; et au dessus ily a une tour qui à ce qui parait est intérieurement aussitoute remplie de ces pierres de murailles cuites; mais lespierres de dehors (qui sait combien de pieds d’épaisseur)sont perdues par le tems dans cette épaisse muraille, ouplutôt dans ces grands tas de pierres: il y a ici et là depetits trous qui percent d’un coté jusq’à l’autre, sansdoute pour y donner un libre passage à l’air, et pourempêcher au dedans l’humidité, qui auroit pu nuire aubatiment» (Voyage, vol. II, p. 235). In questa descri-zione si può riconoscere il Birs.

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Dopo di ciò fui certamente sorpreso di trovare che ilmaggiore Rennel non solo lo esclude dal perimetro diBabilonia, ma dubita persino che il monte sia artificia-le. È cosí chiaramente evidente che tutta la massa dacima a fondo è artificiale, che avrei pensato di scrivereuna dissertazione per provare che le piramidi sono operaumana, piuttosto che soffermarmi su questo punto.Anzi, se ci fosse qualcosa di equivoco nell’aspetto del-l’altura, i principî della geografia fisica proibiscono asso-lutamente di supporre la presenza di una collina isolatanaturale su un terreno formato dai depositi di un fiume;e pertanto, se qualche viaggiatore immaginò di vedereuna collina naturale a Musseil o in qualsiasi altro puntoin questa direzione, sicuramente prese un abbaglio.

Gli stessi motivi dimostrano che a Babilonia non cipoterono mai essere sorgenti di bitume (cfr. Geografiadi Erodoto). Infatti Diodoro non dice, come suppone ilmaggiore Rennel, che si trovò del bitume a Babilonia,ma in Babilonia il che è ben diverso.

Con ogni probabilità il Birs Nemroud è ora quasinelle stesse condizioni in cui lo vide Alessandro; sediamo qualche credito alla notizia che diecimila uominiin due mesi poterono appena rimuovere i detriti in pre-parazione del restauro. Se infatti fosse stata necessariaanche solo la metà di quel numero per il lavoro di sgom-bro, lo stato di dilapidazione avrebbe dovuto esserecompleto. Sembra che l’immensa massa di mattoni vetri-ficati che si vede sulla cima del monte ne abbia con-traddistinto la sommità dal tempo della distruzione. Idetriti alla sua base erano probabilmente molto piú con-sistenti, avendone le intemperie dissipata gran parte nelcorso dei secoli; e forse parti del rivestimento esterno dibei mattoni sparirono in diversi periodi.

Con le osservazioni precedenti ho cercato di dimo-strare che le rovine di Babilonia nel loro stato attualepossono accordarsi perfettamente con le miglioridescrizioni degli scrittori greci senza rifiutare né i dati

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storici né quelli monumentali. Sono persuaso che quan-to piú l’argomento verrà studiato tanto maggiore appa-rirà l’accordo; ma è un argomento tale che lo spiritosistematico vi sarebbe particolarmente fuori posto e iosono cosí lontano dal credere ciecamente nelle mie opi-nioni, che se mi succedesse nel corso delle mie ricer-che di scoprire dettagli che sembrassero ragionevol-mente militare in opposizione ad esse, sarei il primo apresentarle al pubblico.

Bagdad, luglio 1817.

PS. Dopo aver scritto questo articolo ho ricevuto unestratto del supplemento alla quinta edizione della Ency-clopaedia Britannica, contenente un sommario dei mieiprecedenti rapporti su Babilonia, con le idee personalidell’autore sull’argomento. È per me un motivo di gran-de orgoglio constatare che le mie opinioni hanno la con-ferma di un tale scrittore.

Second Memoir on Babylon, 1818

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robert koldewey Le mura di Babilonia

Robert Koldewey (1855-1925) studiò architettura, archeolo-

gia e storia antica a Berlino, Monaco e Vienna. Cominciò le

sue ricerche archeologiche sull’acropoli di Assos, poi venne

incaricato dall’Istituto archeologico tedesco di scavare a Lesbo

e nel 1887 il Museo Britannico lo inviò in Iraq. Per i succes-

sivi dieci anni alternò l’insegnamento a Gorlitz e gli scavi nella

regione mediterranea. Nel 1897 la Deutsche Orient-Gesell-

schaft, desiderando acquistare i nuovi ritrovamenti di tavolet-

te cuneiformi, lo incaricò di compiere un viaggio di esplora-

zione nelle località della Mesopotamia piú promettenti, ed egli

si pronunciò in favore di Babilonia. Cominciò lo scavo nel

1899 e vi rimase per i diciotto anni successivi, abbandonandolo

solo durante la prima guerra mondiale, quando l’avanzata

inglese minacciò di tagliargli l’ultima via di salvezza. La sua

spedizione fu forse quella piú scientificamente impostata e cer-

tamente una delle meglio organizzate del tempo, essendo stata

la prima a installare una ferrovia a scartamento ridotto per il

trasporto dei materiali di scarico e a impiegare piú di duecen-

to uomini. Si deve in gran parte al suo lavoro se la leggendaria

Babilonia della Bibbia fu nota e studiata come una concreta

realtà storica e geografica.

Al tempo di Nabucodonosor il viaggiatore che si avvi-cinava da nord alla capitale della Babilonia si trovava,dove scorre oggi il canale Nil, a faccia a faccia con ilmuro colossale che circondava la potente Babilonia. Unaparte di questo muro esiste ancora ed è visibile sotto

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forma di un basso argine di terra lungo circa quattro ocinque chilometri. Finora ne abbiamo scavato soltantouna piccola parte, per cui possiamo solo dare una descri-zione dettagliata degli elementi piú notevoli di questefortificazioni, rese cosí famose dagli autori greci.

Consisteva in un massiccio muro di mattoni crudi,spesso sette metri, di fronte al quale, alla distanza di circadodici metri, si levava un altro muro di mattoni cottispesso sette od otto metri, ai cui piedi correva il fortemuro della fossa anch’esso di mattoni cotti e spesso metritre e tre. Di fronte ad esso doveva esserci la fossa, mafinora non l’abbiamo cercata, da vicino, e pertanto nonne abbiamo ancora trovato la controscarpa.

A cavallo del muro di fango c’erano torri larghe metriotto e trentasette (circa ventiquattro mattoni) che spor-gevano da entrambe le parti del muro. Misurate dalmezzo di una al centro dell’altra, queste torri distavanometri cinquantadue e cinque. Cosí vi era una torre ognicento ell, poiché gli ell babilonesi corrispondevano pres-sapoco a mezzo metro.

Dato lo stato attuale dello scavo incompiuto, non èancora possibile dire come erano costruite le torri delmuro esterno. Lo spazio tra i due muri era riempito didetriti, almeno fino all’altezza a cui sono conservate lerovine e presumibilmente fino al coronamento del muroesterno. Cosí in cima al muro correva una strada chepermetteva il passaggio di un tiro a quattro cavalliaffiancati, e anche a due tiri di sorpassarsi. Su questocoronamento del muro i ripiani superiori delle torri sifronteggiavano come piccole case.

Questa larga strada alla sommità del muro godeva dirinomanza mondiale grazie alle descrizioni degli scrittoriclassici, ed era della massima importanza per la prote-zione della grande città. Rendeva infatti possibile inqualsiasi momento il rapido spostamento delle forze didifesa nel punto dove l’attacco era sferrato con maggiorviolenza. La linea di difesa era molto lunga, la fronte

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nordorientale, ancora misurabile, e lunga metri quattroe quattrocento, e sul lato sudorientale il muro dirocca-to si può seguire senza scavo per circa due chilometri.Questi due lati del muro certamente si estendevanoquanto il corso dell’Eufrate finché scorre in direzionenord-sud; con l’Eufrate racchiudevano quella parte diBabilonia di cui restano ancora le rovine, ma, secondoErodoto e altri, erano completati sull’altra sponda delfiume da altri due muri, cosí che l’area della città eraquella di un quadrilatero attraversato diagonalmentedall’Eufrate. Dei muri occidentali non si vede piú nulla;si deve ancora accertare se le tracce di un muro versosud, presso il villaggio di Sindjar, ne formassero unaparte.

Gli scavi fatti finora non hanno portato alla luce altrimuri di cinta oltre a questa fortificazione. Il perimetrosi estende per circa diciotto chilometri. Erodoto parlainvece di circa ottantasei chilometri e Ctesia di circa ses-santacinque. Alla base di questa differenza ci deve esse-re qualche errore. I sessantacinque chilometri di Ctesiasi avvicinano tanto al quadruplo della misura esatta chesi può supporre che egli abbia scambiato le cifre che rap-presentavano l’intero perimetro con la misura dei singo-li lati del quadrato. Torneremo piú tardi e dettagliata-mente sul rapporto tra la testimonianza degli antichiscrittori e le testimonianze delle rovine. In linea di mas-sima le misure non concordano con quelle conservateci,mentre invece la descrizione generale è quasi semprecorretta. Erodoto afferma che il muro di Babilonia eracostruito di mattoni cotti; in realtà tale doveva apparireall’osservatore che si avvicinava alla città, perché dall’e-sterno si vedeva del muro di fango interno soltanto lacima. La scarpata della fossa era formata di mattoni qua-drati, cosí straordinariamente numerosi a Babilonia, chemisurano trentatre centimetri e portano il solito sigillodi Nabucodonosor. Quelli del muro di mattoni sono unpo’ piú piccoli (trentadue centimetri) e senza sigilli. Que-

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sti mattoni piú piccoli senza sigillo sono comuni primadi Nabucodonosor, ma si possono egualmente dataresenza difficoltà. ai primi anni del suo regno come vedre-mo piú avanti. Non sappiamo ancora a quale periodo sipossa assegnare il muro di fango; è certamente piú anti-co. Sembra che esso avesse in origine una scarpata di cuisi possono scorgere scarsi resti nel grande muro di mat-toni, che pare l’abbia tagliata sul lato esterno.

Finora abbiamo trovato circa quindici torri del murodi fango. Sono del tipo cosiddetto a cavaliere, e spor-gono sul davanti e sul dietro risultando cosí a cavallo delmuro. Erano naturalmente piú alte delle mura, ma lerovine non ci forniscono alcun indizio sull’altezza dellemura e delle torri poiché ci resta solo la parte inferiore.Le torri sono larghe metri tre e trentasei e sorgono alladistanza di quarantaquattro metri. Cosí lungo l’interafronte ce n’erano circa novanta e in tutto il perimetro,stabilito che la città formasse un quadrato, ci dovevanoessere trecentosessanta torri. Non sappiamo quante cene fossero sul muro esterno. Ctesia parla di duecento-cinquanta. Non si è ancora trovata alcuna porta, il chenon sorprende data la scarsa estensione degli scavi.

Durante il periodo partico queste linee di fortifica-zione non potevano piú essere in condizione di offriredifesa. Infatti nel muro di mattoni crudi, sul lato rivol-to verso la città, vi sono dei sarcofagi partici entro buchescavate nel muro stesso.

Mentre le fondamenta del muro di mattoni sono aldi sotto dell’attuale livello dell’acqua, il muro di fangosorge su un argine artificiale. Come regola generale imuri di mattoni di fango non avevano fondamentaprofonde. Il legante impiegato per il muro di fango eral’argilla e per quello di mattoni il bitume. Si può rico-noscere lo stesso metodo di costruzione in altre partidella città dove è meglio conservato e può perciò esserestudiato piú dettagliatamente.

All’estremità settentrionale del nostro allineamento,

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che racchiudeva il tumulo di rovine, chiamato «Babil»,con una curva a becco, anche il muro interno era costrui-to in mattoni. Ciò almeno si deduce da due profondetrincee lasciate in questo punto da saccheggiatori, maquesto particolare dovrà essere meglio verificato duran-te lo scavo. La ricerca di questi preziosi mattoni avve-nuta in epoca recente ha lasciato profonde tracce sullasuperficie altrimenti liscia del terreno che non troviamoin altre demolizioni avvenute in epoche piú lontane.

Per questo motivo, fatta eccezione per la parte pres-so Babil, non si può vedere nulla del muro di mattonisenza scavare, mentre il muro di fango, che ha soffertosoprattutto per i danni del tempo, ha lasciato dietro disé una linea di rovine di una certa altezza chiaramentesegnata. Il muro della città di Seleucia sul Tigri, anch’es-so un muro di fango, si erge al di sopra dei monticelli dirovine fino a una certa altezza. Non si può dire per que-sto che un muro di mattoni cotti di quattrocentottantastadi, le dimensioni gigantesche registrate da Erodoto,abbia lasciato necessariamente tracce notevoli ed ine-quivocabili e non è questa considerazione ad indurci adubitare dell’esistenza di un muro di cinta di tali dimen-sioni, accettata come una realtà indiscutibile dopo gliscavi di Oppert a Babilonia. Né l’immensità stessa delledimensioni fa sí che la si rifiuti come fantastica. La gran-de muraglia cinese, alta undici metri e larga metri settee cinque, con la sua estensione di circa duemilaquattro-centocinquanta chilometri è lunga ventinove volte quel-la di Erodoto. Vi sono altre considerazioni di peso benmaggiore da esaminare piú tardi. In ogni caso la città,anche per perimetro, era la piú grande di tutte quelle del-l’Antico Oriente, senza eccettuare Ninive, rivale di Babi-lonia per altri aspetti. Ma il periodo in cui la fama dellagrandezza di Babilonia si diffuse nel mondo era il perio-do di Erodoto e allora Ninive non esisteva già piú.

Non si può fare un confronto con le città modernesenza ulteriori considerazioni. Si deve sempre tener pre-

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sente che una città antica era prima di tutto una fortezzala cui parte abitata era circondata e protetta da una cer-chia di mura. Le nostre grandi città moderne hanno uncarattere assolutamente diverso, sono aree abitate aper-te su tutti i lati. Perciò si può fare un confronto ragio-nevole solo tra Babilonia e altre città ugualmente cir-condate da mura, e allora Babilonia occupa il primoposto sia tra le città antichissime che tra le piú recentiper l’estensione dell’area abitata e circondata da mura.

Nabucodonosor ricorda spesso questa grande operanelle sue iscrizioni. Il passo piú importante ricorre nellasua grande iscrizione Steinplatten, col. 7 1. 22-55. «Chenessun assalto si scateni contro Imgur-Bel, il muro diBabilonia; ho fatto ciò che nessun re ha fatto prima dime, per quattromila ell di terra sul lato di Babilonia, auna distanza tale che [l’assalto] non possa venire vicino,ho fatto costruire un muro possente sul lato orientale diBabilonia. Ho scavato il suo fosso e costruito una scar-pata di bitume e mattoni. Ho stabilito gli ampi passag-gi e in essi ho fissato doppie porte di legno di cedro rico-perte di rame. Affinché il nemico che trama il male nonprema sui fianchi di Babilonia l’ho circondata con flut-ti possenti come la terra con il mare agitato. Il suo sol-levarsi è simile al sollevarsi del gran mare, l’acqua sala-ta. Affinché in esso non si possa aprire nessuna brecciavi ho costruito vicino un argine di terra e l’ho racchiu-so con muri di protezione di mattoni cotti. Ho fortifi-cato con abilità i bastioni e trasformato la citta di Babi-lonia in una fortezza» (cfr. H. Winckler, Keilinschriftli-che Bibliothek, vol. III 2, p. 23). Non possiamo sicura-mente aspettarci di ottenere la certezza assoluta circa ilsignificato di tutti i dettagli dati qui. A ciò si giungeràmeglio con uno scavo completo che desideriamo vengapresto intrapreso.

The Excavations at Babylon, 1914

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robert koldewey Una curiosa scultura

All’angolo nordorientale, prima che iniziasse il nostroscavo, c’era una grande figura di basalto di un leone checalpesta un uomo giacente con la mano destra sul fian-co dell’animale e la sinistra sul muso. Quest’ultimo èstato distrutto da mani superstiziose e tutta la figura èsegnata dalle pietre e palle di selce che gli sono state, econtinuano a essergli, lanciate contro; il leone infatti èidentificato con il temutissimo «Djin». Da un lato gliArabi gli hanno aperto un grosso foro nei fianchi, orariempito con cemento. Il motivo è il seguente: una voltavenne qui un europeo e chiese notizia del leone, che pro-babilmente conosceva dai libri di viaggiatori piú antichi.Gli Arabi glielo mostrarono e, dopo averlo guardatoattentamente, egli scelse tra i piccoli fori del basaltoquello giusto, vi introdusse una chiave, la girò e le suemani si riempirono immediatamente d’oro. Fatto il suotiro birbone il viaggiatore se ne andò, dato che nonsapeva parlare arabo. Quei degni Arabi, comunque,cominciarono a scavare questo buco nel leone per impa-dronirsi del tesoro, spendendovi immensa fatica perchéla pietra è durissima. La figura non è completamentescolpita, anzi è poco piú che sbozzata. Sembra perciò piúantica di quanto non sia in realtà, perché difficilmentepuò essere precedente a Nabucodonosor. La gente nonè d’accordo sul suo significato. Alcuni vi vedono Danie-le nella fossa dei leoni e altri Babilonia sull’Egitto vinto.Ma il passato reale in questo periodo è rappresentato

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esclusivamente sui rilievi, e d’altra parte è estraneoall’arte babilonese prendere come punto di partenza larappresentazione di un’idea astratta.

The Excavations at Babylon, 1914

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paul emile botta Problemi dello scavo a Ninive

Paul Emile Botta (1805-70) era figlio di un noto storico e poli-

tico italiano. Nel 1826 si imbarcò per un viaggio intorno al

mondo che richiese tre anni e al ritorno viaggiò ampiamente

nelle regioni del Mediterraneo orientale facendo anche una

spedizione a Sennaar come medico del capo arabo Mehemet

Ali. Entrò in seguito nella carriera diplomatica e nel 1836

venne inviato a Tripoli dove rimase per i successivi venti anni.

Durante questo periodo fece la spedizione ai monti Kouyunjik

e a Khorsabad, dove sorgeva l’antica Ninive, e cominciò gli

scavi poi proseguiti da Layard. La sua opera di diplomatico e

di archeologo ebbe un alto riconoscimento nel 1845 e fu nomi-

nato membro della Legion d’onore.

Vi dicevo, signore, che l’estremità del muro piega-va verso nord e formava qui una specie di recesso dellaprofondità di metri uno e cinquanta circa, occupato dauna statua a mezzo busto che rappresenta la parte ante-riore di un toro con la testa umana, sporgente dalmuro. Sebbene le gambe siano rese con magnifica natu-ralezza e mirabilmente scolpite, la parte superiore nonsolo è in pessimo stato, ma sembra anche del tutto con-venzionale. Pare che certe squame regolarmente stria-te indichino delle ali; la barba è intrecciata; e una largafascia di scanalature orizzontali indica la barbetta; latesta è caduta ed è in cattive condizioni, eppure nonci possono essere dubbi che la faccia fosse umana.Questa statua, che doveva raggiungere circa cinque

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metri di altezza, era ricavata da un unico blocco digesso.

Il muro XXXIII, che costituiva il recesso, mostraun’altra figura simbolica, cioè un personaggio alato conla testa di un volatile. Il becco, sebbene abbastanzalungo, appartiene a un uccello da preda, la chioma è rigi-damente intrecciata e la testa sormontata da una speciedi ciuffo che scende sulle spalle. Un collare o monile cir-conda il collo; le braccia e i polsi sono ornati di brac-cialetti; la mano destra è sollevata e la sinistra regge cer-tamente un cestino simile a quelli portati dalle figurealate del passaggio n. II. Questo personaggio indossa unacorta tunica e tra le gambe le pende una cintura confrange di larghezza crescente verso l’estremità. Comeesempio della profusione di sculture che decora questomonumento devo notare che la piccola superficie dimuro tra il toro e questa figura alata è anch’essa coper-ta di bassorilievi.

La costruzione di questo edificio è invariabilmente lastessa: sempre grandi e piccole lastre di gesso collocateverticalmente contro la terra del monticello. Non possocredere che tali pareti abbiano mai sostenuto un tettodi pietra e questa è una delle ragioni per supporre chela copertura fosse lignea. Ciononostante non ho nessu-na nozione sicura sull’argomento: il carbone, moltoabbondante in certi punti, manca in altri dove invece ilmuro appare egualmente calcinato. Perciò resto indeci-so. Devo semplicemente osservare che le dimensioni deltoro sono cosí enormi che è impossibile supporre che siastato portato al suo posto attraverso gli stretti passaggiscavati nel tumulo. Forse era collocato all’esterno diuno dei portali. In questo caso il muro doveva costitui-re la parte esterna del monumento e di conseguenza lostato di conservazione delle sculture e della pietra sispiega perfettamente; non avrebbero infatti subito danniin seguito alla caduta all’interno del tetto incendiato. Manon è ancora il momento di affrontare questa discus-

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sione: quando la terra sarà completamente rimossa cispiegheremo probabilmente tutto ciò che ora ci sembraoscuro. Facendo ricerche ho tentato invano di sapere sequesto villaggio non aveva anticamente qualche altronome di suono piú caldeo che Khorsabad o Khestéabad(perché ancora lo si scrive cosí); non vi è alcuna tradi-zione locale in proposito e gli abitanti ignorano com-pletamente quali tesori archeologici giacciono sepoltisotto i loro piedi e che il caso mi ha messo in grado discoprire. Nonostante ciò le mie ricerche continuano.Per quanto riguarda la futura direzione dei lavori, ho lasoddisfazione di informarla che con ogni probabilitànon incontrerò altri ostacoli; essendosi sua eccellenza, ilministro degli Interni, gentilmente occupato dei mieilavori, posso agire piú liberamente e sono riuscito a per-suadere il capo del villaggio e sgomberare la sua casa checi sbarrava il passaggio; andrà ad abitare in pianura e ilresto degli abitanti lo seguirà; cosí tutto il monticellosarà lasciato a mia disposizione e nulla sfuggirà al mioesame. Sono comunque costretto a sospendere gli scaviper qualche tempo: l’aria di Khorsabad è particolar-mente malsana, come abbiamo potuto sperimentare siaio che i miei collaboratori. Sono già stato obbligato acambiare frequentemente gli operai; e il loro capo, chemi ha servito con intelligenza, è ora gravemente mala-to. Perciò non posso tornare a Khorsabad prima che siapassato il caldo; se i lavori procedessero in questomomento, le condizioni delle sculture sono tali cheandrebbero perse prima che io potessi recarmi a dise-gnarle. Ho perciò sospeso i miei lavori per un breveperiodo e risotterrato quelle parti che non ebbi il tempodi copiare. Quanto alle altre, mi rincresce dire cheandranno rapidamente in briciole. Non essendo piúsostenuti i muri cedono al rigonfiamento del terreno, l’a-zione del sole riduce in polvere la superficie e ne è giàscomparsa una parte notevole. Ciò è davvero penoso, manon so come rimediare, tranne che ricoprendo nuova-

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mente i reperti dopo averli disegnati e in tal modo con-servarli per ulteriori studi. Questo è il mio propositoattuale, poiché, tutto considerato sarà sempre possibileriportarli di nuovo alla luce, mentre lasciando i muri sco-perti, in tre mesi non ne rimarrebbe piú traccia.

Letters on the Discoveries at Nineveh, 1850

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austen henry layard Scavi a Nimrud

Sir Austen Henry Layard (1817-94) nacque a Parigi e venne

educato in Italia, Francia, Svizzera e Inghilterra. Suo padre era

un funzionario statale e indubbiamente la sua educazione

cosmopolita contribuí al suo amore per i viaggi e le belle arti.

Cominciò la sua carriera nello studio di un notaio londinese, ma

dopo sei anni lo lasciò con l’intenzione di recarsi via terra a Cey-

lon dove pensava di seguire le orme del padre nella carriera

diplomatica. Comunque, quando giunse nel Medio Oriente,

abbandonò ogni idea di continuare il viaggio e, impegnato per

alcuni anni in missioni diplomatiche non ufficiali, poté cono-

scere da vicino le rovine di Nimrud, Ninive e Babilonia. Dopo

essersi assicurato assistenza ufficiale e incoraggiamento per la sua

spedizione intraprese lo scavo di Ninive e poco dopo quello di

Babilonia, scoprendo la maggior parte della magnifica collezio-

ne di sculture assire attualmente al Museo Britannico.

Alla fine di ottobre ero di nuovo tra le rovine. L’in-verno si avvicinava ed era necessario costruire una casaadeguata per me e per i servi. Ne tracciai la pianta sulterreno nel villaggio di Nimroud e in pochi giorni lanostra abitazione era pronta. I miei operai costruironoi muri con mattoni di fango cotti al sole e coprirono gliambienti con travi e rami d’albero. Su tutto venne stesouno spesso rivestimento di fango per evitare le infiltra-zioni d’acqua. Per me vennero ricavate due stanze da uniwan o appartamento aperto, e il tutto venne circonda-to da un muro. In un secondo cortile c’erano capanne

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per i miei cawass, ospiti arabi e servi e stalle per i caval-li. Ibrahim Agha rivelò la sua ingenuità facendo prati-care nelle mura esterne delle feritoie equidistanti dal-l’aspetto assai bellicoso, che io feci immediatamentetamponare per togliere ogni sospetto che io costruissifortezze o castelli, con l’intenzione di favorire nel paeseun insediamento franco permanente. Comunque nontrascurammo le precauzioni per un eventuale attacco dibeduini che Ibrahim Agha temeva continuamente. Permia sfortuna l’unico acquazzone che vidi nel resto dellamia permanenza in Assiria scoppiò prima della copertu-ra della casa, cosí i mattoni si inzupparono tanto che nonsi asciugarono piú prima della primavera successiva. Diconseguenza la sola verzura su cui fosse concesso ai mieiocchi di posarsi prima del mio ritorno in Europa mi eraofferta dalla mia proprietà, poiché i muri all’internodelle stanze erano sempre coperti di un tappeto d’erba.

Sullo stesso monticello, immediatamente sopra aigrandi leoni alati scoperti per primi, fu costruita unacasa per i miei operai nestoriani e le loro famiglie, e unacapanna in cui dovevano essere subito trasportati, permaggior sicurezza, tutti i piccoli oggetti scoperti tra lerovine. Divisi i miei Arabi in tre gruppi secondo i ramidella tribú cui appartenevano. Circa quaranta tende ven-nero piantate in diverse parti del monticello all’ingres-so delle trincee; altre quaranta vennero disposte intor-no alla mia abitazione e il resto sulla riva del fiumedove erano depositate le sculture in attesa dell’imbarcosulle zattere. Tutti gli uomini erano armati. Cosí prov-vedevo alla difesa della mia organizzazione.

Con me viveva Hormuzd Rassam cui affidai il paga-mento dei salari e dei conti. Egli ottenne subito unainfluenza straordinaria tra gli Arabi e la sua fama si dif-fuse nel deserto.

Gli operai erano divisi in squadre composte general-mente di otto o dieci Arabi, che portavano via la terrain panieri, e di due o quattro scavatori nestoriani, secon-

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do la natura del terreno e i detriti che si dovevanorimuovere. Erano sorvegliati da un sovrintendente conil compito di farli lavorare e avvertirmi quando gli sca-vatori si avvicinavano a qualche lastra o riportavanoalla luce qualche piccolo oggetto, sí che potessi assiste-re personalmente alla sua scoperta o rimozione. Nei varigruppi sparpagliai qualche arabo di una tribú ostile: inquesto modo ero sempre al corrente di ciò che succede-va, potevo facilmente sapere se si tramavano complottie potevo scoprire chi cercava di appropriarsi di qualcheoggetto rinvenuto nello scavo. La scarsezza della sommaposta a mia disposizione mi costringeva a seguire lo stes-so sistema di lavoro adottato finora, cioè a scavare trin-cee lungo i muri degli ambienti e portare alla luce tuttele lastre, senza togliere la terra dal centro. Cosí solopoche camere furono esplorate completamente e forsemolti piccoli oggetti di grande interesse sono sfuggiti allanostra attenzione. Poiché intendevo ricoprire di terra gliedifici dopo averli esaminati, per evitare spese inutili,riempivo le trincee con i materiali di scarico di quelleaperte successivamente, avendo prima copiato le iscri-zioni e disegnate le sculture.

Gli scavi vennero ripresi su vasta scala il 1° dinovembre. I miei gruppi di lavoro erano distribuiti sulmonticello, fra le rovine dei palazzi nordoccidentale esudoccidentale, accanto ai giganteschi tori nel centro enell’angolo sudorientale dove non si erano ancora sco-perte tracce di edifici.

Si ricorderà che il maggior numero delle lastre checostituivano il lato meridionale della grande sala nelpalazzo nordoccidentale era caduto con la faccia sul ter-reno. Ero innanzitutto ansioso di sollevare questi bas-sorilievi e di imballarli per trasportarli a Busrah. Per farciò era necessario rimuovere molta terra e detriti, anzisvuotare quasi tutto l’ambiente perché le lastre cadutene occupavano una buona metà. Le sculture di novelastre, vennero trovate in ottimo stato di conservazio-

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ne, sebbene spezzate per la caduta. Le lastre come quel-le già descritte erano divise in due parti da iscrizioni per-fettamente simili.

Le sculture erano del massimo interesse. Rappresen-tavano le guerre del re e le sue vittorie sulle popolazio-ni straniere. I bassorilievi superiori, sulle prime duelastre, formavano una scena: il re con i suoi guerrieri inbattaglia sotto le mura di una fortezza nemica. Egli silevava pomposamente vestito, in un carro trainato da trecavalli riccamente equipaggiati ed era in atto di scocca-re una freccia o contro i difensori delle mura o controun guerriero già ferito che stava cadendo dal suo carro.Uno scudiero proteggeva con uno scudo il corpo del re,e un auriga reggeva le redini e stimolava i cavalli. Soprail re c’era l’emblema della Divinità suprema, rappre-sentata come a Persepoli da una figura alata in un cer-chio: indossava un berretto ornato di corni simili a quel-li dei leoni a testa umana. Come il re, anch’essa scoccauna freccia con la testa a forma di tridente.

Dietro il re c’erano tre carri: il primo, tirato da trecavalli di cui uno si sta impennando e un altro sta caden-do, è occupato da un guerriero ferito che chiede treguaagli inseguitori. Negli altri ci sono due guerrieri, uno chelancia una freccia e l’altro che guida i cavalli a tutta velo-cità. In ogni carro assiro c’era uno stendardo, i cuiemblemi erano racchiusi in un cerchio ornato di nappee nastri, vi era un arciere, con il berretto a corna masenz’ali, in piedi su un toro, e i due tori schiena controschiena. Nel basso del primo rilievo delle linee ondula-te rappresentano acqua o un fiume e su entrambi sonosparsi degli alberi. In molti punti compaiono fanti assi-ri in atto di combattere o di uccidere il nemico; e nelsecondo rilievo tre corpi senza testa sopra le figure prin-cipali stanno ad indicare i morti sullo sfondo.

Sulla parte superiore delle due lastre successive allascena di battaglia c’era il ritorno trionfale dopo la vit-toria. Aprivano la processione guerrieri che gettavano le

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teste degli uccisi ai piedi dei conquistatori. Due musici,che suonavano strumenti a corda, precedevano gli auri-ghi rappresentati inermi e con i loro stendardi; sopra diloro c’era un’aquila con una testa umana tra gli artigli.Seguiva il re nel suo carro con l’arco in una mano e duefrecce nell’altra, atteggiamento che ricorre spesso neimonumenti assiri e che simboleggia probabilmente iltrionfo sui nemici. Sopra i cavalli c’era la divinità pro-tettrice, anch’essa con un arco. Lo scudiero che in bat-taglia portava lo scudo era qui sostituito da un eunucoche regge il parasole aperto, emblema orientale dellaregalità. I cavalli erano guidati da palafrenieri, sebbenel’auriga tenga ancora le redini. Dietro al carro del regaloppava un cavaliere che conduceva un secondo caval-lo riccamente bardato.

Dopo la processione si vedevano il castello e la tendadel re vittorioso, il primo rappresentato da un cerchiodiviso in quattro scompartimenti eguali e circondato datorri e bastioni. In ogni scompartimento c’erano figureevidentemente impegnate a preparare la festa; una ucci-deva una pecora, un’altra cuoceva il pane, e altre eranoritte davanti a tazze e utensili disposti su tavole. Latenda era sostenuta da tre colonne; una sormontata dauna pigna, emblema che ricorre cosí spesso nelle scultureassire, le altre da uno stambecco o una capra selvatica.Era probabilmente di seta o di lana, riccamente ornatae bordata con una frangia di ornamenti a forma di pignee di tulipani. Dietro il baldacchino c’era uno stalliere chestrigliava un cavallo, mentre altri, legati alle cavezze,mangiavano alle greppie. All’ingresso della tenda eraritto un eunuco a ricevere quattro prigionieri che glivenivano portati da un guerriero assiro. Sopra questogruppo c’erano due singolari figure a testa di leoneumana, una che sollevava una frusta o cinghia di cuoionella destra e si teneva con la sinistra la mascella, l’al-tra con le mani alzate. Indossavano tuniche lunghe finoalle ginocchia e pelli che scendevano dalla testa sulle

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spalle e fino alle caviglie ed erano accompagnate da unuomo che sollevava un bastone.

I quattro bassorilievi successivi ricordavano una bat-taglia, in cui erano rappresentati il re, due guerrieri coni loro stendardi e un eunuco su carri e quattro guerrie-ri, tra cui c’era anche un eunuco, a cavallo. I nemicierano a piedi e scoccavano frecce contro gli inseguitori.Sopra i vincitori volavano aquile che si cibavano deimorti. Sul re si scorgeva ancora una volta la divinitàalata in un cerchio.

Questi bassorilievi illustrano per molti rispetti gli usie la civiltà degli Assiri. Troviamo qui l’eunuco coman-dante in guerra, impegnato contro il nemico in battagliae l’abbiamo già visto prima servire il re nelle cerimoniereligiose, e vegliare su di lui come scudiero in tempo dipace. Che gli eunuchi raggiungessero fra gli Assiri igradi piú alti e fossero anche generali, lo sappiamo dallaBibbia, dove il Rabaris, o capo degli eunuchi, è citatocome uno dei tre principali ufficiali di Sennacherib ecome uno dei principi di Nabucodonosor. Sembra anziche alla corte assira questa classe abbia esercitato lastessa influenza e raggiunto gli stessi posti che in Tur-chia e in Persia, dove spesso eunuchi vennero nomina-ti vizir o primi ministri.

I cavalli degli arcieri erano guidati da guerrieri acavallo con papaline rotonde, probabilmente di ferro.Nella Bibbia la cavalleria è spesso ricordata come unaparte importante dell’esercito assiro. Ezechiele (XXIII,6) descrive «Gli assiri vestiti in blu, capitani e capi, tuttibei giovani, cavalieri a cavallo»; e Oloferne aveva nonmeno di dodicimila arcieri a cavallo. Il cavaliere sedevasul dorso nudo del cavallo, che portava una gualdrappasolo quando veniva condotto dietro il carro del re, pro-babilmente per essere da questi montato in caso di qual-che incidente al carro.

I cavalli rappresentati sulle sculture sembrano dirazza nobile. L’Assiria, e in particolare quella parte del-

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l’impero bagnata dal Tigri e dell’Eufrate, era celebratanell’antichità per i suoi cavalli, come ora le stesse pia-nure sono famose per le piú nobili razze arabe. Gli ebreiprobabilmente acquistavano da questo paese cavalli peril loro esercito; e cavalli venivano loro offerti dal gene-rale del re assiro come dono gradito. Sui monumentiegizi tra le spoglie o tributi vengono continuamentemenzionati cavalli mesopotamici. Il cavallo dei bassori-lievi assiri era evidentemente copiato da un modellobellissimo. La testa è piccola e ben disegnata, le naricigrandi e alte, il collo arcuato, il corpo lungo e le gambesnelle e muscolose. Il profeta esclama a proposito deicavalli dei Caldei: «Sono piú veloci dei leopardi e piúferoci che lupi notturni»; è la magnifica descrizione delcavallo da guerra nel libro di Giobbe e familiare ad ognilettore. Piú tardi le pianure di Babilonia fornirono caval-li ai Persiani, sia per uso privato del re sia per il suo eser-cito. I ricchi pascoli della Mesopotamia devono aversempre offerto loro abbondante sostentamento mentrequelle vaste pianure, esposte ai calori dell’estate e airigori dell’inverno, li avvezzarono alle privazioni e allafatica.

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austen henry layard Scoperte ed allarmi

Il mattino dopo queste scoperte mi ero recato a caval-lo all’accampamento di Sheikh Abd-ur rahman e stavoritornando al tumulo quando vidi due arabi della suatribú che si dirigevano verso di me spingendo a tuttavelocità le loro giumente. Quando mi raggiunsero si fer-marono. - Affrettatevi, o bey, - esclamò uno di loro, -affrettatevi verso gli scavatori, perché hanno trovatoNimrod in persona. Per Allah! È magnifico ma è vero,lo abbiamo visto con i nostri occhi. Non c’è altro Diofuori che Allah! - e unendosi in questa pia esclamazio-ne galopparono via senza altre parole, in direzione delleloro tende.

Raggiunte le rovine scesi nella trincea di recente sca-vata e trovai gli operai, che mi avevano già avvistatomentre mi avvicinavo, in piedi presso un mucchio dicesti e di mantelli. Mentre Awad avanzava e chiedevauna ricompensa per celebrare l’avvenimento, gli Arabirimossero lo steccato che avevano frettolosamentecostruito e scoprirono un’enorme testa umana a tuttotondo scolpita in alabastro locale. Avevano scoperto laparte superiore di una figura, il resto era ancora sepol-to nella terra. Mi resi subito conto che la testa dovevaappartenere a un leone o un toro alato, simile a quelli diKhorsabad e di Persepoli. Era splendidamente conser-vata. L’espressione era calma, addirittura maestosa, e ilineamenti mostravano una naturalezza ed una cono-scenza dell’arte quali difficilmente si trovano in opere

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di epoca cosí antica. Il copricapo aveva tre corna e, a dif-ferenza di quello dei tori con testa umana finora trova-ti in Assiria, era arrotondato e senza ornamenti in cima.

Non ero sorpreso che gli Arabi fossero rimasti mera-vigliati e terrorizzati a tale apparizione. Non occorrevaun’immaginazione sbrigliata per evocare strane fantasie.Questa testa gigantesca, imbiancata dagli anni, che sor-geva cosí dalle viscere della terra, poteva appartenere aduno di quei temibili esseri che secondo le tradizionilocali appaiono ai mortali salendo lentamente dalle regio-ni sotterranee. Uno degli operai, dato il primo sguardoal mostro, aveva gettato via il cesto ed era corso viaverso Mosul con tutta la velocità consentitagli dalle suegambe. Quando lo seppi mi dispiacque molto, perché neprevedevo le conseguenze.

Mentre sovrintendevo alla rimozione della terra checopriva ancora la scultura e impartivo ordini per la pro-secuzione del lavoro, si udí il rumore di una cavalcata eapparve sull’orlo della trincea Abd-ur rahman seguito damezza tribú. Non appena i due arabi che avevo incon-trato raggiunsero le loro tende e divulgarono la notiziadelle meraviglie che avevano visto, ciascuno montò sullasua giumenta e corse al monte per assicurarsi personal-mente della esattezza di queste incredibili descrizioni.Quando videro la testa gridarono tutti insieme: - Nonc’è altro Dio oltre ad Allah e Maometto è il suo profe-ta -. Ci volle un bel po’ di tempo per indurre lo sceiccoa scendere nella fossa per convincersi che l’immagine chevedeva era di pietra. - Questa non è opera di uomini, -esclamò, - ma di quei giganti infedeli che il Profeta (lapace sia con lui) descrive piú alti delle altissime palmeda dattero: questo è uno degli idoli che Noè (la pace siacon lui) maledí prima del diluvio -. Tutti furono d’ac-cordo in questo giudizio, risultato di un accurato esame.

Io quindi ordinai di scavare una trincea in direzionesud dalla testa aspettandomi di trovare una figura cor-rispondente, e prima di notte raggiunsi l’oggetto delle

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mie ricerche alla distanza di circa quattro metri. Aven-do ordinato a due o tre uomini di dormire accanto allesculture, tornai al villaggio e celebrai le scoperte delgiorno con l’uccisione di una pecora cui presero partetutti gli Arabi delle vicinanze. Poiché per caso si trova-vano a Selamiyah alcuni suonatori ambulanti, li mandaia chiamare e le danze si protrassero per la maggior partedella notte. La mattina seguente gli Arabi dell’altrasponda del Tigri e gli abitanti dei villaggi circostanti siriversarono sul monte. Anche le donne non poteronotrattenere la loro curiosità e vennero in folla con i bimbianche da lontano. Durante la giornata il mio cawassstette di guardia nella trincea dove non volevo lasciarscendere la folla.

Come avevo previsto, la notizia della scoperta dellatesta gigantesca, portata a Mosul dall’arabo terrorizzato,aveva messo in agitazione la città. Egli non aveva ral-lentato l’andatura prima di imboccare il ponte. Entran-do senza fiato nei bazar, annunciò a tutti quelli cheincontrava che era apparso Nimrod. La notizia giunseben presto alle orecchie del cadi che chiamò il mufti e l’u-lema a consulto su questo avvenimento inatteso. Le lorodeliberazioni terminarono in una processione dal gover-natore e in una formale protesta da parte dei musulma-ni residenti nella città contro procedimenti cosí diretta-mente contrari alle leggi del Corano. Il cadi non avevaun’idea precisa se erano state trovate veramente le ossadel possente cacciatore o solo la sua immagine; IsmailPasha non ricordava nemmeno bene se Nimrod era unprofeta della vera fede o un infedele. Come conseguen-za delle sue perplessità ricevetti da sua eccellenza unmessaggio abbastanza sibillino in cui si diceva di tratta-re i resti con rispetto, di non tormentarli ulteriormente;egli desiderava che gli scavi fossero immediatamenteinterrotti e mi invitava a conferire sull’argomento.

Mi recai subito a Mosul e andai da lui. Incontrai qual-che difficoltà a fargli intendere la natura della mia sco-

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perta. Alla fine si persuase che avevo solo trovato partedi un’antica figura in pietra, e che non erano stati toc-cati né i resti di Nimrod né di alcun altro personaggiomenzionato nel Corano. Comunque, avendomi eglirichiesto di interrompere le operazioni finché la calmafosse tornata in città, ritornai a Nimrod e congedai imiei operai, tranne due cui feci scavare lungo i murisenza dar motivo ad altre interferenze. Verso la fine dimarzo accertai l’esistenza di una seconda coppia di leonialati con testa umana di forma diversa da quelli scoper-ti prima; infatti l’aspetto umano continuava fino allavita ed erano forniti di zampe leonine oltre che di brac-cia umane. Ogni figura teneva in una mano una capraselvatica o un cervo e nell’altra, stesa lungo il fianco, unramo con tre fiori. Essi formavano un ingresso setten-trionale a una sala o camera di cui i leoni con testaumana descritti prima costituivano l’ingresso occiden-tale. Scoprii completamente l’ultimo e lo trovai intero.Erano alti circa quattro metri e lunghi altrettanto. Ilcorpo e le membra erano ritratti mirabilmente, i musco-li e lo scheletro, sebbene assai sviluppati per indicare laforza e la potenza, mostravano allo stesso tempo unaesatta conoscenza della forma e dell’anatomia dell’ani-male. Ali aperte nascevano dalle spalle e si allargavanosul dorso; una fascia annodata, terminante con fiocchi,cingeva i fianchi. Poiché queste sculture erano colloca-te contro i muri che formavano una porta od ingresso,e pertanto se ne doveva vedere solo un lato del corpo,erano scolpiti parte a tutto tondo e parte in rilievo. Latesta e la parte anteriore rivolte verso la camera, eranoa tutto tondo; il resto della figura era scolpito in altorilievo, e per permettere allo spettatore una perfettavisione contemporaneamente laterale e frontale, lezampe erano cinque, quattro sul lato che formava l’in-gresso e una in piú sul davanti. La lastra era coperta, intutti i punti non occupati dall’immagine, con iscrizioniin caratteri cuneiformi. Si potevano ancora rintracciare

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resti di colore negli occhi: le pupille erano dipinte dinero mentre il resto era riempito di un pigmento bian-co, ma nessun’altra parte della scultura...

Solevo contemplare per ore questi misteriosi emble-mi e meditare sul loro scopo e sulla loro storia. Qualiforme piú nobili avrebbero potuto richiamare i fedeli neltempio degli dèi! Quali immagini piú sublimi avrebbe-ro potuto prendere dalla natura uomini che, senza la lucedi una religione rivelata, cercavano di rappresentare tan-gibilmente la loro concezione della saggezza e dellapotenza di un essere supremo! Essi non avrebbero potu-to trovare un simbolo dell’intelligenza e della scienza piúappropriato della testa umana, un simbolo della forzapiú adatto del corpo del leone, un simbolo dell’ubiquitàpiú evidente delle ali dell’uccello. Questi leoni alati contesta umana non sono creazioni gratuite, prodotte dallapura fantasia; portano scritto su di sé il proprio signifi-cato. Essi hanno ispirato riverenza e impartito istruzio-ne a razze che fiorirono tremila anni fa. Attraverso i por-tali da loro vigilati re, sacerdoti e guerrieri hanno por-tato sacrifici al loro altare, molto prima che la sapienzaorientale fosse penetrata in Grecia e ne avesse ornato lamitologia con simboli conosciuti da gran tempo dai fede-li assiri. Essi dovevano già essere sepolti e la loro esi-stenza ignorata prima della fondazione della città eter-na. Per venticinque secoli erano rimasti nascosti agliocchi dell’uomo e ora si ergevano nuovamente nella loroantica maestà. Ma come è cambiata la scena che li cir-conda! Il lusso e la civiltà di una nazione fiorente hannolasciato il posto alla miseria e all’ignoranza di alcunetribú semibarbare. La sontuosità dei templi e le ric-chezze di grandi città sono state sostituite da rovine einformi mucchi di terra. Sulla sala spaziosa davanti allaquale essi sorgevano è passato l’aratro e ora ondeggia ilgrano. L’Egitto ha monumenti non meno antichi o menomagnifici, ma essi si sono levati per secoli a testimonia-re la sua antica potenza e fama, mentre questi davanti

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a me erano appena apparsi a testimoniare, secondo leparole del profeta, che una volta «l’Assiria era un cedrodel Libano con grandi rami e un alto schermo ombroso,e la sua cima è fra spessi rami... la sua statura era esal-tata su quella di tutti gli alberi del campo e i suoi ramierano numerosi e i tronchi crescevano per l’abbondan-za delle acque quando era un germoglio. Tutti gli uccel-li del cielo facevano il nido fra i suoi rami, sotto le suefronde tutti gli animali del campo portavano i loro pic-coli e sotto la sua ombra dimorava ogni grande nazione».Perché ora «Ninive è una desolazione e arida come ildeserto, e nel suo centro pascolano le greggi: tutti gli ani-mali delle nazioni, tanto il cormorano quanto il tarabu-so, dimorano sui suoi architravi; la loro voce suona nellefinestre; la desolazione è sulle soglie».

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george smith Ritrovamento dell’epopea di Gilgamesh

George Smith (1840-76) nacque a Chelsea, Londra. Non

potendo contare sui vantaggi di una educazione regolare,

cominciò la sua carriera come incisore di banconote, ma pas-

sava tanta parte del suo tempo libero nella sezione assira del

Museo Britannico che attrasse l’attenzione di Sir Henry Raw-

linson, il quale gli procurò un posto in questa sezione. Egli ben

presto giustificò tale nomina pubblicando un’iscrizione che fis-

sava la data dell’eclissi di sole nel 763 a. C., e di un’altra che

stabiliva l’invasione di Babilonia da parte degli Elamiti nel

2280 a. C. Nel 1872 egli trascrisse e tradusse l’epopea di Gil-

gamesh, completa tranne diciassette righe. Quando questa lacu-

na fu scoperta, il «Daily Telegraph» finanziò una spedizione

sotto la guida dello Smith per trovare le righe mancanti, e, quasi

incredibilmente, proprio queste righe vennero scoperte su una

tavoletta trovata all’inizio della prima stagione. Il giornale, con-

siderando raggiunto lo scopo della spedizione, rifiutò di finan-

ziare ulteriormente le ricerche, e solo per una fortunata circo-

stanza verso la fine della stagione si trovò un gruppo di tavo-

lette con la successione dettagliata delle dinastie babilonesi. Nel

1874 e nel 1876 il Museo Britannico finanziò altre due spedi-

zioni sotto la guida dello Smith, ma egli non era di costituzio-

ne molto robusta e le condizioni di vita e di lavoro nel deser-

to si dimostrarono troppo dure per la sua salute. Contrasse le

febbri e morí ad Aleppo nel 1876.

Voltando da qui cavalcai attraverso il terreno pia-neggiante che costeggia il Tigri, e poi lungo la scogliera

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che sovrasta l’acqua e arrivai ben presto a Mosul, da cuipassai a Kouyunjik per vedere i progressi degli scavi. Lemie trincee nel palazzo di Sennacherib procedevano len-tamente e davano scarsi risultati, perché il terreno erastato tanto solcato dagli scavi precedenti che era diffi-cile ottenere buoni risultati senza operazioni piú estesedi quelle che il tempo e i mezzi a mia disposizione mipermettevano; trovai comunque delle iscrizioni, ogget-to principale del mio lavoro, che servirono a compensa-re la fatica.

Nel palazzo settentrionale i risultati furono piú deci-sivi; qui c’era una grossa buca fatta dagli scavatori pre-cedenti dalla quale erano venute numerose tavolette;dopo la chiusura degli ultimi scavi era stata usata comecava di materiale e le pietre per costruire il ponte diMosul erano state regolarmente estratte di qui. Il fondodella buca era pieno di massicci frammenti di pietra deimuri di terrazzamento del palazzo compressi tra mucchidi piccoli frammenti di pietra, cemento, mattoni e argil-la, tutto nella massima confusione. Rimuovendo alcunedi queste pietre con un argano e scavando fra i detritiretrostanti apparve metà di una curiosa tavoletta copia-ta da un originale babilonese che avvertiva i re e i giu-dici dei mali che sarebbero accaduti al paese se la giu-stizia fosse stata trascurata. Continuando lo scavo aqualche distanza venne scoperta anche l’altra metà dellatavoletta, che era stata evidentemente rotta prima difinire tra le macerie.

Il 14 maggio il mio amico Charles Kerr che avevolasciato ad Aleppo, venne a trovarmi a Mosul e poichéio cavalcavo verso il Khan dove risiedevo, lo incontrai.Dopo vicendevoli congratulazioni scesi ad esaminare ildeposito di frammenti di iscrizioni cuneiformi prove-nienti dagli scavi del giorno, togliendo la terra e spaz-zandola per leggerne il contenuto. Pulendone una tro-vai con mia gioia e sorpresa che conteneva la maggiorparte delle diciassette righe di un’iscrizione apparte-

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nente alla prima colonna del racconto caldeo del Dilu-vio, che si inserivano nell’unico punto dove c’era unagrave lacuna nel racconto. Quando avevo pubblicatoper la prima volta il resoconto di questa tavoletta avevosupposto che mancassero in questa parte della storiacirca quindici righe, ed ora con questo pezzo ero ingrado di renderla quasi completa.

Dopo aver comunicato al mio amico il contenuto delframmento lo copiai e pochi giorni dopo telegrafai lanotizia ai proprietari del «Daily Telegraph». Kerr desi-derava vedere il tumulo di Nimroud, ma dato che irisultati di Kouyunjik erano cosí importanti, non pote-vo lasciare la località e accompagnarlo e perciò mandaicon lui il mio segretario per mostrargli il posto, e rima-si a sovrintendere personalmente gli scavi di Kouyunjik.

Anche il palazzo di Sennacherib offrí prontamente ilsuo tributo di oggetti tra cui una piccola tavoletta di Assa-radon, re di Assiria, alcuni nuovi frammenti di uno deicilindri storici di Assurbanipal, e un curioso frammentodella storia di Sargon, re di Assiria, relativa alla sua spe-dizione contro Ashdod, ricordata nel XX capitolo dellibro di Isaia. Sullo stesso frammento c’era anche partedella lista dei capi medi che resero tributo a Sargon. Ven-nero anche alla luce parte di un cilindro di Sennacheribcon un’iscrizione, metà di un amuleto di onice con ilnome e i titoli di questo monarca, in seguito capovolti, enumerose impressioni di sigilli sulla creta, nonché utensi-li di bronzo, ferro e vetro. C’era anche parte di un tronodi cristallo, un magnifico pezzo di arredamento, troppomutilato per essere copiato, ma assai simile di forma, perquanto permette di giudicare il suo stato di conservazio-ne, a quello bronzeo scoperto a Nimroud da Layard.

La sera di sabato, 17 maggio, dopo aver pagato glioperai, partii per esaminare i tumuli di Khorsabad.Attraversai il Tigri, passai attraverso alle rovine di Nini-ve, sulla riva del fiume Khosr e percorsi la regione finoal tumulo di Kalata. Data l’ora tarda, non potevo piú

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esaminare Kalata e mi fermai in un villaggio presso ilmonticello. Alzatomi la mattina presto, andai al montedi Kalata, una grande collinetta artificiale conica, cheera stata manomessa da precedenti esploratori. In ognimodo, la sola cosa visibile era una camera nel fiancodella montagna, che mi sembrò una tomba. Il sepolcroera stato recentemente saccheggiato del suo contenutoe mi fu detto che qui erano stati trovati numerosi ogget-ti antichi. Da Kalata mi diressi a Barimeh, un villaggiosolidamente impiantato ai piedi delle montagne del JebelMaklub e attraversando una bellissima regione giunsi acavallo a Khorsabad. Un magnifico fiume, affluente delKhosr, scorre da Barimeh a Khorsabad. In un punto viè una graziosa cascata e segni di fertilità e di coltivazionisono visibili ovunque. Le vicine montagne e i corsi d’ac-qua, i campi e i fiori concorrono a differenziare questelocalità dalle grandi pianure brune della maggior partedell’Assiria, e giustificano pienamente la scelta di Sar-gon che stabilí di costruire a Khorsabad la sua capitale.

Le rovine di Khorsabad appartengono all’antica cittàassira di Dursargina e sono costituite da un tumulo com-prendente una città e un palazzo. Le mura della città for-mano press’a poco un quadrato di piú di un miglio dilato, con gli angoli rivolti esattamente verso i quattropunti cardinali. Sul lato sudoccidentale del muro c’è ilrecinto fortificato di una cittadella e sul lato nordocci-dentale, lungo il quale scorre il fiume da Barimeh, si levail terrapieno del palazzo, quasi a forma di T, con la baserivolta a nordovest vicinissima alla corrente. Questaparte del tumulo accanto all’acqua è la piú alta e coprei resti del palazzo e di un tempio. Gli scavi del Botta inquesto punto sono stati condotti sistematicamente ehanno portato alla luce una sezione notevole del palaz-zo, che si può ancora parzialmente vedere; il resto èstato nuovamente ricoperto per garantirne la conserva-zione. Dedicai qualche tempo all’esame delle rovine epoi tornai a Mosul.

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Ho detto di aver telegrafato ai proprietari del «DailyTelegraph» il mio successo per quanto riguardava il rin-venimento della parte mancante della tavoletta del Dilu-vio. Essi pubblicarono il mio telegramma nel numero del21 maggio 1873; ma per qualche errore a me ignoto, iltesto differisce materialmente da quello che io inviai. Inparticolare, nella copia pubblicata compaiono le parole«poiché la stagione sta volgendo al termine», che indus-se a concludere che io pensassi la stagione adatta agliscavi pressoché finita. La mia opinione era esattamentecontraria e perciò non avevo detto cosí. Stavo aspet-tando istruzioni e pensavo che, dati i buoni risultati giàottenuti, gli scavi sarebbero stati continuati. I proprie-tari del «Daily Telegraph», comunque, ritenevano checon la scoperta del frammento mancante del testo delDiluvio si fosse raggiunto lo scopo che si proponevanoe annunciarono che non avrebbero proseguito oltre loscavo, pur mantenendo interesse al lavoro e augurandosidi vederlo continuare per l’intervento dello stato. Ne fuicontrariato, perché i miei scavi erano appena comincia-ti; ma compresi che non potevo oppormi a questa opi-nione e mi accinsi a finire lo scavo e a tornare indietro.Continuai i lavori a Kouyunjik finché non ebbi com-pletato i preparativi del ritorno in Inghilterra, e nelpalazzo settentrionale, accanto al punto dove avevo tro-vato la tavoletta con gli ammonimenti ai re, scopersi unframmento di un curioso sillabario, diviso in quattrocolonne perpendicolari. Nella prima colonna erano ripor-tati i valori fonetici dei caratteri cuneiformi, che com-pativano nella seconda colonna, la terza colonna conte-neva i nomi e i significati dei segni, mentre la quartaindicava le parole e le idee che rappresentava.

Cercai tutto intorno altri frammenti di questa impor-tante tavoletta proseguendo la mia trincea attraverso lamassa di pietre e di detriti, resti del muro di fondamentadel palazzo. In tutte le direzioni erano sparsi grossi bloc-chi di pietra, con incisioni e iscrizioni, frammenti di

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pavimento ornamentale, mattoni dipinti e decorazioni,a prova della completa rovina di questa ala del palazzo.Di tempo in tempo si trovavano, serrati tra questi detri-ti, frammenti di tavolette di terra cotta; e un giorno unoperaio spezzò con il piccone una massa di calce met-tendo in luce l’orlo di una tavoletta schiacciata tra dueblocchi di pietra. Subito togliemmo le macerie e poi, conun verricello, sollevammo il blocco superiore ed estraem-mo il frammento di tavoletta che si rivelò parte del sil-labario e che combaciava con il frammento già ricupe-rato. La maggior parte del resto di questa tavolettavenne trovato a notevole distanza in una trincea latera-le a destra. Aderiva al tetto della trincea e si staccò facil-mente, lasciando nel tetto l’impressione di tutti i carat-teri. Di qui vennero anche due altre parti della sestatavoletta della serie del Diluvio. Si riferiscono alla con-quista del toro alato e saranno pubblicate con le altreparti della serie di Isdubar.

Alla mia sinistra in questo scavo si levava una massadi detriti compatti che era stata resa pericolante duran-te gli scavi precedenti; essendosi ora aperta una fessuratra essa e il monte alle sue spalle, sembrava che stesseper cadere dentro la trincea. Per qualche tempo gli ope-rai ebbero paura di toccarla, ma io mi aspettavo di tro-varvi qualche frammento, e perciò ordinai di attaccarladall’alto e fui ricompensato con alcune parti di tavolet-te. Una seconda trincea a destra rivelò un buon testo,cioè una variante del racconto della conquista di Babi-lonia ad opera degli Elamiti nel 2280 a. C. La maggiorparte dei frammenti di questa zona vennero recuperaticon notevole difficoltà, date le masse di pietre che sidovevano rimuovere per raggiungere le tavolette.

