Fiabe Cinesi e Tibetane

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Fiabe cinesi

e tibetane

Titoli originali:

Chinese Fairy Tales and Fantasies

© 1979 by Moss Roberts

Traduzione di: Isa Mogherini

Stories from beyond the clouds. An anthology of Tibetan folk tales

© 1975 by Library of Tibetan Works and Archives

Traduzione di: Maria Magrini

© 1986 per l‘edizione italiana ARCANA EDITRICE srl

Edizione CDE spa – Milano

su licenza dell‘ARCANA EDITRICE srl

FIABE E STORIE CINESI

A CURA DI

Moss Roberts

con la collaborazione di C. N. Tay

A Sean e Jennifer

RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare innanzitutto il professor C.N. Tay della New York University, per il suo

confortante incoraggiamento e per il contributo delle sue eccezionali conoscenze linguistiche e

letterarie. E inoltre:

le redattrici della Pantheon Books, Wendy Wolf e Mary Barnett, i cui eccellenti consigli in

materia di gusto letterario e di stile hanno migliorato in molti modi il mio manoscritto;

mia moglie Florence e i miei bambini Sean e Jennifer, che hanno letto con impegno il

manoscritto e offerto validi suggerimenti;

la nostra amica Shirley Hochhausen, che ha ascoltato questi racconti con orecchio sensibile e

benevolo;

gli studenti del corso di studi orientali alla New York University, il cui interesse ha vivamente

stimolato le mie ricerche sulla letteratura cinese.

INTRODUZIONE

La vita quotidiana dei mortali, il favoloso regno degli uccelli e degli animali, e il mondo

soprannaturale degli dèi e dei fantasmi, si mescolano in questi racconti, fiabe e fantasie. Come le

fiabe popolari dell‘Occidente, essi sgorgano dalle profonde sorgenti della storia e

dell‘immaginazione di una civiltà; e i contadini, i filosofi, le vergini, i re, i giudici, le tigri e i

pappagalli che v‘incontriamo, ci ricordano, a volte, personaggi di leggende più familiari. Allo stesso

tempo, queste storie recano l‘impronta della società e delle tradizioni originali che le hanno

prodotte. Esse offrono una chiara visione dell‘ordine sociale cinese, attraverso le complesse

relazioni che lo definiscono: imperatore e suddito, padre e figlio, marito e moglie (o mogli),

funzionario e contadino, uomo e animale.

I filosofi confuciani, che prevalsero nello stato cinese, concepivano queste relazioni come un

armonioso equilibrio di doveri, e numerosi scritti di questa raccolta illustrano la loro concezione

dell‘ordine e dell‘autorità. Generalmente parlando, i confuciani erano la voce degli ordini superiori:

imperatore, padre, marito. La maggior parte dei nostri racconti, tuttavia, danno voce alle altre parti

sociali, poiché essi provengono dai taoisti, filosofi e critici che rappresentano gli ordini inferiori e

che furono, storicamente, oppositori dei confuciani. La visione taoista trovò un vivido mezzo di

espressione nella letteratura popolare: in novelle, scherzi, racconti e leggende, come quelli che

possiamo leggere in questo libro. In effetti, uno degli scopi di questo genere narrativo, disprezzato e

anche messo al bando dalle autorità confuciane, fu quello di dare pubblicità ai crimini dei potenti e

alle ingiurie sofferte dai subordinati, inclusi i bambini, le donne, gli animali. Come il conflitto tra

superiori e inferiori plasmò la storia della Cina, così la rivalità tra le due grandi filosofie plasmò la

cultura cinese.

Nella dottrina di Confucio, l‘imperatore siede al centro dei regni: politico, sociale e naturale. Egli

governa su mandato del cielo e la sua autorità spirituale s‘irradia in cerchi concentrici; in cambio,

riceve l‘obbedienza e la fedeltà degli esseri umani e la sottomissione delle creature e delle cose. Il

suddito cinese vedeva simultaneamente in lui il Figlio del Cielo e il padre del popolo, fondendo così

i ruoli occidentali del re e del papa in una sola figura di semidio. Come discendente del fondatore

della propria dinastia, l‘imperatore era tenuto all‘adorazione filiale degli antenati e al buon governo

della famiglia; in particolare, doveva aver cura della sistemazione matrimoniale e della conveniente

educazione del figlio destinato a succedergli. Nel confucianesimo, il principio ereditario era

fondamentale, poiché la famiglia imperiale costituiva il cuore dello stato.

L‘imperatore esercitava il suo potere sull‘intero paese, in modo diretto per mezzo della

burocrazia imperiale, e indirettamente attraverso i clan dei grandi proprietari terrieri, detti anche,

talvolta, classe gentilizia o nobiltà locale. Gli incarichi pubblici (aspirazione di tutti i giovani dei

clan) si ottenevano mediante esami di abilitazione basati sulla conoscenza dei libri sacri del

confucianesimo: dottrina, rituali, etica, metafisica e storia. Un giovane ambizioso poteva salire di

grado superando tre successivi livelli di esami: per la contea, per la provincia, per la città. Il sistema

aveva lo scopo di delegare le responsabilità di governo a uomini onesti e colti, a funzionari-letterati

che avrebbero governato con giudizio.

Questi racconti, a ogni modo, trattano della pratica, non della teoria; e, nella realtà, la burocrazia

era una struttura ingombrante e spesso corrotta, nella quale la nomina dei funzionari pubblici era

determinata da molteplici fattori: non esclusi, accanto alla sapienza, il clientelismo e la corruzione.

Un racconto come La concubina del letterato vuol essere una caustica satira della vendita di cariche

pubbliche a persone non qualificate.

Il funzionario pubblico che appare più spesso in questa raccolta è il magistrato di contea, il grado

più basso della burocrazia imperiale, governatore diretto del popolo nella sua giurisdizione.

Generalmente egli aveva conseguito un diploma ―metropolitano‖ o ―provinciale‖ e ci si rivolgeva a

lui come al ―padre della contea‖; tuttavia, di solito si curava ben poco delle sorti del contado e

raramente era amato. I racconti Un giudice saggio e Un giudice scaltro costituiscono un omaggio ai

buoni magistrati; ma Relazioni sociali racconta in qual modo un funzionario disonesto potè portare

alla rovina un prospero agricoltore. La giustizia ultraterrena va ancora più lontano, mostrando

quanto sia scarsa la giustizia, in questo mondo come nell‘altro.

Questo spirito critico toccava raramente l‘imperatore in persona. Fa eccezione il primo racconto

della raccolta, Il grillo, dove l‘intera burocrazia si mobilita per procacciare un nuovo svago alla

corte.

I grandi clan che governavano localmente costituivano dei piccoli modelli della famiglia

imperiale. Anche qui si dovevano rispettare i diritti ereditari, per agevolare la trasmissione dei beni

e del rango; a questo medesimo scopo, l‘arte di combinare matrimoni era essenziale. Se un giovane

nobile e la sua ―prima‖ sposa avevano scarse possibilità di scelta, le mogli successive, o concubine,

non ne avevano affatto. Generalmente parlando, in una società che faceva della famiglia una unità

politica oltre che sociale, la libertà d‘innamorarsi e di sposare a proprio gusto non poteva essere

tollerata; preferenze e desideri personali dovevano sottomettersi alle virtù sociali. La risposta a

questa imposizione — ossia la lotta per la libertà in amore e nel matrimonio — animò gran parte

della letteratura cinese, come si vede nei due racconti La figlia divisa, che descrive

compassionevolmente il dolore delle coppie desiderose di sposarsi per amore e non per dovere, e La

servente e il pappagallo, dove una giovane concubina che ama uno studente riceve aiuto da un

soccorritore inusitato.

Il controllo delle emozioni è il cuore stesso della percezione confuciana dell‘umana natura. Il

confucianesimo definiva gli esseri umani unicamente sulla base di relazioni obbligate, la cui

essenza e il cui atto fondamentale erano l‘obbedienza: i bambini obbedivano ai genitori, i contadini

obbedivano ai signori e ai funzionari pubblici, le mogli obbedivano ai mariti. Questa era la molla

prima del comportamento: abbandonare passione e istinto, come attributi non già umani, bensì

animaleschi. Nel racconto II censore e la tigre incontriamo un funzionario decaduto, appunto, a tale

stato selvaggio.

Il grande novelliere P‘u Sung-ling, voce dominante di questa raccolta, attacca la tradizione

confuciana tutta intera, in una serie di racconti dove animali ed altre creature ―subordinate‖ offrono

un modello di condotta virtuosa che i loro superiori avrebbero fatto bene a seguire. Nei racconti II

cane devoto, L‘uomo dei serpenti e II topo fedele, egli mostra in modo assai convincente dove si

trovino davvero l‘amore e la compassione. Ventuno dei racconti qui raccolti sono tratti dal libro di

P‘u Archivio di Cose Strane in uno studio di fortuna, una raccolta di oltre quattrocento racconti che

costituisce il vertice della tradizione novellistica cinese. Il manoscritto di quest‘opera fu

probabilmente completato verso la fine del XVII secolo e circolò largamente, anche se fu

pubblicato in via ufficiale solo nel periodo 1760-1770, cinquantanni circa dopo la morte di P‘u.

La contro-tradizione letteraria, della quale P‘u fu probabilmente la figura centrale, ha le sue

radici nel taoismo, una filosofia antica quanto il confucianesimo, e la più critica nei suoi confronti.

Il Tao (letteralmente: ―la Via‖, o ―La Corrente Principale‖) è l‘antenato universale e l‘universale

annientato-re. In quanto livellatore ultimo di tutte le creature viventi, esso crea tutte le cose uguali,

senza dare ad alcuna di esse dominio su un‘altra, per diritto di nascita o per qualsivoglia altro potere

ereditario. L‘autorità del Tao è assoluta; esso non ne trasferisce alcuna in ciò che crea: al contrario

della divinità confuciana, che conferisce a ―suo figlio‖, l‘imperatore, il mandato di governare. In

quanto distruttore, il Tao riaccoglie tutto quanto ha creato; e non una delle sue creature ha facoltà di

trasmettere poteri, proprietà o rango, oltre il tempo prestabilito della sua esistenza terrena. Gli

animali e tutte le altre creature esistono sullo stesso piano degli esseri umani, e ciascuno esiste per

la durata di una sola vita, libero da impegni sia verso gli antenati sia verso i discendenti. Secondo i

taoisti, gli artifici dalla civilizzazione allontanano l‘umanità dall‘originario, benevolo stato di

natura. Così, in un colpo, i taoisti distruggevano la premessa fondamentale dell‘ordine confuciano:

la gerarchia sociale, fondata sul diritto ereditario.

Più di venti brani, in questa raccolta, provengono dai grandi filosofi taoisti Chuang Tzu e Lieh

Tzu. Due brani molto brevi, La gioia dei pesci e Sogni di farfalle, raffigurano il mondo umano e il

mondo naturale come parti di uno stesso intero. Chuang Tzu, particolarmente, cercò un personale

stato di trascendenza, nel quale lo spirito fosse libero di vagare attraverso l‘intera creazione,

divenendo una sola cosa ora con questa ora con quella creatura. Questa interazione tra mondo

umano e mondo animale collega il taoismo al buddismo, in cui seguaci credevano che gli spiriti dei

morti potessero riapparire sotto forma di animali, per espiare i peccati commessi nelle vite

precedenti. La trasmigrazione delle anime compare nel racconto Tre vite precedenti. Esso insegna

anche l‘importanza della compassione verso tutto ciò che vive, autentica essenza della morale

buddista.

L‘umanizzazione degli animali, in questi racconti, riflette anche un altro rapporto culturale: le

relazioni tra cinesi e non cinesi. Gli storici di osservanza confuciana erano spesso scandalizzati

dalle usanze matrimoniali e funerarie degli innumerevoli popoli asiatici — alcuni non cinesi, altri

cinesi in parte — che vivevano lungo i confini della Cina. Preoccupati di conservare la purezza

etnica e l‘integrità culturale del proprio popolo, si riferivano spesso a quelle genti usando gli

appellativi animaleschi di ―cani‖ o ―rettili‖. Taoisti e buddisti, per parte loro, avevano un punto di

vista molto più tollerante. Lieh Tzu, in Uomo o bestia, dà voce a questa contrapposizione con

grande forza, riconoscendo in termini mitici il contributo che i popoli non cinesi avevano dato alla

civiltà cinese.

Ma il taoismo non produceva soltanto fantasiose metafore. I preti taoisti, i cui poteri magici sono

ampiamente illustrati nei racconti, rifiutavano sdegnosamente gli insegnamenti dei classici

confuciani e le carriere burocratiche, per dedicarsi allo studio dell‘alchimia, dell‘astrologia, della

botanica, della farmacologia, della meteorologia, della zoologia e di altro ancora. Tanto spesso

ribelli quanto appartati, essi vivevano sulle montagne, dove regnavano le tigri e si nascondevano i

banditi. Critici dell‘ordine sociale in atto, non di rado si univano ai contadini nel contrastare e

talvolta rovesciare la dinastia al potere, traducendo così la loro visione egualitaria della creazione in

realtà sociale ed economica. Movimenti antidinastici come il Loto Bianco (una società di contadini

ribelli, attiva dal XII al XIX secolo) spesso si servirono delle ―eresie‖ e delle ―arti nere‖ apprese dai

taoisti. Il racconto Il ladro di pesche ci dà una vaga idea delle loro attività.

L‘ordine sociale confuciano era minacciato anche su un altro fronte: il mondo soprannaturale.

Secondo il confucianesimo, i morti disponevano di un‘autorità che poteva essere invocata

unicamente nel tempio dedicato agli antenati, e soltanto dai loro nobili discendenti. Questi rituali

esercitavano una enorme influenza sociale e psicologica sulla gente comune, i cui defunti,

sprovvisti di titoli e spesso perfino di una dimora, erano muti e impotenti. Un contemporaneo e

rivale di Confucio, il filosofo Mo Tzu, escogitò una teoria che rovesciava questo concetto. Gli

spiriti, argomentò Mo, non sono mandatari dei vivi privilegiati bensì agenti del cielo. Come i morti

comuni, essi sono tutori di una giustizia obiettiva e universale e possono compensare le

manchevolezze della giustizia umana. Il Dio della Città, che svolge un ruolo importante nel

racconto La giustizia ultraterrena, subisce dure critiche per aver trascurato questo compito. Il Dio

della Città aveva il suo tempio entro la cinta urbana, il che consentiva a chiunque vi entrasse di

comunicare con il mondo dei morti. Nel racconto II vino dell‘amicizia, la divinità locale offre una

variante dello stesso concetto. Molti altri racconti, inclusi nella sezione ‗Fantasmi e spiriti―, mettono

in ridicolo chi crede nei fantasmi, i quali sono semplici superstizioni e non agenti di giustizia.

Abbiamo qui accennato ad alcuni dei temi sociali che entrano in gioco nel dispiegarsi della

narrazione. Nel suo insieme, la raccolta abbraccia oltre venti secoli di letteratura cinese, dal V secolo

avanti Cristo al XVIII dell‘era volgare. Aggiungiamo che ogni racconto ha una sua propria voce e ci

parla con vigorosa onestà dei sentimenti comuni sui fatti della vita umana.

Storie D’Incantesimi E Di Magie

IL GRILLO P'u Sung-ling

Durante il regno dei Ming, conosciuto come il regno della Virtù Persuasiva, i combattimenti di

grilli erano molto popolari a corte e il popolino, ogni armo, doveva far provvista di grilli, affinché i

nobili potessero partecipare alla battaglia. Nella nostra contea chiamata Ombra Floreale, nello

Shensi dell‘Ovest, il grillo non è comune; ma il nostro magistrato, volendo accattivarsi la

benevolenza dei suoi superiori, s‘impegnò a procurarne uno che si dimostrasse un forte

combattente. Come risultato, Ombra Floreale fu nominata fornitrice di grilli per la corte.

Il magistrato, naturalmente, trasferì ogni responsabilità sulle teste dei vicini; e nella contea, i

grilli diventarono rari e preziosi. I giovani delle nostre città, nella speranza di farne salire il prezzo,

spesso tenevano da parte gli esemplari più notevoli che riuscivano a catturare; e agli astuti

funzionari locali non pareva vero di usare il pretesto dell‘incetta dei grilli per perquisire le

abitazioni del popolo. Ogni volta che andavano a cercare raccolte di grilli, confiscavano una tale

quantità di altre cose che mandarono in rovina parecchie famiglie.

Ad Ombra Floreale viveva un uomo chiamato Far-bene. Da armi egli era candidato alla carica

più bassa della carriera pubblica, ma essa continuava a sfuggirgli. Far-bene era un poco pedante e

insicuro, e certi abili funzionari gli affibbiarono l‘ufficio di capo del vicinato. Una volta lì, egli

rimase incollato a quell‘impiego, e cento trucchi e intrighi non sarebbero più bastati a districarlo.

Quando non riusciva a estorcere abbastanza tasse dal popolo, doveva mettere insieme il denaro

tirandolo fuori dalle proprie tasche: nel giro di un anno, tutti i suoi fondi furono esauriti.

Lo stesso gli capitò quando verme il tempo di raccogliere i grilli. Far-bene non seppe indursi a

prenderli ai suoi vicini, anche se non sapeva come fare per procurarsi il quantitativo stabilito dai

superiori. Intrappolato in quella situazione frustrante, non aveva altro desiderio che morire.

―E a che ti servirebbe?‖ gli domandò sua moglie. ―Vai fuori e cerca i grilli tu stesso. Chissà che

tu non abbia fortuna.‖

Far-bene fu d‘accordo con lei. Giorno dopo giorno, usciva di casa la mattina presto e non

rientrava che molto tardi. Con la sua canna di bambù e la sua gabbietta di filo di ottone cercava tra

vecchie mura sgretolate e grovigli d‘erbe selvatiche. Esplorò ogni roccia e frugò in ogni fessura, ma

non ne venne fuori un bel niente. I pochi esemplari che riuscì a trovare erano deboli e di qualità

inferiore, al di sotto dello standard richiesto.

Il magistrato, a ogni modo, inchiodò Far-bene al regolamento. Dopo dieci giorni, non essendo in

grado di fornire i grilli dovuti, il poveruomo dovette affrontare la pena di cento frustate. Egli fu

picchiato finché il sangue non gli corse a rivoli lungo le gambe, dopodiché non avrebbe potuto più

muoversi, neppure per catturare un verme. Lasciandosi cadere sul letto, desiderò soltanto di porre

fine a se stesso.

Accadde allora che un gobbetto indovino, capace di leggere il futuro, giunse al villaggio. La

moglie di Far-bene prese un po‘ di soldi per il suo onorario e andò a consultarlo. Una folla si

accalcava alla porta dell‘indovino; e così la moglie di Far-bene entrò nella casa in compagnia di

giovani in fiore, di non più giovani e di teste canute. Bassi tavolini per gli incensi erano stati

collocati davanti a una camera interna, schermata da tendaggi. Coloro che erano venuti con qualche

problema accendevano il loro incenso per il crogiuolo, poi presentavano i loro omaggi inchinandosi

profondamente, finché le loro fronti non premevano il pavimento. L‘indovino se ne stava in piedi da

un lato, gli occhi fissi verso il cielo, salmodiando per invocare la buona fortuna sulla moltitudine.

Le sue labbra si aprivano e si chiudevano, senza formare tuttavia parole intelligibili. La folla

ascoltava con reverente attenzione. A intervalli di pochi minuti, un foglietto di carta scivolava fuori

dai tendaggi e su di esso erano scritte parole che rispondevano al problema del richiedente.

La moglie di Far-bene depositò il denaro sull‘apposito banco ed eseguì le stesse riverenze di chi

l‘aveva preceduta. Trascorso il tempo che occorre, più o meno, per consumare un pasto, le tende

cominciarono ad agitarsi, quindi ne uscì una striscia di carta che cadde sul pavimento. Essa non

recava parole, ma soltanto un disegno: un tempio abbandonato, al di là del quale sorgeva una

piccola montagna, sopra una base di rocce dalla forma bizzarra; le rocce erano immerse in una folta

vegetazione, nella quale stava seminascosto un bellissimo grillo verde; accanto al grillo c‘era una

rana, che sembrava in procinto di mettersi a saltare e a ballare.

Perplessa, la donna osservò il disegno centimetro per centimetro e quando il suo sguardo si posò

sul grillo lo fissò con estatica attenzione. Quindi piegò il foglio e andò a casa per mostrarlo a suo

marito.

Far-bene esaminò il disegno e rifletté: ―Questo deve essere un modo per indicarmi dove catturare

un grillo!‖ Guardando meglio il disegno, si ricordò di un tempio buddista che si trovava a est del

villaggio. Con uno sforzo doloroso si alzò dal letto e, appoggiandosi al suo bastone, si trascinò

zoppicando verso il tempio con il disegno in mano.

Dietro l‘edificio del tempio c‘erano molte antiche tombe; Far-bene proseguì il suo cammino

zigzagando fra luna e l‘altra e, superate le tombe, si trovò davanti le rocce dalle forme strane,

proprio come nel disegno. Vigile e cauto, esplorando minuziosamente il terreno, si spinse più

avanti, tra i folti cespugli. Non v‘era traccia né suono che indicasse la presenza di ciò che era venuto

a cercare; e tuttavia, barcollante, avanzò ancora oltre.

D‘un tratto, una rana saltò fuori dai cespugli. Far-bene trasalì dallo stupore. Più svelto che potè

seguì la rana e la vide tuffarsi nell‘erba folta. Subito Far-bene si chinò a spartire l‘erba per guardarvi

in mezzo e di colpo spalancò gli occhi dalla meraviglia: un grillo se ne stava rannicchiato là sotto!

Fece per afferrarlo, ma esso s‘infilò in una crepa della roccia. Far-bene provò a stuzzicarlo con un

filo d‘erba, ma non riuscì a farlo venir fuori; allora si mise a percuotere la pietra con la canna di

bambù e finalmente l‘animaletto riapparve. Era un esemplare magnifico. Far-bene gli diede la

caccia e lo catturò. L‘insetto aveva una robusta corporatura e una lunga coda; il suo collo era verde

scuro, le sue ali parevano d‘oro.

Esultante, Far-bene mise il grillo nella gabbietta e se ne tornò a casa, dove l‘intera famiglia si

rallegrò, come s‘egli avesse portato un gran tesoro. Misero il grillo in una tinozza coperta, lo

nutrirono con ogni sorta di grani, e lo custodirono per il giorno in cui Far-bene avrebbe dovuto

consegnarlo al magistrato.

Ora, Far-bene aveva un figlio di nove anni; e questo figlio, un giorno che suo padre era fuori,

andò di soppiatto a scoprire la tinozza del grillo. In un lampo il grillo saltò su e scomparve, così

veloce che nessuno avrebbe potuto acchiapparlo. Il bambino, disperato, si mise a dargli la caccia e

infine riuscì a calargli sopra la mano e a intrappolarlo. Ma il povero grillo, a quel punto, aveva una

zampetta staccata e il ventre ferito, e pochi istanti dopo morì. Preso dal panico, il bambino scoppiò

in lacrime e andò a raccontar tutto a sua madre. La mamma divenne mortalmente pallida.

―Malvagio karma!1” imprecò. ―Il giorno della nostra rovina è ormai prossimo! Quando torna il

babbo ti sistema lui.‖

Il bambino scappò via piangendo.

Poco dopo il padre ritornò, e appena ebbe sentito dalla moglie quanto era successo si sentì

raggelare, quasi lo avessero immerso in un bagno di ghiaccio e di neve. Furente andò in cerca del

figlio, ma il bambino era scomparso e non ve n‘era traccia. Più tardi, lo trovarono nel pozzo.

Poiché si approssimava il crepuscolo, Far-bene e sua moglie si accinsero a seppellire il loro

figliolo; ma mentre lo accarezzavano, si accorsero che, molto debolmente, respirava ancora.

Sopraffatti dalla gioia, si affrettarono a distenderlo sul letto; e man mano che la notte passava, il

bambino sembrava riprendere vita. Marito e moglie si sentirono immensamente consolati. Gli spiriti

vitali del fanciullo, tuttavia, non riprendevano forza; il suo respiro era lento e trattenuto, come se

egli desiderasse dormire. Allora Far-bene guardò la gabbietta vuota e fu preso di nuovo dalla

disperazione, pensando al grillo perduto. Ma non voleva dare altre pene al suo figliolo.

Far-bene giaceva ancora sveglio, irrigidito dall‘angoscia, quando il sole sorse da oriente portando

il giorno con sé. Improvvisamente, l‘uomo udì il lieve frinire di un insetto, all‘esterno. Con un balzo

saltò in piedi e andò fuori a guardare. C‘era un grillo, e anche molto grosso! Estasiato, l‘uomo tentò

di acchiapparlo, ma il grillo saltò via, intensificando il suo frinire via via che acquistava velocità.

Alla fine, Far-bene riuscì a calargli sopra le due mani a coppa; ma poiché non sentiva il grillo

muoversi e solleticargli le palme, arrivò alla conclusione che doveva essergli sfuggito un‘altra volta.

Sollevò le mani e il grillo saltò via di nuovo. Far-bene si affrettò a riprendere l‘inseguimento, svoltò

l‘angolo e si rese conto che il grillo era scomparso definitivamente.

Il poveruomo rimase dov‘era a guardarsi in giro e infine adocchiò un altro grillo, rannicchiato sul

muro. Ma questo era corto, minuto, nero e rosso; non reggeva il paragone con quello perduto. Far-

bene lo esaminò un momento, alquanto dubbioso, poi riprese la caccia all‘altro grillo. Ma il grillo

del muro saltò giù a tuffo e gli cadde tra il colletto e la manica. Aveva la forma di un grillotalpa, ali

simili ai fiori del susino, testa alquanto squadrata e gambe lunghe. Pensando che, dopotutto, poteva

anche avere qualche possibilità, Far-bene decise di tenerlo.

Mise il grillo nella gabbietta e si prese gran cura di lui, anche se aveva paura che non sarebbe

piaciuto alle autorità. D‘un tratto fu colpito da un‘idea: prima di consegnare quella creatura, doveva

provarne le capacità in combattimento. Detto fatto, mandò a chiamare un giovanotto burlone del

villaggio, il quale aveva un grillo chiamato Guscio-di-granchio-verde che vinceva regolarmente in

tutti gl‘incontri locali.

Alla vista del grillo di Far-bene, il burlone soffocò una risata, tirò fuori il suo grillo e lo mise in

una gabbietta accanto all‘altro. Confuso, Far-bene contemplava il lungo, maestoso Guscio-di-

granchio-verde. ―Che miserevole insetto ho raccolto‖ pensava. ―Non varrà mai niente. Ma tanto

vale provarlo, se non altro per ridere.‖ Così, mise il grillo nella tinozza del combattimento.

Il piccolo grillo di Far-bene si rannicchiò e stette fermo, come un guerriero intento a corazzarsi

per la battaglia. Il burlone del villaggio ora sghignazzava clamorosamente. Far-bene provò a

spazzolare con una setola le antenne del suo animaletto nella speranza d‘indurlo ad alzarsi, ma

quello non si mosse ancora. Il giovanotto si teneva i fianchi dal gran ridere. Infine le provocazioni

di Far-bene ebbero successo: il grillo saltò su infuriato e caricò a testa bassa. Le due creature

ruzzolarono insieme, menandosi colpi duri; scuotevano e tiravano, e il clic-ciac della lotta diventava

sempre più rapido e forte. Ancora pochi istanti e il grillo più piccolo balzò avanti, distese la coda,

allungò le antenne e addentò la gola dell‘avversario. Allarmato, il giovanotto si affrettò a dividere i

due insetti e interruppe il combattimento. Il grillo più piccolo friniva esultante, quasi fosse

consapevole di aver ricompensato la fiducia del suo padrone.

Far-bene stava ammirando estasiato il suo grillo quando un gallo balzò su alle sue spalle, puntò

dritto sull‘insetto vittorioso e diede una maligna beccata. Far-bene urlò di paura. Ma fortunatamente

la beccata mancò il bersaglio e l‘animaletto si mise in salvo con un lungo salto. Il gallo tuttavia

avanzava; ormai il grillo era sotto la sua zampa artigliata e protesa… Far-bene, pallido e tremante,

impotente, batteva i piedi desolato. D‘un tratto vide il gallo allungare il collo e scuotere la testa su e

giù, a destra e a sinistra; e guardando più da vicino, vide che il grillo si era piantato sulla cresta del

gallo e la mordicchiava energicamente. Al colmo della gioia, Far-bene tirò via il grillo e lo rimise

nella gabbia.

Il giorno successivo presentò il grillo al magistrato, che lo rimproverò per avergli portato un

insetto tanto meschino e sparuto. Far-bene gli raccontò quanto era successo, ma il magistrato non

volle credergli; tuttavia, acconsentì a provare l‘insetto in combattimento. Il grillo tenne testa a tutti i

suoi avversari. Il magistrato lo fece combattere contro un gallo e il risultato fu quello che Far-bene

aveva descritto. Così Far-bene fu premiato e il grillo fu presentato al governatore. Il governatore,

incantato, offrì il grillo all‘imperatore, con un minuzioso resoconto delle sue prodezze.

Una volta installato nel palazzo reale, il grillo-campione fu contrapposto a tutti gli altri

combattenti del regno: grilli-farfalla, grilli-libellula e molti altri straordinari esemplari. Ma nessuno

poté sconfiggerlo. E come non bastasse, il grillo di Far-bene sapeva perfino ballare, sul ritmo della

musica di una cetra.

L‘imperatore era tanto soddisfatto che diede in premio al governatore cavalli di gran pregio e

seta per abiti. Il governatore non dimenticò la provenienza del grillo, e non era passato molto tempo

che il magistrato ricevette un alto elogio per eccezionali servigi resi. Colmo di felicità, il magistrato

esentò Far-bene dal suo incarico di capo del vicinato e diede istruzioni al funzionario scolastico

affinché gli rilasciasse un diploma.

Un anno circa dopo questi eventi, rinvigoritisi i suoi spiriti vitali, il figlio di Far-bene riprese

conoscenza.

―Mentre dormivo,‖ raccontò a suo padre ―diventai un grillo. Il mio corpo era leggero, potevo

saltare velocemente e divenni esperto nel combattimento.‖

Il governatore stesso ricompensò lautamente Far-bene. Nel giro di pochi anni il modesto ex capo

del vicinato acquistò una tenuta di cento ettari, una casa di due piani con diecimila travi, e migliaia

di pecore e di buoi. Dovunque egli andasse, la sua splendida vettura e la sua sfarzosa eleganza

superavano largamente quelle di ogni nobile del suo tempo.

LA SERVENTE E IL PAPPAGALLO HAO KO TZU

Una giovane serva era stata assunta da una grande famiglia della provincia di Szechuan. Era così

bella e intelligente, che il padrone di casa la preferiva a tutte le altre e la teneva separata da esse.

Ora accadde che un certo funzionario offrì in dono alla famiglia un pappagallo raro, così dotato e

sveglio che riusciva a parlare con voce umana. Il padrone affidò alla serva preferita, come unico suo

compito, la cura e l‘alimentazione dell‘uccello.

Un giorno, mentre stava dandogli da mangiare, il pappagallo improvvisamente parlò: ―Curami

bene, sorella,‖ disse ―e ti guadagnerai per questo un buon marito.‖

Confusa, la ragazza colpì leggermente il volatile con il ventaglio e quello non si ritrasse. Da

allora in poi, quando l‘animale aveva qualcosa da dire, lei rispondeva con uno scherzo o un

rimbrotto; andò a finire che la pratica di chiacchierare con lui divenne un‘abitudine alla quale non

faceva più caso. Dopotutto, stava sola in una stanza e per compagnia non aveva che un uccello nella

sua gabbia sospesa; se le confidenze che si mormoravano li avevano resi buoni compagni, a chi

doveva interessare?

Un giorno la ragazza stava facendo il bagno, dopo che il pappagallo aveva finito di fare il suo, e

poiché la bestiola era del tutto addomesticata non le venne in mente di sprangare la gabbia; ma con

sua viva sorpresa il pappagallo scosse le ali, uscì fuori e prese a volare in cerchi per la stanza. La

ragazza tentò freneticamente di ghermirlo, ma l‘uccello forò col becco la carta della finestra,1 vi

passò attraverso e in un attimo sparì, lasciando la ragazza attonita e impotente.

Avendo paura del padrone, la fanciulla decise di nascondere la sua colpa. Si vestì, appese la

gabbia al cornicione fuori della sua stanza, poi andò dal suo signore e piangendo gli disse: ―La

vostra fedele serva dimenticò di chiudere la porta mentre faceva il bagno; ma non si aspettava

davvero che qualcuno ne approfittasse per entrare e far volar via il pappagallo! Ciononostante,

signore, sopporterò serenamente i rimproveri e non porterò rancore per il torto subito, dovessi anche

morire.‖

Il padrone,ben sapendo quanto le altre cameriere fossero gelose di lei, accettò per buono il suo

racconto; poi interrogò familiari e domestici, ma non riuscì a scoprire il colpevole e l‘indagine fu

abbandonata.

Dieci giorni più tardi, la moglie del padrone mandò la ragazza per una commissione da una

signora di nome Liang. Il giovane figlio di costei, Liang Hsù, stava studiando nella sua stanza,

quando un pappagallo entrò dalla finestra, si posò sullo scrittoio e con voce umana gli disse: ―Sono

andato in cerca di una compagna ideale per te. Perché non vai a darle un‘occhiata?‖

Hsù, sbalordito, posò il libro e seguì il pappagallo parlante. L‘uccello lo guidò fuori della stanza

e il giovane, non visto, poté scorgere entrare timidamente nella casa, una fanciulla di sedici anni

vestita di colori scuri, eccettuata la gonna rossa.

Hsù osservò attentamente il viso della ragazza e vide che la sua bellezza era davvero

eccezionale. Con un pretesto la seguì fino al salone e la sentì conversare sommessamente e

garbatamente con sua madre. Apprese, così, che era al servizio di una potente famiglia; ma

nonostante l‘umile condizione, il suo contegno modesto lo incantò immediatamente. Anche la

ragazza aveva notato il nobile giovane e di quando in quando lo sogguardava furtivamente. Benché

non si scambiassero una sola parola, i loro reciproci sentimenti furono subito impegnati.

Tornata a casa, la fanciulla andò nella sua camera, dove era ancora la gabbia vuota, accanto al

suo letto. Appollaiato su di essa il pappagallo, che riposava beato con gli occhi chiusi e gli artigli

ripiegati. Felice come se avesse trovato un gioiello regale, la ragazza fece per prendere la bestiola,

che si mise a battere le ali, protestando a gran voce: ―Eccomi qui, sorella, mezzo morto a furia di

darmi da fare per te, e con buona fortuna ti ho anche trovato un bel marito! Perché vuoi

rinchiudermi di nuovo?‖

Stupita, la ragazza ascoltò il racconto del pappagallo, che concluse con queste parole: ―Anche se

non posso trasportarvi tutti e due oltre le mura di cinta, come l‘eroico schiavo della leggenda, posso

sempre comunicare a lui la speranza del tuo cuore, sorella: se è davvero l‘uomo che ami.‖

La fanciulla arrossì e non rispose. ―Tutti così, i giovani innamorati, ‖sghignazzò il pappagallo.

―Ma ora è meglio che me ne vada, prima che arrivi qualcuno.‖ Ciò detto mise in moto le penne e

volò via.

La ragazza, che era stata fortemente attratta da Liang Hsù, provò vergogna al pensiero che

avrebbe dovuto unirsi ben presto alle concubine del padrone. Per tutta la notte si girò e si voltò nel

letto, tormentata da quelle due diverse emozioni.

Il giorno successivo, il pappagallo aspettò che non ci fosse in giro nessuno, quindi tornò ad

appollaiarsi sul trespolo. La serva lo salutò con un cenno e gli disse: ―Il padrone va pazzo per me,

non mi cederà mai ai Liang. Per lui, sarebbe come ‗usare una perla per abbattere un passero‘.

Inoltre, il giovane Liang è bello, pieno di qualità e ricco; anche ammettendo che possa essere

attratto da me come da un fiore fresco, si abbasserebbe mai a prendere una serva per sposa? Io ti

ringrazio per la pena che ti sei preso, ma ho paura che questa storia non possa andare a buon fine.

Non possiamo farci niente.‖

Il pappagallo agitò le ali e volò via, e non tornò prima che fosse sera. Allora, protetto

dall‘oscurità, volò nella camera e disse alla fanciulla: ―Il giovane Liang esprime i suoi sentimenti

per te in questi versi.‖ E recitò una poesia scritta dal giovanotto:

Non importa se il tuo ventaglio è disadorno,

il mio amore è per il tuo bel viso.

Potessimo salire sull’uccello nuziale

ci libreremmo in aria, sposa e sposo.

La fanciulla si sentì tutta consolata da quelle parole e confidò il desiderio del suo cuore al

pappagallo. Poi, all‘approssimarsi del mattino, lo lasciò andare.

Appartato nel suo studio solitario, Liang Hsù aveva continuato a pensare alla fanciulla notte e

giorno. Quella mattina si alzò, vide un uccello svolazzare d‘intorno e riconobbe in lui il pappagallo

che era già venuto altre volte. Allora, scherzando, gli disse: ―Mio buon amico, puoi darmi notizie

della signora del mio cuore? Di sicuro tu sei un uccello unico tra tutti gli uccelli! Bisognerebbe

scrivere la tua biografia, in modo che tu fossi ricordato per l‘eternità.‖

Il pappagallo si abbassò, ripiegò le ali e si accomodò sulla cornice di un paravento. Poi espresse

a Liang l‘affetto della fanciulla e la profondità del suo desiderio. Felice, Hsù domandò se la ragazza

sapesse leggere. ―Un poco‖ rispose il pappagallo. E allora, lì per lì, Hsù scrisse una lettera nella

quale rivelava tutto il suo amore per la fanciulla e il suo desiderio di sposarla. Poi sigillò la lettera e

la posò sul pavimento. Il pappagallo piombò giù, afferrò il messaggio con il becco e volò via,

lasciando Liang Hsù più meravigliato che mai di tutto quanto gli stava capitando.

Per parecchi giorni il nobile giovane non rivide l‘uccello. Ogni contatto con la fanciulla era stato

bruscamente interrotto ed egli si tormentava nello struggimento e nella disperazione. Poi, un giorno,

sentì dire che nella casa in cui serviva la sua amata una ragazza era morta ed era stata seppellita in

tutta fretta. Sospettando il peggio, Liang Hsù fece qualche indagine e venne a sapere che la

scomparsa era proprio la fanciulla del suo cuore; ma non riuscì a scoprire la causa della sua morte.

Così grande fu il suo dolore, che quasi perse la voce a furia di piangere.

Ciò che Liang Hsù non poteva sapere, era che la fanciulla aveva letto la sua lettera e

vergognandosi di non saper scrivere si era tolta un orecchino e lo aveva dato al pappagallo affinché

lo portasse al suo fidanzato; e inoltre gli dicesse dove si trovava la casa dei suoi genitori, e lo

pregasse di andare da loro portando un dono in denaro; così i genitori avrebbero potuto riscattarla

dalla servitù e lei avrebbe potuto sposare Liang Hsù.

L‘uccello prese l‘orecchino col becco, si librò in aria e volò via. Ma aveva percorso appena metà

del tragitto, quando un ragazzaccio violento gli lanciò una pietra e lo colpì alla testa. Il pappagallo

parlante precipitò al suolo senza vita.

Poco dopo, la sciagura colpì anche la fanciulla.

In principio il padrone l‘aveva favorita a causa della sua bellezza e tutti si aspettavano di vederle

prender posto quanto prima fra le sue concubine. Ma lei si ribellava a questa idea, e se ne era

lamentata alle spalle del suo signore. Quando poi, dopo la fuga del pappagallo, aveva deviato i

rimproveri sulle altre serve, queste, pur avendo evitato la frusta, cominciarono a guardarla di

traverso. Temendo che la fanciulla, se fosse diventata la concubina favorita del padrone, potesse

costituire per loro una fonte di guai, decisero di attaccarla tutte insieme. Poiché l‘avevano sentita, di

notte, parlare al pappagallo in camera sua, sparsero la calunnia che avesse una tresca con qualcuno.

La maldicenza arrivò ben presto all‘orecchio del padrone, che cominciò a nutrire una profonda

gelosia. Egli perquisì la camera della fanciulla e trovò la lettera d‘amore di Liang Hsù. Pazzo di

collera, fece interrogare la serva sotto tortura; ma poiché la storia del pappagallo suonava piuttosto

assurda, la poveretta non poté fornire un racconto convincente; così fu battuta finché il suo corpo

non fu tutto una contusione e il respiro non le venne a mancare quasi del tutto. Benché non fosse

ancora morta, il padrone la fece mettere in una bara e ordinò che fosse subito seppellita in qualche

deserta plaga tra i monti.

Liang Hsù, dopo aver appreso la morte della fanciulla, custodì gelosamente la memoria del suo

gioiello sepolto. Egli sedeva al suo scrittoio, ferito nello spirito, e di quando in quando si assopiva.

Improvvisamente, un giorno, una donna entrò nel suo sogno. Vestita di piume, ella avanzò con

passo danzante finché non fu davanti a lui, quindi riunì i risvolti del suo abito nel saluto rituale che

la tradizione imponeva alle donne.

―Io sono il pappagallo‖ ella disse ―e la mia sorella maggiore, l‘amata del tuo cuore, è un

pappagallo anche lei. Grazie alla sua virtuosa condotta nella nostra vita precedente è stata

trasformata in essere umano e un caso fortunato ci ha riunite. Ma ero molto triste al pensiero che

potesse essere umiliata da un‘unione indegna; così, cercai rispettosamente un‘occasione per

presentarla a te. Chi avrebbe mai pensato che sarei morta prima di poter compiere la mia missione?

Ora dovrò lasciare che la virtù di mia sorella sia infangata, per un‘ingiustizia che dovette subire fino

alla morte. Che pena, tutto ciò! Eppure una piccola parte della sua forza vitale sussiste ancora,

benché nessuno, eccetto te, possa recarle aiuto.‖

Nel sogno, Liang Hsù fu sopraffatto dalla gioia e si alzò in piedi per interrogare la visione. Ella

levò il dito indice e disse: ―Cento passi oltre la città… la tomba della bella fanciulla non è

lontana…‖ Poi cadde a terra, si trasformò in una gru e volò verso il cielo.

Liang Hsù si svegliò di botto. Subito ordinò il suo cavallo e cavalcò fin oltre le mura della città.

Egli sapeva di un piccolo villaggio, il cui nome suonava ―cento passi‖, l‘indizio avuto in sogno. Là

egli trovò il luogo della sepoltura, ma non osò aprirla subito. Cercò una stanza nel villaggio e

quando venne la notte pagò il servo perché lo accompagnasse in quel luogo pauroso e lo aiutasse ad

aprire la tomba. La fossa non era molto profonda e quando raggiunsero la bara parve a Liang Hsù di

udire un respiro. Allora strappò via il coperchio e la fanciulla ritornò in vita.

Delirante di gioia, Liang Hsù raggiunse un vicino convento buddista e bussò umilmente al

portone. Raccontò per bene il motivo per cui era venuto e le monache, sempre liete di poter

compiere un atto caritatevole, acconsentirono ad aiutarlo a sollevare la fanciulla dalla fossa. Liang

Hsù la portò sulle spalle fino al convento, e la lasciò con le monache. Poi, dopo aver provveduto

alle spese, tornò a casa.

Passò più di un mese prima che la fanciulla recuperasse le forze. Allora Liang Hsù chiese a una

monaca del convento di fargli da sensale di matrimonio e di spiegare con molto vigore a sua madre

che il suo cuore apparteneva ormai a una ragazza di famiglia povera.

La madre di Hsù andò a vedere la ragazza, che ricordò di aver già visto una volta, e ascoltò con

simpatia la sua lacrimevole storia; e poiché aveva sempre avuto molto caro suo figlio, non volle

contrastarne i desideri. Ella tolse la sua fidanzata dal convento, la portò a casa con sé, quindi ruppe

ogni relazione con la famiglia presso la quale aveva servito affinché la sua nuova residenza potesse

restare segreta. E Liang Hsù ricordò sempre la gentilezza del pappagallo parlante; la ricordò così

bene, che ogniqualvolta incontrava qualcuno che aveva catturato un pappagallo si affrettava a

comprarlo e gli rendeva la libertà.

IL PRINCIPE DEL MARE P'u Sung-ling

Nell'isola delle rovine, nello Shantung, fiori d‘ogni colore sbocciano tutto l‘anno. Nessuno è mai

vissuto sull‘isola e anche i visitatori sono molto rari.

Un giovane di nome Chang, amante di tutto ciò che era strano e singolare, avendo udito vantare

le meraviglie dell‘isola preparò vino e cibo e vi si recò con una barca a remi.

Arrivò che i fiori erano al colmo del loro splendore ed esalavano profumi percettibili nel raggio

di un miglio. Vi erano anche alberi, dai tronchi larghi una dozzina di spanne. Il giovane era così

ammaliato che non aveva alcuna voglia di andarsene. Aprì la bottiglia del vino e se ne versò un

bicchiere, rimpiangendo soltanto che non vi fosse nessuno a fargli compagnia.

D‘un tratto, da un folto di fiori apparve una bella fanciulla vestita di un abito rosso abbagliante.

Era diversa da ogni altra sulla quale il giovane avesse mai posato lo sguardo. Ella gli sorrise e disse:

―Credevo di essere sola nel mio entusiasmo per questo luogo. Mai avrei immaginato di trovar qui

uno spirito fratello.‖

Un po‘ spaventato, Chang le chiese chi fosse.

―Sono una cantatrice di Chiaochou‖ ella continuò. ―Sono venuta con il principe del mare, che si

è allontanato per esplorare le meraviglie dell‘isola. Io sono rimasta indietro per la mia difficoltà nel

camminare.‖1

Chang, felice che una così bella fanciulla fosse venuta a interrompere la sua solitudine, la invitò

a sedersi e a bere con lui. La fanciulla parlava in modo così cordiale e dolce che ne fu commosso. Si

sentiva fortemente attratto da lei; temeva, però, che il principe del mare potesse tornare e impedirgli

di dar compimento ai propri desideri.

Mentre Chang così rifletteva, un vento impetuoso si levò e arruffò le chiome degli alberi, che con

grande stormire si curvarono sotto la sua violenza.

―Il principe del mare!‖ gridò la fanciulla.

Chang, stringendosi gli abiti addosso, spalancò gli occhi dallo stupore: la fanciulla era

scomparsa! Allora egli vide spuntare di tra gli alberi un gigantesco serpente, non meno grosso di un

grosso bambù. Nella speranza di non essere visto, il giovane si nascose dietro un albero; ma il

serpente strisciò più vicino e cominciò ad avvolgersi, spira dopo spira, attorno al tronco e al giovane

allo stesso tempo. Così imprigionato, Chang non poteva più muoversi. Il serpente drizzò la testa e

con la lingua diede una stoccata al naso di Chang. Subito il sangue ne sgorgò formando una pozza

sul terreno e il serpente chinò la testa per lambirlo. Chang pensò che la sua fine fosse ormai giunta.

Improvvisamente si ricordò di aver portato un sacchetto di veleno per le volpi appeso alla

cintura. A fatica riuscì a infilarvi due dita, ad allargare l‘apertura del sacchetto e a versarsi il veleno

sul palmo. Poi, girando opportunamente la testa, fece in modo che il sangue gli grondasse sulla

mano, che in pochi istanti ne fu colma. Il serpente bevve un poco del sangue avvelenato, dopodiché

svolse le sue spire; la sua coda sobbalzò con uno scoppio di tuono e colpì l‘albero spaccandolo in

due; poi il rettile stramazzò a terra e morì, simile ormai a una grossa trave.

Sulle prime Chang era così debole da non tenersi in piedi; ma nel giro di un‘ora o due recuperò

abbastanza forza da caricare il serpente sulla barca e remare verso casa. Dovette passare più di un

mese prima che si riprendesse del tutto dall‘aggressione della bella fanciulla, che era lo spirito di un

serpente.

LA RAGAZZA VESTITA DI VERDE P'u Sung-ling

Sung, uno studente di Yitu, nello Shantung, studiava presso il Tempio delle Dolci Sorgenti. Una

notte, mentre recitava ad alta voce la sua lezione con i libri aperti davanti, una ragazza apparve nel

riquadro della finestra.

―Come studia diligentemente, il giovane maestro‖ disse con ammirazione. E mentre Sung si

domandava come mai una simile fanciulla potesse abitare fra quelle alte montagne, lei si era già

introdotta nella stanza, tutta sorridente. ―Quanta serietà!‖ ripeté.

Sung si alzò, alquanto sorpreso. Ella era graziosa e delicata, indossava una blusa verde e una

lunga gonna. Pur intuendo che non poteva essere umana, Sung le chiese da quale città provenisse.

―Non ti accorgi che non ho alcuna intenzione di morderti? Perché m‘infastidisci con tutte queste

domande?‖ rispose la fanciulla.

Grandemente attratto, quella notte Sung divise il suo letto con lei. Quando si fu tolta la sua

impalpabile blusa, la sua vita apparve così sottile che si poteva racchiuderla tra le mani. Più tardi,

mentre suonava l‘ultimo tamburo della notte, la fanciulla volò via e scomparve.

Tornò ogni sera, dopo quella prima. Una volta, mentre bevevano insieme del vino, una frase di

lei rivelò le sue cognizioni di musica.

―La tua voce è così ammaliante!‖ disse Sung. ―Se tu componessi una canzone, il mio cuore si

scioglierebbe.‖

―Appunto per questo non devo cantare‖ disse la fanciulla. E poiché egli la pregava, spiegò: ―La

tua umile ancella non ti negherebbe il suo canto; ma se poi qualcuno sentisse?… Tuttavia, se insisti,

non mi resta che esibire le mie povere doti: sarà un segno sussurrato del mio amore.‖ Intonò il

canto, e mentre cantava, batteva leggermente il tempo sul giaciglio con il minuscolo piede.

L’uccello da preda non involerà

il mio canto di mezzanotte.

La fredda rugiada non mi tratterrà

dal tener compagnia al mio signore.

Il suo canto era un dolce mormorio, le parole si distinguevano appena. Ma per l‘attento

ascoltatore, il movimento della melodia era così flessuoso e ardente che gli turbava il cuore mentre

gli sfiorava l‘orecchio.

Quando il canto fu concluso, la fanciulla aprì la porta e spiò fuori cautamente.

―Devo accertarmi che non ci sia nessuno‖ disse. E prima di rientrare, esplorò torno torno alla

camera di Sung.

―Perché sei tanto inquieta?‖ chiese il giovane.

―C‘è un proverbio: ‗Il fantasma che va a rubare nel mondo, ha paura di tutti gli uomini‘. Mi si

addice perfettamente.‖ Poi la fanciulla si coricò, ma era tuttora inquieta. ―Forse la fine del nostro

amore è vicina‖ disse.

Sung la supplicò di spiegarsi.

―Ho il cuore in tumulto‖ disse la fanciulla. ―Presagisco un pericolo. La mia vita finirà.‖

Sung tentò di tranquillizzarla.

―Questi palpiti del cuore sono normali‖, disse. ―Non arrivare a conclusioni affrettate.‖ La

fanciulla parve un poco sollevata. Si abbracciarono.

Quando l‘orologio ad acqua si fu prosciugato e venne il mattino la ragazza indossò i suoi abiti e

sgusciò dal letto. Andò per aprire la porta, ma invece si mise a camminare avanti e indietro.

Finalmente tornò da Sung.

―Non so perché,‖ disse ―ma il mio cuore è pieno di paura. Ti prego, accompagnami fuori.‖

Il giovane si alzò e la scortò.

―Non perdermi d‘occhio‖ disse la fanciulla. ―Tornerai indietro quando sarò di là dal muro.‖

Sung annuì. Restò a guardarla finché non ebbe svoltato l‘angolo del corridoio, poi non poté più

vederla.

Stava già per tornarsene a letto quando gli giunse un grido disperato. Subito corse fuori verso

quel grido, ma non v‘era più alcuna traccia della fanciulla. Si udiva soltanto un lieve suono sotto il

cornicione. Guardando con attenzione, Sung vide un ragno che teneva abbrancato qualcosa; e

questo qualcosa emetteva un suono come di pianto. Sung uccise il ragno, ne prese il prigioniero e lo

liberò dei filamenti che lo avvolgevano. Era una cetonia verde, quasi in fin di vita. Il giovane la

portò nella sua stanza e la depose sullo scrittoio, dove riposò a lungo. Quando fu nuovamente in

grado di camminare, la cetonia si arrampicò lentamente sul calamaio e si tuffò nell‘inchiostro; poi

strisciò fuori, ridiscese e cominciò a camminare avanti e indietro finché non ebbe tracciato sul piano

dello scrittoio la parola ―grazie‖. A quel punto la cetonia mosse le alucce e con un ultimo sforzo

volò fuori dalla finestra, mettendo fine per sempre al loro amore.

SOGNI DI FARFALLE Chuang Tzu

Disse Chuang Tzu: ―Una volta, tanto tempo fa, sognai di essere una farfalla; fluttuavo nell‘aria

come un petalo, felice di fare ciò che volevo, non più consapevole di me stesso. Ma ben presto mi

svegliai, e allora mi palpai freneticamente: ero proprio Chuang Tzu! Mi domando: fu Chuang Tzu a

sognare di essere una farfalla, o fu la farfalla a sognare di essere Chuang Tzu? Naturalmente, se

considerate Chuang Tzu e la farfalla, c‘è differenza, fra di loro. Ma quella differenza non è dovuta

ad altro che al loro mutare di forma.‖

LI CHING E IL DIO DELLA PIOGGIA Li Fu-yen

Quando il grande eroe militare Li Ching era ancora un uomo umile e oscuro, soleva cacciare con

arco e frecce sui monti Huo, alloggiando e pranzando in un piccolo villaggio. Il decano di quel

villaggio lo considerava un uomo eccezionale e lo trattava con crescente generosità, via via che gli

armi passavano quando il grande eroe militare Li Ching era ancora un uomo umile e oscuro, soleva

cacciare con arco e frecce sui monti Huo, alloggiando e pranzando in un piccolo villaggio. Il decano

di quel villaggio lo considerava un uomo eccezionale e lo trattava con crescente generosità, via via

che gli armi passavano.

Una volta Li Ching s'imbatté in un branco di cervi e lo inseguì. Il crepuscolo era vicino. Egli

pensò d‘interrompere la caccia, ma l‘eccitazione lo trascinò, e ben presto, nell‘oscurità della notte,

smarrì il cammino. Dov‘era mai la strada di casa, in quel buio sconcertante? Preoccupato affrettò il

passo, mentre la sua ansia cresceva. Poi, all‘orizzonte vide uno brillio di lanterne e si diresse veloce

verso di esse.

Giunse così a un grande castello, le cui porte di color rosso vermiglio denotavano ricchezze e

rango. Le mura erano eccezionalmente alte. Quando il cacciatore ebbe bussato piuttosto a lungo,

venne fuori un servo. Li Ching gli spiegò che aveva perduto la strada e chiese alloggio per la notte.

―Non è possibile che pernottiate qui‖ gli fu detto. ―Il giovane padrone è partito e in casa non c‘è

che la signora.‖

―Almeno, riferite la mia richiesta‖ insisté Li Ching.

L‘uomo rientrò dentro e poi tornò.

―Sulle prime la signora pensò di rifiutare,‖ disse ―ma considerando l‘insolita oscurità della notte,

e il fatto che vi siete perduto, si è sentita in obbligo di ospitarvi.‖

Così, Li Ching fu invitato a entrare nel salone. Quasi subito venne una fanciulla ad annunziare la

signora, e costei si presentò, vestita di una gonna nera e di una giacchetta bianca. Aveva superato da

poco i cinquantanni e c‘era nel suo aspetto un‘aria di naturale eleganza. Per Li Ching fu come

entrare nella casa di un alto esponente della società; quindi si fece avanti con reverenza e s‘inchinò.

Rispondendo all‘inchino, la signora disse: ―Poiché nessuno dei miei figli è qui, non è conveniente

che restiate. Tuttavia, la notte è oscura e la via di casa è incerta; se vi respingessi, dove potrei

mandarvi? Inoltre, la nostra è una semplice dimora fra montagne selvagge e i miei figli vanno e

vengono continuamente. Talvolta arrivano nel cuore della notte e fanno gran rumore; spero che non

ve ne allarmerete.‖

―Per nulla affatto‖ replicò Li Ching. La signora ordinò che il pranzo fosse servito. Il cibo era

fresco ed eccellente, e benché si fosse sulle montagne, stranamente vi era abbondanza di pesce.

Dopo pranzo, la signora si trasferì in altra parte della casa; due fanciulle portarono quanto occorreva

per preparare un letto e linde coperte davvero lussuose. Poi chiusero la porta esterna, la sprangarono

e andarono via.

Li Ching si domandò che cosa mai potesse accadere, di notte, per far chiasso su quella montagna

selvaggia. Troppo spaventato per potersi addormentare, rimase seduto, eretto, con l‘orecchio teso.

La notte era quasi trascorsa per metà quando udì bussare ripetutamente e con impazienza al portone;

poi udì un servo che accorreva, quindi la voce del visitatore: ―Il cielo comanda a vostro figlio di far

discendere la pioggia per un raggio di due miglia attorno a questa montagna. Una robusta pioggia

che duri fino all‘alba sarà sufficiente. Non indugiate e non provocate danni.‖

Il seivo portò l‘ordine scritto alla signora, nell‘interno della casa, e Li Ching udì la sua risposta:

―I miei figli non sono ancora qui e l‘ordine per la pioggia è venuto! Non possiamo rifiutarci; e se

indugeremo, saremo puniti. Ma è troppo tardi per mandare qualcuno dai ragazzi, né possiamo

aspettarci che i servi se la sbrighino da soli. Che cosa dobbiamo fare?‖

―L‘ospite che è di là nella sala sembra un uomo fuori del comune‖ disse una delle fanciulle.

―Perché non ricorrere a lui?‖

Grata per il suggerimento, la signora bussò alla porta di Li Ching.

―Siete ancora sveglio?‖ chiese. ―Siate così gentile da venir fuori un momento.‖

Li Ching si affrettò a obbedire e la signora gli disse: ―Questa non è una dimora umana. È il

palazzo del drago che ha il compito di far cadere la pioggia.‖

Li Ching provò gran meraviglia e reverenza, poiché il drago, che abitava le profondità marine e

poteva levarsi fino alle nuvole, governava il ciclo delle piogge sulla terra.

―Il maggiore dei miei figli‖ continuò la signora ―è sul Mare Orientale della Cina per assistere a

un matrimonio, e il mio minore ha accompagnato sua sorella a una festa. Un momento fa abbiamo

ricevuto dal cielo l‘ordine di far cadere la pioggia, ma non c‘è tempo per avvertire i ragazzi, visto

che sono lontani migliaia di leghe! E non è facile trovare qualcuno che li sostituisca. Debbo quindi

arrischiarmi a disturbare voi: vi sarebbe possibile aiutarci in questo frangente?‖

―Io sono un comune mortale, assolutamente incapace di cavalcare le nubi‖ rispose Li Ching.

―Come potrei fare a mandar giù la pioggia? Ma se esiste qualche arte magica che potete insegnarmi,

sono a vostra disposizione.‖

―Seguite semplicemente le mie direttive‖ disse la signora ―e non ci sarà niente che non possiate

fare.‖ Ciò detto ordinò il cavallo — un destriero color bianco avorio bardato di nero — e comandò

ai servi di legare alla sella il contenitore della pioggia, che era un piccolo vaso. ―Non cercate di

guidare il cavallo con le redini,‖ raccomandò la signora a Li Ching ―ma limitatevi ad assecondare i

suoi movimenti. Quando il cavallo scalpiterà, prenderete una goccia d‘acqua dal vaso e la farete

cadere sulla sua criniera. State ben attento, però, a non usare mai più di una goccia alla volta.‖

Li Ching montò a cavallo. Il destriero balzò avanti e si levò al galoppo sempre più in alto. Li

Ching era stupito della sua velocità e della sua stabilità: non si accorse nemmeno di essere arrivato

sopra le nuvole. Il vento gli sfrecciava ai lati, il tuono rimbombava sotto i suoi piedi. Poi il cavallo

scalpitò e il cavaliere lasciò cadere una goccia d‘acqua sulla sua criniera. Il fulmine lampeggiò e le

nuvole si aprirono. Sotto di sé, Li Ching poteva vedere il piccolo villaggio nel quale tante volte

aveva pernottato. ―Ho dato tanto disturbo a quella gente‖ pensò ―ed essi mi hanno sempre trattato

con tanta gentilezza. Come posso ripagarli? Ultimamente hanno avuto un così lungo periodo di

siccità, che il loro raccolto è quasi disseccato. Dal momento che posso disporre della pioggia,

perché dovrei lesinare con loro?‖ Detto fatto, Li Ching mise venti gocce d‘acqua sulla criniera del

cavallo. Poco dopo la pioggia si arrestò e il cavallo tornò indietro verso il castello.

Là giunto, Li Ching trovò la signora in lacrime sulla soglia della sala.

―Oh, che grande errore!‖ singhiozzò la dama. ―Prometteste di non usare più di una goccia:

perché ne avete usate venti a vostro capriccio? Una goccia lassù in cielo vuol dire un palmo di

pioggia sulla terra! Da mezzanotte, sul villaggio sono caduti venti palmi d‘acqua: nessuno si è

salvato! Io ho ricevuto un duro rimprovero e ottanta colpi di frusta. Guardate la mia schiena: è tutta

rigata di sangue. E anche i miei figli sono sotto accusa. Povera me, che cosa devo fare?‖

Li Ching restò senza parole per la vergogna e lo spavento.

―Buon signore,‖ riprese la dama ―voi non siete che un uomo venuto dal mondo dei mortali, non

sapete nulla sui movimenti delle nubi e della pioggia. In verità, non posso biasimarvi. Ma se viene il

re drago, allora sì che avrete motivo di tremare! Perciò andatevene in fretta, ma lasciate che vi

ricompensi per la pena che vi siete dato. Qui sulle montagne abbiamo ben poco da offrire; forse

vorrete accettare in dono due servi… o soltanto uno, se così preferite.‖ Subito chiamò i due servi

perché si presentassero.

Uno di essi venne dal corridoio di levante. La sua faccia e i suoi modi erano gentili e cordiali ed

egli appariva nell‘insieme molto simpatico. L‘altro servo venne dal corridoio di ponente. Astioso e

iracondo sembrava dominare a stento la sua rabbia.

―Noi cacciatori siamo combattivi e fieri in tutto ciò che facciamo‖ disse Li Ching. ―Se prendessi

il servo gentile, non sarei forse giudicato un codardo? E tuttavia, non sarò così sfacciato da

prenderli entrambi. Poiché mi avete offerto la scelta, prenderò il servo collerico.‖

―Se è così che volete, sia‖ disse la signora con un vago sorriso. Salutò Li Ching, e si separarono.

Il servo lasciò la casa con Li Ching. Questi, fatti pochi passi oltre il portone, si voltò indietro e

vide che il castello era scomparso. Si voltò verso il servo: era svanito anche lui. E così, a Li Ching

non rimase che ritrovare da solo la strada di casa. Nella chiara luce del giorno, egli guardò in

direzione del piccolo villaggio e vide una distesa d‘acqua fin dove il suo sguardo poteva giungere.

Non emergeva che la sommità di alcuni alberi. Non v‘era traccia di esseri umani.

Si dice che nelle terre a est del Passo T‘ung si producano primi ministri; ad ovest del Passo,

generali. Li Ching finì col domare rivolte in virtù del suo talento militare, e le sue vittorie rimasero

insuperate; ma non ottenne mai la carica di primo ministro. Che fosse perché non prese con sé

anche il servo gentile, venuto dal corridoio di levante?

LA LEZIONE DEL MAGO Li Fu-yen

T‘u tzu-ch‘un visse nell‘epoca in cui fu fondata la grande dinastia Sui. In gioventù fu uno

scapestrato, che non si preoccupò mai di salvaguardare le proprietà di famiglia; con la sua

indolenza, la sua autoindulgenza e il suo debole per il vino e le cattive compagnie ben presto

scialacquò tutte le sue risorse. Amici e parenti ai quali si rivolse per aiuto gli rimproverarono con

disprezzo di essere stato un irresponsabile.

L‘inverno lo colse vestito di stracci, affamato e scalzo per le vie della capitale Ch‘angan.

Disorientato, senza un posto dove andare, si diresse verso la porta est del Quartiere Orientale. La

sua disgraziata condizione appariva fin troppo evidente dal modo in cui levava gli occhi al cielo e

gemeva.

―Signore, di che cosa vi lamentate?‖ Un vecchio appoggiato a un bastone si fermò davanti a lui.

Tzu-ch‘un gli raccontò la sua storia e gli riferì con indignazione quanto disprezzo e quanta

indifferenza gli avesse dimostrato la sua propria famiglia.

―Quante stringhe di monete occorrerebbero per darvi la tranquillità?‖ chiese il vecchio. A quei

tempi le monete si portavano infilate, mille per ogni stringa.

―Trenta o cinquantamila monete mi manterrebbero in vita‖ rispose Tzu-ch‘un. Era una grossa

somma.

―Non basteranno‖ disse il vecchio. ―Dite di nuovo.‖

―Allora, centomila‖ disse Tzu-ch‘un.

―Troppo poco.‖

―Un milione.‖

―Ancora troppo poco.‖

―Tre milioni!‖

―Questo potrebbe bastare‖ disse il vecchio, tirando fuori dalla manica una sola stringa di monete.

―Con queste, provvedetevi del necessario per questa sera. Domani a mezzogiorno verrò a cercarvi al

bazar persiano. Badate di non arrivare in ritardo.‖

All‘ora dell‘appuntamento Tzu-ch‘un andò al bazar persiano, dove il vecchio lo stava aspettando.

L‘uomo diede a Tzu-ch‘un tre milioni di monete poi se ne andò, senza rivelare la propria identità.

La ricchezza riaccese i desideri smodati di Tzu-ch‘un. Mai più, pensò, dovrò vivere come uno

sradicato, alla deriva. Comprò i cavalli più belli, si rivestì delle pellicce e delle sete più lini. Radunò

compagnie di bevitori, assunse musici, passò cantando e ballando per tutte le case di piacere della

città. Non si diede il più lontano pensiero di amministrare il suo denaro.

Al termine di un paio d‘anni, Tzu-ch‘un dovette sostituire i suoi bei vestiti e le sue costose

carrozze con altri più a buon mercato. Poi scambiò il suo ultimo cavallo con un somaro, poi diede

via anche il somaro e andò a piedi come prima. In un baleno, si ritrovò allo stesso punto in cui lo

aveva trovato il vecchio. Non sapendo più cosa fare, gemeva in angoscia presso le porte del

quartiere. Al suono della sua voce, il vecchio riapparve. Prese per mano Tzu-ch‘un e gli disse: ―Non

mi aspettavo di trovarti nuovamente in queste condizioni. Ma ti aiuterò a uscirne. Quante stringhe?‖

Tzu-ch‘un era troppo umiliato per replicare. Benché il vecchio lo sollecitasse a dargli una

risposta, il dissipatore potè soltanto ringraziarlo goffamente della sua premura.

―Domani a mezzogiorno vieni allo stesso posto dove c‘incontrammo l‘altra volta‖ disse il

vecchio.

Tzu-ch‘un mise da parte la vergogna e andò. Ebbe dieci milioni in monete.

Prima di accettare il denaro, Tzu-ch‘un decise che avrebbe pianificato la propria vita e i propri

mezzi così giudiziosamente, che i più famosi ricconi della storia sarebbero sembrati, al confronto,

degli sprovveduti. Ma una volta che ebbe in mano il denaro, i suoi buoni propositi si capovolsero.

La sua autoindulgenza non era meno forte di prima; e così, nel giro di pochi anni, si ritrovò più

povero che mai.

Per la terza volta incontrò il vecchio, al solito posto ormai familiare. Tzu-ch‘un non riuscì a

dominare il proprio imbarazzo; coprendosi il viso con le mani tentò di fuggire ma il vecchio afferrò

la coda del suo soprabito e lo fermò.

―Avrei dovuto sapere che te ne occorrevano di più‖ disse, porgendo a Tzu-ch‘un trenta milioni in

moneta. ―Ma se nemmeno questi basteranno a salvarti, non ci sarà più rimedio.‖

Tzu-ch‘un pensò: ―Quando mi misi sulla cattiva strada e spesi tutto quanto avevo, i miei parenti

m‘ignorarono completamente; questo vecchio, invece, mi ha rifornito per tre volte. Come posso

rendermi degno di tanta bontà?‖

E disse all‘uomo: ―Con questa somma posso mettere in ordine i miei conti, provvedere del

necessario vedove e orfani e restaurare la mia reputazione. Sono commosso dalla vostra profonda

bontà; una volta che avrò adempiuto al mio compito, vi renderò qualunque servigio vogliate.‖

―Tale è il desiderio del mio cuore‖ disse il vecchio. ―Quando sarete pronto, c‘incontreremo il

quindicesimo giorno del settimo mese al tempio di Lao Tzu che sorge fra gli alberi di ginepro.‖

Poiché la maggior parte delle vedove e degli orfani vivevano a sud del fiume Huai, Tzu-ch‘un

trasferì i suoi fondi nella città di Yangchou. Comperò più di millecinquecento acri di ottima terra,

fece costruire per sé una dimora in città e in più cento edifici sulla via principale, per alloggiarvi le

vedove e gli orfani della regione. Combinò matrimoni per le sue nipoti e i suoi nipoti, procurò un

posto nel tempio per tutti i defunti del suo clan, uguagliò in generosità chi era stato generoso con lui

e perdonò ogni offesa. Quando fu pronto, era giusto il tempo di andare in cerca del vecchio.

Tzu-ch‘un lo trovò che fischiettava all‘ombra dei ginepri. Insieme salirono al Picco del

Padiglione delle Nuvole, sul monte Hua, nell‘estremo occidente della Cina. Avevano percorso più di

dieci miglia, quando giunsero a una linda e austera dimora, diversa da ogni altra abitata da mortali,

sotto una grande arcata di nuvole. Fenici e gru si libravano nell‘aria. Al di sopra di esse sorgeva la

sala principale, entro la quale era una fornace da alchimista alta circa tre metri, che veniva usata per

preparare pozioni ed elisir. Fiamme di porpora guizzavano da essa, illuminando porta e finestre di

una luce infuocata. Attorno alla fornace stavano alcune fate vestite di un pallido color giada, mentre

un drago e una tigre bianca montavano la guardia davanti e dietro alla fornace.

Il sole cominciava a tramontare. Il vecchio, non più in vesti comuni, aveva ora l‘aspetto di un

mago taoista, in mantello rosso e cappello giallo. Con una mano reggeva una coppa di vino,

nell‘altra aveva tre pillole bianche, atte ad ampliare la percezione della mente. Offerse l‘una e le

altre a Tzu-ch‘un. Il giovane inghiottì le pillole; il mago distese una pelle di tigre a ridosso della

parete occidentale e vi fece sedere Tzu-ch‘un, rivolto verso oriente.

―Stai ben attento a non parlare, qualunque cosa accada,‖ lo ammonì ―sia che ti appaia uno spirito

venerando, o un fantasma perverso o un demone dell‘inferno o una belva feroce o l‘inferno stesso o

anche i tuoi più cari parenti sottoposti a mille torture, nulla di ciò che vedrai è reale. È di vitale

importanza che tu non parli né compia alcun movimento. Resta calmo e senza paura e non

succederà niente di male. Non dimenticare mai ciò che ti ho detto.‖ E con questo, il mago se ne

andò.

Tzu-ch‘un si guardò attorno. Non vide altro che una grande vasca di terracotta piena d‘acqua.

D‘improvviso, bandiere e stendardi, mille carri da guerra e diecimila cavalieri affollarono l‘altura e

la valle. Il fragore scosse i cieli e la terra, e apparve un guerriero che chiamavano ―il Generale‖. Era

alto tre metri e tanto lui quanto il suo cavallo portavano armature di metallo che mandavano

bagliori. La guardia del Generale – centinaia di uomini con le spade sguainate o gli archi tesi –

invase lo spazio di fronte alla sala principale.

―Che specie di uomo siete,‖ gridarono ―che osate restar seduto in presenza del Generale?‖ Da

destra e da sinistra, soppesando le lance, avanzarono e chiesero a Tzu-ch‘un di dichiarare la propria

identità. Ma Tzu-ch‘un si astenne fermamente dal rispondere. Infuriati, alcuni volevano colpirlo,

altri abbatterlo. Tzu-ch‘un non diede risposta e il Generale uscì in grandissima collera.

Poi vennero tigri feroci, serpenti velenosi, gatti selvatici, leoni ruggenti e scorpioni, e tutti

mossero verso di lui, bramosi di divorarlo. Alcune fiere gli balzarono addosso. Tzu-ch‘un rimase

immobile nello spirito e nel volto e ben presto l‘incubo svanì.

D‘un tratto scoppiò una tempesta, con violentissime raffiche e lampi che illuminavano a giorno

l‘oscurità. Mulinelli di fuoco vorticarono attorno e sopra di lui, fulmini carichi di elettricità caddero

ai suoi piedi e alle sue spalle. Tzu ch‘un non riusciva a tener gli occhi aperti. In pochi istanti l‘acqua

tutt‘intorno era già alta tre metri, e fra il rincorrersi delle folgori e il rimbombare dei tuoni parve che

nulla potesse ormai impedire che tutte le montagne della terra si spaccassero e tutti i fiumi

straripassero. Le onde raggiunsero la pelle di tigre sulla quale sedeva Tzu-ch‘un; ma egli continuò a

sedere, eretto, e non batté ciglio. Ben presto tutto svanì.

Il Generale tornò, questa volta precedendo un sergente dalla testa di bue e i suoi soldati infernali,

e una schiera di altri fantasmi dagli strani volti inquietanti. Essi collocarono un grosso calderone

d‘acqua bollente davanti a Tzu-ch‘un e lo circondarono con lance, spade e forconi.

―Dichiara la tua identità‖ gl‘ingiunsero ―e ti lasceremo libero immediatamente. In caso contrario,

guai a te! ti getteremo nel calderone.‖

Tzu-ch‘un non diede risposta. Allora i demoni introdussero sua moglie, scagliandola giù dai

gradini davanti a lui.

―Parla e la risparmieremo‖ dissero.

La frustarono a sangue, alcuni la colpirono, alcuni le tagliuzzarono le carni, alcuni la ustionarono

con acqua bollente, altri con il fuoco. Tra quei dolori insopportabili, la donna gridava forte: ―Non

sono che una povera donna semplice, indegna di un gentiluomo pari tuo, tuttavia la sorte ha fatto di

me tua moglie per dieci anni! Ora le loro eccellenze, questi fantasmi, mi hanno presa, e le mie

sofferenze sono più di quanto possa sopportare. Non ho mai sperato che tu potessi volgerti a me con

rispetto e premura, ma adesso basterà una tua sola parola per salvarmi la vita! Chi, se me la

negherai, potrà mai essere considerato più crudele di te?‖ Ella pianse, imprecò, inveì, ma Tzu-ch‘un

non le rivolse neppure uno sguardo.

―Credi forse che non la metteremo a morte?‖ disse il Generale. Ordinò che si portasse un grande

tagliere e i demoni cominciando a tagliare la donna un pezzo dopo l‘altro, cominciarono dai piedi.

La poveretta urlava da straziare; ma fino alla fine Tzu-ch‘un la ignorò totalmente.

―Questo scellerato è maestro di magia nera‖ disse il Generale. ―Non deve essere tollerato fra i

vivi.‖ E ordinò ai suoi uomini di tagliare la testa a Tzu-ch‘un.

Quando la testa di Tzu-ch‘un fu recisa, la sua anima fu condotta alla presenza del Re dei Morti.

―Non è forse costui l‘eretico del Padiglione di Nuvole? Gettatelo nell‘inferno!‖

Tzu-ch‘un patì tutti le torture infernali: il bronzo fuso, le mazze di ferro, il torchio, la macina, la

fossa di fuoco, il calderone bollente, la collina di coltelli, la foresta di spade. Ma egli tenne ferme

nella sua mente le parole del mago e sopportò il dolore senza che un solo gemito sfuggisse dalle sue

labbra. Dopodiché, i torturatori andarono a riferire al re che il repertorio delle torture era esaurito.

―Un così viscido furfante non merita di rinascere maschio‖ decretò il Re dei Morti. ―Che rinasca

femmina nella casa di Wang-Ch‘iian, magistrato supplente nella contea di Shanfu, nel Sungchou.‖

Dopo la sua nascita, la bimba soffrì di molti disturbi. A stento passava un giorno senza che le

venissero inflitte agopunture e cauterizzazioni o le fossero somministrate amare medicine; una volta

cadde nel fuoco e non si riuscì ad alleviarle il dolore; tuttavia, non le sfuggì mai un lamento.

Crescendo ella divenne una bellezza eccezionale, ma poiché nessuno aveva mai udito la sua voce, la

famiglia la considerava muta. La bimba non rispondeva mai ai familiari che la dileggiavano né agli

innumerevoli piccoli insulti che riceveva.

In quella stessa località viveva un diplomato di alto grado, un certo Lu Kuei, che fu ammaliato

dai racconti sulla sua bellezza e incaricò una sensale di chiedere la sua mano. La famiglia declinò

l‘offerta, per il motivo che la ragazza era muta; ma Lu Kuei ragionò così: ―Se sarà meritevole come

moglie, che bisogno c‘è che parli? Anzi: tacendo, scoraggerà le altre donne dal parlare troppo.‖ E

così ottenne il consenso alle nozze e accolse la nuova moglie con una grande cerimonia.

Per parecchi anni la giovane coppia condivise un tenero e sempre più profondo amore. Il figlio

che ebbero, già a due anni dimostrava un‘intelligenza eccezionale. Lu Kuei se lo stringeva al petto e

ne parlava a sua moglie, ma sua moglie non rispondeva mai. Nonostante gl‘innumerevoli trucchi

che egli escogitò per indurla a parlare, la donna restava silenziosa. Infine Lu Kuei le disse, in gran

collera: ―Un tempo, quando la moglie del signor Chia teneva il marito in tal disprezzo da non

dedicargli mai neppure un sorriso, il signor Chia riuscì a farle rompere il voto del silenzio

abbattendo un fagiano. Io non sono brutto come il signor Chia e ho più cultura che abilità nel tiro

con l‘arco; ma anche tu non mi parli mai, e se un uomo è disprezzato da sua moglie, che cosa gliene

importa di avere un figlio?‖

Detto questo, Lu Kuei afferrò il bambino per i piedi e gli fracassò la testa contro una roccia. La

testa del bimbo si spaccò immediatamente e il sangue sprizzò d‘intorno. Tzu-ch‘un sentì nel cuore

una così lancinante fitta d‘amore e di dolore, che il voto del silenzio svanì dalla sua mente e un

grido le sfuggì dalle labbra. E come ebbe gridato, si ritrovò seduto nello stesso luogo di tanto tempo

prima, e di nuovo il mago era in piedi davanti a lui. L‘ultimo quarto della notte era già cominciato.

Tzu-ch‘un vide fiamme purpuree scaturire dal tetto e balzare verso il cielo; poi il fuoco avanzò fino

a loro e bruciò interamente l‘edificio.

―Disgraziato discepolo, quale torto mi hai fatto!‖ disse il mago, sollevando Tzu-ch‘un per i

capelli e gettandolo nella cisterna dell‘acqua. Subito le fiamme si estinsero e il mago disse: ―La tua

mente si è liberata della gioia, della collera, della sofferenza, della paura, dell‘odio e del desiderio:

tutto ciò era dimenticato! Ma restava ancora l‘amore. Se tu non avessi gridato, la mia medicina

sarebbe stata efficace e ti avrebbe sollevato dalla condizione umana per farti diventare immortale.

Ahimè, gli uomini capaci di tanto sono troppo rari! Ora dovrò preparare di nuovo quel farmaco, e tu

ritroverai il tuo posto nel mondo degli uomini.‖ Il mago accennò in direzione della sua casa lontana.

Tzu-ch‘un salì al padiglione e vide la fornace in rovina. Dentro c‘era una sbarra di ferro grossa

come il braccio di un uomo. Denudatosi fino alla cintura, il mago la spezzettò con un coltello, poi

distrusse quanto restava.

Tornato a casa, Tzu-ch‘un ebbe vergogna di aver dimenticato il voto del silenzio. Per punirsi di

quell‘errore ripercorse a piedi la lunga strada fino al Picco del Padiglione di Nuvole, ma non vi

trovò alcuna traccia umana. Allora, sospirando pietosamente, se ne tornò a casa.

IL MONACO DELLA MONTAGNA P‘u Sung-ling

Il giovane Wang, settimo figlio di un‘eminente famiglia, viveva in città, fra mille agiatezze. Fin

dall‘infanzia era stato affascinato dai misteri dell‘occulto e udendo che sulla Montagna del Duro

Lavoro si potevano trovare degli immortali, viaggiò fin lassù, con la sacca dei suoi libri sulle spalle.

Procedette fino alla vetta di un‘altura, dove sorgeva isolato un tempio taoista e lì, seduto su una

stuoia, vide un monaco assorto in meditazione. Lunghi capelli bianchi gli fluivano sul collo, ma

appariva agile e vivace, sia di corpo sia di mente. Wang presentò i suoi omaggi e parlò con il

monaco, le cui spiegazioni circa le potenze dell‘universo gli parvero meravigliosamente misteriose.

Wang chiese al monaco di accettarlo come discepolo.

―Temo‖ rispose il monaco ―che, viziato come sei, non potrai sopportare la vita dura.‖

―Sono sicuro che potrò‖ disse Wang. Con l‘avvicinarsi del crepuscolo, i molti discepoli del

monaco si radunarono. Wang presentò i rispetti anche a loro e rimase al tempio. Alle prime luci

dell‘alba il monaco mandò a chiamare Wang, gli diede una scure e gli disse di unirsi agli altri

discepoli che andavano a cercar legna per il fuoco. Wang seguì le sue istruzioni con molto impegno.

Passò più di un mese. Le mani e i piedi di Wang si ricoprirono di callosità; e come il monaco

aveva predetto, il giovane sentì di non poter sopportare oltre la vita dura e decise dentro di sé di

tornarsene a casa.

Una sera, rientrando al tempio, vide due uomini che pranzavano con il maestro. Il sole era già

tramontato, ma le lanterne non erano state accese. Il maestro ritagliò in un foglio di carta un disco

delle dimensioni di uno specchio e lo incollò sulla parete. Subito il chiaro di luna invase la stanza,

tanto che si poteva distinguere ogni più piccola cosa.

I discepoli trottavano avanti e indietro, eseguendo gli ordini del maestro. Uno degli ospiti disse:

―Il piacere di questa notte meravigliosa dovrebbe essere condiviso da tutti.‖ Prese dalla tavola una

brocca di vino, ne versò nelle ciotole dei discepoli e comandò loro di berlo tutto.

―Come può una brocca di vino servire per tutti noi, che siamo sette o otto?‖ chiese Wang, stupito.

Ma i discepoli si alzarono più volte per riempire le loro ciotole e il vino della brocca non diminuiva.

Di lì a poco, uno degli ospiti disse: ―Il dono di questo chiaro di luna ci onora; ma che vergogna

bere da soli! Dovremmo invitare a unirsi a noi Ch‘ang O, la fata della luna.‖ Così dicendo lanciò

uno dei suoi bastoncini di avorio dritto sulla luna e una bellissima donna si materializzò da un

raggio lunare. Alta meno di un piede al suo apparire, toccando terra ella crebbe fino a raggiungere

dimensioni umane. La sua vita era sottile e il suo collo tornito. Con eterea grazia, ella eseguì la

Danza della veste d‘arcobaleno; poi cantò ―Dovrà la dama della luna tornare al Freddo Palazzo

solitario?‖ La sua voce era argentina e risonante, limpida come la melodia del flauto. Quando ebbe

finito il suo canto, si alzò con un volteggio e andò ad adagiarsi sulla tavola: sotto i loro occhi stupiti

tornò a trasformarsi in un bastoncino di avorio.

I tre uomini risero. Uno disse: ―Non ho mai trascorso una serata più divertente, ma il vino

comincia a essere troppo, per me. Non potremmo fare l‘ultimo giro nel palazzo stesso della luna?‖

E gradualmente i tre uomini, restando seduti a tavola, entrarono nella luna. La schiera dei discepoli

li vide sedere e bere all‘interno della sfera risplendente. Si distinguevano perfino i peli delle loro

barbe e delle loro sopracciglia, come fossero riflessi in uno specchio. Di lì a poco, la luna cominciò

a oscurarsi; e quando i discepoli portarono le candele accese trovarono il monaco seduto tutto solo;

gli ospiti erano scomparsi e resti di cibi prelibati erano ancora sulla tavola. La luna sulla parete altro

non era più che un rotondo pezzo di carta.

―C‘era da bere a sufficienza?‖ chiese il monaco ai discepoli.

―A sufficienza‖ risposero.

―Allora presto, andate a letto, che non dovete mancare la raccolta mattutina di legna per il fuoco‖

disse il monaco. I discepoli annuirono e si ritirarono. Wang era così incantato dagli avvenimenti

della serata, che la sua voglia di tornare a casa scomparve.

Dopo un altro mese, tuttavia, il giovane constatò di nuovo che la durezza di quella vita era più di

quanto potesse sopportare. E il maestro non gli aveva ancora insegnato a fare un solo trucco

magico! Sopraffatto dall‘impazienza, Wang andò dal monaco e gli disse: ―Il vostro umile discepolo

ha percorso centinaia di leghe per ricevere l‘insegnamento di un maestro immortale. Anche se non

sono in grado di apprendere il segreto della vita eterna, non ci sarebbe un insegnamento meno

importante che potreste concedermi come premio di consolazione? Durante i mesi che ho trascorso

qui, non ho fatto altro che alzarmi all‘alba, raccogliere legna e rincasare tardi. A casa non dovetti

mai superare simili prove.‖

―Te lo avevo detto che non avresti resistito.‖ Il monaco sorrise. ―Ora è dimostrato che avevo

ragione. Domani sera sarai rimandato a casa.‖

―Il vostro discepolo ha faticato molti giorni‖ insiste Wang. ―Maestro, non potreste farmi la grazia

di un piccolo trucco, così che la mia visita non resti del tutto senza ricompensa?‖

―Quale tecnica vorresti imparare?‖ chiese il monaco.

―Ho osservato spesso‖ disse Wang ―che dovunque voi camminiate, i muri non vi oppongono

ostacolo. Sarei felice di imparare questa tecnica.‖

Il maestro, sorridendo, concesse l‘insegnamento richiesto. Egli disse a Wang il segreto e gli

ordinò di recitare lui stesso la formula magica. ―Ora, passa attraverso il muro!‖ ordinò poi il

monaco.

Wang si pose davanti alla parete, ma aveva paura di tentare.

―Prova ad attraversarla‖ insisté il monaco.

Wang tentò di camminarvi attraverso con noncuranza, ma il muro rimase solido e lo bloccò.

―Abbassa la testa e balza avanti‖ disse il monaco. ―Smetti di tentennare!‖

Wang fece un passo indietro, quindi si gettò avanti a testa bassa… e trovò il muro

smaterializzato, come non ci fosse più. Quando si voltò indietro, era ormai dall‘altra parte. Al colmo

della gioia, rientrò e ringraziò il maestro.

―Quando non sarai più qui, mantieniti puro: altrimenti la tecnica non funzionerà‖ lo avvertì il

monaco. Quindi fornì a Wang il denaro occorrente per le spese di viaggio e lo rimandò a casa.

Una volta tornato in città, Wang si gonfiò di boria come un pavone, vantandosi di essere stato in

gran confidenza con un immortale e affermando, con aria di superiorità, che i muri, per lui, non

rappresentavano alcun ostacolo. Sua moglie non riusciva a crederci, tuttavia; e così Wang decise di

sbalordirla con il suo trucco.

Si mise a breve distanza dalla parete, senza esitare si lanciò avanti, batté violentemente la testa

contro il muro e crollò a terra.

Sua moglie lo aiutò a rimettersi in piedi, e quando vide spuntare sulla sua fronte un bernoccolo

grosso come un uovo non poté fare a meno di prenderlo in giro. Umiliato e indignato, Wang

maledisse il vecchio monaco, che aveva dimostrato di non avere alcuna coscienza.

IL LADRO DI PESCHE Fu Sung-ling

Una volta, quando ero giovane, mi recai nel capoluogo per gli esami di stato. Per l‘appunto era il

tempo del festival con il quale si celebrava l‘inizio della primavera. Il giorno precedente il festival,

come d‘uso, tutti i mercanti e i commercianti sfilarono in parata davanti alla residenza del

governatore/in una grande processione con suonatori di tamburi e di cornamuse e carri decorati.

Io andai con un amico a vedere la parata, che era nota come ―Presentazione della Primavera‖. La

grande massa dei forestieri e degli spettatori sembrava una muraglia vivente. Quattro dignitari

sedevano in un padiglione tutti vestiti di rosso, il colore della celebrazione, rivolti l‘uno verso l‘altro

come l‘Est e l‘Ovest (io ero troppo giovane per riconoscere il loro rango). Il tumultuare della folla e

lo strepito dei suonatori mi rintronavano negli orecchi.

D‘un tratto, come venuto dal nulla, un uomo con un fardello sulle spalle si avvicinò al

padiglione, seguito da un ragazzo con i capelli sciolti. L‘uomo si mise a parlare con gli assistenti dei

funzionari. Nel clamore delle innumerevoli voci non potei udire che cosa dicesse, ma scoppi di risa

mi giunsero dal padiglione. Ed ecco che si fece avanti un assistente vestito di nero e ordinò

un‘esibizione. L‘uomo salì i gradini del padiglione e domandò in che cosa dovesse esibirsi. I

dignitari si consultarono brevemente, quindi parlarono all‘assistente, che si rivolse all‘uomo e gli

chiese quale fosse la sua specialità.

―Possiamo produrre qualunque frutto fuori stagione‖ fu la risposta. L‘assistente andò a informare

i dignitari, e quasi subito ridiscese e annunciò che l‘uomo e il ragazzo avrebbero prodotto una

pesca.

L‘uomo assentì, si tolse le sopravvesti e le depose sopra una cassetta di bambù. Poi, fingendo di

rivolgersi al ragazzo che era con lui, disse ad alta voce perché tutti lo udissero: ―Le loro eccellenze

non hanno capito bene. Come possiamo procurarci delle pesche, prima che sia arrivato il disgelo?

Ma temo che andranno in collera, se falliremo. Che cosa possiamo fare?‖

―Padre,‖ disse il ragazzo, pure ad alta voce ―avete dato la vostra parola. Non possiamo tirarci

indietro.‖

L‘uomo meditò sul problema con aria abbattuta, poi disse: ―Ecco che cosa penso. La primavera è

appena arrivata e la neve è ancora spessa: non è possibile trovare pesche, nel mondo degli uomini.

Ma nei giardini della Regina Madre Occidentale, terra di perpetua fioritura dove le pesche maturano

ogni tremila anni, nulla appassisce o cade. Lassù, quindi, possiamo trovare delle pesche. Dovremo

rubarle nientedimeno che ai cieli!‖

―Come possiamo arrampicarci fin lassù?‖ gridò il ragazzo. ―Una tecnica esiste‖ disse il padre,

aprendo la cassetta di bambù. Tirò fuori un rotolo di corda di una quarantina di metri, ne afferrò

un‘estremità e la lanciò verso l‘alto. La corda rimase sospesa, come se pendesse da un appiglio

invisibile, su in cielo. L‘uomo continuò a lanciar su la corda, e più ne lanciava più la corda saliva,

finché l‘estremità superiore sparì tra le nuvole. Quando ebbe innalzato tutta la corda del rotolo

l‘uomo chiamò suo figlio.

―Vieni qui. Io sono vecchio e stanco, troppo pesante e maldestro per arrampicarmi. Dovrai fare

tu la scalata.‖ Passò la corda al figlio e aggiunse: ―Aggrappandoti a questa, puoi farcela.‖

Il figlio parve riluttante e contrariato.

―È assurdo, mio caro padre! Ti aspetti forse che una corda così sottile possa reggermi su in aria

per migliaia di piedi? Se dovesse cedere a mezza strada, chi rimetterà insieme le mie ossa?‖

Ma il padre insisté: ―Ormai ho commesso l‘errore d‘impegnarmi a procurare la pesca: è troppo

tardi per pentirsi! Devo darti la dura incombenza di questo viaggio. Ma non dolertene, perché se

riusciremo a cavarcela, avremo sicuramente in premio cento pezzi d‘argento: abbastanza perché tu

possa trovarti una bella moglie.‖

Il ragazzo afferrò la corda e cominciò a inerpicarsi su di essa. Come spostava le mani, subito i

piedi seguivano, alla maniera di un ragno che si muova lungo i fili della ragnatela; così procedendo,

pian piano superò lo spazio vuoto e raggiunse le nuvole, poi non fu più possibile vederlo.

Era già passato un bel po‘ di tempo, quando una pesca grossa come una ciotola cadde giù dal

cielo. L‘uomo la raccolse tutto contento e la presentò ai dignitari; costoro se la passarono l‘un l‘altro

per esaminarla senza fretta e sembrarono incerti se considerarla un frutto vero o un‘imitazione.

D‘improvviso, la corda ricadde al suolo.

―Siamo perduti!‖ disse l‘uomo, spaventato. ―Qualcuno lassù ha tagliato la corda! Dove troverà

scampo il mio figliolo?‖

Ancora qualche istante e qualcosa cadde a terra. L‘uomo guardò: era la testa del suo ragazzo!

Scoppiando in lacrime la raccolse e tenendola fra le mani gridò: ―Il furto della pesca deve essere

stato scoperto dai guardiani! Mio figlio è spacciato!‖

Un momento dopo cadde dal cielo un piede; un altro momento, e vennero giù le gambe, le

braccia e il resto, finché tutti i pezzi del corpo non furono disseminati sul terreno. In grande

ambascia, l‘uomo li raccolse uno per uno e li ripose nella cassetta di bambù. Alla fine richiuse il

coperchio.

―Io sono vecchio e avevo quell‘unico figliolo, che era sempre con me dovunque andassi! Non

immaginai davvero, quando gli diedi quell‘ordine, che sarei stato colpito da un così strano destino.

Ora dovrò portarlo alla sepoltura.‖ Avendo così parlato, l‘uomo salì i gradini del padiglione e

s‘inginocchiò. ―A causa di una pesca‖ disse ―ho perduto mio figlio. Se voleste aver pietà di questa

umile anima e offrire un piccolo contributo per le spese dei funerali, non perderò occasione per

ripagarvene… anche dall‘al di là.‖

Ciascuno dei dignitari porse con rispetto un po‘ di denaro, che l‘uomo ripose, legandolo alla

cintura. Dopodiché bussò alla cassetta di bambù e gridò: ―Vieni pur fuori, figliolino mio, e ringrazia

i gentili donatori.‖

Una testa scarmigliata sollevò il coperchio della cassetta e un ragazzo ne emerse e s‘inchinò ai

dignitari. Era proprio lo stesso ragazzo!

Più tardi appresi che gli appartenenti alla setta del Loto Bianco erano in grado di eseguire questo

singolare trucco; e non mi sorprenderebbe che l‘uomo e il ragazzo discendessero da qualcuno di

loro.

Racconti della follia e dell’avidità

IL PERO MAGICO Fu Sung-ling

Un agricoltore venne dalla campagna per vendere le sue pere. Esse erano fragranti e succose, e

l‘uomo stava vendendole molto bene quando un sacerdote taoista, coperto di rozze vesti e di sciarpe

sbrindellate, comparve accanto al carro e chiese qualche frutto. L‘agricoltore lo scacciò, ma quello

non volle saperne di andarsene. L‘altro alzò la voce e finì per mettersi a gridare e imprecare.

―Il vostro carro‖ disse allora il sacerdote ―contiene centinaia di pere e io ve ne chiedo soltanto

una. Non sarà una gran perdita, signore! Perché vi arrabbiate tanto?‖

La gente cercò di persuadere l‘agricoltore a concedere una pera ammaccata per liberarsi

dell‘uomo, ma l‘agricoltore si rifiutò, indignato. Una guardia del mercato, infine, vedendo che il

tumulto rischiava di sfuggire al suo controllo, comprò una pera con il proprio denaro e la diede al

sacerdote.

Il prete ringraziò la guardia con le mani intrecciate sulla testa, poi si rivolse alla folla e disse:

―Noi che abbiamo abbandonato il mondo, troviamo difficile capire l‘avidità umana. Lasciate che

offra qualche pera di prima qualità a voi tutti, buona gente.‖

―Ora che hai la tua pera‖ disse qualcuno ―perché non te la mangi?‖

Tutto quello che mi occorre è un seme da piantare― rispose il prete. E tenendo il frutto con

entrambe le mani, lo divorò rapidamente. Poi prese una piccola pala che portava sulla schiena,

scavò il terreno per parecchi centimetri, depose un seme di pera nella buca e lo ricoprì con la terra.

Ciò fatto chiese dell‘acqua calda. Uno degli astanti andò a prenderne un po‘ in un negozio vicino

e il prete versò l‘acqua sul seme che aveva piantato. Tutti gli occhi erano fissi su di lui.

Meraviglia! Si vide spuntare un piccolo germoglio, che prese a crescere ininterrottamente, finché

divenne un albero del tutto cresciuto, con grande profusione di ramoscelli e foglie. In un lampo

esplose in una gran fioritura e i fiori divennero frutti: dozzine di pere grosse e profumate,

gremivano i rami dell‘albero.

Il prete colse le pere dall‘albero e cominciò a offrirle ai presenti. In breve tempo non ne rimase

più una. Allora, con la sua pala, il prete cominciò a tagliare l‘albero. Teng! teng!: i colpi risuonarono

nell‘aria finché l‘albero non cadde. Il prete se ne caricò sulle spalle la parte superiore e se ne andò

tranquillo e beato.

Mentre tutto questo accadeva, l‘agricoltore era stato a guardare a bocca aperta in mezzo alla

folla, allungando Il collo e dimenticando i suoi affari; ma quando il prete si fu allontanato, si

accorse che il suo carro era vuoto. Tutta un tratto gli venne il dubbio che tutte quelle pere distribuite

alla gente fossero le sue, e guardando meglio vide che una stanga del carro era stata recisa.

Fremente di rabbia si mise a cercarla e la trovò abbandonata ai piedi di un muro. Allora comprese la

verità e cioè che il pero magico abbattuto sotto i suoi occhi altro non era che la stanga del suo carro.

Del prete non v‘era più alcuna traccia, ma la piazza del mercato risuonava di risate.

LA FONTANA DI VINO Chiang Ying-K‘e

Il tempio che prende il suo nome dalla Dama Wang sorge in un angolo riparato delle colline di

Hofu, a circa dieci miglia dalla mia contea. Quando la Dama sia vissuta, non ce più nessuno che lo

sappia; ma i nostri antenati ci hanno tramandato la storia che segue.

La vecchia signora si guadagnava da vivere facendo il vino. Una volta, avendo ospite in casa un

prete taoista, lo servì gratuitamente, dandogli da bere quanto ne chiedeva. In totale egli ne bevve

svariate centinaia di boccali; ma la donna non ne tenne il conto.

Un giorno il prete le disse: ―Ho bevuto per tutto il tempo del vostro vino senza avere il denaro

per pagarlo; ora permettetemi, se vi piace, di costruire per voi una fontana.‖

Si mise al lavoro, costruì la fontana e da essa sgorgò un getto del vino più puro. ―Questo è per

ricompensarvi‖ disse il prete. E se ne andò per la sua strada.

Da quel momento la signora Wang non ebbe più bisogno di fare il vino; per accontentare i suoi

clienti, le bastava attingerne alla fonte; e poiché il vino della fontana era molto più pregiato di

quello che faceva lei, i clienti venivano a frotte.

Nel giro di tre anni, la signora guadagnò tanto denaro che la sua famiglia diventò ricca.

Un giorno, inaspettatamente, il prete taoista ritornò. La vecchia signora lo ringraziò sentitamente.

―Era buono, il vino?‖ chiese il prete.

―Abbastanza,‖ rispose la donna ―ma non resta feccia per nutrire i miei porci.‖

Il prete sorrise, e scrisse sul muro questi versi: Grandi saranno i cieli ma più grande è l‘umana

avidità. Egli fece la fonte, ella vendette il vino, ma disse: ―Niente feccia per il suino.‖

Quindi il prete se ne andò e la fontana si disseccò.

L’ORO Lieh Tzu

Molti, moltissimi anni fa c‘era un uomo del paese di Ch‘i che aveva una gran passione per l‘oro.

Un giorno, allo spuntare dell‘alba, andò al mercato, dritto ai banchi degli orafi, sgraffignò un po‘

d‘oro e via di corsa. Ma le guardie del mercato lo agguantarono subito.

―Come speravi di cavartela, con tutta questa gente d‘intorno?‖ chiese una guardia.

―Quando l‘ho rubato‖ disse l‘uomo ―vedevo soltanto l‘oro, non la gente.‖

LA SCURE PERDUTA Lieh Tzu

Un uomo, che aveva perduto la sua scure, sospettò del figlio del suo vicino. Il ragazzo

camminava come un ladro, aveva tutto l‘aspetto di un ladro e parlava alla maniera dei ladri. Ma

l‘uomo ritrovò la sua scure mentre vangava nella valle, e la prima volta che rivide il figlio del suo

vicino, il ragazzo camminava, appariva e parlava come qualsiasi altro ragazzo.

IL MERCANTE DI CAVALLI Chan Kuo Ts‘e

Un mercante di cavalli aveva messo in vendita un ottimo esemplare che al mercato, tuttavia, non

attirava compratori. Il mercante, allora, andò a trovare il famoso allenatore di cavalli Po Lo.

―In tre giorni, nessuno ha notato il mio magnifico cavallo‖ disse. ―Ciò che dovreste fare per me,

sarebbe di girare attorno al cavallo osservandolo bene, poi andare via, ma continuando a voltarvi

indietro. Se lo farete, vi darò in compenso ciò che guadagno in una mattinata con le altre vendite.‖

Po Lo girò attorno al cavallo esaminandolo attentamente, poi andò via, ma continuando a voltarsi

indietro. In quello stesso giorno, il cavallo fu venduto per dieci volte il suo valore reale.

LA TRUFFA DELL ARGENTO Yuan Mei

L‘arte d‘imbrogliare sta diventando sempre più ingegnosa. C‘era un vecchio di Chinling che

portò alcuni lingotti d‘argento alla bottega del cambiavalute, sul ponte della Porta Settentrionale,

con l‘intenzione di scambiarli in monete di rame. Conversando del più e del meno, si fece un dovere

d‘incidere qua e là i lingotti per saggiarne il contenuto, finché un giovanotto entrò nella bottega.

Con il più grande rispetto si rivolse al vecchio e gli disse: ―Ho incontrato vostro figlio a Changchou,

per certi affari che avevamo in comune, ed egli mi ha dato una lettera e alcuni lingotti d‘argento per

voi. Stavo andando a casa vostra, quando per caso vi ho visto entrare qui.‖ Il giovane porse al

vecchio la lettera e l‘argento, salutò e se ne andò. Il vecchio aprì la lettera e disse al cambiavalute:

―Non ci vedo abbastanza bene per leggere la lettera di mio figlio. Volete prendervi il disturbo di

leggerla per me?‖

Il cambiavalute acconsentì. La lettera trattava di argomenti familiari e si concludeva con queste

parole: ―Ti mando dieci tael1 di argento fino, per le tue necessità domestiche.‖ Compiaciuto, il

vecchio disse al cambiavalute: ―Ora potete anche ridarmi il mio argento, senza darvi la pena di

valutarlo. Secondo la lettera di mio figlio, i lingotti d‘argento che mi ha mandato pesano

esattamente dieci tael; dunque, cambiatemi questi in monete di rame.‖

Il cambiavalute pose i nuovi lingotti sulla bilancia e vide che pesavano 11,3 tael. Immaginò che

il figlio del vecchio fosse stato troppo indaffarato per pesarli al momento di mandare la lettera, e

che avesse scritto ―dieci tael‖ per approssimazione. ―Il vecchio non può pesarli lui stesso,‖ ragionò

fra sé ―quindi posso ignorare l‘errore e tenermi la differenza.‖ Diede al vecchio novemila monete di

rame, che era il cambio corrente di dieci tael di argento fino, e il vecchio si portò via il denaro.

Un altro cliente che si trovava nel negozio cominciò a ridacchiare.

―Ho l‘impressione che siate stato imbrogliato, principale,‖ disse. ―Quel vecchio è un artista nel

falsificare l‘argento, e da molti anni! L‘ho notato quando entrava qui dentro, ma non ho avuto il

coraggio di parlare mentre era ancora nel negozio.‖

Il cambiavalute tagliò a metà i lingotti, vide che dentro erano di piombo e andò su tutte le furie.

Ringraziò il cliente e gli chiese l‘indirizzo del vecchio.

―Vive a circa un miglio da qui,‖ disse il cliente― avete tutto il tempo di raggiungerlo. Ma egli è

un mio vicino, e se scopre che l‘ho tradito si vendicherà in qualche modo. Quindi vi dirò dove

trovarlo, ma lasciatemi fuori da questa storia.‖

Il cambiavalute gli chiese di accompagnarlo. ―Se mi condurrete nelle vicinanze e m‘indicherete

il posto, poi potrete andarvene e il vecchio non saprà mai chi mi ha messo sull‘avviso.‖

L‘uomo esitava ancora per paura di compromettersi, ma quando il cambiavalute gli offerse tre

tael d‘argento acconsenti, come se non avesse scelta.

Uscirono insieme per la Porta di Han Hsi. Più avanti, in distanza, scorsero il vecchio che

spendeva il suo denaro al banco di uno spaccio di vino e beveva in compagnia di altri uomini.

―Eccolo là, agguantatelo in fretta! Io me ne vado‖ disse l‘uomo. Il cambiavalute irruppe nello

spaccio, afferrò il vecchio e cominciò a picchiarlo.

―Sporco furfante! Mi avete dato dieci tael di piombo rivestito d‘argento per novemila monete di

rame!‖

Gli avventori si radunarono attorno. E il vecchio, imperturbabile, disse: ―Io ho cambiato dieci

tael d‘argento mandati da mio figlio, e di certo non contenevano piombo. Ma poiché mi accusate di

avervi dato argento fasullo, ebbene, mostratemelo.‖

Il cambiavalute esibì il lingotto spaccato e allora il vecchio sorrise. ―Questo non è il mio‖ disse.

―Io non ne avevo che dieci tael, e infatti voi mi deste in cambio novemila monete; ma questo

argento fasullo ha l‘aria di pesare più di dieci tael: quindi, non può essere quello che vi ho dato.

Amici, il cambiavalute è venuto qui per truffarmi!‖

Gli avventori dello spaccio andarono a cercare una bilancia, pesarono l‘argento e videro che

pesava davvero 11,3 tael. Allora, indignati, aggredirono in massa il cambiavalute e lo pestarono ben

bene.

Così, per un istante di avidità, il cambiavalute cadde nella trappola del vecchio; e se ne tornò a

casa tutto ammaccato, in preda alle fiamme del rancore.

IL PATRIMONIO DI FAMIGLIA Chiang Ying-K‘e

Un commerciante, così povero che riusciva appena a sbarcare il lunario, un giorno prese in mano

un uovo e disse a sua moglie, tutto eccitato: ―Ecco il patrimonio della famiglia!‖

―Dove?‖ domandò la moglie.

―Qui davanti a te‖ disse l‘uomo mostrando l‘uovo. ―Ma ci vorranno dieci anni, per diventare

ricchi. Io prenderò quest‘uovo e lo farò covare dalla chioccia del vicino. Grazie a questa covata,

porterò a casa una gallina che farà altre uova. Nel giro di un mese avremo quindici pollastri. In due

anni, poiché i polli generano polli, potremo averne trecento. Vendendoli al mercato, metteremo

insieme dieci pezzi d‘argento e con essi compreremo cinque vitelli. In tre anni i vitelli si

riprodurranno e ne avrò venticinque. In altri tre anni i figli dei vitelli si riprodurranno a loro volta e

allora ne avremo centocinquanta. Vendendoli, ne ricaverò trecento pezzi d‘argento, e se li userò per

prestar denaro, in tre anni ancora avrò cinquecento pezzi d‘argento. Due terzi andranno per

comprare una casa, un terzo per comprare servi e un‘altra moglie, dopodiché tu e io ci godremo la

vita per il resto dei nostri giorni. Non sarà meraviglioso?‖

Di tutto questo, la moglie capì soltanto che suo marito meditava di comprarsi un‘altra moglie.

Allora prese l‘uovo e lo scagliò a terra con rabbia, gridando: ―Non pianteremo il seme del disastro!‖

Furioso, il marito la picchiò sonoramente, poi la trascinò davanti al magistrato.

―Questa disgraziata‖ disse ―ha distrutto il patrimonio di famiglia in un sol colpo. Dovrebbe

essere giustiziata.‖

Il magistrato chiese notizie sull‘entità del patrimonio e sulle circostanze della perdita. Il marito

cominciò dall‘uovo e raccontò tutto quanto era successo.

―Una cattiva donna‖ disse il magistrato ―ha distrutto un grande patrimonio di famiglia in un

soffio! Merita di essere giustiziata.‖ E ordinò che fosse bollita viva.

Ma la donna protestò energicamente: ―Tutto ciò che ha detto mio marito riguarda cose che sono

ancora di là da venire‖ disse al magistrato. ―Perché dovrei essere bollita?‖

―Anche la concubina che vostro marito si proponeva di comprare era di là da venire‖ disse il

magistrato. ―Perché ne siete stata gelosa?‖

―Questo è vero‖ disse la donna. ―Ma non si è mai troppo svelti nel prevenire i disastri.‖

Il magistrato sorrise e la lasciò libera.

Ahimè! Quell‘uomo fece i suoi piani mosso dall‘avidità, e la donna ruppe l‘uovo mossa dalla

gelosia: le menti di entrambi erano sotto l‘influsso di un‘illusione. Il saggio, libero dai desideri, si

rende conto che anche ciò che esiste è illusione; figuriamoci, dunque, ciò che non è ancora

avvenuto.

LA FOGLIA Han-tan Shun

Un pover uomo di Ch‘u lesse quanto segue in un libro di scienza e cultura noto come Huai Nan

Tzu: ―La mantide dà la caccia alla cicala, da dietro una foglia che la rende invisibile.‖

Subito l‘uomo si mise a cercare una simile foglia su un albero e vide una mantide che ne reggeva

una davanti a sé, aspettando che arrivasse una cicala. L‘uomo le strappò via la foglia; ma essa cadde

ai piedi dell‘albero, dove giacevano molte altre foglie cadute, ed egli non fu capace di distinguere la

sua. Allora ne raccolse parecchie staia e se le portò a casa.

A casa cominciò a provare le foglie una per una, e ogni volta chiedeva a sua moglie: ―Riesci a

vedermi?‖ E la moglie rispondeva ogni volta: ―Sì.‖ Man mano che il giorno si consumava, però, la

donna era sempre più stanca; tanto che, a un certo punto, quando il marito provò l‘ennesima foglia,

gli rispose mentendo: ―Non riesco a vederti.‖

L‘uomo rimase senza fiato dalla gioia. Andò al mercato con la foglia e tenendola davanti a sé

cominciò a sgraffignare merci sotto gli occhi dei proprietari. La guardia del mercato lo prese, lo

legò e lo portò davanti al giudice. L‘uomo raccontò tutta la storia; il giudice scoppiò in una gran

risata e lo rimise in libertà.

LA TIGRE DIETRO LA VOLPE Chan Kuo Ts‘e

Una tigre catturò una volpe. La volpe disse: ―Non oserai mangiare mei Lassù in cielo, gli dèi mi

hanno eletta capo di tutti gli animali: tu violeresti il mandato divino, se facessi di me il tuo pasto. Se

non mi credi, lascia che io cammini avanti e tu vienimi dietro: vedrai se c‘è un solo animale che

oserà restare dove si trova!‖ La tigre acconsentì e andò dietro alla volpe, tallonandola. Tutte le

bestie che incontrarono fuggirono via.

Sbalordita, e convinta che la volpe fosse davvero il capo di tutti gli animali, la tigre se ne andò

per la sua strada.

IL TORO VOLANTE P‘u Sung-ling

Un uomo che aveva comprato un toro forte e gagliardo vide in sogno due ali spuntare dalle spalle

della bestia e il toro volarsene via. All‘uomo parve un segno di malaugurio e nel timore di una

imminente grossa perdita, condusse il toro al mercato e lo vendette per meno di quanto aveva speso

per comprarlo.

Avvolse e annodò il denaro in una estremità della sua sciarpa, si gettò la sciarpa sulla spalla e si

avviò verso casa. A mezza strada vide un falco che divorava un coniglio morto. Andando ancora più

avanti ritrovò il falco, ma così mansueto e sottomesso, che gli legò una zampa con l‘altra estremità

della sciarpa, e di nuovo si mise la sciarpa sulla spalla, trattenendola con la mano. Il falco lo seguì

svolazzandogli attorno, ma appena la mano dell‘uomo allentò un poco la stretta, volò via con la

sciarpa e con il denaro.

Da quel giorno in poi, l‘uomo ripeté sempre alla gente che non esistono modi per evitare ciò che

il fato ha deciso per noi.

RELAZIONI SOCIALI Ching Hsing-shao

Il vecchio possidente Fei aveva dedicato tutto se stesso alle sue terre ed era divenuto

discretamente ricco. Il suo unico rimpianto, nella vita, era di non aver amici nell‘alta società.

Un giorno, durante un tremendo temporale, la nuora di Fei stava lavando degli ortaggi sulla riva

del fiume quando una piccola imbarcazione venne a ormeggiarsi a un salice. A bordo c‘era un

letterato, che si riparava sotto la gocciolante stuoia di protezione della barca. I suoi vestiti e le sue

scarpe erano completamente inzuppati; i due assistenti del letterato erano in condizioni anche

peggiori. Il barcaiolo disse alla nuora di Fei che il nome del passeggero era Fei e che egli poteva

vantare un diploma di secondo grado. Tornata a casa, la nuora raccontò al suocero il fatto

sorprendente che il laureato portava il loro stesso cognome.

Il vecchio possidente radunò quanto aveva per ripararsi dalla pioggia e si affrettò verso la barca.

―Che tremendo temporale!‖ disse al letterato. ―Non vorreste ripararvi nella nostra povera

abitazione, onorevole signore?‖

Infreddolito e affamato, l‘uomo di lettere accettò con gioia. In casa del possidente si procedette

alle cortesie di prammatica e il letterato si mostrò lieto di apprendere che portavano lo stesso

cognome. Insieme ricostruirono l‘albero genealogico familiare, comportandosi come se davvero

fossero membri di una sola e felice famiglia.

Il vecchio possidente diede ordine che si allestisse un banchetto; poi, tenendo per mano il

letterato, lo condusse fuori, sotto gli ampi cornicioni della casa, e osservò: ―Non posso lamentarmi

di come vanno le cose nel villaggio. Quelli sono i miei ben irrigati poderi, tanti e tanti acri; zenzero,

colocasia e giunco, tanti e tanti appezzamenti; una gran quantità di vivai di pesci; moltissimi campi

di riso e inoltre ci sono i frutteti gli orti e i pascoli, dove l‘erba cresce all‘ombra dei gelsi.‖

Il vecchio Fei, poi, condusse per mano il letterato sul fianco sinistro della casa, da dove si

potevano vedere più di dieci alte costruzioni.

―I miei granai‖ disse il possidente. ―E quelle sono le stalle dei buoi, delle pecore e dei maiali.

Sulla destra e sulla sinistra ci sono le case dei miei contadini, e altre che affittiamo.‖

Il letterato annuiva di continuo, la mente abbagliata, l‘occhio bramoso. Quando annunciarono il

pranzo, il vecchio Fei lo invitò a tavola.

Pietanze e ghiottonerie erano abbondanti e ben preparate, assai diverse da quanto si trova in

genere nelle fattorie di campagna. Il vecchio possidente levò il calice e disse: ―Questo vino è

vecchio di cinque anni. Lo offriamo stasera, per rendere omaggio al mio giovane, onorevole

fratello.‖

Il letterato ringraziò profusamente e ben presto entrambi i Fei furono riscaldati dall‘alcol. Il

letterato, per parte sua, fornì un ampio ragguaglio delle sue origini e relazioni.

―Questo funzionario fu compagno di scuola di mio padre‖ diceva. ―Quest‘altro fu mio

esaminatore e protettore. Il funzionario locale Tal dei Tali fu anche lui mio esaminatore. Svariati

altri sono miei cugini. Attualmente, i funzionari Tale e Talaltro, in carica qui in città, sono in ottimi

rapporti con me e non esiterebbero a soddisfare ogni mio desiderio. Chiunque sia in relazioni

amichevoli con me può dirsi immune da ogni specie di avversità.‖

Il vecchio Fei ascoltò tutto questo con entusiasmo e reverenza. Quando il pasto fu finito, era

finita anche la pioggia; e poiché il sole stava tramontando, il letterato si congedò deciso a ripartire,

nonostante le insistenze del proprietario per indurlo a fermarsi. Il vecchio Fei lo vide andar via con

dolore.

Il giorno successivo, indossate le vesti migliori e presi con sé molti servi, il possidente fece vela

per la città; e quando l‘ebbe raggiunta, andò a trovare il letterato. Questi lo accolse cordialmente e

da quel momento in poi la loro amicizia si fece sempre più profonda. Spesso il vecchio Fei si faceva

premura di offrire prodotti delle sue terre al giovane Fei; al momento del raccolto gliene inviò una

parte e alla fine dell‘anno gli fece un presente di molti cibi in conserva. Il letterato, riconoscente, si

diceva addolorato di non poter fare qualcosa di utile, in cambio dei doni ricevuti; alla fine, però, gli

venne una certa idea e consultò un poliziotto con il quale era in buoni rapporti. Il poliziotto brigò

affinché un certo bandito commettesse un certo crimine e ne facesse ricadere la colpa sul possidente

Fei; il quale, ben presto, si ritrovò in prigione.

Il figlio del possidente, in cerca di aiuti, corse a casa del letterato.

―Vostro padre mi ha trattato così generosamente‖ disse il letterato fra le lacrime ―che non lascerò

nulla d‘intentato per salvarlo. Ma il reato non è lieve e la faccenda non è di quelle che si sbrigano

con due parole. Qui abbiamo a che fare con una manica di veri furfanti! Mi chiedo quale sia il

miglior modo di affrontare la situazione.‖

―Se c‘è una strada qualunque per liberare mio padre,‖ disse il figlio ―seguirò alla lettera le vostre

istruzioni.‖

Il letterato gli disse quanto occorreva pagare per corrompere questo e quel funzionario, quanto

per l‘aiutante del magistrato, per il poliziotto e, infine, per il bandito. Comprare superiori e inferiori

sarebbe venuto a costare cinquemila once d‘argento.

Ora, la ricchezza di un possidente è la sua terra; non c‘è mai molto denaro liquido.

Nell‘impossibilità di mettere insieme l‘intera somma, il figlio fu costretto a consegnare al letterato

tutti i certificati di proprietà delle terre e dei fabbricati e il letterato ne prese possesso a nome degli

altri funzionari. Diramò inoltre raccomandazioni e istruzioni ai suoi superiori e inferiori affinché

mungessero il figlio del possidente fin dove era possibile. Per far fronte a tante richieste, il figlio del

possidente si ridusse all‘elemosina, come si dice, e si adattò a fare i più umili mestieri che potessero

fruttargli qualche soldo. Finalmente, quando la fattoria fu spogliata di tutto, il padre venne rimesso

in libertà. Un anno intero era trascorso.

Durante la sua prigionia, il possidente non aveva mai cessato di provare riconoscenza per l‘uomo

di lettere, che tanto pensiero si dava per lui. Il vecchio Fei soleva ripetere che era stata una vera

fortuna conoscere il giovane studioso. Tuttavia, quando finalmente tornò a casa, fece il conto delle

sue perdite e scoprì che tutto quanto gli restava al mondo era la sua disgraziata famiglia. L‘aria,

allora, risuonò dei suoi alti singhiozzi; e prima che le sue lacrime avessero il tempo di asciugarsi,

arrivò il rappresentante del nuovo proprietario.

Quando si fu un po‘ calmato, il vecchio si chiese per quale motivo un bandito che non aveva mai

visto né conosciuto avesse potuto infierire così crudelmente su di lui. Allora uccise un pollo, prese

del vino e li portò alla prigione, per offrirli al bandito e chiedergli la ragione del suo odio.

―Ho rovinato la vostra famiglia‖ disse il bandito, ―e voi mi portate da mangiare e da bere. Dovete

essere un uomo degno d‘onore! Non posso più nascondervi la verità. Fu vostro fratello il letterato a

istruire il poliziotto affinché combinasse tutto l‘imbroglio.‖

Udendo ciò, il vecchio comprese finalmente quanto era accaduto. Corse a casa del letterato, ma lì

gli dissero e gli ripeterono che il signor Fei era fuori città per affari.

Incapace di smaltire la propria collera, il vecchio tornò a casa e se la prese con la nuora.

―Se non fosse stato per te,‖ disse ―questo disastro non sarebbe mai accaduto.‖

―Era un caso strano che aveste lo stesso cognome,‖ replicò la donna ―perciò ve lo dissi! Ma non

vi chiesi di far comunella con quell‘uomo.‖

Nello stato di angoscia in cui si trovava, il vecchio la maledisse; la donna si sentì offesa a tal

punto che s‘impiccò; il figlio, adirato nel vedere sua moglie morta senza ragione, s‘impiccò anche

lui; e il vecchio Fei, non avendo più né casa né discendenza, cercò la morte allo stesso modo.

UN PICCOLO FAVORE P‘u Sung-ling

T‘ing Ch‘ien-Hsi di Chuch‘eng, nello Shantung, era un uomo facoltoso e cavalleresco che amava

rendere giustizia e raddrizzare i torti. Tuttavia, quando il censore imperiale residente ordinò il suo

arresto, poiché doveva rispondere di certi addebiti, Ting scomparve. Viaggiò fino alla contea di

Anch‘iu e lì fu colto da un così violento temporale che dovette cercar riparo in una locanda. A

mezzogiorno la pioggia non era ancora cessata.

Un giovane recò a Ting una generosa offerta di cibi, e quando fu il crepuscolo lo invitò a

trascorrere la notte a casa sua, dove il viaggiatore e il suo cavallo ricevettero ogni cura. Ting chiese

al giovane quale fosse il suo nome.

―Il padrone di casa è il signor Yang. Io sono nipote di sua moglie‖ rispose il giovanotto. ―A lui

piace molto stare in compagnia degli amici, e infatti è uscito. In casa c‘è soltanto sua moglie. Noi

siamo troppo poveri, temo, per provvedere degnamente a un ospite; ma spero che ci perdonerete.‖

Ting chiese quale fosse l‘occupazione del signor Yang e apprese che sbarcava il lunario gestendo

una piccola sala da gioco. Il giorno seguente continuò a piovere e Ting e il suo cavallo furono

trattati con la stessa generosità. Al cader della sera fu portato del fieno per il cavallo, in fasci mal

fatti e impregnati di pioggia. Poiché Tirtg ne parve sorpreso, il giovane si scusò: ―A dire il vero,

siamo troppo poveri per poter nutrire un cavallo. La moglie di mio zio ha tirato via un po‘ di paglia

dal tetto.‖

Sconcertato, Ting pensò che il ragazzo mirasse a ottenere un po‘ di denaro e gli offerse qualche

pezzo d‘argento; ma l‘offerta fu rifiutata. Poiché Ting insisteva, il giovane prese l‘argento, andò

nella stanza interna e subito ritornò e restituì il denaro.

―Mia zia dice che il signor Yang va spesso via per diversi giorni senza portare soldi con sé; egli

fa assegnamento sull‘ospitalità degli amici. Così, quando un ospite viene nella nostra casa, come

potremmo chiedergli denaro?‖

Prima di ripartire, Ting disse al giovane: ―Io sono Ting di Chuch‘eng. Appena tornerà il padrone

di casa, ditegli che sarò onorato di una sua visita, quando vorrà.

Molti anni più tardi vi fu una carestia. Gli Yang si trovarono in gravi difficoltà e non avevano

nessuno a cui ricorrere. La signora Yang chiese a suo marito di andare a trovare Ting Ch‘ien-hsi ed

egli fu d‘accordo. Arrivato a Chuch‘eng, si presentò alla porta di Ting e diede il suo nome.

Sulle prime, Ting non ricordava chi fosse; ma quando la storia di Yang gli fu riferita, corse subito

a dare il benvenuto all‘ospite. Notando le vesti lacere e le scarpe consumate di Yang, Ting lo fece

accomodare in una stanza riscaldata, gli fece servire un ricco pasto, lo trattò con amore e rispetto e

il giorno dopo gli fece fare un berretto e degli abiti caldi e ben foderati. Yang, sebbene commosso

dalla generosa ospitalità di Ting, era sempre più preoccupato e ansioso di recare sollievo alla

propria famiglia; ma diversi giorni passarono e l‘ospite non accennava a rimandarlo a casa con

qualche dono di commiato. Finalmente, non reggendo all‘apprensione, Yang disse a Ting: ―C‘è

qualcosa che non posso nascondervi. Quando lasciai la mia casa, non avevamo più neppure un poco

di riso. Io ho ricevuto tanto dalla vostra generosità; ma mentre io ne godo, come starà la mia

famiglia?‖

―Non preoccupatevi‖ rispose Ting. ―Ho già provveduto a loro per vostro conto. Non datevene

pensiero, vi prego. Restate con me ancora un poco e vi darò una mano per le spese di viaggio.‖

Ting mandò a chiamare un certo numero di giocatori d‘azzardo e trattò con essi una provvigione

sulle loro vincite, per Yang. Durante quella stessa notte, Yang mise insieme cento pezzi d‘argento.

Allora Ting lasciò che tornasse a casa, dove Yang trovò sua moglie tutta vestita a nuovo, con una

giovane cameriera al suo servizio. Sorpreso, le domandò che cosa fosse accaduto.

―Il giorno dopo la tua partenza‖ disse la moglie ―vennero uomini con carri pieni di doni: abiti e

seta, grano e legumi, in così gran quantità da riempire la casa! Dissero che era un presente del

signor Ting. Egli mandò anche, per me, una giovane servente.‖

La gratitudine di Yang non ebbe più limiti. Da allora in poi i suoi affari prosperarono ed egli poté

abbandonare il suo vecchio mestiere.

L‘Archivista delle Cose Strane dice: ―Apprezzare la buona compagnia e intrattenere

piacevolmente gli ospiti è ciò che bevitori, giocatori e spostati in genere sanno far meglio. Assai più

degna di nota è la moglie di Yang, che offerse una così generosa ospitalità, benché non fosse incline

al bere né al gioco d‘azzardo. Che specie di umanità è quella di chi accetta un favore senza

renderlo? Ting fu tale uomo, da non dimenticare neppure il dono di un semplice pasto.‖

NOCCIOLI DI NESPOLA Tai Yen-nien

Chu i-chun, membro dell‘Accademia Imperiale, era in rapporti di amicizia con un prete taoista.

Presso il tempio c‘erano due nespoli, e ogni anno, quando i frutti maturavano, il prete ne offriva un

cestello a Chu. Le nespole non avevano mai noccioli; e quando Chu ne chiese il motivo il prete

rispose che si trattava di una varietà soprannaturale. Chu accolse la spiegazione con molto

scetticismo.

Il prete amava il buon cibo e in modo particolare apprezzava la carne di porco cotta al vapore.

Un giorno Chu lo invitò a pranzo e ordinò ai servi di comprare un porco e di condurlo al guinzaglio

attraverso la casa, in presenza del prete.

In breve tempo la carne di porco fu pronta e presentata in tavola, ben cotta e succulenta. Chu e

l‘ospite ne mangiarono a sazietà, e quando il pranzo giunse al termine il prete chiese a Chu come

fosse stato possibile cucinare la carne del porco tanto in fretta.

―È un trucco semplicissimo‖ disse Chu. ―Ve lo dirò, se voi mi svelerete il segreto delle nespole.‖

―E davvero una sciocchezza‖ disse il prete. ―Appena il nespolo fiorisce, io estraggo dai fiori il

sottile filamento che hanno al centro.‖

―Molto bene‖ disse Chu. ―Per quanto riguarda la carne di porco, era pronta fin da ieri.‖

E a testa alta, con grandi sorrisi, si accomiatarono.

PROBLEMI DI MEMORIA Lo Cho

Nel paese di Ch‘i, nella Cina orientale, c‘era un uomo che aveva tali difficoltà nel ricordare le

cose da dimenticare di fermarsi quando camminava e di alzarsi quando era a letto. Sua moglie,

sempre più preoccupata, un giorno gli disse: ―Tutti affermano che Ai Tzu possiede scienza e abilità

per curare i disturbi più inveterati. Perché non vai da lui e non ti affidi alle sue cure?‖

L‘uomo acconsentì. Montò a cavallo, prese arco e frecce per difendersi lungo la strada e partì.

Ma ben presto, avvertendo una certa pressione delle viscere, smontò da cavallo per liberarsi a lato

della strada. Le frecce, le piantò sul terreno; il cavallo lo legò a un albero.

Quando ebbe finito, l‘uomo guardò alla sua sinistra e vide le frecce. ―Sono ben vicine!‖ disse.

―Da dove saranno venute, quelle frecce vaganti? Una di esse avrebbe potuto colpirmi!‖ Guardò alla

sua destra e vide il cavallo. ―Ho preso paura,‖ pensò ―ma ho guadagnato un cavallo.‖ Nell‘afferrare

le briglie, calpestò i propri escrementi. Allora, battendo il piede con rabbia, disse: ―Ho messo il

piede sugli escrementi di un cane e mi sono sporcato le scarpe. Che vergogna!‖ Voltò il cavallo

nella direzione dalla quale era venuto e menò il frustino. Quando fu di ritorno a casa, smontò e

prese a camminare avanti e indietro davanti alla porta principale. ―Chi può abitare qui?‖ si

domandò. ―Non sarà la casa di Ai Tzu?‖ Sua moglie lo vide, capì che la memoria lo aveva tradito di

nuovo e lo rimproverò. L‘uomo disse con amarezza: ―Brava donna, non credo che ci siamo mai

conosciuti. Perché mi parlate con tanta asprezza?‖

I SEGRETI DELLA MEDICINA P‘u Sung-ling

Chang era un pover uomo della contea di Yi, nello Shantung. Un giorno, per la strada, gli

accadde d‘incontrare un prete taoista esperto di fisiognomica. Il prete osservò i suoi lineamenti e

disse: ―È probabile che facciate fortuna in qualche professione.‖ ―Quale dovrei intraprendere?‖

chiese Chang. Il prete gli diede un‘altra occhiata e rispose: ―La medicina dovrebbe andar bene.‖ ―E

come potrei dedicarmi a essa?‖ replicò Chang. ―A malapena so leggere!‖

Il prete sorrise. ‗Un gran dottore non ha bisogno di leggere molto. Fatelo. Altro non posso dirvi.―

Chang tornò a casa e, dal momento che altro lavoro non ne aveva, decise di seguire il consiglio

del prete. Mise insieme qualche farmaco da ciarlatani, ripulì un angolo di strada e allestì la sua

rivendita in città. Allineò sul banco denti di pesce, favi e altre cose del genere, e sperò di

raggranellare qualche ciotola di riso con le sue chiacchiere truffaldine. Ma giorno dopo giorno,

nessuno sembrava accorgersi di lui.

Ora accadde che il governatore di Ch‘ingchou, disturbato da una forte tosse, ordinò ai suoi

subalterni di chieder consiglio a un medico. Nella contea di Yi, sperduta com‘era fra le montagne, i

medici scarseggiavano; ma il magistrato locale, spaventato all‘idea di non assolvere l‘incarico,

ordinò ai capi dei villaggi di trovarne uno a ogni costo; e i capi dei villaggi, all‘unanimità,

raccomandarono Chang.

Il magistrato di contea mandò qualcuno a cercarlo, con l‘ordine di presentarsi subito; ma Chang,

soffrendo anche lui di una tosse asmatica che non era riuscito ad alleviare, fu allarmato da quella

convocazione e la declinò con fermezza. Il magistrato non accettò la sua risposta e ordinò che

Chang fosse condotto sotto scorta dal governatore.

Il carro di Chang dovette attraversare aride montagne, dove l‘acqua era più preziosa del nettare;

e così la sua tosse peggiorò per la gran sete. Si fermò in un villaggio sperando di trovare un po‘

d‘acqua, ma benché ne chiedesse a ogni casa, nessuno ne aveva abbastanza da poterne offrire una

sola goccia. Procedendo oltre, vide una donna che scolava delle verdure, dopo averle sciacquate in

pochissima acqua. Il liquido rimasto nella bacinella era denso come una poltiglia; ma Chang, arso

dalla sete, lo chiese ugualmente. La donna glielo diede, e poco dopo averlo bevuto Chang si accorse

che la sua sete si era placata e che la tosse era scomparsa. ―Sembra davvero un rimedio efficace‖

pensò.

Quando Chang arrivò al quartier generale del governatore, alcuni medici, venuti da altre contee,

avevano già provalo i loro farmaci senza successo. Chang chiese di potersi ritirare in luogo

appartato per preparare la sua ricetta, quindi mostrò in giro la medicina affinché tutti la vedessero;

nello stesso tempo, mandò qualcuno a cercare dai contadini erbacee selvatiche per i porci; quando le

ebbe avute le lavò, le scolò e presentò l‘acqua sporca al governatore, la cui tosse migliorò

immediatamente fin dalla prima dose. Al colmo della gioia, il governatore ricompensò lautamente

Chang e gli consegnò una decorazione d‘oro da portare in bella mostra.

La fama di Chang fu così un fatto compiuto. I clienti si affollarono alla sua porta come al

mercato e chiunque si presentò fu risanato.

Un giorno venne un uomo affetto da febbri tifoidee; ma Chang era ubriaco e somministrò al

malato il rimedio per la malaria.

Quando si svegliò si rese conto del proprio errore e, spaventato, si guardò bene dal parlarne a

chiunque.

Tre giorni dopo, una solenne processione giunse alla sua porta per rendergli grazie, poiché il

malato di febbri tifoidee era guarito, sia pure dopo un breve periodo di vomito e diarrea. Piccoli

incidenti del genere potevano sempre accadere.

In breve tempo Chang divenne ricco, pur senza rivestire alcuna carica, e via via che cresceva la

sua reputazione saliva il prezzo dei suoi servizi. Ormai non visitava più che i malati in grado di

pagargli alti onorari e di mandarlo a prendere con la carrozza.

Un altro medico illustre fu il vecchio Han, che viveva a Yitu, nella provincia di Ch‘ing. Prima di

diventare famoso, Han andava in giro vendendo ricostituenti per le strade, ai quattro angoli del

regno. Una notte, trovandosi lontano da qualsiasi locanda, fu alloggiato da una famiglia. Il loro

figlio, per l‘appunto, stava morendo di febbri tifoidee, così i genitori chiesero a Han di curarlo. Han

non osò rifiutarsi per paura che lo buttassero fuori; ma a dir la verità, non aveva alcun farmaco per

quella malattia. Andando avanti e indietro per la sua stanza, mentre si chiedeva che cosa potesse

fare, Han continuava a strofinarsi qua e là il corpo seminudo, e il sudiciume veniva via sotto le sue

dita. Sovrappensiero, appallottolò quella sporcizia e d‘un tratto gli balenò l‘idea di somministrarla

al ragazzo; tutto considerato, pensò, male non gli avrebbe fatto; e se all‘alba non si fosse visto alcun

miglioramento, Han avrebbe già avuto, a ogni modo, un pasto e una nottata di riposo.

Così diede la pillola al malato, e nel cuore della notte il padre venne a bussare freneticamente

alla sua porta. Sicuro che il ragazzo fosse morto, Han balzò fuori dal letto e dalla camera e saltò il

muro di cinta per evitare di essere bastonato; ma il padre del ragazzo lo inseguì per un miglio e

finalmente lo agguantò. Allora Han apprese che il paziente, dopo aver fatto una bella sudata, si era

del tutto ristabilito. Il medico fu ricondotto in casa per partecipare a un sontuoso banchetto,

dopodiché poté riprendere la sua strada, riccamente remunerato.

IL CAVALLO PERDUTO Liu An

Presso il confine settentrionale della Cina, viveva un uomo che era molto bravo nell‘interpretare

il significato degli eventi. Un giorno, senza alcun motivo, il suo cavallo se ne fuggì dai nomadi, al

di là della frontiera. Tutti cercarono di consolare l‘uomo, ma suo padre disse: ―Come puoi essere

sicuro che non sia una fortuna?‖ Alcuni mesi dopo il cavallo ritornò, conducendo con sé un

magnifico stallone dei nomadi. Tutti si congratularono con l‘uomo, ma suo padre disse: ―Come puoi

essere sicuro che non sia una disgrazia?‖ La fattoria, certo, si era arricchita di un bel cavallo, che il

figlio amava cavalcare; tuttavia un giorno fu disarcionato e si fratturò l‘anca. Tutti cercarono di

consolarlo, ma suo padre disse: ―Come puoi essere sicuro che non sia una fortuna?‖

Un anno più tardi i nomadi sconfinarono in forza e ogni uomo valido dovette prendere il suo arco

e andare a combattere. I cinesi della frontiera furono decimati. Soltanto perché il figlio era invalido,

tanto lui quanto suo padre poterono sopravvivere e prendersi cura l‘uno dell‘altro.

In verità, la fortuna si volge in disgrazia, la disgrazia si volge in fortuna, i mutamenti non hanno

fine e il mistero non può essere penetrato.

IL CERVO SOGNATO Lieh Tzu

Un boscaiolo dello stato di Cheng stava raccogliendo legna per il fuoco, quando incontrò un

cervo spaventato. Si parò davanti all‘animale, lo colpì a morte, poi, nel timore che qualcuno potesse

trovarlo e appropriarsene, in fretta e furia lo nascose in una buca e lo ricoprì con la legna che aveva

raccolto. Di lì a poco, tuttavia, dimenticò il posto in cui aveva seppellito il cervo e finì per

convincersi che fosse stato tutto un sogno.

Procedendo per la sua strada, il boscaiolo prese a cantare una canzone che narrava l‘accaduto.

Un passante udì per caso la canzone e, utilizzandone i riferimenti, trovò il cervo e se lo portò a casa.

Disse a sua moglie: ―Ho incontrato un boscaiolo che aveva sognato di avere un cervo, ma non

ricordava più dove fosse. Adesso il cervo ce l‘ho io, quindi è chiaro che il suo sogno era veritiero.‖

―Non potrebbe essere‖ disse sua moglie ―che fossi stato tu a sognare un boscaiolo che aveva un

cervo? Perché dovrebbe esistere un boscaiolo? Il fatto che ora tu abbia il cervo non significa forse

che è veritiero il tuo sogno?‖

―Bé, dal momento che il cervo è in mio possesso‖ disse l‘uomo ―che importa chi di noi due ha

sognato?‖

Quando il boscaiolo che aveva ucciso il cervo tornò a casa, era afflitto per la perdita

dell‘animale. Quella notte sognò il posto in cui lo aveva sepolto e anche il passante che lo ave va

preso. La mattina dopo, di buon‘ora, cercò e trovò l‘uomo, proprio dove il sogno gli aveva indicato.

Lo portò davanti alla Corte per via del cervo e il caso fu sottoposto al magistrato.

Disse il magistrato, rivolto al boscaiolo: ―In principio, quando veramente prendeste un cervo,

diceste che era un sogno; poi, quando realmente avete sognato di aver preso un cervo, avete detto

che era realtà. Il passante ha realmente preso il vostro cervo e voi Io avete citato in giudizio per

questo; ma sua moglie dice che voi state reclamando il cervo del sogno di un altro, e che nessuno ha

mai preso il vostro. Dunque, il passante e sua moglie hanno il possesso di questo cervo; ma io

suggerisco che lo dividiate fra voi.‖

Il magistrato, per maggior sicurezza, presentò il caso all‘attenzione del re di Cheng.