Feci anche qualche scavo nella parte settentrionaledel palazzo di Sennacherib e scoprii camere simili aquelle del palazzo sudorientale di Nimroud. Qui nontrovai iscrizioni, ma nell’area del tempio vicino scopriiun nuovo frammento del cilindro di Bel-zakir-iskun, re

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di Assiria nel 623 a. C. Piú a sud-est, in questa parte delmonte scoprii iscrizioni su mattoni di Shalmaneser (1300a. C.) e di suo figlio Tugulti-ninip (1271 a. C.) che fece-ro entrambi restauri e aggiunte al tempio di Ishtar. Qui,costruendo un muro posteriore, erano state tagliate edistrutte alcune belle sculture dell’età di Assur nazirpal(885 a. C.).

Tali furono le mie principali scoperte a Kouyunjikdove chiusi gli scavi il 9 giugno. Mentre risiedevo aMosul avevo stretto molte amicizie tra i missionari cat-tolici e i mercanti della città, e in compagnia di alcunidi essi feci una visita di saluto a Nimroud il 4 e il 5 giu-gno. L’8 giugno, poiché stavo per lasciare il paese, offriiagli amici un pranzo d’addio; il giorno seguente ci con-gedammo e io partii per l’Europa con i miei tesori.

Assyrian Discoveries, 1875

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herman hilprecht Prime conquiste tecniche

Herman Volrath Hilprecht (1858-1925) nacque in Germania

a Hohenerxleben e studiò all’Universítà di Lipsia. Nel 1886 si

recò a Filadelfia dove entrò nella direzione della facoltà di assi-

riologia dell’Università e divenne direttore della sezione babi-

lonese del Museo dell’Università. Come risultato dei suoi scavi

a Nippur venne invitato a organizzare i suoi reperti, che erano

per legge proprietà del governo turco, nel Museo Imperiale

Ottomano di Istambul, compito che lo tenne impegnato dal

1893 al 1909. I suoi ultimi anni vennero oscurati da un ten-

tativo ingiustificabile di difendere un errore nella sua pubbli-

cazione sullo scavo di Nippur, che infine lo indusse a ritirarsi,

ma il valore della sua opera resta grande.

Esaminando i dintorni di questo interessante edifi-cio Haynes capitò dapprima sulle stesse ceneri grige onere che si trovano dovunque nel cortile della ziggurratimmediatamente sotto il pavimento di Naram-Sin, poisu grumi di argilla impastata e infine su alcuni pezzet-ti sparsi di malta di calce. Tutte queste tracce di atti-vità umana erano insite nei detriti caratteristici deglistrati piú bassi formati soprattutto di terra, ceneri einnumerevoli cocci. Quando ebbe raggiunto la profon-dità di circa tre metri dalla cima della struttura piena,in altre parole quando fu disceso circa un metro e ventisotto il fondo dell’antico bordo del marciapiede dellato sudorientale della torre a gradini, trovò una gran-de quantità di frammenti di tubi per acqua di terracot-

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ta della forma qui indicata. Sebbene i rapporti che hodavanti a me non offrano spiegazioni sufficienti delloro uso specifico, non si può dubitare che apparten-gono al reale periodo presargonico. Proverò a spiegarepiú avanti la loro funzione, essendo meglio tacere l’in-terpretazione di Haynes.

Subito la curiosità dell’esploratore fu stuzzicata eavendo approfondito di qualche metro la sua trinceanel punto dove c’era il maggior numero di questi tubidi terracotta, egli fece una delle scoperte piú dense diconseguenze degli strati inferiori di Nippur. Dopo unabreve ricerca si imbatté in un lavoro di drenaggio assainotevole, che ci ricorda l’avanzato sistema di canalizza-zione che troviamo ad esempio a Parigi ai giorni nostri.Esso correva obliquamente sotto l’edificio rettangolaregià descritto, partendo, credo, da un angolo dell’anticosantuario, ma evidentemente era caduto in disuso moltoprima che fosse costruito l’edificio a forma di L. Lo sipoteva rintracciare ancora per circa un metro e ottantaall’interno delle rovine sotto la ziggurrat. Ma i suoi restipiú notevoli furono trovati nel cortile scoperto, in cui sistendeva per il doppio di quella lunghezza con due tubicosicché il suo sbocco abbastanza ben conservato giacedirettamente sotto l’antico bordo del marciapiede, fattoquesto della massima importanza. Infatti costituisce unnuovo argomento a favore della teoria già espressa chequesto bordo segnasse la linea del piú antico recinto sud-est della ziggurrat, o di ciò che prima ne teneva il posto.Ne consegue però anche che nelle vicinanze all’esternodi questo bordo di marciapiede doveva esistere una qual-che gronda che portasse le acque alla dovuta distanza.

Non appena Haynes cominciò a rimuovere i resti del-l’acquedotto rovinato trovò con sua grande meravigliache esso terminava con una sezione a volta lunga unmetro e costruita come un vero e proprio arco ellittico,il piú antico finora scoperto. La questione spesso agita-ta del luogo e dell’epoca di origine dell’arco era cosí

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risolta a favore dell’antica Babilonia. Il fondo di questaimportante testimonianza della civiltà presargonica giacequattro metri e mezzo sotto il pavimento di Naram-Sino tre metri sotto la base del bordo del marciapiede, delquale è probabilmente precedente di un secolo o due.Possiamo perciò datarla con una certa sicurezza alla finedel V millennio precristiano. Presentava numerose par-ticolarità interessanti. Essendo alto all’interno sessan-tatre centimetri, con una luce di trentacinque centime-tri e una monta di trentatre centimetri, era costruito dimattoni ben cotti piano-convessi disposti radialmente avoussoir. Questi mattoni misuravano trenta centimetriper quindici per cinque, erano di colore giallo chiaro emostravano sulla superficie superiore o convessa certisegni che erano stati fatti o premendo con forza il pol-lice o l’indice nella argilla al centro del mattone, o stri-sciando longitudinalmente su di esso uno o piú dita. Perquanto siano indubbiamente primitivi, non rappresen-tano (come conclude Haynes) «il piú antico tipo di mat-toni trovato a Nippur o altrove in Babilonia»; questiultimi sono piú piccoli e talvolta un po’ piú spessi, seb-bene per un considerevole periodo entrambi i tipi sianospesso stati usati insieme anche nello stesso monumen-to. La curva dell’arco era completata da «giunti a cuneodel semplice legante d’argilla usata per cementare i mat-toni». «In cima alla sua chiave c’era un tubo di terra-cotta schiacciato del diametro di otto o nove centime-tri» di cui Haynes dichiara di ignorare lo scopo. Nonposso fare a meno di pensare che servisse ad una fun-zione simile a quella affidata ai fori disposti a interval-li regolari nei nostri moderni muri di rivestimento di ter-razze ecc.; in altre parole, credo che questo tubo servisseper lo scolo delle acque piovane che penetravano nel ter-reno retrostante e sovrastante, e in questo modo evitasseche il legante di argilla tra i mattoni dell’arco si ammol-lisse provocando il crollo di tutta la volta. Se si accettaquesta spiegazione, ne consegue necessariamente che il

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pavimento del cortile che circondava il santuario piúantico non era di mattoni cotti, conclusione perfetta-mente confermata dagli scavi.

C’è molto da dire a favore della teoria che questo tun-nel molto abilmente progettato fosse originariamentead arco in tutta la sua lunghezza. Come la sua volta, laparte inferiore dell’acquedotto mostrava alcune carat-teristiche assai sorprendenti. «Proprio sotto il livellodei pavimento e in mezzo al condotto dell’acqua c’era-no due tubi di terracotta paralleli, del diametro di venticentimetri, con uno sbocco orlato di quindici centime-tri». Haynes, considerando questo tunnel come un dre-naggio piuttosto che come una struttura di protezionedel drenaggio, non sapeva come spiegarne la presenza eil significato. I due condotti erano posati in un legantedi argilla ed erano formati di giunti o sezioni singole, cia-scuna lunga sessantun centimetri, cementate insiemedallo stesso materiale. Si può sollevare l’obiezione: per-ché vi erano due piccoli condotti invece di uno grande?Evidentemente perché portavano l’acqua di due dire-zioni diverse in un solo punto all’interno del recintosacro, dove si incontravano e passavano insieme attra-verso il tunnel ad archi. Essi sicuramente documentanouno sviluppatissimo sistema di drenaggio nel periodo piúantico della storia babilonese. Perciò non ho dubbi chei cosiddetti «rubinetti dell’acqua» già menzionati ser-vissero a qualche scopo connesso con questo complica-to sistema di canalizzazione; con ogni probabilità vannoconsiderati come giunti speciali per unire tubi di terra-cotta che si incontrano ad angolo retto.

La bocca del tunnel era fornita di una costruzione dimattoni pianoconvessi a forma di T, che Haynes era pro-penso a considerare come «il mezzo usato per centrarel’arco», o come «un espediente per impedire agli animalidomestici, come le pecore, di cercare in esso riparo con-tro i raggi spietati del sole in piena estate», mentre iovi vedo piuttosto un pilastro di sostegno costruito per

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proteggere la parte del tunnel piú esposta, nel punto incui comincia l’arco vero e proprio e le pareti laterali sonopiú soggette a cedere alla pressione diseguale della massadi terra circostante. Che questa ultima opinione sia lapiú plausibile e che la spiegazione del tubo unico postoal di sopra dell’arco sia ragionevole, risulta da ciò cheaccadde durante gli scavi. Pochi mesi dopo aver rimos-so la struttura di mattoni a due bracci, Haynes si accor-se all’improvviso che l’arco «era stato deformato, pro-babilmente dalla pressione diseguale della massa in asse-stamento sovrastante, che era stata permeata dall’acquapiovana». Certamente lo scopo originario di questi sem-plici espedienti che avevano assicurato la sopravviven-za dell’arco per seimila anni non avrebbe potuto esseredimostrato in modo piú convincente. Allo stesso tempoHaynes, il quale non aveva mai pensato che tale circo-stanza avesse alcun rapporto con tutto il problema, nonavrebbe potuto pagare un tributo piú alto al genio inven-tivo e alla straordinaria preveggenza degli antichi archi-tetti babilonesi.

Come tutte le altre parti, le lunghe pareti laterali diquesto tunnel unico erano costruite con notevole cura.Consistevano di undici corsi di mattoni posati in maltad’argilla, segno sicuro che il tunnel non aveva lo scopodi trasportare acqua. I sei corsi piú bassi, l’ottavo e ildecimo e l’undicesimo, erano disposti per piatto con ilmargine lungo in vista, mentre il settimo e il nono corsoerano disposti per lungo come libri in uno scaffalelasciando in vista il lato corto. Considerando tutti i det-tagli di questo eccellente sistema di canalizzazione nelV millennio a. C., di un periodo cioè che non moltotempo fa veniva considerato preistorico, ci sarà per-messo di fare una domanda: dove sta il tanto celebratoprogresso dei sistemi di drenaggio delle capitali europeeed americane nel xx secolo della nostra era? Sembre-rebbe anzi che i metodi odierni siano poco diversi daquelli dell’antica Nippur o Calneh, una delle quattro

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città del regno di «Nimrod, il cacciatore potente davan-ti al Signore» (Gen., 10,9), nella cosiddetta «alba dellaciviltà», scoperta abbastanza umiliante per lo spiritodell’era moderna in rapido progresso! Quanti incalcola-bili secoli di sviluppo umano stanno forse dietro quellaetà meravigliosa rappresentata dal tunnel a volta con idue tubi di terracotta fissati nel cemento sul fondo, unmetro e venti sotto l’antico piano di superficie del«paese di Shinar»!

Explorations in Bible Lands, 1903

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charles leonard woolleyLe tombe reali di Ur

Sir Charles Leonard Woolley (1880-1960) studiò al St John’s

College, Leatherhead, e al New College, Oxford. Poco dopo

aver terminato gli studi venne nominato vicedirettore dell’A-

shmolean Museum e da allora dedicò all’archeologia il resto

della vita. Prese parte a numerosi scavi, dapprima a quello

dello stanziamento romano di Corbridge, poi seguí la spedizione

in Nubia promossa da Oxford e gli scavi del Museo Britanni-

co a Carcemish. Lo scoppio della guerra del 1914 lo sorprese

nel Medio Oriente dove le sue conoscenze locali della Palesti-

na e dell’Egitto furono di grandissimo aiuto all’Ufficio infor-

mazioni militari cui venne destinato, ma nel 1916 venne preso

prigioniero dai Turchi e trattenuto fino alla fine della guerra nel

1918. L’anno seguente tornò ai suoi scavi di Carcemish e nel

1921 rimase per un anno a Tell el-Amarna. Nel 1922 comin-

ciò il lavoro che lo avrebbe occupato per i dodici anni succes-

sivi e lo portò alle scoperte piú spettacolari ed importanti dopo

quelle delle tombe reali di Micene ad opera dello Schliemann,

cioè lo scavo di Ur dei Caldei.

Proprio al di fuori del muro che circondava il teme-nos di Ur, l’area sacra in cui sorgevano la torre a terrazzedel Dio Luna e i templi principali del suo culto, si sten-de uno spazio aperto che tremila anni prima di Cristofungeva da cimitero per i cittadini di Ur. Piú tardi, altempo di Sargon di Akkad (2560 a. C. circa), l’areavenne nuovamente adibita allo stesso scopo e i nuovibecchini distrussero centinaia delle tombe piú antiche;

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ancora piú tardi, dopo il 2000 a.C. sull’antico cimiterovennero costruite delle case e la scoperta di antichetombe che custodivano tesori indusse a scavare profon-de gallerie nel terreno in cerca di bottino. Cosí la mag-gior parte delle tombe reali da noi trovate erano statesaccheggiate molto tempo fa e i ripetuti lavori nel ter-reno avevano confuso la stratificazione; ma ciò nono-stante era chiaro che il cimitero primitivo era un po’ piúantico della I dinastia di Ur, la cui esistenza storicavenne dimostrata per la prima volta dallo scavo del tem-pio di al-‘Ubaid costruito da A-anni-pad-da, secondo redella dinastia.

Fra piú di mille tombe del periodo piú antico solosedici erano tombe reali; le altre appartenevano a privaticittadini ed erano state scavate il piú vicino possibile alluogo dell’ultimo riposo del loro capo semidivino, pro-prio come oggi in un cimitero mussulmano le umili pie-tre tombali si assiepano attorno alla tomba a cupola diuno sceicco religioso...

Nel terreno veniva scavata una profonda fossa qua-drata in cui si scendeva per mezzo di una rampa a sci-volo. Nella fossa era costruita una tomba, di pietra o dimattoni, a volta o a cupola; poteva essere costituita dauna camera sola o da una casa in miniatura con tre oquattro camere e un corridoio di raccordo; la facciainterna delle pareti e i pavimenti delle camere eranoricoperti di stucco bianco. Questa era la tomba vera epropria. Il corpo veniva portato qui e deposto su unabara, circondato da offerte che testimoniassero la ric-chezza del signore in vita e lo dilettassero nell’al di là;due o tre dei suoi servi piú intimi venivano uccisi e i lorocorpi erano deposti ai lati della bara; poi si murava laporta della tomba. In seguito scendevano nella fossa, lecui pareti di terra erano mascherate da stuoie di canne,tutti coloro che dovevano accompagnare all’al di là illoro regale padrone: ministri di casa, musici, danzatri-ci, schiavi e soldati della guardia, persino il carro tirato

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da buoi o asini, con gli aurighi, i mozzi e gli animali,disposti in file ordinate in fondo alla fossa. Probabil-mente vi si svolgeva qualche funzione (nella tomba dellaregina Shub-ad le dita della fanciulla arpista toccanoancora le corde dello strumento) e alla fine ciascunoprendeva una piccola tazza, forse la riempiva da ungrande vaso di bronzo collocato al centro della fossa,beveva un sorso di narcotico, si sdraiava al suo posto edormiva. Dall’alto le lamentatrici gettavano dentro laterra della fossa, seppellivano i dormenti e la camerafuneraria, e comprimevano la terra riducendola a unpavimento piano per la fase successiva della cerimonia.Infatti il riempimento della fossa era un processo lento,a stadi successivi. Sul pavimento, ancora molto in bassorispetto al terreno circostante, si svolgeva un banchet-to funebre, poi altre due o tre vittime umane venivanosacrificate e composte, e si buttava e comprimeva altraterra, perché lo stesso rituale veniva ripetuto due o trevolte finché il livello della fossa non raggiungeva lasuperficie circostante; probabilmente, sebbene per que-sto ci manchino prove sicure, alla superficie, per segna-re il luogo, veniva eretta una cappella dove si portava-no offerte in memoria del morto e si celebravano ritifunebri in suo onore.

Questa descrizione generica non è un volo della fan-tasia, è basata interamente su prove fornite dalle tombestesse. Nel caso della pg 1054 scavammo metodicamen-te attraverso vari strati di riempimento della fossa, cia-scuno con le sue offerte votive e le sepolture aggiunte,finché raggiungemmo la piccola camera a volta di pietracon la sua porta murata, contro la quale erano stateposte le ossa di animali sacrificati, e all’interno si trovòil corpo coperto d’oro con i suoi servi morti. Nellatomba della regina Shub-ad la suonatrice con la sua arpae i cantanti formavano un gruppo separato; i mozzierano qui con il carro a slitta riccamente ornato e intar-siato tirato da due asini; il sovrintendente al guardaro-

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ba giaceva accanto al cassone piatto in cui si conserva-vano gli abiti regali. Dentro la camera funeraria le ancel-le erano accoccolate accanto alla bara su cui giaceva laloro padrona adorna di una collana d’oro, lapislazzuli,cornaline, e sulla parrucca elaboratamente ornata le mas-sicce fasce d’oro, le ghirlande d’oro e gli spilloni dacapelli a cinque fiori simbolo della sua dignità, mentresu uno scaffale al suo fianco era deposta un’altra par-rucca di corte legata da una larga fascia di lapislazzulicontro cui erano appoggiate piccole figure di animali,frutti e spighe di grano magnificamente lavorati in oro.

La tomba della regina era stata scavata nella fossa diun sepolcro un poco piú antico, forse quello del marito,la cui ultima dimora desiderava condividere. I becchiniavevano colpito con il piccone il tetto a volta della came-ra del re e, troppo tentati, l’avevano spezzato e si eranoimpadroniti di tutte le ricchezze; per mascherare il loromisfatto avevano messo il cassone con il guardarobadella regina sopra il foro. Non avevano però toccato la«fossa della morte». Qui trovammo tutto a posto. Ottosoldati con lance ed elmi giacevano in duplice fila aipiedi della rampa. Di fronte a questa (evidentementespinto all’indietro lungo la scarpata), c’era il pesantecarro tirato da buoi con collari d’argento, con le redini,ornate di grossi lapislazzuli, attaccate ad anelli d’argen-to infilati nelle narici. Con il carro c’erano aurighi e sol-dati. Contro il muro della camera funeraria giacevanol’arpista e i cantanti; dei soldati custodivano la portamurata, e altri stavano ritti contro le pareti della fossacoperte di stuoie; qui erano raccolte per morire sessan-tatre persone. In un altro caso, la pg 1237, il pavimen-to della fossa della morte era coperto di corpi tutti in fileordinate; sei uomini sul lato dell’ingresso e sessantottodonne in abito di corte, con mantelli rossi dai polsiornati di perle e cinture ad anello di conchiglie, accon-ciature del capo d’oro o d’argento, grandi orecchinilunati e collane multiple azzurre e oro. Fra loro c’era una

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fanciulla che non portava la fascia da capelli d’argento;la teneva in tasca, strettamente arrotolata simile a unnastro rotondo, come se, avendo fatto tardi per il fune-rale, non avesse avuto il tempo di mettersela. Qui c’e-rano quattro arpiste con i loro strumenti raggruppateinsieme, e presso di loro, in uno spazio aperto, un cal-derone di rame; era difficile non metterlo in relazionecon la piccola coppa trovata presso ciascuno dei settan-taquattro corpi nella fossa.

Nessuna delle tombe private del cimitero mostraqualcosa di corrispondente a questo massiccio massacro.Anche la piú ricca di esse, la tomba di Meskalam-dugche conteneva una profusione principesca di armi e vasid’oro, d’argento, di bronzo e di pietra non racchiudevaaltri corpi che quelli «del signore della buona terra»,solitario in una bara di legno. La camera funeraria inmuratura e il sacrificio umano erano un privilegio riser-vato ai re. Sembra implicita la credenza che questi refossero almeno esseri semidivini per i quali la mortenon era altro che una transizione; se dobbiamo giudica-re dal fatto che tante persone morirono con loro senzaviolenza, con accompagnamento di musica suonata daloro stessi e per mezzo di un narcotico bevuto volonta-riamente, è certo che questa gente era sorretta dallafiducia che accompagnando cosí il proprio signore siassicurava la continuazione del servizio e un posto ono-revole nell’altro mondo.

In tutta la letteratura sumera in nostro possesso nonc’è allusione ad alcun rito simile come parte del funera-le di un re; e poiché la scoperta di Ur fu unica nel suogenere alcuni studiosi esitavano ad accettare questainterpretazione dell’evidenza. Obbiettavano che i pochinomi recuperati dalle «Tombe reali» non figurano nelleliste dei re compilate dagli annalisti sumeri. I fatti deiseppellimenti erano fuori discussione, ma essi preferi-vano considerarli come un sacrificio offerto a divinitànote, un «rito della fertilità» in cui un matrimonio misti-

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co simbolizzante la prosperità della terra culminava conl’uccisione della sposa e dello sposo. Il primo punto èabbastanza verosimile. Ma gli annalisti sumeri enume-rano solo i re di quelle dinastie che accampavano prete-se su tutto il paese di Sumer. Gli occupanti delle nostretombe regali non hanno tali pretese, ma si chiamano«re». I loro nomi non sono diversi da quelli dei re dellaI dinastia (possono benissimo appartenere alla famiglia)ma a giudicare dai dati archeologici sono piú antichi, ein questo caso necessariamente non erano re dinastici mavassalli, signori solo di una singola città. Se fossero levittime scelte di un «rito della fertilità» non si sarebberoaffatto chiamati re.

Inoltre la letteratura sumerica, cosí ricca di testi litur-gici e religiosi, non allude mai all’uccisione dei protago-nisti di un «matrimonio mistico»; in nessun punto sisuggerisce l’idea che sacrifici umani facessero parte dellareligione ortodossa. Perciò pensare a un «rito della fer-tilità» non fa minore violenza ai testi letterari, che ilsupporre di trovarsi di fronte a tombe regali; anzi di piú,perché nella letteratura sumerica non compare alcunadescrizione di tombe regali. Inoltre, il «matrimoniomistico» interessa due persone, la sposa e lo sposo, e sequeste fossero state uccise sicuramente sarebbero statesepolte insieme. Ma ognuna delle tombe reali di Ur con-tiene solo un corpo principale. Tuttavia c’è un altroargomento: la necessità di frutti della terra è costante ese si fosse celebrato un «rito della fertilità» questoavrebbe dovuto essere annuale, come infatti era pressoi Sumeri in tempi storici. Ma nel cimitero di Ur, chedeve essere rimasto in uso per molte generazioni, cisono solo sedici tombe reali. In tutti quegli anni gliuomini solo sedici volte fecero qualcosa per assicurarsiun buon raccolto? E ora la testimonianza delle tombereali non è piú unica. Abbiamo trovato che mille annipiú tardi, a Ur, i grandi re della III dinastia avevano,proprio fuori del muro di Temenos dove erano sepolte

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con loro molte persone, delle grandi tombe, sormonta-te da un tempio-palazzo in cui il figlio maggiore dellacasa conservava il culto del re, divinizzato in vita eannoverato fra gli dèi dopo la morte. Era una tradizio-ne duratura malgrado i documenti letterari non ne fac-ciano menzione, mediante la quale il «fittavolo pigio-nale» del dio partecipa della sua divinità e non muore,ma viene assunto in cielo.

Quindi qui, in questo cimitero preistorico di Ur,abbiamo le tombe di re e di privati a dirci qualcosa deipensieri e delle credenze di un popolo che non ci halasciato di sé reali testimonianze scritte, e a rivelarcimolto delle loro arti, dei loro prodotti artigianali e dellasistemazione materiale della loro vita. Solo in un puntoi dati di questi scavi appaiono scarsi se paragonati conquelli di altre località: non abbiamo trovato statue-ritrat-to simili a quelle che vennero scoperte in gran numerodalla spedizione americana a Tell Asmar nell’Iraq set-tentrionale. La ragione è che a Ur si scavava in un cimi-tero, mentre l’edificio di Tell Asmar era un tempio. Pergli antichi Sumeri, una statua era l’ultima cosa cheavrebbero pensato di collocare in una tomba. Una sta-tua rappresentava o un dio, e allora la sua sede natura-le era un santuario, o un fedele, e allora la sua sede eraancora il tempio, dove avrebbe potuto stare giorno enotte davanti al suo dio in perpetua adorazione e pre-ghiera. Per un quadro completo del paese dei Sumericinquemila anni fa non dobbiamo raccogliere i nostridati solo da una fonte, ma da molte, rivelateci dallaarcheologia negli ultimi anni; ciò nonostante gli oggettidella cerimonia di Ur ci testimoniano pienamente laqualità della civiltà che si era sviluppata nella valle del-l’Eufrate nei periodi di al-’Ubaid, Uruk e Jemdet Nasred era fiorente all’alba dell’epoca storica.

Ur; the First Phases, 1946

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parte quinta Il libro delle rocce e delle valli

carl humannScavando Pergamo

Carl Humann (1839-96) era ingegnere ferroviario e per ragio-

ni di salute nel 1861 concentrò la sua attività nelle regioni meri-

dionali. Mostrò immediatamente interesse per l’archeologia

iniziando la nuova carriera a Samo.

Divenne famoso grazie ai suoi scavi dell’altare di Pergamo

(ricostruito a Berlino) conclusi nel 1886.

Pergamo, 19 dicembre 1871

Mio caro signor Curtius,

sono passate cinque settimane da quando vi scrissil’ultima volta e se non vi avessi promesso di scrivervi dinuovo entro otto-quattordici giorni comunicandovi irisultati degli scavi e mandandovi la pianta di Pergamo,io avrei già rotto da gran tempo il mio silenzio.

Finora non avevo né l’una né l’altra cosa o almenonon in forma completa. Ha piovuto abbondantementeper cinque settimane e solo da quando c’è la luna nuova,soffia un terribile vento del nord e, inutile aggiunta, faun gran freddo. Queste sono tutte le mie scuse: non hoperso tempo. Approfittavo di ogni mezza giornata in cuinon piovesse per salire sull’acropoli con i miei uomini esono felice finalmente di potervi comunicare che sonoriuscito a far progredire le cose.

Vi ricordate l’alto, spesso muro in cui vi feci notaredue sculture sporgenti da sotto? Ora le ho recuperate ele ho in casa, in territorio prussiano...

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N. 1: questa è la pietra che giaceva a sinistra, si vede-va il petto. Quando feci demolire il muro fino a giun-gerle vicinissimo, rimossi io stesso accuratamente unapietra dopo l’altra e trovai il collo, il mento poi la guan-cia sinistra e l’occhio. Quando vidi l’occhio esclamai: -È un uomo morto! - Infatti questa statua, sebbene assairealistica e bella, aveva decisamente l’aspetto rigido edemaciato della morte. Vi dico questo per dimostrarvi chescarso conto si deve fare delle mie capacità critiche incampo artistico. Alla fine la statua venne completa-mente tirata fuori e si rivelò per un bel giovane concapelli ricciuti, allungato il petto alto e sollevato (venti-cinque centimetri) il braccio destro (sfortunatamentespezzato) sollevato, il sinistro penzoloni, la testa leg-germente inclinata da una parte, la bocca semiaperta,non distorta dal dolore, ma piuttosto dalla fatica, comestesse dormendo; soltanto gli occhi spalancati, rovesciatiall’indietro, mostravano che eravamo di fronte a unuomo morto in battaglia. Forza e bellezza erano quiunite nella piú meravigliosa armonia. A sinistra si vede-va una gamba appartenente a un’altra statua.

Il n. 2 nel disegno mostra un uomo anziano, conbarba, che, sconfitto in battaglia, lancia uno sguardocrudele; anche questa testa, sebbene manchino il mentoe il naso, è magnificamente eseguita. In un primomomento la scambiai per una testa di leone, prima chevenissero alla luce la spalla sinistra e l’uomo addormen-tato. Le sopracciglia sono assai spesse, ma non esagera-te. Una mano, molto probabilmente non sua perchéavrebbe dovuto essere la destra, solleva uno scudo soprala testa. Questo scudo assai sottile, raggiunge a malape-na lo spessore di un dito, e per questa ragione e quasitutto rotto. Dietro c’è un uomo, in atto di colpire il vec-chio con una clava, di cui sono conservati soltanto ilbraccio, destro, la parte destra del petto e un frammen-to della nuca. Dalla spalla sinistra gli pende una pelle dileone, di cui è rimasta ancora una zampa. Testa, brac-

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cio sinistro e parte sinistra del petto sfortunatamentenon esistono piú, probabilmente perché sporgevanotroppo dal muro.

N. 3: una zampa di cavallo appartiene anch’essa aquesto gruppo. Non ho mai visto prima d’ora una zampacome questa! Sotto la pelle si scorgono tutte le ossa dellegiunture. Non so se preferire il n. 1 o il n. 3.

I tre pezzi che ho elencato sono tutti dello stessomarmo bianco-azzurrino. I primi due sono entrambi altiottantanove centimetri. Poiché vari blocchi sono statitrovati in precedenza qui e sfortunatamente sono anda-ti distrutti, è certo, tenendo conto anche di questi due,che facevano tutti parte di un fregio continuo con unascena di uomini in battaglia.

Alcuni anni or sono vidi un blocco con un uomo e unleone (inviato in quel tempo a Costantinopoli a MrKaratheodoris): come questo vi è il n. 3, la zampa dicavallo, e cosí abbiamo una battaglia completa, cui pren-devano parte uomini, cavalli e bestie feroci. Il fregiopoteva solo appartenere a un edificio molto importan-te, per esempio al tempio di Minerva sull’Acropoli. Allo-ra con mia gioia si scoprí che tutti i frammenti archi-tettonici dell’edificio, di cui voi avete ammirato le fon-damenta e la volta inferiore, erano anch’essi fatti dellostesso marmo puro bianco-azzurrino che inoltre si accor-da con il diametro delle colonne di questo tempio, chenon ho ancora potuto misurare accuratamente, e anchecon l’altezza di ottantanove centimetri del fregio.

Spero che non sia solo l’emozione della scoperta afarmi dire di avere davanti agli occhi un capolavoro discultura. I miei disegni, tracciati nel cortile con le ditagelate, possono suggerirvi solo un’idea inesatta dellabellezza di questi pezzi. In cima vi è ancora il calcareduro come pietra del muro, che io non ho rimosso dalleparti piú delicate, per maggior sicurezza. I nn. 1 e 2sono spezzati in due punti, ma cosí bene che nessunodei particolari piú belli è rotto a metà. Pare sia stata la

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grande estensione e la ineguale distribuzione del pesodel muro a danneggiarli. Queste figure si possono chia-mare altorilievi solo con una certa improprietà, perchésono a tutto tondo e sembra fossero state attaccate alastre spesse quindici-venti centimetri; sono perciòmolto simili a statue vere e proprie. Il petto del giova-ne misurato con la lastra supera il mezzo metro di spes-sore. Tutti i disegni sono in scala 1:10 e cosí potrete inogni caso calcolare le dimensioni. Il tratteggio indica leparti mancanti.

Il n. 4 è un bassorilievo e mostra un’armatura. Sullaspalla sinistra vi sono delle frange simili a quelle porta-te dai nostri tamburi maggiori; entrambi i lati recanofigure di guerrieri molto belle, ma troppo piccole peressere disegnate qui.

Il n. 5 è un’iscrizione su una lastra di marmo bianco;io ho estratto dal muro il 4 e il 5.

I nn. 6a e 6b mi sono stati dati da un turco. Si trat-ta dello stesso fregio che avete visto sulla porta di unHan, ma in miglior stato di conservazione. Se dovessidisegnare per voi il piccolo leone alato con tutti i suoimuscoli, mi ci vorrebbe mezza giornata e non riuscireipiú a usare la pagina del disegno qui unito. Perciò vi hoindicato solo il colore e le dimensioni.

Ho in casa un bassorilievo come questo, provenien-te da una tomba, che raffigura un cavaliere, di fronte alquale c’è un albero con un serpente, ma l’intera scena èabbastanza confusa; ho anche un piccolo capitello ioni-co e una base del diametro di circa quarantacinque cen-timetri, cosí graziosa e delicata che piacerà a qualsiasiarchitetto e il sovrintendente Adler vorrà che vengasubito misurata. Ho inoltre recuperato una stele con unaiscrizione che oggi non ho piú tempo di copiare; la partesuperiore manca, ma mi è stato detto che si trova qui inuna casa. La unirò domani. Ischallah (voglia Dio).Dovrei anche avere i frammenti dell’uomo rotto da noitrovato e vari altri elementi architettonici.

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Quindi ho riportato alla luce una figura femminileseduta, panneggiata, di marmo bianco brillante delmiglior periodo. Testa, braccia, un petto e i piedi man-cano; sta su un cuscino. Seguirà ben presto il disegno.Spero che scenderà dalla collina domani. Il piede nudoche sporgeva dal muro è stato asportato due anni fa emandato a Costantinopoli al Museo Turco. Era magni-fico. Spero che ci permetteranno di recuperarlo. Bak-shish! Con questo tutto diventa possibile.

Domani o dopodomani appariranno una statua e pro-babilmente un trono, perché li ho quasi raggiunti. Hocomperato in un villaggio a cinque ore di cammino daqui un vaso di argilla cotta, piú alto di un uomo e cosígrande che tre uomini non riuscirebbero ad abbracciar-lo; almeno secondo la descrizione deve essere di taleforma, ma a causa delle strade fangose è per il momen-to impossibile portarlo qui.

Non sono riuscito finora a copiare mezza dozzina diiscrizioni dei cimiteri turchi; sono ancora ignote; altretre sono state trovate nei muri questa settimana. Homandato qualcuno a Kilise-Keni; mi vengono richiestedieci lire per la pietra, ne ho offerte due e spero diottenerla.

I Greci non vorrebbero togliere la pietra dalla Chie-sa perché lo considerano un peccato e inoltre non hannoil permesso di mandare all’estero quanto riguarda le lorotradizioni locali. Questi stupidi Bulgari vogliono solomercanteggiare e sperano di ricavare una forte somma.

In una moschea ho trovato una grande scultura di pie-tra con motivo di frutta che misura quasi un metro qua-drato, splendidamente eseguita, con uva, prugne, allo-ro, fichi, palme, ghiande. Il nostro governatore, checome sapete è mio intimo amico, sta cercando di acqui-starla per me, ma quel dannato imano pensa che sareb-be peccaminoso dare agli infedeli qualcosa tolto allamoschea, malgrado io gli offra dieci lire; dovrò darequalche sterlina all’imano. Del resto sono riuscito a far

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alzare in piedi il mufti e il cadi per dimostrare, in baseal Corano, che la Moschea deve impegnarsi in un affa-re se c’è da trarne vantaggio. Baccalym! Non vi dirònulla delle mie monete e dei vasi d’argilla, questa lette-ra è anche troppo lunga.

Non appena avrò tirato fuori dal muro tutte le sta-tue ancora visibili, comincerò gli scavi nelle rovine deltempio di Minerva e senza dubbio troverò altri rilievi.Tutte le teste che si possono vedere nel museo qui furo-no anch’esse trovate là. Ne trarrò molti preziosi fram-menti architettonici. Possiedo una colonna con verdeantico lunga circa un metro e mezzo da Dikeli sullacosta. Da allora ho fermato il lavoro al tumulo funera-rio dell’Occhio o di Attalo perché desideravo esserepresente e ciò era impossibile. Tanto non scappa.

La mia pianta di Pergamo è stata naturalmente riman-data a causa della pioggia e degli scavi; con tre o quat-tro giorni di lavoro sarà finita. Intanto per vostro usopersonale accludo alla presente uno schizzo approssi-mativo. Ho scoperto una quantità di cose. Starò qui findopo Natale per gli scavi e probabilmente non andrò aSmirne fino alla prossima settimana. Sto trasportandogiú dall’acropoli le lastre di marmo su una grande slit-ta, ma la dovrò prendere volta per volta in basso e tra-scinarla nuovamente in cima per ogni pezzo. Sapetecom’è. Mi sono fatto costruire dei carri particolarmen-te robusti con cui trasportare gli oggetti a Dikeli sullacosta e di qui li manderò a Smirne con imbarcazioni, ameno che, se la quantità di materiale sarà notevole, nonsi occupi del trasporto l’ambasciatore imperiale.

Manderò questa lettera per conoscenza al dottorLuhrsen, un po’ per soddisfare il suo interesse persona-le, un po’ per ragioni ufficiali, cosicché in caso di biso-gno possa aiutarmi con le parole e con i fatti, sebbenefinora non abbia incontrato alcuna difficoltà.

Se, in qualsiasi momento, dovesse sorgere un pro-blema di spese, confermo qui che finora il governo non

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ha dovuto affrontarne alcuna, sebbene tutto ciò che horaccolto sia stato per conto suo e diventi di sua pro-prietà.

Bene. Ho scritto abbastanza. Caro Mr Curtius vi augu-ro buon Natale e un felice Anno Nuovo, e spero di aver pre-sto il piacere di ricevere da voi qualche riga; quanto a mevi scriverò ancora.

Con i migliori auguri, sinceramente vostro

Carl Humann.

Der Pergamon-Altar, entdeckt, beschrieben und gezeichnet

von Carl Humann, 1959

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william wright La scoperta delle pietre di Hamah

William Wright (1837-99) era figlio di un fattore e crebbe in

County Down, Irlanda, ma le sue capacità gli fecero ottenere

una borsa di studio al Queen’s College di Dublino. Qui deci-

se di prendere gli ordini sacri e di farsi missionario, e a questo

scopo studiò nei seminari teologici di Dublino e di Ginevra.

Nel 1865 si recò a Damasco e rimase in questa regione per i

dieci anni seguenti. Oltre che alla sua missione religiosa dedicò

molto tempo ai viaggi e allo studio delle antichità, recandosi

in Palestina, Siria, Arabia settentrionale e scrivendo articoli per

la «Pall Mall Gazette». In questo periodo si interessò alla

civiltà ittita da poco scoperta e, avendo sentito parlare di pie-

tre con iscrizioni ritrovate ad Hamah, decise di impadronirse-

ne e di studiarle.

Il 10 novembre 1872 partii da Damasco con l’inten-to di procurarmi le iscrizioni di Hamah.

Sessant’anni prima Burckhardt, nella sua esplorazio-ne di Hamah, aveva scoperto nell’angolo di una casa inun bazar una pietra coperta con figure e segni che egliaffermò essere geroglifici, ma diversi dai geroglifici egizi.Chiunque desiderava conoscere qualcosa della Siria leg-geva i viaggi di Burckhardt. Tutti riconoscevano che lesue osservazioni sono accurate e le sue descrizioni esat-te, ciò nonostante anche gli esploratori di professionehanno dato cosí poco peso alla sua scoperta che il Por-ter, nel Handbook del Murray, afferma ancora nel 1868«che a Hamah non ci sono antichità».

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Infine nel 1870 Augustus Johnson, console generaleamericano, e il reverendo S. Jessup, un missionario ame-ricano, trovarono per caso le iscrizioni di Hamah e daquel momento a un lungo periodo di dimenticanza e diapatia ne successe uno di fanatici sforzi per assicurarse-ne il possesso. Questo entusiasmo di recente riacceso,intorno ai curiosi geroglifici, che avevano atteso cosí alungo un’interprete, sembrava destinato a metterne inpericolo l’esistenza e da Damasco sorvegliavamo ansio-samente i vari eroici ma infruttuosi tentativi di procu-rarsene copie esatte.

Il vago ma temutissimo potere del console america-no e le conoscenze locali e l’abilità di un missionarioamericano non furono sufficienti a permettere loroun’accurata trascrizione dei geroglifici riportati alla luce.

Pubblicando una riproduzione di una delle iscrizioninel «First Quarterly Statement of the American Pale-stine Exploration Society» nel 1871, il Johnson dice:«Non riuscimmo a fare stampi mediante pressione per-ché musulmani fanatici ci si affollarono addosso nonappena cominciammo a lavorare sulle pietre e fummoobbligati ad accontentarci delle copie ottenute con l’aiu-to di un pittore locale di questa e di altre iscrizioni, tro-vate su lastre di pietra sopra e accanto alla porta dellacittà e nell’antico ponte che attraversa l’Oronte». John-son doveva trovarsi davvero in una brutta situazioneperché sembra abbia visto solo una delle pietre dato chedescrive in modo inesatto la posizione delle altre, senzadubbio essendo stato indotto in errore da vaghe notiziepopolari, ma i suoi sforzi non furono vani e l’imperfet-to facsimile di una delle iscrizioni da lui pubblicato nellarivista citata contribuí molto a risvegliare l’interesse peri nuovi geroglifici e stimolò altri a riuscire dove egli eraparzialmente fallito.

L’imperfetta riproduzione del «pittore locale» vennevista da Drake e Palmer, che passavano per Beirut alritorno in patria dalle peregrinazioni nel deserto, e la

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Palestine Exploration Fund rimandò Drake in Siria aesaminare e copiare le iscrizioni. Grazie alla sua grandeabilità nel trattare con la popolazione locale, Drake riu-scí parzialmente nel suo intento, prendendo fotografiee calchi delle piú importanti, ma una folla infuriata locostrinse a smettere il lavoro prima di aver pienamenteraggiunto lo scopo.

Il capitano Burton, allora console di sua maestà aDamasco, visitò anche lui Hamah. Egli dà una buonadescrizione delle pietre e indica esattamente il postodove le si sarebbero trovate, ma anche lui dovette accon-tentarsi della decifrazione di un certo, Kostantin-el-Khuri, che pubblicò in Unexplored Syria con la seguen-te spiegazione: «I dieci fogli che accompagnano questoarticolo sono stati applicati alle facce coperte di rosso odi nero delle quattro pietre; in seguito vennero traccia-te le linee di contorno con una cannuccia. In pochi casila fantasia del copista ha potuto sbrigliarsi», ecc.

Il capitano Burton suggeriva che la pietra dovesseessere ceduta per mezzo di un ordine del visir con loscopo di essere obbedito e aggiunge: «Quando a Hamahcominciai a trattare con il proprietario del numero uno,il cristiano Jabbour, egli, barbaramente avido come tuttala sua tribú, cominciò con il chiedermi cento napoleoni».

La pubblicazione del rozzo facsimile in UnexploredSyria accrebbe ancora di piú l’interesse generale per leiscrizioni, e per la pietra piú piccola venne offerta unasomma assai considerevole, ma gli abitanti di Hamahnon volevano separarsene a nessun prezzo. Allora unaltro gruppo di persone completamente diverso comin-ciò a vantarsi e a offrire in vendita le bramate curiositàe vedemmo con disappunto l’inizio di quell’affannosa erumorosa contrattazione che poco tempo prima avevaportato alla distruzione della pietra di Moab. A questopunto mi si presentò l’occasione non solo di ottenere, madi salvare le preziose iscrizioni.

La Sublime Porta, presa da un periodico accesso di

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zelo riformatore, aveva nominato un onesto funzionario,Subhi Pasha, governatore di Siria. Subhi Pasha si dedicòcon coscienza al proprio lavoro e non contento di ripa-rare ai torti che riuscivano a farsi strada fino a lui, risol-vette di visitare ogni distretto della sua provincia inmodo da poter punire i disonesti e conoscere le neces-sità del popolo. Mi invitò ad accompagnarlo in un viag-gio ad Hamah e io accettai volentieri. Anche KirbyGreen, nostro eccellente console a Damasco, sarebbestato suo ospite. Pensai fosse meglio raggiungere la com-pagnia nei pressi di Hamah, temendo che la familiaritàgenerasse disprezzo prima che fosse giunto il momentocritico per chiedere il permesso di copiare le iscrizioni.Potei ottenere il mio scopo soffermandomi lungo la stra-da nelle scuole dei villaggi nel Jebel Kalamoun.

Avendo trascorso qualche giorno a Saidnâya, M’alû-la, Yabrûd, Nebk e Deir Atîyeb, tra i piú bei contadinidi Siria alcuni dei quali parlano un patois siriaco, men-tre tutti parlano l’arabo con accento siriaco, mi diressi anord da Hasya e raggiunsi la cavalcata del Pasha a Hums.

Il giorno dopo partimmo per Hamah con numerosis-simo seguito. I capi si riversavano da tutte le parti coni loro dipendenti per fare onore al wali. Principotti, i cuipossessi erano stati ridotti a un cavallo, a poche armi,ad una giacca riccamente gallonata galoppavano nellapianura roteando e agitando in aria le loro lance e dandosplendidi saggi di equitazione. Ostaggi beduini deldeserto, ulema dal bianco turbante, dervisci dal cappel-lo a pan di zucchero, preti e contadini formavano unaprocessione larga dieci miglia e lunga piú di uno, cir-condata da un esercito pittoresco di schermitori che esi-birono le loro buffonerie per miglia intorno al corpoprincipale durante tutto il viaggio.

Giungemmo a Hamah nel tardo pomeriggio del 25novembre. Durante il giorno il wali aveva consultato mee Green sui suoi progetti per migliorare le condizioni delpopolo. Restammo insieme alzati fino a tardi ed ebbi

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occasione di chiedere a sua eccellenza di aiutarmi a otte-nere delle copie perfette delle iscrizioni. Egli me lo pro-mise e si dimostrò tanto compito e gentile da accompa-gnarci alle nostre stanze per assicurarsi che fossimo statitrattati con tutti i riguardi.

Il mattino seguente di buon’ora Green ed io ci met-temmo in cerca delle iscrizioni. Prima della nostra par-tenza da Damasco non era giunto né un libro né un arti-colo che parlasse delle iscrizioni, e perciò dovevamocominciare le nostre operazioni senza valerci dei lavoridei nostri predecessori. Il nostro primo compito, non cosífacile come potrebbe sembrare, fu di trovare le iscrizio-ni: tutti quelli che interrogavamo sull’argomento ci guar-davano diritti in faccia e giuravano con convinzione chea Hamah non c’erano pietre del tipo che cercavamo.

In una grossa città dalle strade strette e tortuosesarebbe stato ben difficile trovare le iscrizioni da soli, edopo molte delusioni decidemmo di interrogare chiun-que incontrassimo con la speranza di trovare qualcunoche non fosse al corrente del complotto per nasconder-cele. Il primo uomo che incontrammo dopo aver presoquesta risoluzione fu Suliman-el-Kallas, nel muro dellacui casa era l’iscrizione H1. Scoperto il segreto nonavemmo difficoltà a trovare tutte le pietre e le addi-tammo anche al wali.

Subhi Pasha, noto in Europa come Subhi Bey primadella sua nomina a Damasco, discendeva da una nobilefamiglia greca. Era il piú istruito dei Turchi e la sua col-lezione privata di monete e opere d’arte, la maggiorparte della quale fu poi venduta a Londra, lo aveva por-tato a intessere relazioni culturali con molti dotti Euro-pei. Subhi Pasha, creatore del Museo di Costantinopo-li, riconobbe a prima vista la grande importanza delleiscrizioni e mandò un telegramma al sultano chieden-dogli di accettare le iscrizioni per il Museo.

Feci presente a sua eccellenza che tali iscrizioni dove-vano essere proprietà comune di tutti, che gli studiosi

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di Europa ne attendevano con ansia copie accurate e chesenza dubbio esse avrebbero aperto un nuovo capitolonella storia dimostrando che un grande popolo, chiamatonella Bibbia ittita, ma a cui gli scrittori classici nonaccennavano mai, aveva un tempo costituito in quellaregione un potente impero.

Il Pasha non solo acconsentí che io facessi delle copiedelle iscrizioni, ma promise di portare le iscrizioni al ser-raglio dove avrei potuto copiarle con comodo. In altrecircostanze avremmo incontrato grandi difficoltà a pro-curarci copie delle iscrizioni, perché i recenti deboli ten-tativi di impadronirsi delle pietre avevano indotto gliHamatiti a considerarle di grandissimo pregio e mentreattraversavamo la città diretti ai bagni in compagnia delgovernatore generale sentimmo brontolare molte espres-sioni di sfida e di minaccia contro chiunque si avventu-rasse ad avvicinarsi ai loro sacri e venerabili tesori.

Piú tardi nella giornata, quando si seppe che il Pashavoleva prendere le pietre, sentimmo degli uomini giura-re che avrebbero distrutto le iscrizioni come fecero poicon quella di Aleppo.

Vidi che si era giunti a un punto cruciale. Per seco-li, forse per millenni, queste mute iscrizioni avevanoatteso qualcuno che ne ascoltasse la storia. Egizi, Assi-ri, Greci, Seleucidi, Romani, Saraceni, crociati, e Tur-chi erano passati loro accanto senza considerarle degnedi nota, e ora che erano finalmente arrivati viaggiatoridalle «Isole del mare» avidi di leggerne i segreti, la lorovoce rischiava di essere soffocata per sempre. Era immi-nente una calamità piú grande della tragedia della pie-tra moabita. Un possente impero stava accampando isuoi diritti alla posizione che gli spettava tra le grandinazioni del mondo antico, e pochi fanatici erano decisia ricacciarlo nell’oscurità profonda a cui la storia classi-ca lo aveva assegnato.

Green e io vedemmo che dovevamo darci da fare sevolevamo raggiungere il nostro scopo. Visitammo tutti

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coloro che avevano iscrizioni nelle loro terre e nei muridelle loro case e li assicurammo, sull’onore di un conso-le britannico, che Subbi Pasha era completamente diver-so dagli altri Pasha che avevano conosciuto; che egliavrebbe pagato le pietre al loro valore, e anche piú, eche, ora che il sultano aveva risposto al telegrammaaccettandole, chiunque si fosse intromesso per le iscri-zioni sarebbe stato punito assai severamente. Cosí sol-lecitammo la cupidigia e la paura degli Hamatiti.

Esponemmo il problema anche davanti al wali, cheper la notte affidò le iscrizioni alla sorveglianza diIbrahim Pasha e distaccò a difenderle un certo numerodi soldati. Avendo saputo da alcuni dei nostri che si tra-mava una formidabile cospirazione per distruggere leiscrizioni, dicemmo loro candidamente ciò che avevamoudito e li avvertimmo che severe punizioni si sarebberoabbattute su di loro se le iscrizioni avessero subito qual-che danno. Fu una notte insonne ed ansiosa, e la mat-tina seguente il wali, per nostro consiglio, pagò sommevarianti dai tre ai quindici napoleoni per ogni pietra ecominciò il lavoro di trasferirle al serraglio.

La rimozione delle pietre venne eseguita da una tormadi uomini urlanti, che tenne la città in tumulto per tuttoil giorno. Due lastre dovettero essere estratte da case abi-tate, e una era cosí grande che per spostarla di un migliooccorsero cinquanta uomini e quattro buoi per un’inte-ra giornata. Le altre pietre vennero divise in due e leparti incise vennero portate al serraglio a dorso di cam-mello. Quando al calar del sole la voce acuta del muez-zin invitò i musulmani alla preghiera, con nostra grandegioia anche l’ultima pietra era stata messa al sicuro.

La rimozione di queste misteriose reliquie produssea Hamah molto strepito. Il fatto che un console britan-nico ed un missionario protestante ospiti di un wali diSiria lo accompagnassero alle moschee e ai bagni sem-brava strano e portentoso agli occhi di musulmani fana-tici, ma era in un certo senso rassicurante per i servili

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cristiani locali. Ad impressionare la mentalità musul-mana concorsero anche prodigi celesti; infatti la nottedopo il trasporto delle pietre al serraglio gli Hamatitividero una pioggia di meteoriti in tutto lo splendore del-l’Oriente, ed essi interpretarono ogni scia luminosa ebrillante una prova dello sdegno del cielo che fulmina-va Hamah nell’eventualità che le pietre sacre venisseroportate via. Le stelle sdegnate erano apparse in ottem-peranza di un’antica profezia.

Durante la notte molti gridarono e invocarono ilnome di Maometto e di Allah, e al mattino un’influen-te deputazione di musulmani con turbanti bianchi everdi si presentò al wali per dirgli dei cattivi presagi, edesortarlo a rimettere a posto le pietre.

Il wali ordinò caffè e sigarette per tutti i membri delladeputazione, che si accovacciarono intorno a lui in solen-ne dignità. Egli ascoltò pazientemente tutti gli oratori,alcuni dei quali parlarono molto a lungo e molto anima-tamente. Quando ebbero finito, il wali continuò a lisciar-si la barba per qualche tempo, poi chiese con molta gra-vità se le stelle avevano ferito qualcuno. Gli fu rispostodi no. – Ah, – esclamò il wali illuminandosi e con vocegaia e sonora che anche le guardie fuori della porta pote-rono udire, – i presagi erano buoni. Essi indicavano lalucente approvazione di Allah per la vostra lealtà nelmandare queste preziose pietre al vostro amato Califfo,il Padre dei Fedeli –. La solenne deputazione si alzòtutta riconfortata. Ogni membro badò la mano del walie si ritirò.

Avevamo cosí ottenuto la nostra lepre; dovevamoperò ancora cuocerla. Era infatti necessario otteneretrascrizioni prive di quelli che il capitano Burtonchiamò, in quelle che riprodusse, «svolazzi della fanta-sia del pittore locale». A Hamah non c’era fotografo enoi non avevamo attrezzatura fotografica e ci rendem-mo perfettamente conto che era della massima impor-tanza assicurarci dei facsimili esatti perché non sapeva-

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mo che cosa sarebbe potuto accadere alle pietre. Cercaiinvano di procurarmi a Hamah del gesso di Parigi. Sape-vo comunque che si trovava del gesso nelle vicinanze emandai due uomini fidati e ben pagati a cercarne.

Poi cominciò l’opera di ripulitura delle iscrizioni. Ilmuschio e la polvere degli anni avevano riempito i vuotitra i caratteri rilevati. Su loro era stata colata della calceche nel corso degli anni era diventata quasi dura comela pietra stessa. Era un lavoro che non poteva esseredelegato ad altri e ci vollero due giorni di incessantelavoro con spazzola, acqua e bastoncini appuntiti perpulirli. Intanto gli uomini erano tornati con un cammellocarico di blocchi di gesso, che doveva ancora esserecotto e ridotto in polvere.

Furono fatti vari tentativi di distoglierci dal nostrolavoro invitandoci ad andare a caccia di beccacce, di cin-ghiali selvatici, di gazzelle e di ottarde, ma noi conti-nuammo imperterriti finché avemmo due copie di per-fetti calchi in gesso di tutte le iscrizioni. Questo com-pito ce lo spartimmo io e Green, che prese il mio postoalle iscrizioni quando ero obbligato a stare altrove, e checercò di scusare la mia assenza ai ricevimenti del Pasha.

Non appena i calchi furono solidificati, tramite unuomo fidato, li inviammo a Damasco, donde Green nemandò una copia al governo per il Museo Britannico eio mandai l’altra al Palestine Exploration Fund su richie-sta di Tyrwhitt Drake. Eravamo cosí riusciti a metterea portata di mano degli studiosi facsimili esatti delleiscrizioni di Hamah che mostravano la lunghezza realedelle righe, la punteggiatura, i caratteri, e gli spazi e per-sino i difetti della pietra.

Ci proponiamo ora di esaminare i documenti egizi eassiri e le scritture ebraiche che fanno riferimento agliIttiti prima di porre la domanda: queste curiose iscri-zioni sono resti ittiti?

The Empire of the Hittites, 1884

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hugo winckler A Boghazköy!

Hugo Winckler (1863-1914) nacque in Sassonia e dedicò tutta

la sua carriera accademica allo studio di testi antichi. Nel 1904

venne nominato professore di lingue orientali all’Università di

Berlino e forní le traduzioni delle lettere di Amarna e del codi-

ce di Hammurabi, ma è piú noto per i suoi reperti a Boghazköy.

Qui i suoi scavatori scoprirono molti begli edifici e cumuli di

tavolette, ma sfortunatamente l’interesse di Winckler era con-

centrato soprattutto sull’argomento delle tavolette e per con-

seguenza gran parte della documentazione sistematica dello

scavo venne trascurata. Tra le tavolette da lui scoperte e tradotte

c’era una versione cuneiforme del trattato tra Ramesse II e gli

Ittiti dopo la battaglia di Kadesh.

Il completamento di questo piano venne progettatoper l’inverno. Si fece prima il tentativo di ottenere dafonti influenti e attivamente interessate alla spedizionei mezzi, relativamente modesti, necessari per farne unapreliminare. Intanto gli studiosi consultati esprimevanosu Boghazköy un’opinione diversa dalla mia, cosí chedovetti trovare un’altra via per raggiungere il mio scopo.Comunque, risultò che la Near East Society e il BerlinEastern Commitee avevano a disposizione fondi limita-ti. Questi potevano servire al nostro scopo e il denaroancora mancante, una somma quasi uguale a quella giàottenuta, venne messa a mia disposizione dai miei amiciil dottor Georg Hahn e il cappellano militare capo OttoStrauss. Cosí verso l’estate avemmo la somma preven-

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tivata pronta per il nostro proposito preliminare, ed era-vamo in grado di provare chi aveva avuto ragione sullepotenziali prospettive aperte da Boghazköy.

Il 17 luglio al mattino presto ritornammo a cavallo alkonak (palazzo del governatore) del Bey Zia e fummo giàaccolti come vecchi amici (grazie al piacevole ricordo deiBakshish). Come erede di un’antica razza di principi, ilbey gode ancora di grande rispetto e si deve essere sicu-ri del suo appoggio se si desidera lavorare in questodistretto senza difficoltà. Una spedizione intrapresa innome del governo non avrebbe certo incontrato oppo-sizioni clamorose, ma ce n’erano anche altre certo nonpiú trascurabili. E qui l’Europeo è in svantaggio perchénon ha la riserva inesauribile di tempo dell’orientale eil primo requisito di questo tipo di guerra è il tempo! Cieravamo lasciati in termini molto amichevoli con il bey,ed egli aveva fatto molte richieste, da una buona botti-glia di cognac a un aiuto in una difficoltà momentanea,e a sua volta ci aveva reso dei servizi. Ci forní senzaalcun fastidio una squadra di lavoratori al suo comando;val bene la pena di fare qualche piccolo servizio agliamici in Oriente!