―Oh, bene,‖ disse il re ―suppongo che ora, a vostra volta, sognerete di aver diviso il cervo tra i

litiganti.‖

Poi il re consultò il primo ministro, suo consigliere capo, il quale disse: ―Io non sono in grado di

distinguere il sogno dalla veglia. Soltanto il Re degli Dèi Gialli o Confucio potrebbero farlo. Poiché

né l‘uno né l‘altro sono qui, sembra che la miglior soluzione sia accettare il verdetto del

magistrato.‖

SENZA MEMORIA Lieh Tzu

Hua tzu dello stato di Sung nella mezza età soffriva di amnesia. Qualunque cosa prendesse al

mattino, era già dimenticata alla sera; qualunque cosa donasse la sera, era già dimenticata al

mattino. Per la strada si scordava di camminare, in casa di sedersi. Adesso aveva già dimenticalo

allora; più tardi non avrebbe più ricordato adesso.

L‘intera famiglia sprofondava nella confusione a causa del suo disturbo. Hua cercò l‘aiuto di un

astrologo, ma la divinazione non fornì risposte. Cercò l‘aiuto di un medium, ma le preghiere non

risolsero il problema. Consultò un medico, ma le cure non portarono miglioramenti.

Avendo saputo che nello stato di Lu c‘era un sapiente confuciano che asseriva di poter sanare

quel male, la moglie di Hua Tzu gli versò la metà del loro patrimonio, affinché guarisse suo marito.

―Nessun vaticinio o sogno magico può risolvere questo caso‖ disse il confuciano. ―Nessuna

preghiera può dare protezione. Nessuna medicina funzionerà. Devo provarmi a trasformare la sua

mente e ad alterare il suo pensiero; allora può esserci speranza.‖ Il sapiente denudò Hua Tzu ed egli

chiese un vestito. Il sapiente affamò Hua Tzu ed egli chiese da mangiare. Il sapiente rinchiuse Hua

Tzu in una stanza buia ed egli chiese una lampada. Il confuciano, soddisfatto, disse al figlio di Hua

Tzu: ―Il male può essere guarito. Ma il mio rimedio è un segreto tramandato per generazioni, e mai

rivelato a nessuno fuori della nostra famiglia. Debbo chiedervi di rimandare i servi di vostro padre,

così che egli resti solo con me per sette giorni.‖

Il figlio acconsentì. Nessuno conobbe mai il metodo che usò il sapiente, ma l‘annoso disturbo di

Hua Tzu scomparve del tutto.

Quando Hua Tzu si rese conto di essere guarito, andò su tutte le furie. Castigò sua moglie, punì

suo figlio e scacciò il sapiente col bastone. I familiari gli chiesero perché si comportasse in quel

modo.

―Nella mia smemoratezza, io ero un uomo libero, ignoravo perfino se il cielo e la terra

esistessero o no‖ disse Hua Tzu. ―Ma adesso ricordo tutto quanto è accaduto, tutto ciò che

sopravvive o è perito, che ho acquistato o perduto; tutto ciò che ha portato dolore o gioia, ciò che ho

amato e ciò che ho odiato, tutte le diecimila traversie dei miei decenni di vita; e temo che queste

medesime cose continueranno a turbarmi la mente anche nel tempo a venire. Dove troverò più un

momento di oblio?‖

IL SOLE Lieh Tzu

Durante i suoi viaggi verso oriente, Confucio s‘imbatte in due ragazzi che discutevano. Ne

chiese il motivo, e uno di essi rispose: ―Io dico che il sole è più vicino a noi quando sorge e più

lontano a mezzogiorno.‖

―No‖ disse l‘altro. ―E più lontano da noi quando sorge, e più vicino a mezzogiorno.‖

Il primo ragazzo disse: ―Quando il sole sorge, è grande come il mantice di una carrozza. A

mezzogiorno, invece, ha le dimensioni di un piatto. E questo non accade, forse, perché ciò che è più

lontano è più piccolo e ciò che è più vicino è più grande?‖

Il secondo ragazzo disse: ―Quando il sole sorge è ancora freddo; a mezzogiorno, invece, è molto

caldo. E ciò non accade, forse, perché il calore si sente più da vicino che da lontano?‖

Quando Confucio ammise di non poter risolvere il problema, i due ragazzi dissero: ―Perché

dicono che siete tanto sapiente?‖

Il Regno Animale

IL TOPO FEDELE P‘u Sung-ling

Yang t‘ing-yi racconta di quella volta che vide due topi uscire all‘aperto e un serpente addentare

uno di essi. L‘altro topo, con gli occhi di fuori come grani di pepe, arretrò guatando con odio il

serpente. Questi inghiottì il topo che aveva addentato e strisciò verso la sua tana. Era già dentro per

più della metà, quando il secondo topo accorse velocissimo e gli piantò i denti nella coda. Furioso,

il serpente sgroppò fuori e il topo, agilissimo, volò in salvo in un lampo. Il serpente gli diede la

caccia, ma non riuscì a prenderlo e ritornò alla sua tana. Non aveva finito di entrarvi, che il topo già

gli addentava la coda di nuovo. E ogni volta che il serpente strisciava dentro, il topo colpiva; ogni

volta che veniva fuori, il topo fuggiva. Le cose andarono avanti così per un pezzo, finché il serpente

non ebbe sputato il topo morto. Allora il secondo topo si avvicinò al suo amico e lo pianse. Poi,

squittendo tristemente, prese su il cadavere con la bocca e se lo portò via. Il mio amico Chang Li-yu

scrisse una poesia in suo onore, intitolata: Il topo fedele.

IL CANE DEVOTO Fu Sung-ling

Un uomo, entrato in conflitto con la legge, stava per essere giustiziato. Suo figlio radunò allora

tutti i risparmi della famiglia — un centinaio di pezzi d‘argento — per poter presentare il caso, in

appello, al governatore. Quando fu salito sull‘asino e si fu avviato verso la capitale, il suo cane nero

si mise a seguirlo. Il figlio gli urlò di andarsene a casa, ma nel momento stesso in cui si rimise in

cammino, di nuovo il cane lo seguì. Perfino dopo essere stato frustato, il cane ciondolò un poco

attorno, poi riprese a camminare a fianco dell‘asino.

Uomo, asino e cane erano andati avanti così per una dozzina di miglia, quando il figlio smontò di

sella e corse ad appartarsi a lato della strada, per una certa urgenza fisiologica. Ciò fatto, prese a

tirare sassi al cane, finché la bestia fu costretta a fuggire per salvarsi la vita. Una volta liberi, l‘uomo

e il suo asino ripartirono di buon passo, ma all‘improvviso il cane ricomparve. Ansimando così forte

che i suoi fianchi sembravano un mantice in azione, il cagnolino cercò di addentare la coda e i

garretti dell‘asino e l‘uomo, incollerito, lo colpì con la frusta. La bestiola, uggiolando di dolore,

corse avanti e saltò al muso del somaro cercando di morderlo, come se volesse a ogni costo

impedirgli di procedere.

Più arrabbiato che mai, l‘uomo voltò l‘asino e rifece la strada già fatta, inseguendo il cane che

correva avanti. Quando il cane lo ebbe distanziato di un bel tratto, l‘uomo voltò di nuovo l‘asino e

galoppò verso la capitale.

Quando arrivò era già notte. Palpò la borsa che aveva al fianco e si accorse che metà del denaro

era scomparsa. Allora cominciò a sudar freddo ed era così sconvolto da non riuscire a connettere.

Per tutta la notte si voltò e si rigirò finché fu colpito da un pensiero improvviso: tutto quell‘agitarsi

del cane, forse, non era stato senza motivo.

Dovette aspettare l‘alba prima che si aprissero le porte della città. Allora tornò indietro lungo la

via dalla quale era venuto, scrutando attentamente il terreno in cerca dei suoi soldi. I viandanti, per

la via, erano fitti come formiche, ma c‘era ancora un filo di speranza di ritrovare l‘argento.

L‘uomo arrivò a quel punto della strada dove era smontato dall‘asino per le sue necessità: e là,

fra l‘erba alta, vide il corpo inanimato del suo cane, con la pelliccia così imbevuta ili sudore da

sembrare che avesse appena fatto il bagno. I.‗uomo sollevò la testa della bestiola, e l‘argento era lì,

intatto, sotto i suoi occhi.

Commosso dalla devozione del suo cane, l‘uomo comprò una piccola bara e lo seppellì. Il luogo

è conosciuto tuttora come la Tomba del Cane Devoto.

IL CANE RICONOSCENTE Hsù Fang

Sul finire dell‘anno, un viaggiatore cavalcava verso casa di ritorno da un viaggio d‘affari, con

cinque o seicento pezzi d‘argento nella borsa. Giunto nella contea di Chungmou, smontò dal suo

mulo e sedette sul ciglio della strada per riposarsi. Poco dopo giunse un giovane che portava un

lungo bastone sul quale era legato un cane, e sedette accanto a lui.

Il cane uggiolava pietosamente, rivolto verso il viaggiatore, come per implorare di essere

liberato; allora il viaggiatore comperò il cane dal giovanotto e lo rimise in libertà. Il giovane,

frattanto, aveva notato la borsa ben ricolma del mercante, e quando questi riprese il cammino lo

seguì pazientemente fino a un luogo deserto, lo aggredì e lo percosse a morte con il suo bastone. Poi

trascinò il corpo fino a un ponticello che attraversava un fiumiciattolo, coprì il cadavere con sabbia

e giunchi, si mise la borsa in spalla e se ne andò.

Vedendo lo straniero morto, il cane si tenne accuratamente fuori di vista, ma poi seguì il giovane

fino a casa. Prese mentalmente nota del luogo, quindi si avviò verso la città e corse per tutta la

strada fino al tribunale della contea. Proprio allora il giudice stava aprendo le sessioni della giornata

e i funzionari addetti al cerimoniale se ne stavano al loro pollò sto, rigidi e severi. Il cane corse

verso di essi e si mise a fare un gran chiasso, ora uggiolando ora abbaiando in tono implorante. Non

ci fu modo di allontanarlo.

―Qual è il motivo delle tue lagnanze?‖ chiese il giudice. ―Ordinerò a un funzionario di seguirti.‖

Il cane guidò il funzionario al ponticello dov‘era nascosto il corpo del viaggiatore, poi si mise ad

abbaiare in direzione dell‘acqua. Il funzionario sollevò i giunchi e scoprì il cadavere. Allora tornò

indietro e riferì tutto al giudice, ma purtroppo non v‘era alcun indizio per scoprire il colpevole. Ed

ecco che anche il cane tornò e ricominciò ad abbaiare e a scagliarsi di qua e di là senza pace.

―Forse tu sai chi è l‘assassino?‖ chiese il giudice. ―Bene, i miei agenti ti seguiranno di nuovo.‖

Questa volta il giudice mandò parecchi uomini dietro al cane. Essi lo seguirono per sette o otto

miglia, finché giunsero a una casa, in un remoto villaggio. Il cane entrò, balzò sul giovanotto che vi

si trovava e lo attaccò selvaggiamente, strappandogli le vesti e graffiandolo a sangue. Gli agenti

trascinarono l‘uomo in tribunale, dove egli confessò e fornì tutti i dettagli del suo crimine.

―Le monete d‘argento del mercante ci sono ancora tutte‖ disse il giovane. Gli agenti tornarono a

casa sua per prendere il denaro e nella borsa del mercante si trovò anche un documento con il suo

nome e il suo indirizzo.

Il giudice pronunziò la sentenza di condanna per il giovane e la borsa del mercante fu consegnata

all‘erario. Di nuovo il cane si piantò davanti al giudice e ricominciò ad abbaiare senza sosta. Il

giudice rifletté: ―Se il mercante è morto, la sua famiglia sarà pur viva e la borsa le appartiene.

Dev‘essere per questo che il cane abbaia.‖ E subito mandò i suoi uomini al villaggio dell‘ucciso.

Questa volta fu il cane a seguirli.

I familiari del mercante furono terribilmente colpiti dalla notizia della sua morte. Il figlio del

mercante tornò indietro con gli agenti a Chungmou, dove il colpevole era già morto in prigione. Il

giudice prese la borsa delle monete d‘argento, la controllò con cura e la consegnò al figlio del

mercante ucciso.

II cane, che aveva seguito il figlio a Chungmou, tornò indietro con lui e con il feretro del

mercante, che fu scortato fino a casa. Per tutte le centinaia di miglia che percorsero, l‘animale si

comportò come un uomo.

LA TIGRE PENTITA DI CHAOCH’ENG P‘u Sung-ling

Una donna di Chaoch‘eng, già più che settantenne, aveva un unico figlio. Un giorno egli andò

sulle montagne e fu divorato da una tigre; allora la vecchia, così afflitta da non voler più vivere,

andò a lamentarsi con alte grida presso le autorità locali.

―Come può una tigre essere soggetta alla legge?‖ disse il magistrato sorridendo. A queste parole

la donna s‘infuriò anche di più; e quando il magistrato la rimproverò, non si lasciò intimidire.

Impietosito, l‘alto funzionario trattenne la propria collera e infine acconsentì a far arrestare la belva.

La donna s‘inginocchiò davanti al magistrato per ringraziarlo, ma si rifiutò di andarsene prima

che il mandato d‘arresto fosse spiccato effettivamente. Il magistrato cercò un volontario fra i suoi

subalterni, per mandarlo a effettuare l‘arresto, e Li Neng, un agente che in quel momento era del

tutto ubriaco, si fece avanti e prese il mandato. La donna, allora, se ne andò soddisfatta.

Li Neng, passata la sbornia, rimpianse amaramente il proprio gesto. Il mandato, si disse, era stato

sicuramente un trucco per ottenere che la vecchia smettesse di far confusione; quindi tornò indietro

e lo riconsegnò al magistrato. Ma questi gli disse, molto severamente: ―Hai dato la tua parola! Non

accetterò che tu cambi idea.‖

Messo alle strette, Li Neng chiese un altro mandato per poter reclutare dei cacciatori e il

magistrato glielo accordò.

Giorno e notte Li Neng perlustrò con i suoi uomini le caverne della montagna, in cerca della

tigre; e poiché dopo un mese e più non l‘aveva ancora trovata, gli furono inflitte cento frustate. Non

sapendo a chi rivolgersi per avere giustizia, Li Neng si presentò a un tempio, a est della città,

s‘inginocchiò e invocò la divinità locale, gridando finché non ebbe più voce.

Ed ecco che sopraggiunse una tigre. Li Neng, agghiacciato, pensò che fosse giunta la sua ultima

ora; ma la tigre, fissando il poliziotto, si accovacciò sulla soglia. Li Neng le si rivolse con il

massimo rispetto: ―Mi dispiace, ma se siete stata voi a uccidere il figlio di quella donna, sono

costretto ad arrestarvi.‖ Ciò detto, prese una corda e la legò attorno al collo della tigre. La tigre lo

lasciò fare, anzi abbassò le orecchie per facilitargli il compito, e il poliziotto la condusse dal

magistrato. Il magistrato chiese alla tigre: ―Il figlio di quella donna, lo hai mangiato tu?‖

La tigre annuì.

―Chi toglie la vita ad altri, deve morire‖ proseguì il magistrato. ―È una legge antichissima.

D‘altronde, la poveretta aveva quell‘unico figlio! Chi provvederà a lei, negli anni che le restano da

vivere?… Facciamo così: se ti senti in grado di fare le veci del figlio, ti risparmierò.‖

Di nuovo la tigre annuì. Così le tolsero la corda dal collo e la lasciarono andare, benché la

vecchia fosse molto contrariata di non vederle pagare il suo crimine con la vita.

Quando spuntò l‘alba del giorno successivo, la vecchia aprì la porta di casa e trovò sulla soglia il

corpo di un daino appena ucciso. Lo prese, lo vendette e poté fare la spesa per la giornata. Lo stesso

accadde il giorno dopo, e così via, finché non divenne un‘abitudine: salvo che a volte la tigre

portava addirittura del denaro, o lasciava nel cortile una pezza di seta. In questo modo la donna se la

cavò piuttosto bene; molto meglio, anzi, di quando era vivo suo figlio. Con l‘andar del tempo, sentì

sempre più forte la gratitudine per la bontà della tigre; tanto che la belva finì per trascorrere da lei

giornate intere, sdraiata all‘ombra del cornicione della sua casa; e né la gente né il bestiame del

vicinato ne avevano più paura.

Trascorsero anni. Quando la donna morì, si udì mugghiare la tigre nell‘atrio della sua casa. I

parenti, poiché ella aveva messo da parte abbastanza denaro per un funerale solenne, si occuparono

della sua sepoltura. La tomba era stata appena completata, quando all‘improvviso si fece avanti la

tigre. I parenti in lutto fuggirono a gambe levate; la tigre puntò dritta verso la tomba, emise una

lunga serie di ruggiti che rimbombarono come tuoni e finalmente se ne andò.

La gente del luogo eresse un tempietto in onore della belva leale, presso i sobborghi orientali

della città, dove si trova tuttora.

I RAGAZZI-TIGRE Hsù Fang

In tempi non lontani, il mio villaggio fu infestato dalle tigri, che mangiarono più persone di

quante voi potreste contarne. Per la verità, in quasi tutta la Cina i viaggiatori furono afflitti dalla

stessa piaga. Secondo alcuni, le tigri erano emissari del Cielo, mandati a dar la caccia a quanti erano

sfuggiti alla morte violenta prestabilita per loro. Secondo altri, erano invece incarnazioni di diavoli,

o di spiriti vendicativi, perturbati e frustrati. In entrambe le versioni, può esserci un po‘ di verità; il

caso più straordinario, a ogni modo, fu quello del Vecchio Huang.

Il Vecchio Huang era di Mihsi, a parecchie miglia dalla città di Chiao. Egli aveva tre figli ormai

grandi. Un certo anno, in primavera, li mandò ad arare i suoi campi sulle colline, e per diversi giorni

essi partirono al sorger del sole e tornarono al crepuscolo. Una sera un vicino disse al Vecchio

Huang: ―I vostri campi sono invasi dalle erbacce.‖

―E come può essere?‖ rispose il Vecchio Huang. ―I miei figli li arano ogni giorno!‖

―Ho paura di no‖ replicò il vicino.

Perplesso, il giorno dopo il vecchio seguì di nascosto i tre figli. Li vide entrare nei boschi delle

colline, togliersi i vestiti, e appenderli ai rami di un albero; dopodiché, si tramutarono in tigri, e

ruggendo e saltando uscirono dal bosco.

Il vecchio Huang era terrificato. Tornò di corsa al villaggio, confidò al suo vicino quanto aveva

visto, quindi andò a nascondersi in casa e sprangò la porta.

Quella sera, al loro ritorno, i tre figli bussarono lungamente, ma nessuno rispose. Finalmente

venne fuori il vicino e disse ai tre ragazzi che il loro padre non li riconosceva più come figli, per via

di quanto aveva visto sulle colline.

―Ciò che ha visto è vero,‖ ammisero i ragazzi ―ma non dipende dalla nostra volontà, bensì da

quella dell‘Altissimo che è nei cieli.‖ E si misero a invocare il padre.

―Come potremmo‖ disse uno di loro ―non ripagarvi della vostra immensa generosità? Noi siamo

desolati, poiché una grande calamità vi è stata destinata da lungo tempo. Nei giorni scorsi abbiamo

frugato le colline, sperando di trovare qualcuno che potesse prendere il vostro posto! Ma anche

adesso che ci avete scoperti, non possiamo disobbedire agli ordini. Nel collare del mio vestito ce un

libriccino: prendetelo e datemelo, padre, altrimenti sarete perduto e la responsabilità della vostra

morte ricadrà su di noi.‖

Il Vecchio Huang prese una lanterna, frugò nel collare e trovò il libriccino. Vi erano scritti i nomi

di tutti gli abitanti di Chiao che erano stati uccisi dalle tigri. Il suo nome era il secondo a partire

dall‘alto.

―Che cosa possiamo fare?‖ chiese l‘uomo.

―Aprite soltanto la porta‖ dissero i ragazzi. ―Noi abbiamo pensato a una soluzione.‖

Il vecchio Huang aprì. I ragazzi presero il libriccino e piangendo s‘inchinarono al padre. Poi

dissero: ‗Tutto questo accade in conformità con i decreti dell‘Altissimo che è nei cieli. Ora

indossate molti abiti uno sull‘altro, senza allacciare la cintura. Poi incollate su tutto della carta

spessa e robusta, inginocchiatevi e pregate con fervore. Penseremo noi un modo per salvarvi.―

Il Vecchio Huang fece come gli era stato detto. I suoi tre figlioli gli balzarono addosso

prendendolo alle spalle, ciascuna tigre lacerò uno strato di vestiti, poi tutte e tre fuggirono via

ruggendo spaventosamente e non tornarono mai più. Il vecchio è vivo tuttora.

Fin dai tempi antichi si sono avuti molti casi di uomini trasformati in tigri. Indubbiamente, le

loro pelli e le loro facce si trasformavano; ma non si era mai udito di tigri che restassero tra gli

uomini, come fecero quei tre ragazzi. D‘altronde, poiché l‘Altissimo che è nei Cieli li aveva

incaricati di uccidere parecchi uomini, e aveva messo nella lista il loro stesso padre, i figli vennero a

trovarsi in una situazione estremamente difficile; e dal momento che non riuscirono a trovare un

sostituto per il loro genitore, gli salvarono la vita con un ingegnoso espediente. Possiamo dire che

essi subirono un mutamento di forma, non di cuore.

Il mondo è pieno di persone che appaiono umane, e tuttavia non riconoscono il loro re o il loro

padre, avendoli davanti agli occhi. Che cosa pensare, allora, di quelli che divennero tigri e tuttavia

si conservarono riconoscenti del bene ricevuto?

Come poté accadere, poi, che l‘Altissimo includesse il padre dei tre ragazzi nella lista delle loro

vittime, è cosa che va al di là della mia comprensione.

L’ESCA UMANA Yuan Mei

Hsù Shan-ken della provincia di Shantung si guadagnava da vivere scavando radici di ginseng,

dalle quali si ricava un prezioso tonico. È tradizione che i cercatori di ginseng facciano il loro

lavoro durante le notti più oscure; e appunto in una di quelle notti Hsù si stancò di cercare, si distese

sul terreno sabbioso e si addormentò. Quando si svegliò, si trovò stretto nella mano di un gigante

alto circa dieci metri e tutto coperto di pelame rosso. Il gigante se lo stava strofinando contro la

pelliccia, come fosse stato una perla o un pezzo di giada; e a ogni lisciata scoppiava in una risata

selvaggia. Hsù ebbe l‘assoluta certezza che la strana creatura, di lì a momenti, avrebbe fatto di lui

un solo boccone.

Si sentì sollevare e trasportare. Il gigante lo portò in una caverna dove erano ammucchiati oggetti

disparati, come nervi di tigre, code di cervo e zanne di elefante, lo depose su un giaciglio di pietra e

gli offrì carne di tigre e di cervo. Il cercatore di ginseng, benché lieto di scoprire che non stava per

essere trangugiato lui stesso, non se la sentì di mangiare quei pezzi di carne sanguinolenta. Il

gigante chinò il capo, rifletté, poi annuì come se avesse capito. Strofinò una pietra e accese un

fuoco, andò a prendere l‘acqua e ne mise a bollire una pentola. Poi tagliò a pezzetti la carne,

l‘aggiunse all‘acqua, e quando la pietanza fu pronta la presentò a Hsù, che la mangiò di gran gusto.

All‘approssimarsi dell‘alba, il gigante prese Hsù e alcune frecce e uscì dalla caverna. Là, alla

base della roccia, legò Hsù a un albero, quindi si allontanò, lasciando il cercatore di ginseng

atterrito all‘idea che il gigante avesse intenzione di tirargli addosso. Di lì a poco un branco di tigri,

annusando odore d‘uomo vivo, venne fuori dalle caverne della roccia; e mentre esse si spingevano e

si urtavano luna con l‘altra, nella fretta di arrivare a prendere Hsù, il gigante scoccò le sue frecce e

le uccise. Poi slegò Hsù,lo prese in braccio e lo portò a casa, trascinandosi dietro le tigri uccise.

Come la prima volta, cucinò le carni e le offrì al suo prigioniero.

Per oltre un mese Hsù stette al servizio del gigante, come esca per le tigri. A Hsù non ne venne

alcun danno e il gigante s‘ingrassò. Ma un giorno Hsù fu colto dalla nostalgia. S‘inginocchiò

davanti al gigante e, con le lacrime agli occhi, lo implorò indicando ripetutamente in direzione del

suo villaggio. Piangendo a sua volta, il gigante lo prese in braccio e lo riportò nel posto preciso in

cui lo aveva catturato. Poi mostrò a Hsù la strada per tornare a casa e gl‘indicò una quantità di posti

dove cresceva ginseng di prima scelta. E fu esattamente così che Hsù Shan-ken diventò ricco.

ROSPI ERUDITI E FORMICHE MARZIALI Yuan Mei

Quando ero giovane e vivevo nel Vicolo delle Palme, vidi un mendicante che portava un sacco di

tela e due grosse canne di bambù. Nel sacco teneva nove rospi; nei tubi, più di un migliaio di

formiche, alcune rosse e alcune bianche. Egli entrava in un negozio, esibiva i suoi ―numeri‖ sul

banco, poi chiedeva tre monetine di rame e se ne andava.

Uno di quei ―numeri‖ s‘intitolava ―Il Rospo maestro di scuola‖. Il mendicante poneva sul banco

una seggiolina, e subito un grosso rospo saltava fuori dal sacco e andava a sedervisi. Uscivano poi

otto rospi più piccoli e si disponevano in cerchio attorno alla seggiolina, sedendo perfettamente

immobili. ―Fai la tua lezione!‖ ordinava il mendicante. E subito il grosso rospo si metteva a

gracidare: ―Ghe-ghek!‖ E la classe ripeteva all‘unisono: ―Ghe-ghek!‖ Dopodiché non si sentiva

altro che ―ghe-ghek! ghe-ghek!‖ finché alla gente cominciavano a fischiare gli orecchi. Allora il

mendicante gridava: ―Basta!‖ E subito si faceva silenzio.

Un altro trucco aveva per titolo: ―Formiche in formazione da battaglia‖. Il mendicante aveva due

bandiere, una rossa e una bianca, ciascuna lunga una trentina di centimetri. Egli vuotava sul banco

le canne di bambù e le formiche rosse e le bianche si mettevano a correre per tutto il ripiano finché

il mendicante non agitava la bandierina rossa. ―Formate i ranghi!‖ gridava. E le formiche rosse si

mettevano in riga. Poi egli agitava la bandiera bianca e gridava ancora ―Formate i ranghi!‖ E si

mettevano in riga le formiche bianche. Allora il mendicante agitava le due bandiere

contemporaneamente, e gridava: ―Formazione mista!‖ E le formiche si mescolavano e si mettevano

a marciare, girando a destra e a sinistra e tenendo il passo in modo perfetto. Dopo aver fatto diversi

giri, sempre marciando rientravano nelle canne di bambù.

Ciò dimostra che perfino alle piccole creature senza parola, come i rospi e le formiche, si può

insegnare qualcosa; benché, a dire il vero, io non riesca a immaginare come.

L’UOMO DEI SERPENTI P‘u Sung-ling

Un uomo della provincia che oggi si chiama Hopei si guadagnava la vita addomesticando

serpenti e insegnando loro alcuni trucchi. Una volta egli allevò e addestrò due serpenti neri; il più

grosso lo chiamò Gran Nero; il più piccolo, Fratello Nero. Fratello Nero, che aveva delle

macchioline rosse sulla fronte, era molto svelto nell‘apprendere i trucchi. Le sue torsioni e i suoi

avvolgimenti erano perfetti, e l‘uomo dei serpenti lo apprezzava più di ogni altro serpente che

avesse mai avuto.

Dopo un anno, Gran Nero morì. L‘uomo dei serpenti decise di rimpiazzarlo, ma non ne aveva

ancora trovato il tempo, quando una sera gli accadde di cercar riparo in un tempio di montagna. Alle

prime luci dell‘alba si svegliò, aprì il cesto dei serpenti e vide che Fratello Nero era scomparso.

Chiamandolo disperatamente, si mise a cercarlo nella luce ancora incerta, ma non ne trovò

nemmeno la traccia.

In passato, ogni volta che l‘uomo dei serpenti si era trovato ad attraversare un boschetto o una

foresta, si era fermato e aveva lasciato libero Fratello Nero, perché potesse divertirsi un poco

all‘aperto. Fratello Nero era sempre ritornato; così, l‘uomo dei serpenti aveva buoni motivi per

sperare che tornasse anche questa volta. Sedette dunque ad aspettarlo; ma quando il sole fu alto nel

cielo, perse la speranza e riprese il cammino.

Si era già allontanato di parecchi metri dal tempio, quando udì un fruscio nel folto del boschetto.

Stupito si fermò, tornò indietro, e vide Fratello Nero! L‘uomo dei serpenti provò tanta gioia, come

se avesse recuperato un gioiello d‘inestimabile valore. Alla svolta della strada si fermò a riposare e

anche il serpente si fermò. Quando l‘uomo guardò di nuovo, vide un serpentello che seguiva

Fratello Nero.

―Credevo di averti perduto‖ disse l‘uomo dei serpenti accarezzando Fratello Nero. ―Vuoi forse

presentarmi il tuo piccolo amico?‖ Poi tirò fuori del cibo, per Fratello Nero e per il suo compagno.

Il serpentello si arrotolò, troppo selvatico e timido per mangiare; allora Fratello Nero lo imboccò

premurosamente, servendolo per primo come si fa con gli ospiti. L‘uomo dei serpenti diede altro

cibo al serpentello, che questa volta mangiò da sé. Finito il pasto, il piccolo serpente seguì Fratello

Nero nella cesta.

Quando il nuovo venuto cominciò a imparare i trucchi, si vide che li eseguiva alla perfezione,

proprio come Fratello Nero; così, l‘uomo dei serpenti lo battezzò Piccolo Nero. Egli fece le sue

esibizioni per tutto il paese e ne ricavò un buon guadagno.

Di regola, gli uomini che addestrano serpenti sono costretti a liberarsene appena superano i

sessanta centimetri di lunghezza, poiché pesano troppo per essere trasportati a mano. Ma Fratello

Nero era così domestico, che l‘uomo dei serpenti lo tenne con sé anche quando fu cresciuto oltre il

limite consueto. Tuttavia, dopo un altro paio d‘anni, quando il serpente ebbe raggiunto i novanta

centimetri di lunghezza e occupava da solo tutto il cesto, l‘uomo dei serpenti decise che era tempo

di lasciarlo andare.

Un giorno, giunto sulle colline orientali della regione che oggi si chiama Tsinan, presentò a

Fratello Nero un pasto speciale, poi gli diede la sua benedizione e lo liberò. Il serpente si allontanò

per un tratto, poi tornò indietro e si arrotolò attorno al cesto. L‘uomo dei serpenti lo cacciò via.

―Vattene‖ disse. ―Nessuna festa dura per sempre, ed è necessario che anche gli amici migliori se

ne vadano. Ritirati nella valle e vedrai che presto diventerai un drago divino. Non vorrai rimanere

per sempre dentro una cesta!‖

Fratello Nero strisciò via di nuovo e l‘uomo dei serpenti rimase a guardarlo per lungo tempo. Ma

ancora una volta il serpente ritornò; e quando l‘uomo dei serpenti cercò di scacciarlo a pedate,

rifiutò di andarsene e prese a battere la testa contro il cesto. Piccolo Nero, all‘interno, cominciò ad

agitarsi. L‘uomo dei serpenti pensò che Fratello Nero volesse dire addio a Piccolo Nero; aprì la

cesta e Piccolo Nero venne fuori e si attorcigliò attorno a Fratello Nero. Le loro linguette

guizzavano come se stessero parlando fra di loro; poi i due serpenti si allontanarono insieme,

tranquilli e spensierati. L‘uomo pensò che Piccolo Nero non sarebbe più ritornato; ma dopo un po‘

di tempo lo vide avvicinarsi ondulando fra l‘erba con una certa aria imbronciata e strisciare di

nuovo dentro il cesto.

L‘uomo dei serpenti non trovò mai più un esemplare perfetto come Fratello Nero; e col passare

del tempo anche Piccolo Nero diventò troppo grosso e scomodo da trasportare. L‘uomo comprò un

altro serpente, che era già abbastanza addomesticato, ma non certo pari a Piccolo Nero, che a quel

tempo aveva lo spessore del braccio di un bambino.

Fratello Nero, intanto, viveva sulle colline; si era allungato molto e la sua circonferenza era

ormai pari a quella di una ciotola. Ben presto cominciò a dar la caccia alla gente. I viaggiatori si

mettevano sull‘avviso l‘uno con l‘altro e nessuno osava più entrare nel territorio del serpente.

Un giorno, mentre l‘uomo dei serpenti stava attraversando le colline, un grosso rettile gli si

avventò contro. L‘uomo fuggì terrorizzato. Il serpente lo inseguì ed era sul punto di raggiungerlo

quando l‘uomo, voltandosi, riconobbe le macchioline rosse sulla sua fronte.

―Fratello Nero! Fratello Nero!‖ gridò, deponendo il suo bagaglio. Subito il serpente si fermò,

drizzò la testa e dopo lunghi istanti d‘immobilità si avvolse tutto attorno all‘uomo, come era solito

fare quando lavoravano insieme. L‘uomo si rese conto che il serpente non intendeva fargli male, ma

era ormai così grosso e pesante che lo fece cadere a terra. Allora lo pregò di liberarlo dalla sua

stretta e il serpente, srotolatosi da lui, andò a bussare alla cesta. L‘uomo comprese il desiderio di

Fratello Nero e fece venir fuori Piccolo Nero.

Appena i due serpenti si riconobbero, si attorcigliarono strettamente l‘uno all‘altro, e dopo essere

rimasti così per un bel po‘ di tempo si sciolsero. L‘uomo diede la sua benedizione a Piccolo Nero.

―Da un pezzo avevo deciso di lasciarti andare‖ disse. ―Ora hai un compagno, dunque vai.‖ E a

Fratello Nero disse: ―Fosti tu a portarmi Piccolo Nero; ora puoi riprenderlo con te. Ma senti ancora

una parola: su queste colline hai cibo in abbondanza; non importunare più i viaggiatori e non

attirare su di te la punizione del cielo.‖

I due serpenti chinarono la testa, come per dimostrare che accettavano la predica; poi si

drizzarono e si avviarono, il più anziano avanti, il più giovane dietro. Dove passavano, i ramoscelli

si spezzavano sotto il loro peso.

L‘uomo dei serpenti rimase a guardarli finché non furono scomparsi alla sua vista, poi riprese il

cammino. Nessuno seppe mai dove se ne andarono Fratello Nero e Piccolo Nero, ma i viaggiatori

non furono più importunati.

II serpente, creatura priva della parola, dimostra affetto e lealtà verso l‘amico. E apprende,

inoltre, con facilità. Quanto sorprende, per contrasto, colui che ha sembianze umane, eppure non

esita a gettar via un‘antica amicizia o rinnega un principe che ha favorito la sua famiglia per

generazioni; colui che getta sassi a un infelice caduto nel pozzo o si fa nemico di chi gli diede buoni

consigli.

IL LUPO DEL NORD Ma Chung-hsi

Chien tzu, il famoso principe di Chao, guidava la grande caccia nella regione nordorientale di

questo stato.

Il guardiacaccia reale andava avanti, falchi e cani lo seguivano in bell‘ordine. Senza numero

erano gli uccelli e le fiere che cadevano, al sibilare delle corde degli archi.

Ed ecco che un lupo sbarrò loro la strada. Stava ritto sulle zampe posteriori come un umano,

ululando paurosamente. Con calma e sicurezza, Chien Tzu scese dal cocchio, impugnò il suo

splendido arco e v‘incoccò una freccia di prima qualità, fatta con grande maestria nelle tribù

straniere del nord; quindi tirò, e la freccia affondò nelle carni del lupo. Con un lamento rauco, il

lupo fuggì. Indispettito, Chien Tzu ordinò ai suoi carri di inseguirlo. I carri sollevarono tanta

polvere da coprire il cielo e lo scalpitare dei cavalli rimbombò come il tuono. A dieci passi di

distanza non si distinguevano gli uomini dalle cavalcature.

Ora accadde che un letterato di nome Tung-kuo fosse in viaggio da quelle parti, diretto verso le

terre del Nord, dove intendeva cercare un impiego pubblico. Il signor Tung-kuo era un seguace

della dottrina di Mo, che predicava l‘amore universale. Spronando un mesto somaro, la borsa carica

di ogni sorta di libri, egli aveva trottato fin dalle prime luci dell‘alba e aveva finito col perdere la

strada. Quando vide levarsi tutto quel polverone, si spaventò.

E tutta un tratto, ecco arrivare il lupo. La bestia allungò il collo, fissò il signor Tung-kuo con uno

sguardo penetrante e disse: ―Io credo, messere, che vi siate consacrato alla salvezza di tutti gli esseri

viventi. Nei tempi antichi Mao Pao liberò una tartaruga, che in seguito lo portò in salvo attraverso

un fiume, e il marchese di Sui diede aiuto a un serpente, che più tardi gli fece dono di una perla

preziosissima. Ora, chi metterebbe in dubbio che un lupo sia in grado di fare miracoli ben maggiori

che non una tartaruga o un serpente? Perciò, date le circostanza, non potreste lasciarmi nascondere

nella vostra sacca da viaggio, così che mi duri più a lungo il poco fiato che mi resta? Se mai un

giorno avrò fortuna in questo mondo, farò di tutto – non meno della tartaruga o del serpente – per

ripagare la vostra bontà di avermi salvato da morte certa e di avermi aiutato a conservare la pelle

sulle ossa.‖

―Ahimè‖ disse il letterato. ―Se per mostrarti premura offenderò un alto ministro come Chien Tzu,

facendomi beffe tanto della sua autorità quanto del suo rango, non puoi neanche immaginare in che

guai mi troverò! Conta ben poco, che tu mi ricompensi o meno. Tuttavia, l‘amore universale è

davvero il fondamento della nostra dottrina moista; perciò, tutto considerato, devo assolutamente

salvarti la vita. Accada ciò che può accadere, non posso schivare questa responsabilità.‖

Il signor Tung-kuo tolse i libri della sacca e quando l‘ebbe vuotata si accinse a introdurvi il lupo.

Era così preoccupato e guardingo, che inciampò sui suoi stessi piedi, rischiò di calpestare il collo

del lupo e poi stentò parecchio a far entrare la bestia nella sacca. Dopo innumerevoli sforzi, era al

punto di prima. Allora si mise a camminare avanti e indietro, impensierito, mentre i cacciatori si

avvicinavano sempre più.

―La situazione è grave‖ disse il lupo. ―Messere, non fate come chi pensa alle formalità mentre un

uomo sta affogando, o come chi chiude la stalla quando i buoi sono fuggiti. Cercate di trovare un

rimedio piuttosto in fretta!‖

Il letterato unì le quattro zampe del lupo, tirò fuori una corda e le legò strettamente; poi spinse in

giù la testa dell‘animale, finché non l‘ebbe portata a toccare la coda. Con la spina dorsale

scricchiolante, raccolto su se stesso come un porcospino, arrotolato come un bruco, respirando

appena come una tartaruga, il lupo abbandonò il proprio destino al letterato.

Come richiestogli, il signor Tung-kuo mise il lupo nella sacca, ne chiuse strettamente l‘apertura e

la caricò sull‘asino. Quindi spostò l‘asino sul ciglio della strada, lasciando il passo ai cacciatori.

Di lì a un momento Chien Tzu arrivò, in grandissima collera per non aver ancora trovato il lupo.

Con un colpo di spada mozzò l‘estremità del timone del cocchio e disse: ―Farò lo stesso a chiunque

mi nasconderà dov‘è andato il lupo!‖

Il letterato si accasciò a terra in atteggiamento di penitenza e strisciò sulle mani e sulle ginocchia

verso Chien Tzu. Poi, sempre inginocchiato, sollevò il capo e disse: ―La mia insignificante e inetta

persona, abbastanza imprudente da venire in queste lande remote escluse da ogni mondana

ambizione, ha perduto la strada. In che modo dunque, potrei mettere Vostro Onore sulle tracce del

lupo, affinché possiate mandargli contro i vostri falchi e i vostri cani? E inoltre, c‘è un detto: ‗La

Grande Via ha molte strade laterali, per le quali può perdersi la tua pecorella.‘ Anche un animale

come la pecora, così mite che persino un fanciullo sa badarle, può perdersi per le strade secondarie.

Quanto diversa è la pecora dal lupo! E i sentieri per i quali ci si può perdere sono innumerevoli, in

queste terre del Nord. Se nella vostra ricerca seguite la strada principale, ciò non somiglia forse alla

follia di quel contadino appostato dietro l‘albero, in attesa che la lepre si ammazzi da sé? O di

quell‘altro, che cercava di prendere pesci arrampicandosi sugli alberi? A ogni modo, cacciare è

compito del vostro guardiacaccia; Vostra Signoria dovrebbe interrogare i suoi stessi cacciatori:

perché sospettare di un viandante? D‘altronde, per quanto semplice e miserevole possa essere la mia

persona, conosco i lupi quanto chiunque altro. Essi sono sanguinari e crudeli per natura, non meno

feroci delle pantere. Mi spingerei in qualunque azione e vi offrirei ogni servigio possibile, pur di

aiutarvi a eliminarne uno! Come potete pensare che vi nasconderei dove si trova il lupo, se lo

sapessi?‖

Chien Tzu non disse niente; girò il carro e tornò indietro. Il signor Tung-kuo spronò l‘asino al

trotto. Passò parecchio tempo prima che gli alti vessilli della partita di caccia svanissero nella

distanza e si spegnesse del tutto lo strepito dei carri e dei cavalli. Il lupo, presupponendo che Chien

Tzu fosse ormai ben lontano, parlò dall‘interno della sacca.

―Non dimenticatevi di me, buon messere. Tiratemi fuori, slegatemi, e strappatemi la freccia dal

fianco. Poi me ne andrò.‖

Il signor Tung-kuo liberò il lupo. L‘animale emise un lungo urlo, poi disse al letterato: ―Pochi

minuti orsono i cacciatori m‘inseguivano a gran velocità e voi gentilmente mi salvaste la vita. Ma

ora sono affamato e se non mangio qualcosa morirò lo stesso. Sarebbe stato meglio essere

ammazzato dai cacciatori e onorare il vascello sacrificale di un nobiluomo, piuttosto che morire qui

sul ciglio della strada, e servire di pasto a qualche belva! Dal momento che siete uno di quei

generosi moisti che si consumerebbero fino all‘osso pur di recare un sia pur minimo beneficio a

questo mondo, perché non dovreste essere lieto di darmi il vostro corpo, affinché io possa mangiare

e salvarmi la vita?‖ Ciò detto schioccò le labbra, snudò gli unghioni e mosse verso il letterato.

Il signor Tung-kuo, colto dal panico, spinse via il lupo con le mani nude e quasi

contemporaneamente arretrò, cercando riparo dietro l‘asino; dopodiché, prese a girare piano piano

attorno a esso, per non essere raggiunto dal lupo. Il lupo non riuscì ad avere la meglio sul letterato,

ma il letterato impiegò tutte le sue energie per sfuggire al lupo. L‘uno e l‘altro, sfiniti dalla fatica,

ansimavano di qua e di là dall‘asino.

―Mi hai tradito‖ disse il letterato. ―Mi hai tradito!‖

―Non era mia intenzione, davvero,‖ disse il lupo. ―Il fatto è che il cielo ha creato la vostra specie

allo scopo di nutrire la mia.‖

Uomo e lupo si tennero a distanza per lungo tempo, finché il sole cominciò a declinare. Il

letterato fu colto da un pensiero nero: ―Si avvicina la notte! Se i lupi arrivano in branco, sarò

ucciso.‖ Allora, per ingannare il lupo, disse: ―Quando sorge una controversia, noi uomini usiamo

interpellare tre anziani. Andiamo a cercarli e sottoponiamo loro il nostro problema. Se saranno

d‘accordo con te nel dire che merito di essere mangiato, accetterò serenamente che tu mi divori; in

caso contrario, la questione è chiusa.‖

Il lupo fu soddisfatto della proposta e i due s‘incamminarono; ma andarono avanti per un bel

pezzo, e non incontrarono un solo viandante. Il lupo, che era sempre più affamato, d‘un tratto vide

un vecchio albero sul ciglio della strada e si fermò.

―Chiedete a lui‖ disse.

―Gli alberi non hanno intelligenza‖ disse il signor Tung-kuo. ―A che serve interrogare un

albero?‖

―Interrogate e basta‖ disse il lupo.― Potrebbe aver da dire qualcosa.‖

Non avendo scelta, il letterato presentò i suoi rispetti al vecchio albero e dopo avergli fornito un

completo resoconto della situazione, pose la domanda: ―Allora: ha forse diritto, il lupo, di

mangiarmi?‖

L‘albero stormì cupamente.

―Io sono un albicocco‖ disse. ―Anni orsono, quando il giardiniere mi piantò, non gli costai altro

che la fatica di fare una buca. In pochi anni fiorii. In un altro anno fruttificai. Tre anni dopo, ci

volevano due mani d‘uomo ben aperte per circondare il mio tronco; dieci anni dopo, ci volevano

due braccia d‘uomo tutte intere per abbracciarmi. Ora sono passati vent‘anni. Ho nutrito il

giardiniere. Ho nutrito sua moglie. Ho nutrito i suoi ospiti. E ho nutrito anche i suoi servi. Inoltre,

egli ha guadagnato bei soldi vendendo i miei frutti al mercato. Potete ben dire che ho reso un grosso

servigio! Ma ora sono vecchio, incapace di mettere fiori e formare frutti, così mi sono guadagnato il

malcontento del giardiniere. Egli mozza i miei rami e strappa le mie foglie e i miei ramoscelli; e so

che ha intenzione di vendermi al carpentiere, per il prezzo che vorrà pagargli. Oh, dèi! Vecchio e

inutile, non troverò clemenza che mi salvi dai colpi della scure. Quanto a voi, il favore che avete

reso al lupo non vi dà speranza di misericordia. Non c‘è dubbio, egli ha il diritto di mangiarvi.‖

Appena l‘albero ebbe espresso la sua opinione, il lupo cominciò di nuovo a schioccare le labbra e

a sfoderare gli unghioni, mentre muoveva verso il letterato.

―Stai rompendo il nostro accordo‖ disse il letterato. ―Dobbiamo interrogare tre anziani, e fin qui

non abbiamo incontrato che un albero di albicocche. Perché dovrei lasciarmi aggredire?‖

E così, uomo e lupo ripresero il cammino. Il lupo, più frustrato che mai, vide in distanza una

vecchia mucca che si crogiolava al sole presso un muro diroccato.

―Chiedi a quella vecchia lì‖ disse il lupo.

―L‘albicocco non aveva né buonsenso né intelligenza‖ disse il letterato ―e con le sue idee assurde

ha rovinato tutto. E quella lì è soltanto una bestia! Che cosa può dirci di più?‖

―Chiedete e basta‖ disse il lupo ―o vi mangio subito.‖

Non avendo scelta, il letterato presentò i suoi rispetti alla vecchia mucca e le raccontò la storia

dal principio alla fine. Dopodiché, pose la sua domanda.

La mucca corrugò la fronte, socchiuse gli occhi e si leccò il naso. Quindi aprì la bocca e disse al

letterato: ―L‘opinione del vecchio albicocco non è sbagliata. Quando le mie corna erano due acerbe

prominenze e i miei muscoli erano solidi e fermi, l‘agricoltore mi comprò per il prezzo di un

coltello e mi mise al lavoro con gli altri bovini nei suoi campi. Quando fui adulta, tutti i compiti

ricaddero sulle mie spalle perché gli altri, i buoi, diventavano ogni giorno più deboli. Ogni volta che

il padrone decideva di scapicollarsi in qualche luogo, io piegavo il collo al giogo, e via di corsa per

la strada. Ogni volta che decideva di arare, mi liberava dal giogo del carro, e avanti, passo passo,

fino al confine delle sue terre, a spazzar via rovi spinosi. Gli ero necessaria come le sue stesse mani!

A me doveva il suo principale sostentamento; grazie a me, poterono essere affrontate le spese delle

cerimonie nuziali, e pagate le tasse, e riempiti i granai. Voi penserete che mi spettasse almeno il

riparo di una stalla, come a un cavallo o a un cane!… Ai vecchi tempi, la famiglia non riusciva mai

a metter via più di una libbra di grano; ora ne hanno in serbo più di cento staia. Ai vecchi tempi,

erano troppo poveri perché la gente si accorgesse di loro; ora avanzano superbi fra le gente

importante del villaggio. Ai vecchi tempi, la povertà rendeva polverosi i loro caci e secche le lo-i o

labbra, perché mai nella vita si erano potuti permettere una caraffa di vino; ora fermentano vino di

miglio finissimo, possiedono una lussuosa brocca e si vantano di avere mogli e c oncubine. Ai

vecchi tempi, le loro vesti erano ruvide e corte ed essi non avevano altra compagnia che gli alberi e

le pietre. Le mani del padrone erano tanto poco avvezze ai saluti cerimoniali quanto la sua mente ad

apprendere. Ora sfoglia il sillabario, si pavoneggia con un cappello di bambù, porta cinture di cuoio

lavorato e indossa ampie vesti lunghe fino ai piedi. Ogni grano dei suoi granai, ogni filo dei suoi

vestiti, è fatica mia. E con gli anni che ho, ora m‘ingiuria, mi conduce per lande selvagge e deserte,

dove il vento gelido mi punge gli occhi. Nella fredda luce del giorno mi accora vedere la mia

ombra, così magra che le ossa sporgono come colline. E sono così vecchia che le mie lacrime

scorrono come la pioggia, e non riesco a trattenere la saliva. Le mie zampe sono troppo distorte per

reggermi; la mia pelle e il mio pelo sono tutti chiazzati. Le mie piaghe non si chiudono mai.

―La moglie del padrone, quella donna invidiosa e maligna, non fa che ripetere come la pensa.

‗Ogni parte del corpo di una mucca è utilizzabile‘ dice. ‗La carne si può disseccare e conservare; la

pelle va bene per farne cuoio; e perfino le ossa e le corna si possono lavorare per ricavarne utensili.‘

Poi si rivolge al figlio maggiore: ‗Tu che sei stato apprendista per anni presso i più abili macellai,‘

dice che ne diresti di affilare il tuo coltello e far fuori quella mucca?‘ Da questi segni non posso

aspettarmi niente di buono. Chissà dove andrò a giacere per sempre! Anche se il mio credito è

grande, essi hanno il cuore così duro che già sento arrivare la mia fine. Quanto a voi, quale favore

avete mai reso al lupo da aspettarvi clemenza?‖

Appena la mucca ebbe espresso la sua opinione, di nuovo il lupo schioccò le labbra, sfoderò gli

unghioni e mosse verso il letterato.

―Un momento!‖ disse Tung-kuo. Un vecchio si avvicinava, appoggiandosi a un bastone. La sua

barba e le sue sopracciglia erano bianche come la neve; le sue vesti, trasandate ma eleganti.

Sembrava una persona colta, un sapiente del Tao. Tutto, contento, il signor Tung-kuo andò incontro

al vecchio, s‘inginocchiò rispettosamente dinnanzi a lui e piangendo gli narrò il suo caso.

―Io vi chiedo, buon signore, la parola che mi salverà.‖ E poiché il vecchio domandò di che si

trattasse, il letterato proseguì: ―Questo lupo era sul punto di essere preso dai cacciatori reali, quando

m‘incontrò e mi chiese aiuto. Sono stato io a dargli la possibilità di sopravvivere. Ma ora, sordo alle

mie preghiere, vuole mangiarmi. Se non s‘intenerisce, sono perduto! Ho cercato di prendere tempo

proponendogli di lasciar decidere la mia sorte a tre anziani, e lui è stato d‘accordo. Prima abbiamo

incontrato un vecchio albicocco, e lui mi ha costretto a interpellarlo. Ma gli alberi non hanno

intendimento, così la risposta dell‘albicocco per poco non mi è costata la vita. Poi abbiamo

incontrato una vecchia mucca, e di nuovo il lupo mi ha forzato a chiedere la sua opinione. Ma

nemmeno gli animali hanno intendimento, e così stavo per perdere la vita un‘altra volta. Ora

incontriamo voi, buon signore; il che può significare soltanto che il cielo non intende lasciar perire

la cultura, come dicono i confuciani. Posso osare, dunque, di chiedervi la parola che mi salverà?‖

Ciò detto il letterato premette la fronte sulla terra davanti al bastone del vecchio e così rimase,

aspettando il suo destino.

Il vecchio aveva ascoltato la storia sospirando ripetutamente. Ora toccò il lupo con il bastone e

disse: ―Tu sei nell‘errore. Fra gli uomini, nulla è più detestabile di colui che tradisce un benefattore.

Secondo quanto hanno sempre sostenuto i confuciani, chi non sa indursi a tradire il proprio

benefattore è certamente un buon figlio. I confuciani affermano altresì che anche le tigri e i lupi

riconoscono il legame tra padre e figlio. Ma se ti rivolti in questo modo contro il tuo benefattore,

per te non può esistere neppure quel sacro legame. Vattene, lupo!‖ gridò il vecchio ―o ti bastonerò a

morte.‖1

―Buon signore,‖ rispose il lupo ―tanto per citare Confucio, ‗voi conoscete la prima parte della

storia, ma non avete ancora appreso la seconda‘. Con il vostro permesso ve la spiegherò, se avrete la

bontà di ascoltarmi. Questo letterato mi salvò la vita legandomi insieme le quattro zampe,

nascondendomi nella sua sacca da viaggio e caricando su di me tutti i suoi classici. Dovetti

starmene arrotolato su me stesso, osando appena respirare. Inoltre, lui non la finiva più di parlare e

parlare, per convincere Chien Tzu della sua innocenza, con l‘intenzione evidente di lasciarmi

morire nella borsa e prendersi tutta la gloria della mia cattura. Perché non dovrei mangiarlo,

considerato tutto questo?‖

Il vecchio guardò severamente il letterato e disse: ―Bene, se le cose stanno così, allora siete da

biasimare: proprio come l‘antico arciere Yi, il quale insegnò tutto quanto sapeva all‘uomo che più

tardi lo avrebbe ucciso.‖

Sentendosi mal giudicato, Tung-kuo spiegò minuziosamente con quali misericordiose intenzioni

avesse nascosto il lupo nella sacca. Ma il lupo tentò ancora di avere la meglio, perorando la propria

causa con molta astuzia.

―Temo che nessuno di voi due sia stato del tutto convincente‖ disse il vecchio. ―Provate a

rimettere il lupo nella sacca, in modo che io possa vedere la sua situazione e giudicare se fu davvero

così penosa come egli stesso afferma.‖

Il lupo non chiese di meglio che sottoporsi alla prova. Protese le zampe verso il letterato, il quale

gliele legò, quindi lo mise di nuovo nella sacca e caricò la medesima sul somaro. Il lupo non poteva

più vedere che cosa stesse accadendo.

―Avete un coltello?‖ sussurrò il vecchio al letterato.

―Sì‖ rispose Tung-kuo estraendone uno. Il vecchio gli fece segno di colpire il lupo.

―Non vorrei fargli male!‖ disse il letterato.

Il vecchio rispose sorridendo: ―Non sopporti di uccidere neppure una bestia così perfida? La tua

umanità dev‘essere grande; ma la tua follia è più grande ancora. Se discendi in un pozzo per salvare

qualcuno, o se cedi i tuoi abiti a un amico perché non muoia di freddo, ciò reca vantaggio all‘altro;

ma dov‘è il vantaggio di morire al posto suo? Non sarai un tipo del genere! Nessun gentiluomo, o

letterato, approva la compassione che deriva dalla follia.‖ Ciò detto, il vecchio rise di cuore, e

altrettanto fece il letterato.

Poi il vecchio prese la mano dell‘altro, che impugnava ancora il coltello, e lo aiutò a colpire a

morte il lupo. Quindi insieme tirarono fuori il suo corpo dalla sacca, lo gettarono sulla strada e se ne

andarono.

IL CONSIGLIERE DEI LUPI Yuan Mei

Un uomo di nome Ch‘ien andò al mercato, e stava tornando alla sua casa ai piedi delle colline,

quando svariate dozzine di lupi balzarono fuori dal bosco e gli formarono attorno un ampio cerchio

di bocche affamate. In preda al terrore, Ch‘ien vide a lato della strada una catasta di legna da ardere

alta più di tre metri e velocemente vi si arrampicò fino in cima. Nessuno dei lupi era in grado di fare

altrettanto. Alcuni di essi, però, corsero via e tornarono di lì a poco scortando un altro animale, più o

meno come i portatori portano un funzionario sul suo palanchino. Tutti gli altri lupi si avvicinarono

e tesero l‘orecchio, come se l‘animale stesse comunicando loro qualche segreto. Subito dopo essi

presero a spiccare balzi attorno alla catasta, tirando giù dalla sommità un pezzo di legno alla volta.

Poco dopo la catasta si era tanto assottigliata da minacciare il crollo.

Colto dal panico, Ch‘ien si mise a gridare invocando aiuto e fortuna volle che certi taglialegna

sentissero la sua voce. Essi accorsero subito gridando e i lupi si affrettarono a fuggire,

abbandonando sul posto l‘animale che avevano portato. Ch‘ien e i taglialegna lo osservarono

attentamente. Somigliava a un lupo, ma non era un lupo. Aveva occhi rotondi, collo corto, muso

lungo e denti spaventosi. Le sue zampe posteriori erano lunghe, ma tanto gracili che la bestia non

poteva rizzarsi su di esse. Il suo grido era simile all‘urlo del gibbone.

Ch‘ien gli parlò così: ‗Tu e io non siamo nemici; perché ti sei messo a fare lo stratega dei lupi,

per aiutarli a uccidermi?―

L‘animale batté ripetutamente la testa sul terreno, gemendo come se fosse pentito. Gli uomini lo

trascinarono fino all‘osteria del più vicino villaggio, lo cucinarono e se lo mangiarono per pranzo.

L'UOMO E LA BESTIA Lieh Tzu

Il capo del clan dei T‘ien preparava un grande banchetto per mille invitati; e come d‘uso, alcuni

vennero a offrirgli in omaggio pesci e anitre selvatiche. Il capo del clan esaminò le offerte, poi

sospirò: ―Com‘è grande la generosità del cielo, che fa crescere le cinque varietà di grano e genera

pesci e volatili affinché noi possiamo nutrircene!‖

L‘intera assemblea fece eco alle parole del capo. Ma un ragazzo di dodici anni, un figlio del clan

dei Pao che era presente in mezzo agli altri, si fece avanti e disse: ―Niente affatto! Il cielo e la terra,

e le diecimila cose che sono fra il cielo e la terra, sono state generate con noi, e della nostra stessa

natura. Non c‘è né superiore né inferiore, fra le specie. La verità è che una specie ne domina

un‘altra solo grazie alle sue dimensioni, alla sua forza o alla sua intelligenza. E così l‘una divora

l‘altra ed è divorata a sua volta. Ma il cielo non ha creato le cose una per l‘altra. L‘uomo mangia

tutto quello che può, ma il cielo ha forse creato ciò che l‘uomo mangia espressamente per l‘uomo?

La zanzara e la pulce mordono la pelle umana, la tigre e il lupo si nutrono di carne: il cielo ha

dunque creato l‘uomo per la zanzara e tutti gli esseri di carne per la tigre e per il lupo?‖

UOMO O BESTIA Lieh Tzu

Coloro che si somigliano nello spirito possono differire nella forma; e coloro che si somigliano

nella forma possono differire nello spirito. Il saggio tiene in considerazione ciò che gli somiglia

spiritualmente e ignora il simile nella forma. Gli uomini ordinari si attaccano invece al simile nella

forma e tengono a distanza il simile nello spirito. ―Noi amiamo e ci teniamo caro quanto ci

rassomiglia‖ essi dicono.

Tutto quanto ha una struttura di una certa altezza, e due piedi e due mani, e capelli sul capo e

denti nella bocca, e cammina in posizione eretta, gli uomini ordinari lo definiscono umano. Ma non

è impossibile, per un uomo, avere il cuore di una bestia. Anche così, egli sarà trattato bene a causa

della sua forma umana. Ciò che possiede ali o corna, o denti distanziati e artigli, e vola, o va

errando furtivo senza dimora, tuttociò gli uomini ordinari chiamano bestia. Non è impossibile, per

una bestia, avere un cuore umano; ma anche così, gli uomini lo eviteranno a causa del suo aspetto.

I grandi dèi antichi (Pao Hsi, che addomesticava fiere e le sacrificava sul fuoco; Nù Wa, che

riparava i guasti dei cieli e plasmò la razza umana; Shen Neng, il divino coltivatore che fondò

l‘agricoltura e la medicina; i sovrani Hsia, che fondarono la prima dinastia) ebbero tutti un corpo di

rettile e un volto umano o una testa di bue o un muso di tigre. Nessuno ebbe sembianze umane,

benché fossero tutti sapienti di grande virtù.

Ma gl‘infami re dei tempi successivi (Chieh, che rovinò la prima dinastia; Chou, che rovinò la

seconda dinastia degli Shang; Huan, che cancellò la legge di successione in Lu; e King Mu, di Ch‘u,

che si ribellò al suo re e lo uccise) tutti ebbero orecchi, occhi, naso, bocca — le sette aperture del

volto umano — ma il loro cuore era di bestia. Gli uomini ordinari cercano la più alta saggezza

basandosi su semplici apparenze: e non la trovano mai.

Il divino Imperatore Giallo del Nord combatté il divino Re meridionale del Fuoco nelle selvagge

lande di Fanch‘uan. All‘avanguardia, il divino Imperatore Giallo guidò orsi bruni, orsi grigi,

leopardi, tigri dai denti a spada e tigri comuni. Poiane, procellarie, falchi e falconi fungevano da

bandiere e segnalatori. Allora, l‘Imperatore Giallo aveva il potere di far combattere ai suoi ordini

uccelli e bestie.

Yao, il re-sapiente, nominò K‘uei intendente della musica. K‘uei segnava il tempo percuotendo

delicatamente il cembalo di pietre e tutti gli animali danzavano in bell‘ordine. Poi, quando le

antiche trombe reali di Shao avevano eseguito la loro musica, si presentava con maestoso

cerimoniale la sacra fenice. In tal modo, i suoni della musica sottomettevano uccelli e bestie allo

scettro di Yao. Come può, dunque, la mente di queste creature essere diversa da quella dell‘uomo?

La differenza è soltanto nella forma esteriore e nell‘uso della parola. Ma l‘uomo ha perduto l‘arte di

comunicare con gli animali; soltanto il saggio, con il suo vasto sapere e la sua profonda

comprensione, è capace di guidarli e dirigerli.

La facoltà naturale dell‘autoconservazione è comune alle bestie e all‘uomo; le bestie non

l‘apprendono dall‘uomo. In questo, il maschio e la femmina sono uguali. In ogni specie, le madri e i

loro piccoli si tengono abbracciati. Le bestie evitano gli spazi aperti e preferiscono i terreni

accidentati; fuggono il freddo e cercano il caldo. Quando si sono stabilite in un luogo, formano il

branco; quando si spostano, si dispongono in ranghi, con gli animali più deboli all‘interno e i più

forti all‘esterno. Ogniqualvolta uno di essi trova l‘acqua, vi conduce gli altri; ogniqualvolta uno di

essi trova cibo, chiama il branco. Nei tempi più antichi, gli animali vivevano e migravano con gli

uomini. Soltanto sotto il regno degli imperatori e dei re, essi furono dispersi dalla paura. E ora, nei

nostri tempi malvagi, essi si acquattano in luoghi oscuri o trottano via furtivi in cerca di scampo,

affinché l‘uomo non li uccida.

Oggi, nelle terre orientali della tribù di Chieh, la gente ha la facoltà speciale di comprendere il

linguaggio degli animali domestici; ma i Santi Saggi dei tempi antichi sapevano tutto quanto c‘è da

sapere sulla natura delle cose. Essi capivano le grida e i richiami delle diverse specie; riunivano gli

animali e li istruivano come fossero persone. In verità, prima riunivano gli spiriti dei morti e gli altri

demoni, poi adunavano le genti delle otto amministrazioni esterne, per ultimo raccoglievano le

bestie e gl‘insetti, e tenevano la loro lezione. Ciò dimostra come tutte le specie che respirano e

hanno sangue non differiscano molto nel cuore e nella mente. I Santi Saggi lo sapevano bene; per

questo insegnavano a tutti e non escludevano nessuno.

LA GIOIA DEI PESCI Chuang Tzu

Chuang tzu e il suo intimo amico Hui Tzu se ne stavano sulla riva del fiume Hao, godendo della

reciproca compagnia. Disse Chuang Tzu: ―Anche i pesci si rallegrano l‘uno dell‘altro, guizzando

graziosamente di qua e di là. Com‘è grande la loro gioia!‖

‗Tu non sei un pesce― disse Hui Tzu. ―Come puoi sapere che i pesci gioiscono?‖

―Tu non sei Chuang Tzu‖ disse Chuang Tzu. ―Come puoi sapere che io non posso saperlo?‖

―Così come ‗io non sono Chuang Tzu‘ dimostra che io non posso sapere se tu puoi sapere che i

pesci gioiscono,‖ disse Hui Tzu ―altrettanto ‗tu non sei un pesce‘ dimostra che tu non puoi saperlo.

Questa è una logica impeccabile.‖

―Posso ricominciare dal principio?‖ replicò Chuang Tzu. ―Chiedendomi, ‗come puoi sapere che i

pesci gioiscono‘ tu ammettevi che potevo saperlo. E ciò che più conta, lo so perché li vedo da qui.‖

SCODINZOLARE NEL FANGO Chuang Tzu

L'eremita poeta Chuang Tzu stava pescando nel fiume Pu, quando il re di Ch‘u mandò due

nobiluomini per invitarlo a presentarsi al suo cospetto.

―A Corte si spera che vogliate incaricarvi di certi affari di stato‖ gli dissero.

Continuando a tener salda la sua canna da pesca, e senza guardarli, Chuang Tzu disse: ―Ho

sentito che Ch‘u possiede una tartaruga morta da tremila anni e che la custodisce in un prezioso

reliquiario, nel tempio dei suoi antenati. Non credete che la tartaruga sarebbe molto più felice di

poter agitare la sua coda nel fango, che non di vedere tanto onorato il suo guscio?‖

―Naturalmente‖ risposero i due nobiluomini.

―Allora andatevene‖ disse Chuang Tzu. ―Ho deciso che continuerò a scodinzolare nel fango.‖

DONNE E MOGLI

LI CHI E IL SERPENTE Kan Pao

Nella regione di Fukien, nell‘antico stato di Yiieh, sorge la catena dei monti Yung, le cui vette

raggiungono, qua e là, un‘altezza di molte miglia. Verso nord-ovest c‘è nella montagna una

fenditura, abitata un tempo da un gigantesco serpente lungo venti o venticinque metri, con una

circonferenza pari a dieci mani aperte e anche di più. Esso teneva la gente del luogo in uno stato di

continuo terrore e aveva già ucciso parecchi comandanti venuti dalla capitale, nonché diversi

magistrati e funzionari delle città vicine. Le offerte di buoi e di pecore non bastavano a placare il

mostro; il quale, intrufolandosi nei sogni degli uomini o manifestando i propri voleri con

l‘intervento di medium, reclamava, per i suoi pasti speciali, fanciullette di dodici o tredici anni.

Nella loro impotenza, il comandante e i magistrati sceglievano le vittime tra le figlie delle

giovani schiave e dei criminali, e le custodivano fino al momento del sacrificio. In un certo giorno

dell‘ottavo mese di ogni anno recapitavano una fanciulla all‘imbocco della caverna del mostro; il

serpente veniva fuori e la inghiottiva. Tutto ciò andò avanti per nove anni e nove fanciulle furono

divorate.

Nel decimo anno, i funzionari si misero di nuovo in cerca di una fanciulla da tener pronta per il

solito appuntamento. Un uomo della contea di Chiang Lo, Li Tarn, aveva sei figlie e neanche un

maschio. Li Chi, la sua minore, decise di presentarsi volontaria come prossima vittima; e poiché i

genitori le rifiutavano il consenso, disse loro: ―Cari genitori, voi non avete nessuno su cui contare,

perché aver cresciuto sei figlie e nessun figlio è esattamente come non avere figli. Non voglio certo

paragonarmi a Ti Jung della Dinastia Han, che si offrì come schiava all‘Imperatore in cambio della

vita di suo padre; tuttavia, non sarò in grado di provvedere a voi quando sarete vecchi: son buona

solo a consumare il vostro buon cibo e le vesti che mi date; allora, poiché non sono utile da viva,

perché non dovrei interrompere la mia vita un po‘ prima del tempo? Che ci sarebbe di male, nel

vendermi e guadagnare un po‘ di denaro per voi?‖

Ma il padre e la madre l‘amavano troppo per acconsentire, e così la fanciulla andò a presentarsi

di nascosto. Quando fu al cospetto delle autorità, chiese una spada ben affilata e un cane ben

addestrato per dar la caccia ai serpenti. Successivamente preparò una gran quantità di pallottole di

riso bollito addolcite con uno sciroppo di zucchero e le collocò all‘ingresso della caverna del

serpente.

Il serpente spuntò dal suo antro. La sua testa era grossa come un barilotto, i suoi occhi erano

simili a due specchi, distanti più di mezzo metro l‘uno dall‘altro. Aspirando il profumo del riso, il

mostro aprì la bocca per mangiarlo; allora Li Chi sguinzagliò il cane, che si lanciò sul serpente e gli

affondò i denti nelle carni. Subito venne fuori Li Chi, che si era tenuta nascosta, e colpì il mostro

con ripetuti fendenti. Il dolore delle ferite fu così terribile che il mostro si gettò nel vuoto dall‘alto

della rupe e morì.

Li Chi entrò nella caverna e raccolse i teschi delle nove vittime del serpente. Portandoli fuori,

sospirò: ―Che miserevole destino! Siete state divorate per la vostra timidezza.‖ E pian piano se ne

tornò a casa.

Il re di Yueh, informato di questi avvenimenti, volle Li Chi come sua sposa e regina. Nominò suo

padre magistrato della contea di Chiang Lo e fece ricche sua madre e le sue sorelle. Da allora in poi

il distretto non fu più disturbato da mostri e l‘impresa di Li Chi fu celebrata in alcune ballate che

sopravvivono ancora oggi.