Avevamo calcolato di lavorare per otto settimane edera piena estate, quindi pensammo di stabilirci in tendeo in capanne di foglie. Alla mia mente ritornavano iricordi delle gioie estive libanesi! Sebbene anche qui inAsia Minore si andasse in alta montagna a trascorrerele vacanze estive sotto la tenda, come fece Zia-Bey, fuiamaramente deluso nel mio desiderio di calore. Potem-mo accamparci ai piedi del picco della valle del Büyük,accanto all’origine di una abbondante sorgente, dovel’anno successivo venne costruita la nostra casa. Lamodesta tenda fatta per noi due, sotto il sole cocente dimezzogiorno offriva una temperatura che non sarebbestata spiacevole in un bagno turco, ma non era moltoconfortevole per un sonnellino pomeridiano. Subitodopo il tramonto l’aria si rinfrescava notevolmente e con

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l’abbassamento di temperatura soffiava dalle montagnenude un forte vento serale, che ci preparava una nottein cui c’erano buone ragioni per dimenticare il caldodiurno. Cosí alla sera ci sedevamo davanti alla tenda nelvento urlante, mangiavamo il nostro pasto serale men-tre gli abiti svolazzavano. Poi di regola, quando ci si erarinfrescati abbastanza, ci si ficcava senza troppe forma-lità nella propria tenda, dove c’era appena spazio suffi-ciente per due uomini infaticabili al lavoro e fra cui inquesto stretto contatto non si udí mai una parola irrita-ta o un pensiero impaziente, sebbene allora abbianosopportato entrambi notevoli pene fisiche.

Un pergolato di fogliame ospitava la cucina in cui uncuoco di origine bulgara eseguiva il suo lavoro in mododavvero abominevole. Egli si era raccomandato al mioesperto amico per qualche nozione di tedesco, il cheavrebbe dovuto rendermi piú facile il soggiorno. In pre-cedenza gli era stato permesso di praticare la sua arte adanno dei pazienti di un ospedale tedesco. Io accettavoi suoi tiri con grande forza d’animo, perché avevo intra-preso i miei viaggi con la idea di non dover cercare trop-po ardentemente i piaceri. Ma il mio povero Maeridi siarrabbiava il doppio o il triplo e per tutt’e due e nonpoteva consolarsi con tavolette di argilla! Un secondoriparo di foglie doveva servirmi di rifugio per studiarele tavolette e fu ben presto sistemato per molteplici usi.Tutto il campo era circondato da un alto steccato di ramiche al tempo stesso fungeva da riparo contro il vento,davvero maledettamente necessario. Lungo una parte diesso, un po’ piú in basso, era stato costruito un rifugioalquanto piú grande che ospitava cinque esseri che nonavevano mai sperimentato giorni migliori in tutta la lorovita: i nostri cavalli. Essi si guadagnavano il cibo facen-do quasi niente, mentre tutti erano sovraccarichi dilavoro. La loro vicinanza senza dubbio attirava nugolidi mosche e per me questo significava il piacere di dovercopiare le mie tavolette di creta con collo e testa coper-

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ti e mani inguantate, se desideravo evitare di fermarmidopo ogni simbolo per respingere l’interesse invadenteche gli amici animaletti prendevano al mio lavoro. Senzadubbio come studiosi siamo assai preoccupati di difen-dere il nostro diritto di primogenitura.

Dal campo (come ora dalla facciata della casa costrui-ta nel 1907) si vede oltre il bacino della valle diBoghazköy e di Jükbas fino alla catena di monti che lachiude a ovest. Dietro si stende l’alta valle del Büyükche confina con le cime orientali del bacino montuoso.

Cosí ci eravamo rapidamente sistemati e le mie mati-te vennero temperate in fretta per registrare sulla cartagli sperati documenti preziosi.

È bene ricordare ciò che si poteva dedurre dai datidi fatto in nostro possesso fino a quel momento, in con-fronto a ciò che si sperava di scoprire: conoscevamo illinguaggio dei paesi che appartenevano ad Arzawa, laterra delle lettere di el-Amarna e dei documenti con-temporanei a el-Amarna. Il passo successivo avrebbeperciò dovuto essere trovare informazioni su Arzawa el’identificazione della sua capitale a Boghazköy. Ma giàle dimensioni dell’area della città indicavano un’impor-tanza speciale della località e perciò del paese. Nonsaremmo rimasti troppo a lungo nell’incertezza. Il lavo-ro nella valle del Büyük poté cominciare il 21 luglio efin dal primo giorno vennero alla luce dei documenti.Dapprima si trattò solo di piccoli frammenti. Quelli rin-venuti in precedenza erano stati trovati sui fianchi dellacollina del castello, fra i detriti rotolati in basso ed entrouna fascia abbastanza ben definita. Ne conseguiva per-ciò che tutto il pendio della montagna doveva essere esa-minato rimuovendo i detriti dal basso verso l’alto. Eraun lavoro piuttosto pericoloso per gli operai, perché uncrollo imprevisto di terra e roccia si poteva evitare solocon le massime precauzioni. A mano a mano che il lavo-ro nella montagna proseguiva i frammenti scopertidiventavano piú grandi. La fascia produttiva si stringe-

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va un poco verso la cima e il nostro successo dimostra-va che Macridi sin dall’inizio, con un fortunato colpod’occhio aveva individuato il punto esatto dei ritrova-menti. Né a destra né a sinistra di questa fascia si trovònulla e l’anno dopo si scoprí che la vera fonte dei pre-ziosi resti era all’estremità del picco montano.

La maggior parte dei pezzi trovati questa voltamostravano i caratteri già noti nel linguaggio ignoto. Ilcontenuto variava, ma dapprima i reperti erano troppopiccoli per rispondere alla piú importante questioneancora aperta: in che parte del mondo eravamo? Eraormai assolutamente chiaro che si trattava di un grossocentro e che quelli che ci venivano in mano a gruppi dicento o duecento per giorno non erano certo i resti degliarchivi di un re insignificante. La direzione di Arzawa...dopo pochi giorni anche questa dovette essere corretta.

Ben presto alcuni frammenti in babilonese fornironole informazioni. A prima vista sembravano piccoli fram-menti di lettere in perfetta armonia con i tipi di el-Amarna e con le nostre supposizioni, resti della corri-spondenza diplomatica tra due re. Questi erano il red’Egitto e il re degli Ittiti. Perciò dopo pochi giornifummo sicuri di trovarci nell’area della capitale del regnoittita e di aver scoperto gli archivi reali dei capi ittiti altempo dei loro contatti con l’Egitto, cioè al tempo di el-Amarna e negli anni immediatamente successivi, vale adire quindici-tredici secoli a. C. I primi pezzi non con-tenevano ancora i nomi dei re in questione. Anche unatavoletta abbastanza ben conservata, che parlava di untrattato tra Egitto e Hatti non dava, come al solito, ilnome dei re interessati nel trattato, cosí che subito nonfu possibile una determinazione piú precisa. Natural-mente avevano sperato di trovare qualche accenno ainegoziati e ai trattati tra Ramesse II e Hatti in rappor-to al grande patto tra Ramesse e «Chetafar», com’eraallora chiamato, ma non osavo sperare di aver trovatoqualcosa direttamente connesso con questo, impregna-

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to come ero dal pessimismo dell’esperienza che dimostracome i fatti non seguono quasi mai il corso sperato.

Questa volta comunque accadde ciò che non aveva-mo neppure osato sperare. Il 20 agosto, dopo circa ventigiorni di lavoro, la trincea aperta tra i detriti sul fiancodella montagna aveva raggiunto il primo muro divisorio.Sotto di esso venne ritrovata una tavoletta meraviglio-samente conservata e d’aspetto promettente. Le diediuno sguardo e tutte le esperienze della mia vita diven-nero insignificanti. Qui stava scritto ciò che avremmo amalapena potuto augurarci in un momento di oziosafantasticheria: Ramesse scriveva a Chattusil - chiamatopoc’anzi Chetafar - circa il trattato bilaterale. Sebbenenegli ultimi giorni fossero stati trovati sempre piú nume-rosi frammenti riguardanti il trattato tra i due stati,solo qui era realmente confermato che il famoso tratta-to, noto dalla documentazione geroglifica sul muro deltempio di Karnak, era stato steso anche dall’altra parteinteressata. Ramesse, indicato con i suoi titoli e la suadiscendenza, descritto esattamente con gli stessi termi-ni del testo del trattato, scrive a Chattusil, onorato congli stessi appellativi, e il contenuto della tavoletta segueparola per parola i paragrafi del trattato. Perciò non sitratta del testo definitivo vero e proprio del trattato, madi una lettera sull’argomento, forse della versione ulti-ma inviata da parte egizia e usata dagli Ittiti come baseper la stesura finale. Venne anche trovato un piccoloframmento di una seconda copia di questa lettera, appar-tenente all’inizio della stessa tavoletta. Perciò come altriimportanti documenti legali, anche questo era conser-vato negli archivi in doppia copia.

Furono strani sentimenti quelli che io, piú di tutti glialtri, provai leggendo questi documenti. Erano passatidiciotto anni da quando ero venuto a conoscenza nel-l’antico Museo Bulaq della lettera dell’Arzawa di el-Amarna e della lingua di Mitanni a Berlino. A queltempo, in seguito ai fatti rivelati dai reperti di el-Amar-

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na, avevo osato suggerire che forse anche il trattato diRamesse era forse stato scritto originariamente incuneiforme ed ora tenevo in mano proprio una delle let-tere scambiate proprio su questo argomento, nella piúbella scrittura cuneiforme e in buon babilonese! Eraveramente una rara coincidenza nella vita di un uomoche il primo avventurarsi in territorio orientale proget-tato dagli Egizi avesse ora trovato conferma nel cuoredell’Asia Minore. Questa era una circostanza meravi-gliosa, degna di un racconto delle Mille e una Notte,eppure l’anno successivo doveva rivelare cose anche piúfiabesche, quando vennero trovati tutti i documenti incui riapparivano le figure che avevano occupato la miamente in quei diciotto anni. In una versione ittita riap-parivano il re di Mitanni, Tusratta e il principe diAmuri, Arizu, il nemico di Rib-Addi di Byblos e neidocumenti, che fungevano da commentari alla sua let-tera da el-Amarna, ritornava il luccio nello stagno feni-cio dei pesci d’oro! Era davvero una strana combina-zione di circostanze nella vita di un uomo...!

Nach Boghazköy, Der Alte Orient, vol. XIV, parte III, 1913

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lubor matou\HroznØ decifra il cuneiforme ittita

Friedrich (Bedrich) HroznØ (1879-1952) nacque a Lysa nad

Labem in Boemia e studiò a Praga, Vienna, Berlino e Londra.

Nel 1904 prese parte a una spedizione nella Palestina setten-

trionale e l’anno successivo fu nominato professore all’Uni-

versità di Praga. Venne attratto dal problema del cuneiforme

ittita ed era immerso negli studi per decifrarlo quando scoppiò

la prima guerra mondiale ed egli venne richiamato alle armi.

Per la fortuna degli studi orientali, l’ufficiale suo comandante

ne condivideva le ambizioni, capí l’importanza del suo lavoro

e lo esonerò dal servizio attivo per consentirgli di continuare le

ricerche. Basando la sua interpretazione sulla convinzione che

la lingua ittita fosse d’origine indoeuropea, pubblicò nel 1915

la sua decifrazione e traduzione del cuneiforme. La sua opera

venne violentemente attaccata da molti altri studiosi, ma quan-

do la sua soluzione venne applicata a un gran numero di docu-

menti ittiti, compreso un vasto codice legale, egli fu ampia-

mente giustificato. Durante il resto della sua brillante carriera

accademica prese parte a parecchie altre spedizioni e continuò

i suoi lavori su problemi di decifrazione tra cui uno non coro-

nato da successo della scrittura cretese lineare B.

Il 1913 segna la fine del primo periodo della carrie-ra di HroznØ. Come abbiamo sottolineato prima, lastoria culturale che aveva progettato, se fosse statascritta allora, avrebbe lasciato nell’oscurità molti aspet-ti delle relazioni tra le varie culture del Medio Orien-te. Comunque l’interruzione segnata da questo anno fu

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solo apparente e in pratica favorí il suo lavoro succes-sivo. Egli si rendeva conto che problemi piú urgentirichiamavano la sua attenzione su altri campi, che eranecessario risolvere tutto un complesso di questionisenza la cui soluzione non avrebbe potuto condurre inporto la sintesi finale che aveva in mente. Una caratte-ristica della sua forma mentis era quella di non perde-re mai di vista lo scopo prefisso; di non allontanarsi maidalla sua strada per quanto duri da superare fossero gliostacoli che incontrava.

Quali erano questi urgenti problemi? Dopo la deci-frazione della scrittura cuneiforme ad opera di Grote-fend e Rawlinson, le tavolette di argilla sumero-babi-lonesi avevano offerto informazioni sufficienti per dareun quadro della storia e della vita culturale degli anti-chi assiri e babilonesi, ma la storia dell’Asia Minorerestava un libro chiuso. Le sole fonti d’informazione cuiera possibile attingere erano indirette; documenti assi-ri e babilonesi, testi geroglifici egizi e la Bibbia, men-tre i documenti scritti delle nazioni dell’Asia Minorerimanevano incomprensibili. Già nel 1906 l’assiriologoberlinese Hugo Winckler (che era stato maestro diHroznØ durante il soggiorno di quest’ultimo a Berlinonel 1901) era riuscito a scavare presso il villaggio turcodi Boghazkeui in Asia Minore, circa centoquarantacin-que chilometri a nord di Ankara, le rovine dell’anticacapitale del regno ittita, Hattusas. Qui erano venuti allaluce gli archivi dei re ittiti rappresentati da circa mil-letrecento tavolette scritte in cuneiforme nella ancoraignota lingua ittita. Comunque gli archivi diBoghazkeui non erano i primi esempi esistenti di linguaittita. Era già noto che la lingua usata in queste iscri-zioni era identica a quella del paese di Arzawa (cioèCilicia occidentale) di cui si erano trovati due esempisotto forma di lettere scoperte nel 1888 negli archivi diTell el-Amarna che contenevano la corrispondenza deifaraoni egizi Amenofi III e IV con re e principi con-

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temporanei dell’Asia Minore. Data comunque l’assen-za di materiale di raffronto, queste lettere continuava-no a essere indecifrabili. Era ben noto, dai documenticuneiformi di Babilonia, che gli Ittiti avevano rivesti-to un ruolo importante nella storia della Mesopotamia.Gli eserciti ittiti erano stati una fonte di continuaansietà per il potente impero babilonese dalla primametà del II millennio a. C. in poi, e dalle cronache babi-lonesi la caduta della grande dinastia Khammu-Rabi èattribuita a loro. Secondo la Bibbia Heth era il figliodi Canaan e l’Antico Testamento cita sempre la Siriacome patria degli Ittiti. Questi scarsi dati biblici ven-nero un po’ accresciuti da fonti egizie, in cui gli Ittitisono ricordati in documenti dalla XVIII alla XX dina-stia, cioè dal 1500 al 1190 a. C. È comunque eviden-tissimo che, in base a queste fonti di informazioni indi-rette e frammentarie, le nostre idee sugli Ittiti eranoincomplete e assolutamente inadeguate.

Il compito di interpretare la lingua misteriosa di que-sta ignota nazione, vissuta in Asia Minore nel II mil-lennio a. C. che aveva lasciato dietro di sé un numerocosí vasto di iscrizioni cuneiformi negli archivi diBoghazkeui, poteva cosí essere considerato di primariaimportanza. Il lavoro fu alquanto facilitato dal fatto chesi poteva leggere la scrittura cuneiforme, sebbene la lin-gua che serviva a esprimere avesse resistito finora a tuttii tentativi di interpretazione. Prima di HroznØ avevanoaffrontato il problema l’assiriologo berlinese dottorWeidner, il professor Böhl di Grohningen e lo scopri-tore degli archivi, Hugo Winckler. HroznØ si offrí dicollaborare con questo ultimo già nel 1910, ma non potédedicarsi completamente a questo compito, essendoancora impegnato nel suo lavoro sul grano babilonese.Fu solo dopo aver completato questa opera ed aver rice-vuto dalla Società orientale di Berlino (dopo la morte diWinckler nel 1914) l’incarico ufficiale di pubblicare gliarchivi ittiti che HroznØ cominciò sul serio il suo lavo-

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ro di decifrazione. Solo una minima parte delle iscrizioniera a Berlino, la maggior parte erano conservate alMuseo di Costantinopoli. Oltre al già ricordato dottorWeidner, stavano lavorando sulle iscrizioni di Berlinoanche il professor Delitzsch e il dottor O. Weber.HroznØ non venne inviato a Costantinopoli fino all’a-prile 1914, poco prima dello scoppio della grande guer-ra, per copiarvi le iscrizioni insieme all’assiriologo ber-linese dottor Figulla, che vi lavorava dal 1° gennaio1914. Per recuperare il ritardo, HroznØ non perse tempoa copiare iscrizioni per la progettata edizione; nello stes-so tempo trascriveva un certo numero di tavolette chenon intendeva pubblicare, ma che gli servivano per l’o-pera di decifrazione. Passava le giornate a copiare tavo-lette nel Museo Ottomano, sopra il Corno d’Oro, e lanotte, a volte fino alle prime ore del mattino, trascrive-va testi ittiti nel suo appartamento a Moda, sulla spon-da asiatica del Mar di Marmara. Raggruppò le parolecosí trascritte in dizionari alfabetici non solo secondo lelettere iniziali, ma anche secondo le terminazioni, atergo, una condizione indispensabile per delucidareforme grammaticali ignote. La guerra lo sorprese inmezzo al suo sfibrante lavoro verso la fine di agosto del1914, e gli fu necessario ritornare immediatamente aVienna. Allora però aveva già copiato un numero diiscrizioni abbastanza grande per continuare il suo lavo-ro di cui l’anno dopo presentò i risultati al pubblico.

Il metodo adottato nel decifrare questa lingua sco-nosciuta non è privo di interesse. Egli scelse come puntodi partenza iscrizioni monolingui che andavano decifra-te da sole. C’erano, è vero, dei vocabolari bilingui eanche trilingui ittita-babilonese-sumero, pubblicati nel1914 dal professor Delitzsch, ma il loro uso offriva trop-po scarse possibilità di penetrare nella struttura gram-maticale della lingua. HroznØ comunque trovò un note-vole aiuto nei nomi propri e negli ideogrammi sumero-babilonesi, cioè in quei caratteri cuneiformi che espri-

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mono parole complete (parole-pitture). Si dovrebbericordare che gli Ittiti, riprendendo dai Babilonesi lascrittura cuneiforme, adottarono anche non solo ideo-grammi ma intere parole che essi pronunciavano fone-ticamente. Queste parole-pittura e barbarismi spessoaiutavano a chiarire il senso di intere frasi. Adottandoil metodo della combinazione, paragonando frasi e signi-ficati, passando da ciò che è noto a ciò che è ignoto,HroznØ riuscí ben presto a capire la struttura della lin-gua e ad assegnarle un posto nella famiglia delle lingue.

Il suo punto di partenza fu la frase: «nu NINDA-anezzateni vâdarma ekutteni». Il solo elemento conosciu-to qui era l’ideogramma sumero-babilonese NINDA chesignifica «pane». Da esempi in altri testi HroznØ stabilíche il suffisso -an era la terminazione dell’accusativosingolare. HroznØ dedusse correttamente, come dimo-strò, che era molto probabile che una frase in cui si davarisalto alla parola «pane» contenesse logicamente ilsignificato di «mangiare», il quale poteva essere rap-presentato solo dalla parola ezzateni. Poiché altri braniavevano dimostrato che il suffisso -teni era la desinenzadella seconda persona plurale del presente o del futuro,egli poteva azzardarsi a tradurre la prima metà dellafrase: «Voi mangiate (mangerete) pane». La strutturadella seconda frase era chiaramente parallela alla prima,per cui se il nome corrispondente a NINDA era vâdar,che poteva significare «acqua», allora il verbo da cui ilnome dipendeva poteva essere solo ekutteni, che in que-sto caso avrebbe significato «bere». HroznØ poteva oratentare di leggere l’intera frase: «Ora voi mangeretepane, poi berrete acqua».

HroznØ identificò subito la radice ittita ad-, -ez con-tenuta in ezza-teni con il latino edo, il tedesco essen, iltedesco arcaico ezzan, cioè con le radici del gruppoindoeuropeo che comprende la famiglia delle lingueslave, quelle germaniche, le lingue latine, ecc. Si posso-no scoprire affinità del genere anche nelle parole della

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seconda frase. L’ittita vâdar sembrerebbe in relazionecon l’inglese water e il ceco voda, e la radice e (a) ku- con-tenuta nella parola ekutteni («voi berrete») rivelavaun’affinità con il latino «aqua». Il carattere indoeuro-peo della lingua ittita risultava chiaramente anche dallasua struttura generale, in rapporto ai pronomi persona-li (uga, ug io e il latino ego, l’ittita kûish, chi, e il latinoquis). Un’altra caratteristica importante era la declina-zione dei nomi e la coniugazione dei verbi, dove spe-cialmente i participi in -nt e le forme mediopassive in-ri ricordano le forme latine corrispondenti. In seguitoanalisi piú dettagliate mostrarono che la struttura gene-rale della lingua la collocava nel gruppo indoeuropeooccidentale o «Kentum», cioè nello stesso gruppo delgreco e del latino e delle lingue germaniche.

La scoperta che gli Ittiti appartenevano il ceppoindoeuropeo fu una non piccola sorpresa per HroznØ.Egli aveva quasi escluso questa possibilità, tanto è veroche, fra i libri che egli portò a Costantinopoli, la filolo-gia indoeuropea era rappresentata solo da un manualet-to assolutamente inadeguato del Meringer, della colle-zione Göschen. Quando HroznØ annunciò per la primavolta le sue conclusioni in un congresso della Società delMedio Oriente a Berlino il 24 novembre 1915, provocòuna discussione che si protrasse fino a tarda notte. Ingenere la sua affermazione che l’ittita fosse una linguaindoeuropea venne accettata con grande scetticismo. Sirichiamava particolarmente l’attenzione sui caratterifisici non indoeuropei della razza ittita che, con il gros-so naso curvo e la fronte sfuggente all’indietro, rasso-migliava assai al tipo armenoide. Si suggerí che l’ittitafosse una lingua caucasica e Weidner la considerò anchestrettamente collegata con il Gruziniano. I piú ferocioppositori di HroznØ erano i professori Bartholomae eBork. D’altra parte la conferenza di HroznØ ripetutaall’Università di Vienna il 16 novembre sotto l’egidadella Eranos Vindobnensis Society e pubblicata lo stes-

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so anno sotto il titolo Die Lösung des hethitischen Pro-blems [La soluzione del problema ittita] venne accoltadalla stampa tedesca e austriaca con grande rispetto, ecommentata come «una pietra miliare nella storia dellafilologia e dell’archeologia indoeuropea». Si deve ancheammettere che le conclusioni di HroznØ erano spessoattaccate in base a cavilli. Cosí uno studioso di filologiacomparata rifiutò persino di prendere in considerazio-ne i suoi argomenti, perché HroznØ aveva affermatoche fa parola ittita vâdar era pronunciata con la primasillaba lunga, cosa che egli in base alle regole della filo-logia comparata dichiarava essere assolutamente inam-missibile.

Il 1° dicembre 1915 HroznØ venne chiamato allearmi nel reggimento di guarnigione a Vienna, dove, datal’estrema miopia, prestò servizio sedentario fino allafine della guerra. I suoi ufficiali superiori mostraronouna straordinaria simpatia e comprensione per i suoiinteressi extramilitari e gli permisero di dedicare alcu-ne ore del giorno agli studi di ittitologia. Cosí ancoraprima della fine della guerra poté pubblicare a Lipsia laprima grammatica di lingua ittita sotto il titolo Die Spra-che der Hethiter, ihr Bau und ihre Zugehörigkeit zum indo-germanischen Sprachstamm [La lingua degli Ittiti, suastruttura e sua appartenenza al ceppo indo-germanico].In questa pubblicò per la prima volta le sue conclusionisotto forma di una grammatica sistematica e definí laposizione dell’ittita nel gruppo indoeuropeo: risultatocertamente notevole se teniamo presente che in soli treanni riuscí a fare ciò che molti avevano tentato invanoprima di lui. Egli aveva risolto il mistero di questa stra-na lingua, la piú antica finora conosciuta fra quelle delgruppo indoeuropeo.

Per provare l’esattezza delle sue teorie, HroznØcominciò subito una traduzione sistematica delle iscri-zioni storiche e religiose ittite che uscí a Lipsia nel 1919come Hethetische Keilschrifttexte aus Boghazköi in Umsch-

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rift und Übersetzung [Iscrizioni ittite cuneiformi daBoghazkeui trascritte e tradotte]. Il numero degli oppo-sitori e degli scettici diminuí gradualmente e i filologiindoeuropei cominciarono a riconoscere l’esattezza dellesue teorie sull’ittita come lingua del «Kentum», dellesue letture e interpretazioni, nonché della sua esposi-zione della grammatica ittita. Il primo a schierarsi accan-to a HroznØ fu il filologo norvegese Marstrander nel1919. L’anno seguente il filologo indoeuropeo tedescoF. Sommer, dopo molti dubbi giunse alla conclusioneche l’ittita era una lingua indoeuropea come struttura,ma che il suo vocabolario era tratto principalmente dafonti indigene dell’Asia Minore. In seguito il numero deiseguaci di HroznØ crebbe costantemente e oggi nessu-no tra i fliologi indoeuropei piú seri dubita della suainterpretazione. Un giusto tributo venne reso a HroznØdal professore di ittitologia dell’Università di Lipsia,Friedrich: «Il nome di HroznØ avrà sempre una posi-zione onorevole in capo agli studi ittitologici. Egli videe comprese gli elementi basilari delle declinazioni econiugazioni ittite cosí correttamente che altri hannopotuto costruire sulle fondamenta da lui poste. Non èsorprendente che nell’opera di un pioniere ci possanoessere qua e là errori nella identificazione delle forme.HroznØ, come genio scopritore, e Sommer, come meto-dico scrupoloso, sono per cosí dire, i due cardini dellafilologia ittita». Grazie al lavoro pionieristico diHroznØ, perciò, l’ittitologia ben presto divenne un ramoindipendente della filologia e serví a gettare nuova lucesulla storia dell’Asia Minore nel II millennio a. C.

Bedrich HroznØ: The Life and Work

of a Czech Oriental Scholar, 1949

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helmuth bossert Scavi alla Montagna Nera

Helmuth Bossert (1889-1962) nacque a Landau e studiò alle

Università di Heidelberg, Strasburgo, Friburgo e Monaco. Per

qualche anno rimase uno studioso privato che concentrò il suo

interesse sul Medio Oriente, ma nel 1934 accettò la carica di

professore di lingue e cultura mediorientali all’Università di

Berlino e nello stesso tempo divenne direttore dell’Istituto per

le ricerche sulle lingue e la cultura mediorientali all’Università

di Istambul. Guidò numerose spedizioni e fece ampi studi sui

geroglifici ittiti. Dal 1947 diresse gli scavi delle rovine ittite a

Karatepe.

L’esplorazione in Anatolia, intrapresa nell’estate1945 dall’Istituto per la ricerca delle antiche civiltàorientali dell’Università di Istambul (la direzione dellaspedizione, costituita dal professor H. T. Bossert, daisuoi assistenti dottor Halet Çambel, Nihal Ongunsu eMuhibbe Darga era accompagnata da Bay Ali Riza Yal-gin della direzione delle antichità di Ankara) ci portòlungo la strada sopra il passo del Tauro che unisce Kay-seri con l’Anatolia sudorientale e la Siria settentriona-le, sopra Gezbel, Saimbeyll, Feke, Kozan e Ceyhan. Ilnostro scopo era di rintracciare, per quanto possibile,l’antica strada ittita al tempo del Nuovo Impero. Lungoil cammino approfittammo di tutte le occasioni per otte-nere informazioni dagli abitanti circa possibili monu-menti ittiti nelle vicinanze. In questo modo racco-gliemmo molti dati frammentari, che sembravano degni

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di venire esaminati. Tra gli altri c’erano confuse notiziecirca l’esistenza di un supposto rilievo rupestre ittita conun leone in qualche punto della regione montuosa a estdi Kadirli. Essendo la stagione già molto avanzata, nonpotemmo verificare subito l’esattezza di queste voci edovemmo rimandare la cosa all’anno seguente.

Quando, nel febbraio del 1946 il nostro gruppo (com-posto dagli stessi membri) si recò nella stessa regione,grazie all’aiuto di Bay Hüsameddin Arkan, direttoredella Pubblica Istruzione ad Adana, sentimmo che eranostro dovere verificare l’esattezza di questa storia; mal-grado le cattive condizioni delle strade, impraticabili perle automobili a causa delle piogge degli ultimi giorni,decidemmo di addentrarci nella regione montuosa oltreKadirli. Considerando le difficoltà del viaggio in questecondizioni e la vaghezza delle nostre informazioni, tutticercavano di dissuaderci dall’impresa e noi stessi erava-mo pienamente consapevoli del fatto che, sebbene lamaggior parte delle notizie abbiano qualche fondamen-to di verità, tutta la faccenda poteva dimostrarsi moltodeludente, perché il rilievo poteva benissimo essere unmonumento romano, dato che nella regione di Kadirli imonumenti di quest’epoca non sono rari. Dopo avereben riflettuto decidemmo di continuare le nostre ricer-che in due direzioni diverse e di dividerci in due grup-pi di cui uno formato da Nibal Ongunsu e da MuhibbeDarga doveva recarsi ad Adana e di qui nella regione diMersin, mentre l’altro formato da me e dal dottor HaletCambel nonché da Bay Naci Kum, direttore del Museodi Adana, che si era nel frattempo unito al nostro grup-po e fu cosí gentile da accompagnarci, doveva raggiun-gere Kadirli.

Il 27 febbraio alle tredici noi tre lasciammo Kozancon un carro trainato da cavalli. Dapprima le stradeerano abbastanza buone e finché attraversammo unacatena di colline non molto alta non incontrammo gravidifficoltà. Raggiunto il villaggio di Koseli, nella pianu-

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ra a est di questa catena di montagne, venimmo comun-que a sapere dai contadini che, a causa delle abbondan-ti piogge, la strada per Kadirli si era trasformata in unacquitrino. Fummo perciò obbligati a rimandare aKozan il nostro carrettiere che, oltre a non conoscere lestrade, aveva scelto dei cavalli in condizioni tali che nonsi poteva pretendere superassero le difficoltà di unamarcia attraverso una specie di palude; e dovevamo tro-varne uno migliore prima che fosse troppo tardi nellagiornata. Con il gentile aiuto della gente del villaggio ciriuscimmo, e dopo pochi minuti era pronto un altrocarro con cavalli robusti. Un poco oltre Koseli, dopoessere passati attraverso il villaggio Karaömerli e avervisitato per i cocci il «Mustafa Alinin Hüyügü» che sitrova vicino alla strada, ci accorgemmo che la stradaprincipale si era trasformata completamente in acqui-trino e fummo perciò davvero contenti di aver trovatoquesto nuovo «auriga» che, attraverso a un labirinto dipiste carraie, ci portò sani e salvi a Kadirli, malgrado nelfrattempo fosse scesa l’oscurità e fossimo accidental-mente finiti in un fosso.

Alle diciannove e trenta passate fermammo davantiall’ufficio municipale di Kadirli, dove le autorità locali,avvertite per telefono del nostro arrivo, ci aspettavanogià. Ci invitarono gentilmente a cena con loro e duran-te l’eccellente pasto offertoci proprio nel salone delmunicipio avemmo l’occasione di parlare con il kay-makam di Kadirli, Bay Múnir Alkan, con Bay IbrahimSavrun, capo della municipalità, con Bay Tevfik Coskun(membro del consiglio municipale) e con Bay HilmiInan, direttore della scuola primaria di Kadirli. Espo-nemmo loro i nostri progetti e chiedemmo ulterioriinformazioni sul monumento in questione. Sfortunata-mente nessuno di questi signori lo aveva mai visto o neaveva sentito parlare e cosí la nostra prima esperienzafu deludente e deprimente. Ma non perdemmo tutte lesperanze e chiedemmo se c’era a Kadirli qualcuno che

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conoscesse bene la regione, che l’avesse percorsa in ognidirezione e si fosse pertanto imbattuto nel nostro monu-mento. Ci dissero che l’uomo che cercavamo era BayEkrem Kusçu, da venti anni maestro alla scuola prima-ria di Kadirli, il quale, si diceva, aveva percorso piú diuna volta la regione. Venne mandato a chiamare imme-diatamente e arrivò poco dopo: con nostra grande gioiapoté darci informazioni molto esatte sul monumentoche, ci disse, aveva visitato ben quattro volte nel corsodegli anni 1927-44.

Secondo quanto ci disse, il monumento con il leonenon era un rilievo rupestre ma una scultura a tuttotondo, una base a forma di leone. Su di essa in origineera collocata la statua di un uomo, ma col passar deglianni la statua era caduta e aveva perso la testa. Il corpoera tutto coperto di iscrizioni cuneiformi. Il monumen-to, ci disse, si trovava a cinque ore o cinque ore e mezzadi cavallo ad est di Kadirli, in cima a un’altura boscosache faceva parte di una lunga montagna coperta di fore-ste chiamata Karatepe. Tutto intorno si trovavano fram-menti di pietre con rilievi e resti di iscrizioni. Eranotutte di un tipo di pietra nera che non si trova natural-mente nelle vicinanze, e che deve perciò essere stata tra-sportata da una notevole distanza. Inoltre un gran nume-ro di pietre nere dello stesso genere sono sparse sulla rivaopposta del fiume Ceyhan, che scorre al di là del Kara-tepe; queste sicuramente non possono essere altro che iresti di un’antica città appartenente al castello. BayEkrem ci disse inoltre che, secondo le informazioni rac-colte tra gli abitanti, la statua, compresa la testa, eraancora in piedi sessanta anni prima. Eravamo natural-mente curiosi di sapere se il maestro aveva trovato que-sto remoto monumento Per caso o se ne aveva avutonotizia dalla gente del posto. In proposito ci disse chela sua attenzione era stata richiamata sul monumento nel1927 da Abdullah che a quel tempo aveva ottanta anni(ed era morto nel 1932), figlio di Vahab e padre del-

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l’attuale muhtar di Kizyusuflu (villaggio che si trova trail Karatepe e Kadirli). Proseguendo ci raccontò questastoria. Nel 1915 un saggio hodja venne a Kizyusuflu esi fermò per due mesi come ospite nella casa di Abdul-lah. Non potendo sdebitarsi con lui per l’ospitalità, glipropose di dargli il beneficio della sua saggezza aiutan-dolo a scoprire un tesoro. Egli disse «mostrami un postoe io troverò un tesoro per te». Abdullah allora lo portòal monumento del leone, ma il hodja spiegò che quelloera il monumento funebre eretto dai sudditi ad un resbranato da un leone durante una caccia e pertanto,dichiarò, lí non si sarebbero trovati tesori. Abdullahdoveva condurlo in un altro posto. Allora egli lo con-dusse a Bodrum, piú in basso sul fiume Ceyhan, ma nonsappiamo se abbiano trovato il tesoro o no.

Bay Ekrem ci disse inoltre che, tranne i contadini,lui e un uomo di Mersin che egli conosceva, nessuno, ein particolare nessuno studioso, aveva ancora visitatol’antica località. Un tempo egli aveva parlato del monu-mento a Bay Ali Riza Yalgin allora direttore del Museodi Adana, ma non lo aveva condotto sul posto. Bay AliRiza, con cui discutemmo piú tardi l’argomento, con-fermò ciò che aveva detto il maestro; Ali Riza era statoa Kadirli nella primavera del 1939 per studiare le abi-tudini dei Turcomanni della regione e aveva incontra-to il maestro in quell’occasione. Bay Ali Riza attirò lanostra attenzione su un articolo intitolato I Turcoman-ni di Kadirli pubblicato nel Türksözü che uscí ad Adanail 19 aprile 1939 dove, basandosi sull’informazioneorale del maestro, aveva scritto: «Con tutto ciò Kadir-li è in grado di fornirci monumenti di epoche ancora piúantiche, ma questi si trovano nelle montagne e sono perle loro condizioni intrasportabili. Le rovine di Karate-peli sul fiume Ceyhan in particolare possono essere con-siderate tra le piú importanti e degne di venire esami-nate».

In base a questa informazione decidemmo di recarci

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al monumento il giorno dopo e chiedemmo al maestrodi essere cosí gentile da guidarci, cosa che egli fecevolentieri. Grazie all’ospitalità di Bay Ibrahim Savrune di Tevfik Coskun e delle loro famiglie passammo aKadirli una notte molto riposante.

Il giorno dopo alle ore otto e trenta trovammo davan-ti al municipio i cavalli necessari e partimmo senza indu-gio. Sulla carta, che dobbiamo alla cortesia delle guar-die forestali del Dipartimento forestale del distretto diKadirli, il nostro itinerario è indicato da una serie dipunti e trattini. Esso si dirigeva dapprima piú o menoa est attraverso ad una valle e su nella regione montuo-sa, poi, sempre seguendo la catena, volgeva in direzio-ne sud a Dögüsgedigi verso il Karatepe, una montagnanera che si poteva distinguere in distanza. La strada erapercorribile a cavallo, sebbene fosse rappresentata sol-tanto da uno stretto sentiero. Favoriti dal piú bel tempoprimaverile cavalcavamo tra cespugli carichi di germo-gli, alberi e bassi pini, e dopo tre ore e mezzo giungem-mo a Kizyusuflu, un villaggio di case sparse. Qui tro-vammo i recipienti per l’acqua necessaria a inumidire lacarta per i calchi. Un uomo del villaggio, Haci Aga, ciaccompagnò a piedi. Sempre seguendo la cresta delle col-line cavalcammo felicemente sempre piú avanti, con unavista meravigliosa delle alture coperte di neve dell’An-titauro a est e a sud dell’Amano che avevamo varcatoappena poche settimane prima. Il nostro sentiero discen-deva ora gradatamente in una valle e, dopo aver oltre-passato un’altra altura, ci condusse ad Akyol (che i loca-li pronunciano Agyol). Questa è una antichissima stra-da carovaniera ancora usata dagli abitanti della regionequando si recano ai pascoli estivi o ne ritornano. Davan-ti a noi si stendeva ora una montagna assai boscosa, conun’altezza massima di circa cinquecento metri; era ilKaratepe, sul cui sperone piú settentrionale, ma il piúbasso, si doveva trovare il monumento con il leone.

L’ascesa a questo punto per uno stretto sentiero da

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pastori non offriva alcuna difficoltà. In quindici minu-ti raggiungemmo la cima e davanti a noi giacevano lerovine del distrutto castello ittita.

Non lontano da dove il sentiero dei pastori ci avevaguidati alla sommità della collina giaceva rovesciato ilmonumento con il leone che stavamo cercando. Questabase, che mostrava un rilievo con due leoni sollevati daun uomo in piedi, non sembrava essere in situ e proba-bilmente sorgeva prima su una piattaforma ricavata nellaroccia naturale non molto lontano. La statua umana cheessa sorreggeva giaceva rovesciata lí accanto. Mancavala testa e non si vedevano frammenti che potesseroappartenerle, almeno nelle immediate vicinanze. Questastatua giaceva sulla faccia; le spalle, abbastanza leviga-te, erano coperte da un’iscrizione in antico aramaico diventi righe. Gli inizi di righe sul davanti, visibili anchesenza rivoltare la statua, mostravano che qui era stataincisa un’altra iscrizione. Tenendo conto del gran pesodella statua e del fatto che il terreno al di sotto era moltoroccioso, non ritenemmo prudente cercare di rivoltarlaperché il rischio di danneggiare il retro straordinaria-mente ben conservato sarebbe stato troppo grande. Laparte anteriore della statua era già stata danneggiataprobabilmente nel momento in cui era stata abbattutaviolentemente dalla sua base, ed era possibile che unframmento con un’iscrizione in antico aramaico che gia-ceva lí presso ne facesse parte. Il primo problema che sipresentò fu se dovevamo cercare di copiare l’iscrizionesulla parte posteriore o se non avremmo fatto meglio,tenendo conto che avevamo solo tre ore a nostra dispo-sizione, a cominciare i calchi subito dopo aver fatto lefotografie necessarie. Poiché l’iscrizione era parzial-mente coperta di alghe, che non avrebbero permesso unalettura sicura dappertutto senza una pulizia prelimina-re, ci sembrò preferibile iniziare immediatamente i cal-chi, anche a rischio che, data la stagione, non si seccas-sero completamente.

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Mentre uno di noi (H. Çambel) era occupato con lefotografie e i calchi, l’altro (H. T. Bossert) cercava altrepietre con rilievi o iscrizioni. Sebbene la ricerca fosseabbastanza difficile, perché tutto attorno abbondavanoi cespugli spinosi, il fatto che le pietre usate per le iscri-zioni e le sculture fossero di colore piú scuro e piú duredella pietra naturale della montagna Karatepe fu di gran-de aiuto. Prima di tutto rivoltammo le pietre che erapossibile smuovere nelle immediate vicinanze della basecon il leone, ed erano parzialmente affondate nel terre-no; vennero cosí riportati alla luce numerosi frammen-ti con iscrizioni e sculture. Sebbene le sculture, tranneuna sola eccezione, fossero assai danneggiate, alcunealmeno poterono ancora essere identificate come rilievi«ittiti» apparentemente di uno stile anche piú rozzo diquello dei rilievi di Zincirli e Islahite. Nella grande mag-gioranza avevano probabilmente fatto parte di ortosta-ti del tipo di quelli conosciuti da altri edifici ittiti. Unarappresentazione come i tre uccelli disposti l’uno sul-l’altro, malgrado tutta la sua ingenuità, sembra suggeri-re che in questa località si possono trovare anche moti-vi nuovi. Fra i reperti piú importanti c’erano, comun-que, i frammenti di un’iscrizione geroglifica ittita, per-ché, finora, iscrizioni su pietra in antico aramaico e ingeroglifico ittita mai erano state trovate a fianco a fian-co. Mentre le iscrizioni in antico aramaico di Karatepe,per quanto ne sappiamo ora, sono tutte incise, sembrache almeno una fra le iscrizioni geroglifiche mostri unaccurato lavoro di rilievo. Per quanto si può giudicareil carattere delle iscrizioni geroglifiche incise, sembrache esse appartengano press’a poco alla stessa epocadelle iscrizioni in antico aramaico. Un’altra grande sor-presa fu la scoperta di un piccolissimo frammento conun’iscrizione che, sebbene fosse di pochissime lettere,poteva essere identificata di tipo bustrofedico. Finoranon si sono incontrate iscrizioni aramaiche di questogenere e non c’è ragione di credere che ne esistano. È

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perciò molto probabile che questa iscrizione non fossescritta in antico aramaico, ma piuttosto in qualche lin-gua non semitica, usando però i caratteri dell’antico ara-maico. Inoltre, trovammo il frammento del petto diun’altra statua con un’iscrizione in antico aramaico, chenon ci sembra necessario descrivere in questo rapportopreliminare perché ne restano visibili solo pochissimelettere.

La maggior parte delle scoperte fatte in questo breveperiodo di tempo avvenne attorno alla base con leone.Nel resto della cima della collina si notò un gran nume-ro di frammenti di pietra dello stesso tipo, ma sembra-va che non avessero né iscrizioni né decorazioni di sorta,sebbene ciò senza dubbio potesse essere puramente acci-dentale. Dato il breve tempo e la folta boscaglia, che ren-deva l’esplorazione difficile, i fianchi e la base della col-lina non poterono essere esaminati minuziosamente, seb-bene con ogni probabilità si devono ancora trovare línumerosi frammenti con iscrizioni e sculture. Ciò non-dimeno sul pendio venne notata una base di colonna evi-dentemente non in situ, dello stesso tipo di quella di Zin-cirli, ma senza alcuna decorazione plastica; e in diversipunti si incontrarono resti delle mura di una cittadelladistrutta violentemente. Si dovrebbe inoltre notare che,quasi al centro della cima della collina, si poteva ancoravedere una formazione rocciosa, da cui erano state evi-dentemente prese le pietre per la costruzione della cit-tadella. Due fosse, una accanto alla base con il leone el’altra piú vicina alla cima della collina, dimostravano checontadini e pastori avevano scavato qua e là a Karatepecon la speranza di un tesoro... Si cercavano anche deicocci, ma, poiché sulla cima della collina la roccia natu-rale è molto vicina alla superficie, le piogge hanno pro-babilmente asportato la maggior parte dei cocci e si rie-sce a trovare solo pochi piccolissimi frammenti di cera-mica color cuoio che non danno nessuna indicazione nésulla forma, né sul tipo, né sull’epoca.

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La boscosità del territorio ci impediva di vedere lerovine della città sull’altra riva del fiume. Queste rovi-ne probabilmente appartenevano alla cittadella del Kara-tepe. Solo arrampicandosi sulla cima di un albero si potéprendere una fotografia dell’area dove si diceva ci fos-sero altri resti. Avendo poco tempo ed essendo il fiumeCeyhan molto grosso in questo periodo dell’anno, nonera possibile attraversarlo per esaminare le rovine.

Stava lentamente annottando e le nostre guide ave-vano fretta di ripartire. I calchi erano lungi dall’essereasciutti e non ci restava altro da fare che portarli giú concura e asciugarli al fuoco; pertanto li deponemmo accu-ratamente in una scatola di latta. Mettemmo negli zainii frammenti piú piccoli da portare al Museo di Adana e,fatta una ultima fotografia del nostro gruppo, ci incam-minammo verso il quartiere per la notte, cioè la casa dimolla Mehmet a Kizyusuflu, distante un’ora e mezzo distrada.

I resti delle iscrizioni, rilievi, statue e i muri della cit-tadella che ci lasciavamo alle spalle e che sparivano len-tamente dalla nostra vista, erano la prova concreta cheavevamo guadagnato per la scienza una nuova localitàittita.

Karatepe, 1946

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friedrich dörnerLa residenza reale sul «fiume delle Ninfe» (Ninfeo)

Friedrich Karl Dörner è nato nel 1911 a Gelsenkirchen in

Germania e ha studiato all’Università di Greifswald dove si è

specializzato in storia antica, lettere classiche e archeologia. Ha

viaggiato ampiamente nella regione del Mediterraneo orienta-

le ed ha visitato per la prima volta Commagene in Siria nel

1938. È membro dell’Istituto archeologico tedesco a Berlino

e ad Istambul e dell’Accademia delle scienze austriaca, e ha

insegnato alla Università di Tubinga. Dal 1950 copre la catte-

dra di storia antica all’Università di Münster. Nel 1951 scoprí

il palazzo reale di Arsameia a Commagene, dove da allora ha

sempre condotto i suoi scavi.

La scoperta in Commagene della residenza reale diArsameia sul fiume delle Ninfe non fu frutto del caso,ma il risultato di un esame sistematico della regione cul-turale di Commagene sull’alto Eufrate nella magnificazona montagnosa dell’Antitauro. Nella letteratura anti-ca ci sono solo pochi riferimenti a questa regione. Fa lasua prima apparizione negli annali dei re Assiri in cuisi ricorda che i re di Kummhi (Commagene) dovevanopagare tributo all’Assiria e fornirle, soprattutto, il pre-zioso legno di cedro allora molto ricercato. Sembra chein quel periodo, durante il regno di Sarrukin (Sargon)II, che regnò dal 721 al 705, essa facesse parte del-l’impero assiro.

Sebbene il paese, dati i suoi importanti punti di pas-saggio sull’Eufrate, debba aver rivestito un ruolo impor-

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tante per quanto riguardava le comunicazioni tra laMesopotamia settentrionale e le coste mediterranee, esebbene la sua posizione fosse anche interessante per iltraffico verso la via per terra in direzione dell’AsiaMinore, non sappiamo nient’altro della sua storia per isecoli successivi. Commagene non è piú menzionata neidocumenti storici fino al I secolo a. C. quando i Roma-ni cercarono di spingere i loro confini orientali verso inemici parti. È comprensibile che queste fonti, scrittedal punto di vista romano, non contengano commentimolto favorevoli su di un paese i cui sovrani cercaronodi mantenere la loro indipendenza politica e culturalenella lotta tra l’impero romano e il regno partico.

A questi documenti antichi si aggiunse un inaspetta-to, felice accrescimento di informazioni con i risultati diuna spedizione germanica che si recò a Commagene nel1883 sotto la direzione di Karl Humann e Otto Puch-stein. I due studiosi erano stati incaricati dalla Accade-mia delle scienze di Berlino di esaminare la necropoli delre di Commagene Antioco I costruita su una delle cimedell’Antitauro. Si provò che i resoconti fantastici chel’ingegnere tedesco Karl Sester aveva per primo inviatoa Berlino non erano affatto esagerati. Una «città deimorti» esisteva davvero a piú di duemila metri di altez-za sul Nemrud Dagh costruita da Antioco «piú vicinapossibile ai Troni Celesti». Un reperto particolare fuquello di un’iscrizione monumentale, unico documentocontemporaneo. in cui Antioco aveva fatto registrare perla posterità le sue idee religiose. Non era meno sor-prendente vedere il re nelle vesti del fondatore di unareligione i cui elementi erano quelli delle religioni delmondo greco e persiano. Di fronte al tumulo funerario,alto piú di cinquanta metri, il re si era fatto rappresen-tare in mezzo alle divinità locali, nelle proporzionimonumentali, rigide e statiche che i capi dell’Orienteprediligevano, come le masse inerti di rocce sul paesag-gio montano.

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Nella pubblicazione dei risultati del loro viaggio,Humann e Puchstein espressero il desiderio che si intra-prendesse un’estesa esplorazione. Ma gli scavi sensazionalisulla costa occidentale dell’Asia Minore presero il soprav-vento, anche perché quelle località erano piú facilmenteaccessibili che la solitaria irraggiungibile zona montuosa.Cosí ci volle piú di mezzo secolo perché l’interesse deglistudiosi per Commagene si riaccendesse nuovamente.

La mia prima spedizione a Commagene, che feci nel1938 con R. Naumann, sfortunatamente rimase non piúdi un breve preludio. Durante gli anni di guerra nondimenticai mai la promessa fatta a me stesso e ai mieiamici del luogo di tornare per nuove ricerche. Nel 1951potei finalmente mantenere la mia parola, e fui cosí for-tunato da trovare, immediatamente nei primi giorni discavo, la residenza reale di Arsameia sul fiume delleNinfe. Avevamo già levato il campo prima dell’alba eraggiunto il piccolo villaggio di Alut dopo una lungacavalcata su un altipiano brullo e bruciato dal sole.Come fu piacevole stendersi sui colorati tappeti tessutia mano stesi dagli abitanti del villaggio in segno di ben-venuto accanto ad una freschissima fonte, all’ombra dialberi frondosi! Rapidamente scartammo le nostre prov-viste, cui i nostri ospiti aggiunsero yoghurt fresco esplendida uva. Poi cominciarono i soliti discorsi orien-tali a base di «donde venite» e «dove siete diretti».Quando gli abitanti del villaggio sentirono che cercavole località con antiche rovine, venne pronunciato per laprima volta il nome turco della montagna che si leva líaccanto «Eski Kale» (cioè «vecchio castello») dove erastato scoperto un «quadro di pietra». Ero impaziente diesaminare piú da vicino questa località, ma, come capi-ta spesso in Oriente, dovetti frenare la mia impazienzaperché Nuri che sembrava il piú informato su Eski Kale,non desiderava affatto farmi da guida nel caldo soffo-cante e mostrarmi lo stretto sentiero sulle ripide alture.Egli suggeriva di aspettare il fresco della sera accanto

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alla fonte. Cosí vidi per la prima volta la leggendaria col-lina del castello alla luce del sole calante. Da tutte leparti i fianchi scendono ripidi e scoscesi e l’accesso erapossibile solo della parte meridionale. Ma dov’era ilcastello che aveva dato nome a questa collina nuda edesolata? Cercai invano tracce di muri o resti di forti-ficazione. Quando chiesi a Nuri perché questa monta-gna si chiamava «Vecchio Castello», egli si strinse nellespalle e mi disse con circospezione: «Già mio nonno lachiamava cosí».

Ciò nonostante ardevo dal desiderio di vedere «Ilquadro di pietra». Esso doveva essere stato scoperto direcente e lasciato dov’era da contadini in cerca di pie-tre per costruire la loro casa, perché troppo pesante daportare a valle. Un primo sguardo mi bastò per stabili-re che si trattava di un frammento dell’epoca di Com-magene, rappresentante il dio della luce persiano, Mitra,con una grande corona di raggi, primo importante indi-zio sulla natura del «Vecchio Castello».

Con rinnovato zelo cercai ancora e scoprii che il fian-co meridionale un tempo era stato terrazzato e che ladistruzione delle mura aveva sepolto tutti gli edifici.Attrasse particolarmente la mia attenzione una pareterocciosa artificialmente appiattita.

Era mai possibile che le pareti rocciose non solo fos-sero levigate, ma anche coperte di iscrizioni? Per unmomento mi sembrò proprio cosí. Nella mia eccitazio-ne mi avvicinai di piú alla roccia e la guardai di facciacon la luce del sole calante alle spalle. Non potevo anco-ra vedere altro che una grigia parete di roccia molto scre-polata e incrinata. Mi allontanai deluso. Certamente erastato un gioco della mia fantasia, ma all’improvviso vidiqualcosa. Alla luce radente che colpiva obliquamenteapparvero linee di lettere orizzontali e verticali, appenavisibili, fra i segni delle pietre deteriorate dalle intem-perie. Tutto eccitato chiesi una pala e un piccone; intan-to cominciai a ripulire dalla polvere l’iscrizione con il

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fazzoletto e a togliere con le mani la terra dalla pareterocciosa. Prima ancora che mi fossero portati gli stru-menti, la mia supposizione aveva trovato conferma: mitrovavo di fronte a un’iscrizione in lettere greche.

I primi colpi di piccone spezzarono i detriti che ave-vano protetto dalla distruzione e dalle intemperie le let-tere piú in basso; l’iscrizione emerse dal terreno piú bellae meno danneggiata di quanto avessi osato sperare. Neigiorni seguenti cercai di rimuovere le macerie accumula-te di fronte alla parete rocciosa. Un primo tentativo dilettura mi dimostrò che mi trovavo di fronte alla fine diuna iscrizione disposta in varie colonne, la quale, a giu-dicare dal tipo di caratteri, apparteneva al tempo del reAntioco, cioè alla prima metà del I secolo a. C.

Naturalmente cercai subito di arrivare all’inizio del-l’iscrizione; ma questo era un compito difficile, per l’e-norme ammasso di detriti. Quando una terza colonnaseguí la seconda fui felice della mia scoperta ma anchedisperato per l’impossibilità di penetrare piú addentronello spesso ammasso dei detriti della terrazza. Ma l’im-provvisazione è la grande risorsa di ogni esplorazione!Perciò decisi di non tentare la rimozione completa e discavare un tunnel lungo la parete rocciosa. Fortunata-mente nella parete c’era una curva dopo la quarta colon-na cosí che l’iscrizione ora correva parallela alla pendi-ce. Con la quinta colonna avevo trovato finalmente l’i-nizio della iscrizione.

Come l’iscrizione reale di Nemrud Dagh, che inmolti punti le rassomigliava, anche questa era stataincisa per comando del re Antioco di Commagene. Inlinguaggio elevato, in splendidi caratteri, il re annun-ciava qui che il suo regale padre, Mitridate Callinico,aveva scelto questa località come Hierothesion, cioècome sacro luogo di riposo; egli decretava che vi sidoveva praticare un culto per padre e figlio, per cuidava esatte istruzioni.

Per fortuna il re nella iscrizione faceva anche riferi-

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mento alla località. Lodava la posizione eccellente peruna fortificazione che aveva indotto il suo antenatoArsame a costruirvi una fortezza e a fondarvi una città,che in caso di bisogno avrebbe sempre costituito unrifugio sicuro per la famiglia reale. Arsame aveva chia-mato la città Arsameia sul fiume delle Ninfe in suoonore e qui «alla periferia di Arsameia» era stato sepol-to, secondo i suoi desideri, il padre di Antioco.

Se non fossi stato fermamente convinto che unoscavo della residenza reale di Arsameia e la ricerca dellatomba reale erano molto significative per le nostre cono-scenze storiche, se non avessi avuto fiducia che dove-vamo riuscire nella realizzazione di questo piano avreisubito desistito per le enormi difficoltà. Ma volere èpotere. Occorsero due anni per raccogliere tutti i dati eper fare accettare dalle parti interessate il preventivodello scavo. Il governo turco concesse il permesso per lericerche ad Arsameia sul fiume delle Ninfe e cosí nel-l’autunno del 1953 e del 1954 potei iniziare i lavori.

Naturalmente il nostro interesse era concentrato sul-l’area dello Hierothesion del re Mitridate Callinico. Lagrande iscrizione del re era completamente scoperta:insieme ad essa trovammo il magnifico rilievo con lascena del saluto tra il re Mitridate e il dio Eracle. Que-sta opera supera tutti gli altri rilievi finora trovati aCommagene per qualità di esecuzione ed è importanteper la storia dell’arte come splendido esempio della rein-terpretazione che la cultura ellenistica subí nella sferaorientale. Ma dov’era la tomba del re? Era forse nellacollina del castello? Infatti dietro la terza colonna ave-vamo scoperto un arco tagliato nella roccia che forma-va l’ingresso di un passaggio accuratamente scavato nellaroccia, all’interno del quale una rampa di gradini rocciosiscendeva con un angolo di inclinazione di trentacinque-quarantacinque gradi.

Lo scavo di questa scala presentava una grossa diffi-coltà tecnica; infatti l’ingresso era stato ricavato in

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numerosi punti attraverso gravi fratture della roccia e gliantichi costruttori avevano continuato, senza preoccu-parsi che a strati piú consistenti si alternassero stratimeno consistenti, a intagliare il passaggio a gradini nellastessa direzione scelta all’inizio anche se, in questomodo, a varie profondità si doveva penetrare in stratipoco consistenti. A giudicare dai frammenti trovati,qualcuno aveva fatto anticamente proprio ciò che sta-vamo facendo noi, cioè aveva puntellato i punti piúpericolosi con sostegni lignei. Dopo ognuna di questesezioni sconvolte, riscoprivamo sempre la continuazio-ne del passaggio e riuscimmo alla fine a raggiungere laprofondità di centoquindici metri. Però nell’autunnodel 1954 dovemmo interrompere i lavori a metà di unostrato argilloso per mancanza di attrezzatura tecnicaadatta e cosí non sappiamo ancora se il passaggio por-tava realmente alla tomba del re Mitridate o se servivaa qualche altro scopo all’interno del santuario.

Contemporaneamente venivano eseguiti lavori anchein altri punti del fianco meridionale, dove trovammouna serie di fondamenta di piedistalli, di cui alcuni reca-vano ancora frammenti dei loro rilievi. Ottenemmoanche importanti risultati dallo scavo degli strati di cul-ture sulla parte alta della piattaforma montagnosa. Diqui si ebbe la prova che Eski Kale era stato abitatoanche in periodo postcommageniano fino al medioevo,e che aveva ospitato uno stanziamento molto prima dellafondazione ellenistica di Arsameia, addirittura in tempipreistorici. Cosí Eski Kale emerse inaspettatamente dal-l’oscurità come una località residenziale privilegiata nellaregione di Commagene e possiamo sperare che la esplo-razione del tumulo del castello accresca le nostre cogni-zioni circa l’Asia Minore orientale in quanto punto diunione tra le regioni mediterranee e le sviluppatissimeculture asiatiche.

Die Königsresidenz am Nymphenfluss, 1956

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claude schaeffer La scoperta di Ugarit

Claude-Frédéric-Armand Schaeffer è nato nel 1898 in Alsazia,

ha studiato archeologia all’Università di Strasburgo e di Parigi

ed ha sposato la figlia di un eminente archeologo. Egli non ha

lavorato solo nei musei e in spedizioni di scavo, ma è stato con-

sulente per le antichità di organizzazioni statali come la Com-

mission des fouilles et missions archéologiques e il Consiglio

nazionale della ricerca scientifica. Ha reso grandi contributi

all’archeologia dell’Egeo con i lavori a Enkomi (Cipro) e gli

scavi della località della antica Ugarit ora chiamata Ras Sham-

ra, che a tutta prima identificò erroneamente con Sapuna.

Gli scavi a Minet el Beida e Ras Shamra, cominciatinel 1929 e continuati nel 1930, furono intrapresi perconsiglio di René Dussaud, membro dell’Istituto, e con-servatore del Louvre. Il porto naturale di Minet el Beida(la Baia Bianca) si apre di fronte a Cipro e proprio que-sta circostanza diede al Dussaud l’idea di una coloniamicenea di Cipro che importava di là il rame che dove-va esservi sbarcato e trasportato verso l’interno e laMesopotamia. Questa teoria sembrava confermata dallapresenza a mille metri dalla baia di un alto tell (tumu-lo), chiamato dalla gente del posto Ras Shamra («capofinocchio») che poteva ben nascondere le rovine di que-sto presunto porto marittimo.

Nel 1928 avvenne accidentalmente la scoperta di unsepolcro a Minet el Beida costruito a modiglioni con uncorredo di ceramica micenea e cipriota databile al xiii

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secolo a. C. Questa era la prima conferma delle teorierelative all’antichità di Minet el Beida e Ras Shamra.L’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, su sug-gerimento di Dussaud, organizzò una spedizione perlocalizzare l’antico porto, la città e i cimiteri di Minetel Beida. La direzione venne affidata a me, che scelsicome mio assistente Chenet, ben noto grazie ai suoiscavi delle fornaci romane e delle industrie di vetrodelle Argonne.

I nostri scavi presso la Baia hanno rivelato un impor-tante cimitero con alcune grandi tombe rettangolari convolta a modiglione, cui si giungeva attraverso un brevevestibolo o cortile antistante con scale, tutto accurata-mente costruito in blocchi di pietra ben lavorati. Unadi queste tombe era nascosta sotto un edificio abba-stanza importante, a giudicare dalle colonne con mura-tura attaccata che costituiscono tutto ciò che ne rima-ne oggi e sono di difficile identificazione. In direttacomunicazione con le tombe c’erano altri edifici anco-ra piú importanti, uno dei quali fu completamentesgombrato quest’anno; conteneva tredici sale, stanze ecorridoi, senza contare il piano superiore di cui sonorimasti la scala e il pianerottolo. Questo edificio è gene-rosamente fornito di pozzi e condutture d’acqua resitutti inservibili perché riempiti artificialmente o coper-ti di calcestruzzo. Sopra questi pozzi e accanto ad essi,lungo i corridoi, nelle stanze e ai piedi di quasi ognicolonna, giacevano offerte votive di vasi dipinti mice-nei e ciprioti, ceramica ordinaria e oggetti di bronzo,d’argento e d’oro come spilloni, lampade, coltelli epugnali. Ciò dimostra che l’edificio non doveva servirea scopi esclusivamente utilitari. Forse può essere consi-derato una di quelle case del morto del tipo che qual-che faraone egiziano si era fatto costruire accanto allapropria tomba. Il paragone è legittimato dal fatto chela civiltà di Ras Shamra, come vedremo, ereditò moltielementi da quella della valle del Nilo.

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Una serie ancora piú importante di scoperte ci aspet-tava a nord di queste tombe verso il mare. Qui a unaprofondità fra metri zero e cinquanta e metri uno e cin-quanta, accanto a un ambiente rozzamente costruito,giacevano circa ottanta depositi costituiti da ceramicacipriota, micenea e locale, oggetti di bronzo e armi, pesidi pietra corrispondenti in parte alla mina egiziana diquattrocentotrentasette grammi, conchiglie e sempliciciottoli levigati della vicina spiaggia. Vi erano anchecuriose tavolette di pietra, steli perforate e falli di pie-tra grandi e molto naturalistici. Il deposito piú ricco,quasi al centro del gruppo, conteneva due statuette diOrus in forma di falco, di stile egiziano; una, di bron-zo, portava la doppia corona dell’Alto e del Basso Egit-to, l’altra, di bronzo e d’oro, teneva tra le zampe l’ureo.Non lontano giaceva la statuetta di una divinità sedutacon occhi d’argento e di smalto in atto di benedire conla mano tesa, nel modo di certe divinità siriache. L’og-getto principale del gruppo è la statuetta (alta venticin-que centimetri), del dio siriaco Reshef, talvolta identi-ficato con Baal; è di bronzo argentato e la testa e l’altaacconciatura sono costituiti da una foglia d’oro. Il dio erappresentato in piedi; originariamente nella manodestra brandiva un fulmine o l’ascia da guerra, mentrenella sinistra teneva uno scettro o una lancia, come inaltre rappresentazioni di Ras Shamra.

Non lontano dal maestoso Reshef giaceva la sua com-pagna, la dea Astarte con l’acconciatura di Hathor e unfiore di loto in mano. La sua bella figura snella è arti-sticamente lavorata in una foglia d’oro; completava iltesoro una collana di quarzo e cornalina.

Possiamo immaginare che queste offerte votive e quel-le accanto fossero state sepolte in onore di qualche impor-tante personaggio, probabilmente i re della vicina città diRas Shamra, deposti nelle tombe trovate lí accanto.

La prima tomba, le cui lastre di copertura affiorava-no quasi alla superficie, era stata saccheggiata dalla gente

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del posto. Fra le sue rovine venne trovata della cerami-ca cipriota e micenea del xiii secolo, una spatola incisae un braccialetto di bronzo.

La tomba numero due era stata sfruttata come cavadi materiale già in tempi antichi. I tre corsi superioridella bella volta a modiglioni e quelli della scala eranostati asportati; la stessa volta, le nicchie votive apertenelle pareti e il piccolo recesso erano anch’essi stati sac-cheggiati. Punte di frecce, spatole di bronzo e qualcheframmento di ceramica trovati sul pavimento dellatomba mostrano che anch’essa appartiene, come tutto ilresto, al tardo periodo miceneo e può essere datata piúprecisamente al xiii secolo a. C.

La terza tomba, che è quasi intatta, fu anch’essa visi-tata dai ladri nei tempi passati; essi entrarono attraver-so un foro nel soffitto, si impadronirono di tutti glioggetti di metallo prezioso che potevano esserci nellatomba, e prima di andarsene richiusero nuovamente ilforo. Fortunatamente la loro visita fu clandestina e mal-grado il disordine lasciato una parte degli arredi fune-bri, assai sontuosi, rimase intatta e i ladri non entraro-no neppure nel corridoio. Noi entrammo nella tombaattraverso il suo ingresso vero e proprio raccogliendo leofferte originarie di ceramiche disposte all’angolo diogni gradino mentre la parte centrale della scala resta-va libera. Queste offerte consistevano in lampade diterra cotta caucanita, piccoli vasi conici, un bel crateremiceneo con ornamenti sovrapposti, un magnifico eintatto vaso egizio di alabastro a due manici. Sulla sogliadella porta della camera giaceva un teschio umano benconservato; è difficile dire se esso apparteneva a unservo sacrificato e sepolto all’ingresso della tomba delsuo padrone, o se venne gettato qui dai ladri quandofecero irruzione nella tomba.

Gli scheletri, almeno quattro, hanno subito danniper opera dei ladri; le ossa erano sparse e i crani spez-zati, ma nella fretta i ladri non cercarono a fondo negli

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angoli della tomba e quindi non trovarono anelli e granid’oro o d’argento e di ferro, che allora veniva conside-rato un metallo prezioso, sigilli cilindrici di ematite,vasi di porcellana e d’alabastro e soprattutto scatoleovali di avorio una delle quali ha un coperchio splendi-damente inciso, che rappresenta la dea della fertilità (la«potnia-theron») seduta su un trono fiancheggiato dadue caproni ed è indiscutibilmente il piú bell’avoriomiceneo finora conosciuto. La ceramica fa datare anchequesta tomba al tardo miceneo (secolo xiii a. C.).

I nostri scavi sulla sporgenza piú settentrionale deltumulo di Ras Shamra portarono alla luce un grandetempio con due cortili rettangolari uniti tra loro e rac-chiusi da spessi muri. Trovammo frammenti di statuegranitiche di dèi in dimensioni naturali, che un tempostavano nel cortile su piedistalli elevati di pietra. Il lorostile era quello della fine della XVIII dinastia(1580-1350). Da una stele dedicata a Baal di Sapounada Mami, regio funzionario del tesoro, ricaviamo ilnome antico della città. Questo grande tempio di carat-tere egizio rivela la forte influenza esercitata dai farao-ni o anche il loro controllo politico sul paese di Sapou-na nel xiv e nel xiii secolo a. C. Accanto trovammo alcu-ni santuari di minore importanza che sembra siano statidedicati al culto di divinità locali, delle quali abbiamotrovato due immagini. Una, femminile, era mutilata;l’altra, maschile, era fortunatamente intatta. Si tratta diun dio stante, con un’acconciatura egizia di penne distruzzo, con un corno a spirale sporgente dalla fronte;nella mano sinistra regge una lancia e nella destra il hiq,una specie di scettro offerto dagli Egizi ai sovrani stra-nieri. Il dio è vestito semplicemente da un perizomatenuto da una cintura con un pugnale dalla grossa impu-gnatura; porta sandali a strisce di cuoio con dita appun-tite secondo lo stile ittita.

Di fianco al tempio, come a Nippur, sorgeva una scuo-la o seminario dove i giovani sacerdoti dovevano impa-

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rare il sumero (il latino di quei tempi), e le altre lingueusate a Sapouna. Qui essi imparavano anche la difficileprofessione dello scriba. Abbiamo trovato i loro eserciziin scrittura cuneiforme, le loro liste di parole sumerichee babilonesi (accadi), nonché regolari dizionari bilinguiche dovevano guidarli nella lettura e nella composizionedi documenti religiosi e diplomatici. Una lettera moltosimile stilisticamente alla ben nota corrispondenza diAmarna parla di rettifiche di confine tra tre città siria-che finora ignote: Holbini, Hazilu e Panashtai.

Ciò che conferisce straordinaria importanza alle tavo-lette cuneiformi trovate a Ras Shamra è il fatto che lamaggior parte di esse contiene una scrittura completa-mente ignota, ma che era già diventata alfabetica. Il pro-fessor Bauer di Halle e padre Dhorme della scuola bibli-ca di Gerusalemme hanno riconosciuto in questi docu-menti una lingua semitica, e ne hanno già dato una spie-gazione preliminare. La completa decifrazione e la primatraduzione della nuova scrittura sono opere di CharlesViroleaud, il dotto archeologo cui ho affidato la pubbli-cazione dei documenti di Ras Shamra. Egli ha fattorecentemente una comunicazione riguardo a queste tavo-lette all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. Unaparte di esse è composta in fenicio quasi puro e il lorocontenuto è di importanza capitale per la storia religio-sa dell’Oriente. Il documento principale è una specie dipoema epico in cui il personaggio principale si chiamaTaphon; esso consiste allo stato attuale di quasi ottocentolinee. Le divinità principali sono la dea Anat e il dioAlein figlio di Baal; ma ve ne sono piú di venti altri, fracui Asharat, Astarte, Dagon, El-Hokmot il dio della sag-gezza e Din-el la giustizia di Dio. Il vocabolario bilinguecontiene una lista assai completa di parole e alcune frasisumere, ma invece del babilonese, normalmente usato inquesti glossari per tradurre il sumero, il dizionario di RasShamra contiene una lingua finora completamente igno-ta. Il noto assiriologo Thureau Dangin ne renderà in

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breve noto il significato. Il numero di documenti trova-ti quest’anno ci permette di supporre che la scuola degliscribi possedesse un’importante biblioteca, che contene-va tra l’altro grandi tavolette composte di tre o quattrocolonne ciascune, il che ci incoraggia a sperare una buonaraccolta di nuove notizie storiche.

Sotto il pavimento della biblioteca e tutto intorno adesso facemmo numerose scoperte: coppe d’argento e dibronzo, lingotti di rame, un vaso pieno d’oggetti d’ar-gento e soprattutto una splendida collezione di settanta-quattro strumenti di bronzo e d’armi in uno stato di con-servazione eccezionalmente buono. Si tratta di quattrospade, due pugnali, venticinque asce piatte, undici puntedi lancia, tre punte di freccia, sei ceselli, quattro falci, unbel tripode ornato con fiori di melograno. Gli oggetti piúpreziosi sono cinque grandi strumenti di uso ignoto enove asce incavate (accette) di cui cinque con iscrizionicuneiformi incise sulla superficie, probabilmente dedi-che. La presenza di due pani di metallo e il fatto che alcu-ne delle armi non siano finite mostra che l’officina dovequeste vennero fatte non può essere stata molto lontana.

Ad un livello piú basso, chiaramente separato daquello superiore che appartiene al xiv e xiii secolo, por-tammo alla luce un cimitero del xvii e xvi secolo com-pletamente privo d’influenza micenea. La ceramicaappartiene al tipo canaanita locale, con ingubbiaturarossastra o nerastra, non dipinta.

Penetrando in un livello ancora piú basso, sette metrial di sotto, trovammo dei muri di mattoni crudi cheappartengono a edifici costruiti molto prima dell’esi-stenza del sovrastante cimitero; essi devono risalire all’i-nizio del ii o del iii millennio, ma la loro esplorazione sideve necessariamente rimandare fino a che siano staticompletamente sgombrati i due strati superiori.

The French Excavations in Syria, «Antiquity»,vol. IV, n. 16, 1930

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nelson glueck Le fonderie di Salomone

Nelson Glueck, nato nel 1900, è un uomo la cui vita è stata

sempre guidata da una immutabile devozione alla cultura. Ha

conseguito titoli accademici in archeologia, lingue orientali ed

ebraico alle Università di Cincinnati, Berlino, Heidelberg, Jena,

presso il Hebrew Union College e molte altre istituzioni gli

hanno conferito le piú alte onorificenze. Andò per la prima

volta a Gerusalemme nel 1928 come membro dell’American

School of Oriental Research e dal 1932 in poi ha proseguito le

sue esplorazioni della Palestina con un entusiasmo non dimi-

nuito dalle difficoltà dell’archeologia nel deserto. Per lungo

tempo ha ignorato il pericolo persistente delle ostilità politiche

latenti nella zona, ma dal 1952 non fu piú possibile per un

importante studioso ebreo vivere e lavorare negli stati arabi, cosí

egli rivolse la sua attenzione alla regione apparentemente nuda

e priva di interesse del Negev, dove le sue esplorazioni hanno

portato grandi contributi agli studi biblici ed orientali.

Noi parliamo naturalmente «a posteriori» dei pro-dotti di rame e di ferro dell’Arabah e di Ezion-geber.Con nostra immensa sorpresa gli scavi dimostrarono cheEzion-geber era indubbiamente un porto di mare maaveva pure grande importanza come centro industriale.Si trovarono chiodi, travi, pece e corde che dovevanoessere indubbiamente usati per costruire e riparare navi.C’erano ami e pesi per reti nonché mucchi di conchiglielasciati dalla pesca estensiva ovviamente praticata nellericche acque del braccio orientale del Mar Rosso, che

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anche oggi si presenta come un paradiso per i pescato-ri. Non c’erano, ovviamente, tracce di darsene, maforse, non avremmo dovuto aspettarcele. È possibilissi-mo che le navi di Tarshish fossero poco piú di piccolidhows (sambuchi) ancorati al largo. E se di tanto intanto scoppiava una tempesta improvvisa e gli ormegginon tenevano, esse cozzavano violentemente a riva o sispezzavano sulle rocce delle secche. Ciò è esattamentequanto successe, come abbiamo visto, alla flotta di Gio-safat verso la metà del ix secolo a. C.

All’inizio delle operazioni a Tel el-Kheleifeh, quelloche ci stupí particolarmente fu la posizione apparente-mente assai infelice dello stanziamento. Situata al cen-tro della depressione dell’Arabab, che è fiancheggiata daambo i lati da alte colline che portano rispettivamentein Arabia e nel Sinai, essa è aperta alla furia dei ventiquasi costanti che soffiano con grande violenza lungo ilWadi Arabah come se fossero spinti a viva forza attra-verso una manica a vento. Il risultato è una serie senzafine di tempeste di sabbia, spesso cosí intense da impe-dire la visuale. Gli architetti di Ezion-geber non avreb-bero potuto scegliere una località piú inclemente lungol’intera costa. Era comprensibile che non avesserocostruito piú a ovest dove la terra era povera e l’acquacosí cattiva da non essere assolutamente potabile nédagli uomini né dagli animali. Ma perché, ci chiedeva-mo, a tutta prima irritati a dover lavorare mangiare edormire in mezzo a continue tempeste di sabbia, nonavevano scelto un punto piú a oriente presso la nabateaAila o l’araba Aqabah, dove l’acqua è eccellente, il suolofertile e i venti smorzati dalle colline? Cominciammo ascavare all’estremità nordoccidentale di Tell el-Khelei-feh per avere almeno le spalle e non la faccia esposta aiventi pungenti e le accecanti tempeste di sabbia. Intan-to ci arrabbiavamo con quella che ci sembrava la folliadegli ingegneri di Salomone. Comunque ben presto sispiegarono i motivi di questa loro apparente follia.

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Il primissimo edificio portato alla luce all’angolo nor-doccidentale del tumulo si rivelò per la piú grande e piúcomplessa fonderia mai scoperta nell’antichità. Tutti imuri dei suoi ambienti erano perforati con due serie diaperture eseguite con cura che potevano essere soltantodei condotti d’aria. La fila superiore aveva lo scopo dipermettere ai gas formatisi in una stanza di penetrarenella seconda e cosí via e di scaldare preventivamente imateriali in esse contenuti. Era facile ricostruire il pro-cesso di fusione. Il minerale veniva in precedenza «arro-stito» nei singoli luoghi di estrazione del Wadi Arababe poi portato per un’ulteriore fenditura e per la raffina-zione a Ezion-geber. Gli strati di minerale venivanodisposti tra strati di calce in grandi crogioli di ceramicadalle spesse pareti.

Tutto intorno ad essi, negli ambienti aperti della for-nace, venivano ammassate cataste di carbone prove-nienti dalle boscose montagne di Edom, e il fuoco veni-va alimentato in ordine successivo a giusti intervalli.Non era necessario usare mantici a mano, perché conabili calcoli gli ingegneri di Salomone avevano incana-lato i venti in modo da fornire una corrente d’aria natu-rale. Il principio Bessemer della corrente forzata d’aria,scoperto meno di un secolo fa, era fondamentalmentegià noto circa tremila anni fa. La fonderia era statacostruita cosí bene che, quando venne riportata com-pletamente alla luce, ponendo le mani sui condotti d’a-ria della parete dell’estremità meridionale della struttu-ra potemmo sentire soffiare l’aria entrata attraverso glisfiatatoi sul lato settentrionale alla distanza di moltecamere.

Dai nostri scavi risultò piú chiaro che mai perchéEdom e Giuda si erano battuti cosí a lungo e cosí aspra-mente per il possesso dell’Arabah e di Ezion-geber seb-bene la Bibbia, come ho già notato, non nomini affattouna delle ragioni piú importanti di questa lunga guerra.Le miniere di rame e di ferro dell’Arabah, e il controllo

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dell’accesso al Mar Rosso erano causa di inestinguibilirivalità tra di loro, né piú e né meno di quanto il petro-lio dell’Arabia e del Golfo Persico siano fonte di com-petizioni e di conflitti tra molte nazioni oggi. Per Edome per Giuda il controllo delle risorse dell’Arabah e dellastrada che l’attraversa, e di Ezion-geber, cioè Elath, conle sue industrie e l’accesso al Mar Rosso, erano indi-spensabili per la loro sicurezza, per il loro benessere eco-nomico e per la loro capacità di espansione.

Il cambiamento di proprietà di Ezion-geber - Elathè ben documentato da due nomi, uno edomita e l’altroebraico, da noi trovati negli scavi della città di Elath.Costruita dai giudei sulle rovine di Ezion-geber, essavenne loro tolta dagli edomiti (II Re, 16, 6), con cui uscídalla storia. Il nome edomita ricorreva in impressioni disigilli sui manici di giare di bella ceramica che riempi-vano un intero magazzino . Sul manico di ognuna di esseera impressa la seguente iscrizione: «Appartenente aQausanal il servo del Re». Sappiamo che Qausanal è untipico nome edomita la cui prima parte, Qaus, designauna familiare divinità edomita nabatea e araba. Sembraprobabile che questo Qausanal, indubbiamente un edo-mita, fosse il governatore del distretto di Elath quandoesso era dominato dagli edomiti. Egli fungeva da rap-presentante personale, cioè da servo, del re edomita deltempo.

L’altra iscrizione fu trovata in un livello di Elath piúantico, quando la città era ancora in mani giudee. Sitrattava di parte di ciò che si rivelò essere l’unico anel-lo con sigillo di un re giudeo finora trovato. Ad esso èlegato un racconto. All’ultimo minuto dell’ultimo gior-no dell’ultima delle nostre tre stagioni di scavo decisidi fare un giro finale d’addio allo stanziamento. Miaccompagnava il nostro capo operaio arabo Abbas.Ubbidendo ad un impulso improvviso, gli ordinai diabbattere con il piccone un frammento di un muro dimattoni di fango che avevamo lasciato in piedi finché

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non fosse misurato e fotografato. Dopo averlo colpito,egli vide un piccolo oggetto che vi si trovava sotto erapido lo raccolse. - Che cos’hai lí Abbas? - gli chiesi.Invece di rispondermi mi domandò a sua volta se l’a-bitudine di pagare una mancia per ogni oggetto trova-to fosse ancora in vigore, nonostante la chiusura for-male della spedizione.

Devo spiegare a questo punto che noi pagavamo ainostri operai una ricompensa speciale per ogni oggettotrovato in proporzione al suo valore di mercato, sia chesi trattasse di un grano rotto o di un frammento di avo-rio o di un pezzo d’oro. Questo sistema era necessarioper essere sicuri che ogni oggetto venisse nelle nostremani piuttosto che in quelle dei commercianti le cui quo-tazioni, sia detto per inciso, eravamo sempre preparatia controbattere. Invece di tenere conti, pagavamo ognioperaio immediatamente per le cose trovate e da luiconsegnate al membro dell’équipe che sovrintendevaalla sezione in cui lavorava al piccone, alla pala o al tra-sporto. Quando tutti gli interessati avevano guardatoaccuratamente nella terra che veniva scavata e rimossac’erano ben pochi oggetti di valore passati inosservati.Inoltre talvolta setacciavamo tutte le macerie di un inte-ro ambiente per essere ancora piú sicuri.

Dissi ad Abbas che sarei stato lieto di pagargli unbaksheesh anche in quel momento. Insistette a chieder-mi se ero disposto a pagargli uno scellino o due per ciòche teneva nel pugno chiuso. - Dammelo, Abbas, - glidissi. Egli mi consegnò l’oggetto. Diedi un’occhiata fret-tolosa, lo misi in una tasca interna e lo invitai a porge-re le mani a forma di coppa. Vi rovesciai tutte le mone-te e i biglietti che avevo in tasca; potevano essere piú omeno cinquanta dollari. Per quella parte del mondoerano un bel mucchio di soldi. Avrei facilmente potutoorganizzare una piccola rivoluzione con una somma delgenere. Egli osservò il mucchio di scellini e di sterline,che rappresentavano per lui una vera fortuna, e dopo un

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momento mi disse: - Va bene, mudir, ma non mi è pos-sibile accettare da voi tanto denaro -. Lo rassicurai cheil valore di quanto aveva trovato era degno di una buonaricompensa e che in ogni modo avevo deciso di dargli undono d’addio. Durante gli anni in cui avevamo lavora-to insieme egli era stato fedelissimo e di grande aiuto,ed eravamo diventati buoni amici. Ci abbracciammo,prendemmo congedo ed egli si avviò verso Aqabah men-tre noi salivamo sulle nostre auto per raggiungereAmman e Gerusalemme.

Non appena possibile esaminai l’oggetto. Mi ero subi-to reso conto che si trattava di qualche tipo di anello-sigillo, con un castone di rame intatto attorno a una pie-tra incrostata di sporcizia. Era del genere che normal-mente pende da una corda alla cintura di un personag-gio importante e serviva in realtà come distintivo dellacarica occupata (I Re, 21, 8; Aggai, 2-23). Pulendolo unpoco potei vedere cos’era scolpito sulla pietra macchia-ta di verde dalla fascia di rame intorno ad essa: vi eraun cervo con ampie corna di fronte a cui stava ritto unpiccolo uomo; inciso al di sopra, nei piú chiari caratte-ri dell’ebraico antico, c’era l’iscrizione LYTM. La let-tera «L» significa «A» o «appartenente a». Tenendoconto dell’omissione delle vocali o dei suoni vocaliciche caratterizza l’antica scrittura cananita, le tre conso-nanti rimanenti «YTM» non possono significare altroche «Yotam» che è il nome proprio Jotham. La tradu-zione di tutta l’iscrizione perciò è la seguente «Appar-tenente a Jotham». Questo doveva essere l’anello-sigil-lo di Jotham, re di Giuda!

Sappiamo che un Jotham regnò su Giuda in qualitàdi reggente negli ultimi anni di regno di suo fratelloUzziah, colpito dalla lebbra, e che gli succedette sultrono dopo la sua morte. Fu Uzziah a costruire la nuovacittà di Elath sul tumulo coperto di sabbia di Ezion-geber precedentemente distrutta e abbandonata, e fudurante il regno di suo nipote (Ahaz), figlio di Jotham,

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che gli Edomiti scacciarono i Giudei e si stabilironodefinitivamente ad Elath. Perciò è completamente logi-co che il nome di Qausanal si sia trovato nello stratoedomita di Elath e l’anello di Jotham in quello prece-dente giudeo. Non c’è dubbio che questo anello-sigillo,unico nel suo genere, conferisse autorità regale al gover-natore che reggeva la città piú meridionale del regno diGiuda in nome del suo re Jotham.

Rivers in the Desert, 1959

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john marco allegro I rotoli del Mar Morto

John Marco Allegro, nato nel 1923, ha studiato all’Università

di Manchester e, avendo ottenuto una borsa di studio per ricer-

che orientali, si recò a studiare dialetti ebraici al Magdalene

College. Egli ha guidato spedizioni archeologiche in Asia Mino-

re, e ne ha resi pubblici i risultati in conferenze, trasmissioni

radiofoniche e film televisivi, oltre che mediante la stampa. Nel

1953 egli venne scelto come rappresentante inglese nella squa-

dra internazionale che doveva curare l’edizione dei rotoli del

Mar Morto, compito che richiedeva la massima abilità e destrez-

za date le condizioni frammentarie del materiale.

Curare l’edizione e la pubblicazione di un rotolo com-pleto è un compito relativamente facile. La lettura puòessere faticosa qua e là, ma, almeno dove il rotolo èintatto, la posizione delle parole e delle frasi non è dub-bia. Ben diversa è la preparazione di centinaia di pez-zettini, molti non piú grandi di un’unghia. Tutti questidevono essere distesi ed esaminati minuziosamente conla speranza di poterli accordare con documenti piú gran-di in modo da ricostruire passaggi deteriorati. Il compi-to di curare l’edizione dei frammenti scavati nella primagrotta venne affidato ai padri J. T. Milik e D. Barthé-lemy entrambe membri della scuola francese di Gerusa-lemme. Il lavoro, iniziato nel 1952, uscí nel 1955, poi-ché occorsero due anni completi per portare a terminela pubblicazione. Non è sorprendente che J. Barthé-lemy sia stato poco dopo costretto a ritornare in patria

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per sottoporsi a cure mediche, sebbene Milik sia statoin grado di continuare il lavoro di preparazione dei testisemitici di Murabba’at e, nello stesso tempo, la sezionedi gran lunga piú ampia dei frammenti provenienti dallaquarta grotta. È bene che il mondo conosca il prezzopagato da studiosi come questi in stanchezza della vistae fatica della mente, per potere avere questi frammentidi rotoli preziosissimi il piú presto possibile.

Man mano che il materiale della quarta grotta veni-va alla luce si rivelava sempre piú chiaramente che supe-rava di gran lunga come quantità ciò che si era trovatonella prima caverna e che era impossibile per uno o duestudiosi darlo alle stampe in un periodo di tempo ragio-nevole. Perciò De Vaux e Harding decisero che il lavo-ro venisse suddiviso tra una squadra di studiosi condottia Gerusalemme e qui residenti a questo scopo per alcu-ni anni, o almeno per un anno intero con soggiorni suc-cessivi ripetuti di alcuni mesi ciascuno. Poiché gli scavisono sempre stati condotti da squadre riunite di mem-bri delle scuole francese e americana con la co-direzio-ne di Lankaster Harding, un inglese, venne deciso inol-tre che la squadra che doveva curare l’edizione dei roto-li dovesse avere carattere internazionale. Cosí fummoinviati in otto a Gerusalemme per questo eccitante com-pito dall’America, dall’Inghilterra, dalla Francia, dallaGermania, e dalla Polonia. L’intero progetto è stato unfelice esempio di stretta collaborazione internazionale eper ciascuno di noi un’esperienza meravigliosa. La divi-sione del lavoro era stata grosso modo questa. I due stu-diosi americani, il dottor Frank Cross e il dottor PatrickSkehan, dovevano occuparsi della sezione biblica, cioéin tutto dei resti di circa un centinaio di manoscritti dif-ferenti, padre Jean Starcky delle opere in aramaico, ildottor Claus Hunzinger delle copie dei rotolo della guer-ra e di alcuni papiri manoscritti, padre Milik delle opereapocrife e pseudoepigrafiche, del Manuale e dei docu-menti manoscritti di Damasco, e di altre opere settarie,

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John Strugnell dei rotoli degli inni e di altre opere nonbibliche, e io dei commentari della Bibbia e di alcunilibri sapienziali. Il materiale delle altre grotte era statoaffidato a padre Maurice Baillet, francese. Anche quan-do non potevamo risiedere a Gerusalemme potevamolavorare molto sulle fotografie che portavamo con noinei rispettivi paesi, ma per questo tipo di lavoro è asso-lutamente essenziale rifarsi ai frammenti originali edurante tutto il tempo continua l’esame dei frammentinon identificati e vengono estratti alcuni pezzi per imembri assenti della squadra e messi da parte in attesadel loro ritorno.

Naturalmente scegliere una squadra di studiosi per untale lavoro dai quattro angoli della terra è molto dispen-dioso. Alcune delle istituzioni cui i membri appartene-vano hanno finanziato il loro viaggio e la residenza,mentre per altri è stata resa possibile dalla generosaelargizione di John D. Rockefeller, sotto il cui patroci-nio è stato costruito e continua il suo lavoro il Museo diGerusalemme. I risultati delle nostre fatiche sono pub-blicati in una serie di volumi di cui il primo è stato quel-lo di Barthélemy e Milik relativo agli scavi e ai fram-menti della grotta numero uno. Il successivo sarà pro-babilmente il volume delle grotte di Murabba’at, poiverranno pubblicati i frammenti delle grotte minori,seguiti dal volume biblico della grotta quattro e da unvolume, o volumi, non biblici. Anche la spesa della pub-blicazione è stata sostenuta in larga misura dalla elargi-zione di Rockefeller.

I frammenti raggiungono il Museo provenendo daKando o dai beduini in scatole da sigarette e simili, evengono immediatamente stampigliati sul retro con inomi dei mecenati che hanno fornito il denaro. Nonoccorre dire che ciò non significa che quelle istituzioniriceveranno necessariamente quei tali pezzi, perchémolti verranno integrati nei documenti di cui fannoparte, e che possono essere stati contrassegnati per un’al-

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tra destinazione. In questi casi, per quanto è possibile,un frammento di dimensioni equivalenti verrà destina-to a rimpiazzare l’altro nella distribuzione finale. I fram-menti poi devono essere puliti dalla polvere bianca di cuisono per lo piú coperti. Talvolta questa ha formatoun’incrostazione cosí persistente che non si riesce atoglierla per quanto si spazzolino, allora si è scoperto cheun lieve tocco con un pennello di peli di cammello intin-to in un olio non acido come l’olio di ricino renderà lamarna traslucida e metterà la scrittura molto chiara-mente in evidenza. Sovente non è tanto la polvere a ren-dere confusa la scrittura quanto il colore del cuoio stes-so che è diventato completamente nero per l’esposizio-ne all’umidità e pertanto rende la scrittura indistingui-bile dal fondo. In questi casi è stato particolarmenteutile nel nostro lavoro il processo di fotografia a raggiinfrarossi. Abbiamo la fortuna di avere nel museo ungabinetto fotografico magnificamente attrezzato sottol’esperta direzione di Nejid Anton Albina, che deve oraessere uno dei maggiori esperti mondiali in questocampo. Egli ha usato lastre e pellicole Kodak a raggiinfrarossi, inviate per questo scopo dagli Stati Uniti,insieme con un filtro rosso-violetto (o rosso tre) postosulla macchina da presa Linhof. L’esposizione con aper-tura di obiettivo f. 11 varia naturalmente secondo l’an-nerimento del soggetto e la distanza dall’obiettivo, maper riprendere la lastra di vetro di dimensioni ordinarie(centimetri ventidue per trenta e mezzo) con frammen-ti normalmente scuri, egli colloca la macchina da presaa circa ottanta centimetri dal soggetto e da un’esposi-zione di sei minuti fra le otto e le dieci del mattino e diquattro minuti tra le dieci del mattino e le due del pome-riggio. Una lastra piú scura di frammenti può richiede-re anche otto minuti, ed esposizioni di pezzi particolar-mente difficili che richiedono piú di un’ora non sonoinsolite. Tale è la costanza della luce a Gerusalemme cheegli non considera necessario l’uso dell’esposimetro. Lo

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sviluppo avviene immergendo le lastre in ID 2 per cin-que minuti e la stampa è fatta su carta al bromuro mor-bida o media. I risultati su frammenti sui quali a occhionudo non era visibile alcun carattere scritto sono sem-plicemente sorprendenti, e a questo miracolo noi dob-biamo un grande sollievo per lo sforzo degli occhi.

Molto spesso la pelle del frammento è secca e fragi-le, talvolta strettamente arrotolata, e allora è necessariosottoporla a un processo di idratazione prima di poter-la srotolare. I pezzi che richiedono questo trattamentosono disposti in un vaso di vetro contenente acquacoperto al fondo da una lastra di zinco con fori e da uncoperchio sigillato. Dopo un’immersione di dieci o quin-dici minuti in acqua calda il frammento è in genereabbastanza duttile da permettere caute manipolazioni,ma talvolta con pezzi particolarmente induriti è neces-sario protrarre il trattamento per alcune ore. Se il pezzoè lasciato immerso troppo a lungo il risultato è una goc-cia di colla liquida ed una scoperta fondamentale inmeno. I frammenti puliti vengono disposti tra lastre divetro, parecchi gruppi di dodici o venti in ciascuna, ecollocati nella stanza grande su tavole a cavalletto.

Per un nuovo collaboratore che entra nel «laborato-rio dei rotoli» per la prima volta, l’effetto è abbastanzasorprendente. Egli si trova circondato da circa cinque-cento lastre di vetro riempite di frammenti di variedimensioni, su cui egli passerà, curvo, i prossimi uno odue anni della propria vita cercando di scegliere i pezziche appartengono al suo documento o tentando di iden-tificare nuovi frammenti. Se egli è giunto relativamen-te di recente nella squadra forse qualcuno dei risultatigià ottenuti sorreggerà la sua fede vacillante. Negli ango-li della stanza sono le raccolte delle sezioni degli altrimembri della squadra, e osservando all’intorno egli puòvedere come dei pezzi non piú grandi del palmo dellamano, sono cresciuti fino a coprire interi volumi ditesto, e i cui segreti gli saranno orgogliosamente mostra-

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ti dal collaboratore responsabile. Egli forse guarderàpieno di meraviglia un testo biblico che sta per provo-care una rivoluzione nelle nostre idee circa la trasmis-sione dei testi, o un commentario che getta nuova lucesulle aspettazioni messianiche del tempo. Egli forse siscoprirà a fissare il testo aramaico di un’opera pseudoe-pigrafa mai vista prima nella sua lingua originale e tuttointorno a lui ci saranno testi biblici piú antichi di milleanni e piú dei manoscritti ebraici della Bibbia primaconosciuti. Egli sarà entrato in un mondo nuovo edeccitante, ma la strada verso la rivelazione dei suoi teso-ri è difficile, e prima che egli possa sedersi a leggerecolonne di testo e a prepararne la trascrizione e la tra-duzione per la pubblicazione ha davanti a sé molti mesidi lavoro estremamente sfibrante. Armato di uno deisuoi frammenti piú grandi egli passerà lentamentedavanti a tutte quelle tavole non identificate cercandoil pezzo perduto. Man mano che diventerà piú abile nellavoro sarà in grado di riconoscere un membro del suogregge da una sola lettera o persino da parte di una let-tera. Uno dei fattori che ci hanno aiutato è stato quel-lo che dei quattrocento circa manoscritti, con cui abbia-mo a che fare, soltanto pochissimi sono stati scritti dallostesso scriba, cosicché riconoscendo le idiosincrasie deipropri scribi è possibile essere abbastanza sicuri che ilpezzo appartenga al nostro documento. Naturalmente lecose non si svolgono sempre cosí semplicemente e spes-so può capitare, dopo qualche mese di paziente raccol-ta, di avere su di una lastra piú di un’opera di mano dellostesso scriba. Tuttavia accanto al criterio della scrittu-ra, c’è quello assai meno sicuro dell’identificazione dellapelle stessa; se questi resti fossero costanti su tutto ilrotolo potrebbe essere un mezzo molto utile per rico-noscere rapidamente parti di una stessa opera. Ma, sfor-tunatamente, ci sono spesso variazioni estreme di colo-re e anche di trama dove diverse pelli sono state cuciteinsieme per completare il lavoro, o dove la disintegra-

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zione del rotolo nei tempi antichi ha fatto sí che suipezzi abbiano agito condizioni diverse, cosicché unopuò essere pulito e duttile, mentre quello vicino è anne-rito dall’umidità e completamente sformato. La defor-mazione costituisce un problema piú grave, perché nonsolo rende difficile l’unire i pezzi anche quando la con-giunzione è sicura secondo il testo, ma distorce la veraforma delle lettere della scrittura, cosí che, se su unpezzo ci sono solo una o due lettere e il colore del cuoioè cambiato da quello del documento di cui fa parte, puòoccorrere molto tempo prima che venga riconosciutocome appartenente al proprio rotolo.

Un’altra causa di difficoltà nell’unione dei vari pezziè che i vermi o l’umidità hanno spesso danneggiato gliorli dei frammenti, cosicché la vera e propria unione colsistema del mosaico non è piú possibile. Questo è dovu-to in gran parte al fatto che i papiri sono stati disinte-grati nell’antichità, e ciò accade cosí spesso e si trovanocosí frequenti lacerazioni certamente non recenti chesono indotto a credere che la quarta grotta sia stata vio-lata molto tempo fa da saccheggiatori che danneggiaro-no intenzionalmente il suo contenuto. Sia come si vuole,una gran parte della collocazione relativa dei frammen-ti in un documento va fatta mediante calcoli esatti piut-tosto che congiungendo gli orli. Questa difficoltà non ètroppo grave nel caso di un testo biblico, dove l’ordinedelle parole è già noto, sebbene fonti di dubbio siano quile varianti ai testi che discuteremo nel prossimo capito-lo. Le difficoltà sono maggiori nel caso di opere nonbibliche prima assolutamente ignote o note solo in tra-duzione.

Un problema difficile che si è presentato durante illavoro è stato la decifrazione di numerosi codici diver-si in cui erano scritte alcune delle opere. Fortunata-mente essi non erano piú complicati dei nuovi alfabetiche furono composti dai settari per mantenere certeparole particolarmente segrete, e in un caso escogitaro-

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no di scrivere la maggior parte delle parole, sebbene nontutte, capovolte, e di usare un insieme di quattro o cin-que alfabeti, tra cui uno o due di loro invenzione. Cosíper esempio si può incontrare una parola scritta conuna combinazione di alfabeti piú o meno come segue:

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Forse al lettore piacerà risolverne uno da sé, con l’av-vertimento che gli alfabeti rappresentati in questoesempio immaginario sono latino, greco, fenicio e ara-maico, e il principio di usare lettere antiche per le loroequivalenti moderne è precisamente quello usato dal-l’autore di questo documento di Qumran. Avendo deci-frato una colonna che comprendeva una frase partico-larmente ingarbugliata, fu incoraggiante trovare inun’acquisizione posteriore un altro pezzo che contene-va la stessa frase scritta, in modo assai trascurato perun codificatore, in ebraico «chiaro», il che confermavala decifrazione.

Un altro codice usava soltanto lettere di propria,invenzione; comincia in ebraico chiaro: «La saggezzache egli insegnò ai fedeli della luce», e prosegue in que-sta scrittura ignota cominciando «Ascoltate voi». Ungiorno, in cui noi tre che costituivamo allora la squadraeravamo stanchi di pulire le migliaia di frammenti nellecassette davanti a noi, decidemmo di rallegrare il lavo-ro facendo una gara per vedere chi sarebbe riuscito adecifrare per primo il codice. La difficoltà principale erache, essendo assai frammentario, presentava pochissi-me parole complete, cosicché il determinare la relativafrequenza delle lettere, che avrebbe normalmente datola risposta in tempo brevissimo, non funzionava tantofacilmente in questo caso. Alcune delle lettere somi-gliavano un po’ alla scrittura protoebraica, derivazionedell’antico fenicio, ma usando le lettere corrisponden-ti non si ricavava alcun senso. Mentre quel giorno dopo

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pranzo Cross ed io ci strappavamo i capelli sul proble-ma, Milik fece un giretto e ci informò che aveva rag-giunto lo scopo, o almeno aveva un numero di letteresufficiente a rendere possibile una decifrazione com-pleta. Egli aveva indovinato il significato di una dellepoche parole complete, che aveva lo schema ABCBAD.Poiché l’ebraico è basato su un sistema di radici a trelettere, il numero di parole possibile con questa com-binazione non era molto grande ed un comune gruppoLHTHLK, l’infinito della forma riflessiva del verboHLK, con il prefisso L che significa passeggiare, glidava un numero sufficiente di lettere per indovinarealtre parolette, e quindi lavorare su tutto il frammentofino ad avere l’alfabeto, o quella parte di alfabeto chesi poteva ricavare dal materiale a disposizione. Ci sono,comunque, altre scritture segrete che è stato impossi-bile decifrare fino a questo momento per mancanza dimateriale sufficiente.

Ho detto che un fattore capace di creare dei proble-mi è il cambiamento di parti di pelle in uno stesso roto-lo. Proprio in momenti come questo si desidererebbe chefossero esistiti animali con pelli abbastanza larghe dabastare per un rotolo completo, e spesso desideriamoaltresí che nel 1 secolo a. C. fosse stata inventata lapenna stilografica. Infatti sembra che alcuni dei nostriscribi avessero «il male della penna», in quanto, a manoa mano che lo strumento si consumava, la scrittura assu-meva un aspetto completamente diverso da quello chepresentava quando lo scriba aveva appena appuntito lacannuccia. Io ho nella mia sezione un manoscritto uncommentario su Isaia, in cui i caratteri cambiano straor-dinariamente nelle prime due colonne e i frammentiappartenenti alle ultime colonne sembrano ancora diver-si. Naturalmente un esame piú accurato mostra che cisono anche le stesse caratteristiche basilari, ma quandosi cercano frammenti di una o due lettere per farli com-baciare, queste variazioni possono creare seri problemi.

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D’altra parte, per lo «Scriptorium» di Qumran non èaffatto una novità giocare alla raccolta dei rotoli diGerusalemme un tiro birbone, cambiando cavalli a metàstrada o, fuori di metafora, scribi a metà rotolo, cosaassolutamente imperdonabile e assai faticosa.

The Dead Sea Scrolls, 1956

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parte sesta Il libro dei gradini

alexander von humboldt La piramide di Cholula

Alexander Friedrich Heinrich, barone von Humboldt

(1769-1859) fu un grande studioso, esploratore e uomo di cul-

tura. Nacque a Berlino e dopo profondi studi di molti aspetti

delle scienze naturali venne nominato assessore alle miniere

come funzionario governativo. Raggiunse ben presto un alto

grado ma, desiderando essere libero di viaggiare, rassegnò ben

presto le dimissioni. Per i cinque anni successivi esplorò l’A-

merica centrale e raccolse una tale quantità di dati sulla geo-

grafia, le antichità, la meteorologia e la botanica di quella

regione, che gli occorsero ventun anni per sistemarli per la pub-

blicazione dopo il suo ritorno in Europa.

La piccola città di Cholula, che Cortez nelle sue let-tere a Carlo V paragona con le piú popolose città dellaSpagna, conta attualmente appena sedicimila abitanti.La piramide sorge a est della città sulla strada che portada Cholula a Puebla. È ben conservata dal lato occi-dentale, che è quello rappresentato nell’incisione. Lapianura di Cholula presenta quell’aspetto spoglio che èpeculiare delle pianure elevate duemiladuecento metrisul livello dell’oceano. Alcune piante di agave e drace-na si levano in primo piano e si vede in lontananza lapunta del vulcano di Orizaba coperta di neve; monta-gna colossale, cinquemiladuecentonovantacinque metridi altezza, di cui ho pubblicato un disegno nel mio atlan-te messicano, tavola xvii.

Il teocalli di Cholula ha quattro piani tutti della stes-

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sa altezza, che sembrano costruiti esattamente secondoi quattro punti cardinali; ma, dato che gli orli dei pianinon sono molto bene delimitati, è difficile distinguerneesattamente la direzione primitiva. Questo monumentopiramidale ha una base piú larga di quella di qualsiasialtro edificio dello stesso tipo nell’antico continente.L’ho misurato accuratamente e ho accertato che l’altez-za perpendicolare è di soli cinquanta metri, ma che ognilato della base misura quattrocentotrentanove metri dilunghezza. Torquemada ne calcola l’altezza di settanta-sette metri, Betancourt di sessantacinque e Clavigero disessantuno. Bernal Díaz del Castillo, soldato semplicenell’esercito di Cortez, si divertí a contare i gradinidelle scale che portavano alla piattaforma dei teocalli; netrovò centoquattordici nel grande tempio di Tenochti-tlan, centodiciassette in quello di Tezcuco e centoventiin quello di Cholula. La base della piramide di Cholulae due volte piú larga di quella di Cheope, ma la sua altez-za è poco piú di quella della piramide di Micerino. Para-gonando le dimensioni della casa del sole a Teotihuacancon quelle della piramide di Cholula, vediamo che lagente che costruí questi importanti monumenti inten-deva dare loro la stessa altezza ma con basi la cui lun-ghezza doveva essere nella proporzione di uno a due.Troviamo anche in questi vari monumenti una notevo-le differenza nella proporzione tra la base e l’altezza:nelle tre grandi piramidi di Giza le altezze stanno allebasi nella proporzione di 1 a 1,7; nella piramide diPapantla coperta con geroglifici questa proporzione è di1 a 1,4; nella grande piramide di Teotihuacan di 1 a 3,7,ed in quella di Cholula di 1 a 7,8. Quest’ultimo monu-mento è costruito in mattoni crudi (xamili) che si alter-nano con strati di argilla. Alcuni Indiani di Cholula mihanno assicurato che l’interno è cavo e che durante ilsoggiorno di Cortez in questa città i loro antenati ave-vano nascosto nel corpo della piramide un numero note-vole di guerrieri, che dovevano piombare all’improvvi-

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so sugli Spagnoli, ma i materiali da costruzione dei teo-calli e il silenzio degli storici di quei tempi rende questaaffermazione poco probabile.

È certo comunque che nell’interno di questa pirami-de, come in altri teocalli, ci sono notevoli cavità usatecome sepolcri dagli abitanti del luogo. Una circostanzaspeciale portò a questa scoperta. Sette od otto anni fa,la strada da Puebla a Messico, che prima passava a norddella piramide, venne rettificata. Tracciando la strada futagliato il primo piano, cosicché un ottavo rimase isola-to come un mucchio di mattoni. Mentre si praticavaquesta apertura all’interno della piramide si scoprí unacasa quadrata costruita di pietra e sostenuta da travi dilegno di cipresso deciduo (cupressus disticha). La casaconteneva due scheletri, idoli di basalto e numerosi vasiverniciati e dipinti in modo curioso. Non ci si prese curadi conservare questi oggetti, ma si dice che si sia accu-ratamente accertato che questa casa coperta di mattonie di strati d’argilla non aveva vie d’uscita. Supponendoche la piramide sia stata costruita non dai Toltechi,primi abitanti di Cholula, ma da prigionieri fatti daiCholulesi nelle nazioni vicine, è possibile che questi fos-sero gli scheletri di alcuni disgraziati schiavi chiusi amorire nell’interno del teocalli. Abbiamo esaminato iresti di questa casa sotterranea e osservato una disposi-zione particolare dei mattoni che aveva lo scopo di dimi-nuire la pressione esercitata sul tetto. Gli indigeni, nonsapendo costruire archi, disposero dei mattoni moltograndi orizzontalmente in modo che il corso superioreoltrepassasse l’inferiore. Continuando questo tipo dilavoro a gradini si otteneva piú o meno un surrogatodella volta gotica, e vestigia dello stesso genere sono statitrovati in parecchi edifici egizi. Un passaggio scavatoattraverso il teocalli di Cholula per esaminarne la strut-tura interna sarebbe un’operazione interessante, ed èstrano che il desiderio di scoprire tesori nascosti nonabbia ancora spinto a praticarlo. Durante i miei viaggi

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in Perú, visitando le vaste rovine della città di Chimupresso Mansiche, entrai nella famosa Hnaca de Toledo,la tomba di un principe peruviano in cui Garei Gutie-rez de Toledo, scavando una galleria nel 1576, scoprídell’oro per un valore di piú di cinque milioni di fran-chi, come è provato dal libro dei conti conservato nel-l’ufficio del sindaco a Truxillo.

Il grande teocalli di Cholula, chiamato anche «Lamontagna di mattoni crudi» (tlal chi hualté pec) avevasulla cima un altare dedicato a Quetzalcoatl, il dio del-l’aria. Questo Quetzalcoatl, il cui nome significa ser-pente vestito di penne verdi, da coatl (serpente) e quet-zalli (piume verdi), è l’essere piú misterioso di tutta lamitologia messicana. È un uomo bianco e barbuto, simi-le al Bochica dei Muysca, di cui abbiamo parlato nelladescrizione delle cateratte di Tequendama. Egli era ungran sacerdote di Tula (Tollan), legislatore, capo di unasetta religiosa che, come i Sonyasis e i buddisti dell’In-dostan, si infliggeva le penitenze piú crudeli. Egli intro-dusse il costume di perforarsi le labbra e le orecchie edi lacerare il resto del corpo con le punte delle foglie diagave o con le spine di cactus e di conficcare dentro leferite delle canne affinché si vedesse sgorgare piú copio-samente il sangue. In un disegno messicano nella Biblio-teca Vaticana ho visto una scena che rappresentavaQuetzalcoatl in atto di placare con la sua penitenza l’iradegli dèi, quando milletrecentosessanta anni dopo lacreazione del mondo (seguo la vaghissima cronologiacompilata dal Rios) una grande carestia flagellò la pro-vincia di Culan. Il santo aveva scelto il suo ritiro pres-so Tlaxapuchicalco, sul vulcano Catcitepetl (Montagnaparlante), dove egli camminava a piedi nudi su foglie diagavi spinose. Ci sembra di vedere uno di quei rishi,eremiti del Gange, la cui pia austerità è celebrata neiPurana.

Il regno di Quetzalcoatl fu l’età dell’oro del popolodi Anahuac. In questo periodo tutti gli animali e gli

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uomini vivevano in pace; la terra produceva senza col-tivarli i raccolti piú abbondanti, e l’aria era gremita diuna moltitudine di uccelli ammirati per il canto e la bel-lezza delle piume. Ma questo regno, come quello diSaturno e la felicità del mondo, non ebbe lunga durata;il grande spirito Tezcatlipoca, il Brahma delle nazioni diAnahuac, offrí a Quetzalcoatl una bevanda che, ren-dendolo immortale, gli ispirò il gusto dei viaggi, e par-ticolarmente un desiderio irresistibile di visitare unpaese lontano chiamato dalla tradizione Tlapallan. Lasomiglianza di questo nome con quello di Huehuetla-pallan, il paese dei Toltechi, sembra non sia accidenta-le. Ma come possiamo immaginare che questo uomobianco, sacerdote di Tula, possa essersi diretto, comevedremo tra poco, verso sud-est, verso le pianure diCholula e di qui aver visitato questo paese settentrio-nale, donde i suoi predecessori erano partiti nel 596della nostra era?

Quetzalcoatl, attraversando il territorio di Cholula,cedette alle lusinghe degli abitanti che gli offrirono leredini del governo. Egli dimorò venti anni presso diloro, insegnò a fondere i metalli, ordinò digiuni di ottogiorni e regalò l’intercalazione dell’anno tolteco. Predi-cava la pace agli uomini e non avrebbe permesso alladivinità altre offerte che i primi frutti del raccolto. DaCholula Quetzalcoatl passò alle foci del fiume Goasa-coalco, dove sparí dopo aver dichiarato agli abitanti diCholula (Cholotecatli) che egli sarebbe in breve torna-to a governarli nuovamente e a rinnovare la loro felicità.

L’infelice Montezuma credette di riconoscere laposterità di questo santo nei soldati di Cortez; nellaprima intervista con il generale spagnolo egli disse infat-ti: «Sappiamo dai nostri libri che io stesso e gli abitan-ti del paese non siamo indigeni, ma stranieri venuti dauna grande distanza. Sappiamo anche che il capo checondusse qui i nostri antenati ritornò per un certotempo al suo paese d’origine, e di là venne a cercare

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coloro che qui si erano stabiliti. Egli li trovò sposati adonne di questo paese con una numerosa discendenzae stabiliti in città da loro fondate. I nostri antenati nonvollero dare retta al loro antico capo ed egli ritornò solo.Noi abbiamo sempre creduto che i suoi discendenti ungiorno verranno a prendere possesso di questo paese.Poiché voi arrivate dal paese dove nasce il sole e, comemi assicurate, ci conoscete da lungo tempo, io nonposso dubitare che il re che vi manda sia il nostropadrone naturale».

Tra gli Indiani di Cholula esiste un’altra tradizionemolto notevole, secondo la quale la grande piramideoriginariamente non era destinata al culto di Quetzal-coatl. Dopo il mio ritorno in Europa, esaminando aRoma il manoscritto messicano nella Biblioteca Vatica-na, trovai che questa stessa tradizione era già ricordatain un manoscritto di Pedro de Los Rios, un monacodomenicano, che nel 1566, copiò sul posto tutte le pit-ture geroglifiche che poté procurarsi. «Prima del gran-de diluvio che avvenne quattromilaottocento anni dopola creazione del mondo, il paese di Anahuac era abitatoda giganti (tzocuillixeque). Tutti quelli che non periro-no vennero trasformati in pesci, tranne sette che si rifu-giarono dentro alle caverne. Quando il livello dell’acquacominciò a scendere, uno di questi giganti, Xelhua,soprannominato l’architetto, si recò a Cholollan dove,come ricordo della montagna Tlaloc che aveva offertoun asilo a lui e ai suoi sei fratelli, costruí una collina arti-ficiale in forma di piramide. Egli fece fabbricare i mat-toni nella provincia di Tlamanalco ai piedi della Sierradi Cocotl, e per trasportarli a Cholula dispose una filadi uomini che se li passavano di mano in mano. Gli dèiguardarono con ira questo edificio la cui cima dovevaraggiungere le nuvole. Irritati dal tentativo presuntuo-so di Xelhua mandarono fuoco sulla piramide. Moriro-no numerosi operai, l’opera venne interrotta e il monu-mento fu in seguito dedicato a Quetzalcoatl»...

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Questa storia ci ricorda quelle antiche tradizioniorientali che gli ebrei hanno registrato nei loro librisacri. Gli abitanti di Cholula conservarono una pietracaduta dalle nuvole sulla cima della piramide avvolta inuna sfera di fuoco. Questo aerolito aveva la figura di unrospo. Rios, per provare la grande antichità di questoracconto di Xelhua, osserva che esso ricorreva in uninno cantato dai Cholulani nelle loro feste, mentre dan-zano intorno al teocalli e che questo inno comincia conle parole Tulanian hulutaez, che non appartengono adalcun dialetto attualmente noto in Messico. In ogniparte del mondo, sulla cresta delle Cordigliere, come nel-l’isola di Samotracia nel Mare Egeo, nei riti religiosisono conservati frammenti delle lingue piú antiche.

L’area della piattaforma della piramide di Cholula, sucui feci gran numero di osservazioni astronomiche, è diquattromiladuecento metri quadri. Di qui l’occhio spa-zia su un magnifico panorama: il Popocatepetl, l’Iztac-cibuatl, la cima dell’Orizaba e la Sierra de Tlascalla,famosa per le tempeste che si addensano intorno alla suavetta. Vedevamo contemporaneamente tre montagnepiú alte del Monte Bianco, due delle quali sono ancoravulcani attivi. Una piccola cappella, circondata di cipres-si e dedicata alla Vergine dei Rimedi ha sostituito il tem-pio del dio dell’aria o Indra messicano. Un sacerdote dirazza india celebra ogni giorno la messa in cima a que-sto antico monumento.