IL GENERALE NERO Niu Seng-ju

Durante l‘era K‘ai Yiian (713-742 d.C.), un certo Kuo Yùan-chen, che sarebbe poi divenuto

Signore di Tai, fu respinto all‘esame di funzionario. Poco dopo, mentre viaggiava di notte, perdette

la strada e si smarrì. Cammina cammina, vide brillare una luce lontana, molto lontana, e

presumendo che si trattasse di una casa abitata puntò in quella direzione.

Dopo che ebbe cavalcato per tre miglia, giunse davanti a un edificio alto e imponente. Si affacciò

all‘interno e vide che nella sala centrale e nei corridoi splendevano lanterne e candele in gran

quantità. Nella sala erano stati disposti cibi prelibati e offerte votive, come se la figlia dei padroni di

casa fosse in procinto di sposarsi. E tuttavia, la casa appariva silenziosa e deserta.

Kuo legò il cavallo all‘ingresso del corridoio ovest e salì i gradini. Giunto nella sala centrale si

fermò, non sapendo dove si trovasse, e in quel momento sentì piangere e singhiozzare una ragazza,

nella camera a oriente.

―È una creatura umana o un fantasma che piange in questa casa?‖ chiese Kuo a voce alta. ―E

perché la sala è ornata così splendidamente, mentre voi siete qui sola, in lacrime?‖

―Nel mio villaggio‖ rispose la ragazza ―c‘è un tempio dedicato al Generale Nero, che può portare

agli uomini la buona fortuna o la malasorte. Ogni anno egli pretende una compagna dagli abitanti

del villaggio ed essi scelgono per lui una delle ragazze più belle. Benché io sia brutta, mio padre si è

accordato segretamente con gli altri e in cambio di cinquecento stringhe di monete ha lasciato che

scegliessero me. Stasera una fanciulla del villaggio, mia compagna e amica, mi ha ubriacata in

questa camera, poi mi ha chiusa dentro e se ne è andata, lasciandomi alle mortali nozze con quel

demonio. Mio padre e mia madre mi hanno abbandonata. Non mi resta altro che morire, sono fuori

di me dall‘angoscia e dal terrore. Siete un uomo reale, signore? Potete salvarmi? Se lo farete, sarò

per tutta la vita la vostra serva obbediente.‖

―Quando verrà questo Generale?‖ chiese Kuo, indignato.

―Al secondo quarto della notte.‖

―Io sono un uomo, o almeno lo spero, e farò quanto posso per salvarvi. Se fallirò, rinunzierò alla

vita, perché non posso tollerare che dobbiate subire la morte per mano di quell‘immondo demonio.‖

I singhiozzi della fanciulla si calmarono. Kuo spostò il cavallo a nord del palazzo, poi andò a

sedersi nel vestibolo ovest con il suo servo in piedi di fronte a lui e si accinse ad aspettare, come un

maestro cerimoniere pronto a ricevere gl‘invitati.

Ben presto si vide all‘esterno un baluginare di torce e si udì un tumulto di carri e di cavalli.

Entrarono due servi in abiti color porpora e subito uscirono gridando: ―Là dentro c‘è il primo

ministro!‖

Poi entrarono timidamente due servi vestiti di giallo e anch‘essi uscirono subito gridando: ―Là

dentro c‘è il primo ministro!‖

Kuo si sentì in cuor suo gratificato e pensò: ―Bene! Se sono destinato a diventare primo ministro,

vuol dire che prevarrò su quel demonio.‖

Ed ecco che il Generale in persona scese dal suo carro; gli araldi si presentarono a lui.

―Entrate!‖ ordinò il Generale. E così dicendo entrò a sua volta, a gran passi, circondato da servi

armati, e si diresse verso la breve scala che portava alla camera orientale. Ma il servo di Kuo,

secondo l‘ordine del suo padrone, si fece avanti e annunziò: ―Messer Kuo desidera presentarsi!‖

Kuo presentò i suoi saluti secondo il cerimoniale.

―Come mai messer Kuo si trova in questa casa?‖ gli domandò il Generale.

―Ho sentito che stasera si celebreranno le vostre nozze e ho sperato di poter assistere alla

cerimonia‖ rispose Kuo.

Compiaciuto, l‘uomo che tutti chiamavano Generale invitò Kuo a sedersi a tavola. Presero posto

l‘uno di fronte all‘altro, conversando e ridendo cordialmente. Kuo aveva nella sua borsa un piccolo

coltello ben affilato e pensava di usarlo per uccidere il Generale Nero. Perciò domandò: ―Avete mai

gustato salame di carne di cervo?‖

―Non è facile trovarne, da queste parti‖ disse il Generale.

―Ne ho una piccola provvista di prima qualità‖ disse Kuo. ―Proviene dalle cucina imperiali.

Posso affettarvene un poco?‖

Il Generale fu lieto di accettare. Kuo si alzò in piedi, prese il salame di cervo e il piccolo coltello

e cominciò ad affettare. Poi mise l‘affettato in un piatto, pose il piatto davanti al Generale e lo invitò

a servirsi. Del tutto privo di sospetto, il Generale allungò la mano per prendere la carne e

velocemente Kuo scostò il piatto, afferrò il polso del Generale e gli tagliò netta la mano.

Con un grido lacerante, il Generale balzò in piedi e fuggì.

La sua scorta, in preda al terrore, si dileguò sparpagliandosi fuori. Kuo prese la mano recisa e

l‘avvolse in uno degli indumenti che aveva nella borsa; poi mandò fuori il servo ad assicurarsi che

non ci fosse più in giro nessuno. Soltanto allora aprì la porta della camera orientale e disse alla

fanciulla in lacrime: ―Ho qui la mano del Generale Nero. Lo troverò seguendo le tracce del suo

sangue ed egli sarà perduto. Ma voi, ora che siete salva, venite fuori e mangiate qualcosa.‖

La ragazza piangente venne fuori. Aveva appena diciassette o diciotto anni ed era molto

attraente. Inchinandosi a Kuo, disse: ―Giuro che diverrò la vostra serva.‖

Kuo si prese cura di consolarla e riconfortarla. All‘approssimarsi dell‘alba, egli svolse la mano

recisa e vide che era un piede di porco, nero. Nello stesso momento udirono un suono confuso che

si avvicinava, come di pianti e singhiozzi. Erano i familiari della ragazza e gli anziani del villaggio,

che venivano con la bara per portare l‘infelice alla sepoltura. Quando videro Kuo, e con lui la

ragazza ancora viva, lo interrogarono stupiti, e dopo aver appreso l‘accaduto, gli anziani andarono

su tutte le furie perché Kuo aveva offeso la loro divinità locale.

―Il Generale Nero è un dio che salvaguarda il nostro villaggio‖ dissero. ―Noi lo serviamo da

lungo tempo, ogni anno gli offriamo una delle nostre ragazze e lui ci dà in cambio la sua protezione

e la sicurezza. Se la cerimonia dovrà essere rinviata, avremo tempesta e grandine! Con quale diritto

uno straniero che ha smarrito il cammino viene qui a ingiuriare la nostra illustre divinità, scatenando

su di noi la sua divina violenza? Che cosa vi ha fatto, il nostro villaggio, per meritare questo?

Dovreste essere ucciso e offerto al Generale! Oppure dovremmo legarvi e consegnarvi al

magistrato.‖

Già stavano ordinando ai più giovani di agguantare Kuo, quando questi prese ad ammonirli:

―Vedo che siete vecchi per gli anni, ma non per l‘esperienza. Io la so abbastanza lunga sulle cose del

mondo; perciò ascoltate quello che ho da dirvi. Quando un dio riceve dal cielo il mandato di

proteggere una regione, non è forse simile a un nobiluomo che riceve dall‘imperatore il mandato di

governare il suo dominio?‖

―Certo, è lo stesso‖ convennero.

―Bene. Ora supponete che il nobile vada in cerca di piaceri illeciti nel suo regno: non andrebbe

forse in collera, l‘imperatore? E se il nobile fosse crudele con il popolo, forse che l‘imperatore non

lo punirebbe? Ma colui che chiamate Generale, è poi davvero una divinità? Di certo, nessun essere

divino ha piedi di porco! È mai accaduto che il cielo affidasse mandati a belve lussuriose e

diaboliche? In verità, una simile bestia deve essere considerata criminale, in cielo come in terra, e io

avevo il diritto di punire quel malvagio! Perché avrei sbagliato? Non vi sono uomini retti, fra voi, se

anno dopo anno potete mandare le vostre tenere fanciulle a morte violenta per mano di un demonio!

E come potete esser certi che il cielo non mi abbia mandato qui per porre fine a questi crimini?

Accettate quanto vi dico, e vi libererete di quel diavolo e non dovrete mai più procurargli delle

spose! Ora parlate e ditemi il vostro pensiero.‖

Gli uomini del villaggio compresero che quanto avevano udito era la verità e furono ben lieti di

mettersi a disposizione del forestiero. Kuo ordinò ad alcune centinaia di uomini di prendere archi e

frecce, spade e lance, picche e zappe, e di seguirlo in massa. Poi trovarono la traccia di sangue

lasciata dal Generale Nero e dopo averla seguita per circa sette miglia giunsero presso una grande

tomba. Allora accerchiarono la costruzione e l‘attaccarono per aprirvi una breccia. L‘apertura

cominciò ad allargarsi, e quando fu larga quanto la bocca di una giara, Kuo diede ordine di dar

fuoco ad alcune fascine di legna e di gettarle all‘interno della tomba, per illuminarla. L‘interno era

come una grande camera, e al centro di essa un gigantesco suino nero, privo del piede sinistro,

giaceva in una pozza di sangue. Il suino si precipitò fuori per sfuggire al fumo e gli assedianti lo

uccisero.

Gli uomini del villaggio si rallegrarono l‘un l‘altro e raccolsero doni di commiato per ringraziare

Kuo. Ma egli declinò l‘offerta, dicendo: ―Nel combattere il male a vantaggio del popolo, non cerco

un guadagno personale.‖

La fanciulla salvata si congedò dai genitori e dai parenti con queste parole: ―Sono stata davvero

fortunata nel nascere creatura umana dalla vostra carne e dal vostro sangue! Non ero mai uscita

dalla mia stanza e di certo non mi ero mai macchiata di colpe che meritassero la morte; e tuttavia,

per cinquecento stringhe di monetine, fui data in moglie a un diavolo. Siete stati così duri di cuore

da rinchiudermi e andarvene via. E da esseri umani comportarsi così? Se non fosse stato per il

coraggio e per l‘umanità di messer Kuo, ora non sarei qui. Egli mi ha dato la vita, mentre i miei

genitori mi hanno dato la morte. E mio fermo volere andarmene con messer Kuo, e non rivolgere

mai più il pensiero alla mia vecchia casa.‖ Con gli occhi pieni di lacrime s‘inchinò, e non si lasciò

dissuadere dal suo proposito. Così Kuo la prese come sua concubina ed ebbero insieme parecchi

figli.

La carriera pubblica di Kuo lo portò ininterrottamente a posizioni sempre più elevate: come i

diavoli-servi del Generale Nero avevano previsto. Egli era nato in una remota contrada del paese ed

era stato respinto agli esami da funzionario: ma i cattivi spiriti non poterono recar danno a un uomo

saggio, retto e leale.

IL PADRONE E LA SERVENTE Chi Yun

Di solito, per distinguere la ragione dal torto ci basiamo sulla tradizione e sulla legge; tuttavia,

esistono persone semplici e schiette che seguono soltanto le loro convinzioni, senza cercare né il

consenso della tradizione né la conferma delle leggi.

Nel mio stesso clan c‘era una piccola servente di nome Liu Ch‘ing. Quando aveva sette anni, il

suo padrone ordinò che fosse promessa in matrimonio a un giovane servo chiamato Yi Shou; e

quando ne compì sedici, fu stabilito il giorno delle nozze. Ma inaspettatamente Yi Shou fuggì, a

causa di certi debiti di gioco, e per lungo tempo non diede più sue notizie. Il padrone pensò di

maritare Liu Ch‘ing con un altro servo, ma la ragazza giurò che sarebbe morta prima di

acconsentire.

Poiché Liu Ch‘ing era piuttosto attraente, il padrone cercò d‘interessarla all‘idea di diventare sua

concubina; ma di nuovo, ella giurò che sarebbe morta prima di acconsentire. Il padrone mandò una

donna anziana a parlare con lei e la donna disse alla ragazza: ―Anche se non vuoi rompere il tuo

impegno con Yi Shou, puoi ben accettare il padrone temporaneamente. Frattanto cercheremo Yi

Shou con ogni mezzo e quando lo avremo trovato lo sposerai. Ma se ti ostini a rifiutare, il padrone ti

venderà, finirai in qualche remota regione e perderai ogni possibilità di rivedere Yi Shou.‖

Per qualche giorno Liu Ch‘ing pianse in silenzio; poi a testa china, offrì il suo guanciale al

padrone; ma continuò a far premura affinché le ricerche di Yi Shou non venissero interrotte. Tre o

quattro armi più tardi Yi Shou tornò, rassegnato a pagare i suoi debiti, e il padrone, fedele alla

parola data, ordinò gli sponsali.

Dopo le nozze, Liu Ch‘ing riprese le sue mansioni di servente; ma da quel momento in poi non

scambiò più una sola parola con il padrone ed evitò con cura ogni suo approccio. Il padrone arrivò a

farla frustare e a pagare Yi Shou perché la costringesse ad accettarlo, ma la ragazza, irremovibile,

continuò a rifiutare qualsiasi relazione con lui. Alla fine il padrone non ebbe altra scelta che lasciar

partire la coppia con la sua benedizione.

Quando fu pronta per andare, Liu Ch‘ing depose una cas-settina dinnanzi alla madre del padrone,

toccò il pavimento con la fronte in segno di rispettosa obbedienza, quindi partì. Quando la

cassettina fu aperta, vi si trovarono tutti i doni che il padrone aveva offerto a Liu Ch‘ing nel corso

degli anni. Non mancava un solo oggetto.

Yi Shou divenne venditore ambulante; Liu Ch‘ing, per aiutare la barca, dovette mettersi a fare la

cucitrice, ma non si rammaricò mai della sua vita dura.

Al tempo in cui vivevo nella casa paterna, Yi Shou commerciava ancora in utensili di ottone e di

ceramica. I suoi capelli erano diventati bianchi. Gli chiesi di sua moglie.

―Morta‖ rispose.

Strano! Di Liu Ch‘ing non possiamo dire né che fu casta né che non lo fu; in verità, ella fu luna e

l‘altra cosa insieme. Io non vedo alcuna maniera di risolvere il dilemma; mi limito a lasciarne

memoria, affinché possa essere giudicata da gentiluomini più dotti di me.

UNA CURA PER LA GELOSIA Yuan-Mei

Lo studente Hsien-yùan di Changchou aveva trentanni e nemmeno un figlio. Sua moglie, una

donna del clan dei Chang, era così straordinariamente gelosa che Hsien-yùan non aveva il coraggio

di prendere una seconda moglie per avere i figli desiderati. Il Cancelliere Ma del Grande

Segretariato, che presiedeva agli esami di diploma di Hsien-yùan, era così addolorato per la sua

situazione che gli fece dono di una concubina. La gelosissima Chang montò subito in collera per

quella intrusione negli affari di famiglia e giurò di ripagare il Cancelliere della stessa moneta.

Ora accadde che, proprio in quei giorni, il Cancelliere perdette sua moglie. Allora la signora

Chang trovò una donna di campagna ben nota per il suo cattivo carattere e corruppe una sensale

affinché convincesse Ma a prendersi quella bisbetica come nuova ―prima‖ moglie. Il Cancelliere,

pur avendo intuito l‘intrigo di Chang, acconsentì a fidanzarsi. Il giorno delle nozze si vide che il

corredo nuziale comprendeva un bastone di cinque colori adibito alla punizione corporale dei

mariti. Si trattava di un‘eredità che le donne, nella famiglia della bisbetica, si tramandavano da tre

generazioni.

Al termine della cerimonia nuziale la schiera delle concubine di Ma rese gli omaggi alla sposa.

La nuova prima moglie chiese chi fossero tutte quelle donne ed esse dichiararono di essere le

concubine. La sposa cominciò subito a inveire: ―Quale legge sociale decreta che vi siano concubine

nella casa di un onorato Cancelliere?‖ Ciò detto, prese il bastone e aggredì le donne. Il Cancelliere

Ma ordinò alle concubine di disarmarla e di battere lei, e la sposa fuggì nella sua stanza piangendo e

imprecando. Ma le concubine crearono un tale pandemonio, suonando gong e tamburi, che i suoi

singhiozzi non si udirono affatto.

La nuova prima moglie dichiarò allora che si sarebbe uccisa. Prontamente, le concubine le

porsero corda e coltello, dicendo: ―Il padrone si aspettava proprio qualcosa di simile, da voi; così ci

ha dato questi atroci strumenti perché ve li offrissimo.‖

Detto questo, presero a battere tamburi di legno e a cantilenare un mantra1 affinché l‘anima di lei

potesse ascendere velocemente al paradiso. Esse fecero un tale baccano, che i deliri della sposa

circa le sue intenzioni suicide non si udirono affatto.

La nuova prima moglie del Cancelliere aveva tuttavia la sua dignità. Rendendosi conto di aver

esaurito trucchi e minacce, dominò la collera e mandò a chiamare il Cancelliere. Quando egli entrò

nella sua stanza, la donna assunse un‘espressione modesta e disse: ―Mio signore, voi siete

certamente un vero uomo. I trucchi che ho usato sono stati tramandati fino a me dalla mia bisnonna:

trucchi efficaci, forse, per intimidire uomini senza spina dorsale, come ce ne sono tanti a questo

mondo, ma non adatti a voi, mio signore. D‘ora in avanti, dunque, vi sarò sottomessa, e spero che

voi, per parte vostra, mi tratterete come si conviene al mio ruolo.‖

―Se così può essere, così sia‖ disse il Cancelliere. E finalmente si salutarono come sposa e sposo.

Il Cancelliere ordinò alle concubine di chiedere scusa toccando il pavimento con la fronte, poi

consegnò alla nuova prima moglie il denaro, le gemme e i registri di tutte le loro proprietà e dimore.

Nel giro di un mese nella casa di Ma regnarono l‘ordine e l‘armonia. Non si udivano critiche: né

all‘interno né fuori.

Chang, la prima moglie di Hsien-yùan, avendo mandato una persona di sua fiducia alle nozze del

Cancelliere, apprese quanto era accaduto tra la sposa e le concubine.

―Perché non le ha picchiate con il suo bastone?‖ chiese Chang.

―Perché fu sopraffatta.‖

―Perché non ha pianto e imprecato?‖

―Il suono dei tamburi e il coro delle concubine hanno coperto pianti e maledizioni.‖

―Perché non ha minacciato di suicidarsi?‖

―Le hanno subito offerto coltello e corda e hanno cantato il mantra della rinascita per darle

l‘addio.‖

―E allora che cosa ha fatto, la nuova prima moglie?‖

―Si è sottomessa con buone maniere e si è arresa.‖

Furiosa, la signora Chang esclamò: ―Quella buona a nulla! Ha rovinato tutto.‖

Ora, quando il Cancelliere Ma aveva donato la concubina a Hsien-yùan i compagni di studi del

giovane avevano preparato agnello e vini e si erano recati da lui per festeggiarlo. Non appena

furono tutti un po‘ brilli la signora Chang cominciò a ingiuriare gli ospiti da dietro un paravento. Gli

ospiti sopportarono gl‘insulti senza reagire, eccetto uno di loro, che era un ubriacone abituale.

Costui raggiunse la signora Chang, l‘afferrò per i capelli e la schiaffeggiò.

―Se dimostrerai più rispetto per il mio fratello maggiore Hsien-yùan, sarai mia cognata‖ disse;

―altrimenti sei mia nemica. Tuo marito non aveva figli: per questo il suo esaminatore e protettore, il

Cancelliere Ma, gli ha offerto una concubina. Ha pensato alla continuità della vostra stirpe! Ancora

un‘ingiuria,e ti ucciderò con questo pugno!‖

Gli altri ospiti accorsero e lo trascinarono via, così che la donna potesse fuggire. Ma essa era

umiliata, con la gonna e le sottovesti lacerate che lasciavano intravedere qua e là le carni nude.

La signora Chang era stata soprannominata ―la Diavolessa‖, e non a caso; vivamente ferita

nell‘orgoglio, odiò più che mai il Cancelliere Ma e sfogò il suo odio facendo tutto quanto le era

possibile per rendere infelice la vita della concubina; ma costei, che aveva ricevuto istruzioni

segrete dal Cancelliere, si conservò umile e amabile come sempre. Benché facesse ormai parte della

famiglia, non scambiava una sola parola con Hsien-yùan; e fu per questo, probabilmente, che la

signora Chang non arrivò a farla mettere a morte.

Un giorno il Cancelliere Ma donò cento pezzi d‘argento a Hsien-yùan e gli disse: ―La prossima

primavera si terrà un esame triennale, per il diploma del grado più alto. Prendi questo denaro per le

tue spese e trasferisciti subito nella capitale, così da poter dedicare i mesi che restano

esclusivamente allo studio.‖

Hsien-yùan accettò il dono, andò a casa e informò la sua prima moglie dell‘imminente partenza.

La signora Chang, temendo che i rapporti del marito con la concubina potessero farsi più intimi, fu

più che lieta di augurargli buon viaggio.

Hsien-yùan aveva già fatto vela per la capitale quando la sua imbarcazione fu intercettata dalla

barca dei servi del Cancelliere; costoro lo dirottarono verso la dimora del loro padrone e qui, nella

pace dei giardini interni, Hsien-yùan poté immergersi nei suoi studi.

Contemporaneamente, il Cancelliere mandò una sensale dalla signora Chang affinché la

persuadesse ad approfittare dell‘assenza del marito per vendere la concubina.

―Lo farei ben volentieri,‖ disse la signora Chang ―ma voglio un compratore che viva in un luogo

lontano e remoto, così che più tardi non possano sorgere problemi.‖

―Non vi sarà nessun problema‖ assicurò la sensale.

Di lì a poco, un mercante di tessuti della provincia di Shensi venne a trovare la signora Chang.

Era brutto e barbuto, ma aveva portato con sé trecento pezzi d‘argento. La signora Chang fece

chiamare la concubina, che piacque immensamente al compratore. Il mercato fu dunque concluso;

ma la signora Chang non si ritenne soddisfatta finché non ebbe strappato alla concubina perfino

l‘abito e le scarpe che portava. Così la ragazza, vestita dimessamente e senza neppure una forcina

per monile, fu messa in una portantina di bambù e portata via.

Quando i portatori giunsero sul ponte a nord della capitale, la ragazza gridò: ―Non voglio andare

così lontano!‖ Si lanciò fuori della portantina e saltò giù nel fiume. Subito si avvicinò una piccola

barca, raccolse la concubina e la portò fino ai giardini del Cancelliere, dove la ragazza poté riunirsi

a Hsien-yùan.

La signora Chang ricevette la notizia che la concubina era annegata nel fiume e fu presa dalla

paura e dall‘ansia. Come non bastasse, tornò il mercante di tessuti in gran collera.

―Io ho comprato ima donna viva, non una morta! Voi me l‘avete venduta senza spiegarle bene la

situazione. Come avete potuto forzare la volontà di quella buona creatura? E inoltre, vi siete

approfittata di un onesto viaggiatore! Restituitemi il mio denaro.‖

Non avendo argomenti per difendersi, la signora Chang restituì i trecento pezzi d‘argento.

Il giorno seguente si presentarono alla casa della signora Chang un uomo e una donna, canuti e

cenciosi.

―Il Cancelliere Ma‖ si lamentarono ―portò in dono la nostra figliola a questa casa, come

concubina. Dov'è, ora? Se è viva, restituitecela; se è morta, ridateci il suo corpo.‖

La signora Chang rimase senza parole. I due vecchi, disperati, percossero la signora Chang con

le loro teste, quasi volessero spaccarsele, poi presero a fracassare piatti, ciotole e stoviglie, finché

non vi fu più un solo pezzo intatto in tutta la casa; e si rifiutarono di andarsene, finché la signora

Chang non ebbe dato loro il denaro, e non furono intervenuti i vicini a pregarli di andar via.

Un altro giorno, quattro o cinque burberi poliziotti, inviati dal magistrato della contea, giunsero

con un mandato di arresto.

―Si tratta di un caso che coinvolge una vita umana‖ dissero. ―Dobbiamo condurre l‘imputata

Chang al cospetto del magistrato.‖ E gettarono le catene sul tavolo, con gran rumore.

La signora Chang li interrogò sul motivo dell‘accusa, ma quelli non vollero dir niente. Solo

quando la donna offrì loro del denaro dissero che i genitori di una concubina avevano denunciato la

morte sospetta della loro figliola.

Ora la signora Chang era davvero terrificata. Avrebbe voluto che suo marito fosse a casa e si

occupasse della faccenda, così che lei, povera donna sola, non venisse svergognata in quel modo e

costretta a comparire dinnanzi alla corte; profondamente, rimpiangeva le prepotenze usate al marito,

le violenze inflitte alla concubina e tutti i suoi errori, nonché la sua impotenza di donna. Stava così

tormentandosi fra risentimento e rimorso quando irruppe qualcuno che portava un bianco berretto

funebre.

―Il signor Hsien-yùan è morto d‘improvviso al ponte di Lu Kou! Io sono il mulattiere, e son

venuto subito da voi per informarvi.―

La signora Chang era troppo scossa per poter parlare.

―Sarà meglio andar via,‖ dissero i poliziotti fra loro ―visto che ce stata una morte in famiglia.‖

La signora Chang andò a preparare la veste da lutto per il funerale.

Pochi giorni dopo i poliziotti tornarono e la donna dovette assumere un avvocato; poi, per

ottenere un rinvio del processo, impegnò il corredo, vendette la casa e cercò di corrompere col

denaro un funzionario della Corte. Ottenne una dilazione, ma si caricò di debiti e si ridusse a non

poter più comprare nemmeno il cibo.

Ancora una volta venne la sensale e disse: ―In quali ristrettezze è la signora! E senza neppure un

figlio da allevare nella sua vedovanza!‖

La signora Chang era così afflitta, che decise d‘interpellare un‘indovina cieca. La donna trasse

l‘oroscopo di Chang e disse: ―È vostro destino sposare due uomini. Vi mariterete di nuovo, vestita

d‘oro e di perle.‖

Udito questo, la signora Chang mandò a chiamare la sensale e le disse: ―Sarei disposta a

rimaritarmi, visto che non si può evitare il destino. Ma poiché devo combinare io stessa il mio

matrimonio, devo vedere lo sposo prima di decidere.‖

La sensale condusse da lei un bel giovane, vestito splendidamente. ―Ecco qui il signor Tal dei

Tali‖ disse.

Incantata, la signora Chang si tolse le gramaglie e sposò il giovanotto prima ancora che fossero

trascorsi i quarantanove giorni di lutto. Mentre la coppia stava celebrando il rito nuziale con lo

scambio delle coppe, irruppe nella casa una donna assai brutta, armata di un grosso bastone.

―Qui dentro sono io la vera moglie e padrona!‖ strillò. ―Come osate venire in casa mia come

concubina? Non lo permetterò!‖ Ciò detto bastonò di santa ragione la signora Chang, e costei,

mentre si rammaricava di essere stata ingannata dalla sensale, si rese conto che esattamente in quel

modo erano stati trattati da lei Hsien-yùan e la sua concubina. ―Che ciò accada per volontà del

cielo?‖ si chiese. E pianse, senza dir nulla.

Finalmente, ospiti e amici persuasero la prima moglie a calmarsi. ―Lasciate che il giovane

signore consumi le nozze‖ dissero ―e rimandate i rimproveri a domani.‖

Allora avanzò un gruppo di giovani portando le candele nuziali e scortarono Chang alla camera

da letto. D‘improvviso, come furono sollevate le cortine, oh meraviglia!: Hsien-yùan in persona

sedeva maestosamente sul letto. Convinta che si trattasse di un fantasma, Chang cadde a terra

svenuta. Quando tornò in sé, gemette fra le lacrime: ―Non pensare che ti abbia tradito, mio signore!

in verità non avevo scelta.‖

Hsien-yùan rise e la tranquillizzò con un gesto.

―Non aver paura‖ disse. ―I tuoi due matrimoni sono in realtà uno solo.‖ Poi la depose sul letto e

le spiegò tutta la trama ordita dal Cancelliere Ma. Sulle prime Chang non riusciva a credergli, ma

ben presto tutto le fu chiaro. Allora provò rimorso e vergogna e da quel giorno in poi cambiò

completamente la propria condotta. In effetti, tanto la signora Chang quanto la donna di campagna

sposata dal Cancelliere Ma presero il sentiero della virtù e furono per sempre ottime mogli.

L’INDOVINO T‘ao Tsung-i

Questa storia del Sovrintendente Li, che viveva nella capitale, fu raccontata dal Sovrintendente

Distrettuale Chao.

Li era un funzionario di terzo grado, di grande rango e ricchezza, che pur avendo già superato i

cinquant‘anni, non aveva figli. Un giorno sentì dire che a est del palazzo del Consiglio Imperiale

c‘era un mago che prediceva il futuro e che sbalordiva per la precisione e l‘accuratezza delle sue

profezie. Il Sovrintendente Li decise di consultarlo per sapere se avrebbe avuto un figlio oppure no.

―Non m‘interessa né il denaro né una lunga vita‖ disse. ―Vorrei sapere soltanto se avrò un figlio.‖

L‘indovino sorrise e rispose: ―Ne avete già uno. Volete prendermi in giro?‖

―In verità, non ho figli‖ disse Li. ―Come oserei prendervi in giro?‖

L‘indovino si arrabbiò e disse: ‗Voi avete avuto sicuramente un figlio all‘età di quarantanni! Ora

ne avete cinquantasei. Che altro state facendo, se non prendermi in giro?―

Alcuni militari che sedevano nella stanza si meravigliarono di veder litigare i due uomini. Il

Sovrintendente Li ridette a lungo e con calma, fra sé, poi disse all‘indovino: ―Quando avevo

quarantanni, una delle mie serventi rimase incinta. In quel tempo io dovetti andare al Nord, nella

capitale dei mongoli, per certi affari di stato, e quando tornai a casa mia moglie aveva già venduto

la ragazza. Nessuno di noi sa dove andò a finire, ma se ebbe un figlio, deve essere mio.‖

―Vi sarà restituito‖ disse l‘indovino.

Il Sovrintendente Li salutò e andò via.

Un Comandante di legione che aveva assistito al colloquio invitò il Sovrintendente Li in una sala

da tè e gli disse: ―Quindici anni fa, neppure io avevo figli. Allora andai nella capitale per procurarmi

una concubina, e trovai una donna che era già incinta. Quando tornai a casa, anche mia moglie

aspettava un bambino. Partorirono entrambe un maschio, a distanza di un mese scarso l‘una

dall‘altra. Ora i ragazzi hanno sedici anni. Credete che uno potrebbe essere il vostro?‖

I due uomini descrissero allora la concubina, e le loro descrizioni collimavano perfettamente. Li

andò a casa e parlò a sua moglie, una donna che un tempo era stata gelosa e crudele, ma che il

dolore di non avere eredi aveva alquanto addolcito.

II giorno seguente invitarono il Comandante e imbandirono per lui un sontuoso banchetto. Al

termine di esso, stabilito il giorno di un nuovo incontro, si separarono e il Comandante si mise

direttamente in viaggio verso casa, a Nanyang.

Il Sovrintendente Li riferì la situazione al suo superiore, un alto ufficiale addetto alla persona

dell‘Imperatore, e gli chiese licenza di mettersi in viaggio per andare a trovare il Comandante.

―Questo è un caso meraviglioso!‖ disse il superiore di Li. ―Chiederò un permesso per voi

all‘Imperatore.‖

Li e sua moglie ebbero il permesso dell‘Imperatore, e viaggiarono nella carrozza imperiale, con

tutte le spese pagate.

Quando il Sovrintendente Li arrivò a Nanyang, incontrò un gran numero di ufficiali, venuti a

dargli il benvenuto. Così andarono tutti insieme a casa del Comandante, dove li aspettava un grande

banchetto. Li presentò molti doni preziosi al padrone di casa, a sua moglie, alle concubine e ai

domestici. Infine, il Comandante fece venire i suoi figli.

I due ragazzi differivano un poco nei modi, ma vestivano alla stessa maniera e nessuno avrebbe

potuto dire quale fosse il figlio di Li. Questi interrogò il Comandante, ed egli rispose: ―Riconoscete

vostro figlio voi stesso.‖

Li esaminò a lungo i due ragazzi, poi, ispirato da un sentimento spontaneo, abbracciò uno di essi

e annunciò: ―Questo è mio figlio!‖

―Così è‖ disse il Comandante.

Padre e figlio si tenevano stretti piangendo di commozione, e anche tutti i presenti furono

profondamente commossi. Si levarono i calici per un brindisi augurale, e quando il banchetto finì,

ognuno aveva bevuto in abbondanza.

L‘indomani il Comandante s‘incontrò con il Sovrintendente.

―Vi ho già restituito vostro figlio,‖ disse il Comandante ―ma come posso separarne la madre?

Permettete che vi offra anche lei.‖

La gioia di Li non ebbe più limiti. Egli tornò nella capitale e presentò suo figlio al suo superiore.

―È davvero un bel ragazzo‖ disse il superiore. E condusse il giovane a una udienza con

l‘Imperatore in persona.

Il figlio di Li fu arruolato nella Guardia Imperiale, e in seguito divenne ufficiale di terzo grado,

come suo padre.

Generalmente è il destino che decide se un uomo ha un figlio; i suoi sforzi personali hanno poca

importanza. Ma l‘uomo che lesse il destino di Li, nel suo lavoro era davvero un genio.

UN FIGLIO SCOMPARSO Lieh Tzu

Un uomo di Wei, chiamato Tung Men-wu, quando morì suo figlio non mostrò alcun dolore. ―Tu

amavi il tuo ragazzo come nessun altro padre al mondo‖ gli disse sua moglie. ―Adesso che è morto,

non ti rattristi. Perché?‖

―Ce stato un tempo‖ replicò Tung Men-wu ―in cui non avevo avuto un figlio, e non mi rattristavo

per questo. Ora che egli è morto, la situazione è la stessa di quando non avevo figli. Di che cosa

dovrei rattristarmi?‖

LO STECCHINO D’ORO T‘ao Tsung-i

Mubala il Turco, che aveva come nome cinese Hsi-ying, era un uomo grande e grosso. Un

giorno, mentre pranzavano insieme, sua moglie infilò un gustoso pezzetto di carne con uno

stecchino d‘oro, e stava per metterlo in bocca quando giunse alla porta un visitatore. Hsi-ying andò

a ricevere l‘ospite, e sua moglie, mancandole il tempo di masticare il bocconcino, posò lo stecchino

sul piatto quindi si alzò per preparare il tè. Quando tornò al suo posto, stecchino e bocconcino erano

scomparsi e non si poté ritrovarli in nessun luogo.

Poiché lì attorno c‘era una giovane servente occupata nelle sue faccende, la moglie di Hsi-ying la

sospettò di aver preso lo stecchino. La sottopose a un duro interrogatorio, e la malmenò così

brutalmente che la ragazza, senza aver confessato nulla, finì per morire sotto i suoi colpi.

Più di un anno passò e un giorno si dovette chiamare un carpentiere per riparare il tetto. Mentre

l‘uomo spazzava le tegole per liberarle dalla sporcizia, qualcosa cadde giù sul pavimento di pietra,

con un leggero tintinnìo. Era lo stecchino d‘oro perduto, con un pezzetto di carne putrefatta ancora

infilato sulla punta. I padroni di casa pensarono che a rubarlo e a portarlo sul tetto doveva essere

stato il gatto di casa, non visto dalla giovane servente, che era andata alla sepoltura portando con sé

l‘ingiustizia subita.

Come accadono spesso fatti simili! Io ho voluto scrivere questo come memoria per il futuro.

LA FAVORITA DEL RE Han Fei Tzu

Una volta, in tempi molto antichi, c‘era una bella donna di nome Mi Tzu-hsia, che era la favorita

del signore di Wei. Ora, secondo la legge di Wei, chiunque guidasse una vettura del re senza esservi

autorizzato doveva essere punito con l‘amputazione di un piede. Quando la madre di Mi Tzu-hsia

cadde malata, qualcuno recò la notizia a sua figlia durante la notte; così Mi Tzu-hsia, prese la

carrozza del re e partì, e il re la lodò per averlo fatto.

―Che grande amore filiale!‖ disse. ―Per sua madre, ha rischiato l‘amputazione del piede.‖

Un altro giorno Mi Tzu-hsia, indugiando nel frutteto con il re di Wei, assaggiò una pesca e la

trovò così gustosa, che invece di finirla la porse al suo signore.

―Come mi ama!‖ disse il signore di Wei. ―Dimentica il proprio piacere per condividerlo con me.‖

Ma quando la bellezza di Mi Tzu-hsia cominciò ad appassire, l‘amore del re si raffreddò. E una

volta che ella commise un‘infrazione, il re disse: ―Non è forse costei, che una volta prese la mia

vettura senza permesso? E non osò, un‘altra volta, offrirmi una pesca dopo averla morsa?‖

LA FIGLIA DIVISA Ch‘en Hsuan-yu

Nell‘anno 692, terzo del regno dell‘Imperatrice Wu, il letterato Chang Yi prese dimora in

Hengchou, nella provincia di Hunan, per assumervi una carica di funzionario pubblico. Egli era un

uomo semplice e tranquillo, con pochi, intimi amici. Aveva avuto soltanto due figlie (e nessun

figlio), la maggiore delle quali era morta precocemente. La più giovane, Ch‘ien Niang, era di una

bellezza incomparabile.

Ora, Chang Yi aveva un nipote bello e intelligente, chiamato Wang Chou. Chang Yi pensava

sempre che il ragazzo avrebbe avuto un grande avvenire e diceva: ―Quando il tempo verrà, Ch‘ien

Niang dovrebbe diventare sua moglie.‖

Dopo che Wang Chou e Ch‘ien Niang furono usciti dalla fanciullezza, cominciarono a

fantasticare l‘uno dell‘altro nei loro sogni segreti. Le famiglie, però, non ne sapevano niente; e

qualche tempo dopo, quando un collaboratore di Chang Yi, partito assai conveniente, venne a

chiedere la mano di Ch‘ien Niang, il padre acconsentì.

La notizia rattristò profondamente Ch‘ien Niang e deluse amaramente Wang Chou. Con il

pretesto di essere destinato prima o poi al trasferimento, il giovane chiese il permesso di

abbandonare la capitale. Nessuno riuscì a dissuaderlo, così egli fu congedato con molti doni.

Ferito dal suo dolore, Wang Chou disse addio a tutti e alzò le vele. Al tramonto aveva già

percorso alcune miglia sul fiume, fra le colline. Quella notte, durante la sosta, egli giaceva senza

poter dormire quando d‘un tratto udì dei passi sulla riva. In pochi istanti lo scalpiccio raggiunse

l‘imbarcazione e Wang Chou vide Ch‘ien Niang che arrivava correndo a piedi nudi. Per poco non

impazzì per la gioia e la sorpresa. Le strinse le mani e le chiese di dove venisse. Lei rispose, con gli

occhi pieni di lacrime: ―La profondità del tuo sentimento ci ha commossi entrambi nei nostri sogni.

Ora vogliono privarmi della mia libera volontà, ma io so che il tuo amore non cambierà mai e darei

la vita per ripagarti. Per questo sono fuggita.‖

Fu più di quanto Wang Chou si fosse mai aspettato; a stento riusciva a controllare l‘emozione.

Nascose Ch‘ien Niang nella barca e ripartirono subito, viaggiando da allora in poi giorno e notte.

Pochi mesi più tardi raggiunsero Sze-chuan, nel lontano Ovest.

Passarono cinque anni. Ch‘ien Niang mise al mondo due figli maschi. Non scrisse mai ai suoi

genitori, ma pensava a loro continuamente. Un giorno, in lacrime, disse a Wang Chou: ―Ci fu un

tempo in cui non potevo separarmi da te, e così misi da parte un grande dovere per correre a

raggiungerti. Ora sono trascorsi cinque anni e io sono esclusa dall‘amore e dalla bontà dei miei

genitori; come posso andar fiera di me, in questo mondo?‖

Wang Chou ebbe pietà di lei e disse: ―Torniamo a casa. È insensato continuare a soffrire così.‖

E dunque tornarono insieme a Hengchou. Non appena vi giunsero, Wang Chou volle andare per

primo, da solo, alla casa del suocero Chang Yi, per confessare l‘intera storia. Ma Chang Yi disse:

―Che significa questo tuo pazzo racconto? Mia figlia giace malata da anni nella sua stanza.‖

―Com e possibile, se in questo preciso momento si trova sulla mia barca?‖ disse Wang Chou.

Sconcertato, Chang Yi mandò qualcuno alla barca per vedere se ciò era vero, e in effetti Ch‘ien

Niang era là, con il viso splendente di gioia e l‘espressione sana e vivace. I servi, sbalorditi, corsero

a informare Chang Yi.

Quando la notizia raggiunse la ragazza malata nella sua camera, ella si alzò tutta allegra, si

adornò dei suoi gioielli, s‘incipriò il viso e indossò i suoi vestiti più eleganti. Poi, sorridente ma

silenziosa, uscì a dare il benvenuto alla donna della barca. Non appena s‘incontrarono i loro corpi si

compenetrarono e divennero uno solo, coincidendo perfettamente in ogni tratto. Di doppio non

rimasero che i vestiti, indosso a quell‘unica persona.

La famiglia, considerando anormale tutta quella faccenda, decise di tenerla segreta. Soltanto

pochissimi parenti vennero a conoscenza dei fatti. La giovane coppia morì circa quarantanni più

tardi; i due figli divennero ufficiali del grado più alto e furono nominati Comandanti aggiunti.

Quando ero giovane udii raccontare spesso questa storia. Ne circolano versioni differenti, e

alcuni negano che sia una storia vera. Ma più di ottantanni dopo gli avvenimenti in questione, mi

capitò d‘incontrare un magistrato di nome Lai Wu, il cui padre era stato cugino di Chang Yi; e

poiché il suo racconto fu il più completo che avessi udito, decisi di narrarlo per iscritto.

FANTASMI E SPIRITI

LA CONCUBINA DEL LETTERATO P‘u Sung-Ling

C‘era a Paoting un letterato che aveva comperato il proprio diploma e intendeva comprarsi anche

un incarico da magistrato di contea. Deciso a recarsi nella capitale a tale scopo, aveva appena fatto i

suoi bagagli quando cadde malato e non potè alzarsi dal letto per un mese. Un giorno gli fu

annunziato un visitatore inatteso. Il malato, colto da uno strano presentimento che lo fece

rabbrividire, smise di gemere, si alzò e andò in fretta a salutare l‘ospite. Il visitatore vestiva in

maniera assai elaborata e aveva l‘aspetto di un uomo di rango. Egli entrò, eseguì i tre saluti rituali, e

interrogato circa la sua provenienza rispose: ―Io sono Kung-sun Hsia, magistrato conservatore

dell‘undicesimo Principe Imperiale. Ho sentito che vi stavate preparando a raggiungere la capitale,

per tentar di procurarvi un posto di magistrato. Se questa è la vostra intenzione, forse trovereste

anche più attraente un posto di governatore.‖

Non osando mostrarsi troppo avido, il letterato rifiutò cortesemente, ma lasciò aperto il discorso,

aggiungendo: ―La somma di cui dispongo è modesta e non posso concedermi grandi speranze.‖

Il visitatore si offrì di procurargli l‘incarico, a patto che egli versasse metà della somma

occorrente e s‘impegnasse a pagare il resto con i futuri profitti del suo ufficio. Il letterato, ben

contento, chiese all‘ospite di spiegargli il suo progetto.

―Il governatore generale e il governatore sono i miei più intimi amici‖ disse il visitatore. ―Per il

momento, cinquemila stringhe di moneta vi assicurerebbero il loro appoggio. C‘è un posto vacante

a Chenting, attualmente, e varrebbe la pena di fare un‘offerta seria.‖

Il letterato obiettò che, trovandosi Chenting nella sua stessa provincia, accettarvi l‘incarico

avrebbe significato violare le norme della dinastia, che vietavano a chiunque di assumere un

servizio pubblico nel proprio distretto nativo. Ma il visitatore rise cinicamente e disse:

―Non siate così pedante. Finché avrete denaro in mano, attraverserete qualunque barriera.‖ E

poiché il letterato esitava ancora, sembrandogli l‘intero piano troppo azzardato, aggiunse: ―Non è il

caso che vi tormentiate nei dubbi. Vi dirò tutta la verità: quel posto vacante è negli uffici del Dio

della Città. Il vostro tempo mortale è giunto al termine e voi siete già iscritto nel registro dei morti.

Ma se utilizzerete bene i mezzi disponibili, potrete raggiungere un‘alta posizione nel mondo delle

ombre.‖1 Detto questo, il visitatore di alzò e salutò. ―Riflettete con calma. Ci rivedremo fra tre

giorni.‖ Poi montò a cavallo e si allontanò.

Di colpo il letterato aprì gli occhi, svegliandosi da quello che era apparso, agli occhi dei suoi

servi, un profondo sonno. Allora disse addio a sua moglie e ai suoi figli, poi ordinò che si prendesse

tutto il suo denaro liquido e si comprassero diecimila pani di carta: un acquisto che esaurì le riserve

della contea. I pani furono disposti in tante pile, mescolati con figure di carta che rappresentavano

cavalli e servitori, poi, secondo l‘usanza, gli si diede fuoco e si lasciarono bruciare, giorno e notte

affinché maturassero credito sul conto del padrone, all‘altro mondo.2 Alla fine, il mucchio di cenere

formava una montagna.

Come aveva annunciato, nel terzo giorno il visitatore riapparve. Ricevette il dovuto pagamento e

condusse il letterato in un ufficio amministrativo, dove, in una grande sala, sedeva un alto

funzionario. Il letterato si prostrò dinnanzi a lui, ed egli, letto il suo nome su un foglio, e

approvatolo, lo ammonì di essere ―onesto e prudente‖. Poi il dignitario prese un certificato, fece

segno al letterato di avvicinarsi, glielo consegnò e l‘affare fu concluso.

Il letterato, non potendo vantare che un diploma del grado più basso, godeva di ben poco

prestigio, e per incutere rispetto nei suoi subordinati doveva esibire un certo sfarzo, sia negli abiti

che nell‘equipaggiamento. Egli acquistò dunque carrozza e cavalli e mandò un fantasma-attendente,

su di un cocchio sontuoso, a prelevare la sua concubina favorita.

Quando tutto fu pronto, arrivarono i distintivi ufficiali di Chenting e le insegne regali, con ima

scorta che si allungava sulla via per mezzo miglio: un corteo più che lusinghiero. Ma d‘improvviso i

gong degli araldi tacquero, gli stendardi vacillarono, e tra la confusione e il panico che seguirono il

letterato vide i cavalieri smontare di sella e prostrarsi sulla strada tutti insieme. Poi gli uomini

presero a contrarsi e a rimpicciolire, finché non misurarono più che una trentina di centimetri e i

cavalli si ridussero alle dimensioni dei gatti. Il cocchiere del letterato gridò: ―Il Divino Signore

Kuan è arrivato.‖

In preda al terrore, il letterato scese dalla carrozza e a sua volta si prostrò a terra con gli altri. In

distanza poteva vedere il gran generale dell‘evo antico, celebrato per la sua inflessibile giustizia. Il

Divino Signore era accompagnato da quattro o cinque cavalieri, che reggevano mollemente le

briglie dei loro cavalli. Il Signore Kuan, il viso inquadrato dalle fedine, appariva molto diverso dalle

immagini di lui che circolavano nel mondo; ma la sua presenza spirituale era schiacciante e

fierissima e i suoi occhi erano così distanziati che quasi toccavano gli orecchi. Dall‘alto della sella,

disse indicando il letterato: ―Che specie di funzionario è costui?‖

―È il governatore di Chenting‖ rispose qualcuno.

―E per questa insignificante carica‖ disse il Signore Kuan ―era proprio necessaria una simile

parata?‖

Il letterato rabbrividì e si sentì accapponare la pelle. Poi d‘un tratto vide il suo stesso corpo

contrarsi e rimpicciolire, finché diventò piccolo come quello di un bambino di sei o sette anni. Il

Signore Kuan gli comandò di rialzarsi e di camminare davanti al suo cavallo. A lato della strada

sorgeva un tempio; il signore Kuan vi entrò, si volse verso sud – la direzione della sovranità – e

ordinò carta e pennello, affinché il letterato potesse scrivere il suo nome e il luogo della sua nascita.

Il governatore scrisse quanto gli era stato chiesto e presentò il foglio. Il Signore Kuan vi gettò

un‘occhiata, poi disse, in gran collera: ―Queste parole sono scorrette e le lettere sono deformi! Chi

le ha scritte non è altro che uno speculatore, uno squalo che si è introdotto nella gerarchia pubblica!

Come potrebbe governare il popolo?‖

Il Signore Kuan chiese il curriculum vitae del letterato, e qualcuno gli s‘inginocchiò a lato e gli

porse un documento. Il volto del Divino Signore si fece più cupo e duro che mai; infine egli disse in

tono aspro: ‗Tutto ciò non può essere consentito! D‘altro canto, il crimine di chi compra cariche è

inferiore al crimine di chi le vende.―

Allora un funzionario addetto agli arresti, in armatura d‘oro, fu visto allontanarsi con corde e

collare.

Poi due assistenti afferrarono il letterato, gli strapparono via il cappello e la toga da funzionario e

gli inflissero cinquanta colpi di corda. Quando lo buttarono fuori dei cancelli, le sue carni erano

quasi staccate dalla schiena.

Il letterato scrutò in ogni direzione, ma non v‘era più traccia della sua carrozza e del suo cavallo.

Stroncato dal dolore, si gettò sull‘erba per riposare un poco e quando rialzò la testa e si guardò

attorno si accorse di non essere troppo lontano dalla sua città. Per fortuna il suo corpo era leggero

come una foglia, e così, camminando un giorno intero e una notte, finalmente arrivò a casa. Che

cosa fosse accaduto in realtà, gli fu chiaro quando si svegliò dal sogno, giacente e gemente nel suo

letto.

I familiari gli si raccolsero attorno e gli chiesero come stesse; ma tutto quanto riuscì a dire il

letterato fu che aveva le natiche doloranti. A quanto pareva, egli aveva perduto conoscenza ed era

rimasto come morto per sette giorni. Guardando la famiglia raccolta attorno a lui, chiese: ―Perché la

mia amata Ah Lien non è qui?‖ Ah Lien era la sua concubina favorita.

Gli raccontarono che Ah Lien, la sera prima, mentre sedeva conversando con le altre,

d‘improvviso aveva detto: ―Egli è divenuto governatore di Chenting, e ha mandato un messaggero

perché mi conduca da lui.‖ Quindi si era ritirata nella sua camera, si era preparata, si era truccata, ed

era morta.

II letterato si percosse il petto, preso da un amaro rimorso. Poi, nella speranza che la donna

potesse rivivere, ordinò che il suo cadavere non venisse bruciato. Trascorsero tuttavia parecchi

giorni senza che la donna desse alcun segno di vita, così alla fine la deposero nella tomba. Pian

piano il letterato guarì della sua malattia, ma le piaghe della schiena erano così gravi che

impiegarono sei mesi a cicatrizzarsi.

Di tanto in tanto egli diceva a se stesso: ―La somma che avevo messo da parte per comprare la

carica è svanita e io ho subito la punizione delle potenze ultraterrene. A tutto questo posso resistere.

Ma non sapere dove abbiano condotto la mia amata Ah Lien: questo è troppo duro da sopportare,

nel gelido silenzio delle notti.‖

TRE VITE PRECEDENTI P‘u Sung-ling

Il letterato Liu, che ottenne il suo alto diploma lo stesso anno del mio fratello maggiore, era in

grado di ricordare i fatti delle sue vite precedenti e spesso li raccontava con grande minuziosità.

Nella sua prima vita era stato un membro dell‘aristocrazia, corrotto quanto i suoi simili. Quando

morì, all‘età di sessantadue anni, fu ricevuto dal Re dei Morti. Il re lo trattò come fosse un anziano

del villaggio, concedendogli di sedersi e offrendogli il tè. Liu notò che il tè nella tazza del re era

chiaro e limpido, mentre quello della sua tazza era denso e viscoso. ―Questa dev‘essere la bevanda

che devo mandar giù, per poter rinascere senza memoria della vita passata‖ pensò. E appena il re si

distrasse un momento, gettò il contenuto della tazza oltre l‘angolo del tavolo e fece finta di averlo

bevuto.

Dopo un po‘, il re diede una scorsa all‘elenco dei misfatti commessi in vita dal signor Liu e

ordinò ad alcuni spiriti di portarlo via, condannandolo, per punizione, a reincarnarsi in un cavallo. I

fantasmi si misero in marcia con lui.

Egli si ritrovò davanti a una casa che aveva la soglia troppo alta perché potesse varcarla, ma

come tentò d‘indietreggiare i fantasmi lo frustarono. Allora, con gran dolore, andò avanti

incespicando ed ecco che si trovò in una stalla e udì una voce che diceva: ―La giumenta nera ha

partorito un puledro. Un maschio!‖

Egli comprese le parole, ma non riuscì a parlare. E troppo affamato per fare qualunque altra cosa,

si accostò alla giumenta e le si attaccò a una mammella.

Quattro o cinque anni trascorsero e il suo corpo crebbe alto e forte; ma aveva una gran paura

della frusta, e ogni volta che ne vedeva una s‘impennava. Il padrone proteggeva sempre la sua

schiena mettendo un‘imbottitura sotto la sella e teneva lente le briglie per evitargliene il fastidio; ma

lo staffiere e i servi lo cavalcavano senza alcuna precauzione e gli cacciavano i tacchi nelle carni

provocandogli dolori lancinanti. Fuori di sé per lo sdegno, una volta rifiutò il cibo per tre giorni e

morì.

Quando giunse all‘altro mondo, il Re dei Morti si rese conto che il suo periodo di punizione non

era ancora scaduto e lo rimproverò per averlo evaso. Poi lo fece scuoiare e ordinò che lo

rimandassero nel mondo sotto forma di cane; e poiché Liu era troppo abbattuto per riuscire a

muoversi, l‘orda dei fantasmi lo bastonò selvaggiamente. Allora, in gran dolore, Liu trottò via per

una landa deserta, pensando che avrebbe preferito morire. Difatti saltò in un precipizio, cadde sulla

schiena e non potè rialzarsi. Quando tornò in sé, era in un covo di cani. Una cagna lo stava leccando

con amorosa premura ed egli capì di essere nato di nuovo nel mondo dei mortali.

Quando crebbe e divenne un giovane cane, trovò che gli escrementi e l‘orina avevano un

profumo assai attraente; ma ben sapendo che si trattava di cose sporche, si propose di non toccarli

affatto. Visse come cane per un anno, in uno stato di perpetua furia, non desiderando altro che la

morte. Ma questa volta aveva paura di troncare volontariamente quella vita; e poiché il padrone lo

nutriva bene e non sembrava per nulla intenzionato a ucciderlo per mangiarlo, di proposito gli

addentò una gamba, lacerandogli le carni. Il padrone lo bastonò a morte.

Questo nuovo colpo di testa mandò in collera il Re dei Morti, il quale ordinò che il signor Liu

ricevesse cento frustate; poi, lo tramutò in serpente e lo confinò in una stanza buia, da dove non era

possibile vedere il cielo. Deluso e frustrato, il signor Liu si inerpicò su per una parete e trovò un

buco dal quale fuggì. Una volta fuori si guardò e si accorse di giacere sulla pancia in mezzo all‘erba

folta, e di essere, strano ma vero, un serpente.

Egli giurò a se stesso che non avrebbe mai recato danno ad alcun essere vivente, limitandosi a

soddisfare la fame con frutti e ortaggi. Per più di un anno visse in questo modo, struggendosi dalla

voglia di suicidarsi, ma ben sapendo che non sarebbe stato saggio, proprio come non lo sarebbe

stato, da parte sua, far male a qualcuno e farsi uccidere. Non riusciva a trovare un modo

conveniente per morire. Poi, un giorno, mentre giaceva nell‘erba, sentì avvicinarsi una carrozza;

allora strisciò velocemente sulla strada e lì si fermò ad aspettare. Le ruote della carrozza gli

passarono sopra e lo tagliarono in due.

Il suo rapido ritorno nell‘aldilà sbalordì il Re dei Morti. Il serpente si distese dinnanzi a lui e

raccontò la sua storia. Allora il re, considerando che la creatura era senza colpa nel momento in cui

era stata uccisa, le perdonò e ritenne che avesse ormai scontato pienamente la sua condanna e

potesse rinascere umana. Così il serpente divenne il letterato Liu, dal quale prese l‘avvio la nostra

storia.

Quando il signor Liu nacque, sapeva già parlare. Era in grado di recitare opere letterarie, saggi e

storie dopo averle appena lette, e ben presto ottenne il diploma del grado più elevato. Tuttavia egli

soleva ancora raccomandare alla gente di mettere una trapunta sotto la sella della cavalcatura,

poiché un tacco affondato nel fianco, per un cavallo, è un castigo peggiore di una frustata.

L‘Archivista delle Cose Strane dice: ―Le creature con pelliccia e corna includono principi, re e

signori. E così, proprio come ci sono creature villose e cornute tra i principi e i signori. Per l‘umile,

compiere buone azioni è come piantare un albero per produrre fiori. Per il nobile, compiere buone

azioni è come nutrire un albero già in fiore. Ciò che viene piantato crescerà; ciò che viene nutrito,

durerà a lungo. Chi si è comportato male trascina il carro del sale e sopporta le pastoie come

cavallo; o si nutre di sozzure per poi essere ucciso e cucinato come cane: oppure, rivestito di

squame, muore tra gli artigli della gru o della cicogna, come serpente.‖

IL MONACO DI SEMPRE-CHIARO P‘u Sung-ling

Avendo condotto una vita di specchiata purezza, un certo monaco di Sempre-Chiaro, nella

provincia di Shantung, all‘età di ottant‘anni era ancora forte e gagliardo. Un giorno, tuttavia, cadde

a terra e non si rialzò. I monaci del tempio accorsero in suo aiuto, ma egli era già trapassato

nell‘aldilà.

Il monaco stesso, inconsapevole di essere morto, fluttuò via con la sua anima intatta finché

raggiunse l‘estremo confine della provincia di Honan. In quel momento, in Honan, un giovane di

alto rango stava guidando un gruppo di cavalieri che andavano a caccia di lepri con i falchi. Il

cavallo del giovane spiccò improvvisamente la corsa e il cavaliere fu sbalzato di sella e morì. La sua

anima si scontrò con quella del monaco e le due anime si confusero.

Poco dopo, il giovane riprese coscienza. Non appena ebbe riaperto gli occhi, domandò: ―Come

sono arrivato in questo luogo?‖

I servi lo circondarono solleciti e lo riportarono a casa, dove una schiera di belle donne gli si fece

incontro con apprensione.

―Io sono un monaco!‖ gridò il giovane. ―Che cosa faccio, qui?‖

La gente della casa pensò che avesse perduto la ragione e si adoperò per fargli comprendere che

era stato vittima di un incidente. Il monaco non tentò più nemmeno di spiegarci‘ semplicemente,

chiuse gli occhi e non parlò più.

Si provvide a nutrirlo con riso sgusciato, che egli accettò; ma rifiutò sia il vino, sia la carne; e

quando venne la notte, dormì solo e non volle servigi di mogli né di concubine.

Dopo alcuni giorni, decise di uscire per una breve passeggiata e tutti ne furono molto contenti.

Egli usa all‘aperto, ma appena si fermava, turbe di dipendenti gli si avvicinavano per presentargli

conti da verificare. Egli non volle occuparsi di tali faccende, col pretesto di non essersi ancora

ripreso dalla malattia. E a tutti diceva: ―Nella provincia di Shantung, c‘è una contea chiamata

Sempre-Chiaro, La conoscete?‖ Quelli rispondevano di sì, ed egli diceva: ―Io mi sento depresso e a

disagio, senza aver nulla da fare. Mi piacerebbe andar laggiù in visita. Prepariamoci a partire.‖ I

servitori obiettarono che non si era ancora ripreso abbastanza per poter affrontare quel lungo

viaggio, ma egli non volle ascoltarli.

L‘indomani partirono. Quando furono nella contea di Sempre-Chiaro, egli vide che il luogo era

come lo ricordava. Senza chiedere indicazioni andò direttamente al monastero, dove i discepoli

salutarono con deferenza il distinto ospite.

―Dov‘è andato il vostro vecchio monaco?‖ domandò.

Essi risposero: ―Il nostro maestro è andato dove vanno tutte le cose.‖

Il visitatore chiese allora dove fosse la sua tomba, e i discepoli, sconcertati, lo condussero a un

tumulo che l'erba non aveva ancora ricoperto.

Poco dopo il giovane risalì a cavallo per prendere la via del ritorno.

"Il vostro maestro era un monaco di disciplina; l‘ordine che egli stabilì nel monastero non deve

essere turbato― disse ai discepoli. I monaci continuarono ad annuire, mentre l‘ospite si allontanava.

Tornato a casa, il giovane sentì la propria mente inaridirsi come la cenere. Sedeva perennemente

in meditazione, immobile come un albero disseccato, rifiutando le responsabilità familiari; e dopo

diversi mesi, un giorno uscì di casa e scomparve.

Egli tornò al vecchio monastero e disse ai discepoli: ―Io non sono altri che il vostro maestro.‖

Credendolo pazzo, i monaci si guardarono l‘un l‘altro ridendo; ma quando l‘ospite ebbe

raccontato le circostanze del suo ritorno alla vita ed ebbe parlato di fatti avvenuti durante l‘esistenza

del vecchio monaco, tutto corrispondeva perfettamente al vero. Allora i monaci gli credettero. Gli

restituirono le sue antiche stanze e lo servirono come avevano sempre fatto.

La famiglia del giovane, scoperto dove si trovava, mandò più volte carrozza e cavalli al

monastero, con la preghiera al giovane di tornare a casa. Egli non vi prestò alcuna attenzione. Dopo

un anno, sua moglie mandò al monastero l‘intendente con molti doni, ma il monaco rifiutò l‘oro e la

seta e accettò soltanto una veste di tela. Alcuni amici che si trovavano a passare nel distretto e gli

fecero visita per porgere i loro rispetti, lo trovarono assai taciturno e saggio, per i suoi anni. Benché

egli ne avesse soltanto trenta, poteva raccontare con grande precisione gli eventi di otto decenni.

L‘Archivista delle Cose Strane dice: ―Quando un uomo muore, il suo spirito si disperde. Se uno

spirito viaggia per mille leghe e resta intero, ciò accade perché la natura della sua anima è

inalterabile. Non c‘è da stupire se un monaco di così forte spirito poté tornare in vita; è assai più

sorprendente che egli, rivivendo in un ambiente così magnificamente lussuoso, fosse capace di

sciogliersi da quei legami e voltare le spalle al mondo. Quanto diverso da quegli uomini ordinari

che cadono in un batter di ciglio e macchiano il loro passato morale, così che meglio sarebbe, per

loro, essere morti.‖

I PECCATI DEL MONACO P'u Sung-ling

Allorché un uomo di nome Chang morì improvvisamente, un funzionario dell‘oltretomba venne

a prenderlo per condurlo dal Re dei Morti. Il re consultò il suo curriculum e andò in collera

scoprendo che il funzionario, nel prelevare Chang, aveva commesso un errore. Egli ordinò al

fantasma, pertanto, di riportare alla vita Chang.

Appena rilasciato, Chang persuase il fantasma a mostrargli le prigioni dell‘inferno. Il fantasma lo

guidò attraverso i Nove Abissi, la Collina dei Coltelli e gli Alberi di Spade, indicandogli ogni cosa

degna di nota. Sul finire del giro, giunsero a un luogo dove un monaco pendeva a testa in giù con le

gambe piegate e legate con una corda. I monaco urlava di dolore, come fosse in punto di morte.

Avvicinandosi, Chang riconobbe il suo fratello maggiore; allora, terrorizzato e preso dall‘angoscia,

domandò al fantasma per quali crimini l‘infelice stesse soffrendo.

―Costui era un monaco buddista‖ disse il fantasma.― Arraffava denaro a dritta e a manca, per

pagare le donne e per giocare d‘azzardo. Per queste cose lo abbiamo punito; né lo rimetteremo in

piedi, finché non si sarà pentito amaramente.‖ Tornato in vita, Chang si domandò se davvero suo

fratel10 fosse già morto; e per accertarsene andò subito a trovarlo, presso il Tempio delle

Benedizioni. Appena ebbe varcato i cancelli del tempio udì qualcuno che gridava di dolore; poi

trovò il fratello nelle sue stanze, con le gambe striate di lividure appoggiate contro la parete e

stillanti sangue e pus. Chang gli disse per quale motivo tenesse le gambe in quella posizione.

―Per avere un po‘ di sollievo‖ rispose il monaco. ―Altrimenti il dolore mi si estende a tutto il

corpo.‖

Chang gli riferì quanto aveva visto nel mondo dei morti e 11 fratello ne fu terrificato. Non

soltanto abbandonò i suoi vizi più gravi, ma giurò solennemente di rinunciare anche al vino e alla

carne. Prese a recitare con gran devozione sutra1 e mantra, e nel giro di due settimane era guarito.

Da allora in poi, fu un modello di autodisciplina.

L‘Archivista delle Cose Strane dice: ―L‘inferno, o carcere sotterraneo dei morti, è un mito mai

verificato. Gli uomini vinosi giustificano se stessi, quanto meno, affermando che non ve punizione

per i nostri misfatti. Sfugge alla loro comprensione il fatto che certe calamità dalle quali siamo

colpiti, in questo nostro mondo terreno, sono in realtà il castigo dell‘Invisibile.‖

LA VERITÀ SUI FANTASMI Huang Chun-tsai

Ch‘en Tsai-heng, della mia stessa città, aveva sessantanni ed era un uomo gentile, gioviale, molto

spiritoso. Una volta, trovandosi a tarda sera alla periferia della città, vide due uomini che portavano

una lanterna accesa. Si avvicinò, tentò di accendere la sua pipa a quella fiamma, ma non vi riuscì.

Allora uno dei due uomini gli chiese: ―Avete già superato la vostra prima settimana dopo la morte?‖

Sorpreso, Ch‘en si limitò a rispondere: ―Non ancora.‖

―Ciò spiega tutto‖ disse l‘uomo. ―I vostri spiriti del ‗tempo solare‘ non sono ancora del tutto

svaniti; dunque, il fuoco del ‗tempo d‘ombra‘ non può servirvi.‖

Ch‘en capì che stava parlando con un trapassato e fece finta di essere morto anche lui.

―Nel mondo si dice che gli uomini temano i fantasmi. E vero?‖ chiese.

―Niente affatto‖ rispose uno dei fantasmi. ―La verità è che sono i fantasmi ad aver paura degli

uomini.‖

―Che cosa c‘è mai, negli uomini, che possa spaventare un fantasma?‖ chiese Ch‘en.

―La saliva.‖

Allora Ch‘en tirò un profondo respiro, quindi sputò sugli spettri, che arretrarono subito di tre

passi. Guatandolo con occhi torvi, dissero poi incolleriti: ―Allora non siete un fantasma!‖

Ch‘en si mise a ridere. ―In effetti, a dir la verità, io sono prossimo a un fantasma: abbastanza

prossimo da potervi sputare addosso.‖ E lo fece di nuovo. I fantasmi si contrassero, riducendosi alla

metà della loro statura precedente. Ch‘en sputò una terza volta ed essi svanirono.

SUNG TING-PO ACCHIAPPA UN FANTASMA Kan Pao

Una notte, camminando per la strada, Sung Ting-po di Nayang s'imbatté nell‘anima di un

trapassato.

―Chi siete?‖ domandò.

―Un fantasma‖ rispose quello. ―E voi?‖

‗Un fantasma anch‘io― disse Sung Ting-po per confonderlo.

―E dove siete diretto?‖ domandò il fantasma.

―Alla città mercato di Yuan.‖

―Ci vado anch‘io.‖

E così procedettero insieme. Dopo svariate miglia, il fantasma disse: ―Dobbiamo fare ancora un

bel po‘ di strada; che ne direste di portarci l‘un l‘altro a turno?‖

―Bene‖ rispose Sung Ting-po.

Per cominciare, il fantasma si caricò Sung Ting-po sulle spalle e lo portò per parecchie miglia.

―Amico, siete così pesante‖ disse a un certo punto ―che mi sto domandando se siete davvero un

fantasma.‖

―Sono un fantasma nuovo‖ rispose Sung Ting-po. ―Per questo il mio corpo è ancora pesante.‖

Dopodiché fu la sua volta di portare il fantasma, che era praticamente senza peso. E così

procedettero, cambiando turno molte volte.

―Essendo un fantasma nuovo,‖ osservò Sung Ting-po ―non ho ancora imparato che cosa debbano

temere ed evitare i fantasmi.‖

―La saliva umana‖ rispose il fantasma. E continuarono per la loro strada.

Presto giunsero a un ruscello che bisognava attraversare, e Sung Ting-po chiese al fantasma di

precederlo. Il fantasma guadò il ruscello senza fare alcun rumore; ma quando Sung Ting-po lo seguì

il suo corpo produsse un grande sciacquio. Domandò il fantasma: ―Come mai fate tutto questo

fracasso?‖

1 morti recenti non sanno ancora attraversare l‘acqua. Non prendetevela con me.―

I due erano quasi arrivati a destinazione e toccava di nuovo a Sung Ting-po caricarsi il fantasma.

Egli se lo aggiustò sulle spalle e improvvisamente strinse la presa. Il fantasma gridò e prese a

dimenarsi per scendere giù, ma Sung Ting-po lo tenne ancora più stretto e marciò avanti fino al

mercato di Yuan. Una volta arrivato mise giù il fantasma, e come questi toccò terra si trasformò in

una pecora. Sung Ting-po lo mise in vendita, e temendo che potesse trasformarsi di nuovo, gli sputò

addosso. Ne ricavò millecinquecento monete di rame e se ne andò per la sua strada.

Questa è una storia vera. Una cronaca del tempo racconta: ―Sung Ting-po vendette un fantasma

per millecinquecento monete di rame.‖

L’UOMO CHE NON ACCHIAPPO' IL FANTASMA Chi YON

Mio padre sentì raccontare questa storia da suo nonno.