Al tempo di Cortez Cholula era considerata una cittàsanta. In nessun altro posto esisteva un numero mag-giore di teocalli, di sacerdoti e di ordini religiosi (tla-macazque), nessun’altra località ostentava una magnifi-cenza maggiore nella celebrazione del culto pubblico oun’austerità piú grande nelle penitenze e nei digiuni.Dopo l’introduzione del cristianesimo fra gli Indi, i sim-boli di un nuovo culto non hanno cancellato completa-mente i ricordi dell’antico; il popolo si raduna in follada punti molto distanti sulla cima della piramide per

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celebrare la festività della Vergine. Un misterioso ter-rore, una religiosa riverenza riempie gli animi degli Indialla vista di questo immenso cumulo di mattoni coper-to di arbusti e di sempreverdi.

Abbiamo notato prima la grande somiglianza dicostruzione tra i teocalli messicani e il tempio di Bel oBelo a Babilonia. L’analogia aveva già colpito Zoega,sebbene egli avesse potuto procurarsi soltanto descri-zioni assai incomplete del gruppo delle piramidi di Teo-tihuacan. Secondo Erodoto, che visitò Babilonia e videil tempio di Belo, questo monumento piramidale avevaotto piani, era alto uno stadio, e l’ampiezza della baseera uguale all’altezza. Il muro esterno che lo circonda-va peràboloj era due stadi quadrati. Uno stadio olim-pico normale era centottantatre metri, lo stadio egizioera solo novantotto metri. La piramide era costruita dimattoni e di asfalto. Un tempio (naoj) era costruito incima e un altro alla base: il primo, secondo Erodoto, nonconteneva statue; c’era soltanto una tavola d’oro e unletto su cui riposava una donna scelta dal dio Belo. Dio-doro Siculo, d’altra parte, afferma che il tempio supe-riore conteneva un altare e tre statue alle quali, secon-do nozioni derivate dal culto greco, conferí i nomi diGiove, Giunone e Rea. Ma al tempo di Diodoro e Stra-bone non esistevano piú né queste statue né alcuna altraparte del monumento. Nei teocalli messicani come neltempio di Belo, il naos piú basso era distinto dal tempiosulla piattaforma della piramide. La stessa distinzione èchiaramente sottolineata nelle lettere di Cortez e nellastoria della conquista scritta da Bernal Diaz, che dimoròper alcuni mesi nel palazzo del re Axajacatl, quindi difronte al teocalli di Huitzilopochtli.

Researches Concerning the Institutions and Monuments

of the Ancient Inhabitants of America, 1814

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jean de waldeck Viaggi nello Yucatan

Jean-Friédéric Maximilian, conte di Waldeck (1766-1875) era

il discendente di una nobile famiglia tedesca stabilitasi in Fran-

cia. Come Denon cominciò la sua carriera come studioso d’ar-

te sotto la guida del pittore David e anch’egli seguí la spedizione

di Napoleone in Egitto. Quando l’esercito si ritirò egli rimase

in Egitto e di propria iniziativa risalí il Nilo fino ad Assuan.

Incoraggiato dal successo di questo viaggio organizzò in segui-

to una spedizione attraverso il Sahara che terminò in un disa-

stro, con la morte di tutti i partecipanti eccetto lui. Nel 1821

fece il primo viaggio in Guatemala e l’anno successivo si recò

a Londra per collaborare alle illustrazioni di un libro su Palen-

que; qui incontrò Lord Kingsborough, che finanziò alcune

delle sue spedizioni nell’America centrale. Dopo la morte di

Kingsborough, Waldeck non riuscí a raccogliere fondi suffi-

cienti per pubblicare i risultati delle sue ricerche, ma un appel-

lo a Prosper Mérimée e all’Accademia francese ebbe successo,

e all’età di cento anni poté pubblicare il rapporto su Palenque.

La sua relazione sui primi viaggi nello Yucatan era stata pub-

blicata nel 1838, ma prima che le scoperte di John Lloyd

Stephens avessero risvegliato l’interesse del pubblico per l’ar-

cheologia precolombiana aveva attirata scarsa attenzione.

Prima della mia spedizione le rovine di Uxmal eranostate visitate solo dai proprietari della fattoria vicina,gente rispettabile per cui una città distrutta non eraaltro che una cava di materiali da costruzione; ma que-ste rovine, descritte cosí poveramente da Cogolludo e

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dai suoi successori, sono i resti di una città potente,paragonabile per dimensioni con le nostre maggiori capi-tali europee. Che nome possiamo dar loro? Potrebberoessere parte di Mani, persino della stessa Itzalana? Nonci sono documenti storici a gettare luce su questo impor-tante problema, ma credo che vi siano certe importantiindicazioni che possono portarci a scoprire la verità.

In primo luogo, è impossibile che gli abitanti di que-sta città fossero di poca importanza; se fosse cosí, comedovremmo considerare Mani, Mayapan, Tichualajtun ealtre grandi città di cui esistono ancora le rovine? Cosíesisteva qui un centro grande e potente, un popolo abba-stanza numeroso per far sorgere un’immensa capitale.Possiamo scartare la teoria che queste rovine apparten-gano a un avamposto di un’altra antica città vicina, per-ché la loro posizione su un elevato altipiano è un’indi-cazione sufficiente dell’esistenza di una città isolata. Suquesti due punti quindi non ci possono essere obbiezio-ni. Se inoltre ci ricordiamo che Itzalana sorgeva noto-riamente accanto a Mani, della quale vi sono traccesparse nella pianura, che queste ultime rovine e quellesulla cima della montagna sono molto vicine tra di loroe non ve ne sono altre nelle adiacenze, possiamo esseresicuri che l’area da me esplorata apparteneva realmentea Itzalana. Infine sappiamo che gli Itaexix erano i piúcrudeli di tutti i popoli di questa regione e il solo teo-calli in tutto lo Yucatan si trova tra queste rovine. Que-sto problema, che può anche essere non troppo impor-tante, mi ha tormentato per qualche tempo e sarà senzadubbio risolto quando uomini abili a trarre deduzioni inquesto campo faranno seguire alle mie ricerche le loroproprie e disperderanno la nebbia in mezzo alla quale iospero di avere acceso una debole candela.

Le strutture di Palenque, tranne il palazzo, sono dipiccole dimensioni; quelle di Uxmal sono colossali etutte costruite in pietre intonacate. Quattro grandi edi-fici principali, separati da spazi aperti, racchiudono

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un’area di 53 577 metri quadrati. Il lato piú lungo diquesto rettangolo misura sessantanove metri e trentacentimetri e il piú corto cinquantadue e sessanta senzacontare i due spazi vuoti a ogni estremità della struttu-ra che misurano sei metri ciascuna. Il teocalli è costrui-to su una piramide; la sua scala principale conta centogradini alti trenta centimetri e larghi tredici. Questo èl’unico tempio sacrificale conosciuto in tutto il Messi-co, ma devo dire che anche di questo si era persa lamemoria perché la gente del posto lo aveva sopranno-minato Torre dello Stregone, nome privo di qualsiasirelazione con la funzione di un teocalli. Poiché questomonumento è il piú alto e il piú singolare dei cinque cheho visto, e il primo su cui ho posato gli occhi, dopo aver-lo esaminato gli diedi il nome del mio generoso protet-tore, Lord Kingsborough.

Nell’architettura di questi monumenti si può facil-mente riconoscere un’influenza asiatica. Negli angoliarrotondati degli edifici compare il simbolo di un ele-fante, con la proboscide sollevata sul lato orientale eabbassata su quello occidentale. È comunque un pecca-to che nessuna figura intera si sia conservata, general-mente mancano le zampe. Si tratta di sculture in dimen-sioni naturali il cui disegno è straordinariamente curatoin certi punti e assolutamente deficiente in altri. Soprat-tutto in questi ornamenti possiamo ammirare la pazien-za degli artigiani che costruirono questi edifici e coglie-re il gusto di queste popolazioni antiche per lo splendo-re monumentale.

L’edificio che forma la facciata settentrionale dellastruttura e chiude l’area che ho descritto è una doppiagalleria e misura sessantanove metri e trenta centimetridi lunghezza e altrettanti in larghezza; contiene sedicipiccole stanze larghe tre metri e trenta centimetri e diprofondità variabile da sei metri e settanta centimetri aotto metri. Non posso dire se questa irregolarità avessequalche significato o se fosse semplicemente il risultato

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del capriccio dei costruttori. Ogni stanza ha un ingres-so e abbiamo notato all’interno anelli di pietra fissatiall’altezza del travicello che forma la parte superiore diqueste porte. Questi anelli servivano senza dubbio afarvi passare il bastone da cui pendeva la cortina o lastoffa che richiudeva ogni apertura; non si vedono quicome a Palenque i cardini di pietra che indicano le chiu-sure ermetiche delle porte di questi edifici. Sopra leporte di queste sedici stanze sul lato esterno vediamouna versione ampliata del segno calli. Ci sono diciottodi questi segni e possiamo pensare che essi avessero loscopo di indicare un certo periodo di tempo trascorsoprima della costruzione dell’edificio. D’altra parte, puòanche essere che i Maya, oltre ai katun mediante i qualisegnavano le divisioni della loro era, avessero un altrometodo di contare il tempo, un sistema simbolico con-nesso con i loro riti religiosi, che è contenuto in questicalli. Si trova cosí che l’età dell’edificio è di ottocento-trentadue anni; certamente esso esisteva cent’anni primadella conquista, e poiché non possiamo risalire piú indie-tro, arrestiamoci a questo dato sicuro. Quindi possiamoconsiderare che l’edificio all’epoca dell’arrivo degli Spa-gnoli avesse 932 anni; inoltre, poiché l’invasione delloYucatan ebbe luogo nel 1519, ne segue che i Maya eranouna nazione e avevano raggiunto un alto grado di civiltànel 587 d. C. La peste che decimò i Toltechi secondotutte le cronologie e i dati da noi raccolti non prolungòle sue stragi oltre il 1050, cosí ci resta una lacuna di 567anni tra il periodo della magnificenza di Mayapan e lapeste che devastò Tula; è perciò vero dire, come ioavevo sempre creduto prima di questa prova irrefutabi-le, che erano stati i Maya a trasmettere ai Toltechi e agliAztechi la loro civiltà e parte della loro cultura; tantopiú che non troviamo nel linguaggio dello Yucatan unasola parola azteca, cosa impossibile se i Maya fosserostati gli ultimi venuti. I Maya forse discendevano dagliabitanti di Palenque e il legislatore di Tula, Quetzal-

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coatl, poteva essere un nipote di Zamna, oppure discen-dere da coloro che formavano la corte di questo capoquando lui venne a civilizzare lo Yucatan.

Le rovine di Itzalana presentano un’importante dif-ferenza da quelle di Palenque. Sebbene le gallerie sin-gole o doppie di Itzalana terminino a forma di pirami-de, non troviamo alcuna apertura che congiunga una gal-leria all’altra; né ve ne sono che diano accesso dall’in-terno all’esterno.

A Palenque al contrario troviamo numerose alte fine-stre a forma della tau greca (T) che servivano a dare ariae luce agli ambienti. Le sole aperture negli ambienti degliedifici di Uxmal sono degli incassi profondi solo quindi-ci centimetri e disposti l’uno di fronte all’altro; da ciòrisulta chiaro che essi dovevano sostenere dei travi tra-sversali da cui pendevano delle amache; quindi questiambienti erano camere da letto. L’assenza di finestreindica, come abbiamo detto prima, che le porte eranochiuse solo da tende; diversamente in queste stanze chiu-se ermeticamente il caldo sarebbe stato insopportabile.Le porte degli edifici a Palenque erano di legno e gira-vano su cardini di pietra per cui erano necessari sfiata-toi all’interno; era per mezzo delle aperture a forma ditau che l’aria e la luce raggiungevano le gallerie. Questeforme a tau erano il simbolo del culto del linga in quan-to esso ebbe parte nella religione di Palenque, dove sem-bra che per il resto il buddismo fosse estremamente puro.

I glifi di Itzalana, indubbiamente connessi con quel-li dei Toltechi e degli Aztechi, sono: cohuatt, calli,miquiztli, atl e quiahuitl, che possono essere identificaticon un cipactli. Una rappresentazione di Tonatiuh in unamaschera e ripetuta sette volte sulla facciata di un note-volissimo edificio. Questi sono gli unici segni tra le rovi-ne che mostrano qualche affinità con quelli del Messi-co; gli altri sono completamente differenti e non vi hotrovato neppure un geroglifico simile a quelli sui restitoltechi a Xochicalco.

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L’acconciatura delle statue di Itzalana è piú vicinaallo stile palencano che a qualsiasi altro. Il copricapoportato da un sacrificante... si ritrova in un bassorilie-vo di Ototiun; lo stesso succede per il mantello delmedesimo personaggio. Questa corrispondenza indicauna tradizione palencana, supposizione che trovaconforto nella stretta affinità dei metodi di costruzio-ne palencani e maya.

Tra la costruzione degli edifici maya e messicani, ilcui solo esempio è Xochicalco, c’è un’importante diffe-renza. I Toltechi prima innalzavano le strutture princi-pali del loro edificio e in seguito scolpivano gli orna-menti in situ. I Maya seguivano il processo inverso. Seessi desideravano coprire una facciata con ornamenti ofigure simboliche cominciavano dipingendo tutta laparete del colore prescelto, che era quasi sempre rossocome nelle strutture di Palenque. Fatto questo primopasso, applicavano sulla parete dipinta l’intaglio di pie-tra che avrebbe costituito la decorazione, dipingendolacon una cura maggiore di quella impiegata per lo sfon-do. Qui veniva usato il blu, poiché possiamo ancoravedere tracce di questo colore nelle linee scanalate deiquadrati che incorniciano una specie di croce rovescia-ta. Il rosso e il blu sono i soli colori che io potei distin-guere nel tempio sacrificale di Itzalana. Tuttavia devo-no essere stati impiegati anche il bianco e il giallo, per-ché questi due colori sono ancora visibili su altri edifi-ci... Notiamo che anche le pietre piccole venivano lavo-rate con enorme cura e che il tutto si connetteva per-fettamente come un’opera di falegnameria.

Le scatole o casse che adornano le facciate degli edi-fici a Itzalana devono attrarre l’attenzione di artisti estudiosi. Chiunque esamini accuratamente i cubi da cuiè composta questa attraente decorazione, non può dubi-tare che gli autori di questo sorprendente esempio diintaglio conoscessero perfettamente le regole della geo-metria. Ho misurato ogni linea, ho fatto scorrere il filo

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a piombo su ogni giuntura e non ho mai trovato laminima deviazione dalla perpendicolare. Gli abitantiindigeni del paese affermano continuamente che gliindiani antichi erano barbari. Questa affermazione ridi-cola, diffusa dagli Spagnoli che avevano un buon moti-vo per spargere la credenza che qui non ci fosse nullaprima del loro arrivo tranne miseria e tenebre, questaaffermazione, dico, è la prova che non dobbiamo esi-tare a ritorcere sugli abitanti moderni dello Yucatan laloro stessa accusa di barbarie. Se non sanno apprezza-re lo splendore e la bellezza delle rovine sparse sul suolodel loro paese, è perché essi stessi dormono nella piúprofonda ignoranza. Questa verità non richiede ulte-riori dimostrazioni.

Voyage pittoresque et archéologique dans la province

de Yucatan et aux ruines d’Itzalane, 1838

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john lloyd stephens L’acquisto di una città

John Lloyd Stephens (1805-52) nacque a Shrewsbury, New Jer-

sey, e studiò legge, ma il suo interesse maggiore fu sempre lo stu-

dio dell’archeologia. Viaggiò a lungo nell’area del Mediterra-

neo orientale e qui incontrò Frederick Catherwood, che aveva

partecipato all’infelice spedizione in Egitto di Robert Hay. Al

suo ritorno negli Stati Uniti cominciò a studiare i documenti

esistenti sulle grandi civiltà dell’America centrale, e si convin-

se che le rovine di grandi città aspettavano di venire scoperte

nelle foreste vergini. La sua nomina a una missione diploma-

tica in questa area gli offrí l’occasione opportuna; egli si assi-

curò la cooperazione di Catherwood per disegnare tutto ciò che

avesse trovato e partí alla ricerca di rovine. La sua fatica fu

ricompensata in maniera eccezionale; e il resoconto del suo

viaggio è brioso e umoristico oltre che ricco di notizie.

Per tutto il giorno avevo meditato sui titoli di pro-prietà di don José Maria, e stringendomi addosso lacoperta suggerii a Catherwood «un’operazione».(Abbassate le teste, o speculatori di lotti cittadini!)Comperare Copan! Rimuovere i monumenti di unapopolazione scomparsa dalla regione desolata in cuierano sepolti, collocarli nel grande «emporio commer-ciale» e fondare una istituzione che avrebbe costituitoil nucleo di un grande Museo Nazionale delle antichitàamericane! Ma, domanda: potevano gli «idoli» essererimossi? Essi sorgevano sulle rive di un fiume che si get-tava nello stesso oceano da cui sono bagnate le darsene

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di New York, ma piú in basso vi sono delle rapide; e allamia domanda don Miguel rispose che era impossibilesuperarle. Cionondimeno, io sarei stato indegno di esse-re passato attraverso i tempi «che hanno messo a duraprova il coraggio degli uomini» se non avessi trovatoun’alternativa; e questa fu di mostrare «per campione»;cioè di tagliare a pezzi un idolo e trasportarlo cosí e faredei calchi degli altri. I calchi del Partenone sono custo-diti come un documento prezioso nel Museo Britanni-co, e i calchi di Copan avrebbero avuto lo stesso valorea New York. Si sarebbero potute scoprire altre rovineanche piú interessanti e piú accessibili. Ben presto laloro esistenza diventerà nota e il loro valore verràapprezzato e gli amatori europei delle scienze e delle artise ne impossesseranno. Ma esse ci appartengono di dirit-to e, pur non sapendo quando potremo essere buttatifuori noi stessi, decisi che dovevano essere nostre; condavanti agli occhi visioni di gloria e indistinte fantasiedi ringraziamenti ricevuti dalla Corporazione, mi avvol-si intorno la coperta e mi addormentai.

All’alba le nuvole erano ancora sospese sulla foresta;quando il sole si alzò si dileguarono; comparvero i nostrioperai e alle nove lasciammo la capanna. I rami deglialberi erano stillanti di umidità e il terreno molto fan-goso. Percorrendo a fatica ancora una volta il distrettoche conteneva i principali monumenti, ci meravigliam-mo dell’immensità del lavoro che ci stava davanti agliocchi, e ben presto concludemmo che sarebbe statoimpossibile esplorare tutta la distesa. Le nostre guideconoscevano soltanto questo distretto, ma, avendo vistodelle colonne oltre il villaggio, alla distanza di una lega,avevamo ragione di credere che ce ne fossero altre spar-se in diverse direzioni, completamente seppellite neiboschi e assolutamente sconosciute. I boschi erano cosífolti che era senza speranza pensare di penetrarvi. Il solomodo di compiere un’esplorazione a fondo sarebbe statoabbattere l’intera foresta e incendiare gli alberi. Ciò era

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incompatibile con i nostri propositi immediati e avreb-be potuto essere considerato un prendersi delle libertàe lo si poteva fare soltanto nella stagione secca. Dopoesserci consultati risolvemmo prima di tutto di eseguirei disegni delle colonne scolpite. Anche in ciò ci furonodelle grosse difficoltà. I disegni erano molto complicatie cosí diversi da tutto ciò che Catherwood aveva maivisto prima, che non riusciva affatto a comprenderli. Gliintagli erano in rilievo molto alto e occorreva un fasciodi luce molto forte per mettere in risalto le figure; ilfogliame era cosí fitto e l’ombra cosí profonda che eraimpossibile disegnare.

Dopo molte consultazioni scegliemmo uno degli«idoli», determinammo di abbattere gli alberi intorno edi lasciarlo cosí scoperto ai raggi del sole. Anche qui cifurono delle difficoltà. Non c’erano asce e il solo stru-mento degli Indiani era il machete, o coltello da taglio,di forma variante nelle diverse parti del paese; brandi-to con una mano, è utile per sfoltire arbusti e rami, maquasi del tutto inutile contro gli alberi grandi; gli India-ni poi, come nei giorni in cui gli Spagnoli li scoprirono,si applicavano al lavoro senza entusiasmo, lo eseguiva-no con scarsa energia e come ragazzi si distraevano facil-mente. Uno dava qualche colpo a un albero e, quand’e-ra stanco, il che accadeva ben presto, si sedeva per ripo-sarsi e un altro gli dava il cambio. Mentre uno lavoravac’erano sempre altri che lo stavano a guardare. Io ricor-davo i cerchi di asce dei boscaioli nelle foreste del miopaese e desideravo alcuni degli alti ragazzi della Mon-tagna Verde. Ma dovevamo prenderla con pazienza, eosservavamo gli Indiani mentre tagliuzzavano con i loromachete e ci meravigliavamo persino che riuscissero cosíbene. Finalmente gli alberi furono abbattuti e trascina-ti da parte, sgombrato uno spazio intorno alla base, ilcavalletto di Catherwood venne sistemato ed egli si miseal lavoro. Io presi due meticci, Bruno e Francisco, e,offrendo loro una ricompensa per ogni nuova scoperta,

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mi avviai con la bussola in mano a fare un giro di esplo-razione. Nessuno dei due aveva visto gli «idoli» fino almattino della nostra prima visita, quando ci seguironoridendo di «los ingleses»; ma ben presto mostrarono uninteresse tale che li ingaggiai. Bruno attrasse la miaattenzione per la sua ammirazione verso, supponevo, lamia persona; ma presto mi accorsi che era invece susci-tata dal mio abito, una lunga cacciatora con moltetasche; disse che era capace di farne una proprio ugua-le tranne gli orli. Di professione faceva il sarto e, negliintervalli di un grosso lavoro sopra una giacchetta corta,adoperava il machete. Ma aveva un gusto innato per learti. Quando passavamo nei boschi nulla sfuggiva al suosguardo, e dimostrava una curiosità professionale per icostumi delle figure scolpite. Ero stupito dal primo svi-luppo del loro gusto archeologico. Francisco trovò ipiedi e le gambe di una statua e Bruno una parte delcorpo che combaciava con esse, ed entrambi ne furonoelettrizzati. Cominciarono a cercare e a rastrellare il ter-reno con i machete, finché trovarono le spalle e rico-struirono tutta la statua tranne la testa. Tutti e dueerano ansiosi di avere strumenti con cui scavare e tro-vare quest’ultimo frammento.

È impossibile descrivere l’interesse con cui esploraiqueste rovine. La zona era completamente nuova, nonc’erano ne libri né guide, era tutto terreno vergine. Nonpotevamo vedere neppure dieci yarde davanti a noi, enon sapevamo mai in che cosa ci saremmo imbattuti poi.Ci fermavamo a tagliare rami e viticci che nascondeva-no la faccia di un monumento e insieme a scavare all’in-torno per portare alla luce un frammento, un angoloscolpito del quale sporgeva dalla terra. Io stavo chinatoansioso, mentre gli Indiani lavoravano ed estraevanoun occhio, un orecchio, un piede o una mano; e quan-do i loro strumenti urtavano contro la pietra scolpitaallontanavo gli Indiani e toglievo io stesso con le manila terra. La bellezza della scultura, la calma solenne dei

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boschi rotta soltanto dalle baruffe delle scimmie e dalgracchiare dei pappagalli, la desolazione della città e ilmistero che vi incombeva sopra tutto faceva nascere uninteresse anche piú profondo, se possibile, di quello cheio avessi mai provato fra le rovine del vecchio mondo.Dopo un’assenza di alcune ore ritornai da Catherwoodportandogli circa cinquanta oggetti da copiare.

Lo trovai meno felice di quanto mi aspettavo per ciòche avevo scoperto. Egli stava con i piedi nel fango edisegnava con i guanti per proteggersi le mani dalle zan-zare. Come temevamo, i disegni erano cosí intricati ecomplicati, i soggetti cosí completamente nuovi e inin-telleggibili che egli aveva grande difficoltà a copiarli.Aveva fatto vari tentativi sia con la camera chiara siasenza, ma non era riuscito né a soddisfare se stesso nea soddisfare me, che pure ero un critico meno severo.Sembrava che l’«idolo» sfidasse la sua arte; due scim-mie su di un albero di fianco sembrava ridessero di lui,e io lo trovai scoraggiato e depresso. In realtà mi resiconto, con una punta di rammarico, che dovevamoabbandonare l’idea di portar via qualsiasi oggetto perdelle ricerche archeologiche e dovevamo accontentarcidi averli visti noi stessi; di questa soddisfazione nullaavrebbe potuto privarci. Ritornammo alla capanna conun interesse non diminuito, ma abbastanza scoraggiatiquanto ai risultati dei nostri lavori.

I nostri bagagli non avevano potuto attraversare ilfiume, ma il sacco azzurro che mi aveva dato tantepreoccupazioni fu ritrovato. Avevo offerto una ricom-pensa di un dollaro e Bartolo, colui che sembrava avreb-be rilevato l’affitto della nostra capanna, aveva passatola giornata nel fiume e lo aveva trovato incagliato in uncespuglio sulla riva. Il suo corpo nudo sembrava felicedi questo bagno fuori programma e il sacco, che noi pen-savamo contenesse del materiale da disegno diCatherwood, una volta aperto rivelò un paio di vecchistivali che, comunque, in quel momento valevano tanto

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oro quanto pesavano essendo impermeabili e risolleva-rono gli spiriti afflitti di Catherwood, che era malato perla prospettiva di un attacco di febbre e di reumatismi peressere stato tutto il giorno nel fango. I nostri uomini tor-narono a casa e Frederick prima di venire al lavoro almattino aveva avuto l’ordine di andare da don Grego-rio e di comperare pane, latte, candele, lardo e pocheiarde di carne. La porta della capanna guardava a occi-dente e il sole calava sulla foresta scura di fronte a noicon uno splendore di cui io non vidi mai l’uguale.Durante la notte piovve ancora, con tuoni e fulmini, manon violentemente come la notte prima, e al mattino eradi nuovo bel tempo.

Quel giorno Catherwood riuscí molto meglio nei suoidisegni; infatti all’inizio la luce cadeva esattamentesecondo i suoi desideri ed egli superò le difficoltà. Inol-tre il suo equipaggiamento era molto piú confortevoleperché aveva gli stivali impermeabili e stava su un pezzodi tela cerata usata durante il viaggio per coprire i baga-gli. Io passai la mattinata a scegliere un altro monu-mento togliendo alberi e preparandoglielo da copiare...

Catherwood andò alle rovine per continuare i suoidisegni e io al villaggio portando con me Augustin persparare i fucili Balize e per comperare degli alimentariad un prezzo leggermente maggiore del loro valore reale.La mia prima visita fu a don José Maria. Dopo aver spie-gato chi eravamo, portai il discorso sull’acquisto dellerovine e gli dissi che a causa del mio incarico ufficialenon avrei potuto fermarmi cosí a lungo come desidera-vo, ma speravo di ritornare con pale, picconi, scale,palanchini e uomini, costruire una capanna per vivervie fare un’esplorazione completa; ma non potevo sob-barcarmi la spesa a rischio che mi fosse rifiutato il per-messo di fare tutto ciò; e in breve gli chiesi chiaro etondo: - Che cosa volete per le rovine? - Credo che eglinon rimase piú sorpreso che se io gli avessi chiesto dicomperare la sua povera vecchia moglie, ammalata di

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reumatismi, per praticare su di lei delle cure. Egli sem-brava in dubbio chi dei due fosse fuori di senno. La pro-prietà era cosí completamente priva di valore che il miodesiderio di acquistarla gli sembrava molto sospetto.Esaminando il documento trovai che egli non era il pro-prietario ma l’affittava da don Bernardo de Aguila conun contratto che avrebbe dovuto durare ancora per treanni. L’appezzamento era di circa seimila acri per i qualiegli pagava ottanta dollari l’anno; era imbarazzato sul dafarsi, ma mi disse che desiderava riflettere, consultaresua moglie e darmi una risposta nella mia capanna il gior-no successivo. In seguito io visitai l’alcalde, ma era trop-po ubriaco per poter avere una idea qualsiasi. Prescris-si ricette per vari pazienti, e invece di andare da donGregorio gli mandai un cortese invito da parte di donJosé Maria ad occuparsi dei propri affari e a lasciarci inpace; ritornai e passai il resto del giorno tra le rovine.Nella notte piovve, ma al mattino si rasserenò nuova-mente e noi ci trovammo presto sul posto. Il mio com-pito consisteva nell’andare con gli operai a tagliare albe-ri e cespugli, a scavare e tirar fuori i pezzi e preparare imonumenti per Catherwood che li doveva copiare. Men-tre ero cosí impegnato, fui richiamato da una visita didon José Maria, che era ancora indeciso che cosa fare e,non desiderando apparire troppo ansioso, gli dissi diprendersela con calma e di ritornare il mattino dopo.

Il mattino dopo egli venne e la sua condizione eradavvero pietosa; era ansioso di trasformare una pro-prietà improduttiva in denaro, ma temeva che, essendoio straniero, potessi procurargli dei guai con il governo.Gli diedi una nuova prova della mia identità e mi impe-gnai a non fargli avere noie dal governo o in caso con-trario a rescindere il contratto. Don Miguel lesse le mielettere di raccomandazione e rilesse la lettera del gene-rale Cascara. Egli era convinto, ma queste carte non glidavano il diritto di vendermi la sua terra; e l’ombra delsospetto incombeva ancora; come colpo finale aprii il

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mio baule e indossai un abito diplomatico con grandeprofusione di grossi bottoni d’oro con aquile. Avevo uncappello di panama imbevuto di pioggia e macchiato difango, una camicia a scacchi, pantaloni bianchi ingialli-ti fino al ginocchio dal fango, ed ero quasi ridicolo comeil re negro che ricevette una compagnia di ufficiali ingle-si sulla costa dell’Africa vestito di un cappello a tricor-no e una giacca militare ma senza calzoni; comunquedon José Maria non poté resistere ai bottoni della miagiacca; la stoffa era la piú bella che egli avesse mai visto;don Miguel, sua moglie e Bartolo furono assolutamenteconvinti di avere nella loro capanna un personaggio illu-stre in incognito. L’unico problema era di trovare dellacarta su cui stendere il contratto. Non persi tempo ininezie e diedi a don Miguel della carta su cui venneroesposti i nostri reciproci obblighi e venne scelto il gior-no successivo per l’esecuzione del contratto.

Il lettore è forse curioso di sapere che prezzo hannonell’America centrale le città antiche. Come gli altriarticoli di commercio, esse seguono la regola della quan-tità sul mercato e della domanda; ma non essendo arti-coli di consumo, come il cotone e l’indaco, sono ven-dute per un prezzo irrisorio, e in quel periodo non c’e-rano affatto compratori sulla piazza. Per Copan io pagaicinquanta dollari. Non ci fu alcuna difficoltà circa ilprezzo. Io offrii quella somma, per cui don José Mariapensò soltanto che io fossi matto; se avessi offerto dipiú, probabilmente egli mi avrebbe considerato qual-cosa di peggio.

Incidents of Travel in Central America, 1842

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john lloyd stephens Il palazzo di Palenque

Nel frattempo il lavoro proseguiva. Come a Copan,il mio compito era di preparare i diversi oggetti cheCatherwood doveva disegnare. Molte pietre dovevanoessere spazzolate e ripulite e, poiché il nostro scopo eraquello di ottenere la maggiore precisione possibile neidisegni, in molti punti vennero alzate delle piattaformesu cui porre la camera chiara. Pawling mi sollevò da unagran parte di questa fatica. Affinché il lettore possaconoscere il carattere degli oggetti che ci interessavano,darò una descrizione dell’edificio in cui vivevamo, chia-mato il palazzo.

La veduta frontale di questo edificio è rappresenta-ta nell’incisione, la cui accuratezza comunque è moltominore di quella degli altri disegni poiché la fronte erain condizioni assai peggiori. Esso sorgeva su un’alturaartificiale di forma oblunga, alta dodici metri, lunganovantacinque sulla fronte e sul retro e settantanovemetri su ogni lato. Un tempo questa struttura era rico-perta di pietra, in seguito fatta cadere dalla crescitadegli alberi, e la forma ne è appena distinguibile.

L’edificio si erge con la facciata verso est e misuraottantacinque metri sulla fronte e cinquantacinque inprofondità. L’altezza non supera i sette metri e mezzoe tutto intorno c’è un largo cornicione di pietra spor-gente. La fronte conteneva quattordici porte, larghecirca due metri e settantacinque centimetri l’una e ipilastri che le separavano erano larghi tra un metro e

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ottanta e due e dieci. Sulla sinistra per chi guarda ilpalazzo sono caduti otto pilastri, come pure l’angolo didestra e la terrazza al di sotto è ingombra di rovine. Masei pilastri restano interi e il resto della fronte è aperto.

L’edificio era costruito di pietra con legante di calcee sabbia e tutta la fronte era coperta di stucco e dipin-ta. I pilastri erano ornati con figure spiritose in basso-rilievo, di cui una è rappresentata nell’incisione quiriportata. In cima vi sono tre geroglifici impressi nellostucco. È circondata da un bordo riccamente ornato,alto tre metri e largo uno e ottanta, di cui ora resta sol-tanto una parte. Il personaggio principale è rappresen-tato in piedi di profilo, e mostra un angolo faccialestraordinario di circa quarantacinque gradi. Sembra chela parte superiore della testa sia stata compressa e allun-gata, forse mediante lo stesso processo applicato alleteste degli Indiani Choetaw e Flathead del nostro paese.La testa rappresenta una specie molto diversa da tuttequelle esistenti ora in questa parte del paese e, suppo-nendo che le statue siano immagini di personaggi viven-ti o creazione di artisti secondo la loro idea della figuraperfetta, indicano comunque una razza ora perduta eignota. L’acconciatura del capo è evidentemente unacriniera di penne. Sulle spalle vi è un breve mantellodecorato con borchie e un pettorale; una parte dell’or-namento della cintura è spezzato; la tunica é probabil-mente una pelle di leopardo e tutto l’abbigliamentomostra senza dubbio il costume di questo popolo igno-to. Il personaggio tiene in mano un bastone o scettro edavanti alle mani sono i segni di tre geroglifici cancel-lati o andati distrutti. Ai suoi piedi sono due figurenude sedute a gambe incrociate e apparentemente inatto di supplicare. Per queste strane figure con un po’di fantasia si potrebbero trovare molte spiegazioni, maa me non ne viene in mente alcuna plausibile; senza dub-bio la loro storia è racchiusa nei geroglifici. Lo stucco èdi una consistenza ammirevole, duro come pietra; era

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dipinto: in diversi punti abbiamo ancora scoperto restidi rosso, blu, giallo, nero e bianco.

I pilastri ancora in piedi erano decorati da altre figu-re con i medesimi caratteri generali, ma sfortunatamen-te in peggiore stato di conservazione e, data la penden-za della terrazza era difficile disporre la camera chiarain modo da disegnarli. I pilastri crollati erano indub-biamente ornati con gli stessi motivi. Ciascuno aveva unsignificato specifico e tutti insieme rappresentavano pro-babilmente qualche storia allegorica; quando erano inte-ri e colorati, chi saliva la terrazza doveva ammirare unospettacolo meraviglioso e imponente.

L’ingresso principale non si distingueva né perdimensioni né per ornamenti particolari, ma era sem-plicemente indicato da una serie di larghi gradini di pie-tra che vi davano accesso sulla terrazza. Gli ingressinon avevano porte e non ne sono state trovate tracce.All’interno, da ogni lato, si aprono nella parete tre nic-chie, che misurano circa quarantacinque o cinquantacentimetri quadrati, con una pietra cilindrica del dia-metro di circa cinque centimetri disposta verticalmentea cui forse era fissata una porta. Lungo il cornicioneesterno, che sporge circa trenta centimetri oltre la fron-te, erano praticati ad intervalli dei fori nella pietra; ciòci suggerí l’ipotesi che un’immensa tela di cotone, forsedipinta in uno stile corrispondente agli ornamenti, fosseper tutta la lunghezza dell’edificio attaccata al corni-cione e venisse sollevata e abbassata come una tendasecondo le esigenze del sole e della pioggia. Tende diquesto tipo sono ancora usate davanti ai locali di certeaziende dello Yucatan.

Gli ingressi erano tutti danneggiati nella parte alta.Evidentemente dovevano essere quadrati e ai lati diognuno, in alto, vi erano nel muro profondi incassi incui erano posati gli architravi. Tali architravi ora eranotutti caduti, e le pietre al di sopra formavano archi natu-rali spezzati. Al di sotto c’erano cumuli di macerie, ma

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nessun resto di architravi; se fossero stati rappresenta-ti da singole lastre di pietra, qualcuna avrebbe dovutaessere sporgente e visibile. Abbiamo quindi pensato chegli architravi fossero di legno, ma non ne avevamo alcu-na prova. Né Del Rio ne il capitano Dupaix ne accen-nano e forse non ci saremmo azzardati a proporre que-sta ipotesi se non avessimo visto sulla porta di Ocosin-go l’architrave di legno; e ciò che vedemmo in seguitonello Yucatan ce lo confermò. Io non penso comunqueche questo elemento possa aiutarci a determinare deidati definitivi per la datazione degli edifici. Il legno, sedel tipo incontrato in altre località, può essere moltoduraturo, si corrode assai lentamente e possono passaresecoli prima che scompaia del tutto.

L’edificio presenta su tutti quattro i lati nel sensodella lunghezza due corridoi paralleli. Sulla fronte que-sti corridoi sono larghi circa due metri e settanta centi-metri e si estendono per tutta la lunghezza dell’edificiofino a seicentodieci metri. Nel lungo muro divisorio siapre un’unica porta di faccia all’ingresso principale eun’altra in corrispondenza sul lato opposto immette in uncortile sul retro. I pavimenti sono dello stesso cemento,duro come il migliore che si nota nei resti dei bagni ocisterne romane. I muri raggiungono un’altezza di circatre metri, sono intonacati e ornati su entrambi i lati del-l’ingresso principale con medaglioni di cui restano solole cornici; forse contenevano i busti della famiglia reale.Il muro divisorio presentava delle aperture di circa tren-ta centimetri, che probabilmente dovevano provvederealla ventilazione. Alcune erano di questa forma:

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e altre di questa:

chiamate rispettivamente a croce greca e a tau egizia,e sono state oggetto di molte dotte discussioni.

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Il soffitto di ogni corridoio presentava questa forma:

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Evidentemente i costruttori ignoravano i principîdell’arco e il supporto era costruito da pietre che sisormontavano mano a mano che si saliva, come a Oco-singo, e fra i resti ciclopici greci e italiani. Lungo lasommità c’era uno strato di pietra liscia e le pareti,essendo intonacate, presentavano una superficie levi-gata. I lunghi corridoi ininterrotti davanti al palazzoservivano probabilmente da sala di aspetto per nobilie gentiluomini della corte, o forse in questa bella posi-zione che, prima che la foresta prendesse il soprav-vento, doveva dominare l’ampio panorama di una pia-nura fertile e popolosa, si sedeva il re stesso ad ascol-tare i rapporti dei suoi ufficiali e ad amministrare lagiustizia. Sotto il nostro governo Juan piazzò la cuci-na nel corridoio sul davanti, mentre l’altro ci servivada stanza da letto.

Una rampa di gradini di pietra lunga nove metri per-mette l’accesso dalla porta centrale di questo corri-doio a un cortile rettangolare lungo ventiquattro metrie largo ventuno. Ad ogni lato della scala vi sono seve-re e gigantesche figure intagliate in bassorilievo nellapietra, alte due metri e settanta centimetri o tre dispo-ste lievemente inclinate all’indietro dalla fine dei gra-dini verso il pavimento del corridoio. (L’incisione dellapagina di fronte rappresenta questo lato del cortile, equella successiva mostra soltanto le singole figure inproporzioni maggiori). Sfoggiano ricche acconciature ecollane, ma il loro atteggiamento suggerisce sofferen-za e preoccupazione. Il disegno e le proporzioni ana-tomiche sono difettose, ma c’è in esse una grandeespressività che testimonia l’abilità e la potenza di con-cezione dell’artista. Quando prendemmo per la primavolta possesso del palazzo questo cortile era ingombro

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d’alberi, tanto che si vedeva a malapena da una parteall’altra, e i cumuli di detriti erano tali che dovemmoscavare per alcuni metri prima di poter disegnare lefigure.

Su ogni lato del cortile il palazzo era diviso in appar-tamenti, probabilmente per dormirvi. A destra i pila-stri sono tutti crollati, a sinistra sono ancora in piedi eornati di figure in stucco. Nell’appartamento centrale,in uno dei fori di cui parlavamo prima, si vedono anco-ra i resti di un palo di legno lungo circa trenta centi-metri, che un tempo si estendeva da una parte all’altra,ma il resto è andato distrutto. Questo è l’unico fram-mento di legno trovato a Palenque e lo scoprimmo soloqualche tempo dopo aver formulato l’ipotesi che sugliingressi esistessero architravi lignei. Era assai tarlato eprobabilmente entro pochi anni non ne sarebbe rima-sta alcuna traccia.

All’estremità del cortile c’era un’altra rampa di sca-lini di pietra corrispondente a quella della fronte, su ognilato della quale vi sono figure intagliate e sugli spazi liscitra l’una e l’altra «cartigli» con geroglifici...

Tutto il cortile era coperto di alberi, e ingombro dirovine alte alcuni metri, cosí che non si poteva vederel’esatta disposizione architettonica; dormendo nel cor-ridoio adiacente lo avevamo sotto gli occhi al mattinoquando ci svegliavamo e quando avevamo finito il lavo-ro della giornata. Le feroci, misteriose figure si para-vano di fronte a noi ogni volta che scendevamo le scale,e divennero uno degli elementi piú interessanti dellerovine. Avremmo desiderato fare scavi, sgombrarel’ammasso dei detriti e lasciare libero tutto il cortile,ma non ci fu possibile. Probabilmente esso è pavimen-tato di pietra o di cemento e dalla profusione di orna-menti in altri posti c’è ragione di credere che di qui pos-sano essere riportati alla luce molti curiosi e interessantiesemplari. Questo piacevole compito è riservato a unfuturo viaggiatore che possa giungere là meglio prov-

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visto di uomini e materiale e di una migliore cono-scenza di ciò che lo aspetta; secondo me, se anche nontroverà nulla di nuovo, il solo spettacolo del cortiletutto intero lo ripagherà della fatica e della spesa diaverlo ripulito.

La parte dell’edificio, che costituisce il retro del cor-tile, con cui comunica mediante i gradini è formata dadue corridoi, uguali a quelli del davanti, pavimentati,intonacati e ornati di stucco. Sembrava che sotto il pavi-mento del corridoio ci fosse una cavità; e vi era stataricavata un’apertura che sembrava condurre a una came-ra sotterranea; ma, scendendo per mezzo di un alberosu cui avevamo praticato degli intagli e di una candela,trovammo semplicemente un buco nella terra non cir-condato da muratura.

Nel secondo corridoio il muro era scrostato in piúparti e presentava diversi strati di intonaco e di pittu-ra. In un punto ne contammo sei, ciascuno con traccedi colore. In un altro posto sembrava ci fosse una rigadi scrittura in inchiostro nero; cercammo di avvicinar-ci, ma, mentre tentavamo di rimuovere un sottile stra-to superiore, i caratteri si staccarono insieme e fummocostretti a desistere.

Questo corridoio si apriva su un secondo cortile, lungoventiquattro metri e largo appena nove. Il pavimento delcorridoio era sopraelevato di tre metri su quello del cor-tile e nella parete sottostante c’erano delle pietre qua-drate su cui erano scolpiti dei geroglifici. Sui pilastri c’e-rano figure a stucco ma in pessime condizioni.

Sull’altro lato del cortile si snodavano due file di cor-ridoi che segnavano l’estremità dell’edificio in questadirezione. Il primo era diviso in tre appartamenti conporte che si aprivano dalle estremità sul corridoio occi-dentale. Tutti i pilastri sono in piedi, tranne quello sul-l’angolo nordoccidentale, e presentano ornamenti instucco e uno dei geroglifici. Il resto contiene figure inbassorilievo.

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Il primo era circondato da un bordo, molto largo inbasso e parzialmente distrutto. Vi compaiono due figu-re con angoli facciali simili a quello della tavola ripro-dotta prima; acconciature di criniere di penne e altredecorazioni, collane, cinture e sandali; ognuna reggevafra le mani lo stesso curioso bastone di cui una parte èdistrutta; e davanti alle mani dei geroglifici che spiega-no probabilmente la storia di questi incomprensibili per-sonaggi. Le altre figure sono in stato peggiore e non siè neppure tentato di restaurarle. Una è inginocchiatacome per ricevere un onore e l’altra un colpo.

Fino a questo punto la disposizione del palazzo èsemplice e facilmente comprensibile; ma a sinistra com-paiono alcuni edifici distinti e indipendenti, come sivedrà nella pianta, di cui comunque non consideronecessario descrivere i particolari. Il principale di que-sti è la torre, sul lato meridionale del secondo cortile.Questa torre è notevole per altezza e proporzioni, ma aun esame dettagliato risulta poco soddisfacente e pocointeressante. La base della costruzione, che ha tre piani,misura centonovantatre metri quadrati. Entrando dopoaver superato un cumulo di detriti, trovammo all’inter-no un’altra torre, distinta da quella piú esterna, e unascala di pietra cosí stretta che un uomo grasso non avreb-be potuto salirvi. La scala termina bruscamente controun soffitto di pietra, che chiude ogni altro passaggio per-ché l’ultimo gradino ne dista soli quindici o venti cen-timetri. Non abbiamo nessuna idea sullo scopo di que-sta scala che termina cosí illogicamente. L’intera torreè una robusta struttura di pietra e il suo scopo e la suadisposizione sono incomprensibili quanto le tavolettescolpite.

A sinistra della torre c’è un altro edificio con due cor-ridoi; uno, riccamente decorato di pitture sullo stucco,presenta al centro una tavoletta ellittica (riprodotta nel-l’incisione di fronte), lunga un metro e venti e larganovanta centimetri, di pietra dura inserita nel muro e

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scolpita a bassorilievo. Intorno ad essa ci sono ancora iresti di una ricca cornice in stucco. La figura principalesiede a gambe incrociate su un letto ornato con dueteste di leopardo; l’atteggiamento è naturale, la fisiono-mia identica a quella degli altri personaggi e l’espressionecalma e benevola. Attorno al collo porta una collana diperle da cui pende un piccolo medaglione con una fac-cia che, forse, vuol rappresentare un’immagine del sole.Come tutti gli altri personaggi rappresentati nelle scul-ture del paese, anche questo porta orecchini, braccialettiai polsi e cintura attorno ai fianchi. L’acconciatura dif-ferisce da quasi tutte le altre di Palenque perché mancala criniera di penne. Accanto alla testa si notano tregeroglifici.

L’altra figura, che sembra femminile, siede a terra agambe incrociate, vestita con lusso e sembra in atto difare un’offerta. In questa presunta offerta si nota unacriniera di penne, il che manca nell’acconciatura delpersonaggio principale. Sulla testa del personaggio sedu-to ci sono quattro geroglifici. Questo è l’unico rilievolapideo del palazzo oltre a quelli del cortile. Al di sottoin origine c’era una tavola di cui si vede ancora il segnocontro la parete (rappresentata nell’incisione a tratto piúchiaro, secondo il modello di altre tavole ancora esistentiin altri punti).

All’estremità di questo corridoio c’era un’aperturanel pavimento che portava, mediante una rampa di scale,a una piattaforma; di qui una porta con ornamento instucco sopra si apre mediante un’altra rampa di scale suuno stretto e buio passaggio che termina in altri corri-doi trasversali. Questi vengono chiamati appartamentisotterranei, ma vi sono finestre aperte a fior di terra,infatti sono soltanto un pianterreno piú basso del pavi-mento dei corridoi. Tuttavia in molti punti sono cosí buiche è necessario visitarli con candele. Non presentanoné bassorilievi né ornamenti di stucco; e i soli oggettiche la nostra guida ci mostrava o che attrassero la nostra

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attenzione furono alcune tavole di pietra di cui una,lunga circa due metri e quaranta centimetri, larga uno eventi e alta novanta centimetri, era disposta attraversoil corridoio bloccandolo. Una porta di uno di questi cor-ridoi piú bassi si apriva sulla parte posteriore della ter-razza e generalmente noi l’attraversavamo con una can-dela per andare negli altri edifici. In due altri punti c’e-rano rampe di scale che portavano ai corridoi superiori.Probabilmente queste erano le camere da letto.

Nella parte segnata in pianta come ambiente nume-ro uno, i muri erano abbondantemente decorati constucchi piú di qualsiasi altra parte del palazzo, ma sfor-tunatamente essi erano in pessimo stato di conservazio-ne. Ad ogni lato dell’ingresso vi era una figura di stuc-co (nell’incisione della pagina di fronte è riprodotta lapiú intatta). Accanto c’è un ambiente, in cui e segnatoun «piccolo altare», riccamente ornato, come quelli dialtri edifici che descriveremo in seguito; e l’aspetto delmuro posteriore fa supporre che ci fossero delle tavolettedi pietra. Nella nostra profonda ignoranza delle abitu-dini del popolo che occupava un tempo questo edificio,è impossibile formulare ipotesi sugli usi diversi cui eranoadibiti questi appartamenti, ma se abbiamo ragione dichiamarlo «palazzo», con il nome attribuitogli dagliIndi, sembra probabile che la parte che circonda i cor-tili servisse di rappresentanza per le cerimonie pubbli-che, e che il resto costituisse la residenza della famigliareale; questa stanza con il piccolo altare possiamo sup-porre che fosse ciò che ai nostri giorni si chiama una cap-pella reale.

Con questi contributi e con l’aiuto di una pianta illettore potrà trovare la strada attraverso le rovine delpalazzo di Palenque; potrà farsi un’idea della profusio-ne di elementi decorativi, del loro carattere ecceziona-le e sorprendente e del loro aspetto lugubre, coperticome sono dagli alberi; forse anche a lui, come a noi, lafantasia presenterà l’edificio come era prima che la rovi-

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na vi si abbattesse sopra, perfetto nella sua grandiositàe nella magnificenza degli ornamenti, e occupato dallostrano popolo i cui ritratti e raffigurazioni ora ne ador-nano le pareti.

Incidents of Travel in Central America, 1842

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grafton elliot smith L’elefante in America?

Sir Grafton Elliot Smith (1871-1937) nacque a Grafton,

Nuova Galles del Sud, e studiò medicina all’Università di Syd-

ney. Nel 1894 si dedicò alla ricerca scientifica nel campo del-

l’anatomia, specializzandosi nello studio del cervello umano,

e nel 1896 si recò in Inghilterra a continuare gli studi a Cam-

bridge. Nel 1900 accettò l’incarico di professore di anatomia

nella Scuola statale di medicina al Cairo, e durante la sua per-

manenza in Egitto si interessò alla possibilità di applicare le sue

conoscenze allo studio dell’archeologia e dell’antropologia. Si

uní a una squadra di archeologi in una ricognizione di venti-

mila tombe nubie e diede ampi contributi alla scienza della

paleopatologia. Durante la sua carriera successiva di professo-

re di anatomia all’Università di Manchester e all’University

College di Londra continuò a dimostrare vivo interesse per

tutti gli aspetti della magia e della religione, per le emigrazio-

ni e diffusioni della cultura primitive e propugnò una teoria

circa la possibile origine egizia della civiltà dell’America cen-

trale che ha oggi molti sostenitori.

La discussione delle rappresentazioni dell’elefante haavuto una parte importantissima nell’interpretazionedelle conquiste umane nel passato, cosicché l’identifi-cazione di elefanti resi convenzionalmente è diventatauno dei punti principali del grande problema della rico-struzione dell’antica storia della civiltà.

Nella sua Histoire et description générale de la NouvelleFrance, pubblicata nel 1744, padre Charlevoix riferisce

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una tradizione, ancora viva tra gli Indi dell’America delNord, di un grande alce, riguardo al quale il defunto SirEdward Tylor aggiunse questo commento: «È difficileimmaginare che a dare origine a questa tradizione siastato qualcosa di diverso dalla reale visione di un ele-fante vivo». Nel 1813 il barone von Humboldt descri-ve la rappresentazione... di una creatura con testa di ele-fante, mani umane, zampe di uccello e, come ha sotto-lineato qualche anno fa il professor Seler, ali di pipi-strello, riguardo alla quale Humboldt fece il seguentecommento: «Il travestimento del sacerdote sacrificantepresenta punti di contatto notevoli e, sembra, non acci-dentali con il Ganesa indú, il dio della saggezza, dallatesta di elefante». Sembra di riconoscere nella masche-ra del sacrificante la proboscide di un elefante. Senzadubbio il grugno del tapiro sporge un po’ di piú di quel-lo del nostro porco, ma c’è una bella differenza tra il gru-gno di un tapiro e la proboscide rappresentata nel CodexBorgianus.

Nel periodo intermedio ci sono state notevoli con-troversie circa queste e molte altre pitture e sculture. Peresempio, c’è una pittura nel Codice Cortes... che rappre-senta una figura umana con testa di elefante. L’identitàdi questo dio dalla testa di elefante è ovvia, poiché reggedei fulmini ed è contraddistinto da un serpente arroto-lato in modo da trattenere l’acqua che dovrebbe caderesotto forma di pioggia. In altre parole è una versioneinfantile di un episodio dei Rigveda, in cui il dio Indra,contraddistinto dall’elefante e dal fulmine, deve com-battere con il serpente Vritra descritto nell’epica india-na come colui che trattiene le acque precisamente nelmodo in cui l’ha rappresentato l’artista maya.

In un altro codice maya... il dio dalla testa di ele-fante è raffigurato in atto di versare la pioggia da unvaso e di schiacciare la testa del serpente cosí da impe-dire all’acqua di raggiungere la terra; si tratta di un altroepisodio della mitologia indiana e si potrebbero racco-

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gliere decine di altre illustrazioni da questi antichimanoscritti americani che servirebbero come guideinfantili al Rigveda. Se si obbiettasse che il Rigvedavenne scritto circa venti secoli prima che l’artista ame-ricano tracciasse questi disegni, è importante nondimenticare che le antiche storie indiane erano ancoradiffuse a Giava, in Cambogia e altrove nei paesi del-l’Asia sudorientale, al tempo in cui l’artista americano,sulla sponda opposta del Pacifico, disegnava le sue illu-strazioni dell’episodio.

Durante l’ultimo secolo si è molto discusso circa certedecorazioni architettoniche degli angoli degli edificimaya dell’America centrale, che sono state messe giu-stamente a confronto con ornamenti simili di edifici asia-tici, e piú precisamente dell’Indocina e di Giava, e chefurono interpretate come proboscidi di elefanti. Chiun-que studi le testimonianze asiatiche capirà tuttavia chein genere questi elementi ornamentali non rappresenta-vano affatto proboscidi, ma forme diverse e altamentespecializzate del makara, il capricorno indiano.

Nella fotografia dei disegni del dottor Maudslay com-pare l’estremità superiore di una stele dell’viii secolod.C. trovata a Copan nell’America centrale. L’accon-ciatura caratteristica della figura centrale mostra ele-menti tipici di Giava e dell’Indocina. Un’acconciaturadel genere compare tanto nelle antiche sculture di Boro-budur a Giava, quanto nei templi cambogiani, ed è tut-tora portata dall’imperatore dell’Annam. L’elementopiú tipico di questa stele è l’angolo in alto a sinistra, chesembra sia una rappresentazione convenzionale di unelefante indiano con un cavaliere piegato in avanti cheindossa anche un turbante indiano. Lo stesso disegnoconvenzionale dell’orecchio si trova anche in Asia, dal-l’India a Giava, e il modo di indicare le zanne e la parteinferiore della proboscide mediante due aree di tratteg-gio obliquo riporta esattamente ai metodi usati dagliartisti dell’Asia orientale, in particolare da quelli cine-

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si, in un periodo corrispondente a quello in cui venne-ro eseguite queste sculture americane. Queste e moltealtre rappresentazioni dell’elefante sono state discusseper piú di un secolo, ma alcuni nuovi elementi venutialla luce recentemente mi sembra risolvano definitiva-mente la questione.

Gli ornamenti a forma di elefante negli angoli supe-riori degli edifici maya dell’America centrale sono statisoggetto di controversie per piú di ottant’anni (cfr. ilmio libro Elephants and Ethnologists, 1924) ma sonoappena venuti alla luce nuovi documenti per risolvere ilproblema una volta per tutte.

J. Eric Thompson ha da poco scoperto nella colle-zione Ayer della Biblioteca Newberry di Chicago gliacquerelli ancora inediti eseguiti circa novanta anni fada Frédéric de Waldeck, un artista francese definitodallo storico Bancroft come «il piú infaticabile e fortu-nato esploratore di Palenque». Nessuno potrebbe dubi-tare della fedeltà della rappresentazione della testa dielefante, sia di profilo che di faccia, con la bocca spa-lancata nell’atto di acchiappare la ciambella. La formaa losanga della bocca aperta, i tronconi spezzati dellezanne e la rappresentazione della superficie inferioredella proboscide sono assolutamente caratteristici del-l’elefante.

Waldeck scrive che le quattro fasce (bassorilievi instucco) vennero da lui trovate sul pavimento di unambiente sotterraneo del palazzo di Palenque (di cui ildottor Alfred P. Maudslay, in Biologica Centrali-Ameri-cana ha dato ampie informazioni con fotografie e pian-te di eccezionale bellezza).

Il mio collega, professor Collie, ha richiamato la miaattenzione sul fatto che la decorazione floreale di tiposicuramente non maya che unisce le due teste di elefante(e i loro derivati antropomorfizzati su una secondalastra) arieggia ben noti motivi cinesi del periodo T’ang,databile all’VII e IX secolo d.C., cioè una data che con-

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viene perfettamente all’edificio maya in cui le lastrevennero trovate. La terza lastra riveste un interesse par-ticolare perché rappresenta un tapiro stilizzato, in cui laforma dell’orecchio della bocca e del grugno sono carat-teristici.

Il disegno sulla parete è particolarmente interessan-te. La testa di elefante è posata su di un serpente arro-tolato, come spesso si vede nei codici maya. Ma lo scul-tore maya, anticipando senza saperlo le controversie chesi sarebbero sviluppate dieci secoli dopo di lui, ha postocome sostegni araldici dell’elefante due tra gli animaliche secondo gli etnologi moderni si proclamano rivali: adestra il macao e a sinistra un tapiro assai stilizzato (cfr.la lastra di stucco) appoggiati su un corpo di uccello.Qui, dunque, c’è la prova decisiva che dovrebbe risol-vere una volta per tutte la controversia sull’elefante.

Altre rappresentazioni di elefanti sono state portatealla luce a San Salvador e a Panama. Nel 1916 il dot-tor Thomas Gann trovò in un tumulo a Yallock, nelGuatemala, un vaso cilindrico (ora nel Museo di Bristol)con una rappresentazione policroma di due elefanti rap-presentati nel loro vero colore... La forma della testa,del corpo e delle gambe non lascia alcun dubbio circala loro identità come elefanti; e le particolarità dellamandibola inferiore e delle zanne possono essere spie-gate studiando il modo convenzionale di raffigurare glielefanti in uso a Giava e altrove nell’Asia orientale. Neisecoli in cui la fase indiana Gupta dominò l’espressio-ne artistica in Indocina e Indonesia, anche la Cinaentrò nella sua sfera d’influenza. Non è un caso che l’ar-te cinese abbia raggiunto il suo zenit nel periodo T’ang(602-907 d. C.). L’influenza indiana lasciò la suaimpronta nell’arte buddista cinese e probabilmenteanche su quella giapponese del periodo Nara. Ma lagrande corrente culturale che si diffuse nell’Asia orien-tale e nell’Arcipelago Malese nel VII secolo raggiunseanche l’Oceania e passò nell’America centrale. I basso-

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rilievi di Palenque rappresentano l’elefante insieme adisegni floreali indicativi del periodo T’ang perchéappartengono a quel periodo ed esprimono la medesi-ma ispirazione.

The Elephant Controversy Settled by a Decisive Discovery,

«Illustrated London News», 15 gennaio 1927

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eduard seler Il tempio-piramide di Tepoxtlan

Eduard Seler (1859-1922) nacque in Germania e decise di

diventare maestro di scuola. Una grave infermità lo obbligò a

scegliersi un’occupazione piú sedentaria e perciò si dedicò

all’attività di traduttore. Un libro sull’America precolombia-

na suscitò il suo interesse per l’argomento, e ottenne un inca-

rico nella sezione americana del Museo Etnologico di Berlino.

Intanto la sua salute si era completamente ristabilita e nel

1887 intraprese una spedizione nell’America centrale; oltre al

lavoro di scavo dei monumenti della zona contribuí ampia-

mente allo studio della scrittura maya e azteca e spiegò il com-

plicato sistema del calendario azteco.

La strada partendo da Città del Messico corre versosud, un tempo attraverso le acque del lago salato e oraattraverso prati, fino a Churubusco, l’antica Uitzilopo-chco, dove si biforca raggiungendo Chalco e il marginedella grande colata di lava scesa da un piccolo vulcanosotto l’alto Cerro di Ajusco fino alla pianura che si sten-de a duemilatrecento metri sul livello del mare. Il viag-giatore che si allontana dalla città lungo questa stradavede di fronte a sé un’alta catena montuosa, che unisceil torreggiante Ajusco con il cono coperto di neve deiPopocatepetl e forma in questa direzione la fine delleacque non incanalate del bacino del Messico. Questacatena montuosa é attraversata, a partire da Xochimil-co, da un lungo sentiero che sale gradatamente e alla fineporta alle estese foreste di pini che coprono tutta l’am-

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piezza del crinale. Un’altra strada corre da Chalco nellavalle di Amecameca, immediatamente a ovest della basedel Popocatepetl, fino a un sentiero meno elevato. Inentrambi i punti la montagna sul lato meridionale scen-de a picco verso le valli sottostanti, i cui fiumi si getta-no nel Rio de las Balsas. Si tratta delle valli di Cuerna-vaca, a milleseicento metri sopra il livello del mare, e diYautepec, piú bassa di circa cinquecento metri, celebratefin dall’antichità per il loro clima mite. Qui i re messi-cani avevano i loro giardini, in cui coltivavano piantedella terra caliente che non attecchivano neppure inMessico. Cortes non mancò di includere questo distret-to nei confini del suo marchesato e i vicerè, tra cui l’in-felice Massimiliano, amavano soggiornare in questa vallefelice. A metà strada tra Yautepec e Cuernavaca, diret-tamente ai piedi dell’alta catena di montagne che tor-reggia al nord, su una sporgenza a costolone all’estremitàsuperiore di una fila di colline e di crinali che divide levalli di Yautepec e Cuernavaca, al centro di una picco-la pianura che forma l’estremità nordoccidentale dellavalle di Cuernavaca, giace la piccola città di Tepoxtlan.Sebbene disti appena tre miglia da ciascuna delle cittàsopra nominate, questa località, che è fuori delle gran-di vie di comunicazione che partono radialmente dallacapitale e si trova ai piedi della montagna, finora è statapoco conosciuta o esplorata. Gli antichi abitanti, cheindubbiamente erano della stessa razza dei Tlalhuies diCuernavaca, hanno soprattutto condiviso la storia diquesti ultimi. Cuernavaca, l’antica Quauhnauac, fu ilprimo territorio a cadere nelle mani dei Messicani quan-do questi cominciarono a espandersi oltre i limiti dellavalle. Durante il regno del terzo re messicano, Itzcoua-tl, che regnò nel secondo quarto del XV secolo, sonoricordati l’assedio e la conquista di Cuernavaca, e sottoMotecuhzoma Ilhuicamina, il re che succedette a Itz-couatl, Tepoxtlan è citata nel codice Mendoza insiemecon Quauhnauac, Uaxtepec e Yautepec, fra le città con-

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quistate. La Historia Mexicana dell’anno 1576 (codiceAubin-Goupil) riporta, a proposito dell’ascesa al trononel 1487 del re Ahuitzotl, che fu celebrata con grandisacrifici di prigionieri, che i nuovi re si erano insediatiin Quauhnauac, Tepoxtlan, Uaxtepec e Xiloxochitepec.

Nella lista dei tributi (codice Mendoza, p. 26, n. 13)Tepoxtlan, «il paese dell’ascia», è ancora nominata conle stesse città nel gruppo di Uaxtepec. Cortes toccòTepoxtlan. nel 1521 durante la sua marcia da Yautepeca Cuernavaca, quando incendiò la città perché gli abi-tanti non si arresero spontaneamente. Bernal Diaz esal-ta le belle donne (muy buenas mujeres) e il bottino che isoldati fecero qui. Dopo l’affermazione del predominiospagnolo Tepoxtlan, con Cuernavaca, venne inclusa neiprincipati che, con il titolo di Marques del Valle deOxaca, vennero conferiti a Cortés come ricompensa deisuoi notevoli servizi. Una relazione manoscritta del1582, conservata con altre simili nell’Archivo Generalde las Indias a Siviglia, chiama questa località «Villa deTopoxtlan» e cita sei estancias ad essa subordinate.Nella stessa Relazione si dice anche che gli abitanti, siaquelli che ancora vivevano sul posto sia quelli che eranoemigrati nei pressi di Vera Cruz perché avversi al paese,parlavano la lingua messicana. Grazie all’inclusione nelmarchesato la città venne senza dubbio salvata dall’op-pressione e dalle vessazioni dei minori encomenderos.Nella sua isolata sede montana il popolo poté conserva-re la sua lingua e i suoi antichi costumi. La località haora una popolazione di cinquemila o seimila anime diquasi pura razza indiana, che parlano un messicano puroe incorrotto, ricordano orgogliosamente la loro discen-denza e conservano tenacemente gli antichi costumi tra-dizionali. È degno di menzione, come fatto assai inte-ressante, che dall’anno scorso si pubblica qui, con iltitolo «El Grano de Arena», un giornale che, accanto altesto spagnolo, contiene anche sempre parecchie colon-ne in lingua messicana.

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Quando passammo attraverso alla città di Cuernava-ca nel dicembre 1887 al ritorno dalla spedizione aXochicalco ci fu detto che a Tepoxtlan vi era una pira-mide interessante quanto quella di Xochicalco. Deside-ravamo visitarla, ma il governatore dello stato di More-los ci disse allora - se a ragione non ho deciso - che nonpoteva permettercelo perché «questi indiani sono terri-bili». Poiché avevamo ancora tanto da vedere non insi-stemmo. Oltre a questo rapporto generale, fino a pocotempo fa non si sapeva niente della piramide di Tepox-tlan, ma due anni fa, quando si doveva tenere nel Mes-sico la sessione straordinaria del Congresso di studi ame-ricani e in tutto il paese ci si diede da fare per fornirequalche novità quanto a monumenti e reperti agli stu-diosi partecipanti al congresso, anche a Tepoxtlan vennein mente di liberare la piramide di questa località daidetriti che la nascondevano alla vista e di sgombrare lecamere interne e il muro esterno. Un giovane ingegne-re, Francisco Rodriguez, nativo di Tepoxtlan, accolse l’i-dea con entusiasmo e la mise in esecuzione. Riuscí aindurre la gente del distretto a fornire manodoperavolontaria e cosí nei mesi di agosto e settembre 1895 lapiramide venne scoperta, risultato di cui gli abitantisono ora assai fieri. Una descrizione della piramide, checomprende una pianta della struttura, venne presenta-ta da Rodriguez al congresso riunito nell’ottobre del1895. Ora è stata pubblicata negli atti del congresso. Piútardi, accompagnato da Rodriguez, Marshall H. Savillevisitò la piramide e ne prese alcune fotografie. Nell’a-gosto 1896, Saville lesse un resoconto su questa pira-mide davanti all’Associazione americana per il progres-so delle scienze, riunita a Buffalo, relazione che vennepubblicata nel volume VIII dei Bollettini del MuseoAmericano di Storia naturale e ancora piú tardi nel gior-nale «Testimonianze monumentali». Di qui e dal reso-conto di Rodriguez ho raccolto le seguenti notizie:

La piramide sorge a circa seicentodieci metri al di

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sopra della città, su una balza staccata del crinale dellacatena montuosa, che si leva irta e scoscesa a nord dellacittà sulla pianura piatta. La piramide vera e propria nonè visibile dalla pianura, ma la sua posizione approssi-mativa è segnata da enormi rocce che a sinistra sporgo-no dal crinale della montagna. Dal fondo del precipiziola strada sale in uno stretto canyon. Si incontrano alcu-ne lunghe rampe di scale, parte intagliate nella roccia eparte costruite in muratura. Qua e là sulle pareti per-pendicolari del burrone si vedono iscrizioni incise. Circaa metà strada dalla cima la strada emerge dal canyon esale a spirale verso l’alto sulla facciata del dirupo. Percirca cento gradini, secondo il rapporto di Saville, la sali-ta è quasi perpendicolare. I gradini sono appoggiatidirettamente alla roccia o sorretti da opera muraria.Quando Rodriguez cominciò gli scavi qui, in due puntifu costretto ad usare scale a pioli, perché la strada eraostruita da frammenti di roccia franati. Quando final-mente raggiunse la cima della balza vide che era com-posta da due terrazze distinte, unite da una stretta gola.Il tempio-piramide sorge su quella occidentale, mentrequella orientale è quasi completamente coperta dallefondamenta di costruzioni di vari tipi e dimensioni, cheerano probabilmente abitazioni dei sacerdoti ed altriedifici annessi. Dietro si leva un dirupo roccioso, coper-to di boschi di pino, che si può raggiungere solo da que-sto punto, e qui Rodriguez trovò dell’acqua corrente.

Vista dal lato orientale la piramide si presenta com-posta da tre terrazze elevate sopra un rozzo fondamen-to che forma una base orizzontale sul terreno inegualee roccioso... Una rampa di scale su questo lato porta incima alla prima terrazza, che, alzandosi di metri nove ecinque sul fondamento roccioso, forma la larga base del-l’edificio vero e proprio costituito dalle altre due ter-razze. Una seconda scala sul lato meridionale accantoall’ingresso del tempio porta in cima alla terrazza piúbassa... Sul lato occidentale, che è la fronte del tempio,

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questa prima terrazza forma una piccola piattaforma...nel cui centro c’è un basso bancone rettangolare conangoli dentellati a cui portavano rampe di gradini pro-babilmente su tutti e quattro i lati. La posizione di que-sta piccola struttura corrisponde al punto dove, nel gran-de tempio di Messico, si elevavano le due pietre tonde,il quauhxicalli e il temalacatl, e serviva probabilmenteper gli stessi scopi sacrificali. Trovai anche una struttu-ra molto simile a Quiengola sulla linea mediana dellapiattaforma della piramide orientale, la cui fronte eraanch’essa rivolta a ovest. Da questa piattaforma unascala porta in cima alla seconda terrazza e all’ingresso deltempio vero e proprio che la terza terrazza forma. Que-sto tempio è costituito da muri spessi metri uno e novecostruiti con blocchi di tezontle (roccia vulcanica poro-sa) rossa e nera, con molto legante di calce e sabbia; que-sti muri raggiungono una altezza di metri due e cinque.Il tetto è caduto. Dalle rovine Rodriguez ha potutoancora stabilire che era un arco piatto con una altezzamassima di cinquanta centimetri, una luce di cinquemetri ed uno spessore di settanta centimetri, realizzatocon blocchi di tezontle ed una gran quantità di legante,il cui uso, in spessi strati, permetteva questo tipo dicostruzione. Nel punto del muro frontale si vedono iresti di due pilastri rettangolari in muratura che forma-vano un largo ingresso centrale e due piú stretti ad ognilato. Lo spazio interno è diviso da un muro, spessonovanta centimetri, in due ambienti comunicanti tra-mite una porta, di cui il primo ha, dalla fronte, unaprofondità di tre metri e settantatre centimetri e ilsecondo di cinque e due, con una larghezza di sei metri.In mezzo al primo ambiente Rodriguez trovò unadepressione rettangolare con resti di carbone e due pezzidi copale ben conservati. Perciò con ogni probabilitàquesto era il focolare dove ardeva il fuoco sacro e da cuiforse venivano tratti tizzoni incandescenti per bruciareincenso alla divinità.

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Sull’asse della camera piú interna, contro la parete difondo, si levava l’idolo. La porta di comunicazione trai due ambienti ha una larghezza di metri uno e nove. Èfiancheggiata da due pilastri coperti di stucco e ricca-mente ornati. Alla base presentano una specie di scana-latura; sopra si svolge una greca in rilievo simile a quel-le del palazzo di Mitla e in cima una rappresentazionedel sole, di cui resta solo la parte inferiore. Tutti questielementi decorativi erano dipinti a colori che sono anco-ra abbastanza vivaci. Nel punto dove sorgeva l’idolo,nell’ambiente posteriore, Rodriguez trovò i resti di unabase tra cui c’erano due frammenti scolpiti, uno, secon-do le sue informazioni, presentava un bassorilievo (diche tipo non è molto chiaro) dipinto in rosso cupo, l’al-tro la rappresentazione a rilievo di una corona realemessicana (xiuh-uitzolli). I due frammenti sono ora con-servati nel cabildo di Tepoxtlan, in una stanza adibitaa museo. L’elemento piú interessante dell’appartamen-to interno sono i banconi, ornati sul davanti con pietrescolpite. Corrono lungo una parte del primo ambiente elungo la parete posteriore e le due laterali del secondo.Mostrano in alto uno stretto fregio alquanto sporgente,su cui sembra siano rappresentati i venti caratteri cheindicano i giorni. Sotto, su ogni parete laterale, sonodisposte quattro grandi lastre con simboli in rilievo, chesembrano connessi con i quattro punti cardinali. Sullato sud si vede ciò che sembra essere le quattro età prei-storiche; sul lato nord gli dèi corrispondenti ai quattropunti cardinali sono rappresentati mediante i loro sim-boli. Devo rinunciare a spiegare piú esattamente questarappresentazione, finché non si possano esaminare ascopo di studio calchi o buone fotografie. I rilievi sullaparete posteriore erano forse ancora piú interessanti, masfortunatamente qui una parte del bancone è distrutta.Si spera che Saville, il quale è nuovamente partito perTepoxtlan e Xochicalco, riporti dei calchi soddisfacen-ti e renda note queste rappresentazioni.

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Infine, oltre a quanto sopra, nel muro meridionaledella terrazza piú bassa della piramide vennero trovatedue tavolette di pietra di particolare importanza. Unacontiene il geroglifico del re Ahuitzotl, che derivò il suonome da un piccolo animale acquatico simile a uno spet-tro, il quale secondo i racconti messicani rappresentavala parte di una specie di fatina delle acque ed era raffi-gurato in questa forma. Sull’altra lastra compare unconiglio e accanto ad esso dieci cerchi che indicano l’an-no dieci Tochtli, corrispondente all’anno 1502 della cro-nologia cristiana, l’ultimo del regno di Ahuitzotl o annodella sua morte. Saville interpretò queste due tavolettecon assoluta esattezza e concluse che cosí erano immor-talati l’anno dell’erezione del tempio e il suo costrutto-re. Questo è probabilmente il significato reale dei sim-boli, e in questo caso si può davvero dire che «l’anticotempio di Tepoxtlan sarebbe l’unica costruzione abori-gena ancora esistente in Messico a cui si possa con pro-babilità attribuire una data certa».

Sarebbe poi desiderabile sapere a quale dio si offri-vano sacrifici in questo santuario. Né Rodriguez néSaville hanno cercato di rispondere alla domanda. For-tunatamente sono in condizione di stabilire io la cosasenza discussione. Tra i Messicani vi era un tipo di divi-nità che eccitavano particolare meraviglia e avversionetra i monaci e gli Spagnoli in genere. Si trattava deglidèi pulque o dèi dell’ubriachezza. Come si dice (in tede-sco) di un uomo ubriaco «che è diventato una scimmia»,cosí naturalmente i Messicani, senza dubbio seguendouna diversa associazione d’idee, accennavano a un coni-glio (tochtli), sotto la cui influenza agiva la personaintossicata. Quando qualcuno beveva fino a diventareinsensibile e in questa condizione incorreva in qualchemale, dicevano che si era «coniglizzato» (omotochtili).Quindi gli dèi dell’ebbrezza erano anche chiamati Toto-chtin, «conigli». Il giorno ome Tochtli, «due conigli»,era sotto la loro influenza. Chi nasceva in quel giorno

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se non prendeva speciali precauzioni sembrava inevita-bilmente destinato a diventare un ubriacone. Poiché vierano diversi tipi di ubriachezza, manifestandosi l’in-tossicazione in modi diversi nei diversi individui, quan-do si parlava dei «quattrocento conigli» (centzon toto-chtin) «si intendeva dire che il pulque provocava innu-merevoli tipi di ubriachi». Quindi gli dèi pulque eranoanche designati come centzon Totochtin, i «quattro-cento conigli», e di questi un gran numero aveva purenomi particolari. Circa il significato di queste divinità,è un fatto di importanza fondamentale che esse fosserotutte in stretta relazione con la dea della terra, e comelei portassero al naso l’aureo ornamento Huaxtec, aforma di mezzaluna, chiamato yacametztli. Questo orna-mento è cosí tipico di loro che normalmente compare sututti gli oggetti dedicati agli dèi pulque. Una secondacaratteristica di questa divinità è la faccia bicolore, rossae nera. I due colori sotto forma di strisce longitudinaliparallele rosse nere servono ugualmente a contraddi-stinguere un oggetto che sia consacrato agli dèi pulque.Cosí, nel manoscritto illustrato della Biblioteca Nazio-nale di Firenze, la manta de dos conejos, «mantello deidue conigli» (ome-tochtilmàtli) il mantello degli dèi pul-que, e, nello stesso manoscritto, lo scudo diMacuil-Xochitl sono contrassegnati in tale modo. Que-sti dèi sono caratterizzati da una nota che ricorre soprale loro figure nel disegno del manoscritto della Biblio-teca Nazionale di Firenze, ancora piú esattamente chedalla loro relazione con la dea della terra. Gli dèi pul-que in questo manoscritto sono rappresentati dopo o frale fiestas móbiles, immediatamente dopo la festa dei fiori(chiconse xochitl e ce xochitl) e si afferma a questopunto che «quando gli Indiani avevano mietuto e rac-colto il granturco, allora bevevano fino all’intossicazio-ne e danzavano mentre invocavano questo demone ealtri di questi quattrocento». Sembra perciò che abbia-mo a che fare con divinità protettrici dell’agricoltura che

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dovevano infondere nel suolo forza come il pulque (equesto è sempre messo in evidenza), dare potenza ecoraggio, ed era la bevanda dei coraggiosi e dei forti,delle aquile e dei giaguari (quauhtli e ocelotl), cioè deiguerrieri.

Fra i nomi sotto cui questi dèi erano noti, oltre a omeTochtli, «due conigli», che si riferisce direttamente allaloro natura come dei pulque, incontriamo esclusiva-mente nomi derivati da località, o almeno formati allostesso modo di quelli derivati da località come Acolhua,Colhuatzincatl, Toltecatl, Totoltecatl, Izquitecatl, Chi-malpanecatl, Yauhtecatl, Tezcatzoncatl, Tlaltecayoua,Pahtecatl, Papaztac, Tlilhua; e un dio pulque Tepoxte-catl, un dio di Tepoxtlan è ripetutamente menzionatoin posizione di preminenza.

Se si considera che il tempio che ho sopra descrittoè ancora chiamato dal popolo «casa del Tepoxteco»,non è difficile supporre che il dio pulque Tepoxtecatlderiva il suo nome dal nostro Tepoxtlan, e questa sup-posizione è confermata da due buone prove. Nella rela-zione che ho già citato all’inizio, e che era la risposta aduna inchiesta fatta sotto il re Filippo II, con la stessa for-mula per tutte le città del territorio coloniale spagnolo,alla domanda relativa al nome di questa località e alsignificato del nome era stato risposto cosí: «Essi dico-no che la località e chiamata Tepoxtlan perché, quandoi loro antenati occuparono questo paese, trovarono ilnome già in uso, in quanto coloro che abitavano quiprima (o per primi) dicevano che il grande demone, oidolo, che essi possedevano, era chiamato Ome tuchitl,cioè «due conigli», e portava il soprannome di «Tepox-tecatl»». L’altra testimonianza è fornita dal manoscrit-to illustrato della Biblioteca Nazionale di Firenze soven-te citato, che, accanto a vari altri dei pulque, rappre-senta Tepoxtecatl a figura intera e in geroglifico e notain proposito: «Questa è la rappresentazione di una gran-de iniquità abituale in un villaggio chiamato Tepoxtlan;

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cioè, quando un indiano moriva in stato di intossica-zione gli altri di questo villaggio gli facevano una granfesta, sollevando fra le mani asce di rame usate pertagliare il legno. Questo villaggio è vicino a Yautepeque.Essi sono vassalli del signore Marchese dei Valle» ...

Si deve sperare che l’interesse suscitato una volta trai patriottici abitanti di Tepoxtlan continui, e che un’ul-teriore ricerca offra altro importante materiale per lostudio dell’antica civiltà e storia di queste regioni.

The Temple Pyramid of Tepoxclan, «Bulletin of theBureau of American Ethnology», n. 28, 1904

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alberto ruz Una tomba reale a Palenque

Alberto Ruz, nato nel 1906, ha studiato all’Università nazio-

nale di Cuba, poi alla Scuola di antropologia e storia di Mes-

sico, e ha dedicato molti anni a ricerche archeologiche e antro-

pologiche all’Università autonoma del Messico e a Parigi. Ha

ricoperto successivamente molte cariche importanti presso l’I-

stituto nazionale di storia ed antropologia del Messico, di cui

venne infine nominato direttore. In questa veste egli ha fatto

importanti ricerche sulla storia dell’America centrale, con par-

ticolare riguardo alla civiltà degli antichi Maya.

Quando nella primavera del 1949 l’Istituto naziona-le di storia e di antropologia di Messico mi nominòdirettore delle ricerche a Palenque, compresi in pienoche questo era l’avvenimento piú importante della miacarriera professionale.

Sapevo che mi avevano preceduto esploratori, artisti,scienziati, uomini illustri, i quali avevano scoperto nelcorso di centocinquanta anni meravigliose sculture; eroperò convinto che molti altri tesori archeologici giaces-sero ancora nascosti fra le macerie dei palazzi, templi epiramidi e sotto la densa e misteriosa giungla di Chia-pas, che ne era stata la gelosa custode.

Un obbiettivo del mio piano di lavoro, che dovreb-be sempre essere presente agli archeologi attivi in Mes-sico e nell’America centrale, era la ricerca di strutturearchitettoniche di data piú antica che si trovano sottogli edifici praticamente visibili. Si è infatti dimostrato

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che gli antichi abitanti dell’America centrale avevanol’abitudine di costruire sopra edifici precedenti, piú peraccrescerne l’altezza e avvicinarli il piú possibile al cieloin cui vivevano gli dèi, che non per uno scopo pratico.

Per varie ragioni decisi di fare una tale ricerca nelTempio delle Iscrizioni. Prima di tutto, perché era l’e-dificio piú alto di Palenque e perciò quello che aveva lemaggiori probabilità di essere stato costruito in cima aqualche altro monumento piú antico; in secondo luogo,perché era di notevole importanza e conteneva alcunipannelli scolpiti ampi e belli e una delle piú grandi iscri-zioni geroglifiche maya; e infine, perché non era maistato esplorato e la sua pavimentazione era piú o menointatta, essendo fatta di grandi lastre anziché del solitogesso levigato.

Questo tempio e composto da un portico che porta aun santuario e da due celle laterali. Nell’ambiente cen-trale del tempio una delle lastre del pavimento mi colpí,come aveva colpito chi mi aveva preceduto in quelluogo, poiché attorno al bordo presentava una dupliceserie di fori chiusi da tamponi di pietra. Dopo aver pen-sato per qualche ora al loro scopo piú probabile, giunsialla conclusione che la risposta si sarebbe trovata sottola pietra; e perciò cominciai a sgomberare il pavimentolí accanto, in un punto dove le lastre erano già staterimosse o spezzate dai cercatori di tesori, i quali aveva-no poi desistito dal loro proposito avendo incontrato unpesante riempimento di grosse pietre.

Quasi subito dopo aver cominciato a rimuovere lemacerie notai che i muri del tempio continuavano sottoil pavimento invece di fermarsi al suo livello, segno sicu-ro che c’era «qualcosa» da scoprire al di sotto. Esaltatoda questa prospettiva, cominciai a scavare e il giornosuccessivo, il 20 maggio 1949, apparve quella pietra chenegli edifici maya è sempre usata per chiudere una volta.I Maya non sapevano costruire dei veri archi, la lorovolta era semplicemente il risultato di un accostamento

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progressivo di pareti inclinate fino a che restava tra diloro soltanto uno spazio molto ristretto che veniva chiu-so con un’unica pietra piatta. Pochi giorni dopo trovaiun gradino e poi un altro e altri ancora. Avevamo tro-vato una scala interna che scendeva nella piramide e che,per una ragione allora ignota, era stata resa impratica-bile con un riempimento di grandi pietre e di argilla.

Prima di poter togliere tutto il riempimento di que-sta misteriosa scala occorsero quattro turni di lavoro,ciascuno di due mesi e mezzo. Dopo una rampa di qua-rantacinque scalini giungemmo a un pianerottolo congomito ad U. Seguiva un’altra rampa di ventuno gradi-ni, che portava a un corridoio il cui livello è piú o menolo stesso di quello a cui fu costruita la piramide, cioècirca ventidue metri al di sotto del pavimento del tem-pio. Nella volta del pianerottolo due strette gallerie siaprivano verso l’esterno e permettevano all’aria e a unpo’ di luce di filtrare da un cortile adiacente.

Al di sopra di uno dei primi gradini trovammo unacostruzione di muratura a forma di scatola contenenteuna modesta offerta: due tappi per orecchi di giadadeposti su una pietra fluviale dipinta di rosso. Rag-giungendo l’estremità della rampa trovammo un’altrascatola di offerte appoggiata a un muro che bloccava ilpassaggio. Questa volta l’offerta era piú ricca: tre piat-ti di ceramica, due conchiglie piene di cinabro, settegrani di giada, un paio di tappi per orecchi rotondi puredi giada la cui parte espansa era a forma di fiore ed unabella perla a lacrima la cui lucentezza era assai ben con-servata. Un’offerta di questo tipo a tale profondità cidiceva senz’ombra di dubbio che stavamo per raggiun-gere l’oggetto delle nostre ricerche.

Infatti il 13 luglio 1952, dopo aver demolito un’o-struzione compatta spessa alcuni metri fatta con pietrae calce - era molto dura e la calce bagnata bruciava lemani degli operai -, apparve su un lato del corridoio unalastra triangolare, alta due metri e posta verticalmente

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a bloccare l’ingresso. Ai piedi di questa lastra, in unacista di pietra rudimentale, giacevano mescolati insiemegli scheletri molto deteriorati di sei giovani di cui unoalmeno era una donna.

A mezzogiorno del 15 dello stesso mese aprimmol’ingresso spostando la pietra quanto bastava perché unuomo potesse passarvi di fianco. Fu per me un momen-to di emozione indescrivibile quando scivolai dietro lapietra e mi trovai in un’enorme cripta che sembrava rica-vata nella roccia o piuttosto nel ghiaccio, data la corti-na di stalattiti e le incrostazioni cuprifere depositatesisulle pareti nel corso dei secoli per l’infiltrazione del-l’acqua piovana. Questo accresceva la meraviglia dellospettacolo e gli conferiva un aspetto fiabesco. Grandifigure di sacerdoti modellate in stucco, di dimensionileggermente superiori al naturale. formavano un’im-pressionante processione attorno alle pareti. L’alta voltaera rinforzata da grosse traverse di pietra, di colorescuro con venature giallastre, che davano l’impressionedi legno lucidato.

Quasi tutta la cripta era occupata da un monumentocolossale, che allora pensammo fosse un altare cerimo-niale composto di una lastra di pietra di piú di otto metriquadrati, posata su un enorme monolito di sei metricubi, sostenuto a sua volta su sei grossi blocchi di pie-tre scalpellate. Tutti questi elementi erano decorati dabei rilievi.

Superiore a tutti per l’esecuzione ineccepibile e ilperfetto stato di conservazione era la grande pietra checopriva il tutto e recava sui quattro lati alcune iscrizio-ni geroglifiche con tredici date abbreviate corrispon-denti all’inizio del xvii secolo, mentre la faccia superio-re mostrava una scena simbolica circondata da segniastronomici.

Pensavo di aver trovato una cripta cerimoniale, manon volevo fare nessuna affermazione precisa prima diaver finito di esplorare la stanza e soprattutto prima di

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aver scoperto se la base del supposto altare era piena ono. A causa delle piogge e dell’esaurimento dei fondidisponibili per questa fase dell’esplorazione, dovemmoattendere fino a novembre prima di tornare a Palenque.Allora feci perforare la base orizzontalmente a due degliangoli e non ci volle molto tempo prima che i trapaniraggiungessero uno spazio cavo. Introdussi un cavo nellastretta apertura e ritraendolo notai che vi erano rimasteattaccate alcune particelle di colore rosso.

La presenza di questa sostanza colorante dentro ilmonolito era di estrema importanza. Le offerte trovateall’inizio e alla fine della scala segreta erano colorate inrosso; e i fianchi della grande pietra mostravano traccedi essere stati dipinti in rosso da cima a fondo. Nellacosmogonia azteca e maya questo colore era collegatocon l’oriente, ma lo si trova quasi sempre anche nelletombe, sulle pareti o sugli oggetti che accompagnano ilmorto o sulle sue ossa. La presenza dei rosso nelle tombeviene perciò a significare resurrezione e speranza diimmortalità. Le particelle di cinabro aderenti al filo diferro inserito nel centro dell’enorme blocco di pietraerano perciò una prova inequivocabile di una sepoltura;e quello che noi avevamo pensato fosse un altare percerimonie si rivelava perciò come un magnifico sepolcro.

Per provarlo occorreva sollevare la pietra scolpita chemisurava tre metri e ottanta centimetri per due e venti,pesava circa cinque tonnellate e costituiva uno dei piúpreziosi capolavori di scultura dell’America precedentela conquista spagnola. I preparativi durarono due gior-ni in mezzo a una tensione febbrile. Era necessarioabbattere nella foresta un albero di legno duro del tipochiamato in quella regione «bari», tagliarlo in sezioni didiversa lunghezza, portarle per un sentiero sdrucciole-vole fino a un autocarro e con questo alla piramide, poia mano introdurle nel tempio, calarle con cavi lungo lascala interna e farle passare attraverso la stretta apertu-ra della cripta.

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Le quattro sezioni piú lunghe del tronco vennerodisposte verticalmente sotto gli angoli della pietra e incima ad ognuna venne assicurato un cricco da automo-bile. Il 27 novembre al crepuscolo, dopo una giornatalavorativa di dodici ore, avvenne la manovra che citenne con il fiato sospeso. Era stata presa ogni precau-zione per evitare che la pietra ribaltasse o scivolasse esoprattutto per impedire che subisse danni. Manovratisimultaneamente e senza sbalzi i cricchi sollevarono lapietra millimetro per millimetro e intanto venivano inse-rite al di sotto delle lastre per sostenerla. Quando i cric-chi raggiunsero il loro limite di estensione si aggiunseroaltre sezioni dei tronco e si ripeté l’operazione. Pocoprima di mezzanotte la pietra posava intatta a sessantacentimetri sopra il livello originario, su sei robusti ceppidi «bari» e pochi giorni dopo venne portata all’altezzadi un metro e dodici centimetri.

Quando la pietra lasciò la sua base e cominciò a sol-levarsi si poté vedere che nell’enorme blocco che servi-va da base era stata ricavata una cavità, di forma inat-tesa, oblunga e curvilinea, come la sagoma schematizzatadi un pesce o della lettera maiuscola omega (W) chiusanella parte inferiore. La cavità era sigillata da una lastraben levigata che combaciava perfettamente ed era for-nita di quattro perforazioni, ciascuna con un tappo dipietra. Sollevando la lastra scoprimmo il ricettacolofunebre.

Non era la prima volta nella mia carriera di archeo-logo che scoprivo una tomba, ma in nessuna circostan-za mi aveva tanto colpito. Fra le pareti vermiglie e labase della cavità che serviva da bara, la vista dei restiumani, completi sebbene le ossa fossero deteriorate,coperti di gioielli per lo piú di giada, era assai impres-sionante. Era ancora possibile ricostruire la forma delcorpo deposto in questo sarcofago «su misura»; e igioielli aggiungevano una certa vita sia per lo splendoredella giada sia perché erano cosí ben collocati, in modo

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da indicare il volume e il contorno della carne che in ori-gine copriva lo scheletro. Era anche facile immaginarel’alto rango del personaggio che poteva aspirare ad unmausoleo di una tale solenne ricchezza.

Eravamo colpiti dalla sua statura superiore a quellamedia dei Maya attuali, e dal fatto che i suoi denti nonerano macchiati o provvisti di incrostazioni di pirite odi giada, poiché questo uso (come quello di deformareartificialmente il cranio) era normale negli individuidelle classi sociali piú elevate. Lo stato di distruzione delcranio non ci permise di stabilire esattamente se erastato deformato o meno. Alla fine decidemmo che il per-sonaggio non doveva essere di origine maya, sebbeneevidentemente alla fine fosse diventato uno dei re diPalenque. I rilievi che dovevamo ancora scoprire suifianchi del sarcofago e che erano nascosti sotto i sup-porti laterali, ci diranno forse tra breve qualcosa sullapersonalità e identità del loro glorioso morto.

Anche se non fosse stato sepolto nella tomba piústraordinaria finora scoperta in questo continente ame-ricano sarebbe stato assolutamente possibile stabilirel’importanza del grado da lui rivestito in base ai gioiel-li che indossava, alcuni già noti dai bassorilievi maya.Come si osserva in molti rilievi, egli indossava un dia-dema di sottili dischi di giada e i suoi capelli erano divi-si in ciocche mediante piccoli tubi fatti apposta anch’es-si di giada. Scoprimmo anche una piccola tavoletta digiada di straordinaria qualità che rappresentava la testadi Zotz, il dio vampiro del mondo infero, e potevaessere la parte finale del diadema. Intorno al collo eranovisibili vari fili di un collare composto di elementi digiada di varia forma: sfere, cilindri, grani trilobati, boc-cioli di fiori, fiori sbocciati, zucche, meloni e una testadi serpente. I tappi per orecchie erano composti di varielementi che formavano insieme uno strano fiore. Dauna lastra di giada quadrata con petali incisi sporgevaun tubetto anch’esso di giada terminante in un grano a

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forma di fiore; sul retro della lastra quadrata (che portaun’iscrizione geroglifica) era infisso un tampone circo-lare. Tutti questi elementi dovevano essere uniti da unfilo e sembrerebbe che da esso pendesse come con-trappeso, dietro la parte espansa dell’orecchio, unamagnifica perla artificiale, formata unendo due pezzi dimadreperla perfettamente tagliati, levigati e dispostiin modo da dare l’impressione di una perla di dimen-sioni favolose (trentasei mm). Sul petto era posato unpettorale formato da nove anelli concentrici di ventu-no grani tubolari ciascuno. Attorno a ogni polso c’eraun braccialetto di duecento grani di giada e ad ogni ditodelle due mani un grosso anello di giada, che trovam-mo ancora infisso alle falangi; uno era scolpito in formadi un uomo accoccolato con una testa delicata dal per-fetto profilo maya. Il morto nella mano destra tenevaun grosso grano di giada a forma cubica e nella sinistraun altro sferico; si trattava forse dei simboli del suorango o di elementi magici per il suo viaggio nell’altromondo. Accanto ai suoi piedi trovammo altri due gros-si grani di giada, uno bucato e fornito di due tappi aforma di fiori. Un idolo di giada di preziosa fatturastava accanto al piede sinistro e rappresentava proba-bilmente il dio sole. Un’altra figurina dello stesso mate-riale doveva essere stata cucita sul perizoma. Dallacavità orale estraemmo un bel grano di giada scura,che, secondo i riti funebri dei Maya, vi era collocatoaffinché il morto potesse ottenere sostentamento nellavita ultraterrena. Al momento del seppellimento il per-sonaggio portava sul viso una magnifica maschera dimosaico di giada, con occhi di conchiglia, gli iridi diossidiana e pupille segnate in nero. Delle centinaia diframmenti, alcuni erano ancora sul viso, aderenti aidenti e alla fronte, ma la maggior parte giacevano a sini-stra della testa, evidentemente perché la maschera erascivolata durante la sepoltura. Il cadavere doveva esse-re stato disposto nel sepolcro completamente avvolto in

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un sudario dipinto in rosso, e quando questo e la carnesi decomposero il colore del cinabro aderí alle ossa, aigioielli e al fondo del sarcofago. La maschera era posa-ta direttamente sul viso del morto; infatti i vari ele-menti erano attaccati a un sottile strato di stucco di cuisi trovano ancora frammenti sul viso. Ciò nonostantela maschera doveva essere stata preparata in anticipo epoi tenuta forse su una testa di stucco. Può darsi chenei tratti essenziali, cosí realistici, rappresentasse piú omeno la faccia del morto. Dopo la sepoltura il sarcofa-go fu chiuso con il suo coperchio e coperto con l’enor-me pietra scolpita su cui vennero deposti alcuni gioiel-li: un collare con pendenti di ardesia e quella che pote-va essere una maschera rituale di mosaico di giada, esotto la bara vennero posti vari vasi d’argilla che forsecontenevano cibo e bevande e due magnifiche testeumane modellate in stucco, tolte da statue intere. Allachiusura della cripta vennero sacrificati sei giovani,forse figli e figlie di importanti personaggi di corte, chedovevano fungere da compagni e servi del morto nel-l’altro mondo. Nei crani meglio conservati si possononotare la deformazione e la mutilazione dei denti abi-tuali solo nella nobiltà. Un serpente modellato in gessosembrava levarsi direttamente dal sarcofago e salire gliscalini che portano alla soglia della stanza. Qui si tra-sformava in un tubo che correva fino al pavimento delcorridoio, dopo di che portava al tempio sotto forma diuna modanatura a scaglioni, incavata e sovrapposta agliscalini. Ciò significa una magica unione, un condottoper lo spirito del morto, lungo il quale ascendere al tem-pio affinché i sacerdoti potessero continuare a essere incontatto con il suo essere deificato e in grado di inter-pretarne gli ordini. La nostra ricerca di un edificio piúantico sotto il Tempio delle Iscrizioni non poté perciòcondurre ai risultati sperati, ma in compenso rivelò unatomba la cui scoperta porta notevoli modifiche in certiconcetti ormai fissi circa la funzione della piramide

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americana. Si pensava un tempo che questa rappresen-tasse semplicemente una base massiccia per sostenereun tempio, a differenza delle piramidi egizie che sonovasti mausolei. La «tomba reale» di Palenque, come èora popolarmente chiamata con una certa proprietàintuitiva, forse ci porta molto piú vicini al concetto egi-zio, una volta ammesso che la piramide che la nascon-deva, sebbene sorreggesse un tempio, era anche costrui-ta per servire come grandioso monumento funebre. Lamonumentalità di questa cripta, costruita da migliaia dimani per sfidare i secoli e arricchita di magnifici rilie-vi, la sontuosità della tomba stessa, monumento colos-sale di quasi venti tonnellate tutto coperto di bassori-lievi di splendida qualità, il ricco corredo di giada delpersonaggio sepolto, tutto questo dispendioso appara-to e questa magnificenza ci suggeriscono l’esistenza aPalenque di un regime teocratico simile a quello egizio,in cui l’onnipotente re-sacerdote era considerato unvero dio sia in vita sia dopo la morte. La tomba realedi Palenque ci induce anche a supporre che l’atteggia-mento verso la morte del halach ninic maya fosse moltosimile a quello dei faraoni. La pietra che copre la tombasembra confermare questo concetto e sintetizza nei suoirilievi alcuni punti essenziali della religione maya. Lapresenza qui, in una lastra sepolcrale, di motivi ripetu-ti in altre rappresentazioni, ci da forse la chiave perinterpretare i famosi pannelli della croce e della crocetrifogliata (a Palenque) e anche alcune illustrazioni deicodici. Sulla pietra in questione vediamo un uomo cir-condato da segni astronomici che simboleggiano il cielo,limite spaziale della terra dell’uomo e sede degli dèi, incui il corso immutabile delle stelle segna il ritmo impla-cabile del tempo. L’uomo sta sulla terra, rappresentatada una testa grottesca con tratti funerei, poiché la terraè un mostro che divora tutti i viventi; e se l’uomo pie-gandosi sembra cadere all’indietro, ciò allude al desti-no insito in lui di cadere a terra, il paese dei morti. Ma

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sopra l’uomo si leva il ben noto motivo crociforme, chein alcune rappresentazioni è un albero, in altre la pian-ta di mais stilizzata, ma costituisce sempre il simbolodella vita che risorge dalla terra, della vita che trionfasulla morte.

«Illustrated London News», 29 agosto 1953

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hiram bingham Machu Picchu, la città sacra

Hiram Bingham (1875-1956) nacque a Honolulu e studiò

alle Università di Yale, California e Harvard. Conseguí anche

il titolo di dottore in lettere all’Università di Cuzco in Perú e

percorse una brillante carriera politica accanto a quella acca-

demica. Poco dopo la laurea si uní ad una spedizione nell’A-

merica meridionale e dal 1906 fece cinque viaggi di esplora-

zione e ricerca. Il suo lavoro mise in luce molti elementi della

splendida civiltà, degli Inca e forse il suo successo piú spetta-

colare fu, nella campagna del 1911, la scoperta di una magni-

fica città inca costruita in pietra nella regione montuosa di

Machu Picchu.

Le rovine di quella che si crede fosse la perduta cittàdi Vilcapampa antica, arroccata in cima ad uno strettocrinale sotto il picco di Machu Picchu, sono chiamate lerovine di Machu Picchu perché quando le scoprimmonessuno sapeva come chiamarle altrimenti. Il nome èstato accettato e continuerà ad essere usato anche se nes-suno ora dubita che questa fosse l’area dell’antica Vil-capampa.

Il santuario rimase ignoto per secoli perché questocrinale è nell’angolo piú inaccessibile delle Ande cen-trali. Nessuna parte dell’altipiano del Perú è megliodifesa da barriere naturali: uno stupendo canyon di roc-cia granitica i cui precipizi sono spesso a picco per piúdi trecento metri e presentano difficoltà che intimidi-scono i piú ambiziosi alpinisti moderni. Eppure qui, in

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una parte remota del canyon, su questo stretto crinalefiancheggiato da terribili precipizi, un popolo civilissi-mo, di grande sensibilità artistica, ricco d’iniziativa,ben organizzato e capace di sforzi prolungati, in uncerto momento del lontano passato si è costruito unsantuario per il culto del sole.

Poiché non avevano strumenti di ferro o di acciaio,ma solo martelli di pietra e piccoli picconi di bronzo, lasua costruzione deve aver richiesto intere generazioni,se non secoli, di fatica. Per impedire che nemici o visi-tatori indesiderabili raggiungessero le loro celle o tem-pli contavano prima di tutto sulle rapide di Urubamba,pericolose anche nella stagione secca e assolutamenteinvalicabili almeno per metà anno. Questa era la lineadi difesa piú esterna su tre lati. Sul quarto il massicciodi Machu Picchu è accessibile dall’altopiano solomediante uno stretto crinale a lama di rasoio, largo nonpiú di dodici metri e fiancheggiato da precipizi dove essicostruirono un piccolo ma robusto forte, delle vere eproprie Termopili. Nessuno poteva raggiungere il recin-to sacro se l’inca non aveva cosí decretato, come speri-mentarono a loro spese frate Marcos e frate Diego.

Mentre le pendici piú basse di Huayna Picchu sonodi accesso relativamente facile nella stagione secca, ilmasso di Huayna Picchu è separato dalle rovine da unaltro crinale a lama di rasoio insormontabile dal latoorientale e percorribile da quello occidentale solo daIndi ben sicuri su un sentiero pedonale. Questo sentie-ro corre per piú di cento metri lungo una spaccaturaorizzontale entro un precipizio sovrastante di puro gra-nito. Due uomini avrebbero potuto difenderlo facil-mente contro un esercito ed è questa la sola via per cuida Huayna Picchu si può raggiungere Machu Picchu.

Questo per quanto riguarda l’accesso da nord. I latiorientale ed occidentale del crinale si elevano di quat-trocentocinquanta metri sufficientemente ripidi peressere imprendibili. I soldati inca potevano facilmente

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far rotolare massi sugli invasori, secondo il loro sistemafavorito, come ci attestano i conquistatori. Se c’era unsentiero su ogni lato come oggi, questi sentieri poteva-no essere difesi a turno facilmente da un pugno di uomi-ni. Dovunque delle interruzioni nei precipizi avesseroacconsentito agli invasori di prender piede, erano stateerette delle mura e rinforzate le difese naturali.

Sul lato meridionale si levano a picco i dirupi dellamontagna di Machu Picchu. In tempi antichi erano fian-cheggiati da due strade degli Inca. La strada sul latooccidentale del picco correva lungo un’altra spaccaturaorizzontale o faglia proprio sulla fronte di un magnificoprecipizio. Se ne possono ancora scorgere tracce, macadute di massi l’hanno distrutta. Sul lato opposto dellamontagna la strada inea superava la pendice scoscesa permezzo di una scala di pietra e girava intorno alla mon-tagna con un sentiero che solo le capre avrebbero potu-to percorrere con facilità. Tutte e due queste stradeportano al piccolo crinale, su cui sorgevano le già men-zionate Termopili, che solo dava accesso alla montagnadi Machu Picchu dall’altipiano e dall’orlo meridionaledel canyon. Tutti e due potevano essere facilmente dife-si in vari punti.

Secondo la loro ben nota abitudine, trovammo incima a entrambi i picchi vicini, sul Machu Picchu e sulHuayna Picchu, le rovine di posti di guardia inca, da cuiera possibile mandare e ricevere segnali attraverso imonti. L’arrivo di visitatori indesiderabili o anche illontano approssimarsi di un nemico avrebbero potutoessere avvistati e immediatamente comunicati alla città.La stazione di guardia di Machu Picchu. era necessa-riamente la piú importante. Non si era trascurato nullaper renderla sicura ed efficiente. La sua costruzionerichiese grande abilità e coraggio straordinario. È collo-cata proprio sulla cima di uno dei piú stupendi precipi-zi delle Ande. Se qualcuno degli operai addetti allacostruzione del muro di sostegno, proprio sull’orlo della

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stazione di segnalazione, fosse scivolato, sarebbe cadu-to per mille metri prima di trovare una roccia abbastanzalarga da fermare il suo corpo. Non mi vergogno di con-fessare che quando presi delle fotografie di qui, non solostavo prono, ma due fedeli Indiani mi tenevano salda-mente per le gambe. È davvero un’altezza che dà i bri-vidi; immaginatevi costruirvi un muro!

Il santuario di Vilcapampa era considerato cosí sacroche oltre alle difese esterne e ai precipizi rinforzati cheproteggevano la città contro i nemici, vennero costrui-ti due muri per non lasciar entrare i visitatori o gli ope-rai cui era stato permesso di superare la montagna-Ter-mopili. Sul lato meridionale della città c’erano un muroesterno ed uno interno. Quello esterno corre lungo leestremità di una magnifica fila di terrazze coltivate.Accanto vi sono mezza dozzina di edifici che vannoconsiderati come baracche per i soldati che avevano ilcompito di difendere la città dall’unico lato accessibiletramite le antiche strade e quindi relativamente vulne-rabile. Qui c’era anche una linea di difesa piú interna.Nella parte piú stretta del crinale, proprio prima che siraggiunga la città da sud, fu scavata una trincea, o fos-sato senz’acqua, con le pareti foderate di pietra. Sopradi essa il muro vero e proprio della città si stende attra-verso la cima del crinale e lungo ambo i lati finché rag-giunge i dirupi a picco che lo rendono superfluo.

Proprio sul punto piú alto del crinale c’era nel muroun largo ingresso fatto di massicci blocchi di pietra. Laporta, probabilmente uno steccato di pesanti tronchilegati insieme, doveva essere fissata in alto a un grossoanello di pietra a occhiello conficcato sopra l’architravee sotto un metro e ottanta o due metri di muratura. Ailati, la porta era talvolta fissata a una grossa traversa lecui estremità erano infilate in forti cardini, dei cilindridi pietra, saldamente ancorati in fori lasciati negli stipitiper questo scopo. Una tale porta poteva, naturalmente,essere sfondata da assalitori che usassero un grosso tron-

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co a mo’ di ariete. Per evitare questa eventualità, l’in-gegnere che costruí la fortificazione aggiunse una parteaggettante ad angolo retto con l’ingresso. Con questoespediente i difensori, stando in cima alla sporgenza,potevano bersagliare gli assalitori che cercavano diabbattere la porta con un tiro laterale di pietre e massi.

Le mura della città erano troppo alte per essere sca-late facilmente. Infatti un nemico che fosse stato cosífortunato da superare tutte le difese naturali di questapotente fortezza e avesse aggirato i difensori dei nume-rosi passi simili alle Termopili, si sarebbe trovato in unapessima situazione quando si fosse precipitato lungo leterrazze verso le fortificazioni interne. Alla fine delleterrazze avrebbe dovuto saltare nel fosso poi scalarnel’altra parete e le mura della città stando per tutto que-sto tempo sotto una pioggia di sassi lanciati dalle fion-de dei difensori. È difficile immaginare una forza diattacco abbastanza numerosa da vincere questa impo-nente difesa, anche se la città fosse stata presidiata soloda poche decine di soldati risoluti. Naturalmente lemura in tempo di pace servivano anche ad impedire agliintrusi di entrare nei sacri recinti del santuario. Nel-l’accla-huasi, o casa delle Donne scelte dal Sole, non erapermesso entrare a nessun uomo tranne all’imperatore,ai suoi figli, ai nobili inca e ai preti.

La porta della città mostra i segni di essere stata ripa-rata. La cima dello stretto crinale in questo punto èoccupata da un grosso blocco di granito inserito nellefortificazioni, o piuttosto le mura vennero rafforzatevalendosi di questo elemento. Come risultato, lo stipi-te esterno del massiccio ingresso poggia su una terrazzaartificiale, la quale si è abbassata di alcuni centimetri perl’erosione dei fianchi scoscesi della collina; di conse-guenza il muro non risulta piú perfettamente a piomboed ha cominciato a distruggere la bella porta antica.Non ci vorrà molto prima che cada il grande architraveportando con sé la parte di muro riparata che vi si appog-

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gia. Guardando l’ingresso alla cittadella si ha la sensa-zione chiara che il restauro sia stato eseguito abbastan-za frettolosamente in un periodo assai posteriore allacostruzione originaria, probabilmente da Manco II.

Lo spazio era limitato, e le case ammucchiate l’unasull’altra, ma un esteso sistema di strette strade e di scalescavate nella roccia rendeva relativamente facili le comu-nicazioni entro le mura. In realtà l’elemento forse piúcaratteristico di Machu Picchu è il gran numero di scale:ce ne sono piú di cento tra grandi e piccole. Alcune natu-ralmente hanno solo tre o quattro gradini, mentre altrene hanno fino a centocinquanta. In alcuni casi l’interarampa di sei, otto o anche dieci gradini era tagliata inun solo masso. Le scale che uniscono le varie terrazzecoltivate seguono il declivio naturale del monte anchedove è cosí ripido da renderle piú simili a una scala apioli che ad una rampa di gradini. In alcuni punti, su ter-razze che non misurano nemmeno cinquanta metri qua-drati, erano stati inseriti dei giardini sopra e dietro lecase di abitazione. Per renderli accessibili gli Inca hannocostruito fantastiche scale appena larghe quanto bastaper farvi passare un ragazzo. Nella città, comunque, eparticolarmente nelle strette strade e viali, le scale eranopiuttosto comode.

La scala o rampa di scalini come motivo cerimonialeo ornamentale dell’architettura inca non pare sia pre-sente qui, sebbene possa aver preso lo spunto da questalocalità. Nelle rovine di un ingresso monolitico a Tiahua-naco, Bolivia, in una curiosa roccia scavata chiamataKhenho, presso Cuzco, vi sono piccole rampe di scalericavate per scopi cerimoniali o ornamentali che nonhanno alcuna utilità pratica, almeno per quanto si puògiudicare ora. Le scale di Machu Picchu, al contrario,forse con una sola eccezione, sembrano tutte disposteper raggiungere posti altrimenti di difficile accesso. Sonopiú numerose dello stretto necessario, ma nessuna appa-re inutile neppure oggi. La scala piú lunga, che si può

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considerare l’arteria principale della città, comincia incima al crinale dalla terrazza di dove la strada maestraentra nelle mura, e dividendo grosso modo la città in dueparti corre fino alle rocce insormontabili sul fianco nor-dorientale.

La via principale nel cuore della città è in gran parterappresentata da questa scala di granito di centocin-quanta gradini e vi erano situate le maggiori opere idri-che. Come al solito, gli Inca avevano gran cura di faretutto il possibile per provvedere un adeguato approvvi-gionamento di acqua.

Vi sono parecchie sorgenti sui fianchi del monteMachu Picchu nel raggio di un miglio dal cuore dellacittà. Il piccolo azequia, o condotto, che portava l’acquadalle sorgenti può ancora essere seguito per un buontratto lungo il fianco della montagna. È stato parzial-mente distrutto per gli slittamenti del terreno, ma si puòvedere dove corre lungo una delle principali terrazze col-tivate, attraversa la trincea in un sottile acquedotto dipietra, passa sotto il muro della città in una scanalaturalarga meno di quindici centimetri e prosegue lungo unadelle terrazze fino alla prima della serie di fontane o pic-coli bacini di pietra collocati accanto alla scala princi-pale, i primi quattro a sud di questa, che, presso la quar-ta fontana, si divide in due rampe. In questo puntocomincia una serie di altri dodici bacini. L’azequia dopol’ultima fontana corre verso sud e si scarica nel fosso.

I bacini della Scala delle Fontane sono normalmentericavati da un unico blocco di granito posto allo stessolivello del pavimento di un piccolo recinto in cui ledonne venivano a riempire le loro brocche dallo strettocollo. Sovente nelle pareti laterali del recinto eranocostruite una o due piccole nicchie per appoggiarvi unacoppa o forse i tappi delle bottiglie fatti di fibra o di filid’erba intrecciati. Talvolta nella pietra era praticato untaglio all’estremità del condotto, in modo da formare unbeccuccio che permettesse all’acqua di defluire limpida

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sulla parete posteriore della fontana. In altri casi l’acquapassava normalmente attraverso lo stretto orifizio conforza sufficiente per raggiungere l’imboccatura dellagiara senza che i portatori dovessero attingere l’acquadal bacino. Comunque, in tempi di siccità, possiamo starcerti che veniva seguito questo ultimo metodo, e loscopo dei sedici bacini non era solo quello di permette-re di riempire contemporaneamente molte giare, maanche di evitare che si sprecasse il preziosissimo liqui-do. L’azequia, che in genere misura meno di dieci cen-timetri, è piú stretto di tutti gli altri che ho visto in altrelocalità.

I bacini di pietra sono lunghi circa settantasei centi-metri e larghi quarantacinque e profondi da dodici aquindici. In alcuni punti il bacino e l’intero pavimentodel recinto della fontana sono costituiti da un’unicalastra di granito. Talvolta in un angolo del bacino c’e-rano dei fori per permettere all’acqua di defluire attra-verso condotti sotterranei accuratamente scavati finoalla fontana successiva piú in basso; in caso di necessitàquesti fori potevano essere facilmente otturati per lascia-re riempire il bacino. I condotti corrono talvolta sottola scala e talvolta a lato di essa. È forse degno di nota ilfatto che i Peruviani odierni chiamino queste fontanebaños, bagni, ma non mi sembra probabile che servisse-ro a questo scopo. Data la rarefazione dell’aria, il fred-do e la rapida irradiazione, neanche gli Anglosassoni sibagnano spesso nell’altipiano peruviano, e gli Indi mon-tanari contemporanei non si bagnano mai. È perciò dif-ficile supporre che i costruttori di Machu Picchu usas-sero questi bacini per uno scopo del genere. D’altraparte gli Inca amavano facilitare il compito dei portatorid’acqua fornendo loro fontane ben costruite.

Forse una delle ragioni per abbandonare Machu Pic-chu come località residenziale fu la difficoltà di prov-vedere acqua sufficiente. Nella stagione secca le picco-le sorgenti fornivano a malapena acqua sufficiente per

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bere e cucinare a noi e ai nostri quaranta o cinquantaoperai indi. In tempi antichissimi, quando i fianchi dellamontagna erano coperti di foreste, le sorgenti eranoindubbiamente piú ricche, ma dato il diboscamento cheseguí l’occupazione continua, con i conseguenti slitta-menti di terreno e l’aumento dell’erosione superficiale,le sorgenti dovevano talvolta dare acqua in quantitàcosí scarsa da costringere gli abitanti della città a por-tare l’acqua sulle spalle in grandi giare da distanze con-siderevoli.