Nella città di Ching viveva un uomo chiamato Ch‘iang San-mang. Era coraggioso e schietto, del

tutto privo di sottigliezze. Un giorno udi raccontare come Sung Ting-po prese un fantasma, come il

fantasma si trasformò in una pecora per sfuggirgli, e come Sung Ting-po lo vendette, dopo avergli

sputato addosso per evitare che si trasformasse di nuovo.

Ch‘iang San-mang non stava più in sé dalla gioia.

―Ora sono sicuro che i fantasmi possono essere catturati‖ disse. ―Se potessi acchiapparne uno

ogni notte e tramutarlo in una pecora, la mattina dopo potrei portarlo a macellare e mi procurerei da

mangiare e da bere per tutto il giorno.‖

Da allora in poi, ogni notte, con un bastone in spalla e una corda in mano, strisciava tra le tombe,

come un cacciatore sulla pista di un coniglio. Ma non incontrava mai niente. I posti che la gente

considerava ―spiritati‖ risultarono deserti e tranquilli; perfino quella volta che Ch‘iang San-mang si

finse ubriaco e addormentato, per tentare i fantasmi e indurli a scatenarsi, non accadde un bel nulla.

Una notte, nella foresta, scorse alcune luci tremolanti. Sufiabe e storie cinesi bito si lanciò in

quella direzione, ma quando fu sul posto le luci si erano già disperse come faville. Dopo un mese di

tali frustrazioni, lasciò perdere.

A quanto pare, i morti spaventano i vivi, semplicemente sfruttando la loro paura. Ch‘iang San-

mang era convinto che un fantasma potesse essere acchiappato e legato, e la sua mancanza di paura

fu sufficiente a spaventare i fantasmi e a tenerli lontani.

AI TZU E IL FANTASMA DEL TEMPIO ATTRIBUITA A Su Shih

Viaggiando in barca sul fiume, Ai Tzu vide un tempio. Era alquanto piccolo e basso e tuttavia

colpiva per la sua singolare dignità. Davanti a esso correva un esiguo fossato. Mentre Ai Tzu

guardava, un viandante raggiunse il fossato, e lì si fermò, non sapendo come attraversarlo. Dopo

aver riflettuto, l‘uomo entrò nel tempio, afferrò la statua del dio al quale era dedicato e, portatala

fuori, la coricò attraverso il fosso; quindi vi camminò sopra e se ne andò per la sua strada.

Venne un altro viandante; vide la statua, e sospirò: ―Che vergogna, una simile mancanza di

rispetto per un‘immagine sacra!‖ Raddrizzò la statua, la ripulì con la sua veste e con reverenza la

rimise al suo posto. Poi s‘inchinò tre volte e se ne andò per la sua strada.

Pochi istanti dopo, Ai Tzu udì nel tempio la voce di un piccolo fantasma che parlava alla statua.

―Mio Signore,‖ diceva ―quale divinità voi dimorate qui rallegrandovi delle offerte e dei riti dei

paesani; e quel bruto ha osato insultarvi! Non sarebbe il caso che gli mandaste qualche calamità per

insegnargli la lezione?‖

―Se una calamità dovesse proprio verificarsi,‖ rispose il dio del tempio ―essa dovrebbe cadere sul

secondo viandante.‖

―Ma il primo ha camminato su di voi! Quale insulto più grande poteva rivolgervi?‖ disse il

piccolo fantasma. ―Eppure, voi non intendete rovinarlo! II secondo viandante vi ha dimostrato

rispetto, mio Signore; e tuttavia, lo rovinereste. Perché?‖

Il primo uomo― disse il dio del tempio ―non ha più fede: quindi, non posso più rovinarlo.‖

―E' proprio vero‖ disse Ai Tzu ―che gli dèi hanno paura dei malvagi.‖

UNA PROVA INCONFUTABILE Kan Pao

Shih Hsù, famoso generale di Kiangsi, era un uomo assai abile nel ragionamento logico. Uno dei

suoi studenti, altrettanto incline alla razionalità, si diceva convinto che i fantasmi non esistessero.

Un giorno lo studente ricevette un visitatore inatteso, che indossava una veste nera con baveri

bianchi. La loro conversazione toccò vari argomenti e infine si volse al tema dei fantasmi. Su questo

punto lo studente e lo straniero sostenevano opinioni opposte.

Dopo aver discusso per una intera giornata, il visitatore, sopraffatto dalla rigorosa logica

dell‘altro, disse: ―Mio signore, voi siete molto abile nell‘uso delle parole, ma il vostro ragionare non

è perfetto, dal momento che io in persona sono un fantasma. Potete ancora sostenere che non ne

esistono?‖

―Perché siete venuto a trovarmi?‖ chiese lo studente.

―Mi hanno incaricato di prelevarvi. Il vostro tempo scade domani all‘ora di pranzo.‖

Lo studente lo implorò con tanta angoscia, che il fantasma disse: ―Conoscete qualcuno che vi

rassomigli?‖

―Sì. Un funzionario del comando di Shih Hsù.‖

Il fantasma e lo studente andarono a trovare il funzionario. Sedettero. Poi il fantasma, invisibile,

prese un ferro appuntito lungo una trentina di centimetri, lo puntò in cima alla testa del funzionario

e prese a batterlo con un martello.

―Ho male alla testa‖ disse il funzionario.

Presto il dolore divenne violento e nel giro di un‘ora il funzionario era morto.

IL VINO DELL’AMICIZIA P'u Sung-ling

Un pescatore di nome Hsù costruì la propria casa fuori della Porta Settentrionale di Tzu, nella

provincia che attualmente si chiama Shantung. Ogni sera prendeva con sé del vino per berlo mentre

pescava sulla riva del fiume, e ogni volta ne versava un poco sul terreno ―affinché gli spiriti di

coloro che erano annegati nel fiume potessero avere un poco di vino anche loro‖. Generalmente,

quando gli altri pescatori non avevano pescato un bel nulla, Hsù tornava a casa con la cesta piena.

Una sera, mentre Hsù trincava tutto solo, si avvicinò un giovane che prese a camminare

d‘intorno, avanti e indietro. Hsù gli offerse da bere e munificamente spartì con lui la sua brocca di

vino. Era una notte deludente, tuttavia, perché Hsù non aveva ancora pescato un solo pesce.

―Discenderò la corrente‖ disse il giovane, ―e manderò su i pesci per voi‖. Detto fatto si alzò, e si

allontanò rapido e leggero che sembrava non toccasse terra. In brevissimo tempo ritornò e disse:

―Sta arrivando una bella frotta di pesci.‖

E in verità, Hsù poté udire un gran coro di spruzzi e sciacqui, come se i pesci, nell‘avvicinarsi,

saltassero per acchiappare insetti. Il pescatore tirò su la rete e ne prese un bel po‘, tutti grossi e

lunghi almeno un piede.

Tutto contento, Hsù ringraziò il giovane e si avviò verso casa, ma subito tomo indietro per offrire

un po‘ di pesce al suo benefattore. Questi rifiutò garbatamente, dicendo: ―Ho spesso gustato il

vostro delizioso vino: non è il caso che mi ripaghiate per la mia insignificante assistenza. Piuttosto,

se non rifiutate la mia compagnia, mi piacerebbe che diventasse una consuetudine.‖

―Abbiamo trascorso insieme soltanto una serata‖ rispose Hsù. ―Che cosa intendete, dicendo di

aver gustato spesso il mio vino? Quanto al resto, sarà una piacere ricevere le vostre visite, benché

tema di non aver niente per ripagare la vostra bontà.‖ Poi chiese al giovane il suo nome.

―Io sono un Wang‖, fu la risposta, ―ma non ho prenome. Potete chiamarmi Liu-lang, o ‗Sesto-

nato‘.‖ E dopo questo, si separarono.

L‘indomani Hsù vendette il pesce e comprò altro vino. La sera, quando giunse alla riva del

fiume, il giovane era già lì ed ebbero il piacere di bere insieme ancora ima volta. E ancora una volta,

dopo che la brocca fu passata ripetutamente dall‘uno all‘altro, il giovane corse via, per andare a

dirigere i pesci verso Hsù.

Le cose andarono avanti in questa piacevole maniera per sei mesi; poi un giorno, di punto in

bianco, Liu-lang annunciò a Hsù: ―Da quando ebbi l‘onore di fare la vostra conoscenza, siamo

divenuti più intimi dei parenti più stretti. Ma il giorno di separarci è venuto.‖ La sua voce era piena

di tristezza.

Hsù ne chiese il motivo, sorpreso. g giovane cominciò più volte a parlare, più volte s‘interruppe,

poi finalmente disse: ―Data la nostra amicizia, il motivo per cui dobbiamo separarci vi colpirà

fortemente; ma non credo di far male a dirvi la pura e semplice verità. Io sono un fantasma e ho

sempre avuto un debole per il vino. Morii annegato durante una sbornia il vino dell‘amicizia e sono

rimasto qui per anni. Voi avete sempre pescato più pesci di chiunque altro, perché c‘ero io a dirigerli

verso di voi, in ringraziamento delle vostre offerte di vino. Ma domani scade il tempo che dovevo

trascorrere qui, secondo il mio karma, e qualcuno verrà a sostituirmi. Io dovrò rinascere, per vivere

un‘altra vita sulla terra. Questa serata è tutto quanto ci resta da condividere, ed è difficile non

sentirsi tristi.‖

Sulle prime Hsù fu spaventato; ma erano stati amici così a lungo, che la paura non tardò a

svanire. Egli sospirò riflettendo sulle straordinarie notizie, poi versò da bere e disse: ―Liu-lang,

bevete questa coppa e non disperatevi. Che le nostre vie debbano dividersi è certo motivo di

rammarico; ma che il vostro destino karmico sia compiuto, ed esaurito il tempo della vostra

sofferenza, questo è motivo di gioia, non di dolore.‖ E bevvero insieme un lungo sorso di vino. ―Chi

vi sostituirà?‖ domandò poi Hsù.

‗Lo vedrete da questa riva. A mezzogiorno una donna annegherà attraversando il fiume; sarà lei a

sostituirmi.―

Quando i galli del villaggio chiamarono l‘alba con il loro canto, i due bevitori si separarono, non

senza lacrime.

Il giorno seguente, Hsù si mise ad aspettare sulla riva del fiume. Giunse una donna con un bimbo

fra le braccia, entrò nell‘acqua, e vi sprofondò. Subito la donna sospinse il bimbo sulla sponda, poi

prese a gridare, agitandosi disperata nella corrente. Più volte scomparve sott‘acqua e riemerse alla

superficie, e finalmente riuscì a issarsi sulla sponda, affannata e grondante. Si fermò un poco per

riprendere fiato, poi raccolse il bambino e se ne andò.

Mentre la donna stava per affogare, l‘impulso di Hsù era stato quello di lanciarsi a salvarla; si era

trattenuto dal farlo ricordando che era suo destino prendere il posto di Liu-lang; ora, tuttavia,

vedendo che si era salvata ugualmente, cominciò a dubitare di quanto Liu-lang gli aveva raccontato.

Quando scese il crepuscolo, Hsù andò a pescare al solito posto, ed ecco che il suo amico tornò, e

gli disse: ―Eccoci di nuovo insieme; non occorre più che ci separiamo.‖ E quando Hsù gliene chiese

il motivo, Liu-lang spiegò: ―Quella donna aveva già preso il mio posto, ma il bimbo che aveva tra le

braccia mi ha fatto una gran piena. Non potevo sopportare che due creature perissero per il bene di

una, e così li ho risparmiati. Ora non so più quando sarò sostituito, quindi sembra che il nostro

fraterno sodalizio possa continuare.‖

Profondamente commosso, Hsù sospirò: ―Tanta umanità di cuore, l‘Altissimo nei Cieli dovrebbe

vederla.‖

Così ritrovarono, dunque, il piacere della reciproca compagnia; ma parecchi giorni più tardi, Liu-

lang venne di nuovo a congedarsi. Hsù immaginò che avesse trovato un altro sostituto, ma Liu-lang

disse: ―Non è così. Il mio pensiero compassionevole per la donna che stava annegando è arrivato

effettivamente in cielo; e per premio, mi è stata assegnata la condizione di divinità locale della città

di Wu, nella contea di Chauyuan.1 Assumerò il mio incarico domani. Ricordate, vi prego, la nostra

amicizia, e venite a trovarmi. Della lunghezza o della difficoltà del viaggio non dovrete

preoccuparvi.‖

―Che grande conforto avere per divinità una persona giusta come voi‖ disse Hsu,

congratulandosi con l‘amico. ―Ma non vi sono strade che colleghino gli uomini e gli dèi! Anche se

la distanza non mi fa paura, come potrò cavarmela?‖

―Semplicemente, andate. Non datevi pensiero di null‘altro‖ replicò il giovane. E dopo aver

ripetuto il suo invito, se ne andò.

Hsu andò a casa, fece i suoi preparativi, e si mise in viaggio senza baciare ai commenti ironici di

sua moglie.

―Vorresti viaggiare per centinaia di miglia?‖ sogghignò la donna. ―Ammesso che quel posto

esista davvero, non credo che potrai far conversazione con un idolo di argilla!‖

Hsù non rispose. Parti, ed effettivamente raggiunse la contea di Chauyuan, dove apprese che

esisteva davvero una cittadina di nome Wu. Si avviò in quella direzione e durante il percorso si

fermò a una locanda per chiedere dove fosse il tempio.

Per caso,― chiese il locandiere, piacevolmente sorpreso, ―il nome del nostro ospite sarebbe Hsù?‖

―Per l‘appunto‖ disse Hsù. ―Come lo sapete?‖

Il locandiere si allontanò bruscamente, senza dare alcuna risposta. Di lì a poco, una moltitudine

eterogenea si avvicinò, circondando Hsù come una muraglia. Molti uomini avevano con sé i loro

bambini e le donne facevano capolino dagli usci delle case. Con grande stupore di Hsù, la folla

annunciò: ―Molte notti orsono, facemmo un sogno nel quale la nostra divinità ci disse che presto

sarebbe arrivato un amico di nome Hsù, e che avremmo dovuto offrirgli un contributo per le sue

spese di viaggio. Da allora vi abbiamo atteso rispettosamente.‖

Tutto meravigliato, Hsù si recò al tempio per i dovuti sacrifici. E pregò così: ―Da quando ci

separammo, il mio pensiero ha dimorato in voi notte e giorno. Vengo da lontano per tener fede al

nostro patto, e voi mi avete favorito, e insieme commosso, preannunciando il mio arrivo alla gente

del luogo. Sono imbarazzato di non avere doni confacenti da offrirvi; ho portato con me solo una

fiasca di vino: se lo ritenete accettabile, beviamo insieme, come solevamo fare sulla riva del fiume.‖

Conclusa la sua preghiera, bruciò della carta moneta e una folata di vento si levò da dietro l‘altare.

Il fumo turbinò d‘intorno per qualche tempo, quindi scomparve.

Quella notte Liu-lang, alquanto diverso di aspetto nel suo nuovo abbigliamento riccamente

adornato, entrò nei sogni di Hsù e gli espresse il suo apprezzamento con queste parole: ―Mi

commuove fino alle lacrime che siate venuto da cosi lontano per vedermi; ma non posso

incontrarmi con voi direttamente, a causa della mia condizione immateriale. E triste, per me, essere

così vicino ai viventi, eppure così lontano. La gente del luogo vi offrirà qualche modesto presente,

in memoria della nostra passata amicizia; e in qualunque momento decidiate di tornare a casa, io vi

accompagnerò personalmente.‖

Hsù trascorse ancora qualche giorno nella città di Wu, poi cominciò a prepararsi per ripartire. Gli

abitanti del luogo cercarono di trattenerlo più a lungo, invitandolo caldamente a partecipare a molte

giornate di festa in suo onore, presso ospiti diversi. Ma Hsù era ormai determinato a tornare a casa,

e allora ciascuno s‘ingegnò di superare se stesso in generosità, tanto che nello spazio di una

mattinata le borse di Hsù si riempirono di doni. Infine gli anziani e i giovani lo scortarono fuori

dell‘abitato e uno strano turbine di vento lo seguì per tre o quattro miglia. A quel punto, Hsù

s‘inchinò ripetutamente.

―Abbiate cura di voi, Liu-lang‖ disse; ―e non datevi la pena di accompagnarmi più lontano. Con

il vostro cuore così sensibile e così pieno d‘amore, farete gran bene a questa popolazione, senza il

consiglio dei vecchi amici.‖

Ancora per un poco il vento turbinò d‘intorno, poi cadde. E anche gli abitanti di Wu,

commentando con meraviglia i fatti ai quali avevano assistito, tornarono alle loro case.

Quando Hsù arrivò al suo villaggio, trovò tanto migliorate le condizioni della sua famiglia, che

non ebbe più bisogno di andare a pescare. In seguito, viaggiatori provenienti dalla contea di

Chauyuan gli raccontarono che la loro divinità locale operava miracoli ed era divenuta famosa.

L‘Archivista delle Cose Strane dice: ―Raggiungere le più alte mete della propria ambizione,

senza dimenticare gli amici del tempo in cui fummo poveri e umili: questo fu ciò che fece di Wang

Liu-lang un dio. Ma quanti, fra i nobili e i grandi, riconoscono dall‘alto della loro carrozza colui che

porta ancora un cappello di bambù?‖

IL CENSORE E LA TIGRE Chang Tu

Li cheng di Lunghsi, attualmente nota con il nome di Kansu, era imparentato con la famiglia

imperiale. Fin da giovane fu un erudito, eccellente soprattutto nello scrivere. All‘età di vent'anni

divenne un eminente e stimato uomo di lettere, tanto che il governatore gli assegnò uno stipendio.

Nella primavera del decimo anno di regno di T‘ien Pao (751 d.C.) Li Cheng fu uno dei candidati

migliori sotto il viceprimo ministro Yang Mo e avanzò negli studi fino al massimo grado. Qualche

anno dopo fu inviato a occupare il posto vacante di capo della polizia a Chiangnan.

Li Cheng, uomo indolente per natura per di più reso arrogante dal proprio talento, non seppe

rassegnarsi a quell‘incarico troppo modesto e si sentì frustrato e depresso. Ogniqualvolta si trovava

con i suoi colleghi, dopo i primi bicchieri diceva: ―Come è possibile che gente come voi si trovi al

mio stesso livello?‖ Al che i suoi colleghi si risentivano vivamente.

Dopo qualche tempo li Cheng rassegnò le dimissioni e si chiuse in casa per quasi un anno. Poi,

spinto dalla necessità di guadagnarsi da vivere, fece i bagagli e andò nel Sud-Est, nella speranza di

ottenere un incarico dagli amministratori locali. Poiché in quella regione godeva di un‘ottima fama,

molte persone si riunirono per studiare con lui e per godere della sua interessante compagnia.

Quando egli si preparò a ripartire, oltre un anno più tardi, gli offrirono una gran quantità di ricchi

doni.

Durante il viaggio di ritorno, Li Cheng fece sosta in una locanda presso Jufen e lì fu colpito da

una forte febbre e perse la ragione. Per alcuni giorni maltrattò i suoi servi e li frustò senza pietà; poi,

aggravandosi il male, una notte fuggì via, in preda a un accesso di violento furore. Nessuno seppe

mai dove fosse andato. I servi lo cercarono invano, e invano attesero il suo ritorno; dopo un mese,

poiché Li Cheng non si era ancora rivisto, se ne andarono con il cavallo del padrone, i suoi averi, e i

doni dei suoi allievi.

Nell‘anno che seguì, il letterato Yuan Ts‘an della prefettura di Ch‘en fu mandato con una

commissione imperiale nell‘estrema provincia meridionale di Kuangtung, per svolgervi la funzione

di censore. Yuan Ts‘an e la sua scorta viaggiarono in diligenza fino al territorio di Shangyu, nella

provincia di Honan, e lì si fermarono per la notte. L‘indomani mattina, mentre si preparavano a

ripartire, l‘addetto alla stazione di posta disse a Yuan Ts‘an: ―Più avanti, lungo la strada, c‘è rischio

d‘imbattersi in una tigre; una terribile divoratrice di uomini! Nessuno è mai passato incolume di lì,

se non viaggiando nella piena luce del giorno. Adesso albeggia appena; è presto per ripartire.

Trattenetevi ancora un poco.‖

―Io rappresento l‘Imperatore― obiettò seccamente Yuan Ts‘an ―e viaggio con molti cavalieri. Non

c‘è bestia, né montagna, né palude che possa fermarmi!‖ E ordinò che la vettura partisse.

Avevano percorso sì e no un quarto di miglio quando una tigre balzò fuori dal sottobosco. Yuan

Ts‘an ebbe un attimo di terrore; ma subito la tigre si rituffò nel folto dei cespugli e di lì parlò con

voce umana: ―Questo è davvero un caso straordinario! Poco è mancato che non uccidessi un

vecchio amico!‖

Udendo quelle parole che venivano dal bosco, Ts‘an riconobbe la voce di Li Cheng. Avevano

preso insieme i loro diplomi ed erano stati grandi amici; poi, alcuni anni prima, le loro strade si

erano divise. Ora, riudendo quella voce nota, Ts‘an provò un grande spavento e insieme una grande

meraviglia; non riusciva a comprendere che cosa stesse accadendo. Finalmente riuscì a domandare:

―Chi sei? E mai possibile che tu sia il mio amico Li Cheng di Lunghsi?‘‘ La tigre gemette più volte,

poi rispose: ―lo sono Li Cheng. Sii gentile, soffermati un poco, e scambia qualche parola con me.‖

Ts‘an smontò di sella e parlò rivolto ai cespugli: ―Mio caro Li Cheng, dimmi, che cosa ti è

accaduto?‖ ―Da quando ci separammo‖ disse la tigre ―non ho più avuto tue notizie. Come stai, e

dove sei diretto, adesso? Poco fa ho visto due dei tuoi funzionari cavalcare in avanguardia, guidati

da un messaggero che portava il sigillo del tuo ufficio. Sei forse un censore imperiale, in viaggio

per il tuo incarico?‖

―Sì. Ho avuto la fortuna di essere nominato censore di recente. Sto andando in missione a

Kuangtung.‖

―I tuoi meriti letterari ti hanno dato modo di affermarti e il tuo ingresso nei ranghi della Corte è

un grande successo‖ disse la tigre. ―Ma più grande ancora, nella sua integrità, è il ruolo del censore,

che porta su di sé la responsabilità della condotta di tutti gli altri dignitari. Sua Maestà ha dimostrato

grande discernimento nello scegliere un uomo di raro valore, quale tu sei, ed è per me una vera

gioia vederti in una posizione tanto elevata; mi congratulo sinceramente con te.‖

―Ai vecchi tempi‖ disse Ts‘an ―tu e io ottenemmo i primi riconoscimenti nello stesso anno, e

stringemmo un‘amicizia molto più forte del comune; ma è volato via tanto tempo, senza che

ciascuno di noi potesse udire la voce dell‘altro, o vedere il suo volto. Il mio cuore e i miei occhi

avevano perso la speranza di ritrovare il tuo eccellente esempio. Non immaginavo davvero che oggi

ti avrei udito di nuovo parlare, e ricordare la nostra amicizia. Ma perché ti nascondi, invece di venir

fuori a incontrarmi? Non si fa così, con i vecchi amici!‖

―lo non sono più umano― rispose la tigre dal folto. ―Come posso presentarmi a te?‖

Ts‘an chiese allora come fosse potuto accadere un simile mutamento, e la tigre rispose: ―Avevo

trascorso un periodo di tempo nel Sud e stavo ritornando a casa, quando durante una sosta a Jufen

fui colpito da un male che mi tolse la ragione. Corsi via per le colline, e d‘un tratto mi trovai a

camminare su quattro zampe. Sentii incrudelire il mio cuore e crescere enormemente la mia forza.

Un folto pelame mi ricopriva i fianchi. Quando vedevo qualcuno passare sulla strada in abito da

cerimonia, o affrettarsi sotto il peso dei suoi fardelli, quando vedevo uccelli in volo, o animali in

movimento, provavo l‘impulso irresistibile di divorarli! Ma solo quando giunsi, vagando, a sud di

Hanyin, provai davvero i morsi della fame. Un uomo ben pasciuto mi attraversò la strada; lo

aggredii, e lo divorai fino all‘ultimo brandello di carne. Da allora, questo comportamento mi

divenne abituale. Benché sia stato un uomo arrogante, ricordo sempre la mia famiglia e i miei

amici; ma avendo violato le sante leggi, ed essendomi tramutato in una bestia feroce, ho vergogna

di mostrarmi a chiunque. Ahimè, tu e io ottenemmo il massimo diploma lo stesso anno e siamo

sempre stati molto vicini; ma oggi tu presiedi una commissione imperiale e fai onore ai tuoi genitori

e ai tuoi amici; io devo nascondermi nella foresta e tenermi lontano per sempre dal mondo degli

uomini. Invano mi scaglio contro il cielo e sospiro; invano abbasso gli occhi a terra e piango.

Rovinato e incapace di rendermi utile: questa è la mia sorte.‖ La tigre pianse e gemette, non

potendo più controllare i propri sentimenti.

―Se ti sei trasformato in un‘altra specie― domandò Ts‘an, come mai sei tuttora in grado di

parlare?‖

―Ho mutato forma,‖ disse la tigre ―tuttavia, mente e cuore hanno ancora intendimento umano. Il

che non toglie che io sia selvaggio e violento, pieno di paura e di odio, inadatto a far ciò che

dovrebbe fare un amico e un ospite. Ma ti prego: ricordati di me e perdona la mia imperdonabile

condotta! Quando tornerai dal tuo giro nel Kuangtung, se c‘incontreremo di nuovo, io dimenticherò

sicuramente la nostra annosa amicizia e non vedrò in te niente altro che un pasto a portata di mano.

Sta‘ in guardia, ti scongiuro! Non lasciare che io commetta un così grande crimine e mi attiri il

disprezzo dei miei colleghi letterati.‖ Tacque un istante, poi aggiunse: ―Tu e io siamo stati come una

sola persona. Posso affidarti un incarico?‖

―Non c‘è nulla che rifiuterei a un vecchio amico― rispose Ts‘an. Tarla liberamente; sono ansioso

di aiutarti.‖

―Se tu non avessi acconsentito‖ disse la tigre ―non avrei osato parlartene. Ma ascolta. Quando

persi la ragione, in quella locanda, e fuggii per le montagne, i miei servi s‘impadronirono del mio

cavallo e del mio bagaglio. Come avrebbe potuto, la mia famiglia, immaginare ciò che mi era

successo? Penso che essa viva ancora nel mio vecchio villaggio. Ti prego, quando tornerai dal Sud,

manda loro un messaggio e di‘ semplicemente che sono morto: non una parola sul nostro incontro di

oggi! Se farai questo per me, ti sarò debitore per sempre.‖

La tigre fece ancora una pausa e aggiunse: ‗lo non posseggo nulla, in questo mondo, e mio figlio

è ancora troppo giovane per guadagnarsi da vivere. Tu hai un‘alta posizione a corte e sei sempre

stato un esempio di moralità e di fedeltà verso gli amici: e quale amicizia è mai stata più forte della

nostra? Io spero che vorrai ricordare quanto mio figlio sia inerme e privo di aiuti, e soccorrerlo di

quando in quando nelle sue necessità, così che non debba morire di stenti per la via. Che grande

benedizione sarebbe questa!―

Quando ebbe finito di parlare, la tigre scoppiò in lacrime. Anche Ts‘an pianse e disse: ―Noi

dividemmo le nostre gioie e i nostri dolori; tuo figlio, dunque, sarà anche mio figlio. Mi adoprerò al

massimo per compiere la grave missione che mi affidi. Non devi preoccuparti per il suo benessere.‖

―Un tempo,‖ disse la tigre ―io scrissi alcune composizioni che non furono mai conosciute e le cui

brutte copie sono andate disperse e perdute. Vorrei tanto che tu le trascrivessi per me! Non perché

speri nella loro diffusione, ti assicuro; ma perché potrebbero contenere qualcosa di utile da

tramandare ai miei discendenti.‖

Ts‘an chiese a un servo di portargli l‘occorrente e cominciò a scrivere ciò che la tigre gli dettava.

Furono, in tutto, una ventina di composizioni. Lo stile era nobile, il contenuto profondo. Ts‘an

sospirò più volte rileggendo il testo.

―In questi scritti‖ disse la tigre ―ho raccontato le cose che tentai di fare, e l‘uomo che tentai di

essere. Ma non ho il diritto di aspettarmi che le mie parole significhino qualcosa per le generazioni

future. Ora, però, tu hai una missione da compiere e un preciso programma da rispettare; se indugi

qui troppo a lungo, il messo s‘inquieterà, perché perderete la prossima sosta. Così, le nostre vie ora

debbono dividersi per sempre. Il dolore che ne provo non può essere descritto.‖

Il commiato si prolungò alquanto, poi Ts‘an ripartì. La prima cosa che fece, tornato dal suo

viaggio nel Sud, fu di scrivere una lettera al figlio di Li Cheng, accludendo il denaro occorrente per

un rito funebre di commemorazione. Un mese dopo il figlio venne nella capitale e si presentò a

Ts‘an per chiedere la bara di suo padre. Non avendo altra scelta, il censore imperiale dovette dirgli

la verità. In seguito, Ts‘an decise di spartire il proprio stipendio con la moglie e il figlio di Li

Cheng, per risparmiar loro ogni difficoltà e ristrettezza. Infine progredì ancora nella carriera e

divenne ministro della guerra.

LA GIUSTIZIA ULTRATERRENA P'u Sung-Ling

Hsi lien di Tungan, una contea nella provincia di Ho-nan, era un uomo ingenuo e credulone;

questa era stata la causa del suo dissidio con gli Yang, una ricca famiglia del suo stesso villaggio. Il

vecchio Yang era morto ormai da alcuni anni, e ora anche Hsi Lien era giunto alla soglia della

morte.

―D vecchio Yang ha pagato le guardie dell‘oltretomba perché mi picchiassero‖ disse piangendo.

Il suo corpo cominciò a farsi paonazzo e a gonfiarsi; Hsi Lien gemette ancora una volta e cessò di

vivere.

Suo figlio Hsi Fang-p‘ing ne fu così addolorato che non poté più toccare cibo.

―Mio padre era un uomo sincero e semplice,‖ disse ―e certo non si esprimeva molto bene; ma ora

ha subito un‘ingiustizia per opera di un fantasma abietto, e io andrò personalmente nell‘oltretomba

per far valere le sue ragioni.‖ Queste furono le ultime parole che Hsi Fang p‘ing pronunziò per

giorni e giorni. Che stesse in piedi o seduto, sembrava che avesse perso ogni facoltà mentale; la sua

anima, infatti, si era dipartita dal suo corpo.

Intrapreso il viaggio nell‘oltretomba, e non sapendo bene dove dirigersi, lo spirito di Hsi Fang-

p‘ing interrogò alcuni viandanti e questi lo indirizzarono alla città ultraterrena in cui si trovava

prigioniero suo padre. Hsi raggiunse la prigione e attraverso i cancelli poté vederlo. Il vecchio, che

giaceva sdraiato sotto il cornicione dell‘edificio ed era ridotto l‘ombra di se stesso, appena levò lo

sguardo e vide suo figlio, si mise a piangere come un bambino.

Tutti i carcerieri sono stati corrotti!― disse. ―A furia di picchiarmi notte e giorno, mi hanno

frantumato le gambe!‖

Hsi maledisse i carcerieri e gridò fuori di sé dalla collera: ―Se mio padre ha commesso un

crimine, ha il diritto di essere processato secondo le leggi del regno! Come osate, voi demoni

dell‘oltretomba, giudicarlo per conto vostro?‖ Ciò detto si ritirò in un luogo appartato e preparò un

esposto per il tribunale. L‘indomani si presentò alla sessione mattutina, presieduta dal Dio della

Città, diede voce alle sue lamentele, quindi presentò l‘esposto. Il vecchio Yang si spaventò, e prima

di presentarsi per rispondere alle accuse, pensò bene di distribuire mance e regalie.

Il Dio della Città non ebbe alcun riguardo per Hsi Fang-p‘ing, e sostenne che le sue lamentele

erano infondate. Hsi Fang-p‘ing, benché furioso, si astenne dal presentare ricorso; ma partì

immediatamente e viaggiò per decine di leghe attraverso il Regno dei Morti, fino alla sede del

Governatore.

Qui, egli protestò formalmente per il favoritismo dimostrato dal Dio della Città e dai suoi

sottoposti. Il Governatore continuò a rinviare il giudizio per due settimane, poi fece bastonare Hsi e

ordinò che il Dio della Città rifacesse daccapo il processo.

Hsi ripercorse all‘indietro il lungo cammino, ma appena arrivato in città, fu preso e messo alla

berlina, ovvero esposto alle beffe della gente in luogo pubblico. Il poveretto, nell‘impossibilità di

denunziare ad alta voce i torti subiti, era più furente che mai. Il Dio della Città, temendo che

meditasse di presentare ricorso, ordinò alle guardie di ricondurlo a forza a casa sua nel mondo dei

vivi. Le guardie, però, lo accompagnarono soltanto fino ai cancelli, poi se ne andarono; e Hsi,

invece di rientrare nel mondo dei vivi, tornò indietro e s‘intrufolò di nuovo nell‘oltretomba, per

appellarsi al Re dei Morti, contro la crudeltà e la cupidigia del Governatore e del Dio della Città.

Il re fece arrestare immediatamente i due funzionari e li tenne sottochiave in attesa di giudizio.

Essi, allora, mandarono i loro uomini di fiducia a trattare con Hsi, offrendogli mille pezzi d‘argento

purché ritirasse la denuncia. Hsi rifiutò sdegnosamente la proposta; ma qualche giorno più tardi, il

padrone della locanda nella quale alloggiava gli disse: ―Voi siete troppo orgoglioso, amico mio. I

funzionari vi hanno proposto un accomodamento e voi non avete acconsentito; ma io ho sentito dire

che essi hanno offerto ricchi doni al Re, e temo che la vostra causa sia perduta.‖

Hsi non gli credette; pensò che si trattasse di oziose dicerie. Ma ben presto vennero i messi del

tribunale per convocarlo al cospetto del Re dei Morti, e il re era su tutte le furie. Non permise

nemmeno a Hsi di fare la sua deposizione; in cambio, ordinò che gli fossero somministrati venti

colpi di frusta.

―Che cosa ho fatto di male?‖ gridò Hsi. Il re non diede alcun segno di averlo udito.

―Bene: ho soltanto quello che merito!‖ urlò ancora Hsi. ―Dopotutto, chi mi ha ordinato di nascere

povero? Nessuno! Quindi è chiaro che dev‘essere colpa mia.‖

Il re si arrabbiò ancora di più e ordinò che lo mettessero sul letto di fuoco. Allora due fantasmi

afferrarono Hsi e lo trascinarono nel cortile orientale, dove era collocato un letto con la rete di ferro

e un fuoco acceso di sotto. La rete era completamente rossa, incandescente. I fantasmi denudarono

Hsi, lo misero sul letto e presero a rotolarlo avanti e indietro. Il dolore era intollerabile; le ossa e le

carni di Hsi furono ben presto carbonizzate e il poveretto desiderò di morire. Dopo due ore di

questo supplizio, uno dei fantasmi disse che poteva bastare. Sollevarono Hsi, lo rimisero in piedi e

gli ordinarono di rivestirsi. Miracolosamente egli poteva ancora camminare, benché zoppicando.

Quando Hsi fu di nuovo nell‘aula del tribunale, il Re dei Morti gli disse: ―Vuoi ancora un nuovo

processo?‖ ―Un grave torto aspetta di essere riparato‖ rispose Hsi. ―Finché avrò un cuore e una

mente, penserò che rinunciando a chiedere giustizia insulterei la Maestà Vostra. Chiedo il

processo.‖

―Quali prove intendi presentare?‖ domandò il re. ―I segni di tutto ciò che ho patito.‖ In preda alla

collera, il re ordinò ai suoi uomini di segarlo a metà. Due fantasmi trascinarono Hsi presso un alto

palo di legno, al quale erano fissate due tavole coperte di scure macchie di sangue; spinsero a forza

il poveretto fra le due tavole, poi cominciarono a segare, partendo dalla sommità del capo. Hsi

Fang-p‘ing sentì la testa aprirglisi in due e un dolore atroce per tutto il corpo; ma riuscì a

sopportarlo senza gridare, e udì uno dei fantasmi che diceva all‘altro: ―È un tipo duro, questo qui!‖

Poi sentì cigolare la sega, che già gli era arrivata al torace, e l‘altro fantasma che diceva: ―Costui è

un figlio devoto e il suo cuore è puro; incliniamo la sega in modo da non toccarlo.‖

Hsi Fang-p‘ing avvertì la deviazione della lama nel suo percorso verso il basso, e il dolore

raddoppiò. Ora il suo corpo era diviso in due metà. Le tavole furono rimosse e le due metà di Hsi

caddero a terra.

I due fantasmi tornarono nell‘aula del tribunale, riferirono al re sulla missione compiuta, e il re

ordinò loro di ricomporre il corpo di Hsi e di mostrarlo alla popolazione. E i fantasmi così fecero.

Ricongiunsero le due metà di Hsi e se lo trascinarono dietro per le vie. Hsi avvertiva nitidamente la

cesura prodotta dalla sega, perché doleva atrocemente e le due parti minacciavano di ridividersi da

un momento all‘altro. Uno dei fantasmi si sfilò dalla cintura un nastro di seta e lo porse a Hsi.

In riconoscimento della tua pietà filiale― disse.

Hsi Fang-p‘ing si legò il nastro attorno alla vita, e il suo corpo ridivenne all‘istante unito,

vigoroso e libero dal dolore.

Ricondotto nell‘aula del tribunale, Hsi Fang-p‘ing si prostrò a terra come di dovere; e quando il

Re dei Morti gli ripetè la sua domanda, nel timore di procurarsi altre sofferenze, rispose: ―Non

insisterò nelle mie accuse.‖

Il re, allora, ordinò che fosse rimandato immediatamente nel mondo dei vivi. I fantasmi lo

scortarono fino ai cancelli settentrionali, gl‘indicarono la via per tornare a casa, e se ne andarono.

Rimasto solo, Hsi rifletté amaramente che i funzionari dei morti erano anche peggiori di quelli dei

vivi e che non sembrava esistere alcun modo per far giungere la propria voce all‘orecchio

dell‘Altissimo. Tuttavia era ben deciso a tentare.

Correva voce, nel mondo, che il dio locale Erh Lang di Kuank‘ou, nella provincia di Szechuan,

fosse parente dell‘Altissimo, ovvero del Dio dei Cieli. Hsi Fang-p‘ing pensò che se si fosse

appellato a Erh Lang, dio stimato a un tempo per l‘astuzia e la rettitudine, un miracolo non sarebbe

stato impossibile. Perciò, rallegrandosi di essersi liberato della scorta, cambiò strada e si diresse

verso sud. Ma purtroppo non andò lontano: due uomini lo raggiunsero, lo agguantarono e gli

dissero: ―Sua Maestà lo aveva detto che non saresti andato a casa! E aveva ragione.‖ Quindi lo

legarono e lo riportarono nel regno dei morti.

Hsi Fang-p‘ing, aspettandosi che il re fosse ancora più incollerito di prima, era preparato al

peggio; ma il re lo accolse con un‘espressione tutt‘altro che severa.

―Le tue intenzioni dimostrano un sincero amore filiale‖ disse. ―Io ho già provveduto a riparare il

torto subito da tuo padre; infatti, egli è appena rinato in una famiglia nobile e ricca. Non hai più

bisogno, dunque, di appellarti alla giustizia. Noi ti rimandiamo a casa con mille pezzi d‘argento, e

con la garanzia che vivrai per cento anni. Sei soddisfatto, così?‖ 1 re scrisse tutto sul registro della

vita e della morte, vi appose il suo vistoso sigillo, poi invitò Hsi a controllare dò che aveva scritto.

Hsi manifestò il suo apprezzamento, quindi potè ritirarsi scortato dai due fantasmi. Ma costoro,

appena furono sulla strada, presero a malmenarlo e a maledirlo.

―Furbastro di un villano! Abbiamo dovuto correre e ammazzarci di fatica per ritrovarti! Procuraci

un‘altra seccatura e ti faremo tritare dalla macina del mulino.‖

Hsi, allora, si mise a gridare con tutto il fiato che aveva: ―Diavoli pazzi che non siete altro!

Pensate forse che non regga il dolore dei vostri colpi, dopo aver sopportato che mi segaste in due?

Torniamo dal re! Lui ha ordinato a me di tornare a casa, non a voi due di accompagnarmi!‖ Detto

fatto, corse nuovamente verso il tribunale. I fantasmi, allarmati, cambiarono subito tono e con

gentilezza lo persuasero a riprendere il cammino.

Strada facendo, benché Hsi rallentasse di proposito l‘andatura e si fermasse continuamente sul

margine della via, la sua scorta non protestò mai. Dopo circa mezza giornata, arrivati a un villaggio,

i due fantasmi sedettero per riposarsi davanti a una casa che aveva la porta socchiusa; e Hsi Fang-

p‘ing andò a sedersi proprio sulla soglia. Si era appena seduto che i due gli balzarono addosso di

sorpresa, lo spinsero dentro e richiusero. Con gran meraviglia, Hsi Fang-p‘ing si accorse di essere

appena nato di nuovo, e ancora lattante. Indignato per il tradimento, si mise a piangere e urlare,

rifiutò il seno di sua madre e in tre giorni morì.

Divisa dal corpo della sua reincarnazione, l‘anima di Hsi fluttuò nell‘aria come una nuvola. Ma

non aveva dimenticato affatto il proposito di rivolgersi a Ehr Lang, il dio di Kuank‘ou. Mosse

perciò in quella direzione e dopo una dozzina di miglia s‘imbattè in un corteo. Stendardi e lance

sbarravano la strada. Hsi tentò di superarli intrufolandosi fra i portatori delle insegne imperiali, ma i

cavalieri dell‘avanguardia lo presero, lo legarono e lo condussero davanti a un cocchio, sul quale

sedeva un giovane dalle splendide vesti.

―Chi sei?‖ egli domandò a Hsi.

Poiché il giovane aveva l‘aspetto di un alto dignitario, Hsi gli raccontò le sue sventure per filo e

per segno. Il giovane ordinò che fosse immediatamente liberato e gli disse di seguire il suo cocchio.

Di lì a poco incontrarono un gran numero di funzionari e ufficiali, schierati ai margini della strada

per presentare il loro saluto. Il giovane rivolse qualche domanda a ciascuno di essi, poi indicò Hsi a

uno dei funzionari.

―Ecco un uomo che viene dall‘oltretomba‖ disse ―e che desidera presentare una denuncia. Il suo

caso deve essere risolto rapidamente.‖

Soltanto allora Hsi apprese da un uomo della scorta che il giovane dio sul cocchio era il Nono

Principe Imperiale del Cielo, e che il funzionario al quale aveva affidato il suo caso era proprio Ehr

Lang. Hsi osservò quest‘ultimo più attentamente. Era alto e sottile, con una gran barba; diverso da

come lo si dipingeva nel mondo degli uomini. Dopo che il Principe Imperiale fu ripartito, Hsi Fang-

p‘ing seguì Ehr Lang fino a un tribunale, dove trovò suo padre Hsi Lien, il vecchio Yang e alcuni

funzionari subordinati del Regno dei Morti. Poco dopo giunse un carro a forma di gabbia e da esso

vennero fuori tre prigionieri: il Dio della Città e il Governatore dell‘Oltretomba, e il Dio dei Morti

in persona! Essi furono interrogati seduta stante e le accuse di Hsi Fang-p‘ing trovarono conferma. I

tre funzionari, tremando di paura, cercarono di farsi più piccoli che potevano; sembravano topi. Ehr

Lang intinse la penna e vergò immediatamente la sentenza, che fu poi mostrata ai contendenti.

Eccone il testo: ―Noi dichiariamo quanto segue: colui che presta servizio come Re dei Morti,

assumendo un ufficio di rango principesco e godendo la grazia dell‘Altissimo, deve possedere la

probità e la purezza che sono necessarie per guidare gli altri funzionari in servizio e non deve essere

né avido né corruttibile. Ma tu hai usato il potere e lo splendore della tua carica per appagare la tua

vanagloria e far bella mostra della tua posizione. Con avidità di lupo e ostinata libidine, hai

macchiato la tua integrità al cospetto dell‘Altissimo.

―Come la scure colpisce il cuneo, e il cuneo spacca il legno, così la tua condotta avvia una catena

di conseguenze che ti porta, infine, a dissanguare donne e bambini. Poiché la balena divora il pesce

e il pesce divora il gambero, la vita dei piccoli è miserevole. Che le acque del Fiume Occidentale si

rovescino su di te per lavare i tuoi peccati! Che il tuo trono insolentemente fastoso sia dato alle

fiamme! Dopodiché, t‘immergeremo in quel medesimo calderone d‘acqua bollente che tu usasti per

strappare confessioni alle tue vittime.

―Quanto al Dio della Città e al Governatore, essi dovrebbero, in nome dell‘Altissimo, servire il

popolo come funzionari-genitori, pastori del gregge umano. Benché i loro uffici siano di rango

inferiore, coloro che con animo leale aspirano a una carica non li disdegneranno, e sapranno

resistere alle eventuali pressioni dei superiori. Ma voi allungate i vostri artigli di falchi, ignorando le

miserie del popolo! Avete operato con l‘astuzia delle scimmie, indifferenti alle condizioni dei morti.

Voi che vi fate corrompere con regali per distorcere la legge, nascondete un cuore bestiale dietro un

volto umano! Qie vi si estragga il midollo dalle ossa e vi si strappino peli e capelli da tutto il corpo!

Subirete la morte anche nel Regno dei Morti e rinascerete bestie, non uomini.

―Quanto ai funzionari subalterni, poiché sono demoni e non uomini, se cercheranno con grande

impegno di correggere la loro condotta nei pubblici uffici potranno rinascere in forma umana. Ma

non dovranno sollevare onde nel mare della sofferenza né commettere tali peccati da oscurare il

cielo. La loro arroganza senza legge ha causato così gravi ingiustizie, da indurre i cieli, per riflesso,

a mandare il gelo in estate. La loro violenta ferocia ha separato il mondo dell‘uomo dagli Dei e

terrorizzato il mondo dei morti; così che ognuno, ormai, sa di dover mostrare reverenza unicamente

al proprio carceriere. Inoltre, essi hanno favorito la crudeltà dei funzionari ignoranti facendo sì che

la gente li temesse come macellai d‘uomini. Via, tutti insieme sul luogo dell‘esecuzione!

Smembrateli e bolliteli; poi ripulite bene il calderone di quanto resta delle loro ossa e dei loro

muscoli.

―E ora, veniamo al vecchio Yang, il quale, benché ricco, fu disumano, litigioso e truffaldino. Egli

coprì la terra con le sue mance di corruttore, avvolgendo in un sudario di tenebre il trono del Re dei

Morti, diffondendo un tanfo di monete che è arrivato fino in cielo e rapinando al Regno dei Morti

ogni giustizia. La corruzione era dilagata a tal punto che i fantasmi erano ormai al suo servizio; e

perfino tra gli dèi si faceva sentire la sua influenza. La casa e i beni di Yang saranno confiscati e

concessi a Hsi Fang-p‘ing, in premio della sua devozione filiale. Si conducano i prigionieri sul

Monte Tai, per l‘esecuzione delle loro pene.‖

Il dio Ehr Lang si volse a Hsi Lien, il padre di Hsi Fang-p‘ing, e disse: ―Memori della devozione

di tuo figlio e della tua natura gentile, decidiamo che la tua vita tra i vivi sia prolungata di

trent‘anni.‖ Poi Ehr Lang incaricò due ufficiali di scortare padre e figlio fino al loro villaggio.

Hsi Fang-p‘ing ricopiò il testo della sentenza e lo rilesse con suo padre durante il viaggio.

Quando giunsero al villaggio, Hsi Fang-p‘ing si presentò a casa da solo. Fece aprire la bara di suo

padre ed esaminare il corpo. Esso era rigido e freddo come il ghiaccio, ma in pochi giorni riacquistò

gradualmente calore e infine si rianimò. Allora Hsi cercò la copia della sentenza di Ehr Lang, ma

essa era svanita nell‘Invisibile.

La casa dei Hsi prosperò rapidamente. Per tre anni essi continuarono ad accrescere il numero dei

loro fertili campi, mentre le fortune dei discendenti Yang continuarono a declinare, finché le loro

case e fattorie divennero proprietà dei Hsi. Un paesano, una volta, comprò uno dei campi degli

Yang; ma quella notte un dio gli comparve in sogno e lo rimproverò per aver comprato qualcosa che

apparteneva ai Hsi. Il paesano ignorò l‘avvertimento; ma dopo aver seminato il campo e aver visto

maturare una quantità di grano incredibilmente misera, rivendette la terra ai Hsi. Il vecchio Hsi Lien

visse contento oltre i novant anni di età.

L‘Archivista delle Cose Strane dice: Tutti parlano del paradiso, dimenticando che il mondo dei

vivi e il mondo dei morti sono separati, e che ogni senso o pensiero si perde nella morte. Non

sapendo da dove proviene, come può l‘uomo sapere dove va? Ancor meno potrà conoscere sugli

eventi delle sue ripetute morti e rinascite. Davvero grande, dunque, fu l‘impresa del giovane Hsi

Fang-p‘ing, la cui fedeltà e il cui amore filiale restarono intatti e fermi attraverso l‘eternità.―

IL TESCHIO Chuang Tzu

Viaggiando verso Ch‘u, Chuang Tzu notò fra l‘erba una forma biancastra e lucente e vide che era

un teschio vuoto. Lo smosse con il frustino e gli parlò.

―Vi siete ridotto così, buon signore, bramando troppo la vita e perdendo misura e ragione? O

forse la causa fu un rovescio di fortuna? O la scure del boia? Forse fu la tua cattiva condotta, che

coprì di vergogna la famiglia intera? O furono soltanto il freddo e la fame, o la semplice vecchiaia?‖

Dicendo questo, Chuang Tzu raccolse il teschio; poi usandolo a mo‘ di cuscino, si distese per

riposare e si addormentò. Durante la notte, il teschio gli apparve in sogno e gli disse: ‗Tu mi hai

parlato come un pedante oratore, descrivendo i gravi affanni della vita umana dai quali i morti sono

liberi. Ti piacerebbe conoscere il vero significato della morte, amico?―

Chuang Tzu disse di sì e il teschio continuò: ―I morti non hanno sovrani sopra di sé, né

dipendenti al di sotto; e nemmeno sono soggetti al ciclo delle stagioni. Soltanto il cielo e la terra

limitano la vastità del loro tempo; ma quelli, neppure i più grandi re bramano sorpassarli.‖

Poco persuaso, Chuang Tzu disse: ―Supponi che io avessi il potere di restituirti la tua forma

fisica: ossa, carne, pelle; e che potessi ricondurti nella tua famiglia, fra i tuoi vicini e i tuoi «unici.

Ti piacerebbe?‖ Sembrò che il teschio fremesse, mentre rispondeva: ―Credi davvero che volterei le

spalle ai piaceri della sovranità, per tornare indietro nell‘affannoso mondo dei vivi?‖

GIUDICI E DIPLOMATICI

IL MACELLAIO E IL SUO RE Chuang Tzu

Quando il re Chao dello stato di Ch‘u perdette il suo regno, Yueh, il macellatore di pecore, lo

seguì nella fuga. In seguito, riconquistato il potere, re Chao decise di premiare tutti coloro che erano

rimasti con lui; ma quando venne il turno di Yiieh, questi disse al messaggero del re: ―Il re perdette

il suo regno e io perdetti la mia bottega di macellaio; il re ha riavuto il suo regno, io la mia bottega.

Poiché ho di nuovo la mia posizione e le mie entrate, che bisogno c‘è di premiarmi?‖

Ciò fu riferito al re, il quale disse: ―Fategli accettare il mio premio.‖

Ciò fu riferito al macellatore di pecore, che disse: ―Il re non perdette il regno per colpa mia,

dunque non mi aspettai alcuna punizione; il re non ha riconquistato il potere per merito mio, quindi

non mi aspetto alcun premio.‖

Ciò fu riferito al re, che disse: ―Conducetelo alla mia presenza.‖

Ciò fu riferito al macellaio di pecore, che disse: ―La legge di Ch‘u dice che nessuno può essere

presentato al re, a meno che non abbia meritato un grande premio per una grande impresa. In questo

caso, io non ebbi né la sapienza necessaria per tutelare la sicurezza dello stato né il coraggio di

morire combattendo contro i traditori. Quando l‘esercito nemico entrò nella capitale, io fuggii dalla

battaglia per paura, non perché avessi scelto di seguire Sua Maestà. Ora Sua Maestà vorrebbe

trascurare la legge per ricevermi; ma questo non è, per un suddito, un modo giusto di acquistare

notorietà.‖

Il re di Ch‘u disse al comandante del suo esercito: ―Questo Yiieh, il macellaio, occupa nella

società un posto molto umile; e tuttavia, sa spiegare con grande nobiltà quale sia il dovere di un

suddito. Invitatelo, in mio nome, a diventare uno dei miei tre super-ministri.‖

Ciò fu riferito a Yiieh, che disse: ―Comprendo bene che la posizione offertami è di gran lunga

superiore a quella di un macellaio, e che lo stipendio di un ministro sorpassa di parecchio ciò che si

guadagna macellando pecore; ma come potrei, per avidità di prestigio e di ricchezza, permettere al

mio sovrano di farsi mal giudicare per la sua assurda generosità? Io non merito l‘onore che mi offre,

perciò voglio tornare al mio lavoro.‖

Con queste parole, Yiieh rifiutò il premio una volta per tutte.

IL COCCHIERE DEL PRIMO MINISTRO Ssu-ma Ch'ien

Un giorno, mentre Yen Tzu, primo ministro di Ch‘i, stava uscendo per una passeggiata in

carrozza, la moglie del suo cocchiere si fermò al cancello per osservare suo marito. Costui, riparato

dall‘ampia tettoia adeguata al suo rango, levò la frusta e sferzò i quattro cavalli, tutto baldanzoso e

fiero di sé. Più tardi, quando tornò a casa, sua moglie lo informò che aveva deciso di lasciarlo. Il

cocchiere ne chiese il motivo e la donna rispose: ―Yen Tzu è alto sì e no un metro e mezzo ed è

primo ministro, famoso tra i signori del regno: ma quando esce appare serio e pensoso e ha sempre

un atteggiamento umile. Tu sei alto più di un metro e ottanta, ma servi gli altri come cocchiere, e

tuttavia sembri assai compiaciuto di te. Questo è il motivo per cui voglio lasciarti.‖

Da allora in poi, il cocchiere si diede meno arie. Yen Tzu, colpito dal cambiamento, gliene chiese

la ragione; il cocchiere gliela disse e Yen Tzu lo promosse di grado.

IL GIOIELLO REALE Ssu-ma Ch‘ien

Il re Hui di Chao fece chiamare il suo consigliere Lin Hsiang-ju e gli disse: Il re di Ch‘in ha

offerto quindici delle sue città in cambio del gioiello reale. Dobbiamo accettare lo scambio?―

―Ch‘in è forte e noi siamo deboli‖ rispose Hsiang-ju. ―Non abbiamo scelta.‖

―E se prendessero il gioiello e poi non ci dessero le città?‖ chiese re Hui.

―Se Ch‘in offre le sue città per il gioiello e noi rifiutiamo,‖ disse Hsiang-ju ―siamo dalla parte del

torto. Se noi offriamo il gioiello ed essi non ci danno le città, sono nel torto loro. Tra queste due

possibilità, mi sembra da preferire che il torto sia lasciato a Ch‘in.‖

―Chi possiamo mandare?‖ chiese il re.

―Se Vostra Maestà non ha di meglio, andrò volentieri io, come vostro rappresentante, a portare il

gioiello. Se ci daranno in cambio le città, il gioiello rimarrà a Ch‘in; se non ce le daranno, farò in

modo di recuperarlo.‖

Così il re Hui di Chao mandò Hsiang-ju nell‘Ovest a consegnare il gioiello.

Il re di Ch‘in ricevette Hsiang-ju seduto in trono, su una predella circondata da paraventi.

Hsiang-ju presentò il gioiello e il re ne fu immensamente soddisfatto. Egli lo passò in giro alle dame

di corte e ai cortigiani perché lo ammirassero, e tutti gridarono: ―Lunga vita al re!‖

Hsiang-ju ebbe la netta sensazione che il re di Ch‘in non fosse per nulla intenzionato a cedere le

città promesse per il gioiello; pertanto si fece avanti e disse: ―Il gioiello ha un piccolissimo difetto

che vorrei mostrare a Vostra Maestà.‖

Il re gli porse il gioiello e Hsiang-ju, afferratolo saldamente, balzò indietro e si addossò a una

colonna. Era così furioso che i capelli sembravano drizzarglisi sulla testa, contro il berretto.

―Se Vostra Maestà vuole questo gioiello,‖ gridò ―deve mandare una lettera al mio re, a Chao.

Egli consulterà i suoi consiglieri, ed essi diranno che lo stato di Ch‘in è così avido da aver contato

sulla propria forza per ottenere il gioiello reale! Essi giudicheranno che le vostre promesse sono

vuote parole e che non intendete affatto consegnarci le città pattuite; allora, ovviamente,

decideranno di conservare il gioiello. La mia umile opinione è che anche nelle relazioni tra persone

comuni si debba evitare la disonestà: tanto più grande, dunque, dovrà essere la fedeltà degli stati a

questa regola.‖ E disse ancora: ―Da parte nostra, opporci a un desiderio del potente stato di Ch‘in

non avrebbe avuto senso; quindi il mio re, dopo cinque giorni di ascetica astinenza, mi mandò a

consegnarvi il gioiello reale e a presentare una lettera alla vostra corte, con tutto il rispetto dovuto al

prestigio del vostro grande stato. Ma quando arrivai fui ricevuto in udienza comune, senza alcun

cerimoniale; e una volta avuto il gioiello, voi lo avete passato in giro alle vostre dame, per divertirvi

un poco a mie spese. Ne ho dedotto che non avete alcuna intenzione di fare la vostra parte nello

scambio; ed ecco perché ho ripreso il gioiello. Se Vostra Maestà tenta di riaverlo con la forza,

spaccherò in un colpo solo il gioiello e la mia testa contro questa colonna.‖ E Hsiang-ju osservò il

pilastro, come se fosse sul punto di mettere in atto la sua minaccia.

Il re di Ch‘in, temendo la distruzione del gioiello, fece le sue scuse. Poi chiamò un ufficiale, il

quale spiegò una mappa dove erano indicate le quindici città da assegnare a Chao.

Hsiang-ju ritenne che il re di Ch‘in stesse solo fingendo di voler cedere le città; pertanto disse:

―Il gioiello reale è un tesoro celebre in tutto il mondo. Il re di Chao dovette accettare di offrirvelo

perché vi temeva e prima di mandarvelo si purificò per cinque giorni. Ora Vostra Maestà deve fare

lo stesso, e quindi applicare il cerimoniale per le visite di stato. Allora vi restituirò il gioiello.‖

Il re di Ch‘in rifletté che non era opportuno usare la forza; quindi acconsentì ai cinque giorni di

purificazione rituale e fece alloggiare Hsiang-ju in uno splendido appartamento.

Hsiang-ju, tuttavia, era sicuro che il re di Ch‘in non avrebbe mantenuto la sua parola; così mandò

uno dei suoi uomini, vestito dimessamente, a riportare il gioiello a Chao. Dopo cinque giorni, il re

di Ch‘in aprì le cerimonie in onore di Hsiang-ju. Ma Hsiang-ju disse: ―Non uno degli ultimi venti re

di Ch‘in ha mai tenuto fede ai suoi impegni. Credo fermamente che m‘ingannerete e che rischio di

fallire il mio compito. Pertanto, ho rimandato il gioiello a Chao per mezzo di uno dei miei uomini, e

penso che a quest‘ora sia già a destinazione.‖ Hsiang-ju sorrise dolcemente e continuò: ―Ch‘in è

potente; Chao è debole. Se Vostra Maestà mandasse anche un solo messaggero nel nostro stato, gli

consegneremmo il gioiello immediatamente. Ora se Ch‘in, forte della sua superiorità, vorrà per

primo cedere e assegnare allo stato di Chao le città pattuite, come potremmo noi azzardarci a

trattenere il gioiello, recando offesa alla Maestà Vostra? Peraltro, so che il delitto d‘ingannarla

merita la morte; quindi non ho difficoltà, personalmente, a essere gettato nel calderone. Tutto

quanto chiedo a Vostra Maestà è di consultare i suoi consiglieri e di considerare attentamente la mia

proposta.‖

Il re di Ch‘in guardò i suoi consiglieri, accigliatissimo. I cortigiani volevano prendere Hsiang-ju

e trascinarlo subito in prigione, ma il re disse: ―Se uccidiamo Hsiang-ju, non riavremo mai il

gioiello e l‘amicizia fra Ch‘in e Chao sarà compromessa. Sarà meglio, in questa occasione, trattare

generosamente quest‘uomo e lasciarlo tornare a casa. Non credo che il re di Chao vorrà imbrogliarci

e tenersi il gioiello, una volta ottenute le città.‖

Il re tributò a Hsiang-ju gli onori di rito, e dopo una completa cerimonia lo rimandò a Chao.

PAESE DI LADRI Ssu-ma Ch‘ien

Il diplomatico Yen Tzu si preparava a partire per una missione nello stato di Ch‘u. Il re di Ch‘u

venne a saperlo e disse ai suoi consiglieri: ―Yen Tzu è il più astuto parlatore dello stato di Ch‘i!

Quando viene, vorrei metterlo in imbarazzo. Come posso fare?‖

―Dopo che sarà arrivato,‖ dissero i consiglieri, ―suggeriamo che sia condotto alla vostra presenza

un uomo in catene. Vostra Maestà chiederà chi sia, e noi vi risponderemo che è un uomo dello stato

di Ch‘i. Poi voi chiederete quale delitto abbia commesso, e noi diremo che è accusato di furto.‖

Quando Yen Tzu arrivò, il re di Ch‘u brindò ripetutamente alla sua salute, finché furono tutti

piuttosto brilli. Allora due ufficiali si fecero avanti, portando un uomo in catene. ―Che cosa ha

fatto?‖ chiese il re. ―Viene dallo stato di Ch‘i‖ risposero gli ufficiali, ―ed è accusato di furto.‖

Il re guardò Yen Tzu e chiese: H vostro stato di Ch‘i è forse un paese di ladri?― Yen Tzu si levò

dalla sua stuoia, s‘inginocchiò davanti al re e disse: ―Dicono che gli aranci producano frutti aspri e

secchi se crescono nel Sud, e frutti dolci e succosi se crescono nel Nord. Le foglie sono simili, il

gusto dei frutti è invece diverso. Perché? Perché il suolo e l‘acqua non sono gli stessi. Ora, la gente

nata nel nostro stato di Ch‘i, ovvero al Nord, non ruba; ma quando viene nello stato di Ch‘u, ovvero

al Sud, ruba. Ciò può accadere soltanto perché il terreno e l‘acqua di Ch‘u li rendono capaci di

rubare.‖

STRATEGIA Tso Ch‘iu-ming

Quando l‘esercito di Ch‘i mosse contro il nostro stato di Lu, il nostro patriarca decise di

affrontarlo in battaglia. Ts‘ao Kuei, benché i suoi compagni lo disapprovassero, chiese un‘udienza

con lui.

―I suoi consiglieri stanno lavorando a un piano strategico‖ dissero i compagni. ―Perché

interferire?‖

―I suoi consiglieri non hanno la visione giusta per un piano a largo raggio‖ disse Ts‘ao Kuei. E

andò a parlare con il patriarca.

―Con che cosa combatterete?‖ gli domandò. E il patriarca rispose: ―Con i miei leali seguaci; i

quali mi sostengono, perché io divido con loro le ricchezze del regno, invece di tenerle tutte per

me.‖

―Ciò non ispirerà il popolo a seguirvi‖ rispose Ts‘ao Kuei.

Il patriarca disse: ―Ho sempre dato agli dèi quanto dovevo, senza mai lesinare sulla quantità dei

beni che sacrificavo.‖

―Il rituale non vi basterà, per conquistare il favore degli dèi‖ rispose Ts‘ao Kuei.

Il patriarca disse-, ―lo sono un uomo caritatevole e ho sempre dimostrato strategia misericordia

verso i criminali, anche se non posso studiare a fondo ogni caso.‖

―Una qualità esiste che può garantirvi la lealtà del vostro popolo‖ rispose Ts‘ao Kuei. ―Con

quella, potete vincere la battaglia. Vi prego, accettatemi come vostro consigliere al fronte.‖

Il patriarca permise a Ts‘ao Kuei di condividere il suo cocchio. L‘esercito si schierò a

Ch‘angshuo, e il patriarca stava per dare il segnale dell‘avanzata facendo rullare i tamburi, quando

Ts‘ao Kuei lo fermò.

―Non ancora‖ disse.

I nemici suonarono tre volte i loro tamburi.

―Bene. Ora suoniamo i nostri‖ disse Ts‘ao Kuei.

L‘esercito di Ch‘i fu messo in fuga. Il patriarca stava per ordinare l‘inseguimento, ma Ts‘ao Kuei

lo fermò.

―Non ancora‖ disse. Scese dal cocchio, esaminò le tracce dell‘esercito nemico, poi risalì e

osservò la sua ritirata in distanza.

―Bene. Ora possiamo inseguirli‖ disse. E l‘esercito di Ch‘i fu respinto.

Dopo la vittoria, il patriarca chiese a Ts‘ao Kuei in che modo avesse ragionato.

―In guerra,‖ rispose Ts‘ao Kuei ―ciò che più conta è il morale. Al primo rullo di tamburi sorge lo

spirito del valore; al secondo rullo esso decresce; al terzo, si spegne. Quando il valore dei nemici si

stava spegnendo, il nostro sorse nella sua pienezza; per questo li sconfiggemmo. Ma non è facile

vincere con l‘astuzia una grande forza. Dovevo essere prudente, nell‘eventualità di un agguato;

perciò esaminai le tracce dei loro carri e osservai lo sbandamento dei loro stendardi. Quando fu

chiaro e certo che il nemico batteva in ritirata, allora fu il momento d‘inseguirlo.‖

I DEBITI DEL POPOLO Chan Kuo Ts‘e

Feng Hsuan era un uomo di rango del territorio di Ch‘i, ma ultimamente si era trovato in tali

difficoltà, da ridursi quasi alla fame. Disperato, mandò un suo intendente dal nobile Meng-ch‘ang,

al cui servizio sperava di essere assunto.

―Di che cosa s‘interessa il tuo padrone?‖ domandò il nobile Meng-ch‘ang all‘intendente.

―Di nulla‖ fu la risposta.

―Va bene, ma che specie di lavoro fa?‖

―Nessuno.‖

Divertito da quelle risposte, l‘indolente gentiluomo acconsenti ad accogliere Feng Hsùan nella

sua casa.

Ma i suoi luogotenenti, presumendo che il loro signore non nutrisse alcun rispetto per il nuovo

venuto, gli riservarono i cibi più grossolani.

Dopo qualche tempo di questo trattamento, un giorno Feng Hsuan si mise a girare goffamente

attorno a una colonna, percuotendola con la spada e cantando: O spada fedele, via conviene andare!

Qui non ce pesce per me da mangiare.

I luogotenenti riferirono il fatto al nobile Meng-ch‘ang, il quale disse: ―Servitegli lo stesso cibo

che date agli altri membri della casa.‖

Gl‘intendenti così fecero; ma passò qualche tempo e Feng ricominciò a battere la spada sulla

colonna e a cantare: O spada fedele, via conviene andare!

Qui non ce cocchio per me da guidare.

I luogotenenti risero di Feng Hsùan, poi riferirono le sue lagnanze al loro signore, che disse:

―Preparate un cavallo e un cocchio per lui, come se fosse un membro eminente della casa.‖

Da allora in poi Feng Hsùan ebbe il suo cocchio da guidare e sorpassando i suoi compagni,

levava la spada dicendo: ―Ora sì che il Signore mi tratta come si deve!‖

Ma passò qualche tempo, e Feng Hsùan ricominciò a battere la spada sulla colonna e a cantare:

O spada fedele, via conviene andare!

La famiglia non posso sostentare.

I luogotenenti ormai lo vedevano di malocchio, come una persona avida, per la quale niente era

mai abbastanza, ma il nobile Meng-ch‘ang gli chiese: ―Avete i genitori, messer Feng?‖

―La mia vecchia madre‖ fu la risposta.

II nobiluomo mandò un incaricato a visitare la donna e a fare quanto occorreva per sollevarla

dalle ristrettezze. E Feng Hsùan non cantò mai più il suo ritornello.

Passò parecchio tempo e un giorno il nobile Meng-ch‘ang tirò fuori il suo libro dei conti e

domandò se per caso non ci fosse qualcuno, in casa, capace di tenere la contabilità e di riscuotere i

suoi crediti nella città di Hsueh. Feng Hsùan scrisse un biglietto: ―Io posso farlo.‖ E firmò con il

suo nome. Il nobile Meng-ch‘ang rimase un po‘ sconcertato, perché non si ricordava più di lui, ma i

suoi luogotenenti gli dissero: ―È quel tipo che cantava il ritornello della spada fedele.‖ 1 nobiluomo

rise e disse: ―Dopotutto, il nostro ospite non manca di abilità. Avrei dovuto prestargli più attenzione

e riceverlo secondo le regole.‖

Così Feng Hsùan fu chiamato in udienza dal nobiluomo, che si scusò di aver tardato tanto.

―Mi hanno distratto le preoccupazioni‖ disse. ―Inoltre, sono per natura piuttosto lento e

flemmatico, e gli affari di stato mi hanno assorbito a tal punto che temo di avervi recato offesa.

Tuttavia, messere, non sembra che voi mi serbiate rancore; se ho ben compreso, siete disposto a

recarvi a Hsueh per riscuotere i miei crediti.‖

―Si‖ disse Feng Hsùan; e si ritirò per ordinare la carrozza, fare il bagaglio, e caricare in vettura

tutte le polizze dei debitori. Poi, congedandosi formalmente dal nobile Meng-ch‘ang, gli domandò:

―Quando avrò finito, che cosa volete che comperi per voi, con il denaro riscosso?‖

―Vedete voi che cosa manca o scarseggia nella mia casa‖ rispose il nobiluomo.