È significativo che i cocci trovati presso la porta dellacittà rappresentino quarantuno contenitori per la refri-gerazione dell’acqua, contro solo quattro recipienti dacucina, nove mestoli per bere e non un solo piatto. Evi-dentemente i dispensieri di chicha stazionavano qui. Irisultati sono anche piú sorprendenti se paragonati coni reperti nel quartiere sudorientale dove brocche e piat-ti furono rinvenuti quasi nelle stesse proporzioni.

Il piú ampio spazio piano entro il perimetro della cittàgiace in un avvallamento nella parte piú larga del crina-le. Questo era accuratamente livellato e terrazzato e almomento della nostra visita era stato recentemente col-tivato da Richarte e dai suoi amici. In realtà si sarebberodovute percorrere molte miglia nel canyon dell’Uru-bamba prima di trovare una «pampa» altrettanto largaa un’altezza di non meno di duemila metri e di non piúdi tremila. In altre parole questa piccola pampa offrivaun’occasione eccezionale a un popolo abituato a racco-gliere le messi che crescevano a Yucay e Ollantay-tambo.Il fatto di potere anche trasformare i fianchi della colli-na adiacente con terrazze artificiali, che avrebberoaumentato il potenziale della regione come produttricedi generi alimentari, fu senza dubbio un fattore altret-tanto importante per la scelta della località che la faci-lità di trasformarla in una potente cittadella o in un san-tissimo santuario. Una delle scale meglio costruite portadirettamente dai templi principali proprio alla piccola

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pampa; forse era la pampa dove cresceva l’albero huilca(la huilca-pampa).

C’è solo una porta della città. Il lato settentrionale odi Huayna Picchu, non era difeso da un muro trasver-sale, ma da alte e strette terrazze, costruite su piccolisperoni che avrebbero altrimenti costituito un punto dipassaggio sui precipizi. Accanto a queste terrazze c’è unalarga sella che unisce Machu Picchu con una altura coni-ca che fa parte di un crinale che porta ai picchi scosce-si di Huayna Picchu. A sud della sella, che era un tempocoperta da una folta foresta, c’è un rozzo anfiteatro. Erastato terrazzato e vi sono cinque o sei diversi livelli,recentemente sfruttati dagli Indi per piccole piantagio-ni. Può darsi che si tratti del terreno speciale dove si col-tivavano gli alimenti per i capi. Qui, tra steli di grano,viticci di zucca e bucce di cipolla, abbiamo trovato quae là qualche frammento di ceramica.

Lost City ot the Incas, 1951

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victor von hagen Il ponte di San Luis Rey

Victor Wolfgang von Hagen è nato nel 1909 a St Louis Mis-

souri, e l’elenco delle esplorazioni da lui compiute sembra

troppo numeroso per la vita di un uomo. Soltanto in America

comprende il Messico, l’Equador, l’alta Amazzonia, le Gala-

pagos, l’Honduras, il Guatemala, il Panama settentrionale, la

Columbia, l’Amazzonia, il Perú, le Indie occidentali e la Boli-

via. Egli non ha limitato i suoi viaggi esclusivamente al Nuovo

Mondo. Nel 1959 decise di rintracciare la rete stradale del-

l’impero romano, dal Reno al Nord Africa, e visitò l’Italia, la

Jugoslavia, la Grecia, e la Turchia. Uno degli incarichi piú

importanti da lui portato a termine fu quello di direttore della

grande strada degli Inca per la Società geografica americana, per

cui ricostruí il percorso della grande strada degli Inca da un’e-

stremità all’altra.

Le pareti della galleria, che era lunga esattamenteduecentoventotto metri, erano forate da aperture chepermettevano all’aria e alla luce di entrare. Arrampica-tomi fino a queste «finestre» scorsi attraverso di esse lecime coperte di neve del Monte Marcani. Il metodousato dagli Inca per costruire la galleria era molto simi-le a quello dei Romani per minare la roccia. Dopo aver-la arroventata con un violento fuoco, vi si gettavanocontro getti d’acqua, che spaccavano la friabile arenaria.Gli Inca, abilissimi nel lavorare la pietra con la pietra,non avevano problemi da risolvere. Le loro tecnicheardite nell’architettura erano un’altra cosa. Al termine

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della galleria, che una volta era in comunicazione conuna strada a scalini tagliata e costruita nella roccia, pas-sammo attraverso la pericolosa fenditura e, raggiunta lagradinata circolare, scendemmo assai lentamente giú perla scalinata. Nel lontano 1543 Cieza de León avevaincontrato qualche difficoltà nel superare queste stessescalinate, sebbene allora esse fossero in buone condi-zioni. «Qui la strada è cosí scabrosa e piena di pericoli,che alcuni cavalli carichi d’oro e d’argento erano cadu-ti ed erano andati persi, senza speranza di salvarli».Parecchie decine di metri piú sotto, arrivammo a unripiano che una volta era stato la piattaforma, sul qualetrovammo i ruderi di due enormi torri o pilastri di pie-tra che sostenevano le funi del ponte. Sessanta metri piúin là, proprio davanti a noi, al di là dell’abisso inferna-le del fiume, vedevamo distintamente l’altro lato di quel«ponte dell’... Apurimac-chaca». Cieza aveva scrittoche era «il ponte piú grande incontrato venendo daCajamarca... con la strada ben costruita lungo i fianchidelle montagne... gli Indiani che l’avevano costruitadovevano essere stati sottoposti a una fatica erculea ...»

Non si può stabilire la data esatta della costruzionedel ponte. Dopo il 1300 gli Inca estesero il loro reamefino al confine dell’Apurimac e, secondo le loro crona-che, Inca Roca, che allora era generale, condusse a ter-mine la costruzione del ponte press’a poco a quel tempo.Questo sarebbe dunque avvenuto circa nell’A.D. 1350.Esiste una descrizione particolareggiata della sua archi-tettura dello storico Garcilaso de la Vega, nativo diCuzco e soprannominato «L’Inca»: «Il ponte di Apuri-mac, che si trova sulla Strada Reale nel tratto da Cuzcoa Lima, ha il suo sostegno di pilastri (lui lo chiamavastaffa) formato di roccia naturale dal lato di Cuzco; dal-l’altra parte (dove stavamo noi, cercando di rappresen-tarcelo nel suo complesso), c’era la torre costruita in pie-tre murate. Sotto la piattaforma che sosteneva questatorre, erano inserite cinque o sei travi dello spessore di

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un bue, che sporgevano da un capo all’altro. Eranodisposte una sopra l’altra, come scalini. Ogni cavo disospensione è ritorto una volta intorno a ciascuna diqueste travi, di modo che il ponte può rimanere teso enon cede per il proprio peso, che è grandissimo».

Finché la tecnologia del xix secolo non introdussel’uso delle catene di ferro come cavi di sospensione, ilponte di San Luis Rey, sospeso sull’Apurimac median-te enormi funi di corda, era uno dei piú grandi ponti diquesto tipo noti. Gli Inca non conoscevano l’arco, comedel resto nessun altro dei popoli americani prima dellaconquista. Fondato sui principi della gravità, della pres-sione e del peso, l’arco è ancora attaccato alla terra e pas-sivo, e perciò, se anche gl’Inca l’avessero conosciuto,non avrebbero potuto servirsene in quel luogo. Inveceessi perfezionarono i principî del ponte sospeso, rove-sciando la curva dell’arco e provvedendolo di ali.

Il ponte di San Luis Rey, come tutti i ponti sospesidella Strada Reale, pendeva da cavi di corda fabbricaticon le fibre dell’agave filate a mano. Quelli del ponte, cheavevano «lo spessore del corpo d’un uomo», venivano sol-tanto posati sulle alte torri di pietra per essere «sospesi»,e poi affondati nella compatta muratura di cui era com-posta la piattaforma delle torri. Dai cavi sospesi pende-vano dei sostegni e a questi era attaccata la piattaformadel ponte, fatta di tavole di legno. I cavi attaccati alcorpo principale del ponte servivano alla difesa dal vento.

Sebbene il materiale fosse primitivo, gli elementiessenziali della tecnica usata dagli Inca per il pontesospeso erano fondati sullo stesso principio a cui si ricor-re ancor oggi per la costruzione dei ponti sospesi piú per-fetti. La costruzione di ponti di corda risale a tempiimmemorabili. Ma poche altre civiltà prima dell’era pre-sente costruirono bene come gli Inca. In particolarequesto ponte era stato fatto con tanta perizia, che resi-stette per cinquecento anni; solo le corde, naturalmen-te, dovevano essere rinnovate ogni due anni dagli India-

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ni che vivevano nel tampu di Cura-hausi: la mansionefaceva parte del servizio del lavoro. Questo sistema dimanutenzione, cosí efficace che i conquistatori spagno-li lo conservarono durante tutto il periodo coloniale,scomparve soltanto dopo che le Ande furono invasedalla «ruota»; e il ponte che aveva servito per cinque-cento anni all’intenso traffico dei pedoni e dei muli,andò lentamente decadendo.

Gli Inca costruivano per l’eternità: la durata era perloro, come per i Romani, il fondamento di tutta l’ar-chitettura. Se qui di tanto in tanto confrontiamo il siste-ma stradale degli Inca con quello dei Romani, è perché,fino a tempi assai recenti, non esistevano altre reti dicomunicazione che potessero essere messe a confrontocon l’uno o con l’altro. Altre civiltà naturalmente ave-vano le loro grandi strade, ma fino all’avvento deiRomani, nessuna manteneva una vera rete stradale1.

Tuttavia nella loro struttura le strade degli Inca diffe-rivano molto da quelle romane. I Romani usavano carridalle ruote pesanti, con gli assi anteriori rigidi, per i qualiera necessario un fondo stradale scavato. Gli Inca, poi-ché le loro strade erano frequentate soltanto da pedoni eda greggi di lama, non avevano bisogno di fondo strada-le. Ma, prescindendo da questo, le due civiltà, degli Incae dei Romani, avevano un concetto dell’ingegneria stra-dale sorprendentemente analogo. Mentre non si può nega-re il posto che spetta ai Romani tra gli astri della civiltà,gli Inca, che vivevano in una cultura neolitica legata agliutensili di pietra, concepivano, ciononostante, un sistemadi comunicazioni di livello straordinariamente elevato inconfronto a quello dei Romani.

I Romani avevano tremila anni di esperienza a cuirifarsi quando tracciarono la loro prima vera strada. Gliaspetti della teoria e della tecnica della costruzione distrade del mondo antico costituiscono una vasta rete cheva dalle prime piste carraie dell’antica India alle stradepavimentate in pietra dei Persiani. Per quanto remote

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alcune di queste aree siano e lontane le une dalle altrenel tempo e nello spazio, i Romani potevano attingereall’eredità culturale di tutti questi secoli. Gli Inca nonavevano niente di tutto ciò, eppure una strada inca sottomolti aspetti è superiore ad una strada romana. Ogniaspetto di una strada romana trova confronto in unastrada inca, se non che, per lo piú, gli Inca costruivanoletteralmente tra le nuvole. Il ponte dell’Apurimac, peresempio, faceva parte di una strada che raggiungevaaltezze quali i Romani non avevano mai neppure visto.I passi che i Romani conquistarono non potevano certoreggere il paragone con quelli delle Ande; il Monte Bian-co, la punta piú alta d’Europa, misura quattromilaotto-centodieci metri; eppure qui in Perú abbiamo cammi-nato su una strada inca costruita a questa altezza. Leantiche strade romane che attraversavano la penisola ita-liana seguendo l’Appennino non erano piú alte dellacittà di Cuzco che sorge a tremilacento metri sul livellodel mare. Ma torniamo al nostro Cieza. Da ragazzo, inSpagna, conosceva le strade romane. Aveva percorso daTerragona e Cadice la via Augusta, costruita nel I seco-lo a. C. e rifatta ogni venticinque anni dagli imperato-ri. Aveva guidato i suoi muli sulla via Argenta che corretra Merida e Salamanca, iniziata da Tiberio, continua-ta da Nerone e rifatta da Caracalla nel 214 d. C. Altricome lui sapevano che cosa dicevano quando scriveva-no in generale che «nella cristianità non c’è nulla cheeguagli la magnificenza delle strade inca».

La simiglianza nel concetto di strada tra gli Inca e iRomani è davvero notevole. Le due civiltà eranoentrambe continentali e avevano eserciti di terra per icui spostamenti occorrono strade che garantiscano lapossibilità di itinerari costanti, e perciò entrambi esige-vano strade ben costruite e ben tenute. I Romani, èvero, seguivano la via diretta nel pensiero della città,mentre gli Inca superavano gli ostacoli invece di aggirarlie quindi i loro ingegneri adottavano generalmente quel-

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lo che posso chiamare «direzione rettilinea», cioè, datidue punti, la strada correva dritta. Cesare curò perso-nalmente la costruzione di vari tratti di strada e la fami-glia Claudia, quando non erano disponibili fondi pub-blici, attingeva dal proprio patrimonio per la costruzio-ne delle strade. In Perú il programma di costruzionistradali si identificava con i sovrani e le strade eranochiamate dall’Inca che ne aveva curata la costruzione.Per esempio una strada lunga duemilacinquecento migliache corre verso il Cile era nota come Huayna CapacNan, o la strada di Huayna Capac. Spesso un inca ordi-nava che fosse costruita per lui una strada piú grande diquella curata dal suo predecessore. I Romani metteva-no come indicatori le pietre miliari, mentre l’Incacostruiva i suoi topus «alla distanza di una lega e mezzacastigliana». Lungo la loro strada i Romani scagliona-vano quartieri per la notte o mansiones: in Perú gli Incacostruirono e mantennero lungo l’intero percorso delleloro strade dei tampus ogni quattro, otto, o dodici miglia(secondo la difficoltà e l’asprezza del terreno). I corrie-ri romani avevano lungo la via imperiale cambi di caval-li alle mutationes per far recapitare piú rapidamente imessaggi; gli Inca, camminando a piedi, avevano le lorostazioni chasqui ogni due miglia e mezza, con cambi percorrieri che portavano messaggi in tutto il territorio piúterrificante del mondo.

Il ponte, «il fratello minore della strada», come disseun romano, fu sempre un importante anello di con-giunzione nella grande rete stradale degli Inca. Quantiponti attraversassero i fiumi delle Ande non sappiamocon esattezza. Ma il piú grande di tutti era l’Apurimac-chaca, il ponte di San Luis Rey. Pochi lo attraversava-no senza fermarsi ad ammirare quel miracolo di archi-tettura. Quanto alla sua lunghezza, Garcilaso de laVega, storico degli Inca, riteneva che fosse di duecen-to passi - «sebbene io non l’abbia misurata, l’ho chie-sto in Spagna a molte persone che lo misurarono».

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Cieza, accuratissimo osservatore, pensava che fosselungo «cinquanta estados», cioè circa ottantacinquemetri (duecentocinquanta piedi), Sir ClementsMarkham, che l’attraversò nel 1855, giudicava che lalunghezza dell’Apurimac-chaca fosse di circa ventottometri e la sua altitudine sul livello del fiume di circanovanta metri, mentre il tenente Lardner Gibbon, chenel 1817 fece un’ispezione della regione delle Amazzo-ni per il governo degli Stati Uniti, ne valutò la lun-ghezza in quasi cento metri.

Quando, nel 1864, Squier e i suoi compagni giunse-ro al ponte, non persero tempo e tirarono fuori gli stru-menti per misurare e scandagliare. Accertarono cosí cheil ponte aveva, da un capo all’altro, la lunghezza di circaquarantacinque metri ed era sospeso a quasi trentaseimetri sul fiume impetuoso. Fu quella la prima è l’ulti-ma volta che il famoso Ponte venne misurato con esat-tezza; giacché nel 1890, sebbene fosse ancora sospeso,già non veniva piú usato e i cavi, che da molto temponon erano stati sostituiti, si erano pericolosamenteabbassati verso l’abisso e col passare del tempo andava-no logorandosi sempre piú. Squier fece anche parecchidagherrotipi del ponte e ne presentò un’immagine esa-geratamente drammatica in una silografia per il suo libroIl Perú, paese degli Inca. Del ponte scrisse: «Sull’abissofra le pareti scoscese dalle due parti era il famoso pontedell’Apurimac, dall’apparenza straordinariamente fra-gile e leggera. Un sentiero erto e stretto, che seguiva perun certo tratto una mensola naturale, formata dalla stra-tificazione della roccia, e poi, tagliato nella sua superfi-cie, conduceva su per una trentina di metri fino a unapiccola piattaforma, anch’essa tagliata nella roccia, allaquale erano attaccate le funi che sostenevano il ponte.Sulla riva opposta c’era un’altra piattaforma alquantopiú grande e sovrastata da un tetto di roccia sulla qualeera l’argano (arnese aggiunto dagli Spagnoli) per teneretesi i cavi e dove, come capre arrampicate su una mon-

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tagna, abitavano i custodi del ponte... Fu, tra le mieesperienze di viaggio, un’avventura memorabile - quel-la traversata del grande ponte oscillante dell’Apurimac:non potrò mai dimenticarla».

In seguito, all’inizio di questo secolo, Hiram Bin-gham, parlando delle origini del suo interesse per ilPerú, disse che quella descrizione del ponte «fu unadelle ragioni per cui mi decisi a recarmi nel Perú».

È noto che questa drammatica illustrazione del ponteispirò Prosper Merimee a servirsene come spunto lette-rario in un’opera immaginaria sul Perú, e che piú tardiThornton Wilder, ispirandosi tanto alla fantasia delloscrittore francese quanto al fascino del grande ponte cheattraversava l’Apurimac, e incantato dal luogo pittore-sco e deserto in cui esso era sospeso, scrisse il suo capo-lavoro letterario, Il ponte di San Luis Rey. Tenendo inmano questo libro, ora io guardavo giú nell’abisso le rupifra le quali una volta era sospeso il ponte. Piú tardi, dallahacienda La Estrella, scrissi a Thornton Wilder. Sape-vo ch’egli considerava il ponte come una finzione lette-raria, ma lo aveva descritto cosí bene da farmi pensareche dovesse avere visto, forse in qualche vecchio nume-ro del «Harper’s Magazine», una riproduzione dell’im-pressionante incisione, eseguita dallo Squier, di quel-l’antico ponte, che è effettivamente il vero eroe del suoracconto. «È meglio, von Hagen, – mi rispose lo scrit-tore, – che io non faccia alcun commento... vorrei esse-re con voi e vedere il grande fiume e l’abisso».

Mentre eravamo ritti sulla piattaforma che una voltareggeva i grossi cavi di sospensione del ponte, si levò,forte e frizzante, il vento pomeridiano, facendo fruscia-re il fogliame aderente alle pareti rocciose. Ora capiva-mo che un antico adagio a proposito del vento e delponte corrispondeva al vero e cioè che quando soffiava-no i venti pomeridiani, nemmeno i cavi potevano tenerfermo il ponte, e questo dondolava come un’amaca.

Quando tornammo sulle sponde del fiume cosparse di

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ciottoli era già il tardo pomeriggio. Il sole illuminava lecime nevose, mentre le ombre delle montagne si abbat-tevano sul canyon. Una lunga ombra che si proiettavaattraverso le rocce a picco dava la curiosa illusione di unponte sospeso. In quel momento dovevo trovarmi moltovicino al punto in cui fra Ginepro si era fermato a guar-dar in su verso il ponte, quando un sibilo acuto avevariempito l’aria... ed egli aveva visto il ponte dividersi ele cinque persone precipitare giú nel fiume.

«Perché ciò accadde proprio a quei cinque? - si chie-se fra Ginepro. - Se veramente un disegno regolasse l’u-niverso, se esistesse un piano prestabilito per ogni vitaumana, lo si scoprirebbe senza dubbio misteriosamentenascosto in quelle vite cosí repentinamente troncate. Osi vive secondo il caso e si muore secondo il caso, oppuresi vive e si muore secondo un disegno prestabilito».Con questo soliloquio Wilder incominciò il suo raccon-to. È una verità che sa d’ironia il fatto che, se questotragico racconto non fosse stato scritto, del meraviglio-so ponte costruito nel 1350 dall’Inca Roca, del ponteche doveva durare cinque secoli come uno dei piú gran-di contributi dell’uomo al dominio della natura selvag-gia non sarebbe rimasta traccia di ricordo.

Ai raggi del sole calante che ora scherzavano suighiacciai, la gola del fiume divenne luminosa come sefosse pieno giorno. Le ombre si erano dileguate e, conloro, l’illusione del ponte sospeso. Quando mi voltai aguardare, fra le due pareti verticali c’era di nuovo sol-tanto il vuoto.

La Grande Strada del Sole, 1968

1 Ai tempi di Diocleziano, dalle porte di Roma si diramavano tren-ta strade: si ritiene che, essendo composta di oltre trecentosettanta stra-de diverse, la rete stradale romana coprisse in tutto 53 568 miglia.

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arthur posnansky Un problema di Tihuanacu

Arthur Posnansky fu regio professore della Baviera e ingegne-

re civile geodetico, e per molti anni occupò la cattedra di

archeologia e antropologia fisica all’Università di La Paz. Per

piú di cinquanta anni studiò le antichità di Tihuanacu nelle

Alte Ande della Bolivia, che molti scienziati considerarono la

piú antica civiltà dell’emisfero occidentale. La città raggiunse

il suo massimo splendore molto prima del sorgere dell’impero

degli Inca e mostrò un grado di sviluppo straordinariamente alto

in un periodo paragonabile a quello dei piú antichi stanzia-

menti del vecchio mondo.

Per molti il gruppo di rovine trovato a duecentoqua-rantasei metri a est del tempio del Sole, Kalasasaya, èun vero e proprio mistero e molti esploratori, fra cuiSquier, pensano che questa località servisse per sacrifi-ci cruenti. Dopo lunghi e coscienziosi studi siamo venu-ti alla conclusione che quello che oggi è chiamato «Kan-tataita» è il modello di una costruzione di Tihuanacu,forse simile a quella, descritta in uno dei capitoli prece-denti, che dal tempo della Missione Francese (1903) éstata chiamata «Tempio dei Sarcofagi».

Ora quando un moderno architetto od ingegnere siaccinge a fare una costruzione, non importa se grandeo piccola, disegna prima di tutto una pianta in cui coor-dina i concetti formali e visivi con cui vuole impronta-re l’edificio, gli accessori che disporrà all’interno e l’a-spetto e la configurazione esterna. Poiché ai nostri gior-

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ni la costruzione di un edificio per abitazione o pubbli-co richiede da un minimo di sei mesi a un massimo ditre anni, e chi lo progetta in genere lo porta a termine,una pianta di questo tipo risulta sufficiente. Nel caso diTihuanacu invece, quando non esisteva l’assioma «iltempo è denaro», perché vi era fin troppo tempo men-tre i mezzi, le risorse e il sistema di costruzione eranoancora assai rudimentali, al punto che per rimuovere lasuperficie di una pietra di un metro quadrato occorre-vano mesi, un lavoro di costruzione, malgrado l’abbon-danza di manodopera, durava un secolo e piú, e anchecosí poteva restare incompiuto. Perciò è indubitabileche durante l’erezione di un tempio o di un palazzo gliarchitetti e i direttori dei lavori venivano cambiati piúvolte. Poiché non esistevano disegni o piante a cuipotesse ricorrere chi continuava il lavoro, occorrevaqualcos’altro per tramandare l’idea costruttiva, qualco-sa che incorporasse il primitivo concetto e piano dell’e-dificio cui si lavorava. Per questa ragione si adottò unsistema usato anche oggi per dare una rappresentazio-ne della forma e la prospettiva di un edificio o di unmonumento da costruire, in altre parole «un plastico».Al giorno d’oggi l’edificio è costruito in scala ridotta instucco o in qualche altro materiale e la prospettiva e glielementi principali dell’edificio risultano in esso piúchiari che in un disegno. Questo non serve solo all’ar-chitetto, ma specialmente a chi non si intende di que-sto tipo di disegni e non è abituato a «leggere» una pian-ta architettonica con le sue diverse proiezioni. Sembrache questo sistema di plastici sia stato usato nel terzoperiodo di Tihuanacu per eseguire una magnifica costru-zione e, secondo noi, che quello oggi chiamato Kanta-taita, sia proprio un modello orizzontale di una sontuosacostruzione. Anche un blocco presso Puma-Punku chia-mato dalla gente comune «la scrivania degli Inca», nonè altro che il modello verticale di una facciata, forse diun edificio che doveva far parte del gruppo noto come

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Puma-Punku e in pratica e il Tempio della Luna diTihuanacu.

Per quanto riguarda Kantataita, questo gruppo dirovine e anch’esso completamente distrutto. Tutto ciòche era sfruttabile, lastre e pietre finemente incise, cono senza figure, venne asportato da iconoclasti colti eincolti di Tihuanacu, «la cava di pietre lavorate», moltoprima della conquista. Pertanto occorrono molto studio,fantasia e immaginazione per ricostruire mentalmente laforma e l’aspetto di questo gruppo architettonico che,come tutti quelli di Tihuanacu, non venne finito a suotempo. Questo gruppo di edifici è apparentemente lungoquaranta metri sull’asse e largo forse trenta metri, ma èlogico supporre che un gran numero di blocchi trovatiall’estremità occidentale appartengano piuttosto all’of-ficina degli scultori e dovessero formare, una volta fini-ti, parte di un grande plastico o di un altro splendidoedificio intorno a questo gruppo. La parte principale ditutta la costruzione sembra una lastra di grandi dimen-sioni, che ha indotto alcuni a supporre, e tuttora insi-stono, che questo edificio fosse stato progettato persacrifici cruenti, il famoso Wilancha da me esaminato inaltre opere. Nella lastra c’è un’incisione quadrata conuna balconata da cui si può veder scendere dalla piat-taforma superiore al fondo cinque scalette composte ditre gradini. La tesi di coloro che la considerano una pie-tra sacrificale ha origine dalla presenza di sei fori prati-cati nella piattaforma superiore del blocco dove, secon-do loro, c’erano sei colonne quadrate per sorreggere lapietra piatta del sacrificio. I piccoli gradini servivano,secondo i difensori di questa tesi, per misurare quantosangue usciva dal petto o dal collo della vittima propi-ziatoria. Chiunque studi attentamente Tihuanacu rifiu-ta immediatamente questa idea. Per esempio, per misu-rare il sangue sarebbe bastato un solo gradino perché lapietra era piana. La lastra rappresenta in realtà il model-lo di un edificio tipico e originale di Tihuanacu. Quan-

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do la Missione Francese scavò l’edificio chiamato«Palazzo dei sarcofagi» considerato in uno dei prece-denti capitoli, la sezione scoperta allora aveva anch’es-sa un balcone e ripeteva esattamente, fino nei minimidettagli, ivi compresi i piccoli gradini, la forma rappre-sentata nella lastra che stiamo considerando. Propriocome l’ultima parte della sezione del balcone trovatoverso est e rotta, cosí è rotta anche l’ultima e magnifi-ca scala che costituiva l’ingresso all’edificio in miniatu-ra. Questa, senza dubbio, non era altro a sua volta cheuna miniatura della scalinata esterna di tre gradini a trecolori diversi che dava accesso al «Palazzo dei sarcofa-gi» di cui, come di altri dettagli, abbiamo ancora buonefotografie. Sfortunatamente non fu possibile fotografa-re immediatamente lo scavo della missione francese permancanza di lastre ventiquattro per trenta e per altrimotivi. Diciamo «sfortunatamente», poiché nelle nottisuccessive gli iconoclasti spesso ricordati avevano giàpraticamente distrutto ogni cosa e portato al villaggiotonnellate di belle pietre incise e di splendide lastre ditutte le dimensioni. Quando tornammo qualche giornopiú tardi rimanevano solo i blocchi grossi che non ave-vano potuto rimuovere e trasportare. Le due fotografie(ventiquattro per trenta) di questo materiale, che rap-presentano l’unica documentazione esistente, mostranoi resti di quello che fu uno degli edifici artisticamentepiú pregevoli, un’opera architettonica rara e magnifica,della preistoria americana. Alla luce della discussioneprecedente, non abbiamo dubbi che ciò che oggi vienepopolarmente chiamato «Kantataita» non è altro che unmodello di un edificio in costruzione nel Terzo Perio-do. Questa struttura era indubbiamente un edificiosemisotterraneo con una piattaforma esterna a un’al-tezza superiore al livello comune di Tihuanacu. La lastrache abbiamo descritto, che costituisce la parte principaledel plastico, è larga quattro metri e cinque centimetri,lunga quattro metri e spessa trenta centimetri e mostra

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una leggera depressione nella parte volta a occidente. Èdi dura andesite, materiale impiegato nelle miglioricostruzioni del Terzo Periodo. Sul lato occidentale diquesto gruppo si trovò, in un grande mucchio, una granquantità di blocchi, alcuni a forma di scalini e altri contipici ornamenti di scale. Sottolineiamo ancora una voltache è molto difficile decidere se tutti facevano parte delplastico o dell’edificio in miniatura, o se una parte eradestinata ad altri edifici, e se, infine, il modello occu-pava un quadrato di soli trenta metri per lato o se erapiú grande. Studi futuri, condotti sulla base di scavi edi ricostruzioni metodiche, diranno l’ultima parola suquesta misteriosa costruzione il cui segreto, come moltialtri di Tihuanacu, potrebbe forse non rivelarsi mai agliuomini d’oggi. La già menzionata carta topografica cheaccompagna questo volume darà allo studioso un’ideaesatta di ciò che resta ancora di questa costruzione al disopra del livello del suolo.

Tihuanacu: Cradle of American Man, 1945

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parte settima Nuovi metodi al servizio dell’archeologia

osbert crawford Archeologia aerea

Osbert Guy Stanhope Crawford (1886-1957) nacque a Bom-

bay e si trasferí in Inghilterra ancora bambino. Studiò ad

Oxford, a Marlborough e Keble College, dove lesse i classici,

ma ben presto si dedicò agli aspetti piú propriamente tecnici del-

l’archeologia. Nel 1914 si assicurò un posto in una spedizione

nel Sudan che venne annullata allo scoppio della guerra. Arruo-

latosi, venne assegnato al Royal Flying Corp per cui fece nume-

rosi voli di ricognizione. Dopo la guerra scavò nel Galles fino

al 1920 quando venne nominato ufficiale archeologo addetto

ai rilievi topografici, incarico che si addiceva alla perfezione alle

sue inclinazioni e alle sue capacità; continuò in questo posto

fino all’uscita del primo numero del periodico «Antiquity» da

lui fondato, che continuò a dirigere fino alla morte.

Veniamo ora alla scoperta di una tecnica che rivolu-zionò il campo dell’archeologia, la fotografia aerea. Horaccontato altrove i punti salienti della sua storia e nonè necessario ripeterli, vorrei semplicemente sottolinea-re che i vantaggi della prospettiva verticale dei terrapienierano stati pienamente compresi sia dal dottor Wil-liams-Freeman che da me molto prima di vedere unafotografia aerea, e prima della nostra epoca dal colon-nello Sir Charles Arden-Close e dal defunto Sir HenryWelcome, che con un box-kite [apparecchiatura per foto-grafie aeree] aveva scattato nel 1913 delle vere e propriefotografie verticali dei suoi scavi in Sudan. Però né ildottor Williams-Freeman né io ci attendevamo che la

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fotografia aerea conferisse ai terrapieni tanta straordi-naria chiarezza e incisività. Eravamo abituati a guardarlida breve distanza; talvolta vedevamo tra il grano la trac-cia di un solco di aratro che rivelava come una largafascia piú verde; ma vista dall’altro lato della collina ilprofilo appariva confuso. Desideravamo avere una visio-ne non obliqua ma in piano, come sarebbe stato possi-bile da un aereo, ma non ci rendevamo conto che la mag-giore distanza data dall’altezza potesse far risaltare tantogli elementi piú importanti. L’effetto è esattamente lostesso della riproduzione fotografica di una pianta appe-na tracciata; scompaiono le irregolarità e quanto sem-brava rozzo diviene bello e piacevole.

Dopo la guerra del 1914-18 feci alcuni tentativi nonriusciti di impadronirmi di qualche fotografia aereainglese e cercai di interessare la commissione per i ter-rapieni con lo stesso risultato. In seguito al fallimentodel suo allora segretario onorario la commissione persel’occasione della sua vita. I miei desideri furono final-mente appagati quando il dottor Williams-Freeman michiese di andare a Weyhill a vedere alcune fotografieaeree che presentavano dei segni curiosi, che gli eranostate mostrate dal commodoro dell’areonautica ClarkHall allora comandante della sezione raf ivi stanziata.Ciò che vidi superava di gran lunga i miei sogni piúaudaci ed io provai la stessa eccitazione che, secondo ilpoeta, provò l’intrepido Cortez in una occasione memo-rabile. Qui, in queste fotografie, era rivelata la piantaesatta degli appoderamenti antichi che dovevano risali-re almeno a duemila anni prima e coprivano centinaia diacri dello Hampshire. Seguí un periodo di intenso lavo-ro di scavo su questa area con l’aiuto di nuove fotogra-fie aeree prese nel Hants e nel Wilts. I risultati furonoannunciati in un congresso alla Royal GeographicalSociety del 12 marzo 1923. La relazione che tenni inquell’occasione venne pubblicata nel «GeographicalJournal» nel maggio di quell’anno e poi ripubblicata con

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alcune modifiche come monografia sulla ricognizionetopografica (Air Survey and Archaeology, prima edizione1924, seconda edizione 1928). Nel 1929, dopo averavuto il tempo di studiare piú minuziosamente le foto-grafie aeree, scrissi un’altra monografia (Air Photographyfor Archaeologists) che riguardava non tanto le nuove sco-perte quanto il modo come la fotografia le rivelava.Nella macchina da presa non c’era alcun potere magico,come alcuni sembravano credere; in realtà essa non haun potere visivo superiore a quello di un occhio nudo;quello che fa è dare un documento, la copia fotografica,che ha tutte le proprietà di un manoscritto storico ori-ginale, tranne la sua unicità perché può essere sostitui-ta se va persa. Questo documento può essere studiatocon comodo in casa o in ufficio, confrontato con altri econ la carta topografica della regione, tutte cose impos-sibili quando si guarda da un velocissimo aeroplano. Inquesta seconda monografia classificavo gli stanziamen-ti antichi messi in evidenza dalla fotografia aerea in tregruppi: 1) stanziamenti rivelati da ombre; 2) stanzia-menti a macchia; 3) stanziamenti rivelati dalle coltiva-zioni; tale classificazione è stata trovata idonea ed eancora valida, non solo in questo paese ma in tutto ilmondo.

Nella stessa decade, eseguii io stesso alcune fotogra-fie aeree in collaborazione con Alexander Keiller, da unaeroplano appositamente noleggiato in una base pressoAndover. I risultati furono pubblicati in un libro scrit-to in collaborazione Wessex from the Air (Oxford 1928).Subito dopo, credo nel 1930 circa, un pilota civile, ilmaggiore George Allen, vide per caso una delle miemonografie sul rilievo topografico in un hotel diSouthampton e se ne interessò immediatamente. Miscrisse sull’argomento e cominciò a lavorare per proprioconto. Disponendo di un aereo personale, agiva libera-mente, poteva andare dove voleva e prendere fotogra-fie. Continuò per un decennio a esplorare la regione

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intorno a Oxford e qualche volta anche piú lontano epoco per volta accumulò una magnifica collezione. Glistanziamenti da lui ripresi erano per lo piú tra le colti-vazioni e venivano ripresi per la prima volta. Fece piúdi chiunque altro per il progresso della nuova tecnica; ela sua morte prematura per incidente nel 1940 fu unaperdita molto grave. Egli lasciò la sua collezione all’A-shmolean Museum di Oxford, dove gli studiosi posso-no consultarla. Paragonabile al lavoro del maggiore Allenè quello del padre Poidebard in Siria, dove con la coo-perazione dell’aviazione francese egli esplorò le difese diconfine romane e scoprí un enorme numero di nuoviforti e strade romane. Riuscí anche ad ottenere un altrosuccesso: la fotografia di antichi resti sommersi nel mare(a Tiro) ripresi sia dall’alto che sott’acqua. (Avevo ten-tato anch’io qualcosa di simile nel dicembre del 1928,quando volai sul porto di Alessandria cercando le ban-chine sommerse, ma il mare era agitato e fangoso e poteivedere poco o niente).

Ma torniamo alla tecnica della fotografia aerea. Glistanziamenti ombreggiati, sono quelli a superficie irrego-lare, con argini, tumuli, fossi e terrazze la cui presenza èrivelata dalle ombre che essi gettano quando vengonoosservati alla luce radente dell’alba o del tramonto. Senzadubbio non c’è nulla di misterioso in questo processo chepuò essere notato anche da terra, sebbene con risultatimeno clamorosi. Lo stesso principio viene sfruttato perfotografare rocce con iscrizioni o incisioni in bassorilie-vo, per le quali è necessaria una luce radente che ne mettain risalto i dettagli. Spiegando mediante esempi comefunziona la tecnica delle ombre devo necessariamenteanticipare qualche cosa, perché devo presupporre unacerta familiarità con un determinato tipo di resti che nonho ancora descritto; ma per il momento sarà sufficienteconsiderarli semplicemente come argini (o quello chesono), senza addentrarci nel loro significato archeologico,che apparirà piú tardi. Gli esempi piú semplici e familia-

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ri di argini sono i bastioni dei forti collinari preistoricicome Maiden Castle o Badbury Rings o, per prendereesempi dallo Hampshire, la collina di Santa Caterina aWinchester, il Monte Tachbury e Toothill presso Ram-sey. Questi sono tutti stanziamenti ombreggiati del tipopiú ovvio. Un osservatore visitando questi forti collinarivede naturalmente sui fianchi le ombre dalla parte oppo-sta al sole, ma non ha una chiara visione del forte colli-nare nel suo complesso, né della sua pianta perché vi etroppo vicino. Ritornando al paragone con le incisioni suroccia, il nostro uomo è nella stessa situazione di unamosca che cammini sulla superficie scolpita. Non è neces-sario insistere oltre su questo punto; il principio fonda-mentale è molto facile da capire.

Sotto la definizione di località con ombre possonorientrare, abbastanza paradossalmente, anche quelle incui non ci sono affatto ombre. Quando il terreno è incli-nato dalla parte del sole, gli argini su di esso riflettonola luce con un angolo diverso e appaiono come linee piúluminose rispetto al terreno circostante. La luce cosíriflessa è in prospettiva e condensata e perciò piú bril-lante. Gli argini dei campi preistorici si rivelano in que-sta forma.

Le località con ombre possono essere notate tutteanche da un osservatore a terra. Molte erano già noteprima di essere fotografate dall’aereo; ma anche cosí lafotografia aerea ha spesso rivelato nuovi elementi maiosservati in precedenza. L’esempio classico è il Trund-le, un forte collinare presso Worthing, dove una foto-grafia aerea rivelò all’interno dei bastioni un cerchio finoad allora mai osservato, che il dottor Cecil Curwen inseguito scavò e dimostrò essere i bastioni di un prece-dente stanziamento neolitico. Ciò Portò a riesaminarealtri ben noti forti collinari in alcuni dei quali vennerotrovati resti analoghi.

Se scattata con una buona luce radente una fotogra-fia aerea rivelerà sulla superficie ondulazioni cosí ampie

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e poco profonde che avrebbero potuto sfuggire, e soven-te cosí accadde, anche all’occhio esperto di un archeo-logo. Quando invece egli si reca sul luogo, come dovreb-be sempre fare, con la fotografia aerea fra le mani e diconseguenza con l’attenzione già focalizzata, può gene-ralmente vedere qualcosa, sia pure in modo appena per-cettibile. Una delle maggiori utilità della fotografia aereaè infatti stata quella di aguzzare i nostri occhi, cosí chepossiamo scoprire anche queste piccole ondulazioni. Perun occhio inesperto esse sembrano cosí poco visibili darisultare trascurabili; ma nessun indizio. per quantoapparentemente di scarsa importanza, dovrebbe esseretrascurato. Alcuni li trascurano come frutto di immagi-nazione, ma la fotografia aerea li ha messi in primopiano insieme a chi li ha osservati. Si deve ricordare, èun assioma fondamentale dell’archeologia pratica, chenelle regioni calcaree e in alcune altre, ma non in tutte,ogni irregolarità della superficie è di origine umana erichiede una spiegazione. Argini larghi e bassi possonosembrare inezie, ma qualsiasi giardiniere o agricoltore sache non lo sono. La cubatura di un argine, sebbeneattualmente sia alto solo pochi centimetri e largo alcunimetri, rappresenta lunghe ore di fatica, e la gente nonle ha spese senza scopo o solo per mettere in imbarazzogli archeologi. La stessa osservazione serve per il casoinverso, di fossi riempiti di sabbia la cui depressioneattuale può misurare appena pochi pollici. La loroprofondità originaria probabilmente non era molto infe-riore alla loro larghezza attuale; il fosso di un forte col-linare spianato può apparire come una depressione ditrenta centimetri con una larghezza di quattro metriche rappresentano forse una profondità originaria di tremetri. È una questione complicata.

Stanziamenti a macchia sono quelli che vengono rive-lati dallo sconvolgimento e conseguente variazione dicolore della superficie. Tranne che nei deserti (dove ipochi stanziamenti umani sono per lo piú stanziamenti

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con ombre), gli stanziamenti a macchia si incontranonormalmente sui terreni coltivati quando non sonocoperti da messi. I segni sono in genere causati dalladispersione della terra di argini, monticelli e dallo ster-ro di strade costruite dai Romani o da altri. In un ter-reno calcareo tali argini sono stati fatti gravando unfosso e ammonticchiando il calcare bianco; l’argine chene risulta resta perciò visibile anche dopo molti anni diaratura. Fosse e buche sono talvolta rivelate sul terrenospoglio anche dopo essere state completamente riempi-te e invisibili come irregolarità del terreno, perché il lororiempimento trattiene maggiore umidità e perciò appa-re piú scuro. Per la stessa ragione un panno bagnato èpiú scuro di uno asciutto. Gli stanziamenti a macchiasono piú comuni in inverno e all’inizio della primavera,specialmente di una primavera secca che in altri perio-di dell’anno. Nel caso di forti collinari è normalmenteil terrapieno, o ciò che ne rimane, che forma una mac-chia nel terreno e il fosso un segno nelle coltivazioni.Perciò è bene fotografare stanziamenti di questo tipovarie volte in diversi periodi dell’anno e in diverse con-dizioni di umidità.

Gli stanziamenti con coltivazioni sono forse i piúimportanti e i piú numerosi. La maggior parte di quelliconosciuti rappresentano scoperte completamentenuove. Una località coltivata è rivelata dalla diversa cre-scita del raccolto; le cause sono difetto ed eccesso diumidità; fosse, pozzi, buche per pali, quando vengonoriempite, restano zone molli, la cui composizione èdiversa da quella del terreno circostante nel quale sonostati scavati, sia esso calcare, sabbia, ghiaia, roccia oanche argilla. Quando il grano (o qualche altra pianta)è seminata in un terreno che contiene queste zone riem-pite, il grano crescerà meglio nel terreno piú umido e piúfertile del riempimento, e perciò sarà di un verde piúintenso. Viste dall’alto queste macchie di verde piú cuporisultano in netto contrasto con il resto; una fotografia

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verticale dà una pianta esatta delle strisce e dei punti,che vi appaiono naturalmente in nero. Non importa daquanto tempo la cavità è stata riempita; il disegno ènetto e preciso. I fossi di tumuli che vennero appiattiticon l’aratro nell’età del ferro, duemila anni fa, sonoritornati alla luce in questo modo, sotto forma di cerchiben netti e chiaramente visibili.

Sarebbe impossibile dare in questa sede anche solo unelenco delle importanti scoperte di stanziamenti rivela-ti dalle coltivazioni fatte negli ultimi venticinque annie mi devo limitare a indicarne solo alcune. La prima euna delle piú famose è la continuazione del viale cheporta a Stonehenge. Lo vidi per la prima volta nel 1923,non in una positiva ma in una negativa eseguita nel1921 dalla raf a Old Sarum durante i rilievi ordinari.L’esistenza dei fossi della strada fu dimostrata in quel-lo stesso anno mediante uno scavo. Un po’ piú tardi, nel1926, il capo squadriglia Insall scoprí non molto lonta-no i cerchi di travi chiamati Woodhenge, le cui bucheapparvero come degli ovali concentrici di macchie scure,racchiusi in un anello scuro che segnava il fosso. Vennescavato piú tardi dai Cunnington che ne pubblicaronoil resoconto in un libro. Uno dei piú sorprendenti stan-ziamenti rivelati dalle coltivazioni fu Woodbury. Lotrovai io stesso nel 1924, ma non ero riuscito a foto-grafarlo, e venne riscoperto di nuovo e ben fotografatoda un membro della squadra fotografica della raf a OldSarum nel 1929. La località fu scelta per uno scavo dellaSocietà di preistoria e vi furono dedicate due stagioni dilavori nel 1938 e nel 1939, sotto la direzione del pro-fessor Bersu. Si dimostrò che si trattava di uno stan-ziamento residenziale dell’inizio dell’età del ferro; vennesplendidamente ricostruito a Denham da JacquettaHawkes con la consulenza del professor Bersu e fu usatonel film sulla vita preistorica. Il maggiore Allen scopríinnumerevoli stanziamenti tra le coltivazioni nel distret-to di Oxford e nella guerra del 1939-45 il luogotenente

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dell’aeronautica D. N. Riley ne trovò nella stessa regio-ne, nei terreni paludosi e in altre parti dell’East Anglia.Dopo la guerra il dottor St Joseph ha scoperto molti diquesti stanziamenti, tra cui dozzine di nuovi forti roma-ni e accampamenti provvisori.

Nell’Iraq, il capo squadriglia Insall scoprí Seleucia, lacapitale ellenistica della Mesopotamia, osservando lapianta rettangolare rivelata in parte dalla vegetazione ein parte da mutazioni di colore del suolo. I resti di anti-chi sistemi di irrigazione forniscono un soggetto idealeper gli stanziamenti tra le coltivazioni e a macchia. Quel-li dell’Iraq si possono generalmente considerare comelocalità con ombre, perché gli antichi canali si sono auto-riempiti di sabbia fino a trasformarsi in grandi argini;ma presso Ur si può vedere molto bene un canale riem-pito (che si rivela mediante le macchie o mediante la col-tivazione) completo dei suoi canaletti di distribuzione.I canali di drenaggio romano-britannici e il sistema diappoderamento connesso, nonché i sentieri, sono rive-lati dalla fotografia aerea con abbondanti dettagli, masono per lo piú inediti. Sistemi di irrigazione non piú inuso sono stati rivelati in Nubia, nel Turkmanistan, e nel-l’Azerbaijan sovietico, ma pare che né gli egittologi négli archeologi russi ne abbiano pubblicato alcuna foto-grafia aerea.

Una delle piú importanti scoperte di stanziamentirivelate dalle coltivazioni avvenne in Italia alla fine del-l’ultima guerra per opera di John Bradford. Qui vennealla luce un gruppo assolutamente insospettato di forti-ficazioni collinari di epoca neolitica e dell’inizio del-l’età del bronzo, i cui fossi di difesa sono visibili con sor-prendente chiarezza e precisione di contorno in alcunefotografie aeree scattate in parte durante la guerra e inparte durante una speciale ricognizione archeologicaintrapresa da Bradford immediatamente dopo.

Stanziamenti rivelati dalle coltivazioni ancora inedi-ti sono stati documentati fotograficamente nel Siam e

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nell’Indocina francese; e il dottor St Joseph ne ha nota-ti anche nell’America settentrionale. Si possono perciòtrovare simili stanziamenti in ogni continente (tranne,finora, in Australia), ed è evidente che siamo appenaall’inizio delle scoperte. Non c’è ragione di dubitare chein regioni favorevoli intere epoche di storia andate per-dute possono essere ricuperate grazie alla fotografiaaerea seguita da scavi scientifici. Ovviamente non dap-pertutto si può scavare; ma quando si è eseguito qual-che saggio, stabilendo in tal modo con certezza il tipodi pianta, la fotografia aerea fornirà i dati per tracciaremappe di distribuzione di questi tipi.

Se si cercasse di indicare dove è possibile raccoglie-re la piú abbondante messe di stanziamenti rivelatidalle coltivazioni, sarebbe difficile escludere qualsiasiparte del mondo, eccetto le regioni polari, le foreste tro-picali e i deserti. In realtà a questo punto intendevo fareun tentativo, ma aprendo l’atlante e sfogliandolo hocambiato idea; vi sono cosí poche regioni con probabi-lità di essere completamente sterili, mentre sono cosínumerose quelle quasi certamente ricche e produttive.La messe è davvero abbondante, ma i mietitori sonopochi e spesso frustrati dall’apatia ufficiale e dalla lorostessa mancanza di intraprendenza e di iniziativa. Milimiterò a un semplice elenco di alcune regioni ovvia-mente piú promettenti: la Cina, l’Indocina e il Siam,l’India settentrionale, la Turchia occidentale, la Tessa-glia e la Tracia, l’Europa centrale dalle steppe russe (chedevono abbondare di stanziamenti tra le coltivazioni),all’Ungheria (dove li ho visti io), la Nigeria, i terreni ric-chi di grano dell’America settentrionale e meridionale.Non si dovrebbero cercare questi stanziamenti dovemancano grandi estensioni coltivate e dove l’uomo prei-storico non ha avuto ragione di scavare buche e fossi.La prima considerazione esclude molti paesi mediter-ranei e prevalentemente montuosi, la seconda le regio-ni come l’Australia e quelle parti dell’Asia centrale dove

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l’esistenza era principalmente nomade. Comunque cen’è abbastanza per tenere gli archeologi impegnati permolti secoli.

Archaeology in the Field, 1953

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jacques-yves cousteau Il Museo azzurro

Jacques-Yves Cousteau è nato nel 1910 nella Gironda ed ha

studiato alla scuola navale. Durante la seconda guerra mon-

diale, in cui si distinse tanto da meritarsi la croce di guerra,

avvertí la necessità di una forma di movimento subacqueo piú

libero di quella concessa dal normale casco da palombaro, e

dopo motti esperimenti e con qualche rischio personale, svi-

luppò l’autorespiratore. Dopo la guerra studiò le possibili appli-

cazioni della sua invenzione nel campo delle ricerche oceano-

grafiche, e da allora il suo lavoro nella biologia marina, nella

esplorazione e nell’archeologia gli ha procurato molti ricono-

scimenti internazionali.

Nel Mediterraneo, nel raggio della profondità rag-giungibile con i respiratori giacciono sepolti i piú beitesori. Questo mare circondato dalle piú antiche civiltàè il padre stesso della cultura, un museo fra il sole e leonde. La piú grandiosa delle scoperte subacquee, anostro giudizio, sono i relitti di navi precristiane sulfondo. Due volte ci siamo avvicinati a relitti classici ericuperato ricchezze, oltre all’oro, di oggetti d’arte emanufatti antichi. Abbiamo individuato altre tre navi diquesto tipo che aspettano di essere salvate.

Sulla terra ferma non si è conservata alcuna nave dacarico dell’antichità. Le navi dei Vichinghi, trovatesepolte in terra, e le barche da diporto dell’imperatoreTraiano recuperate nel prosciugamento del lago diNemi, sono splendidi esempi di navi non commerciali

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dell’antichità, ma sulle navi mercantili che mettevano inrelazione tra di loro le varie nazioni si sa ben poco.

Il mio primo contatto con le navi classiche avvennenella baia di Sanary, dove quaranta anni or sono unpescatore rinvenne la testa di una statua di bronzo. Eglimorí prima che io arrivassi a Sanary, e non ho mai potu-to sapere dove l’avesse trovata.

Alcuni anni piú tardi Henry Broussard, presidentedel Club subacqueo di Cannes, riportò da un’immer-sione con autorespiratore un’anfora greca. La bella giarad’argilla a due manici era la botte da trasporto dell’an-tichità, usata per vino, olio, acqua e grano. Le navi dacarico fenice, greche, cartaginesi e romane portavanocentinaia di anfore in reti nelle stive. Il fondo dell’anforaè conico; in terra veniva infilato nel terreno, a bordo eraprobabilmente inserito in fori nelle rastrelliere dellanave. Broussard disse di aver visto un mucchio di anfo-re in venti metri d’acqua, ma non si accorse che esseindicavano un naufragio perché la nave era completa-mente sepolta.

Ci tuffammo dall’Elie Monnier e trovammo le anforein disordine e rotte su un letto di materia organica com-patta in un polveroso e grigio paesaggio di erbacce. Conuna potente pompa aspirante praticammo una galleriaper trovare la nave. Dal condotto vennero alla luce uncentinaio di anfore per lo piú ancora con il tappo. Alcu-ne avevano anche sigilli di cera ben conservati con le ini-ziali degli antichi mercanti di vino greci.

Per alcuni giorni aspirammo fango e anfore; quattrometri e mezzo piú in basso trovammo del legno, il tavo-lato del ponte dell’imbarcazione, una delle due navi dacarico che furono trovate. Non eravamo equipaggiati pereseguire un recupero totale e il tempo a nostra disposi-zione era limitato. Ce ne andammo con anfore, esem-plari di legno e la conoscenza di una località archeolo-gica subacquea unica che aspetta uno scavo relativa-mente semplice. Crediamo che lo scafo sia conservato e

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possa essere sollevato in un solo pezzo. Quante cose que-sto relitto potrebbe dirci sulla costruzione delle navi esul commercio internazionale del lontano passato!

Sulle navi antiche abbiamo qualche nozione superfi-ciale grazie a pitture murali e vascolari, e possiamo farecongetture abbastanza fondate sulla scienza dei naviga-tori di professione. Le navi da carico erano corte e lar-ghe e probabilmente non potevano viaggiare controvento. I pochi fari esistenti erano semplici fuochi tenu-ti accesi sulla spiaggia e non c’erano segnali o boe sullerocce o sulle secche. I capitani probabilmente temeva-no di perdere di vista la costa e cercavano sempre diammarare durante la notte. I timonieri ereditavano dipadre in figlio la coscienza dei rischi inerenti alla guidadi una nave. Condannate a costeggiare le rive, le navierano preda delle improvvise tempeste mediterranee edelle insidie degli scogli. La maggior parte di quelle chenaufragarono perciò deve essere affondata in acque lito-ranee relativamente basse, in un raggio raggiungibilecon immersioni. Le battaglie navali e i pirati aumenta-rono la quantità dei relitti nei bassi fondi. Credo che cisiano centinaia di antichi scafi conservati nel fangoaccessibile.

Una nave ferma sotto meno di diciotto metri di acquaè stata probabilmente distrutta per l’azione della mareae della corrente, ma se si è arenata piú in basso giace nelcalmo museo del fondo. Se la nave è caduta su un fondoroccioso e non poté essere completamente inghiottital’intensa vita del mondo subacqueo l’ha subito sopraf-fatta. Alghe, spugne, idrozoi e gorgoni l’hanno avvi-luppata; una fauna affamata ha cercato nel relitto ciboe riparo. Generazioni di molluschi sono morti e sonostati rosicchiati da altri animali che hanno sparso escre-menti sabbiosi e fango che si sono ammonticchiati viavia che il relitto calava a picco. Dopo secoli l’azionesimultanea di venire avviluppato e corroso hanno rag-giunto un livello comune e il fondo del mare si è rin-

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chiuso lasciando forse solo una traccia simile ad unacicatrice.

Un tuffatore deve avere occhi esperti per trovare letracce di un simile relitto: una piccola anomalia delfondo, una roccia di forma strana, o la curva aggraziatadi un’anfora coperta d’erba. Le anfore di Broussarddovevano essere sul ponte, perché anfore nella stivasarebbero state coperte insieme alla nave. Molte naviantiche devono essere andate perdute senza lasciaretraccia, perché palombari in cerca di coralli o di spugne,ignorando la possibilità che le anfore indicassero la pre-senza di una nave piú in basso, le hanno rimosse senzanotarne la posizione.

I segni dell’unica altra nave da carico classica trova-ta, la galera di Mahdia, erano inequivocabili. Questadesignazione di galera comunque è impropria: la navenon aveva ordini di remi, era una semplice nave a velacostruita espressamente per portare un carico, incredi-bile per quei tempi, di almeno quattrocento tonnellate.La nave mercantile di Mahdia venne costruita dai Roma-ni dell’impero, circa duemila anni fa, per lo scopo spe-cifico di portare via dalla Grecia tesori d’arte. Il nostroritrovamento fu la conclusione di un romanzo gialloarcheologico.

Nel giugno del 1907 uno dei fantastici palombarigreci che girano il Mediterraneo in lungo e in largostava cercando delle spugne al largo di Mahdia sullacosta orientale tunisina, quando trovò, alla profonditàdi centoventisette piedi, file e file di lunghi oggetti cilin-drici semisepolti nel fango. Egli riferí che il fango eracoperto di cannoni.

L’ammiraglio Jean Baehme, al comando del distret-to navale franco-tunisino, mandò dei palombari in rico-gnizione. Gli oggetti vennero classificati come sessan-tatre cannoni disposti pareva in ordine sparso, forman-do sul fondo del mare un ovale insieme ad altre grandiforme rettangolari. Avevano tutti una spessa crosta di

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fauna e flora marina. I palombari ne sollevarono uno.Quando vennero staccate le incrostazioni apparverodelle scanalature nel marmo: i «cannoni» erano colon-ne greche di ordine ionico.

Alfred Merlin, direttore statale delle antichità tuni-sine, mandò le notizie al famoso archeologo e storico del-l’arte Salomon Reinach; questi cercò dei mecenati chefinanziassero l’opera di recupero. Aderirono due ameri-cani, un apolide che si firmò duca di Lubar secondo untitolo concesso dal pontefice e James Hazen Hyde, ilquale diede ventimila dollari. Reinach non garantí alcunrisultato, ma Hyde voleva sostenere l’impresa. La spe-dizione venne affidata al tenente Tavera, che ingaggiòesperti palombari civili italiani e greci equipaggiati coni piú moderni tipi di scafandro.

A quello stadio della tecnica di immersione la profon-dità rappresentava un serio problema. Quell’anno ilComitato della regia marina per l’immersione in profon-dità stava elaborando le prime tavole degli stadi didecompressione per operazioni fino a quarantacinquemetri di profondità, ma Tavera non ne era ancora al cor-rente. Alcuni sommozzatori furono cosí gravemente feri-ti dei nodi da dover cessare la loro attività. La difficilee pericolosa operazione venne proseguita per cinqueanni.

La nave mercantile era un museo di scultura classica.Non conteneva solo capitelli, colonne, elementi oriz-zontali dell’ordine ionico, ma anche crateri incisi, vasida giardino alti come un uomo. I palombari trovaronostatue di marmo e figure di bronzo sparse sul pavimen-to come se si fossero trovate sul ponte della nave e si fos-sero sparpagliate mentre la nave si inclinava sul fiancocome una foglia che cade.