Feng Hsùan fece il viaggio verso Hsueh di gran carriera. Quando arrivò, diede ordine ai suoi

ufficiali di convocare tutti i debitori, che si presentassero a lui con i certificati del prestito. Quando

tutti furono riuniti, Feng Hsùan falsificò la firma del nobile Meng-ch‘ang per redigere un ordine di

cancellazione di tutti i debiti; poi, con l‘autorità che gli conferiva tale ordine, bruciò tutti i certificati

dei prestiti.

―Lunga vita al Nobile Signore!‖ gridò il popolo tutto contento.

Feng Hsiian fece il viaggio di ritorno senza fermarsi neanche una volta, arrivò a palazzo di prima

mattina e subito chiese udienza. Il nobile Meng-ch‘ang, soipreso di tanta rapidità, si mise il berretto

per le udienze ufficiali e ricevette Feng senza indugio.

―Come avete fatto a tornare così presto?‖ domandò. ―Avete riscosso tutti i miei crediti?‖

―Riscossi‖ disse Feng Hsùan.

―E che cosa avete comperato per me?‖

―Voi mi diceste di guardare che cosa mancasse o scarseggiasse in questa casa, perciò mi presi la

libertà di fare qualche indagine e scoprii che il vostro palazzo è pieno di tesori, che le vostre stalle e

i vostri canili sono ben forniti e che gli appartamenti inferiori sono gremiti di belle donne. Giudicai,

dunque, che la sola cosa mancante in questa casa fosse la fedeltà. Mi è sembrato opportuno

comprarne per voi un certo quantitativo.‖

―Che diavolo significa ‗comprare fedeltà‘?‖ domandò il nobiluomo.

―Mio signore,‖ rispose Feng Hsùan ―voi possedete la misera città di Hsueh, ma invece di trattare

il popolo con l‘amore di un padre lo avete sfruttato come un mercante. Così, mi sono preso la libertà

di firmare con il vostro nome un ordine di cancellazione di tutti i debiti del popolo, e con l‘autorità

che esso mi conferiva, ho bruciato tutti i certificati dei prestiti. Il popolo se ne è rallegrato

immensamente. Ed ecco come ho comprato per voi la sua fedeltà.‖

Avvilito e accigliato, il nobile Meng-ch‘ang balbettò: ―Avete detto abbastanza.‖

L‘anno seguente lo stato di Ch‘i ebbe un nuovo re, il quale informò il nobile Meng-ch‘ang che la

sua posizione non poteva più essere garantita.

―Non intendo tenere i ministri di mio padre come se fossero i miei‖ disse il nuovo re.

D nobile Meng-ch‘ang dovette tornarsene nella sua città di Hsueh. Ne distava ancora una ventina

di miglia quando vide il popolo venirgli incontro per la strada per dargli il benvenuto, sostenendo i

vecchi e sollevando i bambini verso di lui in segno di omaggio. Allora Meng-ch‘ang chiamò a sé

Feng Hsiian e gli disse: ―Ora capisco che cosa avete fatto, comprando per me la fedeltà del mio

popolo.‖

I DELITTI DELLO STAFFIERE Yen Tzu Ch‘un Ch‘iu

Il nobile Ching, marchese di Ch‘i, affidò alle cure di un certo staffiere il cavallo della sua

favorita; improvvisamente il cavallo morì e il nobiluomo furente, ordinò ai suoi uomini di amputare

braccia e gambe allo staffiere.

Caso volle che il saggio taoista Yen Tzu fosse presente, al seguito del marchese. Quando gli

uomini entrarono con le spade in pugno, Yen Tzu disse al nobile Ching: ―Al tempo dei re-savi Yao e

Shun, che governarono con la sola forza dell‘esempio, se qualcuno fosse stato condannato allo

smembramento, da quali membra si sarebbe dovuto cominciare?‖

―Dalle membra del re‖ disse il nobile Ching; e mutò la condanna, ordinando che lo staffiere fosse

messo a morte dopo regolare processo.

―In questo caso,‖ disse Yen Tzu ―l‘uomo dovrà morire ignorando i suoi misfatti. Mi consentite di

elencarglieli, mio signore, così che egli li conosca prima di essere giustiziato?‖ ―Benissimo!

Senz‘altro‖ disse il nobile Ching. Allora Yen Tzu, rivolto allo staffiere disse: ―Tu hai commesso tre

delitti. Ti era stata assegnata la cura di un cavallo, e tu lo hai lasciato morire: questo è il primo

delitto per il quale meriti la morte. Il cavallo apparteneva alla favorita di Sua Signoria: questo è il

secondo motivo per cui meriti la morte. Terzo, ti sei guadagnato la condanna poiché, per causa tua,

Sua Signoria metterà a morte un uomo in omaggio a un cavallo; e quando il popolo verrà a saperlo,

proverà risentimento verso il nostro signore; e quando lo sapranno gli altri feudatari, disprezzeranno

il nostro stato. Così, lasciando morire il cavallo di Sua Signoria tu hai suscitato malanimo nel

popolo e avvilito il nostro stato agli occhi dei vicini. Dunque, sei condannato a morte.‖

Il nobile Ching sospirò profondamente. ―Liberate Io staffiere, signore‖ disse. ―Liberatelo, o la

mia umanità sarà degradata.‖

LA CATENA Liu Hsiang

Il re di Wu, avendo deciso di aggredire lo stato di Ching, disse ai suoi consiglieri: ―Chiunque

oserà muovermi critiche, morirà.‖

Il giovane figlio di uno dei seguaci del re avrebbe avuto molto da obiettare, ma non ne ebbe il

coraggio. Allora si munì di un sasso e di una fionda e prese ad aggirarsi per i giardini dietro il

palazzo, dove rimase finché le sue vesti non furono impregnate di rugiada. Per tre giorni andò

vagando tra i cespugli; finalmente il re di Wu lo notò e gli chiese: ―A che scopo ti stai inzuppando in

quel modo?‖ ―Nel giardino c‘è un albero‖ rispose il giovane ―e sull‘albero una cicala che canta

centellinando rugiada, ignara della mantide religiosa che sta dietro di lei. Piegandosi e torcendosi, la

mantide cerca di afferrare la cicala, ignara del rigogolo che allunga il collo dietro di lei per

inghiottirla. E il rigogolo, tutto proteso per beccare la mantide, non sa che sotto l‘albero c‘è una

fionda puntata su di lui. Tutti e tre, cicala mantide e rigogolo, intenti a ciò che hanno di fronte, non

vedono il pericolo alle loro spalle.‖

―Hai parlato bene‖ disse il re di Wu. E desisté dal proposito di aggredire Ching.

SENTITO DIRE Lieh Tzu

Il sapiente Lieh Tzu era povero e appariva denutrito in I modo impressionante. Qualcuno ne

parlò al primo ministro Cheng Tzu-yang: ―Lieh Tzu è un sapiente, ed è famoso. Se egli vive in

miseria nello stato di Sua Signoria, non si crederà che Sua Signoria sia ostile ai sapienti?―

Tzu-yang, senza perder tempo, mandò da Lieh Tzu un funzionario con una provvista di cibi. Lieh

Tzu venne sulla soglia a ricevere il messaggero del ministro e gli s‘inchinò profondamente ma

rifiutò il dono con garbo. Il messaggero se ne andò. Lieh Tzu rientrò in casa e vide sua moglie che

si batteva il petto, fissandolo disperata.

―La tua umile moglie pensava che le famiglie degli uomini del Tao vivessero agiatamente‖ disse

la donna. ―Ma ecco che, nella nostra miseria nera, il primo ministro ci onora con offerte di viveri, e

tu le rifiuti. Oh, che sorte amara è la mia!‖ Lieh Tzu disse a sua moglie: ―Il primo ministro non mi

conosce. Ha mandato i suoi doni per aver ascoltato dicerie di terzi; se un giorno dovesse

condannarmi, lo farebbe ugualmente per sentito dire. Per questo ho rifiutato i suoi doni.‖

Un giorno, finalmente, il popolo spodestò Tzu-yang.

SOGNI Lieh Tzu

Il capo degli yin, un clan dello stato di Chou, aveva grandi possedimenti e i suoi servi lavoravano

senza sosta dall‘alba fino a notte fonda. Fra essi c‘era un vecchio servo i cui muscoli erano ormai

svuotati di ogni forza; ma il capo del clan non gli risparmiava per questo i più duri lavori. Ogni

giorno il vecchio affrontava i suoi compiti gemendo; e ogni notte, tramortito dalla fatica e con gli

spiriti vitali assai ridotti, dormiva profondamente e faceva sempre lo stesso sogno: sognava di

essere il re di quel regno, di governare sul popolo intero e di occuparsi personalmente degli affari di

stato. In sogno banchettava spensierato nel palazzo e ogni suo desiderio veniva esaudito. Il suo

piacere non aveva limiti. Poi ogni mattina si svegliava e tornava al lavoro.

A coloro che cercavano di confortarlo del suo crudo destino, il vecchio diceva: ―L‘uomo vive un

centinaio di anni, metà di giorno, metà di notte. Di giorno io sono un servo qualunque, e le mie pene

sono quelle che sono; ma la notte sono un sovrano che regna sugli uomini, e non c‘è soddisfazione

più grande. Di che cosa dovrei risentirmi?‖

Il capo del clan, dal canto suo, aveva la mente oppressa dagli affari mondani e dai problemi delle

sue proprietà che non gli davano tregua; così, logorato nella mente e nel corpo, anche lui si

addormentava ogni sera stremato dalla fatica, e notte dopo notte sognava di essere un servo e di

affannarsi a correre e a brigare per svolgere i suoi compiti. Nel sogno veniva rimproverato,

biasimato e picchiato con il bastone; così, gemeva e si lamentava nel sonno, e si acquietava soltanto

all‘approssimarsi dell‘alba.

| capo del clan espose il suo problema a un amico, il quale gli disse: ―La tua posizione sociale ti

fa più ricco e onorato di tanti altri uomini; il tuo sogno di essere un servo altro non è che la

contropartita di stenti al tuo benessere diurno. Questo equilibrio è la norma del destino umano. Non

puoi vivere la stessa vita nella veglia e nel sonno.‖

Il capo del clan rifletté su quanto aveva detto l‘amico e alleggerì il lavoro dei suoi servi. Ridusse

inoltre le sue ansie per gli affari; il che gli diede sollievo, perché i suoi sogni divennero meno

crudeli.

LA CONFESSIONE INVOLONTARIA Chu Yùn-ming

Questa storia, avvenuta in una certa contea agli albori della dinastia, mi fu narrata da una persona

molto avanti negli anni.

Un mercante del luogo stava per intraprendere uno dei suoi viaggi d‘affari. Caricò le merci sulla

barca e si mise ad aspettare il suo servo; ma il tempo passava e il servo non compariva. Il barcaiolo,

frattanto, cominciò a pensare che sarebbe stato assai facile, in quel punto deserto del fiume,

uccidere il mercante e impadronirsi delle sue merci. Detto fatto spinse in acqua il cliente e lasciò

che affogasse; quindi si portò a casa la mercanzia e infine si presentò all‘indirizzo del mercante.

Bussò alla porta e chiese come mai il padrone non fosse ancora sceso al fiume per imbarcarsi. La

moglie del mercante mandò alcuni servi in cerca del marito, ma essi non ne trovarono tracria. Allora

la donna interrogò il servo personale del mercante e questi raccontò di essere arrivato alla barca in

ritardo e di non avervi trovato il padrone.

La famiglia del mercante riferì l‘accaduto alla polizia locale, la quale informò i funzionari di

contea, i quali interrogarono il barcaiolo e i vicini del mercante, ma non scoprirono un bel nulla. Poi

l‘indagine passò da un livello all‘altro dell‘organizzazione burocratica, senza che si ottenesse alcun

risultato. Infine, giunse all‘esame del magistrato.

Il magistrato ordinò che tutti uscissero dalla stanza, eccettuata la moglie del mercante; poi chiese

alla donna una dettagliata esposizione dei fatti a partire dal momento in cui il barcaiolo era venuto a

cercare il mercante.

―Mio marito era uscito di casa da parecchio tempo,‖ disse la donna ―quando il barcaiolo bussò

alla porta. Prima ancora che avessi aperto egli gridò da fuori: ‗Signora, come mai il padrone non è

ancora venuto giù al fiume? E tanto che lo aspetto.‘ Questo fu tutto quanto mi disse.‖

Il magistrato mandò fuori la donna e fece venire il barcaiolo, il quale confermò il racconto di lei.

―Allora è così‖ disse il magistrato sorridendo. ―Il mercante è stato ucciso e tu sei l‘assassino. Hai

confessato.‖

―Non è vero! Quale confessione?‖ protestò il barcaiolo a gran voce.

―Quando bussasti alla porta del mercante ti rivolgesti alla moglie, non a lui. Poiché ti era

impossibile vedere al di là della porta, come potevi sapere con tanta certezza che il mercante non

era in casa?‖

Colto di sorpresa, il barcaiolo confessò e fu condannato.

UN GIUDICE SAGGIO Yang Yù

Una mattina, prima dell‘alba, un droghiere che stava andando al mercato per comprare ortaggi

trovò per terra un fascio di banconote. Poiché era ancora buio, si allontanò dalla strada e attese la

luce del giorno per poter esaminare il denaro. Contò quindici biglietti del valore di cinque once

d‘argento e cinque che valevano ciascuno una stringa da mille monete di rame. Il droghiere prese

allora una banconota da quella grossa somma, comprò carne per due stringhe e riso mondato per tre;

mise gli acquisti nelle due ceste che pendevano dal suo bastone, si mise il bastone in spalla e se ne

tornò a casa, senza comprare gli ortaggi per i quali era uscito.

Quando sua madre gli chiese perché mai non li avesse comprati, il droghiere rispose: ―Stamani,

mentre andavo al mercato, ho trovato questo denaro; così, ho comprato carne e riso mondato e sono

venuto a casa.‖

―Che cosa vorresti farmi credere?‖, chiese sua madre, accigliata. ―Tutt‘al più, si può perdere una

banconota o due! Com‘è possibile che qualcuno ne abbia perduto un fascio intero? Non lo avrai

rubato, voglio sperare! Ma se davvero lo hai trovato in terra, devi riportarlo indietro.‖

Poiché il figlio non voleva saperne, la madre minacciò di riferire il fatto alla polizia. Allora il

figlio disse: ―Come posso restituire qualcosa che ho trovato per la strada?‖

―Torna nel posto preciso dove trovasti il denaro‖ disse sua madre ―e vedrai che qualcuno verrà a

cercarlo. Allora potrai restituirlo.‖ E aggiunse: ―Siamo stati poveri per tutta la vita, e adesso, ecco

che compriamo carne e riso! Certi guadagni improvvisi portano sicuramente disgrazia.‖

Il droghiere riportò le banconote dove le aveva trovate; e manco a dirlo, qualcuno venne davvero

a cercarle. Al droghiere, che era un semplice campagnolo, non venne in mente di chiedere all‘uomo

quante banconote avesse perduto. Gliele porse, e disse: ―Ecco qui il vostro denaro.‖

I passanti che si erano radunati sollecitarono il proprietario di quella grossa somma a

ricompensare chi l‘aveva trovata e restituita; ma quello fu tanto meschino da rifiutare, anzi disse:

―Io ho perduto trenta banconote: ne mancano la metà!‖ La differenza era così forte che nacque una

discussione, la quale andò tanto per le lunghe, da finire dinnanzi alla corte.

Il magistrato di contea, Nieh Yi-tao, interrogò minuziosamente il droghiere e si convinse che

diceva la verità; mandò a chiamare sua madre, interrogò severamente anche lei, e vide che le sue

risposte coincidevano con quelle del figlio. Allora mise a confronto i due contendenti. Il proprietario

delle banconote giurò di averne perdute trenta; il droghiere giurò di averne trovate quindici.

―Allora tutto è chiaro― disse Nieh Yi-tao. ‖Il denaro trovato non è il denaro perduto da

quest‘uomo. Queste quindici banconote, pertanto, sono un dono del cielo a una madre valorosa, per

il sostentamento della sua vecchiaia.― Porse il denaro alla madre e al figlio, poi si rivolse all‘uomo:

―Le trenta banconote che avete perduto voi devono essere in qualche altro posto. Andate voi stesso

a cercarle.‖ E lo congedò con una bella lavata di testa, tra la silenziosa approvazione dei presenti.

UN GIUDICE SCALTRO Chang Shih-nan

Al tempo in cui Ch‘en Shu-ku era magistrato a Chien-chou, un tale perdette un oggetto di valore.

Molte persone furono arrestate, ma non si riuscì a scoprire chi di loro fosse il ladro. Allora Shu-ku

tese una trappola ai sospetti.

―Conosco un tempio,― disse loro ‗la cui campana sa distinguere i ladri dagli onesti. Ha un grande

potere spirituale.‖

Il magistrato mandò a prendere la campana e la fece collocare con reverenza in una camera

appartata; poi fece condurre i sospetti, così che la campana potesse testimoniare la loro innocenza o

colpevolezza; e spiegò loro che se un uomo innocente toccava la campana, essa restava muta, ma se

la toccava un uomo colpevole, si metteva a suonare.

Il magistrato guidò poi i suoi accoliti ad adorare la campana; conclusi i sacrifici, la fece

nascondere dietro ampi tendaggi, al riparo dei quali un suo assistente la imbrattò d‘inchiostro. A

questo punto furono chiamati i sospetti e ciascuno di essi, a turno, dovette stendere il braccio

attraverso i tendaggi e toccare la campana. Via via che i sospetti ritraevano la mano, Shu-ku le

esaminava. Tutte le mani risultarono macchiate d‘inchiostro, eccettuata quella di un uomo che, sotto

interrogatorio, confessò il furto.

Egli non aveva osato toccare la campana, per paura che si mettesse a suonare.

IL FAGIANO E LA FENICE Han-tan Shun

Un uomo di Ch‘u portava sulla spalla un fagiano dentro una gabbia. Per la strada incontrò un

viaggiatore che gli domandò: ―Che spede di uccello è quello che portate?‖ ―Una fenice‖ rispose

l‘uomo per prendere in giro il viaggiatore.

―Ho sentito parlare molto di simili creature, e oggi infatti ne sto cercando una. La vendereste?‖

―Si.―

L‘uomo di Ch‘u rifiutò l‘offerta di mille pezzi d‘argento, ma quando salirono a duemila accettò.

Il compratore aveva voluto l‘uccello per offrirlo in dono al re di Ch‘u; e quando, nel corso della

notte, la bestiola morì, non fu tanto dispiaciuto per la spesa inutile, quanto per aver perso il dono

destinato al re.

Questa storia si diffuse con tutti i particolari nello stato di Ch‘u, e la gente si convinse che

l‘uccello fosse davvero una fenice reale e perciò di valore inestimabile. Alla fine il re in persona

venne a conoscenza del fatto e ne fu tanto commosso che fece chiamare il compratore del fagiano e

lo premiò con una somma dieci volte superiore a quella che aveva speso.

L’UOMO CHE REGALÒ IL SOLE Lieh Tzu

Per uccidere un contadino, basta tenerlo in ozio.‖ Così dice il proverbio. Fuori di prima mattina,

a casa a notte alta: per il contadino questa è vita normale. Fagioli ed erbe, egli pensa, sono un pasto

ideale. La sua pelle e le sue carni sono ruvide e dure. I suoi muscoli e le sue giunture si flettono

agilmente. Ma ponetelo, un giorno, tra morbide pellicce e coltri di seta, nutritelo di cibi delicati e di

arance fragranti, e vedrete la sua mente rammollirsi, il suo corpo divenire irrequieto, e ben presto

sarà colto dalla febbre. Se un contadino e un principe si scambiassero i ruoli, il principe si

sfinirebbe in due ore. Dunque, non vi è nulla al mondo che sia migliore di ciò che appaga e rallegra

il contadino.

In tempi assai lontani, viveva nello stato di Sung un contadino che indossava per tutto l‘inverno

un rozzo abito imbottito di canapa. All‘arrivo della primavera, quando cominciarono le fatiche dei

campi, l‘uomo si denudò la schiena e lasciò che il sole gli riscaldasse il corpo. Ignorando che

esistessero sulla terra cose come le grandi dimore, le stanze riscaldate, le imbottiture di cotone e le

pellicce di volpi, egli disse rivolto a sua moglie: ―Io sento il calore del sole sulla mia schiena, ma

nessuno sa niente di questo grande lusso! Ne porterò in dono al nostro signore, ed egli mi darà certo

un ricco premio.‖

NOTE

IL GRILLO 1 Karma: il termine sanscrito significa letteralmente ―azione‖; indica le varie circostanze che si

susseguono nell‘esistenza di ognuno: non per destino inevitabile, né per l‘arbitrio del caso, bensì

come conseguenza delle azioni personali. Anche la legge karmica è inevitabile, ma in quanto legge

della causa e dell‘effetto.

LA SERVENTE E IL PAPPAGALLO 1 Anticamente, in Cina come in Giappone, le finestre erano protette, anziché da vetri, da speciali

pannelli di carta-riso.

IL PRINCIPE DEL MARE 1 La difficoltà è dovuta all‘antica usanza cinese di tener fasciati strettamente i piedi delle bambine,

durante tutta l‘infanzia, per impedirne la crescita oltre i dieci centimetri di lunghezza. Con piedini

così piccoli, le donne acquistavano un‘andatura timida e incerta, che allora si considerava molto

graziosa. Oggi si è portati a vedere nel famoso ―piedino cinese‖ un simbolo della subordinazione

femminile, se non addirittura un espediente inconscio per ancorare le donne al loro destino

rigorosamente domestico.

LA TRUFFA DELL‘ARGENTO 1 II tael, oltre che una unità monetaria, era anche una unità di peso, equivalente a g 37 circa.

IL LUPO DEL NORD 1 Poiché la venerazione e la riconoscenza verso il padre, in Cina, erano il fondamento stesso della

morale e della religione, il vecchio sapiente, dimostrando che il lupo non riconosce nemmeno il

legame padre-figlio, gli ha praticamente addebitato la più grave e infamante delle colpe. Di qui la

condanna.

UNA CURA PER LA GELOSIA 1 Mantra: il termine sanscrito significa letteralmente ―strumento del pensiero‖. Nel buddismo e

nell‘induismo è una formula sacra, o breve preghiera magica, da recitare ad alta voce. Considerato

quale forma materiale della divinità, il mantra è la divinità stessa e ha pertanto una sua efficacia

indipendente dalla partecipazione di chi prega.

LA CONCUBINA DEL LETTERATO 1 Secondo le credenze religiose dell‘antica Cina, l‘aldilà aveva la stessa organizzazione sociale,

politica e burocratica dell‘aldiqua; era dunque possibile intraprendervi o proseguirvi la propria

carriera. 2 Bruciare simboli della propria agiatezza o del proprio potere terreno era un rito magico in virtù del

quale si trasferivano agiatezza e potere nell‘aldilà, dove il defunto li avrebbe ritrovati. Allo stesso

scopo, quando moriva un bambino si bruciavano giocattoli sulla sua tomba.

I PECCATI DEL MONACO 1 Sutra: brani delle Scritture sacre (per lo più regole, precetti, aforismi o piccoli dialoghi) che

costituiscono nel loro insieme le leggi religiose del buddismo.

IL VINO DELL‘AMICIZIA 1 Secondo le tradizioni religiose dell‘antica Cina, un uomo poteva diventare una divinità, sia pure

minore come appunto le divinità locali, o dèi delle città. La gerarchia ultraterrena ne contava a

migliaia e il loro numero cresceva continuamente. In pratica, c‘era un dio, o una dea, per ogni cosa

e per ogni aspetto della vita terrena; ma questi piccoli dèi altro non erano che funzionari

dell‘Altissimo, o Re dei Cieli: una immagine speculare dei funzionari dell‘Imperatore, nella

gerarchia terrena.

FONTI DELLE FIABE

Il seguente elenco dà: 1) il titolo italiano del racconto; 2) tra parentesi, il titolo o i titoli cinesi, se ci

sono, trascritti; 3) la fonte o le fonti; 4) la dinastia e quasi sempre la data approssimativa dell‘opera.

Storie d’incantesimi e di magie

Il grillo (Ts‘u Chih), Liao Chai Chih I (in seguito LCCI), primo Ch‘ing, tardo XVII sec. d.C.

La servente e il pappagallo (Ch‘in Chi Liao), Ying Ch‘iian I Ts‘ao, Ch‘ing, tardo XVIII sec. d.C.

Il principe del mare (Hai Kung Tzu), LCCI

La ragazza vestita di verde (Lu I Nu), LCCI

Sogni di farfalle, Chuang Tzu, periodo Chan Kuo, IV sec. a.C.

Li Ching e il dio della pioggia (Li Wei Kung Ching), HHKL

La lezione del mago (Tu Tzu-ch‘un), HHKL

Il monaco della montagna (Lao Shan Tao Shih), LCCI

Il ladro di pesche (T‘ou T‘ao), LCCI

Racconti della follia e dell’avidità

Il pero magico (Chung Li), LCCI

La fontana di vino (Hsin Kao), Hsiieh T‘ao Hsiao Shuo da Chiù Hsiao Shuo, Ming, XIV-XVII sec.

d.C.

L‘oro, Lieh Tzu

La scure perduta, Lieh Tzu

Il mercante di cavalli, Chan Kuo Ts‘e

La truffa dell‘argento (Ch‘i P‘ien), Hsin Ch‘i Hsieh da Li Tai Hsiao Shuo Pi Chi Hsuan, Ch‘ing,

fine XVIII sec. d.C.

Il patrimonio di famiglia (Wang Hsin), Hsùeh Tao Hsiao Shuo

La foglia, Hsiao Lin, San Kuo, Wei, 220-265 d.C.

La tigre dietro la volpe, Chan Kuo Ts‘e

Il toro volante (Niu Fei), LCCI

Relazioni sociali (Lien Kuei Ku Huo), Shan Chai K‘o T‘an, Ch‘ing

Un piccolo favore (Ting Ch‘ien-hsi), LCCI

Noccioli di nespola (Wu He P‘i Pa), Ch‘iu Teng Ts‘ung Hua, Ch‘ing

Problemi di memoria (Ping Wang), Ai Tzu Hou Yii da Chiù Hsiao Shuo, Ming

I segreti della medicina (I Shu), LCCI

Il cavallo perduto, Huai Han, Tzu, inizi Han, II sec. a.C.

Il cervo sognato, Lieh Tzu

Senza memoria, Lieh Tzu Il sole, Lieh Tzu

Il regno animale

Il topo fedele (I Shu), LCCI

Il cane devoto (I Chuan), LCCI

Il cane riconoscente (I Ch uan Chi), Yù Ch‘u Hsin Chih, Ch‘ing

La tigre pentita di Chaoch‘eng (Chao Ch‘eng Hu), LCCI

I ragazzi-tigre (Hua Hu Chi), Yii Ch‘u Hsin Chih

L‘esca umana (I Jen Wei Ni), Hsin Ch‘i Hsieh

Rospi eruditi e formiche marziali (Ha Ma Chiao Shu I P‘ai Chen), Hsin Ch‘i Hsieh

L‘uomo dei serpenti (She Jen), LCCI

II lupo del nord (Chung Shan Lang), Tung T‘ien Man Kao, Ming

Il consigliere dei lupi (Lang Chun Shih), Hsin Ch‘i Hsieh

L‘uomo e la bestia, Lieh Tzu

Uomo o bestia, Lieh Tzu

La gioia dei pesci, Chuang Tzu

Scodinzolare nel fango, Chuang Tzu

Donne e mogli

Lì Chi e il serpente, Sou Shen Chi, Chin

Il Generale Nero (Kuo Yùan-chen/Wu Chiang Chun), Hsiian Kuai Lu, tardo T‘ang

Il padrone e la servente (Liu Ch‘ing), Luan Yang Hsii Lu da Chiù Hsiao Shuo, Ch‘ing

Una cura per la gelosia (I Chi), Hsin Ch‘i Hsieh

L‘indovino (Suan Ming Te Tzu), Cho Keng Lu da Li Tai Hsiao Shuo Pi Chi Hsiian, Yuan

Un figlio scomparso, Lieh Tzu

Lo stecchino d‘oro (Chin Pi Tz‘u Jou), Cho Keng Lu

La favorita del re, Han Fei Tzu

La figlia divisa (Li Hun Chi), T‘ang jen Hsiao Shuo, tardo T‘ang

Fantasmi e spiriti

La concubina del letterato (Kung-sun Hsia), LCCI

Tre vite precedenti (San Sheng), LCCI

Il monaco di Sempre-Chiaro (Ch‘ang Ch‘ing Seng), LCCI

I peccati del monaco (Seng Nieh), LCCI

La verità sui fantasmi (Ch‘en Tsai-heng), Chin Hu Ch‘i Mo,

Ch‘ing Sung Ting-po acchiappa un fantasma (Sung Ting-po Cho Kuei), Sou Shen Chi, Chin

L‘uomo che non acchiappò il fantasma (Kuei Pi Chiang San-mang), Yùeh Wei Ts‘ao T‘ang,

Ch‘ing Ai Tzu e il fantasma del tempio, Ai Tzu Tsa Shuo, Sung

Una prova inconfutabile, Sou Shen Chi

II vino dell‘amicizia (Wang Liu-lang), LCCI

Il censore e la tigre (Li Cheng), Hsiian Shih Chih, tardo T‘ang

La giustizia ultraterrena (Hsi Fang-p‘ing), LCCI

Il teschio, Chuang Tzu

Giudici e diplomatici

Il macellaio e il suo re, Chuang Tzu

Il cocchiere del primo ministro, Shih Chi, inizi Han, Il sec. a.C.

Il gioiello reale, Shih Chi Paese di ladri, Shih Chi

Strategia, Tso Chuan, periodo Primavera e Autunno, V sec. a.C.

I debiti del popolo, Chan Kuo Ts‘e

I delitti dello staffiere, Yen Tzu Ch‘un Ch‘iu, periodo Primavera e Autunno

La catena, Shuo Yuan, inizi Han

Sentito dire, Lieh Tzu Sogni, Lieh Tzu

La confessione involontaria (P‘ien Yen Che Yu), Chih Shan Ch‘ien Wen da Chiù Hsiao Shuo, Ming

Un giudice saggio (Nieh Yi-tao), Shan Chii Hsin Hua da Chiù Hsiao Shuo, Yuan

Un giudice scaltro (Ch‘en Shu-ku), Meng Chi Pi T‘an, Sung

II fagiano e la fenice, Hsiao Lin, San Kuo, Wei

L‘uomo che regalò il sole, Lieh Tzu

Fiabe Tibetane

A CURA DI

Clifford Thurlow

NOTA DELL’EDITORE INDIANO

La Library of Tibetan Works & Archives, fondata nel novembre 1971, è l‘attuazione dei

lungimiranti programmi di Sua Santità il Dalai Lama per conservare, perpetuare e far rivivere la

cultura e la sapienza tibetane. Quelli che non conoscono a fondo il tragico destino del Tibet e delle

sue pittoresche e pacifiche popolazioni non potranno apprezzare o valutare le grandi speranze che

questa istituzione rappresenta, a meno che non siano sensibili alla tragedia della distruzione di una

cultura.

L‘antologia di racconti popolari raccolta da Clifford Thurlow rappresenta solo un piccolo ma

significativo contributo all‘arduo compito della Library, che è quello di riunire gli sparsi frammenti

di una cultura sull‘orlo dell‘estinzione. Queste leggende sono particolarmente importanti in quanto

rappresentano una minuscola parte della tradizione orale della cultura tibetana.

La Library of Tibetan Works spera di pubblicare e presentare al mondo anche altre opere

letterarie del genere, gemme dello spirito tibetano.

Nel frattempo auguriamo al lettore molte ore di piacevole e serena lettura e un felice bon voyage

a Shangri-la.

maggio 1974

Gyatsho Tshering

Prefazione

Le leggende popolari si assomigliano in tutto il mondo perché parlano della gente. Non la gente

comune che incontriamo durante il viaggio della nostra vita, ma tutto il segreto e affascinante

popolo dei maghi con un solo occhio, dei giganti cattivi, dei principi e delle fate che intrecciano

magiche danze volando fra le pieghe dell‘arcobaleno.

Tutti questi fantastici personaggi non sono che proiezioni della nostra stessa mente, dei fenomeni

misteriosi che giacciono addormentati nella profondità del nostro subconscio: un‘evasione dal

tedioso turbinare della vita quotidiana che noi ci costruiamo tutt‘attomo come le mura di un

castello.

Gli adulti presumono che le storie di fate siano adatte solo ai bambini, la cui mente si libra su

nubi invisibili nel mondo celeste della fantasia e della finzione. Le leggende popolari però sono

scrìtte per i bambini, ma pensando agli adulti.

Le figure mitiche che vivono nelle pagine della leggenda hanno percorso le infinite eternità del

tempo, ultimo anello di collegamento con un passato che sfida la corruzione della storia. Forse solo

qui, nel mondo dei sogni, possiamo trovare la vera salute, un soffio d‘aria pura nel clima intossicato

del progresso.

Mentre giganti e re combattevano nelle pianure d‘Europa, draghi e orchi inseguivano soavi

principesse per le montagne dell‘Asia. Su entrambe le sponde del mondo antico si andava formando

un patrimonio di tradizioni popolari, e i loro possenti eroi e i loro terribili mostri erano esattamente

gli stessi. E nessuno può realmente sapere se questa tradizione mitica sia fiorita separatamente

presso ciascuna giovane nazione o se si sia diffusa al soffio mutevole del vento.

Il tema fondamentale di tutte le leggende popolari è quello dell‘uomo onesto, semplice e gentile,

che trionfa sulle nere onde del male. Sotto questo aspetto le leggende del Tibet non sono diverse da

tutte le altre.

Ma il Tibet può orgogliosamente pretendere l‘onore di essere unico. Mentre le tradizioni di altre

antiche civiltà sono impallidite e svanite, il Tibet ha mantenuto vive le sue, nella sua stessa vita

quotidiana. Dato il suo isolamento geografico e la naturale indipendenza delle sue genti, l‘antica

cultura nazionale è sfuggita all‘avanzare della modernizzazione. Per migliaia di anni il Tibet ha

potuto evolversi in pacifico isolamento, poiché le catene dell‘Himalaya, che si stendono come un

serpente addormentato attraverso l‘India del nord, lo tagliano fuori dal mondo.

L‘unico contatto esterno del Tibet, l‘unica influenza che abbia ricevuto è dalla Cina. Le

complesse culture dei due paesi hanno potuto convivere in armonia per innumerevoli generazioni e

le guerre di un‘era dimenticata cessarono mille anni fa. Ma la moderna Repubblica Popolare ha la

memoria breve. Da quando i comunisti si impadronirono del potere, vecchie ferite si riaprirono; e

nel marzo 1959 il Tibet fu conquistato e divenne uno stato satellite della Repubblica Cinese.

Dal giorno fatale in cui il Dalai Lama, il secolare capo religioso del Tibet, andò in volontario

esilio al di là dei confini dell‘India, la pacifica popolazione del Tibet è divenuta un guscio vuoto da

riempire con le invadenti dottrine della nuova Cina.

Solo i vecchi che riuscirono a fuggire attraverso gli alti passi dell‘Himalaya portarono con sé le

antiche tradizioni popolari, non scritte nei libri, ma custodite nelle loro menti e nel loro cuore.

Il Tibet è sempre rimasto isolato dal resto del mondo. Persino la ruota non esisteva in questa terra

eccezionale, dove i grandi animali villosi chiamati yak erano l‘unico mezzo di trasporto attraverso

le deserte regioni nevose. Ma anche se era povero di progresso materiale, il Tibet custodiva tesori

d‘arte, di cultura, di tradizione e di filosofia.

L‘antico modo di vivere si basava sulla scuola più tradizionale del pensiero buddhista, che

impronta vivacemente le pittoresche leggende locali. Il concetto buddhista di rinascita e la Legge di

causa ed effetto sono un tema ricorrente, perché i tibetani, come ovunque i buddhisti, credono che si

raccoglie ciò che si semina. La buona volontà trova sempre la felicità, mentre i malvagi subiscono il

castigo dei loro propri misfatti.

Come i re e i saggi eremiti, altri elementi ricorrono continuamente nelle nostre storie: le

montagne e i fiumi, i grandi alberi e le nevi eteme, i viaggi interminabili attraverso lande desolate.

La splendida regione che costituisce il Tibet si estende su un elevato altipiano, che dal fondovalle, a

qualche migliaio di metri sul livello del mare, sale ai picchi di oltre settemila metri, quasi all‘altezza

dell‘Everest. Se chiuderemo gli occhi e cercheremo di immaginarci questo paesaggio impervio e

freddo, eppure di una strana bellezza, potremo sentirci più vicini a coloro che raccontano queste

stesse storie ai loro bambini.

Passerà il tempo, e la Legge di causa ed effetto salverà queste tradizioni uniche. Solo quando

l‘uomo, sia dell‘Est che dell‘Ovest, si accorgerà della propria follia porrà il Tibet su un alto

piedestallo.

Questa piccola antologia di fiabe e leggende popolari è quindi qualcosa di più che un carro

magico capace di trasportarci attraverso la barriera temporale della mitologia: è anche una voce

gentile che ci ricorda l‘unità dell‘uomo un passato dimenticato che tutti gli uomini condividono in

fondo al loro cuore.

La raccolta è stata compilata, sotto l‘egida della Library of Tibetan Works & Archives, sulle

colline del versante indiano dell‘Himalaya, là dove le comunità tibetane conservano i loro costumi e

praticano la loro fede.

I racconti ci sono stati narrati da persone anziane, un ex ambasciatore tibetano in Cina, una

massaia, il proprietario di un albergo, un monaco buddhista. A loro io sarò eternamente grato, non

solo per il tempo che mi hanno dedicato raccontandomi le loro storie, ma per la felicità interiore e

l‘antica saggezza che emanavano dalle loro persone come raggi di sole.

Sinceri ringraziamenti devo in particolare al mio amico e collega Dala Sonam Khalintsang,

studente dell‘università di Delhi, che mi ha fatto da interprete. I narratori sono stati Thupten Sangy,

Khamtul Rinpoche, Sonam Dhondup, la signora Dawa Saldon, Ngawang Norbu, Dhonden, umile

monaco buddhista, e molti altri che mi hanno dato il loro contributo di idee, suggerimenti e

gentilezza umana.

Dharamsala, India – settembre 1973 C.T.

ORME NELLA NEVE

Un ruscello d‘argento attraversa come la lama di una spada la valle di Lunchung. Bianche creste

di schiuma corrono da una roccia all‘altra spruzzando l‘erba che verdeggia lungo le rive. Enormi

massi sono sparsi irregolarmente qua e là per i verdi pendii, come proiettili primitivi rimasti dopo

una battaglia fra uomini grandi come montagne; o forse Memaye, il leggendario gigante, passò per

questi luoghi quando il mondo era ancora giovane. Minuscoli fiori bianchi e gialli brillano come

gocce di colore sui clivi di velluto e prima di arrivare al villaggio il ruscello passa per una piccola

foresta di ginepri che si stringono l‘un l‘altro, come per cercar protezione, mentre il loro profumo si

diffonde fino al villaggio e si perde nei campi di orzo.

Non lontano dal ruscello sorge una casa bianca con un piccolo cortile, dove alcune vacche

masticano senza sosta i pochi ciuffi d‘erba e le capre ritte sulle zampe osservano la vita fluire,

ignorando il mastino che raspa e ringhia e corre in giro a caccia della sua ombra. Una ripida scala di

legno rozzamente tagliata porta a un tetto piatto, dove una fila di vasi di terracotta stanno seccando

al sole di primavera. Dal tetto si può vedere il fiume che scorre attraverso la macchia di ginepri, fin

dove l‘occhio può arrivare nell‘enorme distesa di campi e alberi, fino alle alte montagne che

limitano l‘orizzonte.

In questo mondo di pace, erano cresciuti due ragazzi, vivendo una vita dura ma spensierata coi

loro genitori nella casetta bianca, che distava giusto un tiro di pietra dal fiume dispensatore di vita.

Lhaven e il suo fratello minore, Lhunden, avevano gli stessi genitori, lo stesso splendido paesaggio

intorno, le stesse condizioni di vita: eppure, stranamente, erano l‘uno l‘opposto dell‘altro. Tanto

Lhaven era irascibile e violento, quando Lhunden era paziente; se Lhaven era avido e gretto, suo

fratello divideva con gli altri quel poco che aveva; Lhaven era arrogante e maligno, mentre Lhunden

era umile e gentile.

I due fratelli impararono a vivere secondo il costume del paese. Badavano alle poche pecore, su

per le colline, al tempo del raccolto aiutavano a mietere le messi che splendevano come un lago

d‘oro e a primavera andavano in cerca degli agnelli appena nati, che vagavano con le greggi, e

marcavano con colori diversi i giovani velli, per segnare il loro diritto di proprietà. In quegli anni di

duro lavoro il volto di Lhunden splendeva di felicità e giovinezza; i suoi occhi brillavano di piacere

a ogni nuova esperienza.

Lhaven non si soddisfaceva così facilmente. Osservava i ricchi signori e i nobili che arrivavano

con le loro carovane, gli animali da soma e i servi; e sognava la vita delle grandi città, le vesti di

seta e i nastri d‘oro da portare nei capelli. Ma faceva anche qualcosa di più che sognare a occhi

aperti: macchinava di continuo astuti espedienti per aggiungere qualche magra monetina al suo

salvadanaio, che si andava lentamente riempiendo. Lhaven era solo un giovinetto quando riuscì ad

imbrogliare un vicino gentile privandolo dei diritti di pascolo su un lotto di terreno. Ben presto

comprò il terreno coi suoi risparmi e così la vita acquistò per lui un nuovo significato. Lhaven era

ora un proprietario di terre, e un proprietario astuto, per giunta.

Passò un anno, e Lhaven aveva una mandria di vacche. L‘anno successivo lo vide padrone di

greggi di pecore e di yak che trasportavano i suoi prodotti in città. Lhaven aveva ora più terre, più

ricchezze, più potere. Aveva lasciato la casetta della sua giovinezza per un palazzo più sontuoso

dall‘altra parte della valle, al di là del fiume. I suoi servi scattavano quand‘egli urlava i suoi ordini,

come un generale al comando della battaglia. I servi naturalmente andavano e venivano, poiché

nessuno riusciva a sopportare per molto tempo la sua tirannia. Ma il nuovo padrone non se ne

curava. Ingrassava a forza di affari loschi, schiacciava gli uomini come fiori di primavera e a poco a

poco le rughe dell‘età, delle preoccupazioni e della paura incisero il suo volto, come solchi al

passaggio dell‘aratro. L‘unico suo piacere consisteva nella sua nuova cerchia di ―contatti‖, cioè in

coloro che gli stavano intorno lusingando la sua superbia.

Lhunden continuò a vivere con i suoi genitori, che invecchiavano pacificamente. La vita per lui

era ancora un sogno. Guardava il cielo e ne vedeva la bellezza, odorava le foglie d‘autunno che si

raccoglievano a mucchi come pagine di un libro antico, e si sentiva vivo. Respirava l‘aria della vita

e diffondeva buon umore e gentilezza in tutti gli uomini e gli animali che passavano vicino alla

piccola cascina dove le vacche continuavano a brucare e le capre ad aspettare e il cane vigilava

come una sentinella presso il cancello sgangherato.

La vita divenne ancor più un miracolo per il fratello minore quando vi si aggiunse una cosa

nuova: l‘amore. Tholma era una graziosa ragazza del villaggio, che viveva con la sua famiglia ai

piedi delle colline dall‘altra parte del fiume. Si incontrarono un giorno al villaggio, e ben presto le

due famiglie consentirono alle nozze. Molti parenti furono invitati al festino nuziale, zie e zii, cugini

di lontane città, vecchi amici dei giorni passati, e naturalmente anche il ricco fratello padrone di

terre, Lhaven, il cui sontuoso palazzo torreggiava fra le colline come un castello in un libro di fiabe:

il castello di un cattivo genio, naturalmente.

E così gli invitati arrivarono. Poveri contadini nei loro vestiti delle feste, che avevano tirato fuori

pochi vecchi gioielli dalla cassette sotto i letti e portavano i doni dei poveri, bene avvolti in carte

colorate: ma sorridevano con bianchi denti splendenti, come un raggio di sole in una giornata buia.

Un vecchio monaco del convento che sorgeva sulla collina venne a recitare preghiere speciali e tutti

i presenti intonarono i magici mantra della lunga vita, della felicità e della ricchezza: non che fosse

molto probabile l‘arrivo della ricchezza, a meno che gli strani venti del fato non portassero ai due

giovani una di quelle gemme che realizzano i desideri. E mentre gli altri intonavano le preghiere, il

giovane sposo teneva d‘occhio la strada serpeggiante che portava al palazzo, perché il suo fratello

ricco non era ancora venuto a unirsi agli altri ospiti.

Scese la sera. Le donne chiacchieravano e gli uomini ridevano e bevevano dalla botte la birra

d‘orzo e ascoltavano gli strani racconti del vecchio monaco. Finalmente, in un turbine di polvere, un

possente stallone bianco entrò a precipizio nel cortile. Lhaven era arrivato. Entrò, coi ricchi abiti

coperti di polvere e un sorrisetto superbo sulle labbra, e gettò uno sguardo sprezzante agli altri

ospiti, aspettando che si inchinassero a lui come canne al vento. Si guardò attorno con disgusto

nell‘umile stanza, rise e poi galoppò nuovamente fuori della porta. Il cavallo nitrì al tocco della

frusta di cuoio e quattro zoccoli ripercorsero il sentiero su per il pendio, fino al castello che si

intravedeva scuro e spietato in vetta alla collina.

Un silenzio imbarazzato calò come nebbia sulla stanza. Ben presto uno dei visitatori mormorò

una scusa e se ne andò, poi un altro e un altro. Infine non rimase che il gruppo dei familiari, insieme

al vecchio monaco che si sentiva anch‘egli sgomento, dopo la strana visita. Lhunden non sapeva

perché il fratello avesse agito così stranamente, e nella bontà del suo cuore cercava per lui delle

giustificazioni. Così la festa nuziale finì: la vita tornava ora al suo ciclo quotidiano: lavorare,

mangiare, dormire, sempre in cerca del denaro o dei prodotti necessari per pagare l‘affitto, nutrire

vacche e capre e rappezzare gli abiti logorati dal duro lavoro.

Uno dei due fratelli viveva in una piccola capanna di pietre ai piedi della collina, l‘altro in alto,

fra le nuvole dei desideri e delle illusioni: una barriera invisibile li separava, i ricordi del passato

erano andati perduti, né mai sarebbero nati ricordi nuovi. Là in alto si ordivano piani e intrighi e

dalle conchiglie dell‘astuzia uscivano monete d‘oro. Le carovane che passavano per la piccola

cittadina serpeggiavano lungo la valle e su fino al grande palazzo, per rendere omaggio al signore,

noleggiare degli yak o pernottare. Lhunden vedeva crescere la fortuna del fratello come un seme

nell‘acqua; ma invece di provare gelosia o rancore sentiva paura. Gli pareva di vedere il seme

gonfiarsi ed esplodere come una nuvola nera, il frutto maligno che nasce dalle azioni cattive. Per

ogni nuova vetta di potere che raggiungeva, Lhaven si faceva un nuovo nemico: ogni manciata

d‘oro significava un amico in meno. Lhunden invece era amato e rispettato, ed era proprio questo

che Lhaven segretamente bramava.

Un giorno si diffuse per il villaggio la voce che il ―signore‖ stava per sposarsi. Era ormai tempo,

dicevano alcuni, ―perché sta diventando così grasso che ben presto nessuna donna ne vorrà sapere‖,

malignava il falegname. I servi correvano su e giù per la collina come formiche impegnate a

costruire un nuovo formicaio; gli artigiani del villaggio furono chiamati a costruire tavole speciali e

altri arredi, e ai mercanti delle grandi città furono ordinati cibi prelibati, carni e ogni genere di

ghiottonerie.

Lhaven doveva sposare Dolker, la bella figlia di un gentiluomo che era ministro nella capitale del

regno. L‘avido fratello aveva trovato ciò che tanto bramava. Ora avrebbe acquistato potere nelle alte

sfere, avrebbe avuto la possibilità di diventare governatore o ministro: tutto ciò che il denaro da solo

non può comprare, ma possono ottenere le relazioni influenti. Dolker, diceva la fama, era bella

come una notte d‘estate, come l‘unica stella che splende in un cielo senza luce. Molti pretendenti

l‘avevano corteggiata, ma Lhaven aveva manovrato e trafficato negli oscuri meandri dell‘intrigo e

della corruzione ed era uscito dal porcile del potere con un fiore di loto in mano. Nessuno sapeva

come il piccolo pecoraio del villaggio fosse riuscito a salire tanto in alto da chiedere la mano di una

bellezza come Dolker: ma in qualche modo Lhaven c‘era riuscito.

Cadevano le prime nevi dell‘inverno. I campi d‘orzo erano nascosti da un mantello bianco, gli

alberi di ginepro emergevano come cappelli appuntiti, il fiume splendeva e sfidava il gelo. I vecchi

si raggomitolavano intorno a grandi fuochi di sterco di yak, mentre i giovani saltellavano per le

strade gelate con le guance rosse e i nasi lucidi. Gli animali scalpitavano con gli zoccoli nella neve e

continuavano a ruminare: per loro la vita era la stessa in tutte le stagioni, cercarsi il cibo e aver lo

stomaco pieno erano la medesima cosa con la pioggia, la neve o il sole. E il giorno delle nozze si

avvicinava: erano già stati mandati i biglietti d‘invito dipinti a mano e anche Lhunden stava

aspettando di giorno in giorno il suo. Ma l‘invito per lui non arrivava.

Tutto il villaggio uscì nelle strade per vedere gli ospiti che arrivavano alle nozze. Era la

cerimonia più importante che il paese avesse mai visto e molti avevano indossato i loro abiti

migliori, come se fosse Capodanno. Alcuni ospiti importanti erano venuti fin dalla capitale con

dozzine di animali da soma e centinaia di servi. Le carovane avanzavano lentamente serpeggiando

su per il ripido sentiero della collina, al ritmo imposto dal lento passo degli yak. Passavano vicino

all‘umile capanna di Lhunden e gettavano solo uno sguardo fuggevole a quell‘uomo dagli occhi

tristi che stava ritto nel cortile.

Sul dorso di possenti yak v‘erano grandi palanchini ornati di gemme dove erano seduti

personaggi di nobile aspetto, che passavano a testa alta con lo sguardo rivolto alle bianche nubi.

Uno degli ospiti, che doveva essere uomo di grande importanza, aveva con sé una guardia armata di

soldati, che sguainavano la spada mentre il corteo si apriva la via per le strade affollate. Uomini con

casacche di pelle e copricapi di metallo, come gli invasori mongoli del passato, formavano la

retroguardia, secondo manipolo di guardie del corpo per proteggere il signore, invisibile dietro i

pesanti tendaggi dell‘alta carrozza. Dietro il secondo gruppo di armati v‘erano altre carrozze dorate,

alcune ornate e decorate con pietre preziose, altre semplici e lisce, a seconda della persona che

viaggiava nascosta nel loro interno.

Innumerevoli carovane salirono il sentiero della collina fino all‘alto palazzo del signore. Già

cadeva la notte e gli ospiti stavano ancora arrivando: e quando all‘aurora il sole arancione si levò da

dietro le montagne giunsero gli ultimi visitatori, come cavalli dispersi alla fine di una corsa. Era il

gran giorno. Il sole splendeva sulla neve bianca, sulle colline i suonatori accordavano i loro

strumenti, mentre gli uccelli volavano alti, eccitati come gli uomini. Le vesti gialle e marroni di

importanti lama spiccavano sullo sfondo nevoso: anch‘essi erano venuti da lontano per benedire le

nozze, per aggiungervi dignità, per santificare i maneggi delle forze politiche.

Lhunden non si era recato a lavorare nei campi: era rimasto a casa ad aspettare, sperando che

all‘ultimo momento gli sarebbe arrivato l‘invito, come un condannato che attende la sospensione

della pena. Dalla sua casetta poteva vedere la balconata del palazzo e gli ospiti che uscivano a

prendere una boccata d‘aria fresca per poi tornare nel caldo fervore della festa. Musiche, risa e canti

echeggiavano per le montagne; e questi suoni gioiosi arrivavano alle orecchie del fratello povero

come voci di scherno. Ma invano cercava di smetterla di attendere e ascoltare: una forza interiore,

l‘altro se stesso, lo teneva incollato sul posto, come un mendicante sui gradini di un tempio.

Passò il meriggio. La giornata si avvicinava al tramonto. Lhunden stava per rinunciare a ogni

speranza quando il fratello, vestito come un re, uscì sulla balconata a stirare le stanche membra.

Aveva mangiato bene e bevuto molto. La testa gli girava, ma tutte le sue speranze si erano

realizzate, il potere ch‘egli bramava era finalmente a portata di mano. Quando aprì le braccia e si

grattò la testa dolorante, Lhunden prese quel gesto per un cenno d‘invito, una chiamata dell‘ultimo

momento. Si precipitò in casa, baciò Tholma sulla fronte e le disse che andava al ricevimento.

―Finalmente sono stato invitato, finalmente‖, canticchiava mentre i suoi piedi avanzavano a

fatica nella neve fresca.

Ma quando arrivò, coi suoi logori panni fra le vesti di seta, non v‘era alcun fratello a dargli il

benvenuto. Rimase in piedi a guardare i nobili ospiti; divinità con occhi umani che lo guardavano

come se fosse una lastra di vetro trasparente, che la mente vede eppur non vede. Il suo sorriso

avvizzì come un fiore d‘autunno, le sue spalle si piegarono, il cuore gli si spezzò in un milione di

frammenti.

―Voi, cosa volete qui?‖ mormorò la voce fredda di un servo, che tradiva così la sua classe.

―Credevo di essere stato invitato alle nozze‖, disse il fratello povero.

―Allora dovete esservi sbagliato. Il padrone mi ha detto di accompagnarvi fuori.‖

Il servo lo prese per un braccio e lo condusse fuori, attraverso le cucine. Qui gli fu data una

ciotola di zuppa, furtiva gentilezza del servo, e un osso col midollo da portare a casa a sua moglie. Il

servo sorrise e aprì la porta sul retro: Lhunden doveva andarsene per la porta di servizio, il suo

aspetto era una macchia per lo splendore della nobiltà. Un passo dopo l‘altro, ripercorse lentamente

il sentiero verso il fondoval-le. Il sole stava sparendo dietro le creste dei monti in una gloria di toni

dorati. Scendeva la sera. Il fratello povero guardò il magro osso col midollo e lo gettò fra i cespugli.

Quando arrivò a casa, Tholma era già a letto, aveva detto da sola le sue preghiere. Dormiva

placidamente, nulla sapendo della vergogna che il marito sentiva come la lama di una spada nel suo

cuore spezzato.

D giorno dopo egli raccontò tutto a Tholma. La donna si rattristò per il marito, ma gli rimproverò

di aver gettato via l‘osso, perché erano povera gente e ogni cosa poteva servire. Allora Lhunden si

gettò il mantello sulle spalle e uscì di casa. Camminò a lungo nella fredda mattina, fra il canto degli

uccelli, arrampicandosi su per la montagna addormentata fino ai cespugli dove certamente stava

ancora l‘osso che aveva gettato via, fresco nella neve mattutina.

Ma quando arrivò ai cespugli l‘osso non c‘era — e al suo posto vide una gigantesca impronta,

anzi una serie di impronte gigantesche che scendevano a valle e risalivano per la gola fra le

montagne. Come ipnotizzato, Lhunden le seguì, passando da un‘orma all‘altra, saltando come un

pazzo fossi e burroni. Scalò rocce e scese dirupi, sempre più rapidamente correndo dietro le

impronte. E le orme continuavano ad avanzare per dirupi deserti fin dove le montagne si

congiungevano, fino alle oscure terrificanti regioni della terra di nessuno, lontana, lontanissima dai

paesi abitati dagli uomini. Era divorato da un desiderio, da una forza che lo spingeva avanti, verso

l‘ignoto. I suoi piedi trovavano appigli fra le rocce, come se conoscessero la via, un qualche lontano

richiamo lo attirava, un insano desiderio di vedere, forse vedere qualcosa che nessun altro uomo

aveva visto mai.

Riecheggiavano nella sua mente le storie del gigante Memaye, udite da bambino. Anche allora le

nonne dicevano ai piccoli di star buoni, ―sennò il gigante verrà a mangiarvi‖. Quale strana forza lo

attirava? Lhunden non lo sapeva: sapeva solo, nei recessi della sua mente, che non poteva tornare

indietro, non poteva dichiararsi sconfitto. La vita lo aveva spinto in quella ricerca: fallire sarebbe

stata la fine, non vi sarebbe stata più una ragione, una scusa per vivere.

La gola fra le montagne si faceva più buia e profonda. Alti strati di neve celavano micidiali

crepacci fra le rocce, il vento soffiava e gemeva investendo gli alti alberi che saettavano come un

esercito vendicatore contro le grigie nubi che correvano nel cielo. Deboli raggi di sole filtravano da

piccoli squarci, prismi di luci danzanti sfioravano le tenebre come gli eterei piedi di mille fate.

Gli alberi giganteschi si infittirono, divennero un labirinto di tronchi simili a un campo di grano

che ondeggia a primavera. Ora era più difficile scoprire le orme che serpeggiavano dentro e fuori

del bosco, su per piccole alture e giù per burroni, e nel letto gelato di fiumi addormentati. Lhunden

si sentiva battere il cuore e pulsare il sangue in ondate di paura e trepidazione: fra i suoi capelli si

formavano aghi di ghiaccio mentre il sudore gli imperlava la fronte.

Improvvisamente sentì il silenzio che stava in agguato, spesso e minaccioso come una belva,

pronta a balzar fuori dal nascondiglio con un cozzar di cimbali e un rullo di tamburo. Tuttavia

continuò la marcia, seguendo le orme che portavano a un mondo dimenticato, a un‘eternità dove il

tempo era immobile in attesa.

Gli alberi si diradarono in una radura. Improvvisamente, come una muraglia in mezzo a un

deserto, le montagne tornarono ad ergersi ripide verso il cielo, e ai piedi della roccia comparve una

strana, vecchia casa intagliata nella pietra dalle mani di mille muratori. Le finestre spiccavano come

nere orbite vuote nel teschio di un cadavere in decomposizione. La porta era grande come una casa

e ci sarebbero voluti una dozzina di yak per sollevarla. Un sottile filo di fumo azzurro usciva da

un‘apertura nascosta nel tetto sbilenco; ma a parte questo, ogni cosa era immobile e addormentata.

Lhunden scivolò più vicino alla strana casa, schivando mucchi di legna e cassette; dalla finestra

vuota usciva un odore di cibo. Si issò cauto sul davanzale di pietra ed entrò.

Il sole stava calando in un fulgore di raggi d‘oro, ma la casa era tutta buia, solo il fuoco danzava

gaiamente nel focolare, dove una fila di pentole bolliva e borbottava sul fornello di ferro. Lhunden

si era alzato presto quella mattina, moriva di fame. Saltò giù dal davanzale, si rialzò dal freddo

pavimento di pietra e si diresse verso le tre pentole da cui usciva l‘aroma del cibo.

L‘affamato visitatore usò un cucchiaio di legno come leva per sollevare i pesanti coperchi che

chiudevano ogni pentola. Nella prima vi era del tè, nella seconda uno stufato di carne e nella terza

un mucchio di fagioli deliziosamente profumati. Lhunden aveva tanta fame che quasi saltò dentro le

pentole: e per quanto abbondante fosse ogni pietanza, ben presto divorò tutto lo stufato, e quasi tutti

i fagioli, bevendosi tutto il tè. Sazio e molto soddisfatto, si allontanò dal fornello e stava per

arrampicarsi nuovamente fino al davanzale quando sentì cigolare l‘enorme porta. Si precipitò dietro

un cassone e vi stette nascosto.

La porta si spalancò con un boato e sulla soglia apparve la massiccia figura di un gigante. Era

Memaye, il leggendario gigante dei tempi antichi, che aveva errato a lungo per la valle di Lunchurig

ed era poi scomparso nelle viscere di una montagna. Lhunden quasi gemette di paura, ma nello

stesso tempo si sentì tutto eccitato, mentre si rannicchiava nel buio dietro il cassone.

Memaye entrò in casa zoppicando — ricordo di qualche battaglia dimenticata — ma non era

solo. All‘ombra del gigante apparve un magro vecchio che picchiava sul pavimento con un bastone

di betulla. Era Zutul, il famoso mago, più vecchio delle montagne e degli alberi, che ormai era cieco

e si apriva a tentoni la via nella notte come un pipistrello che porti un messaggio del diavolo. Il

gigante si diresse verso le tre pentole. Sollevò il primo coperchio e lo fece ricadere, sollevò il

secondo con una mano e il terzo con l‘altra e poi li fece ricadere entrambi con un assordante

frastuono di ferraglia.

―Abbiamo avuto un visitatore‖, disse Memaye. ―Se è fuggito e poi ci tradisce, i vecchi tempi

ritorneranno.‖

―Non temere, amico mio‖, replicò il mago. ―Io non sento guai nell‘aria.‖

―Spero che tu abbia ragione‖, fece Memaye, prendendo una scatola di legno da una mensola.

―Meno male che abbiamo ancora le selci, così il nostro stomaco non resterà vuoto.‖

Il gigante trasse una scheggia di selce dalla scatola e la sfregò contro il pilastro di pietra di fronte

al fornello. Quando le scintille cominciarono a danzare intorno alle sue dita comandò: ―Prima

pentola tè; seconda pentola, stufato di carne; terza pentola, fagioli.‖

Non era passato un secondo che le pentole ricominciarono a bollire e a cantare e odorare come a

un banchetto. Memaye versò il tè in due scodelle, una molto grande e l‘altra piuttosto piccina. Col

mestolo servì lo stufato e la carne in due piatti, poi pose i fagioli in due ciotole, una enorme, da

gigante, l‘altra minuscola, per un vecchietto mingherlino. I due mangiarono il loro cibo, parlando

del meraviglioso passato, quando la valle e il mondo erano ancora giovani. Lhunden ascoltava,

spaventato eppure incantato come un bambino che sta seduto sulle ginocchia della nonna ad occhi

sbarrati. Le parole fluttuavano fra quelle mura di pietra come un sogno melanconico, un glorioso

passato ormai spento, dissolto come polvere all‘avvicinarsi della tempesta.

Le parole smorirono. Le vecchie leggende si dissolsero in un sonno senza colori, il gigante e il

vecchio mago riposavano sognando antiche lotte, guerre vinte, battaglie perdute e non cantate.

Lhunden, stanco e intorpidito, si alzò, strisciò furtivamente verso la finestra, ma qui si fermò. In alto

vide la scatola aperta con la selce magica accanto: allora scivolò nel buio verso il cassone, vi montò

sopra, raggiunse la mensola. Sbirciò nella scatola: dentro vi era un‘altra selce magica. Pensò alle

tristi conseguenze che potevano derivare da un furto, ma in fondo c‘erano due selci: una per il

gigante, una per lui. Con la selce magica poteva fare tanto bene, poteva aiutare tutti i poveri del

villaggio. Si pose la selce più piccola sotto il braccio, scese dal cassone traballante, si arrampicò

sulla finestra aperta e saltò fuori verso la libertà. Corse via nella notte, con un tumulto di pensieri

contrastanti, di ansie e speranze nel cuore.

La notte era fredda e desolata. Gli alberi sembravano più alti, ostili. Si ammassavano per

nascondere tutti i sentieri, tutte le impronte di giganti che per un‘eternità avevano camminato da una

vita all‘altra. Lhunden si sentiva sperduto e spaventato. Il freddo gli rodeva le viscere, le mani erano

come artigli di ghiaccio aggrappati alla gelida notte. Si slanciò in avanti come un disperato. La

foresta si faceva più profonda e più fitta, poche stelle solitarie brillavano nel cielo come diamanti.

Cadde contro una roccia seminascosta, si fermò a riposare appoggiato a un albero, poi riprese il

cammino, mentre la nera notte lo inseguiva lungo le gole che dividevano il passato e il futuro, come

un fragile anello fra il dimenticato e l‘invisibile. Lunchung era là sotto, in fondo alla valle. Doveva

continuare a camminare, lottando contro la paura, il vento e il freddo, per arrivare nella calda valle

della realtà.

Poi, all‘improvviso, gli alberi si diradarono. I piedi di Lhunden trovarono un solido terreno sotto

la neve. Quando spuntò la prima luce dell‘alba Lhunden potè vedere il profilo delle case, le forme

familiari di Lunchung: da due o tre tetti saliva fumo, gli uomini che si alzavano col giorno dicevano

le loro preghiere del mattino, si udivano muggire le vacche e abbaiare i cani. Lhunden usci dal

vaneggiare delle sue strane esperienze per rientrare nel giocondo brusio della vita che aveva sempre

amato. D‘improvviso sentì pesare la selce contro le sue membra stanche e doloranti.

Le settimane divennero mesi mentre la vita continuava a scorrere. Tholma aveva molti dubbi a

proposito delle strane vicende che suo marito andava raccontando, ma si godeva le buone cose che

la selce magica procurava. Tutti gli uomini del villaggio erano sorpresi di quello strano mutamento

di fortuna, ma infine anch‘essi poterono condividere quella ricchezza. L‘oro prodotto dalle scintille

danzanti che uscivano dalla magica selce serviva a pagare i mercanti e gli artigiani, i quali

producevano innumerevoli oggetti che l‘umile coppia aveva sempre desiderato, ma che

naturalmente non aveva mai potuto procurarsi. In cambio anch‘essi diventavano ricchi, poiché la

ricchezza si diffondeva da una persona all‘altra, e poi anche fuori dalla valle e fino alle lontane città.

Ben presto Lhunden acquistò reputazione e onori. Portava abiti eleganti, cavalcava nobili

destrieri, e tuttavia restava sempre gentile e generoso. Aveva abbandonato la sua capanna di sassi

per un bel palazzo e i gentiluomini che passavano per il villaggio diretti in città gli rendevano

omaggio e talvolta si fermavano per la notte. I vecchi amici chiedevano a Lhunden da dove gli

veniva la sua ricchezza, ma lui si limitava a sorridere e diceva: ―Oh, sono stato solo fortunato!‖.

La ricchezza di Lhunden aumentò la sua popolarità. La gente veniva a visitare la sua bella casa e

a chiedergli consiglio, come se fosse un sant‘uomo, perché i suggerimenti che egli dava erano

sempre saggi.

―Siate buoni, gentili e onesti‖, soleva dire. ―Aiutate sempre gli altri e non danneggiate mai

nessuno, perché questa è la via della natura, e questa è la via del successo.‖

La strana visita alla casa del gigante era svanita in un passato irreale, ma Lhunden non venne mai

meno alla promessa fatta nel profondo del cuore. Aveva usato la sua fortuna per fare del bene a tutti

e la sua fama di uomo saggio si era diffusa per tutto il regno.

Lhaven cominciò a sentire la fortuna del fratello come un insulto personale. Nel suo alto palazzo

in cima alla collina egli progettava, macchinava, intrigava, ma tutto gli andava storto. Pian piano il

suo patrimonio si consumava, i suoi affari uno dopo l‘altro fallivano abbattuti dai venti della

provvidenza. E quando vide che la fortuna gli sfuggiva come il ritrarsi della bassa marea, si afferrò

disperatamente all‘ultima tavola di salvezza: Lhunden, che viveva felice nella vallata ai piedi del

colle.

Era una pallida mattina di primavera. La neve invernale si andava sciogliendo in una massa

fangosa. Lhaven scese lungo il pendio senza accorgersi del miracolo della natura: gli uccelli che

cantavano, le giovani gemme che spuntavano dalla neve per annunciare che l‘infallibile ruota della

vita continuava a girare, il sole in attesa dietro il grigio mantello di nubi. Si avvicinò alla porta della

casa di Lhunden, dove un leone di bronzo lo guardava freddamente. Picchiò forte col battente, come

se volesse romperlo, ma la testa del leone continuò a fissarlo con gelida indifferenza.

Un servo aprì la porta e lo fece entrare in un elegante vestibolo.

―Sono così felice di vederti, dopo tutti questi anni‖, disse Lhunden andandogli incontro con un

sorriso di benvenuto.

―Sono stato molto sfortunato in questi ultimi tempi; forse tu potresti aiutarmi?‖ fece il fratello,

accigliato.

―Ma certamente, se posso fare qualcosa.‖

Lhaven parlò al fratello dei suoi progetti falliti, della fortuna che lo aveva abbandonato. Diede

colpa dei suoi insuccessi agli altri, ai gentiluomini della città che avevano cospirato contro di lui,

alla cattiva sorte, a tutto quel che poteva escogitare: a tutto tranne che alla propria disonestà.

Lhunden si offrì di fare un prestito al fratello, ma Lhaven non era soddisfatto. Voleva sapere ―come‖

Lhunden era riuscito ad arrivare a tanto successo, e pregò e pianse finché Lhunden cedette e

raccontò tutto.

‗Ti ricordi il giorno delle tue nozze, tanti anni fa?― chiese.

―Allora sono stato uno stupido, non avevo mai avuto l‘intenzione di cacciarti via. Dentro di me,

volevo anzi che tu fossi l‘ospite d‘onore‖, mentì Lhaven.

Ma Lhunden non dette peso a quella bugia, e continuò con la sua storia. Raccontò della

gentilezza del servo, della ciotola di brodo e dell‘osso col midollo. Ricordò i rimbrotti della moglie

perché aveva gettato via l‘osso, la ricerca fra i cespugli, le orme del gigante che lo avevano

condotto alla strana casa nella valle sconosciuta. Lhaven ascoltava, metà convinto, metà nel dubbio

di esser preso in giro, come del resto avrebbe fatto lui stesso se la situazione fosse stata invertita. E

invece lui era qui, come un mendicante, seduto ai piedi del suo stupido fratello. Era mai possibile

che la fortuna di Lhunden fosse mano del fato? Lhaven non sapeva più cosa pensare. Per lui onestà

e pietà erano sempre state sciocchezze di cui farsi beffe nella realtà della vita. Per ogni lacrima che

cadeva dal suo falso cuore, Lhaven odiava suo fratello un po‘ di più.