Merlin, Reinach e altri esperti attribuirono questitesori all’Atene del I secolo a.C. e pensavano che la naveda carico fosse affondata circa nell’80 a.C. mentre tra-sportava il bottino razziato sistematicamente dal ditta-

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tore romano Lucio Cornelio Silla che aveva saccheggia-to Atene nell’86 a.C. Era evidente che gli elementiarchitettonici costituivano un tempio completo o unavilla suntuosa che gli esperti d’arte di Silla avevanopreso pezzo per pezzo e imbarcato da Atene versoRoma. È vero che la nave era molto lontana dalla rottatra la Grecia e Roma, ma questo fatto non era eccezio-nale per le rozze navi a vela di quell’epoca. Vennerorecuperati tanti oggetti d’arte da riempire cinque stan-ze del Museo Alaoui di Tunisi, dove si possono ancoroggi ammirare. Nel 1913 l’operazione di recupero venneinterrotta quando cessò il finanziamento.

Sentimmo parlare per la prima volta della nave dacarico nel 1948, quando facemmo un’esplorazionearcheologica subacquea del supposto porto commercia-le sommerso dell’antica Cartagine. L’estate precedenteil generale dell’areonautica Vernoux, comandante inTunisia, aveva scattato personalmente alcune curiosefotografie aeree delle basse acque al largo di Cartagine.Nel mare trasparente si vedevano distinte forme geo-metriche che somigliavano straordinariamente ai moli eai bacini di un porto commerciale. Le foto vennero esa-minate da padre Poidebard, uno studioso gesuita che eraanche cappellano dell’Aviazione. Egli aveva scoperto iresti sottomarini dei porti di Tiro e di Sidone all’iniziodegli anni venti ed era ansioso di visitare la scoperta diCartagine.

Padre Poidebard venne a bordo dell’Elie Monnier eingaggiammo una squadra di dieci palombari per esami-nare il porto. Non trovammo tracce di muratura o dicostruzione fatta dall’uomo, e per verificare le nostreconclusioni facemmo tagliare da una potente draga delletrincee negli elementi del «porto». Il lavoro di dragag-gio non rivelò tracce di materiale da costruzione.

Allora negli archivi tunisini e nel Museo Alaoui tro-vammo la storia della nave da carico di Mahdia. Lamonografia di Merlin e il rapporto del tenente Tavera

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ci indussero a credere che c’erano ancora molti tesoririmasti nel relitto; quando lessi il nome dell’ammiraglioJean Baehme provai un brivido; era il nonno di miamoglie. Quando trovammo i nitidi e dettagliati disegnidi Tavera che mostravano l’esatta posizione del relittoandammo a cercarlo.

Uscimmo al largo nella luce accecante di una dome-nica mattina, studiando i disegni. Ce n’erano tre dipunti di riferimento che combinati avrebbero dovutoportarci alla nave. Il primo era un castello visto al di làdi un contrafforte di pietra di una banchina in rovina.Vedemmo subito il castello, ma vi erano quattro pilastridella banchina che avrebbero potuto indifferentementeallinearsi con il castello.

Il secondo punto di riferimento era un piccolo cespu-glio sulle dune in linea con la cresta di una collina. Neitrentacinque anni trascorsi da quando Tavera avevadisegnato il cespuglio solitario, attorno ad esso era cre-sciuta una vera e propria foresta. L’ultimo punto di rife-rimento era una variazione di colore in un lontano oli-veto con un mulino a vento in primo piano. Guardam-mo attraverso i cannocchiali finché la vista ci si confu-se, ma non vedemmo nessun mulino a vento. Facemmoapprezzamenti ben poco gentili sul tenente Tavera, oraun defunto ammiraglio, e desiderammo che avesse stu-diato la cartografia sulla carta dell’isola del tesoro diRobert Luis Stevenson.

Scendemmo a terra per cercare le rovine del mulinoe caricammo su un camion travi di legno e stoffa percostruire un segnale sul posto. Andammo su e giú per lastrada polverosa interrogando la gente del luogo. Nes-suno ricordava il mulino, ma qualcuno suggerí che forseil vecchio eunuco ne sapeva qualcosa. Lo trovammozoppicante per la strada, un ottuagenario decrepito conla testa calva e bianche basette folte. Era difficile imma-ginarlo come doveva essere stato un tempo, l’untuoso esuperbo factotum di un harem da Mille e Una Notte. I

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suoi occhi smorti si illuminarono in modo incoraggian-te. – Mulino a vento? Mulino a vento? – squittí. – Vici porterò io –. Portando i nostri attrezzi lo seguimmoper alcune miglia attraverso la campagna fino ad unmucchio di rovine. Ci affrettammo a costruire il nostrosegnale. Il vecchio ci guardò preoccupato e mi mor-morò: - Ne ricordo un altro piú avanti -. Ci portò ad unsecondo mucchio di pietre. Mentre lo guardavamo addo-lorati egli si ricordò ancora di un terzo mulino; la costadi Mahdia sembrava un cimitero di mulini.

Ritornammo all’Elie Monnier e tenemmo consiglio.Decidemmo di sfruttare al massimo le possibilità tecni-che di ricerca subacquea per riscoprire il relitto come senon sapessimo nulla della sua posizione. Questo noncomplicava troppo la situazione. Avevamo due elemen-ti sicuri; il relitto era nelle vicinanze e alla profonditàdi circa trentanove metri. Le sonde acustiche avevanostabilito che il fondo era quasi piano con piccole varia-zioni di profondità. Incrociammo finché trovammo laprofondità piú vicina ai sondaggi di Tavera.

Sul fondo marino disponemmo una rete di filo diacciaio che copriva diecimila metri quadrati con magliedi quindici metri. I palombari potevano cosí nuotareavanti e indietro lungo le strisce esaminando il terrenoa destra e a sinistra in cerca di segni del relitto. Ci vol-lero due giorni per fare il giro della rete. Avremmo tro-vato perfino un orologio caduto sul fondo, ma nellanostra rete non c’era alcuna nave romana.

Il tenente Jean Alinat propose di scendere in un bati-scafo. Lo trainammo attorno al bordo esterno della retema non trovò nulla. Cosí passò senza risultati il quintogiorno della nostra caccia alla nave. Quella notte dimo-strammo la nostra disperazione decidendo di cercarepiú vicino alla spiaggia.

La mattina dopo il comandante Tailliez fece scosta-re il batiscafo e si fece trainare su un salvagente da unanave ausiliaria. Nelle nostre campagne contro l’indomi-

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to mare penso proprio d’aver toccato il punto piú bassodello sconforto quella mattina, la sesta infruttuosa.Stavo già componendo mentalmente un rapporto perspiegare ai miei superiori di Tolone perché avevo fattolavorare per una settimana due navi e trenta uomini perun relitto recuperato nel 1913. Il padre Poidebard assu-meva sempre piú ai miei occhi l’aspetto di un ammira-glio in collera.

Suonò un grido di allarme. Nell’acqua assolata gal-leggiava un piccolo punto di plastica arancione, la boasegnale personale che Tailliez portava alla cintura; quan-do la piccola boa affiora, il sommozzatore ha notatoqualcosa di importante. Tailliez emerse, si levò il respi-ratore e gridò: - Una colonna! Ho trovato una colonna!

Gli antichi documenti indicavano che una colonnaera stata estratta dal relitto e abbandonata quandoerano state sospese le operazioni. La nave era nostra.Corremmo a Mahdia per la notte e ordinammo cham-pagne per tutti. Ciò che accadde quella notte nelle oste-rie illustra il problema di una ciurma che ha trovato untesoro sottomarino. La città brulicava di notizie tra cuiquella che avevamo trovato la favolosa statua d’orodella nave, un oggetto ormai entrato nella leggenda evenerato a Mahdia da un terzo di secolo. La colonna diFilippo corrosa dai molluschi si trasformava in una for-tuna in oro. Ammiratori venivano da ogni parte a con-gratularsi con noi.

Cominciammo a lavorare allo spuntar del giorno.Dumas ed io scendemmo sul fondo e trovammo il puntoesatto del relitto principale. Non sembrava affatto unanave. Le cinquantotto colonne rimanenti erano vaghicilindri coperti di spessi strati di vegetazione e di ani-mali. Giacevano abbattute, piatte sul fondo fangoso.Chiamammo in aiuto la fantasia per ricostruire un’im-magine della nave. Essa doveva essere stata una navemastodontica per i suoi tempi. Misurammo con il metrola distribuzione delle colonne, e ne risultò una nave

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lunga circa quaranta metri e larga dodici, due volte l’E-lie Monnier che si profilava nel cielo sopra le nostreteste.

Il relitto giaceva in una nuda distesa di fango e sab-bia, che si allargava a perdita d’occhio nelle chiareprofondità. Era un’oasi per i pesci. Grandi branzininuotavano nel museo sommerso. Notammo che sullecolonne non erano attaccate varietà commerciali di spu-gne. Evidentemente i bravissimi ricercatori greci subac-quei di spugne dei nostri giorni le avevano raccoltetutte, e si erano forse anche impadroniti di piccoli ogget-ti d’arte come tardiva ricompensa patriottica del sac-cheggio romano.

Avevamo da affrontare un’operazione di recuperosemindustriale. Potevamo valerci dei grandi progressicompiuti dalla tecnica delle immersioni subacquee daigiorni in cui i coraggiosi uomini di Tavera avevanoaffrontato il relitto. Infatti avevamo a disposizione tavo-le di immersione eccezionali elaborate da poco sotto ladirezione del tenente Jean Alinat. Erano progettate perlavori sott’acqua, in cui gli uomini potevano scendere erisalire rapidamente in una serie di brevi immersioni,senza dar luogo alla saturazione di azoto provocata dasingole immersioni prolungate. Secondo le piú recentitavole di immersione, un uomo che dovesse lavorarequarantacinque minuti alla profondità del relitto biso-gnava che tornasse alla superficie mediante successivistadi di decompressione. Doveva fermarsi per quattrominuti ad una profondità di nove metri, risalire fino asei metri e aspettare ventisei minuti e poi fermarsi altriventisei minuti a tre metri prima di emergere.

Quindi un’immersione di tre quarti d’ora gli richie-deva circa un’ora per tornare. Il programma di Alinatinvece permetteva a un uomo di immergersi per tre tuffidi quindici minuti l’uno alternati da periodi di riposo ditre ore. Al sommozzatore indipendente occorrevano solocinque minuti di decompressione a tre metri di profon-

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dità dopo la terza immersione, un dodicesimo del perio-do di attesa del palombaro con scafandro.

Affinché le teorie di Alinat funzionassero con effi-cienza per il lavoro sulla nave romana, la squadra di dueuomini doveva scendere e risalire secondo un orariorigoroso. Non era possibile aspettare che consultasseroil loro orologio da polso. Organizzammo un «orologio asparo»: un fuciliere sul ponte che sparava nell’acquacinque minuti dopo l’immersione, di nuovo dopo dieciminuti e dopo quindici mediante tre colpi impartiva ilcomando di riemergere. Il contraccolpo delle pallottolesi sentiva distintamente nel relitto.

Il primo giorno vidi un sommozzatore emergeretenendo fra le mani un piccolo oggetto lucente e il cuoremi diede un balzo perché avevamo sperato di trovarebronzi greci. Era semplicemente una pallottoladell’«orologio a sparo». Tutto il fondo ne era coperto.Sarebbe stato divertente nascondersi dietro una colon-na, quando il prossimo cercatore di spugne si fosse cala-to giú e avesse visto il fondo splendente d’oro.

L’orario era anche ostacolato dal fatto che l’Elie Mon-nier, a causa del vento e della corrente, si spostava assaidal suo ancoraggio, cosicché i sommozzatori dovevanopercorrere a nuoto lunghe diagonali imprevedibili primadi giungere sul posto di lavoro, con grande spreco ditempo e di energia. Dumas portò sul ponte un mucchiodi oggetti raccolti qua e là, parti arrugginite di chiavi-stelli e pezzi di ferro. I sommozzatori ridevano dellasemplicità infantile della soluzione di Didi. Portandointorno alla vita un rottame di ferro di quindici libbre,un sommozzatore avrebbe potuto muoversi nell’acquausando il proprio corpo come un timone per controlla-re la discesa obliqua. Poteva raggiungere il relitto daqualsiasi direzione manovrando la zavorra; poteva fre-nare, scivolare lateralmente o tuffarsi; arrivare riposatoe lasciare cadere il suo tesserino di ferro.

Didi obbediva coscienziosamente ai segnali, finché

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un giorno vide qualcosa di affascinante mentre emerge-va dal terzo tuffo. Il sole era ancora ardente sulla super-ficie e Dumas non poté resistere a tuffarsi in quellaluce. Non trovò nulla di interessante e riemerse. A cenaavvertí una fitta alla spalla. Lo afferrammo e lo chiu-demmo immediatamente nella camera di ricompressio-ne sul ponte, regolando la pressione interna a quattroatmosfere. Non potevamo prevedere le conseguenze chepossono manifestarsi in un sommozzatore anche qualcheora dopo che è affiorato. Nella camera di ricompressio-ne vi era un telefono collegato a un altoparlante nellastanza preparata per i sommozzatori. Quando avevamoterminato la cena, Dumas si attaccò al microfono ecominciò una diatriba contro i compagni di bordo cheaffamavano un amico. Lo lasciammo calmarsi per un’o-ra. Fu l’unica volta che usammo la camera di ricom-pressione durante le immersioni subacquee.

Il mondo della nave mercantile era di un azzurro sof-fuso in cui la carne diventava di un colore verdastro. Ilsole lontanissimo brillava sui regolatori cromati, scintil-lava sugli orli delle maschere e inargentava le nostrebolle d’aria. Il letto del mare leggermente coloratodiffondeva una luce riflessa abbastanza forte per per-mettere un film a colori dei sommozzatori al lavoro.Credo che sia stato il primo film a colori girato a unasimile profondità.

I marmi ateniesi erano forme scure bluastre tuttemacchiate di strati di organismi marini. Vi scavammocon le mani, come cani, per passarvi sotto le imbraca-ture della nave. Via via che le pietre venivano sollevateda un verricello, il colore cresceva sulla crosta e la super-ficie che si presentava all’aria era vibrante di vita. Amano a mano che si asciugavano sul ponte, il rivesti-mento multicolore della flora e della fauna sbiadiva.Raschiammo, pulimmo, lavammo le volute di marmobianco come la neve e le esponemmo al sole per la primavolta da quando erano partite dall’antica Atene.

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Fra le pietre sul fondo prendemmo quattro colonne,due capitelli e due basi. Riportammo alla superficie duemisteriose parti in piombo di antiche ancore, che ven-nero trovate accanto al supposto profilo della nave inuna posizione che indicava che le ancore erano state tra-versate quando la nave si inabissò. Deve aver incontra-to il suo destino all’improvviso. I frammenti di ancora,ciascuno del peso di tre quarti di tonnellata, eranooblunghi con fori centrali rinforzati, ovviamente percollocarvi travi di legno che si erano decomposti. Taliforme metalliche dritte non potevano rappresentare néi bracci né il rostro delle ancore. Scavammo intorno pertrovare questi elementi ma senza successo. I repertipotevano essere soltanto i bastoni e le barre trasversalidell’estremità superiore. Il resto delle ancore dovevaessere di legno. A questo punto sorgeva un problema.Perché gli antichi mettevano il peso maggiore in cimaall’ancora?

Discutemmo i documenti e molte supposizioni giun-gendo a una spiegazione plausibile. Le navi antiche nonattaccavano l’ancora a catene, ma a corde. Una navemoderna ancorata trascinata dal vento o dalla correntetiene fermi gli uncini per mezzo della tensione orizzon-tale sulla estremità inferiore della catena dell’ancora. Lacorda dell’ancora romana in tali condizioni diventavatesa e avrebbe sollevato i rostri di legno se la parte supe-riore non fosse stata appesantita con un bastone di piom-bo che forniva la tensione orizzontale.

Lavorammo per sei giorni alla nave romana semprepiú assorbiti dalle indicazioni che forniva sull’anticascienza della navigazione. Desideravamo scavare pertrovare la nave vera e propria. I documenti di Taveraindicavano che i palombari avevano scavato estesamen-te a poppa. Scelsi i marmi da un’area compatta a tri-bordo nel centro della nave e li feci portare alla super-ficie per avere libera una zona da scavare. Calammo unapotente pompa per soffiare via la terra. Una leggera

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corrente portava via il fango che sollevavamo. Suppo-nevamo che la nave, oppressa dal suo carico, avessespezzato la sua intelaiatura superiore sporgente all’e-sterno al momento dell’urto e che il ponte principalefosse stato schiacciato dal carico sul ponte stesso. L’i-potesi sembrava reggersi.

Trenta centimetri piú sotto le nostre dita si imbatte-rono in un ponte compatto coperto di lastre di piombo.Il mare fece fluire il fango nel foro quasi subito dopoaverlo scavato, ma tastammo abbastanza del robustoponte per stimare che i due terzi della nave romanaerano intatti. Ne estraemmo un capitello ionico intera-mente affondato nel fango. Non lo avevano raggiuntoné molluschi né piante, e una volta pulito recuperò labellezza originaria dei giorni in cui venne scolpito primadella nascita di Cristo.

Speravo che al centro della nave ci fosse del materialeintatto. Ero certo che, allora come oggi, l’equipaggiovivesse nel castello di prua, il punto meno desiderabiledella nave, e che qui fossero sepolti effetti personali estrumenti che avrebbero potuto dirci quale tipo di gentecostituiva l’equipaggio di una nave romana.

Stavamo appena sfiorando la porta della storia neipochi giorni trascorsi con la grande nave da carico. Tro-vammo chiodi di ferro corrosi a tenere insieme gli spes-sori e chiodi di bronzo consunti fino a diventare fililucenti. Riportammo alla superficie una macina con cuii cuochi di bordo avevano tritato il grano portato nelleanfore. Ricuperammo pezzi dei costoloni di cedro delLibano lunghi una yarda ancora coperti con la vernicegialla originale (sarebbe utile conoscere come si fabbri-ca una vernice marina capace di sopravvivere a ventisecoli di immersione). Scavai per un metro e mezzo aprua nella sabbia che slittava e raggiunsi le alberature dicedro, ma potei appena toccarle con la punta delle dita.

Quattro anni piú tardi a New York, incontrai il pre-sidente dell’Alliance française degli Stati Uniti e del

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Canada, un vivace vecchietto che si chiamava JamesHazen Hyde, e collegai questo nome con quello delmecenate che aveva contribuito a salvare il tesoro diMahdia. Era proprio lui. Mi invitò a cena al Plaza, iogli mostrai il film a colori con i sommozzatori nel relit-to. – Affascinante, – egli commentò, – sapete che nonho mai visto ciò che venne ripescato? A quel tempoavevo molti soldi e uno yacht a vapore. Mentre si svol-gevano i lavori io ero in crociera nell’Egeo.

Non sono mai andato al Museo di Tunisi, SalomonReinach mi mandò delle fotografie dei crateri e delle sta-tue, ricevetti una lettera molto gentile da Merlin e il Beydi Tunisi mi conferí una decorazione. È davvero inte-ressante vederlo dopo quarantacinque anni.

The Silent World, 1953

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thomas geoffrey bibby La fisica atomica nell’archeologia

Thomas Geoffrey Bibby, nato nel 1917 a Westmorland, ha stu-

diato al Caius College di Cambridge. Dal 1947 al 1950 ha

lavorato per la Compagnia petrolifera dell’Iraq, ma da allora

si è dedicato esclusivamente alla ricerca archeologica. Attual-

mente vive in Danimarca, dove occupa il posto di conservato-

re e capo della sezione orientale del Museo di Preistoria.

Ancora una volta il metodo nuovo distrugge una con-cezione errata. Proprio come De Geer dimostrò chel’anno è un concetto indipendente dall’uomo, cosí ilprofessor Willard F. Libby dell’Università di Chicago,l’inventore della tecnica del carbonio radioattivo, hadimostrato che il tempo è un concetto indipendentedagli anni. Fondamentalmente l’età di un oggetto nonè un numero di anni, ma piuttosto la lunghezza deltempo della sua esistenza. Gli anni, sebbene non creatidall’uomo, sono da lui impiegati come un’unità permisurare il tempo. Ma il tempo passa, senza badare sel’uomo lo misura in anni o no.

Il carbonio è l’ingrediente fondamentale per tutte lematerie organiche, e il piú importante elemento della vitaanimale e vegetale e al tempo stesso, sotto forma di ani-dride carbonica, uno dei principali componenti dell’aria.Le piante liberano l’ossigeno eccedente, assorbono il car-bonio dall’anidride carbonica dell’aria; questo carbonioassimilato nelle piante è a sua volta consumato dagli ani-mali e dall’uomo. Sia nelle piante che negli animali il car-

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bonio in parte serve per sostituire il logorio dei tessuti ecostituirne di nuovi, con il processo che chiamiamo dicrescita. In ogni organismo vivente che cresce si verifi-ca un afflusso costante di nuovo carbonio ed una costan-te, sebbene minore, perdita di quello vecchio.

Ora, il carbonio non è quell’elemento semplice che sicredeva in epoca preatomica. Esso è formato da tre iso-topi, tre sostanze ben distinte, chimicamente indistin-guibili, ma con caratteristiche fisiche diverse, di cui lapiú ovvia è una differenza nel peso atomico: 12, 13, e14. Il carbonio ordinario con cui veniamo a contattoogni giorno ha il peso atomico 12. Ma il C12 è mesco-lato al C13 e al C14 nella proporzione di uno a qualchemilione. Queste proporzioni minime di carbonio piúpesante vengono prodotte negli strati superiori dell’at-mosfera. Qui l’anidride carbonica dell’aria è esposta adun bombardamento di raggi atomici, le inspiegabili cor-renti di particelle ionizzate che cadono verso la terradagli spazi extraterrestri. Quando una particella di que-sto tipo colpisce un atomo di carbonio dell’anidride car-bonica dell’atmosfera, questa assorbe abbastanza ener-gia, o materia, da trasformare il C12 in C13 o in C14.

Ogni essere assorbe dall’atmosfera il «carboniopesante», come il carbonio ordinario, di prima o diseconda mano.

Questo processo avrebbe un interesse solo accade-mico se non ci fosse un’importante conseguenza: il C14è radioattivo.

Ora, i materiali radioattivi hanno due caratteristiche:emettono particelle la cui entità di emissione può esse-re misurata da un contatore Geiger e in questo proces-so si trasformano in altre sostanze normalmente nonradioattive. Si trasformano in una proporzione fissa perogni sostanza radioattiva, cosicché è possibile stabilireche dopo un dato periodo di tempo la radioattività diuna data quantità di materiale sarà ridotta alla metà,dopo un periodo eguale ad un quarto, e cosí via.

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Questo periodo fisso è noto come «periodo di dimez-zamento» o «emivita» della sostanza.

Libby, un chimico atomico, si interessò per la primavolta al carbonio 14 nel 1946, dopo quattro anni dimeravigliosi lavori al progetto Mauhattam. Egli dedus-se che, stabilito che la proporzione di C14 nel carboniodell’atmosfera è conservata costante dalle correnti con-tinue di raggi cosmici e che ogni creatura vivente rin-nova continuamente il proprio C14 assorbendolo dal-l’anidride carbonica dell’atmosfera, ogni creatura viven-te è radioattiva, e lo è esattamente nella stessa misura.

Questa conclusione abbastanza sconcertante noninteressò immediatamente gli studiosi della preistoriaalle prese con determinazioni cronologiche. Ma nel 1947Libby portò le sue conclusioni un posso avanti. Un orga-nismo quando muore cessa di assorbire dall’aria nuovocarbonio e da quel momento la sua emissione naturaledi C14 non è controbilanciata da nuovo assorbimento.Perciò la sua proporzione di C14 rispetto al C12 dimi-nuirà gradatamente e diminuirà secondo un rapportofisso. Si trovò che il periodo di dimezzamento dellaradioattività dei C14 è di 5568 anni, con un’approssi-mazione dello 0,54 per cento. Cosí un albero tagliato5568 anni fa produrrà su un contatore Geiger solo lametà degli scatti prodotti da un albero tagliato il gior-no prima.

A questo punto gli studiosi della preistoria comin-ciarono ad interessarsi. Infatti era vero anche il contra-rio. Se un pezzo di legno produceva su un contatore Gei-ger la metà degli scatti di un legno moderno, allora eravecchio di 5568 anni; qualsiasi altra proporzione di scat-ti avrebbe quindi potuto egualmente trasformarsi in unadata entro i limiti di precisione della macchina. Eraimprovvisamente spuntato un nuovo metodo di datareil materiale preistorico contenente carbonio.

E fu proprio cosí. Nel febbraio del 1948 l’Associa-zione antropologica americana costituí un comitato di

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quattro archeologi e sottopose esemplari di ogni tipo dimateriali preistorici contenente carbonio a Libby e al suocomplesso di contatori Geiger. I primi esemplari furonooggetti già datati: legno dalle tombe dei faraoni egizi edai palazzi ittiti, ceneri dagli accampamenti romani emateriale dai rotoli del Mar Morto. Libby poté indicareuna data che si approssimava del 10 per cento a quellagià nota. Il metodo si era dimostrato efficiente.

Ora si poteva tentare l’impossibile, si potevano sot-toporre all’esame oggetti che, per assioma, non si cre-devano databili. I tizzoni di un focolare dalla caverna diLascaux datarono l’occupazione della caverna dell’etàdella pietra a 15516 anni fa; del legno di betulla raccol-to dal margine della calotta glaciale nella Germania set-tentrionale determinò che il regresso del ghiaccio daquel punto era avvenuto 10800 anni fa; conchiglie dauno dei piú antichi stanziamenti agricoli del mondo, aJarmo in Iraq, avevano l’età di 6707 anni.

Non dobbiamo lasciarci trarre in inganno dall’appa-rente esattezza del numero degli anni. In ogni caso ilnumero era accompagnato da una precisazione dell’er-rore tollerabile, che normalmente si aggirava intorno al10 per cento e qualche volta lo superava; ma ancheun’approssimazione del 10 per cento è molto megliodella stima assolutamente soggettiva che si poteva fareprima. Inoltre una migliore protezione dei Geiger dairaggi cosmici vaganti, una migliore preparazione deicampioni e maggiore cura nella loro raccolta e traspor-to hanno già prodotto una notevole diminuzione delmargine di errore.

La datazione dei resti archeologici dipende dal con-tatore Geiger, almeno finché non sia scoperto un meto-do ancora migliore. La macchina di Libby è stata ripro-dotta in tutti i maggiori centri americani di studi antro-pologici e anche in Europa se ne sono costruite alcune;le prime furono introdotte a Cambridge e Copenaghen.Ed ora nel Museo che fondò Thomsen, a breve distan-

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za dalle stanze in cui egli espose per la prima volta la suacollezione secondo il sistema delle tre età cronologichesuccessive, un apparecchio protetto dal piombo lavoraattivamente a misurare con sempre maggiore esattezzal’età degli oggetti che egli per primo osò indicare comepreistorici.

The Testimony of the Spade, 1957

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carlo maurilio lerici Il periscopio Lerici

Carlo Maurilio Lerici, nato nel 1890 a Verona, ha studiato

ingegneria industriale e meccanica al Politecnico di Torino. Nei

suoi primi anni di carriera ha ottenuto notevole successo come

ingegnere industriale, sperimentando nuovi metodi geofisici di

prospezione per la ricerca dell’acqua e del petrolio, ma il suo

interesse si indirizzò all’archeologia quando i familiari gli chie-

sero di disegnare una decorosa tomba di famiglia. Con la sua

solita precisione intraprese uno studio degli antichi modelli su

cui basare il suo disegno, e la sua attenzione fu sempre piú

attratta dai monumenti dell’affascinante e poco nota civiltà

etrusca. Egli ha lavorato attivamente per salvare i resti etruschi

minacciati e ha dedicato tutte le risorse della sua esperienza

scientifica e delle sue conoscenze archeologiche alla loro sco-

perta e conservazione. Le sue tecniche geofisiche, che è stato il

primo ad applicare a problemi archeologici, hanno ottenuto

notevoli risultati; nel seguente articolo (scritto nel 1961) egli

cita la scoperta di 600 tombe a Cerveteri e di 2600 a Tarqui-

nia, ma nel giugno 1964 tali cifre sono salite a 950 a Cervete-

ri e 5250 a Tarquinia.

Alcuni anni fa è stato chiesto alla Fondazione Lericidel Politecnico di Milano di organizzare l’esplorazionedella Piana dei Crati, in Calabria, per identificare lezone occupate dall’antica colonia greca Sibari, dalla colo-nia panellenica Turio e dalla colonia romana Copia.

Il problema era urgente: si trattava di delimitare lezone archeologiche al piú presto, per poterle salvaguar-

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dare in vista della costruzione di un grosso centro indu-striale; la zona da esplorare era molto vasta, diversedecine di chilometri quadrati; da qui la necessità didisporre di metodi e mezzi che permettessero a un pic-colo gruppo di uomini di lavorare molto rapidamente,piú di quanto fosse possibile ad una squadra attrezzatain modo tradizionale.

I nuovi metodi di prospezione si sono dimostrati uti-lissimi per risolvere questo ed altri problemi simili, comesi può notare dal breve elenco di scoperte fatte in Italiain dieci anni di lavoro, da una squadra di quattro per-sone, piú alcuni operai: a Fabriano: una necropoli; a Cer-veteri: un migliaio di tombe a camera, con circa dieci-mila oggetti recuperati; a Vulci: diversi resti di costru-zioni nella zona dell’antica città etrusca e una tomba, laTomba delle Iscrizioni, con un bel sarcofago scolpito; aTarquinia: cinquemila tombe a camera, delle quali cin-quanta dipinte; a Sibari: la delimitazione esatta dellazona arcaica greca e romana.

Numerosi lavori all’estero svolti in collaborazionecon istituti stranieri.

Per apprezzare l’utilità dei mezzi di prospezione,dobbiamo tenere presente che in questo modo si posso-no identificare le formazioni sepolte senza ricorrere ascavi; si può cioè fare un «inventario» di quello che èsottoterra, difenderlo dai danni che i lavori agricoli, lacostruzione di strade, l’espansione dei centri urbani eindustriali Possono arrecargli, senza turbare l’ambientenel quale per tanti secoli si sono trovati. Gli scavi ver-ranno poi, quando sarà pronta tutta l’organizzazioneche permetterà lo studio e il restauro immediato dellecose scoperte. E sono metodi molto rapidi: basta pen-sare che a Tarquinia, dal 1892, cioè per sessantasei anni,non si erano piú scoperte tombe dipinte. In questi pochianni la squadra della Fondazione Lerici ne ha scopertecinquanta, piú che raddoppiando il patrimonio dei dipin-ti etruschi esistente.

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Metodi di prospezione.

I metodi che sono stati applicati con successo in que-ste campagne sono essenzialmente quelli elettrici, basa-ti sulla misura della resistività elettrica del terreno, equelli magnetici, basati sulla misura delle variazionimagnetiche. Le «anomalie» o «variazioni» di resistivitào di magnetismo, denunciano l’esistenza di formazionisepolte, permettendone quindi la localizzazione.

Nel caso che ci si trovi in una necropoli con tombe acamera, come per esempio Tarquinia, i punti anomalisono normalmente verificati mediante una perforazione,che permetterà di stabilire la profondità della camera edi introdurre una apparecchiatura fotografica o peri-scopica per l’esame diretto.

Questi metodi, che hanno dimostrato in modo ecce-zionale la loro validità, saranno piú compiutamentedescritti in seguito.

Accenniamo ora agli altri metodi impiegati per otte-nere informazioni utili ai fini della ricerca.

Primo fra tutti è il rilevamento aereo, normalmenteimpiegato come premessa al successivo lavoro di pro-spezione. Occorre subito notare che le ordinarie ripre-se aeree non risultano sempre soddisfacenti per le fina-lità di ricerca archeologica, a meno che le condizionimeteorologiche, quelle stagionali di luce e di colturasuperficiale non siano le piú favorevoli per mettere inrilievo le caratteristiche della vegetazione di superficie,che possono essere accentuate con l’uso di fotografieall’infrarosso, per mettere in rilievo i caratteristici segnidi significato archeologico.

Secondo la nostra esperienza, le esplorazioni aereeper finalità archeologica hanno delle limitazioni pratiched’impiego, soprattutto per il fatto che esse possono offri-re indicazioni relative al solo strato superficiale sogget-to all’influenza delle variazioni diurne e stagionali del-l’umidità e della temperatura, che sono appunto quelle

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che provocano le segnalazioni caratteristiche causatedalle formazioni archeologiche esistenti fino alla profon-dità di uno o due metri.

Nelle regioni laziali, ad esempio, nelle necropoli diCerveteri e Tarquinia e nel pianoro dell’antica città diVulci, le fotografie aeree rivelano solo le formazioni piúprossime alla superficie, cioè circa la metà di quelle esi-stenti nella necropoli di Cerveteri e il 70-75 per centodi quelle di Tarquinia. Nella piana del Crati, le foto-grafie aeree non rivelano alcuna delle formazioni del-l’antica Sibari, perché sono sepolte oltre i quattro metridi profondità.

Malgrado queste limitazioni, le fotografie aeree devo-no essere considerate in ogni caso come la premessaindispensabile per ogni nuova campagna di esplorazio-ne archeologica. A seguito poi delle caratteristiche geo-logiche del terreno e del tipo di formazioni che sonooggetto della ricerca, si sceglie il metodo che ha mag-giore probabilità di successo. In casi complessi è moltoutile usare sia il metodo elettrico che quello magnetico:paragonando infatti le due serie di risultati, si possonofare osservazioni molto utili.

Prospezioni elettriche.

Sono basate su misure di resistività elettrica effet-tuate nello strato di terreno che s’intende esplorare, esull’accertamento delle alterazioni o «anomalie» nellemisure, causate dalla presenza di formazioni archeolo-giche sepolte.

Sono applicabili quando le formazioni archeologichesono isolate e distanziate le une dalle altre, per consen-tire una sufficiente chiarezza nelle segnalazioni.

L’apparecchiatura occorrente comprende un poten-ziometro per misurare le tensioni sul terreno, un mil-liamperometro per la misura della corrente immessa,

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una sorgente di energia costituita da una batteria e unsistema di elettrodi collegati con cavi unipolari all’ap-parecchiatura stessa, che vengono successivamente spo-stati sul terreno da esplorare.

Fino al 1960 le prospezioni elettriche a mezzo dei«sondaggi elettrici orizzontali» sono state le principaliprotagoniste delle campagne di ricerca archeologica inItalia. Ad esse sono dovute le scoperte effettuate nellezone etrusche di Vulci, Tarquinia e Cerveteri.

Prospezioni magnetiche.

Sono basate sulla misura della intensità del campomagnetico terrestre nella zona che deve essere esplora-ta. Le formazioni archeologiche sepolte causano dellevariazioni o anomalie nelle misure.

La presenza prolungata di un insediamento umano dàsempre luogo a movimenti di terra e poiché i diversi tipidi formazioni hanno spesso diverse proprietà magneti-che, ne possono derivare delle variazioni nell’intensitàdel magnetismo locale. Inoltre l’effetto di intense azio-ni di riscaldamento, come per esempio i forni e le for-naci, causa dei cambiamenti magnetici (effetto termo-magnetico). Le stesse coltivazioni fatte sul terreno nehanno modificato le caratteristiche magnetiche, perchéi processi biochimici causati dalle colture modificano lacomposizione chimica dei sali di ferro che si trovano intutti i terreni e conseguentemente le loro proprietàmagnetiche. Tutti questi processi possono produrre dellevariazioni magnetiche che restano come probabili indi-cazioni dell’attività e della presenza dell’uomo.

Da questa premessa riuscirà agevole comprenderecome un rilevamento dettagliato può dare delle indica-zioni importanti dal punto di vista archeologico. Natu-ralmente per un lavoro del genere le misure devonoesser fatte secondo una rete regolare, possibilmente

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ogni uno o due metri. Questi risultati vengono poi ela-borati e presentati in un diagramma e vengono scelte leanomalie piú importanti; basandosi su queste si puòdedurre la pianta e la natura delle possibili formazioniarcheologiche.

L’apparecchiatura impiegata é il magnetometro a pro-toni, espressamente ideato per la prospezione archeolo-gica dal Laboratorio di ricerche per l’archeologia e la sto-ria dell’arte dell’Università di Oxford. La sua eccezio-nale sensibilità gli consente di misurare le minime varia-zioni del magnetismo in ogni punto del terreno e inol-tre le misure possono essere effettuate con grande rapi-dità. Consiste in due parti principali: un «rivelatore»che contiene un fluido come sorgente dei protoni, e unapparecchio misuratore ad esso collegato, che calcola erivela l’intensità del campo magnetico.

Apparecchiature ausiliarie.

Sonda portatile a motore McCullogh. Può essereimpiegata in due modi: a) con aste elicoidali ed utensi-le perforatore di centoventi millimetri; b) con un tubocarotiere in sostituzione dell’utensile, allo scopo di rac-cogliere campioni del terreno attraversato e consentirel’esame per accertarne la natura e la profondità dell’e-ventuale strato archeologico.

Il periscopio: quando viene determinata la presenza diuna cavità, come ad esempio quella di una tomba acamera, il periscopio, appositamente studiato per poterpenetrare nella perforazione di prova del diametro disessanta mm, viene impiegato sia per consentire l’im-mediata ispezione della cavità, sia per effettuare dellefotografie.

Esso consiste in un tubo ad elementi scomponibili,della lunghezza da tre a cinque metri, che nella suaparte inferiore contiene l’obiettivo per la ripresa delle

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immagini - esse poi con un sistema ottico vengono tra-smesse all’oculare superiore - ed una sorgente luminosaalimentata da un generatore o da una corrente locale.L’obiettivo abbraccia un campo di 30°, quindi per l’e-secuzione di fotografie occorre ruotare il periscopio suc-cessivamente di 30° in 30°, per ottenere con dodiciimmagini una sequenza completa di tutte le pareti dellacavità.

Con una simile apparecchiatura il Politecnico di Mila-no ha potuto preparare un archivio fotografico senzaprecedenti, illustrante tutte le tombe a camera merite-voli di studio scoperte, comprendenti formazioni chevanno dal VI al I secolo a. C. Quando la Direzionedelle antichità ne deciderà l’apertura, si potrà effettua-re l’operazione di scavo senza inutile movimento diterra, perché le fotografie consentono di determinare laposizione precisa dell’ingresso.

Alcuni problemi.

La finalità essenziale delle applicazioni che abbiamodescritto è quella di contribuire alla conservazione edalla difesa del patrimonio archeologico sepolto.

È stato affermato che questi nuovi metodi sono trop-po rapidi per consentire un esame dettagliato quale èrichiesto dalle moderne esigenze dell’archeologia. A que-ste osservazioni possiamo rispondere esponendo iseguenti fatti:

1) le nostre indagini non sconvolgono gli stratiarcheologici, ma lasciano le formazioni scoperteinalterate e suscettibili di ogni successiva indagine;

2) le coltivazioni estensive effettuate durante gli ulti-mi dieci anni sono state sovente precedute da ara-ture profonde, effettuate con bulldozer. In molteoccasioni queste arature hanno irreparabilmente

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devastato le formazioni archeologiche esistentinello strato superficiale. Inoltre l’impiego indi-scriminato di fertilizzanti ha arricchito il terrenodi sali che penetrando in contatto con i restiarcheologici provocano ulteriori danni. La necro-poli di Tarquinia ci offre un esempio impressio-nante di questa opera di distruzione, che procedecon un ritmo tale da far prevedere che entro pochianni vi sarà ben poco da recuperare;

3) anche oggi, come in passato, la ricerca illegalecostituisce un grave pericolo, sia considerando ildanno materiale che può essere valutato in decinedi milioni di lire ogni anno, sia pensando alla per-dita di informazioni preziose sulla provenienza,ubicazione e natura dei materiali asportati, ed aldanneggiamento causato delle condizioni in cuivengono effettuati gli scavi. La documentazioneraccolta dal Politecnico di Milano sulla necropolidi Tarquinia contiene innumerevoli esempi dieccezionale gravità.

Si deve effettivamente riconoscere che la velocitàconsentita dai nuovi mezzi e la sequenza senza prece-denti delle nuove scoperte, ha messo in luce la necessitàdi organizzare su basi piú moderne il Servizio delle anti-chità, dotandolo del personale e dei mezzi finanziariindispensabili per far fronte ai vecchi e nuovi problemi,i primi acuiti, i secondi creati dalla rapida espansionedella vita moderna.

I problemi della conservazione.

Quando una nuova tomba viene scoperta è impor-tante che venga assicurato il mantenimento delle suecondizioni termo-igrometriche. In alcuni casi si è mani-festata l’opportunità di rimuovere i dipinti per trasferirli

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in ambienti piú stabili e protetti e l’Istituto centrale delrestauro di Roma è già intervenuto con i suoi metodi,che hanno già contribuito a salvare tante preziose testi-monianze del passato.

Roma, 17 maggio 1967.

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Fotogrammetria

L’archeologia, che per lungo tempo è dipesa esclusivamente dal-

l’interpretazione oculare e dalla perspicacia intellettuale dello

studioso, comincia ora a prendere il suo posto tra le scienze esat-

te, in cui l’uso dei complessi strumenti tecnici diminuisce gra-

dualmente la possibilità di errore. Oggi si possono usare mezzi

meccanici non solo per localizzare la posizione di camere sot-

terranee, per accertare la data di antichi manufatti, per tracciare

il profilo di terrapieni invisibili per chi osserva da terra; ma

anche per riprodurre copie esatte di superfici incise o modella-

te in rilievo, e un giorno potranno anche aiutarci a interpreta-

re lingue dimenticate.

Il Centro di documentazione venne istituito nel mag-gio 1955 dal dipartimento per le antichità egiziano conla cooperazione dell’Unesco. Si tratta di una istituzioneegiziana, finanziata dal governo della Repubblica ArabaUnita. L’Unesco ha un rappresentante nel consiglio diamministrazione e fornisce aiuto tecnico sotto forma dispecialisti internazionali. Dal tempo di Champollion, ilfondatore dell’egittologia scientifica, molte fondazioni,musei, università egiziane, europee e americane si sonoassunte il compito di organizzare scavi, consolidaremonumenti, intraprendere studi e ricerche dei docu-menti. Il successo è stato spesso notevole, ma quasi ine-vitabilmente frammentario. Mai finora aveva lavorato inquesto campo un corpo cosí sistematicamente organiz-zativo come il Centro del Cairo. Le sue operazioni

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hanno richiesto mezzi eccezionali e la collaborazione digrandi squadre di specialisti che lavorano esclusivamen-te in questo, campo con un’azione sincronizzata.

In origine il Centro aveva scelto come primo compi-to un esame sistematico della necropoli di Tebe dove letombe, un tempo in ottimo stato di conservazione, ave-vano mostrato segni di deterioramento. L’annuncio delprogetto della grande diga cambiò l’ordine delle prioritàe comincio la lotta contro il tempo nella Nubia Inferio-re. Nei cinque prossimi anni sono progettate qualcosacome un centinaio di missioni con un programma dilavoro ben distinto che riguarda i monumenti minacciatidalla grande diga di Assuan.

Gli archeologi e i filologi addetti al Centro coordi-nano tutte le operazioni, tenendo conto della documen-tazione e dei dati esistenti. Dirigono i lavori sul posto epoi registrano i risultati di ogni missione in schedari.

La documentazione richiesta per completare copie edescrizioni viene raccolta dalla sezione tecnica. Gli archi-tetti preparano piante, sezioni e disegni in prospettivacompleti di tutti i piú minuti particolari; ogni mattone,ogni lastra di pietra ed anche i minimi fori di una pare-te vengono segnati. Esperti nel disegno architettonicoaddestrati al Centro usano fotografie per preparare pian-te esatte di gruppi di monumenti. Il vecchio metodo didisegnare le piante sui monumenti non viene piú usato,tranne che per piccoli dettagli, o nel caso in cui i monu-menti sono troppo addossati o in uno stato di conserva-zione troppo precario per essere fotografati con buonirisultati. Copie dei rilievi famosi per bellezza o per inte-resse storico e di ogni iscrizione geroglifica che potreb-be provocare controversie vengono eseguite da speciali-sti in calchi che preparano anche plastici architettonici.

I fotografi lavorano in stretta collaborazione conmolti altri tecnici. Seguendo i dettagli di un piano gene-rale, sviluppano ogni giorno sul posto le loro pellicole diprova prima di mandare i negativi al laboratorio di svi-

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luppo al Cairo. Contemporaneamente scattano fotogra-fie identiche su pellicole a colori. Eppure tutto questolavoro non basta ancora.

La riproduzione fotografica di opere d’arte, e in par-ticolare di sculture, è, come ha detto André Malraux, unfenomeno di ricreazione. Liberate dai recessi dove primaerano nascoste, le sculture sembrano riprendere vita,viste in questa nuova luce divengono familiari e acqui-stano un significato diverso.

La fotografia, come il disegno e la pianta architetto-nica, contiene un certo elemento di soggettività che puòprodurre varie alterazioni. Per ottenere l’assoluta ogget-tività richiesta dalla documentazione scientifica si èfatto uso della fotogrammetria, un processo che è statousato, negli ultimi quarant’anni, per preparare le cartegeografiche.

Il metodo venne usato per la prima volta per esami-nare un monumento nel 1850 e oggi fornisce inestima-bile materiale documentario per gli archeologi. Le foto-grafie stereoscopiche, prese con l’affitto di un fototeo-dolite, dànno informazioni precise fin nei piú piccolidettagli di un rilievo e rendono cosí possibile la crea-zione di una copia assolutamente fedele nelle riprodu-zioni, nei plastici e nei calchi.

La fotogrammetria apre nuovi orizzonti alla cono-scenza di forme e tecniche. Può rendere possibile la sco-perta di leggi architettoniche ancora ignote agli egitto-logi e può accrescere la loro conoscenza di tecniche scul-toree. Per esempio le linee di contorno tracciate sullafaccia del Colosso di Osiride nordoccidentale (settemetri) nel cortile interno del Gran Tempio di Abu Sim-bel, e quelle prese sulla facciata del colosso meridiona-le (venti metri) mostrano alcuni sorprendenti punti dicontatto fra i due, persino nella modellazione della car-tilagine del naso.

Quando tutti i programmi di ricognizione sarannocompleti, il Centro di documentazione del Cairo rap-

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presenterà una ricca fonte di informazioni permanen-te sia per gli studi di egittologia sia per i lavori desti-nati all’uomo della strada. Per maggior sicurezza sonoeseguiti microfilm di tutti gli archivi, e una copia diogni documento sarà sottoposta ad un trattamento spe-ciale per preservarla da ogni possibile distruzione odeterioramento.

Grazie all’azione internazionale promossa dall’Une-sco vi è ora ragione di sperare che questi maestosi monu-menti saranno salvati dall’invasione delle acque e che legenerazioni presenti e future potranno ancora visitare icolossi di Ramesse II e i templi insulari di File. Inoltre,l’ampio lavoro intrapreso dal Centro di documentazio-ne nell’Antico Egitto darà agli egittologi di tutto ilmondo la possibilità di accrescere le nostre conoscenzedi una delle aree del mondo antico che non ha ancorafinito di rivelare i suoi segreti.

«Courier de l’Unesco», febbraio 1960

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Decifrazione mediante calcolatori elettronici?

Nella seconda metà del 1960 un gruppo di studiosidell’Istituto di matematica della divisione siberiana del-l’Accademia delle scienze dell’Urss intraprese un espe-rimento di decifrazione della lingua maya con un calco-latore elettronico. I risultati di questo lavoro venneroriferiti alla Conferenza di elaborazione delle informa-zioni, traduzione meccanica e lettura automatica di testi,tenuta a Mosca dal 21 al 30 gennaio 1961.

Seguiva la pubblicazione di una lettura (per essere piúprecisi di una traslitterazione senza traduzione) di fram-menti di testi maya.

Il valore del lavoro eseguito dal personale dell’Istitutodi matematica consiste nel fatto che rappresenta laprima prova pratica della possibilità di uno studio effi-cace degli antichi sistemi di scrittura mediante i calco-latori elettronici. Teoricamente questo problema si pre-sentò alcuni anni fa, dopo che i metodi statistici eranostati usati con successo da mezzi «manuali» per decifrareantichi sistemi di scrittura (da Ventris per la scrittura sil-labica cretese e da me in rapporto alla scrittura gerogli-fica maya). Cosí l’uso di calcolatori elettronici per ladecifrazione era una conseguenza logica e un corollariodi un nuovo stadio nello sviluppo della teoria della deci-frazione caratterizzato da un impiego su vasta scala dimetodi statistici.

Nel proporsi l’obiettivo generale di esaminare «Leapplicazioni possibili di calcolatori elettronici per la

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soluzione di problemi in antichi sistemi di scrittura enello sviluppo di una tecnica per l’impiego efficace dicalcolatori elettronici a questo fine» (Evreinov, I, p. 3)gli autori di questi articoli avevano di mira, per quantoriguarda i testi geroglifici maya «di stabilire la relazio-ne tra le parole del lessico e i testi manoscritti e dideterminare con questo mezzo la natura dell’uso deigeroglifici e il loro significato» (ibid., p. 4). Dal mate-riale pubblicato risulta che, in realtà, fu raggiunto unobiettivo un po’ piú ristretto, quello di fornire una tra-slitterazione dei testi geroglifici in scrittura latina (e, peressere piú esatti, nel cosiddetto alfabeto maya tradizio-nale) senza tentare una traduzione.

Gli autori conoscevano senza dubbio la decifrazio-ne «manuale» della scrittura maya e la tecnica con cuiavveniva.

Gli studiosi dell’Istituto di matematica scelsero peril loro lavoro i codici maya di Dresda e di Madrid. Illavoro paleografico (come l’identificazione di simboliscritti in modo non chiaro, la scoperta di errori di scrit-tura ecc.) non venne intrapreso perché gli studiosi usa-rono le mie edizioni di tutti i manoscritti e certe iscri-zioni maya in un codice numerico (un numero di tre cifreper ogni simbolo), come pure un catalogo dei simboli conla notazione degli allografi. Il fatto che non sia statopreso in considerazione il Codice di Parigi è grave, tantopiú che il Codice di Madrid è in condizioni molto peg-giori. Inoltre la limitazione del materiale rende piú dif-ficile la ricerca. Le fonti piú importanti usate nella lin-gua maya del periodo coloniale furono il DizionarioMotul e il Libro di Chilam Balam di Chimoves nonché ilCodice Perez...

L’elaborazione dei dati lessicali venne eseguito paral-lelamente all’elaborazione dei testi geroglifici; era con-tata la frequenza di sillabe e parole e inoltre si compila-vano liste di parole secondo il loro significato (il mondoanimale e vegetale, mestieri vari, oggetti della vita quo-

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tidiana, dèi, rituali, sacrifici, termini astronomici e rela-tivi al calendario, e le parole piú comunemente usate).Data la differenza sostanziale di vocabolario tra la lin-gua maya nel periodo coloniale e quella dei testi gero-glifici, questi elenchi risultarono fondamentalmenteprivi di qualsiasi utilità.

Nei confronti dei dati esaminati, i simboli erano para-gonati per frequenza con le sillabe; il numero dei sim-boli nei geroglifici era confrontato con il numero dellesillabe nella parola («Il metodo piú efficace era il cosid-detto metodo del “rebus” basato sulla scelta di punti dicorrispondenza fra complessi che contenevano un nume-ro specifico di simboli, e parole che contenevano unnumero corrispondente di sillabe», Evreinov, I, p. 10).In un altro articolo leggiamo che «il metodo del “rebus”consiste nell’identificazione dei geroglifici con parolenell’ambito dell’argomento della sezione di cui si trat-ta, avendo prima definito il significato dei simboli e imetodi con cui i simboli vengono impiegati nel gerogli-fico dato» (Ustinov, p. 15). Per geroglifici il cui signifi-cato era determinato sulla base dei disegni venivanoscelti sinonimi appropriati secondo l’elenco per argo-mento, e poi uno di essi veniva scelto in base al criteriodi accuratezza.

Si deve notare che gli autori non svilupparono affattonuovi metodi, ma impiegarono quelli da lungo tempo uti-lizzati nello studio dei codici maya, per lo piú risalenti aun secolo fa. L’uso disordinato di tutti questi metodi èresponsabile della confusione dei risultati, ha causatoerrori elementari e in piú ha cambiato i termini del pro-blema. Nella sua forma finale il compito intrapreso risultòil seguente: fornire una traslitterazione senza traduzione,di un testo formato da frasi accompagnate da illustrazio-ni e scritte in simboli sconosciuti in una lingua nota. Inquesta forma estremamente semplificata, il problema hapoco in comune con quello di decifrare antichi sistemi discrittura. Ciò nonostante gli autori lo considerano «di

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natura simile ai problemi di traduzione meccanica e aiproblemi di studio di sistemi segnaletici» e paragonano ilprocesso di ricerca alla traduzione di scritture creative(Evreinov, I, p. 11). L’impiego estensivo di metodi sup-plementari dimostra che gli autori non erano in grado diusare metodi statistici con risultato soddisfacente.

Per le ragioni esposte dettagliatamente poco fa, irisultati di venti ore di elaborazione di dati con il cal-colatore elettronico apparvero molto modesti. Gli auto-ri stessi affermano di aver letto «circa il 40 per cento»dei codici di Madrid e di Dresda (Ustinov, p. 25). Pro-babilmente intendevano dire che erano riusciti a ripro-durre circa il 40 per cento della decifrazione «manuale»già pubblicata. Ciò è piú o meno esatto. I risultati pre-liminari pubblicati (Predvaritel’nye rezult’taty, Evreinov,III) parlano di traslitterazioni di 8 paragrafi (su 170) delCodice di Dresda e di 27 (su 250) di quello di Madrid.Si fornisce la traslitterazione di 367 geroglifici, com-prese le ripetizioni (in complesso i codici contengonocirca 5300 geroglifici differenziabili). Se si eliminano leripetizioni, gli autori forniscono una traslitterazione di67 geroglifici (che rappresentano parole o loro combi-nazioni). Le cosiddette letture (cioè traslitterazioni) digeroglifici, sia fatte dalla équipe di Novosibirsk, sia ingenerale nella letteratura sulla decifrazione della scrit-tura maya, non sono per niente tutte di uguale valore...

A tutti i fini pratici, ciò esaurisce i risultati delladecifrazione nel senso vero e proprio del termine, cioèla determinazione della lettura fonetica dei simboli. Ladecifrazione «meccanica» ha fornito un numero di let-ture notevolmente minore di quelle ottenute con la deci-frazione «manuale» e non ha fornito alcuna nuova let-tura corretta, mentre nelle letture sbagliate ha ripetutoessenzialmente gli errori presenti nei primi risultati delladecifrazione «manuale»...

Gli autori affermano che i risultati del loro lavoroconfermano il principio su cui era basato. Se, come risul-

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tato della decifrazione «meccanica» della scrittura maya,fosse stata ottenuta la conferma dell’ipotesi dell’autoredell’identità della lingua dei testi geroglifici e della lin-gua dei maya del xvi secolo, ciò significherebbe che ladecifrazione «meccanica» e un’assurdità. In realtà tale«ipotesi» è pienamente confutata dai risultati della deci-frazione «meccanica» (ma d’altra parte non sarebbestato necessario sostituire i nomi convenzionali ai gero-glifici invece delle letture esatte).

Gli articoli degli autori contengono molte frasi erro-nee che tendono ad ingannare il lettore. È impossibileesaminarle tutte in questo articolo, ma è necessario fer-marsi a considerarne almeno alcune. Per esempio gliautori affermano che «l’esame della scrittura degli anti-chi Maya venne eseguito con metodi matematici e conun calcolatore elettronico. L’elaborazione di dati infor-mativi di tale volume e diversità in qualsiasi forma dinotazione è virtualmente impossibile senza l’impiego dimoderni metodi di ricerca. Tale pure è la spiegazione ditutte le connessioni e le leggi degli aspetti qualitativi equantitativi del problema atti a fare luce sulla determi-nazione del senso preciso e del significato fonetico delsimbolo e del geroglifico» (Ustinov, pp. 12-13; cfr.anche Evreinov, II, p. 4). Questa affermazione non cor-risponde ai fatti. Si sa comunemente che un aumentonella quantità dei dati non complica ma facilita la deci-frazione sia «manuale» che «meccanica». D’altra parteuna diminuzione nella quantità del materiale accresce ilvolume del lavoro richiesto per la decifrazione fino adimensioni astronomiche. Difficoltà teoricamente insu-perabili sorgono proprio quando i dati sono pochi (peresempio l’iscrizione su un vaso d’argilla dalle tombe delcimitero slavo nel villaggio di Alekanovo o l’iscrizionesul disco di Festo).

Piú avanti gli autori affermano che «nell’analisi dellascrittura arcaica dei Maya, in cui si deve studiare mate-riale eterogeneo, è impossibile limitarsi a un solo meto-

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do» (Evreinov, I, p. 8). Questa affermazione non solo èinsostenibile in teoria, ma ora è stata anche in pratica con-futata dal fatto di una decifrazione manuale eseguita,come è ben noto, esclusivamente con metodi statistici.

Il problema proposto agli scrittori era di impiegare lamoderna attrezzatura di un cervello elettronico per unadecifrazione sperimentale di uno scritto antico. Nonaveva nessuna importanza se lo scritto era già stato deci-frato o no, sebbene ai fini di un controllo avesse sensopartire dall’analisi di uno scritto già decifrato. Fu quel-la la ragione per cui fu scelta la scrittura maya per ilprimo tentativo (sarebbe stato esattamente lo stessousare i geroglifici egizi, la scrittura cuneiforme ecc.). Illavoro compiuto dagli scrittori che stiamo recensendodimostrò in pratica che la tecnologia moderna del cal-colatore può essere adoperata per decifrare antichi siste-mi di scrittura. La decifrazione «meccanica» confermòil fatto che quando una scrittura è studiata oggettiva-mente i risultati certamente concordano. Si deve osser-vare che se i risultati della decifrazione «meccanica» nonavessero coinciso con quelli del precedente lavoro«manuale», sarebbe stato necessario rivedere la deci-frazione «meccanica» (e non il sistema «manuale» giàcollaudato) come si deve in pratica fare per quantoriguarda quella parte del lavoro in cui ovviamente sonocitate letture fonetiche erronee (sebbene anch’esse ripe-tano lavori già pubblicati).

La decifrazione «meccanica» ha ottenuto buoni risul-tati solo in parte a riprodurre il lavoro «manuale», e nonha aggiunto nulla alla nostra conoscenza della scritturamaya. Per ottenere risultati di qualche utilità pratica pergli studi americani, gli autori dovranno riesaminare iloro postulati teorici e migliorare notevolmente i meto-di di programmazione.

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