Udita tutta la storia, Lhaven fu impaziente di andarsene, di accingersi alla ricerca della selce

magica. ―Se Lhunden ci è riuscito, sono sicuro che ci riuscirò anch‘io‖, pensava, mentre

ripercorreva il sentiero fino al suo palazzo. Scese nelle cucine a prendersi un osso col midollo,

perché non aveva più servitori che corressero ad eseguire i suoi ordini e andò a gettarlo nel punto

dove Lhunden aveva trovato le impronte del gigante. Quindi tornò a casa ad aspettare il mattino,

mormorando le egoistiche preghiere che gli uomini rivolgono al male nel profondo del loro cuore.

Sorse l‘alba. Il pendio riviveva al soffio della primavera, i giovani germogli respiravano la fine

aria di montagna attraverso la neve che si andava sciogliendo, gli alberi stendevano i rami e si

scrollavano di dosso il bianco mantello invernale, gli uccellini erano indaffarati a prepararsi un nido

caldo per la loro covata annuale. Ma Lhaven era cieco a tutto ciò. Marciava nella luce dell‘alba

cercando l‘osso che aveva gettato via la notte prima, perché in fondo al cuore egli non credeva

ancora alla storia dello strano gigante e del vecchio stregone. Ma l‘osso — l‘osso era sparito. Cercò

bene fra le rocce, ed ecco un‘orma, una gigantesca impronta fangosa, che stava quasi sparendo al

sole del mattino. Fece qualche passo avanti e ne trovò un‘altra e poi un‘altra.

Le orme proseguivano su per le colline e giù per le valli, accompagnate da un‘altra serie di

impronte minuscole, per boschi enormi e fiumi gelati, in cima alle rocce e in fondo a fitte boscaglie

che si facevano sempre più nere e impenetrabili via via che Lhaven avanzava, spinto dalla sua

bramosia come da una frusta che lo costringeva a superare la paura. Ora il sole era alto nel cielo,

poche nubi bianche vagavano all‘orizzonte cambiando continuamente forma e dimensioni,

fondendosi e separandosi. Il sentiero si fece più ripido. Le orme gigantesche serpeggiavano dentro e

fuori dai cespugli, sicché Lhaven doveva impiegare più tempo per seguirne la traccia. Talvolta

sparivano completamente, ed allora si ostinava a cercarle per molti preziosi disperati minuti, finché

trovava appena un segno umido e leggero, l‘anello di congiunzione con lo strano sentiero che

conduceva a un passato dimenticato.

Finalmente i grandi alberi si diradarono e il sentiero sboccò nella radura dove sorgeva la casa-

caverna, aggrappata come una sanguisuga ai piedi del monte. Le orbite nere delle finestre lo

fissavano cieche, minacciose o invitanti come l‘unica locanda rimasta in una città abbandonata ai

margini della terra di nessuno. Lhaven strisciò attorno al semicerchio di alberi e giunse alla cupa

dimora. La porta era chiusa, ma, come Lhunden, anche il fratello maggiore riuscì a issarsi fino al

rozzo davanzale di pietra e balzò giù nella stanza.

Lhaven ignorò le pentole profumate che bollivano sul fornello e si arrampicò fino all‘alta

mensola. Trovò la scatola di legno che il fratello gli aveva descritto, alzò il coperchio e guardò

dentro. Nulla: era vuota. Cercò sulla mensola: non trovò nulla. Scese a terra e frugò

sistematicamente in ogni angolo, nei vasi e nelle scatole, sotto le sedie e nei cassetti che riusciva ad

aprire. Ma non trovò niente. Lanciò maledizioni al fratello. Il sudore gli gocciolava dalla fronte, la

collera ribolliva nel suo cuore infelice. Non c‘era niente da fare se non seguire nuovamente le tracce

di Lhunden.

Sollevò i coperchi delle tre pentole e divorò avidamente lo – stufato di carne, i fagioli e il tè

bollente. A stomaco pieno si sentì meglio e si accucciò in un nascondiglio per aspettare il gigante e

la seconda selce magica che avrebbe imbandito il banchetto per Memaye e Zutul. Mentre aspettava

dietro un cassone scese la sera, e la luce del giorno disparve nel nero della notte.

Sottili lingue di fuoco danzavano intorno alle tre pentole vuote. Il fornello di ferro incandescente

brillava, vivo fra le pietre morte, come gli occhi di un animale nel buio sinistro della notte. Gli

alberi si mormoravano pensieri segreti mentre il vento soffiava fredde bave di brezza nel fruscio di

un milione di giovani foglie primaverili. Un odore particolare di piante e caligine, come il sentore

della morte, si diffuse nella stanza mescolandosi all‘aroma dei cibi. E Lhaven vide d‘improvviso il

suo proprio corpo, ardere su un rogo in vetta a una collina. Cominciò a gridare: ―No, io sono ancora

vivo, sono vivo, vivo‖, ma le visioni scomparvero come fantasmi all‘alba. ―Corri, fuggi, salvati!‖

La mente di Lhaven era scossa dai terrori di tutta una vita, gli unici compagni che gli fossero rimasti

fedeli. Anche Dolker lo aveva abbandonato. La speranza era svanita. Gli restava solo la selce

magica, ultimo vano, egoistico desiderio, la pietra angolare su cui avrebbe potuto costruirsi un

nuovo futuro. Il corpo di Lhaven si muoveva irrequieto, ansioso di lasciare la buia caverna della

disperazione: ma la sua ostinata avidità lo teneva incollato lì, come una mosca prigioniera di una

tela di ragno.

D‘improvviso l‘intera montagna si scosse col rombo di mille tuoni. La porta si spalancò con un

grande fracasso e sulla soglia comparve Memaye, alto come gli alberi della foresta, la faccia agitata

da strani pensieri. All‘ombra del gigante avanzava Zutul, il mago cieco.

―Il tuo naso sente lo stesso odore del mio, amico?‖ ruggì il gigante.

―Sì, e sento correre nell‘aria le perfide onde delle forze del male‖, rispose Zutul.

Lhaven tremava come una foglia al soffio del temporale. Poteva sentire il suo cuore battere,

battere.

Memaye mosse un gran passo verso il focolare. Sollevò le pentole e gridò all‘amico cieco: ―Il

ladro è tornato! Una sola selce magica non è stata abbastanza per lui!‖

Il gigante prese un fuscello dal fuoco del camino e accese le lampade al burro che pendevano dal

soffitto della caverna. La pallida luce gettò lunghe ombre nell‘immensa stanza. Zutul sedette a

gambe incrociate accanto al fuoco su un sedile coperto di drappi, mentre il gigante andava

spostando e spingendo casse e sedili in tutta la stanza, cercando sotto il letto, nei pesanti mobili di

legno, in tutti gli angoli e in ogni piccolo buco. Lhaven guardò verso la finestra. Chissà se un rapido

salto avrebbe potuto salvarlo? Ma Memaye stava avvicinandosi all‘angolo in cui stava nascosto.

Troppo tardi: ormai era preso in trappola come una fiera da un cacciatore.

Memaye agguantò l‘ometto atterrito con l‘enorme zampa, come se cogliesse un fiore dalla siepe.

―Non sono stato io, non sono stato io, è stato mio fratello,‖ gemeva Lhaven.

Urlava, pregava, piangeva, lottava, ma l‘enorme pugno lo teneva stretto come in una morsa. Il

gigante lo fece cadere al suolo di fronte allo stregone cieco. Lhaven implorò grazia per la sua vita. I

suoi occhi cercavano disperatamente una via di scampo, ma il gigante era chino su di lui come un

avvoltoio che segue un uomo condannato. La vita egoista e mal vissuta di Lhaven riecheggiava nei

meandri della sua mente corrotta, un arcobaleno di paure si inarcava sul fiume dei suoi pensieri. La

vita era stata per lui una grande montagna e il suo solo scopo era stato quello di raggiungerne la

cima: ma tutti coloro che aveva conosciuto non erano stati nient‘altro che uno scalino, un sasso

dove poggiare il piede. Ora stava cadendo, precipitando in un gorgo senza fondo di desideri

inappagati.

―Non sono stato io, è stato Lhunden, il mio fratello minore. E lui il ladro. Un terribile, perfido

ladro.‖ Ma Lhaven parlava a orecchie sorde.

Zutul tirò a sé l‘ometto atterrito, come se i suoi occhi ciechi volessero vederlo più da vicino.

Invece mormorò uno strano incantesimo, un mantra, il cui solo suono intesseva miriadi di strani

pensieri: bizzarre parole in una lingua da lungo tempo sepolta, parole che sfidavano i pensieri,

trascendevano l‘interpretazione. La mente di Lhaven fluttuò nell‘oblio. I suoi terrori erano cresciuti,

ma ora non sapeva più cosa temeva. Sentiva l‘odore della caligine giallastra che penetrava nella

stanza fumosa. Il suo corpo diveniva insensibile. Poteva vedere le sue mani ma non le sentiva più. I

suoi sensi vacillavano, ma i suoi occhi vacui continuavano a fissare il mago cieco, nella cui vecchia

faccia sottile danzavano bizzarri pensieri, mentre i sinistri riflessi delle lampade che brillavano

come stelle striavano il suo volto di ombre grigie.

Lhaven sentì che l‘enorme artiglio lo sollevava da terra. E inaspettatamente si trovò fuori dalla

grande porta di legno. La porta si chiuse. Il gigante scomparve nel cuore della montagna. Una

sottile falce di luna veleggiava nel cielo primaverile. Di colpo Lhaven si rese conto di essere libero.

Balzò in piedi e si gettò di corsa attraverso la radura, nel fitto degli alberi che lo avrebbero protetto,

che gli avrebbero dato la libertà.

Ma mentre penetrava inciampando nella foresta le gambe incominciarono a pesargli come

fossero di piombo. Cercò di trascinarle, ma sembrava che rimanessero attaccate, mettendo radici

attraverso il sottile strato di neve mezzo sciolta. Le sue braccia si fecero pesanti e deboli, come se

avesse lavorato tutto il giorno nei campi. E infine sentì che i suoi abiti si spaccavano e cadevano a

terra. Si guardò le braccia: erano nere e rugose come rami d‘albero. La sua gamba destra era come

attaccata a terra: cercò di sollevarla, ma anche l‘altra mise radici. Le sue braccia si sollevarono

verso il cielo e ne uscirono rami e dai rami sbocciarono foglie, verdi foglie di primavera. Lhaven

sentì crescergli su tutto il corpo uno strato di corteccia: gradualmente la corteccia salì a coprirgli il

mento, le labbra, il naso, gli occhi, la testa. Strati di giovane corteccia si avvolsero intorno a ogni

sua gamba, minuscole foglie spuntarono dai giovani rami che si stendevano avidamente verso gli

alberi della foresta.

Lhaven urlò, chiamò aiuto, ma la sua voce era solo un fruscio, il sussurro dei rami che

stormiscono alla brezza. Era prigioniero, coscienza umana sepolta nella forma di un albero, spirito

terrestre che avrebbe sofferto tormenti per innumerevoli secoli. Ora doveva pagare per tutto il male,

per tutta la perfidia della sua vita: e non una volta, ma mille volte. Mormorò la lugubre canzone

della foresta, ma solo gli alberi lo ascoltavano mentre ripetevano lo stesso interminabile canto.

IL MAGO DELLA PIOGGIA

Zor camminava dietro il suo Maestro come una minuscola ombra. Camminava con lo stesso

passo lento, le mani giunte dietro la schiena e gli occhi bassi che guardavano, scrutavano, sentivano

la terra respirare, ondeggiando con lo stesso ritmo gentile. Quando il Maestro si fermava, il ragazzo

pure si fermava. Il vecchio sorrideva osservando le nervature di una foglia, sfiorando con le vecchie

dita gentili il fine reticolato di vene, mentre la rugiada mattutina gocciolava come miele fra le sue

dita. Poi deponeva di nuovo la foglia a terra, come un bimbo appena nato, lasciando indisturbata,

intatta la bellezza dell‘autunno.

Un grosso sasso giaceva sul terreno sonnecchiando nel dolce sole mattutino che danzava fra gli

alberi. Il Maestro lo spinse gentilmente da parte e osservò la vita che formicolava là sotto. Migliaia

di minuscole larve, nere, brune, rosse, i bianchi teneri tessuti della vita appena nata. Rimise il sasso

al suo posto e i bruchi continuarono la loro lotta per la sopravvivenza, mentre la grossa pietra

ricadeva nei suoi taciti sogni.

Un albero stava sanguinando e il suo sangue scuro gocciolava come melassa da un vaso, liquido

al centro e già indurito agli orli, dove si coagulava per difesa contro le mosche e gli insetti che

suggono la linfa, come le zanzare dal braccio di un uomo. Lentamente la ferita si sarebbe

cicatrizzata, le fredde nevi dell‘inverno avrebbero fatto da anestetico, e poi la primavera sarebbe

tornata in tutta la sua magnificenza, irradiando gloria e vita nuova: l‘immenso mondo avrebbe

ricominciato il suo ciclo senza fine, fondamento di tutte le cose.

Erano pochi gli uomini che facevano parte della possente Terra. Il Maestro era uno di essi.

Conosceva i suoi segreti, le gioie della Terra erano le sue gioie. Sapeva quando dovevano venire le

nevi, scrutava le vette dei monti, prevedendo che presto i picchi frastagliati si sarebbero ricoperti di

un candido manto, che sarebbe rimasto là fino al primo giorno di primavera. Il Maestro osservava le

nubi, che conosceva una per una, come i volti dei compagni di scuola, che cambiano eppure sono

sempre gli stessi, impressi nel cervello come una vecchia cicatrice. Le osservava veleggiare contro

il sole, cambiar colore e formare, disfacendosi e rifacendosi, i vapori trasparenti che plasmano i

volti degli dèi e poi la nera sinistra faccia del diavolo. Si arrestavano per un attimo sulla vetta delle

montagne, poi si allontanavano verso nuove terre, verso un altro sole da velare, un altro

interminabile viaggio da iniziare.

Il Maestro non solo vedeva gli alberi, ma li sentiva, li conosceva, era parte di loro. La Madre

Terra e le ruote del Tempo non significavano nulla per la maggiore parte degli uomini, ma per il

Maestro erano tutto, erano la vita stessa. Egli respirava con l‘aria della vita, rinunciando ai

fuggevoli piaceri dell‘uomo per l‘incanto della Verità. Come l‘uomo moderno dedica la sua vita ad

accumulare ricchezze, così il Maestro dedicava il suo tempo ad accumulare conoscenza: conoscenza

della Terra e conoscenza dalla Terra. Il suo oro era la molle rugiada che si raccoglie in piccole gocce

di perla sui petali di un fiore; i suoi gioielli erano i lucidi boccioli delle rose che fioriscono in

primavera; le stelle che danzano nel cielo erano per lui le monete d‘argento che gli altri uomini

tengono nascoste nelle loro borse di cuoio.

Il Maestro era anche un uomo santo, che cercava la libertà, la liberazione dell‘Estrema

Beatitudine. Pochi pensavano che quello non fosse il suo sentiero, il Divino Sentiero degli

Illuminati che lo avevano preceduto. Tuttavia, essendo un uomo santo, egli era diverso dagli altri

monaci, o dai nobili lama che passano lunghi anni meditando sul mondo, costantemente in cerca

della verità. Il Maestro non meditava mai sul mondo, perché faceva parte del mondo e il suo cuore

pulsava al ritmo dell‘enorme cuore che batte nelle viscere dell‘immenso orbe rotante. Era più che

un monaco. Era il Mago della Pioggia.

Ma il Maestro stava diventando vecchio. Era tempo per lui di ritirarsi nella rotazione della terra e

di divenire parte integrante di tutto ciò che è. Per tutta la sua lunga vita era stato uno dei più potenti

maghi del paese; fermava le piogge quando si riversavano senza sosta dal cielo, o faceva venire la

pioggia quando il sole estivo screpolava la terra, inaridiva i campi e faceva morire di sete i raccolti.

Spingeva le nuvole nere al di là delle montagne, arrestava gli uragani sul loro cammino e i venti

selvaggi nell‘alto dei cieli, per mandarli a perdersi nel vuoto degli spazi.

Zor era stato per molti anni l‘apprendista del Maestro. Aveva imparato a conoscere gli alberi e i

fiori, le montagne e il cielo. Poche parole erano state dette fra l‘uomo e il ragazzo, fra il maestro e

l‘allievo; ma cosa mai si deve dire, quando la comprensione si raggiunge attraverso gli occhi,

l‘anima, il cuore? Zor era un orfanello. Un ragazzo intelligente, delicato e sensibile, che osservava il

mondo intorno a sé mentre i suoi compagni giocavano i giochi dei fanciulli. Era poco più che un

bambino quando un vecchio lama era venuto a prenderlo per portarlo con sé. Il viaggio era stato

lungo e strano, lontano dalle vie cittadine della sua infanzia. Il lama, col suo rosso mantello

ondeggiante nel vento, sorrideva, 10 sguardo lontano, rivolto dentro di sé, trovando la bellezza del

Santo dei Santi in fondo al proprio cuore.

Lasciarono il cavallo e la carrozza all‘ombra di un salice e si arrampicarono su per le rocce che

portavano alla grotta. Il Maestro era seduto fuori e osservava il sole del mattino che saliva

lentamente nel cielo. Fece l‘atto di sorridere, ma la sua liscia faccia consumata dal tempo non si

increspò neppure: restò immobile, tacita, magnifica figura intagliata nel legno.

11 viso di Zor invece si illuminò, e i suoi giovani occhi si riempirono d‘amore per l‘uomo che

doveva essere il suo maestro. Sentiva un infinito desiderio di quella nuova vita fra le colline, ogni

suo timore si fondeva come una falda di neve in estate. Si inchinò profondamente al vecchio

Maestro e al lama che lo aveva portato là: fragile fanciullo fra le grandi ombre dei due uomini.

Il lama e il Mago della Pioggia non avevano molto da dirsi, le parole erano scritte nei loro occhi.

Sapevano e capivano. Non avevano bisogno delle oziose ciarle dei piccoli uomini.

Zor osservò la carrozza e il cavallo che sparivano in lontananza. Era la fine della vecchia vita e

l‘inizio di una vita nuova. Tutto ciò che aveva saputo finora era solo una nube di polvere

all‘orizzonte. I suoi giovani occhi sensibili palpitarono quando il lama sparì dietro l‘ultima curva

del sentiero. Il passato se n‘era andato. Si voltò e il vecchio Mago della Pioggia gli porse una

ciotola di zuppa. Il ragazzo sorrise: nel suo cuore già amava l‘uomo che sedeva in silenzio

all‘entrata della grotta.

Via via che gli anni e le stagioni passavano crebbe nel ragazzo l‘amore per il Maestro. Osservava

le vecchie mani sfiorare la tenera curva di un petalo, tastare le morbide zolle di terra. Il vecchio

scrutava le nubi con i suoi saggi occhi che tutto sapevano, mentre il suo vòlto incavato era pieno

della – gioia di vivere. Vedeva tutte le cose come se fosse la prima volta, eppure le sentiva con le

mani che conoscevano tutto. I primi fiori di primavera lo eccitavano come un bambino in gita. Li

vedeva con gli occhi di un giovane e con la mente di un saggio. Osservava le foglie brune

dell‘autunno cadere dagli alberi e il vento sollevarle come piume e gettarle a mucchi ai piedi di una

roccia. Quando veniva l‘inverno osservava i piccoli animali che migravano verso climi più caldi.

Passavano vicino a lui come vicino a un amico, senza alcun timore nei loro occhi melanconici. Le

cornacchie abbandonavano gli alberi spogli lasciando i loro nidi attaccati all‘incrocio di forti rami,

si levavano in alto come un esercito di fantasmi neri, gridavano il loro segreto linguaggio nel vento

gelido, e poi partivano in volo per il loro lungo viaggio, come nomadi che seguono l‘erba.

Zor osservava il Maestro, imparava come sentire al tatto una foglia, come odorare gli arbusti e le

erbe selvatiche che abbondano nei boschi; scopriva come fiutare nell‘aria la primavera, come udire

la vita che pulsa nelle spire di una conchiglia. Il ragazzo guardava il vecchio mago e vedeva nei

suoi occhi la vita, come la luna riflessa nello specchio di un puro lago montano. Il Mago della

Pioggia coglieva un fiore selvatico e lo portava nella sua grotta. Quando il fiore appassiva e moriva,

staccava dallo stelo gli ultimi segni di vita e poi lo ripiantava in una ciotola di terracotta. In una

settimana il piccolo stelo bruno riviveva, spuntavano verdi gemme e il ciclo della vita ricominciava.

Quando il fiore era pronto, nutrito e curato dalle dita sottili del saggio, era tempo per lui di tornare

alla sua dimora nella foresta: una pianta più forte e più bella.

Talvolta il Maestro insegnava al suo apprendista come trarre da erbe e fiori selvatici un vero

banchetto. Raccoglieva le cose naturali che gli uomini di solito vedono e non guardano, e le

trasformava nel loro pasto serale. Le nocciole e le bacche senza sapore che crescono sugli alti alberi

rivivevano nella piccola pentola all‘entrata della grotta. Il Maestro e l‘allievo vivevano di noci e di

bacche, di steli bolliti, di felci e rovi che si arrampicano su per le colline in una miriade di brillanti

colori. La sera sedevano a osservare le stelle che passavano nel cielo. Il ragazzo imparava i loro

nomi e i loro segnali. Quando una brillava, stavano per sopraggiungere le piogge; quando un‘altra

era più chiara, il Sud doveva aspettarsi la siccità. La conoscenza veniva lentamente,

automaticamente. Non vi erano né libri né compiti da fare. I nomi dei fiori venivano dalla mente

degli uomini. Il Mago della Pioggia imparava i nomi dei fiori ascoltando il loro sottile respiro,

sentendo le parole magiche che la bellezza vivente sussurra nel mantello della notte.

Quando la luna era alta e le stelle basse nel cielo, l‘allievo vedeva il Maestro uscire lentamente

dalla grotta e immergersi nella notte bagnandosi nello splendore lattiginoso della luna. All‘alba il

fanciullo si destava. Il Maestro era tornato e dormiva un sonno silenzioso con un sorriso infantile

sul volto. Le notti di luna erano importanti per il Mago della Pioggia, e col passare degli anni Zor ne

seppe il perché. Le sue conoscenze gli venivano dall‘interno, dal suo stesso essere interiore.

Raramente il Maestro spiegava le cose con le parole. Insegnava con l‘esempio. Quando si

piegava a cogliere qualche minuscolo fiore spingeva il ragazzo a fare altrettanto. Osservava con

profondo amore quella minuscola creatura della vita e la vedeva come un piccolo miracolo, un dono

degli dèi del cielo all‘uomo della terra. Zor guardava e la sua conoscenza aumentava ogni giorno, il

suo amore per la vita cresceva in lui come una passione.

Di tanto in tanto giungeva un messaggero a portare una richiesta di aiuto. Aveva piovuto per

diverse settimane in quella città o in quel villaggio, poteva il saggio aiutare quella gente? Il Maestro

sorrideva, poneva i suoi strumenti di mago in una borsa di cuoio e partiva immediatamente. Talvolta

restava lontano solo qualche giorno, talvolta molte settimane. L‘allievo lo aspettava impaziente; lo

riprendeva il vecchio ritmo quotidiano, con terrori e fantasie infantili, sogni selvaggi e giorni vuoti.

Infine il Maestro tornava e ogni cosa ridiventava normale, le segrete fonti della conoscenza che

erano bruscamente scomparse altrettanto stranamente si riaprivano per lui.

Col passare degli anni la conoscenza di Zor cresceva. Diminuiva gradualmente la sua dipendenza

dal vecchio saggio, aumentava la sua fiducia nella propria abilità. Talvolta faceva una scoperta e la

additava al vecchio. Il Maestro sorrideva, felice che il suo allievo imparasse e ricordasse il vasto

patrimonio di esperienza che lentamente gli trasmetteva. Il saggio vecchio non si era mai

considerato onnisciente. Ogni giorno imparava qualche cosa dal mondo, e via via che l‘allievo si

faceva più saggio, poteva imparare qualcosa anche da lui. Vivere significava raccogliere

conoscenze, accumulare ricordi e conservarli in un archivio mentale, pronti ad emergere quando se

ne presentava l‘occasione.

Ogni anno giungeva dalla capitale un importante messaggio. Il Mago della Pioggia doveva

curare i giardini che circondavano lo splendido palazzo del Dalai Lama. Il Dalai Lama aveva il più

bel giardino che fiorisse sotto il sole. Ogni anno il Mago della Pioggia, a turno con altri due Maghi,

aveva il compito di curare i leggiadri fiori che sbocciavano per la gioia di tutto il mondo. Il Dalai

Lama stesso era un grande giardiniere e impiegava un intero esercito di giardinieri per tenere in

ordine i bei prati e le aiuole fiorite. Ma mentre i giardinieri curavano i fiori, i Maghi della Pioggia

dovevano assicurarsi che il clima fosse sempre favorevole e ci fosse la giusta quantità di pioggia e

molte giornate di sole a tingerli di delicate sfumature. Sua Santità il Dalai Lama aveva per i suoi

giardini le stesse cure che aveva per la sua gente, i lama, i monaci e gli uomini e le donne comuni le

cui vite egli cercava di guidare col proprio esempio. I tre Maghi della Pioggia amavano il Dalai

Lama più di qualsiasi altro essere vivente, e questo faceva del loro compito annuale un grande

piacere, e quasi il culmine del lento giro delle ruote del tempo.

I Maghi della Pioggia erano molto più dei semplici eremiti, che vivevano lungi dagli occhi degli

uomini nella serenità delle colline e dei boschi. Erano al servizio delle nazioni, allo stesso modo

delle sentinelle che difendono il palazzo reale. Un grande Mago della Pioggia poteva avere una

bella casa, molti servi e assistenti e molte più ricchezze di quante gliene occorressero per i suoi

bisogni personali. Oppure poteva vivere una vita semplice come il Maestro e passare giorni felici

senza la folla degli assistenti e i problemi della casa. Qualunque fosse la vita che sceglievano, e

molti naturalmente sceglievano la seconda, i Maghi della Pioggia godevano del più profondo

rispetto del popolo, dei funzionari e del Dalai Lama. Essere un Mago della Pioggia di Sua Santità

era un grande onore che conferiva prestigio e poneva i pochi eletti su un alto piedistallo, fra i

Rinpoches che studiano le parole di Buddha e i grandi Gesheys che diffondono i suoi insegnamenti

girando di continuo la potente ruota.

II Maestro era consapevole dell‘importanza della sua posizione, ma non ne andava affatto

superbo. Era un onore, ma un onore ch‘egli accettava con calma, con una dignità che gli veniva

naturale. Di tanto in tanto si recava a visitare i giardini del palazzo per vedere la splendida raccolta

di fiori in tutto il loro variopinto splendore. I verdi prati scintillavano con minuscoli cespugli

bianchi come gocce di vernice tutt‘attorno ai bordi, un ranuncolo giallo si ergeva solitario in tutto

quel bianco, come un forestiero alla sua prima visita all‘estero. Molti fori rotondi erano stati scavati

per consentire ai giovani alberelli di rose di godere la terra fresca, appoggiati al sostegno di un

robusto palo come un uomo anziano si appoggia al bastone. La sua logora veste monacale

ondeggiava alla tenue brezza estiva mentr‘egli camminava su un cuscino d‘aria per il magico

giardino. Un fiore era caduto, il suo fragile stelo era stato spezzato da un uccello a caccia del pasto

quotidiano. Il Maestro lo osservava, come un contadino che tiene il fucile alla tempia di un cavallo

zoppo, e cercava di guarire la pianta sanguinante, spingendo gentilmente il fusto un po‘ più in giù

nella terra dispensatrice di forza, mentre copriva la ferita con un bendaggio di morbida argilla. Una

carrozza con un silenzioso cocchiere avanzava nel crepuscolo per le vie della città. Il Maestro si

voltava, felice, serbando dentro di sé l‘immagine del giardino come il ricordo di una donna. Il

silenzioso cocchiere allentava le briglie ai cavalli, usciva dalle porte della città e lentamente saliva

su per le colline fino alla dimora del Mago della Pioggia, la grotta dove, paziente e impaziente, Zor

lo aspettava.

Zor non era più un ragazzo. Era un uomo ormai, un monaco consacrato. E un Mago della

Pioggia. Sapeva cantare i magici mantra che dissolvono le nubi, sapeva suonare le canzoni dei cieli

nel femore di un uomo, mandando i suoni incantati a echeggiare attraverso le nubi su fino al sole.

L‘allievo ora viaggiava col Maestro fino a città e villaggi lontani, recando sollievo alle messi

assetate o ponendo termine agli interminabili rovesci di pioggia che distruggevano gli argini dei

fiumi e inondavano campi e case del popolo del Dalai Lama. Osservava il santo vecchio sedendo

dietro di lui come un‘ombra, ne ascoltava le parole magiche, gli accordi segreti che il mago

stringeva con gli spiriti infuriati. Il vecchio mormorava i suoi scongiuri, gettava strane erbe

nell‘aria, soffiava nell‘osso femorale e poi lo scuoteva selvaggiamente intorno alla propria testa,

comunicando con le divinità della pioggia, con le forze delle intemperie. Sedeva su una pietra

mentre la pioggia gli scorreva sulla pelle come le onde dello stagno sul dorso di un‘anitra.

Lentamente le nere nubi si disintegravano e sparivano. Il cielo grigio si divideva come olio in un

vaso d‘acqua mentre l‘azzurro di una giornata di sole emergeva come un coniglio dal cappello di un

prestigiatore. Gli uomini cadevano in ginocchio lodando il grand‘uomo. E il Maestro riponeva i suoi

strumenti magici nella borsa di pelle e si allontanava verso la sua grotta, col giovane allievo

accanto.

Ma il Mago della Pioggia stava facendosi vecchio. I suoi vagabondaggi notturni nei boschi sotto

la pallida luce della luna diventavano più brevi e meno frequenti. Passava molte ore da solo, seduto

in silenzio, meditando sotto un albero o osservando la scia lasciata dal sole, come la traccia argentea

di una minuscola lumaca. Il suo volto intagliato come un bassorilievo diventava rugoso, la pelle si

tendeva come pergamena sulle vecchie ossa del cranio. Le gambe si facevano più deboli e magre: e

la schiena, che era stata ritta come una torre per più anni di quanto ciascuno ricordasse, ora era

curva e piegata in avanti. Le rosse vesti da monaco pendevano dalle spalle incurvate come

biancheria stesa ad asciugare. I pasti di bacche e di erbe erano sempre più scarsi, la conversazione

che era stata sempre tanto parca, ora era del tutto spenta. Egli si era ritirato in un suo mondo

interiore. Era diventato come gli alberi, vecchio ed elegante, silenzioso e sapiente. Zor vedeva sulle

vecchie labbra un sorriso lontano. Guardava con un profondo senso di felicità il suo Maestro, il suo

padre, ma i vecchi occhi non avevano più una risposta – per lui. Non vedevano più Zor. Non

vedevano più nulla.

Il giovane cuoceva le zuppe, le pietanze, il cibo delicato che aveva appreso a preparare dal

vecchio saggio. Li preparava in silenzio non volendo disturbare la pace e la contemplazione del

Maestro. Lasciava una ciotola di cibo davanti a lui e tornava molte ore dopo. Lo trovava ancora

seduto, col volto rigido, la ciotola piena: e diventava sempre più magro, come uno spettro, un

bianco fantasma che appare fra le brume dell‘alba. Le sue brevi passeggiate nella foresta erano

cessate: raramente si allontanava dal suo sedile di fronte alla grotta. Anche di notte il vecchio

meditava al lume della luna, senza sentire il freddo, senza udire gli animali che ululano alla mistica

luce. Zor faceva tutto quel che poteva per il Mago della Pioggia: ma l‘unica cosa che potesse fare

era rispettare il silenzio del vecchio.

Un giorno il Maestro sedeva nella sua solita posizione fuori della grotta quando, per la prima

volta in molti mesi, parlò.

―Vieni‖, disse, e la parola morì nell‘aria come se il movimento stesso della bocca gli costasse un

grande sforzo.

Zor accorse prontamente presso il Maestro: il vecchio pareva un‘ombra, pareva il soffio che esce

dalle fauci di un cavallo dopo una lunga corsa. Il giovane sedette a gambe incrociate ai suoi piedi,

con l‘amore di un figlio che vede il padre venir meno sul letto di morte.

―E tempo per me di lasciare questo mondo.― Le parole erano tenui come uno spruzzo di

pioggiolina. Tu hai lavorato bene e io ti ho sempre amato.‖

Due lacrime scesero lungo le guance del giovane. Il Maestro respirava ancora, ma respirava

appena: le parole gli costavano un duro sforzo e una rapida contrazione di dolore comparve sul

vecchio volto rugoso. Il Maestro meditava la sua ultima meditazione prima che venisse la morte,

traeva il suo ultimo respiro cosciente prima di entrare nell‘altro regno, nell‘esistenza che il bene

compiuto nella vita aveva creato per lui, nella felicità dell‘ignoto, invisibile futuro. Zor sorrise al

vecchio, ma i suoi occhi erano lontani e non vedevano più. E mentre guardava nelle antiche pupille

colme di saggezza, esse parvero annebbiarsi, vacillare come una candela e poi spegnersi. Il Maestro

era morto.

Zor viveva come in un sogno. Il ricordo degli ultimi momenti del vecchio saggio in questo

mondo gli si erano impressi nel cervello. Le parole non dette che brillavano nei suoi occhi erano

come piccole perle di saggezza, lacrime di una fata serbate in una fiala preziosa. Il giovane vagava

per la grotta come un fantasma, come uno spirito in pena, un ospite indesiderato che non poteva

trovare un sedile. Ogni cosa intorno gli ricordava il Mago della Pioggia. La cassetta di legno con le

erbe secche e i semi di girasole, la pentola di terracotta che aveva cucinato magici pasti di noci e

bacche, la coperta consumata, offerta da un villaggio riconoscente che il Maestro aveva salvato da

un uragano. Il cucchiaio d‘argento, la borsa di cuoio, il magico osso femorale che cantava canzoni

agli dèi. Il Maestro era stato lasciato fuori, sull‘alta montagna, perché gli avvoltoi ripulissero le sue

ossa dalle carni, la forma terrestre che non era più necessaria. Le ossa erano rimaste bianche e nette;

e lo scheletro giaceva nella stessa posizione. Quando Zor andò a visitare i resti del Maestro, poté

vedere il vecchio volto, le lunghe dita sottili, il sorriso fanciullesco rivolto ai fiori dei campi. Dai

resti del Maestro tolse l‘osso femorale della gamba destra. Adesso era lui il Mago della Pioggia.

La notte Zor osservava la luna salire lentamente dalla sua grotta agli estremi confini del mondo.

Quando la nuova falce si levava nei cieli di primavera, Zor si alzava e si avviava verso il bosco.

Danzava fra gli alberi, parlava con gli animali, ascoltava stormire gli aghi di pino che dormivano,

accumulando forza per lottare contro le cornacchie che venivano ad attaccarli all‘aurora. Le

cornacchie ora dormivano nei loro nidi rotondi, in alto vicino al cielo, stanche dopo una giornata di

fatiche, dopo aver tanto lottato per procurarsi il cibo e portare saporiti bocconcini ai loro piccoli che

aspettavano nel nido coi beccucci spalancati. Zor osservava le stelle e sapeva quando al sud stavano

per cominciare le piogge, e quando a nord stavano per cadere le nevi. E poteva vedere il volto del

Maestro, una trama di stelle lucenti che brillavano nella Via Lattea, e gli tornavano in mente tutte le

cose che gli aveva insegnato. Il Maestro era stato profondo, paziente e saggio. Il suo allievo era

stato avido di imparare, ma la conoscenza era stata lenta a passare dall‘uno all‘altro: c‘erano voluti

non mesi, ma anni, molti molti anni. Zor era solo un ragazzino quando il lama lo aveva condotto

alla grotta sulla montagna. Ora era un adulto, aveva già vissuto una metà della vita che gli era

destinata. E sarebbe stato felice di passare tutta la sua vita come allievo del Maestro: ma ora il

Maestro era lui. Ora era suo compito proteggere la gente, angelo custode che obbediva agli ordini

del Dalai Lama.

Il sole sorgeva lentamente, pigramente, come un uomo stanco costretto ad alzarsi per andare al

lavoro dopo una serata di festa. Salì lentamente su per il pendio della montagna e rimase sospeso

nell‘aria come una gigantesca gelatina, ondeggiando come olio bollente in una padella. Zor aveva

dormito appena poche ore, ma si era levato prima del sole.

Mangiò noci e datteri, un pugno d‘avena messo a bagno nel latte fresco che ogni giorno gli

veniva offerto da un contadino che viveva nei pressi, bevve la rugiada raccolta in una ciotola di

legno che ogni notte lasciava ai piedi di un albero. Il Mago della Pioggia mangiava prima del levar

del sole, e non prendeva più neppure un boccone fino al tramonto. Passeggiava pensoso nei boschi,

osservando le foglie cadere come doni dorati dal cielo. Si chinava a osservare le sottili vene di vita

che correvano per le minute foglie d‘oro, sfiorava con le dita sensibili le punte delicate, che

corrispondevano alle punte sull‘altra faccia. Pensava, e avanzava.

Ogni giorno Zor, il Mago della Pioggia, imparava qualcosa di nuovo. Una stella che si era celata

ai suoi occhi dalla vista troppo breve ora si rivelava, nuovo miracolo, nuova meraviglia da

considerare e cercar di capire. Un giacinto ondeggiava nell‘aria diffondendo il suo profumo nuovo

ed eccitante, le campanule azzurre e purpuree oscillavano gentilmente nel vento. Zor ascoltava

ciarlare le cornacchie e imparava il loro strano linguaggio: i neri uccelli starnazzavano e lottavano

per il cibo mentre il Mago sorrideva, come un padre che guardi giocare i suoi figlioletti. La brutta

crisalide che teneva in mano stava per diventare all‘improvviso una bella farfalla rossa, che ben

presto volava lontana molte miglia per cercare il suo compagno. Poi si accoppiavano e il giorno

dopo la loro breve vita giungeva al termine. Ma insieme avevano creato minuscole cellule di vita.

Le uova soltanto dovevano sopravvivere, affidate alle cure del caso, e il ciclo così continuava. Ogni

minuta particella di vita era in realtà un miracolo, una minuscola meraviglia che pochi uomini

sapevano vedere nella loro ricerca di pace.

Un giorno il Mago della Pioggia sedeva tutto solo all‘entrata della sua grotta, meditando sul

mondo e sulle sue meraviglie, quando all‘improvviso un monaco vestito di rosso comparve nel bel

mezzo del suo sogno, turbando la sua concentrazione: la vita reale irrompeva in una mente tutta

assorta nelle sue visioni. Il monaco attese pazientemente in silenzio, facendo capire ch‘egli era là,

ma in modo discreto. Zor emerse dalla meditazione, si inchinò al monaco e gli diede il benvenuto.

Pose qualche ramo fra le due pietre che servivano da focolare; la selce scintillò fra le sue dita e

minuscole fiamme sorsero ben presto fra la legna secca. I due uomini conversarono quietamente

mentre la pentola dell‘acqua bolliva e fischiava. Bevvero il loro tè, mentre il monaco parlava di

Lhasa, la capitale. Quell‘anno erano pochi i novizi che entravano nell‘ordine, un famoso Geshey era

morto ed era incominciata la ricerca della sua reincarnazione, molti visitatori stranieri erano venuti,

per qualche speciale, segreta ragione, a rendere omaggio al Dalai Lama e ai suoi assistenti. V‘erano

notizie buone e notizie cattive. Il paese continuava a vivere come al solito; ma per il Mago della

Pioggia solo l‘ultima notizia era importante, e riguardava realmente Zor. Era il suo turno di curare i

giardini di Sua Santità, i bei fiori e gli alberi che fiorivano per gli dèi e brillavano per il popolo. Il

monaco si inchinò, ringraziò il Mago per il tè e scese per il sentiero serpeggiante fino ai piedi della

montagna, dove la carrozza e il cavallo lo aspettavano all‘ombra del vecchio salice.

Zor dormì un sonno pesante, scosso nei sogni da giovanili paure. Era la prima volta che il Dalai

Lama mandava un suo messo per ricordare a Zor il suo compito. Così egli veniva ufficialmente

riconosciuto come Mago della Pioggia nazionale. Era un grande onore e una grande responsabilità.

Zor ricordava il Maestro, i giorni in cui egli spariva in silenzio e andava a visitare il famoso

giardino di Lhasa. Nel sogno il giovane vedeva il Maestro come un gigante. Grandi nuvole nere

pendevano sul giardino, ma quando si aprivano come un sacco di carta troppo pieno d‘acqua, il

gigante le colpiva con la mano possente. E come il rovescio d‘acqua colpiva la grande mano, si

trasformava in vapore, e il vapore saliva a spirale come una tromba d‘aria a perdersi nei cieli. Il

gigante sorrideva e si allontanava, lasciando orme possenti che facevano apparire nana tutta la città.

Il cielo era scuro e annuvolato quando il Mago della Pioggia si mise in viaggio. Larghe gocce di

pioggia cadevano disordinatamente intorno all‘entrata della grotta. Era uno di quei rari giorni in cui

nessuno veniva dal villaggio con un‘offerta di latte fresco. Era come un presagio. Stancamente Zor

pose un po‘ di cibo freddo nella sua ciotola di legno, ma la sua bocca era asciutta mentre il mondo

tutt‘attorno si inzuppava e la pioggia cadeva sempre più rapida e fitta, mutando i sentieri della

montagna in torrentelli rabbiosi. Dgah-bo e Nyedgay, i re degli Dei dell‘Acqua, malvagi e tristi

rovesciavano sul mondo gelide ondate annegando i bei filari di fiori che rallegravano i giardini del

Dalai Lama.

Zor si avviò sotto la pioggia, stringendo sotto il braccio la borsa di cuoio con gli strumenti

segreti e l‘osso femorale del Maestro. Si arrampicò su fino alle più alte vette dei monti, fino alle

nubi nere che minacciavano il mondo. Si sedette a gambe incrociate sui gelidi picchi. Gridò parole

possenti agli dèi e cantò i mantra. Gettò un lungo urlo attraverso il femore e fece ruotare

vertiginosamente l‘osso al di sopra della testa. Per ore e ore cantò e pronunciò le parole magiche:

ma le nubi non si muovevano. I sinistri messaggeri degli Dei dell‘Acqua continuavano ad aprirsi fra

i rombi dei tuoni e orride folgori colpivano i cespi di rose, che piangevano appoggiati ai pali di

sostegno. Il vento turbinava come un uragano, accerchiava la città come un esercito invasore,

abbattendo gli avamposti e poi irrompendo come le orde selvagge di una tribù primitiva dell‘evo

antico. La tempesta infuriava come un monsone ingigantito, rovesci «di pioggia si abbattevano sulla

terra come marosi contro i fianchi di un piccolo veliero in un oceano nemico.

Per ore e ore grandine e pioggia si riversarono sulla città semisommersa, per ore e ore Zor, il

Mago della Pioggia, cantò i suoi magici mantra. L‘acqua scorreva sul suo volto, le vesti pendevano

come cenci bagnati dalle sue magre membra. Egli soffiava nel femore come in un corno e alzava le

braccia al cielo, invocando la divinità dell‘acqua, supplicando Dgah-bo e Nyedgay affinché

chiudessero il rubinetto del demonio che pioveva terrore su tutta la città. Gettò il suo talismano alto

nell‘aria: ma il sortilegio gettato sulla città dagli Dei dell‘Acqua non poteva essere distrutto.

In città il Dalai Lama passeggiava in silenzio per le sale del palazzo. Si fermava alle grandi

finestre che guardavano sul giardino e osservava tristemente il vento spietato distruggere la bellezza

che era fiorita come un‘offerta al Signore Supremo. I cespi di rose pendevano mutilati come soldati

morti appoggiati alle loro lance. Le aiuole fiorite erano come stagni, dove i fiori galleggiavano con

le teste immerse nei gorghi. I robusti fiori che avevano sfidato gli attacchi del vento cadevano

lentamente, abbattuti dalla grandine, sradicati e trascinati nel torrente d‘acqua che tutto allagava,

trasformandosi in paludi e piccoli laghi. Via via che le ore passavano la devastazione cresceva. Il

vento strappava i fiori dagli alberi, faceva cadere i frutti estivi in fetidi mucchi. Petali leggeri

turbinavano nel vento e venivano a schiacciarsi contro le finestre dove il Dalai Lama osservava

impotente quella rovina.

La pioggia continuò a battere furiosamente per tutta la notte mentre Zor salmodiava i suoi

mantra. Zor aveva spinto profondamente lo sguardo nella notte nera. Aveva visto gli dèi incolleriti.

Sapeva che i Re delle Acque erano sdegnati e che nulla poteva placarli. Aveva fatto tutto ciò che era

in suo potere, tutto ciò che il Maestro stesso avrebbe fatto: ma aveva fallito.

Sul far dell‘alba i chicchi di grandine divennero più piccoli, la pioggia rallentò. Le grosse gocce

che danno inizio a un temporale erano divenute la pioggerellina sottile che lo termina. Il capo del

popolo guardò dalle finestre il suo bel giardino. Non restava nulla. Tutta una vita di cure era stata

distrutta in un solo giorno sfortunato. Chiamò un messaggero e lo mandò da Zor, il Mago della

Pioggia.

Il messaggero lo trovò bagnato e stanco, un uomo sfinito che sedeva con le spalle curve

all‘entrata della fredda grotta. Il monaco vide l‘infelicità del Mago, i problemi che pesavano sul suo

animo come una tonnellata di mattoni. Trovò un po‘ di legna asciutta in fondo alla grotta, in un

angolo dove l‘acqua non era entrata: accese il fuoco, cucinò del cibo e con voce gentile comunicò il

messaggio del Dalai Lama. Zor mangiò qualcosa e bevve il tè. Lavò le membra doloranti e si

preparò a partire, con la borsa degli strumenti magici sotto il braccio.

Durante il cammino il Mago riprese forza. Il sole spuntava da un cumulo di nubi grigie. La terra

emanava un odore fresco e pulito, le bianche pietre ai lati della via brillavano come facce di

scolaretti appena lavate. Gli uccelli volavano alti nel cielo, come un prigioniero nel suo primo

giorno di libertà, felici che le piogge fossero cessate, felici di poter sgranchire le ali piumose alla

brezza. Le vacche camminavano lente nei campi incrostati di fango, sollevando cautamente le

zampe, per trovare qualche ciuffo d‘erba, all‘eterna ricerca di cibo. Un cane si rotolò in una

pozzanghera, si scrollò l‘acqua di dosso e corse via, saltando come un capretto su crepacci che

esistevano solo nella sua fantasia. Il mondo era tornato vivo, si asciugava dopo l‘inondazione. Gli

Dei delle Acque avevano mostrato il loro potere. Ora potevano riposare e guardare il mondo che

tornava alla normalità.

Il monaco condusse Zor attraverso i giardini del palazzo. Era come un campo dopo il passaggio

di un esercito. I bei prati erano sconvolti come se fossero stati arati per piantarvi grano. I delicati

fusti delle piante giacevano tutt‘attorno come sacchetti di carta gettati via. I fiori divelti

galleggiavano sulle pozzanghere, là dove una volta i cespi di rose sorridevano per la gioia del

mondo. Il cuore del Mago della Pioggia era triste. Guardava ogni fiore come se fosse un figlio.

Tutta la sua famiglia era stata uccisa in un‘immensa sconfitta. La battaglia era perduta.

Monaci e laici si aggiravano operosi nei corridoi del palazzo, con carte e documenti in mano, i

volti pallidi e pensosi di chi passa più tempo sui libri che all‘aria aperta. Erano gli uomini che

contribuivano a guidare lo sviluppo del regno e propagavano la fede coltivandola nei loro cuori. Il

Mago della Pioggia sentì compassione per loro: i suoi passi vigorosi e il suo volto abbronzato lo

facevano apparire come un dio in mezzo a loro. Lo fecero entrare in una vasta sala con molte sedie.

Egli non era abituato a tanto splendore. Qui solevano sedere gli ambasciatori di potenti nazioni,

adagiati comodamente in morbide poltrone con le gambe accavallate come danzatori in una sala da

ballo. Parlavano a voce alta e la loro conversazione era punteggiata da scoppi di riso. Si sentivano a

loro agio in quel lusso, che la vita poteva offrire a quelli che lo desideravano. Ma Zor si sentiva a

suo agio solo nei campi e fra gli alberi, i cespugli selvatici e i liberi animali. Sedette sull‘orlo di una

sedia, come temendo che un‘impronta del suo corpo sull‘imbottitura lasciasse l‘impronta della sua

anima.

D‘un tratto la porta si aprì silenziosamente e un saggio lama apparve sulla soglia. Le sue vesti

rosse e gialle erano fresche e nuove, il suo volto era grave, le sue guance cadenti, come se anni di

lavoro pesassero nella sua gola, come un pellicano che conserva il suo pesce per il giorno dopo. Zor

si alzò rapidamente, con la borsa sempre sotto il braccio, come se dovesse essere condotto a

un‘udienza importante. Attraverso un labirinto di porte e corridoi, raggiunsero la stanza del Dalai

Lama. Il saggio lama bussò alla porta, e fece entrare il Mago della Pioggia.

Zor sentì la porta chiudersi silenziosamente alle sue spalle. Si trovava ora nella stanza di Sua

Santità, il capo e salvatore del popolo, l‘emanazione stessa della grazia. Il grande capo era triste, ma

la compassione era scritta sul suo volto come le parole di un libro. Sorrise e accennò con la mano a

un cuscino.

Il Dalai Lama sedeva a gambe incrociate su un cuscino rosso scuro, un po‘ alto da terra come un

trono. Il Mago della Pioggia sedette di fronte a lui, un po‘ intimorito, sempre stringendo la sua

borsa. Il Signore, calmo e triste, chiese cos‘era accaduto. Era assai addolorato, disse, che il giardino

fiorito fosse stato devastato, ed era deluso che il suo nuovo Mago della Pioggia fosse incapace di

controllare i rovesci d‘acqua, i venti, la grandine che avevano distrutto i fiori gentili.

Il Mago della Pioggia spiegò come fosse rimasto seduto in cima alle montagne, come avesse

cantato i potenti mantra che aveva appreso in una vita di studio, come avesse invocato gli Dei delle

Acque, e come nulla avesse potuto placarli. Il Dalai Lama ascoltava, guardando negli occhi il

giovane Mago valutandolo come un funzionario che interroga un aspirante presentatosi per ottenere

un posto.

Sua Santità replicò che questa era stata la peggiore, la più catastrofica bufera che avesse colpito

il popolo da molti anni, più di quanti egli stesso potesse ricordare. In quei momenti era dovere del

Mago della Pioggia svolgere il compito per il quale era stato chiamato. Raramente era accaduto che

i suoi Maghi della Pioggia fallissero così miseramente.

―E ora, che cosa si deve fare per il futuro?‖

A questa domanda Zor rimase esitante. Come il Maestro, non era uomo di molte parole. Aveva

deluso il suo Signore, ma in cuor suo sapeva che non era stata colpa sua, sapeva che nessun Mago

della Pioggia avrebbe potuto calmare gli dèi.

―Forse potrei dar prova dei miei poteri e dimostrare così che la collera di Dgah-bo e Nyedgay

non poteva essere placata.‖

Il Dalai Lama consentì. Suonò il sacro campanello che stava sul pavimento ai suoi piedi. Il

monaco che aveva pazientemente atteso fuori della porta entrò in silenzio e tenne la porta aperta per

il Dalai Lama e il Mago della Pioggia, che lo seguiva dappresso. Zor chiese al Dalai Lama di

procurargli un setaccio e un secchio d‘acqua. Ripercorsero lentamente, come in processione, le sale

e i corridoi, i pianerottoli e le scale e uscirono nel giardino devastato, dove altri dignitari si unirono

al gruppo.

Il Mago della Pioggia porse a Sua Santità il setaccio e gli chiese di tenerlo alto nell‘aria, a

lunghezza di braccio. Gli chiese poi di prendere il secchio d‘acqua e di versarne il contenuto nel

setaccio. Nel momento in cui il lama incominciò a versare, il Mago intonò i suoi mantra più potenti.

Le parole uscivano dal profondo del suo ventre, rompendo l‘aria con immensa forza, distruggendo

gli spiriti della gravità, le forze del fato. E l‘acqua versata si raccolse sul fondo del setaccio, come

se il Dalai Lama reggesse non un setaccio, ma un grande bacile di metallo. L‘acqua gorgogliava e

spumeggiava nel setaccio mentre Zor faceva ruotare il femore intorno al capo, invocando gli Dei

delle Acque, intonando i magici mantra e distruggendo gli spiriti che traggono l‘acqua dal setaccio e

la fanno cadere sulla terra.

Un sorriso apparve sul volto del Dalai Lama, e come a un segnale anche gli altri dignitari

sorrisero. Quando Zor cessò di cantare, l‘acqua si riversò fuori a scrosci, cadendo ai piedi del

gruppo.

Zor aveva dato prova dei suoi poteri di Mago della Pioggia. Ora il Dalai Lama sapeva che la

bufera era stata provocata dalle cattive azioni del popolo. Gli uomini malvagi avevano suscitato lo

sdegno degli Dei delle Acque e ora occorreva la forza di molti potenti lama per placare la loro

collera. Il grande lama sorrise al giovane Zor, gli toccò la spalla come un padre e lo rimandò alla

grotta sui monti: un fidato e prezioso Mago della Pioggia, un vero Maestro.

FRATELLO “LUNGO GIORNO DI PRIMAVERA”

Sangay Khando era una fanciulla infelice. Doveva lavorare duramente e faceva del suo meglio

per far bene il suo lavoro. Ma in un modo o nell‘altro, pareva sempre che qualche cosa andasse

storto. Ogni giorno Sangay cuciva abiti per la gente che veniva in città, mentre sua madre faceva le

consegne e cercava nuovi clienti. Sangay era una ragazza graziosa, ma il cibo scarso, la povertà e il

lavoro duro non contribuivano certo ad abbellire il suo aspetto e i suoi lineamenti fini e quasi

aristocratici. Portava le semplici vesti dei contadini e i suoi lunghi capelli neri erano sempre stretti

in due lunghe trecce, che ondeggiavano al vento quelle rare volte che era libera di andare a fare

lunghe camminate tra le colline fiorite.

Ora, la madre di Sangay, Pema, aveva veramente un cattivo carattere. Faceva lavorare duramente

la figlia, ma da parte sua lavorava ben poco. E quando Sangay faceva qualche sciocchezza, il che

forse accadeva abbastanza spesso, Pema Khando si faceva rossa di rabbia e la investiva con le

peggiori invettive.

Il cibo era sempre molto scarso, e quando la gente ha lo stomaco vuoto il suo carattere peggiora:

e le due donne ogni giorno dovevano contentarsi di farina d‘orzo e tè.

Ma nella credenza era conservato un piccolo vaso di riso, leccornia estremamente rara in quella

terra sperduta. Quando sua madre era fuori, Sangay guardava il vaso di riso e talvolta diceva, come

casualmente: ―Forse si potrebbe mangiare la metà di quel riso, tanto per cambiare.‖

Ma Pema Khando si infuriava e gridava che il riso si doveva tenere in serbo per Fratello Lungo

Giorno di Primavera.

―Quando arriverà Fratello Lungo Giorno di Primavera faremo un banchetto insieme: fino a quel

giorno impara ad aver pazienza,‖ urlava la donna rabbiosa.

La ragazza continuava a cucire e pensava a quel misterioso Fratello Lungo Giorno di Primavera.

Lei non ne aveva mai sentito parlare, ma aveva troppa paura di sua madre per fare domande. La

madre sempre si infuriava quando lei non sapeva qualche cosa, ma come poteva imparare, se non

domandava mai?

Il riso era riposto nel suo vaso già da molte settimane quando un giorno qualcuno bussò alla

porta. Era una cosa assai insolita che venissero visite, specialmente quando Pema era fuori. Sangay

fece cadere il lavoro a terra — era sempre piuttosto trascurata in queste cose — e si precipitò alla

porta.

Ritto nel cortile stava un vecchio monaco, con la veste marrone logora per gli anni, ma con il

volto vivace e pieno di sapienza.

―Salute, mia giovane amica,‖ disse il monaco. ―Avresti un po‘ di cibo per un povero monaco

errante?‖

―Vi darei qualunque cosa, signore‖ disse Sangay. ―Ma non abbiamo niente in casa.‖

―Ho camminato per molte miglia, sei sicura che non ci sia proprio nulla?‖ disse sorridendo il

monaco.

Sangay si ricordò del vaso di riso.

―Effettivamente abbiamo un vaso di riso,‖ disse al monaco, ―ma lo teniamo da parte per fare un

pranzo quando arriverà il Fratello Lungo Giorno di Primavera.‖

―Io sono appunto quel fratello,‖ fece il sant‘uomo. ―Oggi è la grande festa.‖

Il venerabile monaco aggiunse che alcuni lo chiamavano ‗Fratello Lungo Giorno di Primavera‘,

mentre quelli che lo conoscevano meglio lo chiamavano lama Khoryajig Rinpoche. La fanciulla era

molto emozionata all‘idea di avere un ospite così importante: si dette da fare per pulire la piccola

casa, correndo qua e là e rovesciando oggetti nel passare, e infine si diede a preparare il riso.

Pensava di aspettare il ritorno della madre, ma il lama disse che aveva tanta fretta, che avrebbe

mangiato un pugno di riso e poi sarebbe subito ripartito.

Sangay naturalmente faceva come diceva il vecchio monaco. Cucinò il riso con erbe e spezie,

facendo molta attenzione a non commettere errori, e quando il pasticcio di riso fu dorato alla

sommità lo servì in tavola. Ne diede un buon piatto al lama, tenne la porzione più piccola per sé e

mise da parte il resto per la madre.

Non appena il lama Khoryajig finì il suo pasto diede la sua benedizione alla fanciulla e si preparò

a partire.

―Un‘ultima cosa, prima che io me ne vada,‖ disse a Sangay. ―Se mai tua madre fosse tanto in

collera con te e tu ti trovassi senza casa e senza un posto dove andare, potrai venire da me e

diventare la mia allieva.‖

Il lama le spiegò dove si trovava il suo eremo fra i monti, mentre Sangay si domandava

meravigliata come facesse a sapere che Pema Khando era sempre tanto irritata.

Il vecchio si allontanò verso le montagne, sicuro che ben presto anche Sangay Khando avrebbe

percorso lo stesso sentiero.

Poche ore dopo Pema arrivò a casa. Appena varcata la soglia sentì l‘odore del riso.

―Ma è del riso, quest‘odore?‖ sbraitò verso la figlia.

Sangay cercò di spiegare le cose, ma la madre non le credette una parola. In un fiume di lacrime

la povera figliola le raccontò come il misterioso visitatore fosse arrivato e avesse detto di chiamarsi

Fratello Lungo Giorno di Primavera.

―Non solo sei stupida e ingorda,‖ inveì Pema, ―hai anche cominciato a dir bugie. Fratello Lungo

Giorno di Primavera è il più lungo giorno della primavera, tutti lo sanno.‖

Tutti lo sapevano, naturalmente, tranne Sangay. La fanciulla aveva vissuto una vita così solitaria

e ritirata, e la madre era sempre troppo collerica perché si arrischiasse a domandarle qualche cosa.

La fanciulla pianse e ripeté la sua storia, ma ogni volta che nominava il monaco errante Pema

diventava ancor più furiosa.

―Rimpiango di avere una figlia così stupida. Nella prossima vita sarai un asino,‖ strillava Pema,

tremando di rabbia e battendo i piedi. ―Non posso sopportare di averti in casa un minuto di più.

Vattene subito e non tornare mai più.‖

Sangay si sentì come fulminata. Era stato un giorno del tutto straordinario. Prima viene un

monaco strano e mangia il riso, poi Pema perde il controllo e manda ad effetto la minaccia che tante

volte aveva fatto. Quel che più di tutto sbalordiva Sangay era il fatto che il lama Khoryajig aveva

quasi predetto gli eventi. Non solo ora lei si trovava scacciata, ma, stranamente, aveva almeno un

posto dove andare. Benché la madre stesse ancor schiumando di rabbia, Sangay cercò di placarla.

Le mostrò il riso che era ancora caldo nella pentola, ma nulla poteva calmare quella furia.

Con un fagotto di logori vestiti e le piccole cose che aveva raccolto nella sua vita solitaria,

Sangay Khando fece così come il lama le aveva detto. Seguì il sentiero attraverso le montagne, salì

oltre il confine delle foreste fino agli alti nevai. Camminò per molte ore, perché l‘eremo era lontano,

e per tutto il tempo pensava alla madre. Era tipico di Sangay non sentire alcun rancore, ma piuttosto

una pena per la sua collerica madre. I suoi continui scoppi d‘ira l‘avevano sempre resa infelice, e

ora Sangay decise che non si sarebbe mai infuriata e sarebbe stata sempre gentile con tutti.

Il sentiero si faceva sempre più ripido. Scendeva la notte e Sangay incominciò a temere che non

sarebbe mai riuscita a trovare l‘eremita. Ma sorse la luna a illuminare il cammino e infine Sangay

arrivò alla grotta del lama.

Il lama Khoryajig viveva una vita molto semplice, ma la sua grotta appariva piuttosto lussuosa,

in confronto alle solite caverne. L‘entrata era tutta arrotondata e levigata e all‘interno la stanza

principale si restringeva in un corridoio. Una scalinata era stata scolpita nella roccia, e sopra si

apriva un‘altra stanza, più piccola, dove il santo monaco meditava sui misteri dell‘universo, sulla

bellezza della primavera e sulla magnificenza che giace in fondo alla nostra mente.

Quando la fanciulla arrivò, il lama sedeva a gambe incrociate davanti all‘entrata della grotta,

come se l‘aspettasse. Accanto a lui c‘erano i suoi due beniamini, un gatto e un gallo. Il gatto

strisciava tutt‘attorno, sbirciando malignamente la visitatrice, mentre il gallo scavava il terreno con

le zampe, come se cercasse un tesoro sepolto.

―Sono molto contento che tu sia venuta‖, disse il monaco, mentre un sorriso illuminava il suo

vecchio volto gentile. ―Ora potrai essere la mia allieva e imparare molte cose.‖

Sangay ringraziò il buon lama. Sorrise al gatto e al gallo, i quali tuttavia non parevano troppo

contenti del suo arrivo. Dormì nella stanza inferiore della caverna, mentre il lama occupava la

minuscola stanza superiore. Il lama passava gran parte della notte, come pure la maggior parte del

giorno, immerso in meditazione, per cui la fanciulla badò a non far rumore quando mosse le coperte

per prepararsi un giaciglio. Il gatto e il gallo dovevano farle compagnia, ma continuavano ad

aggirarsi diffidenti tutt‘attorno: il gallo un po‘ esaltato faceva il possibile per imitare il gatto,

rendendosi del tutto ridicolo.

Sangay sognò strani sogni. Quella giornata straordinaria intesseva figure bizzarre nella sua

giovane mente. Vedeva la madre, rossa di collera, che gridava e gridava, ma nulla aveva senso. Poi

appariva il monaco, come un santo circonfuso di luce, a guidarla su per il sentiero bianco di neve

fino alla strana grotta. Il gatto e il gallo erano come due sentinelle, ma le loro facce erano

completamente bianche, come due lune nuove.

L‘alba del nuovo giorno significò per Sangay l‘inizio di una nuova vita. Il lama scese lentamente

dalla scala di pietra e sedette al suo posto favorito, all‘entrata della grotta. Aveva promesso di

impartire alla fanciulla un‘istruzione religiosa e filosofica, e si attendeva in cambio che Sangay

tenesse la grotta pulita e in ordine. Doveva anche preparare i pasti. Il lama Khoryajig prendeva un

solo pasto al giorno, quando il sole tramontava e restava soltanto la luce del crepuscolo, che

smoriva nelle grigie cortine della notte.

―Una cosa è importante‖, egli disse a Sangay. ―Il gatto e il gallo devono avere esattamente la

stessa quantità di cibo che hai tu. Ogni porzione deve esser divisa in parti uguali e anche se avanza

un grano di riso deve essere debitamente diviso in tre parti.‖

Il gatto e il gallo stavano ad ascoltare. Sangay ricordò il sogno e quasi sorrise fra sé.

Il vecchio eremita diede a Sangay diverse altre istruzioni e poi si ritirò a meditare nel suo quieto

ritiro. Il gatto e il gallo osservavano furtivamente la fanciulla, il gatto strisciava attorno come se si

preparasse a balzare sulla preda, mentre il gallo faceva del suo meglio per apparire astuto e gattesco.

Sangay si pose al lavoro. Andò a prendere l‘acqua alla sorgente, lavò i piatti e le pentole,

spolverò tutta la grotta e tagliò la legna per accendere il fuoco. Appena il sole toccò l‘orizzonte alla

fine del suo viaggio, Sangay preparò il cibo e quando il lama ebbe terminato le sue devozioni

quotidiane tutto era pronto per il pasto. Sangay servì dapprima il Maestro, poi divise tutto ciò che

restava in tre parti eguali. Il gatto e il gallo sorvegliavano attentamente.

Certi giorni il lama chiamava la fanciulla nella sua stanza al piano di sopra. Sangay sedeva in

silenzio sul pavimento mentre il Maestro leggeva libri antichi. I libri erano lunghi come il braccio di

un uomo, ma larghi solo come il palmo della mano. Le loro pagine erano sciolte, sicché si dovevano

voltare una sopra l‘altra. Su alcune pagine vi erano alcune figure: dèi, piante fiorite, fiori di loto che

sbocciano dal fango di un pantano. Quando la lezione era terminata il lama avvolgeva con cura il

libro in un drappo giallo o marrone. Vi erano centinaia di libri nella piccola stanza, tutti avvolti in

drappi puliti: e così c‘era ben poco spazio per due persone.

Il santo monaco leggeva e guardava fuori dalla finestra le mille creazioni della natura. Se la

mente di Sangay si distraeva, il lama si fermava e le chiedeva che cosa aveva imparato quel giorno.

―La cosa più importante in questa vita è l‘attenzione,‖ diceva. ―Se sei distratta non imparerai mai

niente.‖

Le antiche scritture insegnavano all‘uomo come vivere in mezzo agli uomini. Sangay imparava

che se si è buoni e gentili, la bontà e la gentilezza ritornano a noi, se non in questa vita, certamente

in qualche momento della vita futura. Se uno è malvagio, il male ricade su di lui. La giusta maniera

di agire è sempre evidente, perché segue la natura, mentre la maniera sbagliata spicca come la

gramigna in un campo di grano.

Sangay faceva del suo meglio per vivere secondo queste norme e lentamente scoprì che ci

riusciva. Era sempre gentile coi due animali, e a poco a poco anch‘essi cominciarono ad essere

gentili con lei, anche se continuavano a vigilare attentamente che il cibo fosse servito a dovere.

Il lama aveva anche molti visitatori, alcuni dei quali erano stati suoi discepoli in passato.

Venivano a domandargli consiglio e gli portavano le loro offerte. Egli aveva bisogno di ben poco

per vivere, e così la maggior parte dei doni erano cibi, fra cui vasi di riso. Sangay parlava con gli

ospiti nella stanza inferiore della grotta, e quando il saggio lama era pronto, li conduceva a visitarlo.

Quando due o tre persone desideravano salire insieme, sorgeva un problema, perché la stanza di

sopra era molto piccola.

La vita era piena e felice. Sangay quasi non si accorgeva del passare dei giorni. Aveva perduto

l‘aspetto smunto dei poveri, e le lunghe passeggiate per le colline facevano risplendere il suo

giovane viso di fresca bellezza. Talvolta passava tutto il giorno a camminare e a pensare, altre volte

trascorreva molte ore seduta ai piedi del lama Khoryajig.

Fu in uno di questi lunghi giorni di insegnamento che il lama parlò delle Dakini, le fate che

vivono nelle nubi e sono le messaggere degli dèi. Alcune Dakini si recano in altri mondi per rendere

felici le genti, mentre altre assumono forma umana per passare la vita insieme ai mortali. Alcune

Dakini umane nascono sulla terra senza sapere di essere in realtà creature celesti: ma questo avviene

di solito perché sono molto smemorate.

La lezione sulle Dakini era stata molto piacevole e Sangay passò tutto il giorno seguente

pensando alle amabili fate che nascono per creare felicità. Era così immersa nei suoi pensieri,

mentre portava i vasi alla sorgente, che si scordò le importanti istruzioni del lama. Nella pentola era

rimasto un granello di riso. Avrebbe dovuto esser diviso fra la fanciulla e i due animali, ma

distrattamente Sangay se lo infilò in bocca, e sognando ad occhi aperti si avviò verso la sorgente.

Ma il gatto e il gallo non ne erano altrettanto soddisfatti. Anch‘essi ricordavano le parole del

Maestro, e cominciarono a scalpitare tutt‘attorno terribilmente infuriati. Nel focolare il fuoco stava

già prendendo ed era pronto per cuocere il pasto, ma il gatto e il gallo spinsero via i tizzoni e

dispersero le braci.

Quando Sangay tornò e vide tutto quel guaio, si rese conto di ciò che aveva fatto. Si scusò col

gatto e col gallo, ma quelli senza badarle continuarono a scalpitare. Ci volle un bel po‘ di tempo per

riaccendere il fuoco, e quando il lama arrivò per il suo unico pasto quotidiano il cibo non era pronto.

Il vecchio eremita indovinò che cosa era successo. Non era in collera con Sangay, ma era deluso

che la sua allieva si fosse dimostrata così distratta.

―Devi sempre ricordare che l‘attenzione è l‘essenza della vita‖ le disse il saggio eremita. ―Tu sei

stata la mia allieva e la mia assistente per tanto tempo, ma presto si aprirà per te un nuovo futuro.‖

Sangay singhiozzava mentre preparava la cena. Non sapeva che cosa si stava preparando per lei,

e temeva che il lama la scacciasse come una volta l‘aveva scacciata sua madre. Il gatto e il gallo la

sbirciavano malignamente, come avevano fatto il giorno in cui lei era arrivata. Sangay evitò i loro

sguardi cattivi e mangiò la sua cena in triste silenzio.

L‘estate era passata ed era giunto il freddo autunno. Gli alberi nella valle avevano steso un

tappeto verde e oro sui dolci pendii delle colline. La neve aveva già incominciato a cadere sulle

cime dei monti e ogni giorno faceva sempre più freddo. Ben presto tutto il paese sarebbe stato

bianco di neve, candido nel suo manto invernale. Gli uccelli si preparavano a migrare verso climi

più caldi, al di là dei monti, anche se alcuni restavano sempre vicino alla grotta per dividere il cibo

col Maestro e le briciole con Sangay e i due animali.

Pochi giorni dopo lo sfortunato incidente del grano di riso Sangay andò a prendere acqua alla

fonte, ma la trovò coperta da un solido strato di ghiaccio. Coi piedi nudi che gelavano nella neve la

fanciulla portò il suo vaso di terracotta giù dalla collina fino al fiume, dove il freddo era meno

rigido e l‘acqua scorreva ancora giù per la valle.

Mentre immergeva il vaso nell‘acqua del fiume osservò due cavalieri sulla riva opposta.

Portavano vesti eleganti e il pelame dei loro cavalli brillava per le cure che avevano sempre

ricevuto. I due cavalieri sorrisero alla graziosa ragazza, ma Sangay era molto intimidita. Riempì

d‘acqua il suo vaso e tornò in fretta su per la ripida collina fino al sicuro rifugio del lama.

I due cavalieri attraversarono il fiume, perché anch‘essi dovevano valicare il passo per tornare al

palazzo del re, dove ricoprivano l‘importante carica di ministri. E mentre passavano accanto alle

minuscole impronte lasciate dai piedi nudi videro il più strano dei fenomeni.

In ogni impronta era impressa la forma di quattro fiori di loto, perfettamente disegnati. La bella

fanciulla era molto più che una graziosa portatrice d‘acqua. Era una Dakini umana.

I due cavalieri balzarono in sella e corsero a tutta velocità verso il palazzo reale. Il re stava

cercando una fanciulla che fosse degna di sposare suo figlio, il principe ereditario, in modo che un

giorno una nobile coppia regnasse sul paese e continuasse l‘antica tradizione di quella famiglia di

degni e potenti monarchi.

I due dignitari erano così ansiosi di raccontare al re la strana vicenda che balbettavano e

s‘impappinavano e potevano appena parlare. Finalmente il re riuscì a capire ciò che i ministri

cercavano di dirgli e cominciò a tartagliare e a impappinarsi anche lui.

E quando l‘intera corte si rese conto che nel loro paese viveva una Dakini umana, si diffuse

ovunque una grande emozione. I due ministri più importanti furono spediti a trovare la fanciulla e a

scoprire le sue qualità.

I ministri partirono a cavallo, col loro corteggio. Lucenti bandiere ondeggiavano al vento e il

gruppo tracciava un disegno di brillanti colori sul manto di neve. Infine arrivarono al fiume dove

avevano visto la fanciulla e di lì seguirono il sentiero della collina, oltre il limite della foresta e fino

alla grotta solitaria.

I ministri sapevano dove si trovava perché non v‘era nessuno nella valle che non avesse sentito

parlare del lama Khoryajig Rinpoche, e si diceva che persino il re andasse a consultare il santo

monaco quando doveva trattare qualche importante affare di stato.

Sangay tuttavia non era abituata a ricevere tanti ospiti, specialmente ministri della corte del re.

Nascosta nell‘angolo più buio della grotta, udiva parlare i visitatori. Sentì che chiedevano se la

fanciulla era una Dakini umana, e con sua grande sorpresa il vecchio eremita rispose di sì.

―È stata mia allieva per lungo tempo, ed ora è più che pronta a diventare una principessa‖, disse

il lama. ―Ha molte eccellenti qualità ed è sempre stata un‘anima nobile e buona.‖

II vecchio eremita non aveva abbastanza cibo da imbandire per tante persone, ma prima che i

ministri e i loro servitori ripartissero diede ad ognuno una goccia di acqua santa, che teneva in serbo

in un‘anfora di pietra nella sua stanza della meditazione. E impartì a tutti la sua benedizione, sicché

partirono sentendosi felici e soddisfatti.

Dopo la partenza degli ospiti Sangay uscì dal suo angolo buio, piangendo. Lei non voleva essere

una Dakini, diceva, e soprattutto non voleva lasciare il Maestro.

―È importante che alla testa del regno ci sia un‘anima buona‖, disse il lama. ―Se sposerai il

principe, e infine diventerai regina, quando il vecchio re finirà i suoi giorni potrai dargli buoni

consigli e provvedere al bene di tutti gli abitanti del paese.‖

Alla fanciulla tutta questa vicenda sembrava una favola e in realtà lo era. Sangay camminava

come in un sogno, e quasi non si accorgeva se divideva il cibo in parti uguali o no. Le pareva di

vivere in una di quelle leggende che i vecchi raccontano ai bambini nelle lunghe sere d‘inverno.

Non capiva come mai, se era una Dakini, fosse venuta nel mondo degli uomini. E poi ebbe

un‘illuminazione: era sempre stata così smemorata.

Infine il re stesso giunse alla grotta. Venne con ministri e servitori, yak con grandi tende, cuochi

e menestrelli. Il re era un saggio e abile signore. Aveva molto rispetto per il Rinpoche: si inchinò

profondamente davanti a lui e gli offrì una sciarpa cerimoniale bianca. Anche il monaco si inchinò

profondamente e pose anch‘egli la sciarpa tradizionale intorno al collo del re. Era un‘occasione

solenne e Sangay si sentiva ancor più nervosa di quando erano giunti i ministri.

Il re portava anche doni, una quantità di doni: cibo e ve sti nuove per il lama, qualche

ghiottoneria speciale per gli animali — e gioielli e splendide vesti per Sangay, che si sentì un po‘

come una principessa quando se li provò.

I cuochi di corte prepararono un magnifico banchetto: era la prima volta che Sangay stava un

intero giorno senza cucinare, da quando era arrivata alla grotta del lama. E quando la luna si levò

nel cielo sereno il suono di corni e strumenti a corda echeggiò lungamente fra le colline.

Sangay aveva consentito a sposare il principe, perché tale era il desiderio del suo Maestro: ma

era addolorata di dover lasciare il gentile lama che le aveva dato tanto in cambio di così poco. Il re e

i suoi uomini alzarono le grandi tende in cerchio intorno all‘entrata della grotta e ognuno sognò

giorni felici.

La colazione del mattino fu come un altro banchetto, perché il re era abituato a cibi raffinati: ma

quando il giorno era ancora giovane e gli uomini del re ripiegarono le tende due piccole lacrime

scesero lungo il giovane viso di Sangay, che appariva straordinariamente bella nelle sue splendide

vesti. Tutti erano pronti a partire. Sangay andò a dare l‘ultimo saluto al grande lama: gli baciò le

mani ed egli la benedì e le impartì l‘ultima lezione: ―Ricordati,‖ disse, ―di essere sempre

consapevole e attenta, e mantieni segreta la tua vita passata. Addio ora, e buona fortuna.‖

Sangay salì su un bel cavallo bianco. Non aveva mai cavalcato fino allora, ed era un po‘ nervosa.

Ma l‘animale era mansueto e ben presto la fanciulla imparò a muoversi con l‘ondeggiare della sella.

E quando fece con la mano l‘ultimo cenno d‘addio al lama vide distintamente luccicare lacrime nei

suoi vecchi occhi saggi. Quanto al gatto e al gallo, anch‘essi parevano sinceramente tristi di vederla

andar via.

Il viaggio di ritorno fu lento e freddo, perché gli yak non sono mai stati veloci camminatori e il

corteo doveva tenere il loro passo. Ma Sangay aveva i suoi pensieri a tenerla calda. Ricordava la sua

umile casa nella valle, e sua madre così sgarbata, sempre in collera e pronta ad esplodere. Gli anni

trascorsi col lama erano stati ricchi di gioia e di esperienza, eppure dentro di sé la fanciulla aveva

sempre saputo che il destino aveva in serbo per lei qualcosa d‘altro. Fra pochi giorni sarebbe

divenuta una vera principessa, e una principessa Dakini, per giunta.

Ben presto venne il giorno delle nozze. Il principe era un bel giovane, pieno di fascino e di

intelligenza, e Sangay era felice di essere la sua sposa. Migliaia di ospiti importanti giunsero al

palazzo, e quando furono tutti raccolti per la cerimonia le loro splendide vesti parvero miriadi di

fiori sbocciati il primo giorno di primavera.

La vita ben presto riprese il solito ritmo. Sangay non cucinava più, non andava più a piedi nudi a

prender acqua alla sorgente. Ora aveva una schiera di servi che lavoravano per lei, tanto che non

trovava abbastanza lavori da fargli fare, e un marito innamorato pronto a soddisfare tutti i suoi

desideri. Era contenta di essere una principessa e di dedicare la sua vita a render felice il suo sposo.

Ogni giorno facevano insieme lunghe cavalcate fra le colline, e Sangay diventava sempre più

abile nel cavalcare. Davano banchetti, ricevevano ospiti importanti e andavano ai balli che il re

offriva ai gentiluomini che venivano a visitarlo.

Passarono così molti anni felici. Sangay diveniva ogni giorno più esperta nel suo ruolo di

principessa. Il re era felice di avere una nuora così bella, che era in realtà una creatura celeste, ed

era convinto che il suo regno fosse benedetto dalle supreme potenze del cielo.

Ma un giorno Sangay stava pettinandosi i lunghi capelli neri presso la finestra che guardava nel

cortile del palazzo, quando sentì venire dal basso la voce di una vecchia mendicante che chiedeva

cibo — e quella voce le parve familiare.

Era la voce di Pema Khando, la vecchia madre di Sangay, ridotta ora a mendicare il cibo. La

principessa Sangay scese silenziosamente le scale fino al cortile. Sua madre era cieca da un occhio:

aveva le vesti a brandelli e quell‘aspetto logoro e smunto che i mendicanti acquistano dopo molti

anni di vagabondaggio per le strade. Sangay la fece salire nei suoi appartamenti, e nella quiete della

stanza le rivelò chi era.

―Tu hai fatto fortuna‖, disse Pema, ―e io sono ridotta a mendicare un tozzo di pane.‖

Pema Khando aveva perduto il suo carattere irascibile: la miseria aveva spento i bollenti spiriti

che l‘avevano per tanto tempo scossa. Ora era vecchia e malata, come un guscio vuoto che non

avesse niente dentro, neppure amarezza.

La principessa tenne la madre nascosta nelle sue stanze, le sue ancelle mantenevano il segreto e

la aiutavano a portare di nascosto porzioni di cibo per la donna morente, che tuttavia poteva

prendere solo un po‘ di brodo. Lentamente la vita abbandonava Pema Khando, che si faceva sempre

più scarna e sembrava più vecchia di quando era arrivata nel cortile del palazzo.

Mentre stava morendo, nella sofferenza, raccolse le ultime forze per esprimere un estremo

desiderio.

―Quando sarò morta‖, chiese, ―ti prego, conserva il mio corpo per una settimana. Poi potrai

esporlo come cibo per gli uccelli.‖

La vecchia cadde in un sonno profondo. Durante la notte i solchi tracciati dall‘angoscia

scomparvero dal suo volto. Sembrava serena, persino più giovane. Quando la prima luce del

mattino entrò nella stanza, Pema Khando spirò.

La principessa Sangay ne provò un profondo dolore. Aveva amato sua madre, anche nei duri

tempi della sua giovinezza, e soffriva di averla perduta così improvvisamente. Non c‘era stato

tempo di costruire fra loro un nuovo rapporto. Gli ultimi giorni erano stati così preziosi nella vita di

Sangay, già tanto ricca di alterne vicende. Adduceva continuamente scuse per non incontrarsi col

principe e pregava per la madre morta.

Il corpo di Pema rimase nascosto per sette giorni: Sangay riuscì a tenerlo celato, per appagarne

l‘ultimo desiderio. All‘alba del settimo giorno entrò nella stanza dove la madre era morta, e con sua

grande sorpresa vide che il corpo era scomparso: al suo posto vi era un vaso sacro, ma diversamente

da quelli usati nei templi di tutto il paese, questo era fatto di rubino, la splendente gemma che si

trova al di là degli oceani.

Sangay pensò immediatamente al lama Khoryajig. Non sapeva come o quando o perché, ma nel

profondo del cuore pensava che il vecchio eremita fosse intervenuto ancora una volta nella sua vita.

Il principe era assai ansioso di vedere la sua sposa che si era tenuta nascosta per una settimana: e

quando infine entrò nella sua stanza la prima cosa che vide fu il vaso di rubino. Lo osservò, disse

che lo trovava bellissimo; ma quando chiese da dove veniva, Sangay commise un grosso errore.

―Era un regalo di mia madre,‖ disse.

―Ma tu mi avevi detto di non aver mai avuto una madre…‖ replicò lui sorpreso.

Il principe assillò la sua sposa di domande. Quell‘unico errore aveva destato la curiosità che

covava nel suo cuore fin dal giorno delle nozze, tanti anni prima. Ora Sangay ricordava le ultime

parole del lama, il giorno della sua partenza dalla grotta: ma era troppo tardi. Solo quando la

principessa cominciò a piangere il principe cessò di assillarla con le sue domande.

―Mi sento ancora poco bene,‖ disse Sangay. ―Se puoi lasciarmi sola per qualche giorno, potrò

rispondere a tutto ciò che mi domandi.‖

Non appena il principe uscì, Sangay fece i preparativi per lasciare il palazzo e recarsi dal suo

vecchio guru, il saggio eremita che viveva sulle montagne. Scivolò furtivamente attraverso le stanze

dei servi, sellò il suo cavallo preferito e corse via nella notte addormentata.

Arrivò alla grotta allo spuntar del giorno. Il gatto e il gallo erano sulla soglia, e tutto appariva

intatto dal giorno in cui lei era partita col re e con tutti i suoi dignitari e i suoi servi. Il lama

Khoryajig sapeva perché la sua antica allieva era tornata; infatti pareva che sapesse tutto ciò che

accadeva nell‘universo. Sorrise, e non rimproverò neppure Sangay per la sua distrazione. Ascoltò le

sue parole e le disse di non preoccuparsi. Doveva tornare al palazzo e lasciar passare tre giorni.

―Il terzo giorno condurrai il principe e tutta la corte in quella valle laggiù‖, disse, additando i

verdi pendii in lontananza. ―Nella valle troverai un bel palazzo con molti servitori, e io sarò là, non

come monaco, ma nelle vesti di tua madre.‖

Sangay ringraziò il lama: sapeva che, qualunque cosa dicesse, si sarebbe avverata. E mentre

montava a cavallo per tornare al palazzo, il lama le diede il suo rosario di legno di sandalo.

―Prendilo e ricordati di me ogni volta che lo vedi‖, le disse.

Sangay si rattristò di dover lasciare il suo vecchio amico e Maestro dopo una visita così breve,

ma partì sul suo cavallo nel fresco mattino, fiduciosa che tutto sarebbe finito bene. Il rosario le

pendeva dal collo e un forte profumo di sandalo si diffondeva nell‘aria.

Giunta al palazzo, riuscì a raggiungere le sue stanze senza che il principe sapesse della sua visita

notturna al lama. Quindi si recò dal marito e si scusò del suo malumore.

―Perché io possa tornare serena, andremo fra pochi giorni a far visita a mia madre,‖ gli disse.

Il terzo giorno il principe e la principessa, con servi e cortigiani, partirono a cavallo per la verde

vallata di là dalle montagne. Quando finalmente vi arrivarono, videro un magnifico castello, grande

quasi come il palazzo reale, con le bandiere che ondeggiavano al vento e cento servitori che si

aggiravano nel cortile.

La donna che stava ritta sulla soglia non era certo una vecchia mendicante cieca da un occhio.

Era alta e forte e aristocratica, ma Sangay vide i vecchi occhi saggi che brillavano attraverso il

travestimento.

Il bel castello, i servi, gli affreschi, persino le bandiere che ondeggiavano al vento, tutto era

un‘illusione, una visione evocata dai poteri occulti del lama Khoryajig. Per sette giorni la corte del

principe visse nello splendido castello. Passeggiavano per le colline intorno, coperte di neve, e poi

tornavano per il banchetto. Era come una lunga festa, e tutti erano troppo spensierati e felici per

poter vedere al di là dello strano miraggio del lama.

Quando la lunga festa giunse al termine, il principe e la principessa si accomiatarono e

intrapresero col loro seguito il viaggio di ritorno. Risalirono le prime catene di monti, scesero nelle

valli, salirono di nuovo per alti valichi, fino all‘ultimo che li avrebbe condotti a casa.

Quando passarono vicino alla montagna dove viveva il lama, un grande arcobaleno comparve nel

cielo azzurro. Il principe e i suoi cortigiani rimasero stupiti al meraviglioso spettacolo. Ma non

videro nulla fra gli splendidi colori. Solo Sangay vide.

Fra le pieghe del variopinto arcobaleno sedevano fate, Dakini ed altri esseri celesti. Brillavano e

lucevano come un gruppo di stelle, e sorridevano alle creature della terra. Poi il lama Khoryajig,

vestito di splendide vesti dorate, passò lentamente nel cielo come un uccello in volo, finché

anch‘egli si fermò fra le Dakini. Sangay vide il sorriso d‘addio del vecchio lama, poi l‘intera visione

impallidì e si dissolse nell‘aria. Anche l‘arcobaleno sbiadì e lentamente scomparve.

Sangay non parlò della visione al suo principe e ai compagni di viaggio. Sentiva il rosario di

legno di sandalo fra le pieghe della sua veste e pensava alla propria vita straordinaria, e al monaco

che l‘aveva guidata. Il vecchio saggio eremita aveva varcato i limiti dell‘esistenza umana, ma un

giorno sarebbe tornato sulla terra, per aiutare gli uomini che hanno bisogno di essere guidati sulla

via che conduce alla felicità.

Sangay Khando, la Dakini umana, comprese qual era la sua missione sulla terra. Il vento le

soffiava dolcemente fra i capelli, gli uccelli già tornavano dalle loro migrazioni in terre lontane.

Essa sfiorò il rosario di legno di sandalo e si sentì in pace col mondo.

SIRUK KHABUB

Là dove termina la valle incomincia una grande foresta. Gli alberi si arrampicano sempre più in

alto lungo il pendio della montagna, finché spariscono fra le nubi. Solo raramente si possono vedere

le cime dei picchi scoscesi: solo nei chiari freddi giorni d‘inverno, quando la neve ricopre monti e

valli a perdita d‘occhio. Gli alberi sono enormi e vecchissimi e la foresta è così fitta che di rado un

raggio di sole riesce ad insinuarsi attraverso l‘impenetrabile sottobosco.

La piccola valle è protetta dai peggiori venti invernali e ha un‘unica entrata, che si affaccia su

miglia e miglia di terre deserte. Ci volevano molti giorni per raggiungere la città più vicina, sicché

con gli anni la valle era divenuta un luogo abituale di sosta per i viaggiatori. I nomadi vi passavano i

mesi più freddi dell‘inverno con le loro pecore e le loro capre e poi un bel giorno sparivano nelle

lontane pianure, in cerca di nuovi pascoli. Nessuno sapeva quando sarebbero arrivati né quando

sarebbero ripartiti.

Ma un anno una delle loro famiglie restò nella valle e creò una piccola fattoria. I loro giorni di

vita nomade erano terminati e la valle ebbe i suoi primi abitanti fissi. Non passò molto tempo che

altre famiglie vennero a sfruttare i verdi pascoli rigogliosi sui pendii più bassi. Poi vennero mercanti

e artigiani, e fu costruito un piccolo eremo per i monaci che erravano nelle campagne: infine il

minuscolo villaggio divenne una grossa città.

Boscovalle — con questo nome era conosciuta — aveva un aspetto molto irregolare, come tutte

le cose che sorgono spontaneamente, nelle sue vie capricciose e tortuose v‘era un certo fascino. Gli

uomini che si stabilivano a Boscovalle venivano da ogni parte del paese e ognuno portava con sé le

sue abitudini particolari, i suoi abiti, i suoi costumi, la sua musica e dalle estreme terre d‘Oriente

vennero genti che parlavano persino una lingua diversa.

Boscovalle era veramente un paese felice. Non vi erano proprietari terrieri che riscuotessero

esosi affitti dai contadini, né nobili con eserciti privati e vaste tenute, e la valle era così lontana che

gli agenti del fisco vi arrivavano solo una volta all‘anno. Talvolta qualcuno perdeva una pecora o

una vacca o un sacchetto di monete, e ogni tre o quattro anni una mezza dozzina di giovani doveva

partire per un anno per fare il servizio militare. L‘esercito del paese era piuttosto piccolo; ma gli

abitanti della valle erano fieri delle loro antiche tradizioni e i vecchi parlavano ancora delle battaglie

combattute contro i ―selvaggi‖, anche se erano fatti di almeno cent‘anni prima.

Voi penserete che in questa pacifica valle, percorsa da una via carovaniera nel bel mezzo del

Paese-che-non-c‘è, tutti fossero sempre molto felici. Ma v‘era un giorno speciale dell‘anno in cui

tutti erano in preda al terrore. La notte del primo plenilunio di primavera una gigantesca tigre

scendeva al villaggio e divorava una persona. Bastava una sola vittima per soddisfare la sua sete di

sangue umano; ma nessuno si rallegrava all‘idea di essere quella vittima.

Boscovalle viveva pacificamente per tutto l‘anno. D‘estate arrivavano un gran numero di

visitatori: nomadi che venivano a vendere pecore e comperare tessuti, carovane che serpeggiavano

attraverso le solitarie pianure verso città lontane, in qualche punto al di là dell‘orizzonte. Era un

periodo felice, pieno di colore e gioia di vivere. Anche l‘autunno era piacevole: v‘era assai meno

gente, e così gli abitanti del villaggio potevano dedicarsi all‘arduo compito di prepararsi per

l‘inverno. Gli alberi diventavano dorati e ondeggiavano come danzatori nel vento. Il canto della

foresta echeggiava nella valle come se volesse ricordare agli uomini che la primavera tornava

sempre. L‘inverno invece era lungo e duro. La neve cadeva ogni giorno per molti mesi. Gli uomini

si stringevano intorno ai fuochi di legna e sterco secco. Dicevano le preghiere insieme e poi

andavano a coricarsi sotto spesse coperte di lana di yak. Piccole lampade al burro bruciavano

eternamente in ogni casa: così, anche se fuori faceva freddo, dentro c‘era sempre un piacevole

calore. Al principio della primavera le nevi si fondevano. Freschi ruscelli correvano giù dai monti,

la neve cadeva dai rami degli alberi e le giovani gemme apparivano improvvisamente come se

uscissero dal nulla.

Ma a Boscovalle ognuno aveva un sapore amaro in bocca. A chi doveva toccare quell‘anno? si

chiedeva la gente, guardando la luna che andava crescendo ogni giorno. Quando raggiungeva il suo

primo quarto gli uomini cominciavano a sentire i morsi del terrore. Amici e vicini si passavano

accanto per la strada e nessuno diceva una parola, perché uno doveva essere scelto per il sacrificio e

ciascuno pensava di poter essere la vittima. Nessuno voleva che il suo migliore amico finisse

divorato da una tigre: ma era difficile immaginare che qualcuno si offrisse volontario.

Ogni giorno che passava la paura cresceva, ma stranamente era mista a una certa eccitazione. La

tigre era molto vecchia e molto esperta e non bramava quel tipo di piaceri di cui sono avide

solitamente le giovani tigri. Non aveva voglia di precipitarsi nel villaggio, terrorizzare tutti gli

abitanti e poi scegliersi il pasto annuale. Invece, gli abitanti di Boscovalle dovevano tirare a sorte.

Scrivevano i nomi di tutte le famiglie su altrettanti pezzetti di legno. Poi mettevano i pezzetti di

legno in una piccola botte e uno degli anziani del villaggio ne estraeva uno. Allora la famiglia il cui

nome era stato estratto doveva fare essa stessa la scelta fra i suoi membri.

La grande estrazione si faceva tre giorni prima del plenilunio di primavera. La gente indossava i

vestiti migliori, nessuno sapeva perché, e si raccoglieva nella piazza al centro del villaggio. Per gli

anzani veniva rizzata una piccola piattaforma. Si poneva nel mezzo la botticella e gli anziani

sedevano tutt‘attorno pieni d‘orgoglio, battendo i loro bastoni e dandosi l‘aria di saggi. Poi il più

vecchio dei vecchi si alzava e chiedeva ai presenti di fare silenzio. Quando tutto taceva e si udiva

solo la dolce canzone degli alberi, egli introduceva lentamente il braccio nella botte.

Mancavano tre giorni alla luna piena. Tutti tacevano e sorvegliavano il braccio del vecchio che

scendeva lentamente nella botte. Si poteva sentire il fruscio dei pezzetti di legno agitati dalla mano,

sicché tutti capivano che si trattava di un‘estrazione onesta, e che il vecchio avrebbe poi sbuffato e

ansimato per la fatica.

Di colpo, come un mago che fa il suo trucco favorito, il braccio scattò nell‘aria. Tutti

trattenevano il fiato e guardavano il pezzetto di legno che il vecchio agitava alto nell‘aria,

strizzando gli occhi per leggere il nome che vi era scritto sopra — cosa impossibile.

Il vecchio strizzò gli occhi alla luce del sole primaverile. Si accostò la tavoletta di legno al naso e

lesse il nome: ―Zomba‖.

Un grande sospiro di sollievo si alzò dalla piazza. La gente cominciò a ridere e a parlare; una

sola parola aveva dissipato il terrore di lunghe settimane. Tutti erano così felici che non potevano

fare a meno di festeggiare; e d‘altronde, poiché avevano già addosso i vestiti della festa, era la cosa

più naturale da fare.

Zomba era una vedova con due giovani figlie, Pedon e Yeshi. Le tre donne si voltarono, la folla

si divise davanti a loro, i più vicini fecero addirittura finta di non vederle. Con gli occhi bassi e il

cuore pesante tornarono lentamente per le viuzze del villaggio alla loro minuscola casa. Tre telai

stavano davanti alla porta, nel sole del pomeriggio: ma solo due bei tappeti di lana sarebbero stati

portati a termine.

Ma v‘era nel villaggio un‘altra persona che era triste nel cuore. Il giovane Bagdo era innamorato

delle due figlie della vedova e voleva sposarne una, quando avesse messo da parte abbastanza

denaro da costruirsi una casetta, in un piccolo terreno sulle verdi colline.

E v‘era anche un altro uomo nel villaggio, che era piuttosto compiaciuto della scelta. Thaken il

tessitore era un individuo piccolo e storto, che avrebbe tanto voluto essere grande e bello. Era un

vicino di casa di Zomba e delle sue due figliole e una volta aveva chiesta in sposa la più giovane

delle fanciulle. Ma Zomba si era messa a ridere. Da allora egli non desiderava che vendicarsi: e i

suoi piani sarebbero riusciti, la notte del plenilunio; mentre le tre donne stavano piangendo la loro

sorte, egli contava di strisciare furtivamente nel loro giardino e rubare il bel vitello che ruminava

accanto a una piccola greppia di pietra.

―Così Zomba imparerà a non burlarsi di me‖, ghignò fra sé mentre trottava tutto superbo per il

villaggio verso la sua meschina capanna, accanto alla casetta della vedova.

Bagdo era esattamente l‘opposto di Thaken il tessitore.

Lavorava in campagna con la sua famiglia, arava i campi, mieteva le messi, badava a pecore e

vacche, faceva insomma tutto quello che un contadino deve fare. Era un giovane gentile, sempre

pronto ad aiutare gli altri, e Pedon e Yeshi gli volevano bene tutte due, molto più che a quel brutto

tessitore che le sbirciava al di sopra del muretto di pietra che divideva i loro giardini.

Il giovane Bagdo camminava pensoso attraverso la folla. Solo tre giorni mancavano all‘arrivo

della tigre, pensava fra sé, solo tre giorni per escogitare un piano per salvare Pedon e Yeshi, e

naturalmente la loro madre. Bagdo non sapeva com‘era sorta l‘antica tradizione di quel sacrificio

umano, ma del resto non lo sapeva neppure il più vecchio dei vecchi del villaggio.

―Se si arriverà al peggio,‖ mormorava Bagdo fra sé, ―ebbene, io stesso lotterò con la tigre.‖

Il sole stava scivolando dietro l‘alta foresta. Al calar della sera la gente a poco a poco lasciò la

piazza. I vecchi scesero dalla loro piattaforma speciale, contenti del lavoro fatto quel giorno.

Camminarono lentamente per il villaggio, battendo i bastoni e rispondendo col capo al saluto dei

giovani. Ben presto si fece buio, le strade divennero deserte e solo le pallide luci delle lampade al

burro brillarono dalle finestre, simili a geishe danzanti. La luna salì nel cielo come un attore sul

palcoscenico. Ne mancava solo una sottilissima fetta. Ancora una notte, e poi sarebbe stata la luna

piena.

Era costume a Boscovalle che la notte del plenilunio di primavera tutte le case si chiudessero

presto la sera. Le lampade venivano spente, e solo la grande luna illuminava le strade vuote. Ma in

una casa sola le lampade restavano accese: strano invito alla vecchia tigre assetata di sangue.

Boscovalle era sempre molto silenziosa il giorno dopo l‘estrazione. La gente restava in casa, o

andava a curare i suoi campi in silenzio. Era un giorno di contemplazione. L‘anno era giovane. Le

messi erano state seminate e i miracoli della natura splendevano nella loro forma più bella. Il

mondo era tutto fresco e vivo, con un profumo di pulito, come di tela appena lavata.

Il giorno dopo succedeva pressa poco la stessa cosa. La gente si aggirava silenziosa, per rispetto

verso la famiglia colpita. Guardavano passare le ore, che sembravano correre troppo veloci. La

notte calava di colpo. Tutti restavano tappati nelle loro case buie, ringraziando la divina

provvidenza che ancora una volta li aveva salvati. Se le case erano buie, la luna saliva nella sua

gloria più luminosa e piena. Lunghe ombre scivolavano come un esercito invasore da una casa

all‘altra. Le stelle brillavano percorrendo l‘eterno cammino per le vie del tempo.

Quando calò la notte alla finestra della vedova Zomba si accese la luce.

La collina era tutta buia. Sembrava di essere in una città abbandonata, gli uomini si tenevano

chiusi nella fida cerchia delle loro famiglie. Bagdo aveva cercato di escogitare un piano per

catturare la tigre e salvare le fanciulle: ma il suo cervello era vuoto. Restava solo una soluzione.

Avrebbe affrontato la tigre lui stesso.

Gli abitanti del villaggio udirono i passi dei suoi stivali di cuoio risuonare sotto le loro finestre,

ma nessuno aprì le imposte per guardare. Bagdo, con un grosso bastone sotto il braccio, marciava

come un guerriero verso la casetta di pietra; si sentiva l‘unico difensore di tutto ciò che amava e in

cui credeva. Era troppo moderno per credere alle superstizioni degli antichi. Il mito della tigre

sarebbe stato distrutto una volta per tutte.

Zomba e le sue due figlie stavano decidendo chi di loro doveva essere vittima della tigre. Le

fanciulle volevano salvare la madre, mentre Zomba continuava a ripetere che era lei la più vecchia:

era lei che doveva offrirsi come pasto.

Potete immaginare la loro sorpresa quando Bagdo improvvisamente comparve sulla soglia, con

le spalle erette e il bastone in pugno.

―Dovete andarvene subito‖, disse Zomba. ―Questa è la notte della tigre. La luna è già alta nel

cielo e la tigre sta per arrivare.‖

―È quando arriverà io sarò qui ad aspettarla―, replicò Bagdo con virile spavalderia. ‖Le tigri non

sono così terribili, noi ne vediamo una quantità là fuori alla fattoria, basta gettargli una pietra e

scappano. Talvolta le più coraggiose scendono a dare un‘occhiata più da vicino, e noi allora le

attacchiamo.

10 mi sono già battuto con un mucchio di tigri, e non ho mai perduto.―

Bagdo raccontò una quantità di storie. Spiegò come solitamente afferrava le tigri per le zampe, e

poi gli torceva il collo.

―Sarebbe anche facile ucciderle‖, aggiungeva; ―ma una volta sconfitte scappano nelle montagne

e non tornano più indietro.‖

Le tre donne non sapevano cosa pensare. Zomba continuava a ripetere al giovanotto che era

antica tradizione offrire il pasto alla tigre.

―Che avverrà se non lo facciamo?‖ chiedeva.

Ma Bagdo non perdeva la calma. Continuava imperterrito con le sue storie fantastiche di lotte

con tigri. Prese un cuscino per dimostrare come avrebbe torto il collo alla tigre, e mostrò persino

alle signore una cicatrice, che pretendeva di essersi procurato lottando con la tigre più grossa di

tutte.

Mentre il giovanotto raccontava tutte queste fanfaronate, 11 volto della luna si affacciò sulla

finestra aperta. La grande tigre aveva già lasciato la sua tana, nel profondo della selva.

Era scesa a valle con lenti passi, perché era troppo vecchia per caricare a gran velocità, ed ora

stava entrando nel pallido villaggio rischiarato dalla luce lunare. Vide l‘unica casa illuminata e

strisciò fino alla finestra.

Bagdo era tutto infervorato nel racconto delle sue imprese. Le fanciulle pensavano che fosse

davvero un prode e ascoltavano con gli occhi spalancati, mentre Zomba non sapeva più cosa

pensare.

―Le tigri non mi danno nessun fastidio,‖ diceva il giovanotto. ―Quando si tratta di combattere un

Sok, allora è diverso. I Sok sono molto più astuti delle tigri, e si deve impegnare tutta la propria

forza per inchiodarli. C‘è solo un animale che non mi piacerebbe incontrare, ed è il Siruk Kha-bub.

Sono forti e terribili, e di fronte a loro le tigri sono come gattini.‖

Il giovanotto era ormai lanciato. Le ragazze non avevano mai sentito parlare di simili animali, né

del resto la loro madre. Se un Sok o un Siruk Khabub, che a quanto pareva erano molto più terribili

delle tigri, non erano un gran problema per Bagdo, allora loro tre si sarebbero davvero salvate. Le

tre signore ringraziarono Bagdo per essere venuto e quasi erano impazienti di assistere alla grande

battaglia.

―Davvero ci salverai?‖ disse Yeshi, la più giovane delle due fanciulle.

E Bagdo rispose che sarebbe stata la cosa più facile del mondo.

Mentre il giovanotto raccontava le sue storie, la tigre continuava a girare intorno alla casa,

ascoltando.

―Io non sono più così giovane da poter combattere contro uomini giovani e forti,‖ disse fra sé.

―Sarà meglio che mi contenti del vitello che sta nel giardino.‖

I quattro nella casa erano troppo impegnati a parlare di tigri e non sentirono neppure l‘animale

che balzava sul povero vitello e cominciava a sgranocchiarselo tranquillamente. La tigre era

rattristita di porre termine al suo regno del terrore, ma ormai pensava di ritirarsi fra le sue

montagne, lontano dagli uomini, dai Sok e dai terribili Siruk Khabub.

Nei cinque minuti seguenti le cose precipitarono e tutto fu confusione.

Anzitutto Thaken, il maligno tessitore, uscì silenziosamente dalla sua casa e salì sul muretto che

divideva il suo orto dal piccolo giardino della vedova. Immaginava le tre donne che piangevano e si

lamentavano aspettando che l‘enorme tigre arrivasse a consumare il suo orrido banchetto. Intanto

lui si sarebbe preso il vitello.

Nel buio intravide l‘animale che mangiava il suo fieno dal sacco posato a terra. Saltò giù dal

muro sulla sua groppa, pronto a trascinarselo attraverso le vuote strade del villaggio per nasconderlo

nel posto prescelto. Solo che il vitello non era il vitello: era la tigre, e il sacco di fieno era il povero

vitello stesso.

La tigre era immersa nei suoi pensieri, e così, quando il tessitore le balzò in groppa, credette che

fosse il giovanotto uscito dalla casa, che si preparava a squartarla membro a membro.

Appena Thaken atterrò sulla sua groppa la tigre balzò via, terrorizzata all‘idea che di colpo

l‘uomo potesse afferrarle le zampe, rovesciarla all‘indietro e poi torcerle il collo. Le storie di Bagdo

erano state così convincenti che anche la tigre era spaventata. Ma ancor più spaventato era Thaken.

Si afferrava disperatamente alla fitta criniera, non sapendo se saltar giù per essere divorato, o non

piuttosto pregare che la tigre lo trovasse troppo magro, e quindi tornasse indietro a mangiarsi una

delle fanciulle.

La tigre si precipitò nel fitto della foresta, correndo molto più velocemente di quando ne era

scesa. Il sottobosco si faceva sempre più folto, ma la belva conosceva misteriori sentieri nascosti.

Nessun uomo era mai penetrato nella foresta, e Thaken era più spaventato che mai.

A un certo momento il malvagio tessitore si rese conto che, quanto più la tigre saliva, tanto più

difficile sarebbe stato per lui tornare al villaggio. Mentre gli balenava nel cervello questa idea, vide

una grossa fune di bambù che pendeva dal ramo di un albero gigantesco. Fece un salto e si

aggrappò alla fune: ma quando raggiunse il sicuro rifugio dell‘albero, si accorse che la fune altro

non era che un grosso serpente, ar-rabbiatissimo di essere stato svegliato dai suoi profondi sogni

serpenteschi.

Il serpente si sfregò gli occhi e come vide la tigre che fuggiva fece un balzo potente e andò ad

atterrare con precisione sulla sua groppa. Attorcigliò il lungo corpo intorno alle zampe delle tigre,

finché l‘animale, per quanto robusto, non riuscì più a muoversi, stretto nella morsa delle terribili

spire. Ora sarebbe stata lotta fino alla morte, perché i serpenti non sono mai state creature molto

ragionevoli. Quando fischiano di rabbia, si sa che significa guerra.

Dal più alto dell‘enorme albero Thaken il tessitore sentì la battaglia che infuriava ai suoi piedi.

La tigre ruggiva e ringhiava, lottando per liberarsi dalla tenace presa del serpente. Ma il serpente

resisteva, fischiando e mordendo con le orride fauci. I due giganteschi animali combattevano una

lotta mortale. Thaken sperava solo che si dimenticassero di lui, povero bocconcino insignificante

aggrappato come un uccello alle verdi foglie di primavera.

Fu una notte lunga e fredda e il mattino portò un gran senso di sollievo. Bagdo aveva passato la

notte con le tre donne, pronto a lottare con la tigre quando arrivava: ma ora la secolare tradizione

era spezzata. Quando trovarono il povero vitello morto e le impronte della tigre nel terreno,

pensarono l‘unica cosa ovvia. La tigre si era stancata di sangue umano e in futuro un vitello sarebbe

stato un sacrificio sufficiente.

Bagdo corse per le strade a gridare a tutti la lieta notizia. Tutti ne furono molto felici, e quando

sentirono da Pedon e Yeshi che Bagdo si era proposto di lottare con la tigre tutti si congratularono

con lui per il suo coraggio. E quando le ragazze raccontavano in giro delle lotte che il giovanotto

aveva sostenuto con le tigri nelle montagne, il giovanotto arrossiva e le sue guance si tingevano di

una bella sfumatura di vermiglio: e spiegava, imbarazzato, che erano state tutte tigri molto piccole.

Sperava che le ragazze non parlassero del Sok nonché del Siruk Khabub, perché altrimenti chissà

dove sarebbero arrivate le chiacchiere.

Ben presto tutti furono informati che il villaggio era salvo: la notizia si diffuse come fuoco nella

foresta. Gli anziani vennero coi loro bastoni a congratularsi con Zomba e le due figlie. Alzavano le

vecchie mani al cielo e dicevano che gli dèi stessi dovevano averle salvate. Molti degli abitanti del

villaggio portarono doni e offerte al giovane Bagdo, perché le ragazze andavano dicendo ovunque

che dovevano essere state le sue storie a spaventare la tigre e a farla fuggire.

L‘alba del nuovo giorno fu un grande sollievo anche per Thaken. Era stanco e intirizzito, e

terrorizzato all‘idea che uno dei due animali lo stesse aspettando ai piedi dell‘albero. Infine raccolse

le sue ultime once di coraggio, che non erano poi molte, e scese lentamente lungo il tronco. Faceva

freddo nella foresta e c‘era un silenzio di morte, come in un cimitero. Thaken si lasciò cadere al

suolo dall‘ultimo ramo.

Poco lontano dall‘albero giaceva il corpo lacerato del serpente. Thaken ne fu ancora spaventato,

benché il corpo fosse rigido e freddo. La tigre aveva vinto la battaglia. In qualche momento di

quella notte doveva essersi allontanata zoppicando, ferita e indebolita. Non sarebbe mai più tornata

a molestare Boscovalle, mai più i suoi abitanti avrebbero dovuto chiudersi in casa e sbarrare le porte

quando il plenilunio di primavera saliva col volto sorridente nel cielo stellato.

Thaken stava per andarsene quando ricordò una vecchia leggenda. Ogni cento serpenti, uno

aveva nascosta nel cervello una perla perfetta. Chissà se questo era quell‘uno? Il tessitore raccolse

una grossa pietra e tornò zitto zitto presso il serpente morto, temendo che ad ogni momento potesse

tornare in vita. Colpì più volte col sasso la testa del serpente, e poi con una pietra più piccola la

staccò dal corpo.

Thaken afferrò la testa del serpente e tenendola lontana da sé la scosse più volte. Non ne usa

nulla, se non sangue e cervello. Colpì con la pietra la testa senza vita; e ancora nulla. Allora le diede

un ultimo calcio e la testa rotolò giù per il pendio verso la valle. Ma improvvisamente si fermò

contro il tronco di un albero, e ne uscì una minuscola perla, che brillava e scintillava nel buio della

foresta. Thaken non credeva ai suoi occhi. Si precipitò a raccogliere la perla bianco-rosata e la tenne

nella coppa delle mani.

―Ora potrò avere ciò che voglio‖ disse fra sé, correndo via con la perla stretta nel pugno.

Corse attraverso la foresta come se fosse inseguito da un intero branco di tigri. Inciampava e

cadeva contro i tronchi degli alberi, si rialzava e ogni volta controllava che la perla ci fosse ancora.

Finalmente arrivò al centro del villaggio. Fu molto sorpreso di veder tanta gente in giro, ma era

soddisfatto che l‘intero villaggio potesse sentire la sua storia.

―Io ho ammazzato la tigre, io ho ammazzato la tigre!‖, gridò saltando sulla piattaforma che

restava ancora in mezzo alla piazza.

―Ho ammazzato una tigre e anche un serpente‖, diceva, ―ecco qui la perla che ho tirato fuori

dalla sua testa gigantesca.‖

Ma nessuno si congratulò con lui. Nessuno disse com‘era stato bravo, e com‘erano tutti contenti.

Invece si misero a ridere, e ridevano, ridevano.

―Ho combattuto contro la tigre, e poi anche contro il serpente‖, badava a ripetere Thaken. ―Ecco

qui, guardate la perla.‖

Gli abitanti del villaggio guardavano la perla, ma continuavano a ridere.

―Da dove diavolo è venuta quella perla! Da una fata del bosco?‖ disse qualcuno.

Thaken continuava a ripetere la sua storia, ma la gente non faceva che ridere e sbeffeggiarlo. Gli

gridavano parole villane, e poi tutti scoppiavano in grandi risate. E poiché Thaken non faceva che

ripetere la sua mirabolante avventura, gli scoppi di risa riempivano il paese. Infine Thaken rinunciò.

A testa bassa scese dalla piattaforma. La gente rideva e gli dava gran manate sulla schiena,

dicendogli com‘era bravo e come era fortunato il villaggio ad avere un abitante coraggioso come

lui.

Il povero tessitore tornò triste a casa. La sua perla poteva comperargli tutte le cose che aveva

sempre desiderato, tranne quella che più di tutto bramava. Era sempre un uomo piccolo e storto che

avrebbe voluto essere grande e bello.

Il vero eroe era Bagdo. Con tutti i doni che aveva ricevuto ora poteva costruirsi la sua casetta e

sposare una delle figlie della vedova.

Ma quale avrebbe sposato? Ancora non lo sapeva.

LA STATUA E IL GIOIELLO

Il lento salmodiare di un mantra vespertino riecheggiava tra le mura di pietra dell‘umile capanna.

Due giovani voci recitavano le loro preghiere, onoravano la loro fede. Nella stanza vicina i vecchi

parlavano e le loro lente parole svanivano nel silenzio. Molte parole erano state dette, e tuttavia

Dorjee e sua moglie Choma sapevano che le parole non servivano a risolvere i problemi. La spola

girava girava fra le abili dita di Choma e il mucchio di lana grezza si trasformava in robusto filo. Il

vecchio aspirava profondamente dalla pipa di terracotta mentre camminava senza sosta tutt‘attorno,

battendo i piedi sul sudicio pavimento.

―Dobbiamo fare qualcosa,‖ disse il vecchio, grattando il fornello della pipa con il suo dito

macchiato.

―Ma cosa?‖ fu la concisa risposta a quella domanda che era l‘eterno dilemma dei poveri.

―Dobbiamo pregare il Signore Buddha e avere fede nella sua grande saggezza,‖ disse Dorjee,

sorridendo alla moglie, e l‘antico amore splendeva nel suo vecchio viso e negli occhi fedeli: l‘amore

delle persone anziane, quando la passione si è spenta, le braci ardenti che seguono la fiamma.

La vecchia coppia aveva l‘amore, la fedeltà e la felicità. Le cose materiali erano sempre scarse:

ma con un pane da mangiare, due bei figlioli nella stanza accanto e la loro fede, in realtà avevano

bisogno di ben poco. Ora avevano un problema, è vero, ma erano sicuri che la vita lo avrebbe

superato, una mano sarebbe apparsa a guidarli dai misteriosi reami della provvidenza.

Dorjee e Choma avevano due figli, un robusto giovanotto e una leggiadra fanciulla. Erano gentili

e pii come i loro genitori ed erano giunti entrambi all‘età in cui il matrimonio sarebbe stato il giusto

passo. Ma la vecchia coppia non aveva denaro da offrire. Dolma avrebbe avuto bisogno di una dote,

e solo i più poveri paesani della valle avrebbero accettato Tashi come genero. Mentre la sera i

giovani dicevano le preghiere, i due vecchi discutevano il loro problema. E quando nella casa di

pietra tutto taceva, i vecchi si inginocchiavano davanti alla grande statua di Buddha e recitavano

parole delle Sacre Scritture. Poi si sdraiavano quieti insieme, sotto le loro coperte tessute in casa,

finché sopraggiungeva il sonno.

Un sottile raggio di sole penetrò attraverso le fessure del soffitto, come a ricordare che era

necessario aggiustare il tetto prima che giungessero le nevi dell‘inverno. Lame di luce brillarono

sulla statua di legno intagliato di Buddha, riflettendo magici bagliori sui due vecchi addormentati.

Dorjee aprì gli occhi, sorrise alla moglie che dormiva ancora col vecchio volto solcato dalle rughe

della miseria e del duro lavoro, ma con le labbra ancora giovani e tenere, fiduciose nel futuro

mentre viveva lietamente un giorno dopo l‘altro. La donna si svegliò e incontrò gli occhi del marito.

E sperò che anche i suoi figli potessero conoscere un amore come quello.

Tashi e Dolma entrarono nella stanza e si unirono ai genitori: e insieme la devota famiglia si

prostrò davanti alla statua scolpita del Signore Buddha. Dissero le preghiere del mattino e

ringraziarono il sole perché splendeva, il giorno perché spuntava. Chiesero la guida divina e

promisero di essere buoni.

Il sole era salito alto nel cielo e i suoi raggi danzavano sulla statua di legno di sandalo. La statua

splendeva come oro bianco, pulsante di una vita che sorgeva dal suo cuore segreto che batteva nella

profondità del legno. Era seduta a gambe incrociate per terra, eppure era alta come il giovane Tashi

che le era ritto davanti. Aveva appartenuto alla famiglia per molte generazioni, e nemmeno il

vecchio Dorjee sapeva quanto fosse antica. Nei giorni di festa tutti gli abitanti del villaggio

venivano a rendere omaggio al Buddha gigantesco; e una volta un gentiluomo di passaggio sentì

parlare della statua e venne a vederla.

―Io farò di voi l‘uomo più ricco del villaggio, anzi di tutta la provincia, se mi venderete il vostro

grande Buddha,‖ disse il gentiluomo, mentre le sue lunghe dita aristocratiche sfioravano il legno di

sandalo come un giovane accarezza la sua prima fidanzata.

Ma Dorjee non ne voleva sapere.

―La statua ci porta fortuna,‖ disse sorridendo, mentre osservava il nobile signore che guardava le

pareti vuote, la pietra rozza, il pavimento sudicio dove i topi campagnoli correvano liberamente

riempiendosi il ventre di briciole di pane. Il ricco viaggiatore si allontanò sul suo bel cavallo,

lasciando i servi proseguire a piedi, al lento passo degli yak. La carovana sparì dietro una collina,

inghiottita dalle steppe senza fine che si stendevano come tovaglie fra le montagne.

Ogni giorno Tashi lavorava nei campi, seminando e raccogliendo le messi che mantenevano i

signor grassi e satolli. Ma anch‘egli aveva la sua parte del raccolto. V‘era sempre cibo da mangiare,

e nelle annate migliori anche qualche moneta da guadagnare. La bella giovane Dolma intrecciava

tappeti con la ruvida lana che la madre filava. Le dita della fanciulla erano affusolate e svelte e

sfioravano i fili sul telaio come le dita di un musicista sfiorano le corde dell‘arpa. Intesse-va figure

di draghi e soli nascenti, Buddha e altre divinità, gli antichi motivi tradizionali che le donne

intessevano fin dal principio dei tempi. I suoi tappeti erano portati fino alle grandi città: il mercante

del villaggio si prendeva la sua parte di guadagno e il resto andava alla famiglia. Con le poche

monete che avanzavano Dolma comperava fili di seta per ricamare fiori dorati: ma il denaro spariva

presto, per comperare farina dal fornaio, ortaggi dal fruttivendolo, latte e giuncata dal contadino.

La vita imponeva dure fatiche, ma il compenso stava nella fede. Sapevano tutti che, se si

comportavano bene in questa vita, quella futura sarebbe stata migliore. Non si preoccupavano molto

di questa vita e speravano di avere una rinascita migliore nella vita successiva.

Quando il sole tramontava in una sfera incandescente, Choma metteva in tavola zuppa e verdura,

pane e tè caldo con burro. I membri della famiglia mangiavano insieme, pregavano insieme,

sognavano insieme. Quando i due giovani andavano a dormire, i vecchi meditavano sulla vita,

dicendo quietamente miti parole, ascoltando i rumori della notte, la monotona canzone dei grilli, il

verso delle civette, l‘urlo occasionale di un lupo, il raglio di un asino selvatico.

Ma questa notte era diverso: le parole che si dicevano non erano solo per le loro orecchie.

Durante il giorno un perfido ladro, chiamato Kuma, era entrato nella loro casa per dare un‘occhiata

più da vicino alla famosa statua. E ora le stava nascosto dietro e ascoltava la loro conversazione.

―Dobbiamo veramente trovare un marito per Dolma,‖ diceva il vecchio. ―E tanto bella che

sarebbe degna di qualsiasi mercante, anche se non abbiamo una dote da darle.‖

L‘anziana signora sospirava mentre le sue agili dita filavano la lana e il fuso proiettava gaie

ombre sulle pareti.

―Sì, hai ragione. Forse il Nostro Signore Buddha ci manderà presto un messaggio.‖

Kuma il Ladro aveva ascoltato attentamente la conversazione con un ghigno malvagio sul volto e

gli occhi neri che lucevano nel buio come fiammelle. E quando i due vecchi si inginocchiarono

davanti a Buddha per dire le loro preghiere, una voce profonda salì dalle viscere dell‘idolo

gigantesco.

―Domani arriverà alla vostra casa un viaggiatore. E sarà lo sposo della fanciulla,‖ disse la voce.

Quattro vecchi occhi si spalancarono increduli, incerti fra il timore e la gratitudine, fra lo

spavento e la felicità. I due genitori si aggrapparono l‘uno all‘altro come scolaretti, mentre i loro

timori si dissolvevano come neve al sole. Choma voleva dire qualche cosa, ma lacrime di gioia

scesero lungo le sue guance logore per la fatica. Dorjee cercò di trattenere un singhiozzo, ma il

singhiozzo gli uscì senza vergogna o rimpianto. Per tanto tempo avevano creduto nel Signore

Buddha, e ora la loro fede veniva ricompensata. Come se un segreto istinto li avesse avvertiti che il

loro abbraccio era durato abbastanza a lungo, la coppia si separò per alzare preghiera alla statua, al

salvatore che era venuto a condurli dalle tenebre alla luce.

Dopo aver levato al Dio le loro preghiere di ringraziamento, svegliarono i loro figli e riferirono

la buona notizia. Tashi e Dolma non sapevano se credervi o no. Tashi si mise a ridere e disse che

avrebbe creduto nel matrimonio solo quando avesse visto arrivare il viaggiatore coi suoi propri

occhi. Dolma non sapeva cosa pensare. Si rendeva conto di quanto fosse importante per tutti che lei

si sposasse e sollevasse i genitori dal peso di mantenerla: ma aveva sperato di poter conoscere prima

il suo sposo, anche se questo non era il costume della sua gente.

Quando la famiglia fu tutta addormentata, Kuma il Ladro sgusciò fuori dalla casa come un gatto.

I suoi piedi leggeri corsero in silenzio fuori dalla capanna di pietra, mentre i suoi occhi scrutavano

cautamente fra le ombre della notte. Kuma era sottile e malvagio, i suoi occhi storti erano pieni di

perfidia, ma il suo falso sorriso ingannava tanti poveri sciocchi, che si sentivano ancora più sciocchi

quando si accorgevano di essere stati derubati. Aveva sentito parlare della statua gigantesca e si

proponeva di rubarla, ma il pensiero di una bella fanciulla aveva acceso il suo malvagio cuore: lei

sarebbe stata la sua prima vittima. Si avviò nella notte verso la sua casa, dove sua moglie e i suoi

figli vivevano del frutto dei suoi furti, sempre in pena per il loro congiunto, tranne il figlio

maggiore, che insieme al padre imparava il triste mestiere del crimine.

Dorjee e la sua famiglia si alzarono all‘alba, lustrarono per bene la piccola casa di pietra,

lavarono i loro abiti migliori e li fecero asciugare al sole, prepararono il cibo per l‘ospite atteso, e

poi si misero ad aspettare ansiosamente il mercante viaggiatore che sarebbe venuto a rubare il cuore

della leggiadra fanciulla. Tashi lavò bene le sue mani annerite dal lavoro dei campi e indossò il suo

vestito migliore, unendosi al clima di festa della famiglia senza tuttavia credervi del tutto.

‗Non ti stupire se non verrà nessuno,― disse con fare scherzoso alla sorella tutta elegante e

agghindata.

―Abbi fiducia nel Signore Buddha‖, disse Choma nello stesso tono allegro mentre lavorava il

burro fresco nella zangola con un lungo bastone di legno; il suo braccio andava su e giù, su e giù a

ritmo, e il burro si coagulava in blocchetti dorati, che si sarebbero poi sciolti nel tè offerto all‘ospite.

Infine si sentì bussare alla spessa porta di legno. Sulla soglia comparve Kuma, vestito coi panni

di un mercante girovago. Aveva sulle labbra il sorriso mellifluo riservato alla gente che voleva

derubare. Choma aprì la porta e si fece indietro, invitando col gesto il visitatore a entrare nella sua

umile casa. Chinò la testa come se l‘ospite fosse stato un santo monaco e parlò con tono reverente.

―Prego, entrate e sedete alla nostra tavola, siete il benvenuto nella nostra povera casa,‖ disse la

vecchia spianando il grembiule a strisce colorate che risaltava sulla sua lunga e pesante veste da

contadina.

Dolma sedeva tutta sola nella stanza interna, coi lunghi capelli lavati e lucenti e dei bei nastri

rossi intrecciati nelle grosse trecce nere. I suoi stivaletti splendevano al sole del pomeriggio, il suo

abito era pulito e inamidato e frusciava mentre la fanciulla si muoveva timidamente sul suo

panchetto. Sembrava piuttosto una principessa, o persino una giovane dea, mentre sedeva ansiosa e

nervosa, raccogliendo tutte le sue forze per l‘incontro, e sperando nel profondo del cuore che lo

straniero fosse un galantuomo, un mercante onesto che potesse renderla felice come da parte sua

avrebbe cercato di fare per lui.

Kuma sedette con gli anziani genitori e Tashi nella stanza accanto. Parlava con voce piana, come

un saggio uomo d‘affari, rispondendo alle domande e ringraziando per le cortesie che gli

prodigavano. La famiglia gli chiedeva dei suoi affari, dei suoi viaggi e di tutte le solite cose che i

forestieri vanno raccontando nelle loro brillanti conversazioni. Finalmente Dorjee pose la domanda

che aveva sulla punta della lingua già da un po‘: ―Siete sposato, signore?‖ domandò.

―No,‖ rispose l‘ospite. ―Ma penso che per me sia ormai tempo di prender moglie.‖

Un sospiro di sollievo passò nell‘aria. Choma chiuse gli occhi e disse una silenziosa preghiera.

Tashi lo guardò incredulo con gli occhi sbarrati, mentre suo padre sorridendo versava altro tè nella

tazza del forestiero.

―Io ho una bella figlia che ora dovrebbe prender marito, e penso che forse vi farà piacere

incontrarla,‖ disse Dorjee ponendo la mano sul braccio del visitatore, in un gesto già quasi paterno.

Dolma entrò nella stanza, raggiante di giovane bellezza, lucente come una goccia di pioggia.

Kuma non credeva quasi ai suoi occhi storti: la buona fortuna, pensò, gli sorrideva. Quella ragazza

sarebbe stata assai piacevole come amante: e già la voglia bruciava in lui e non sfuggiva alla

fanciulla che gli stava davanti. Dolma era nervosa e spaventata. Sapeva che avrebbe dovuto sposare

il mercante perché i suoi genitori erano così poveri, ma aveva provato un‘immediata antipatia per

quell‘uomo viscido dallo sguardo lascivo.

Kuma controllò il suo smodato appetito e distogliendo gli occhi dalla leggiadra fanciulla si

rivolse a Dorjee e disse che sarebbe stato veramente felice di prenderla in moglie. Promise di

tornare il giorno dopo per condurre la fanciulla nella sua città, dove avrebbe avuto luogo una

piccola festa di nozze in forma privata.

―E dopo pochi giorni torneremo qui insieme, come marito e moglie,‖ disse, come un buon

genero affezionato.

Quando l‘ospite si congedò, Dolma si ritirò in silenzio nella sua stanza. Sentiva di odiare

quell‘uomo, ma per amore dei suoi genitori decise di non lamentarsi, di obbedire ai loro desideri e

sposare quell‘essere orribile. Il suo cuore era pieno di lacrime ma essa non lasciò che sgorgassero

dai suoi occhi. I suoi genitori erano felici, più felici di quanto fossero mai stati da molto tempo, e

ringraziavano il Signore Buddha per la sua misericordia. Dormirono come bambini e nessuna

preoccupazione turbò i loro sogni. I loro timori per l‘avvenire erano almeno in parte dissipati.

Prima che gli uccelli avessero terminato la loro canzone del mattino Kuma era di ritorno. V‘era

nell‘aria il profumo dei fiori di melo e la loro dolce fragranza entrò dal cortile nella piccola casa

quando Choma aprì la porta e accolse l‘uomo che doveva sposare sua figlia. Piccole nubi vagavano

lontane nel cielo azzurro che prometteva una bella giornata. Il cavallo che aveva tirato il carro di

Kuma per tante miglia sbuffava e scalpitava, come se fosse impaziente di tornare a casa dopo il

lungo viaggio.

La fanciulla era in attesa, con un sorriso forzato sul viso stanco: le lacrime che aveva versato

nelle lunghe ore di quella notte senza sonno erano state asciugate, ma il suo volto era arrossato, un

rosso che si poteva scambiare per buona salute. Tuttavia per Tashi non era più un segreto. Il giovane

aveva osservato attentamente la sorella e l‘ospite: il suo cuore era triste e pieno di sospetto. Ma la

gioia dei suoi genitori, così candidi, così semplici era tale ch‘egli non sapeva decidersi a guastarla.

Kuma sorrideva con quel sorriso falso che hanno i vagabondi quando chiedono l‘elemosina e

partì in un turbine di polvere, frustando i fianchi del cavallo come se dovesse fuggire dall‘inferno.

La famiglia rimase sulla soglia a guardare il passato che stava scomparendo davanti ai suoi occhi, e

pregava che il futuro fosse felice per tutti.

Dolma era rannicchiata in una specie di cassone di legno in fondo al carro coi neri capelli

ondeggianti al vento: la polvere si mischiava alle lacrime salate che avevano ormai rotto ogni argine

e scorrevano a fiotti per il suo giovane volto spaventato. Kuma, ritto a cassetta, reggeva con una

mano le redini e vibrava con l‘altra la frusta sui fianchi del cavallo. Non parlava alla sua giovane

preda, ma il ghigno malvagio che gli torceva le labbra diceva più della voce. Nessuna parola

avrebbe potuto incutere più terrore al cuore di Dolma. Si terse la polvere dal viso bagnato di lacrime

e si volse indietro a guardare: il villaggio della sua infanzia era ormai sparito.

Il cavallo corse per ore e ore. I fertili campi del villaggio scomparvero e il carro avanzò senza

sentiero per terre sconosciute. Non si vedeva un albero, solo polvere e ciottoli e ciuffi d‘erba

appassita e i bianchi picchi di monti lontani che si ergevano come cupi castelli sull‘incerto

orizzonte. Si spinsero per paesi stranieri, oltre nuove frontiere: cose nuove e sconosciute stavano per

rimpiazzare la vecchia vita, che era stata felice per la fanciulla, malgrado la povertà e il duro lavoro.

E Dolma temeva questa vita nuova, come temeva l‘uomo che ormai doveva farne parte.

Il sole raggiunse il sommo cielo senza nubi e cominciò a calare. Le montagne si fecero più vicine

e il carro passò rapidamente il valico ed entrò in nuove terre, fresche di pascoli. Una grande foresta

si stendeva davanti a loro come una folla osannante di veder passare il re col suo corteggio.

Silenziosi e pazienti gli alberi aspettavano, accogliendo il carro che arrivava al gran trotto. Si

addentrarono sotto l‘ombra degli alberi, alti pioppi sottili, faggi lucenti come strisce d‘argento e

olmi alti ed eleganti come danzatori. Kuma diede un potente strattone alle redini e il cavallo si

arrestò col sudore che gocciolava sul lucido pelo e il fiato che usciva come vapore dalle froge

palpitanti.

―Bene, puoi scendere ora,‖ disse bruscamente.

Dolma fece come le era stato detto e l‘uomo tolse dal carro il cassone di legno e lo collocò in una

cavità sabbiosa fra gli alberi.

―Entra là dentro e aspetta finché torno,‖ fece sgarbatamente. ―E bada bene di non andare in giro,

questo è il bosco delle tigri, e sono sicuro che sarebbero ben contente di averti come cena.‖

Saltò di nuovo sul carro, frustò lo stanco cavallo e partì al galoppo nel crepuscolo, come un

cavaliere dell‘inferno. Il cuore della fanciulla fu stretto dall‘angoscia, le emozioni fino allora

trattenute proruppero in violenti singhiozzi. Nascose il viso nelle mani delicate e pregò che

arrivasse un salvatore a strapparla dall‘orribile destino che senza dubbio Kuma le riserbava. Nella

sua fantasia vedeva un principe in splendide vesti, con la spada d‘argento scintillante al sole e la

lunga chioma al vento, che si precipitava a salvarla. E mentre tigri selvagge balzavano contro il

cassone fra le dune, il giovane principe senza paura sopraggiungeva ad abbattere le belve. E poi la

sollevava sul suo cavallo bianco, mentre le sue povere vesti diventavano di velo e di pura seta

bianca e di broccato. E insieme si allontanavano a cavallo, al tramonto del sole.

Mentre la fanciulla piangeva ed era tutta presa dalla sua strana visione, il re del paese era a

caccia di tigri con i suoi ministri e i suoi arcieri. Il sole calava e lunghe ombre strisciavano nella

foresta come animali da preda. Gli uomini si accingevano a tornare al castello: ma il re vide

un‘ombra che passava velocemente, la sua freccia saettò come un uccello dall‘arco e scomparve

attraverso gli alberi. Si arrestò presso la cavità sabbiosa, ma invece di cadere al suolo rimase

sospesa vibrando, come se avesse colpito il bersaglio in una gara di arcieri.

Il giovane re girò il suo cavallo bianco e si gettò al galoppo nel folto degli alberi, coi lunghi

capelli al vento e la spada d‘argento sguainata incontro al destino che lo attendeva. I ministri lo

seguirono e i cacciatori chiudevano la schiera, portando una tigre in una reté. Quando vide la bella

fanciulla nel cassone il re si fermò. Rapidamente rinfoderò la spada e balzò al suo fianco, piegando

un ginocchio a terra e sorridendo a quella bellezza che singhiozzava davanti a lui.

―Vieni con me/‘ disse. ―Non ce più bisogno di lacrime. Io sono il re Ngadak Gyalpo, con me

sarai al sicuro da ogni pericolo.‖

Quand‘ella alzò gli occhi sul bellissimo giovane le parve che la visione si ripetesse, riconobbe il

volto e lo guardò con meraviglia e amore.

―Ti prego, salvami,‖ disse. ―Ho paura che un terribile destino mi attenda.‖

Gentile e paziente il giovane re l‘ascoltò raccontare la sua storia. Quando Dolma descrisse il

malvagio, Ngadak riconobbe il furfante che viveva nel suo regno. E mentre la fanciulla parlava,

l‘amore nacque nel suo cuore, e insieme all‘amore il desiderio di vendetta. Pose un braccio gentile

intorno a lei e un bianco mantello sulle sue spalle.

―Se tu lo desideri come lo desiderio io, noi ci sposeremo e tu sarai la mia regina‖ disse Ngadak

Gyalpo.

Il re si era innamorato subito della dolce fanciulla piangente, così come Dolma aveva amato

subito il giovane principe. Ngadak gridò istruzioni ai suoi uomini e poi insieme, sullo stesso

cavallo, Ngadak e Dolma galopparono nel felice crepuscolo. I cacciatori, prima di seguirli, posero la

feroce tigre nel cassone di legno e lo chiusero bene.

Kuma, il malvagio ladro, stava nella sua vecchia casa con la sua famiglia, mangiava e pensava

alla fanciulla che stava per rovinare. Diede uno sguardo severo al suo figlio maggiore, che lo

seguiva sempre come apprendista, e disse che voleva fare un‘offerta agli dèi del male, all‘ultimo

piano della casa, e nessuno doveva disturbarlo per nessuna ragione.

―E un‘offerta speciale, e anche se ci sarà del rumore voi dovrete ignorarlo,‖ disse. ―In nessun

caso dovete disturbarmi. Ora esco e quando sarò di ritorno voglio trovarvi tutti addormentati.‖

Tirò fuori il cavallo dalla stalla e lo attaccò al carro. La notte era nera e sinistra, le stelle

parevano pallide e lontane. Il cavallo correva nella notte, temendo la frusta che gli avrebbe sferzato

la groppa se rallentava il passo. Kuma era tutto felice, aveva gli occhi brillanti come un cane in

calore; tutti i suoi istinti lo spingevano verso le colline sabbiose, il cassone di legno e la bella

fanciulla e la notte di lussuria che aveva progettato. All‘ombra degli alberi il cavallo conobbe un

breve momento di riposo. Kuma sollevò il cassone, lo issò sul carro e poi tornò indietro, nella notte

nera, come un fantasma messaggero del diavolo.

Il cortile era scuro, solo una pallida lampada a olio illuminava la casa a due piani dove dormiva

la famiglia di Kuma. Il ladro ricondusse il cavallo nella stalla, lo strigliò rapidamente, gli diede un

sacchetto di biada: una goccia di gentilezza in un oceano di malvagità. Poi si prese il pesante

cassone sulle spalle e lentamente, uno scalino dopo l‘altro, lo trasportò all‘ultimo piano della casa,

nella stanza da letto dove una notte di piacere carnale doveva essere un‘offerta sacrificale ai demoni

del male.

Strappò il coperchio dal cassone, ma invece di una vergine piangente ne balzò fuori una tigre

feroce, assetata di sangue umano. Il perfido ladro urlò e chiese aiuto, chiamò il figlio, chiamò la

moglie, ma nessuno venne. Ferito e insanguinato lottava contro l‘enorme belva, ma ad ogni attacco

le ferite aumentavano, il sangue scorreva esaurendo le sue forze e ponendo fine alla sua inutile

malvagia vita. Mentre moriva, Kuma pensò agli ordini che aveva dato ai suoi familiari, e mentre la

tigre gli lacerava il cuore gli apparve come una visione la statua gigantesca: ma in quel momento

l‘ultimo soffio di vita lo lasciò. La tigre divorò il suo pasto, poi si addormentò sul soffice materasso

che era stato preparato per ben altri intenti.

I familiari si svegliarono all‘alba. Sulle loro teste potevano udire i ringhi e i grugniti di una fiera

bestia, ma non osavano entrare nella stanza dell‘ultimo piano, temendo la collera del padrone e i

tremendi castighi che infliggeva a chi osava disobbedirgli. Il figlio maggiore chiamò suo padre, e

così fece la moglie, ma l‘unica risposta che ricevettero fu un ruggito terribile, la voce di un animale

della foresta caduto in trappola. Infine il giovane apprendista raccolse tutto il suo coraggio e aprì

lentamente la porta della stanza del padre. La stanza era piena di sangue e brandelli di carne, la

morte pendeva nell‘aria: e la tigre ruggì, accingendosi a balzare sull‘intruso.

Il ragazzo riucì a far uscire la tigre da una finestra, che aprì cautamente dall‘esterno, e seguì con

lo sguardo la belva striata che si precipitò verso la sua tana nella foresta, di nuovo libera e con lo

stomaco pieno.

La sua famiglia pianse morto Kuma. Il fato, pensarono, aveva trasformato l‘anima del malvagio

in una tigre, e la belva subito dopo aveva divorato i] suo vecchio corpo, spazzando via le colpe del

passato per entrare in un libero futuro e in un diverso regno: un animale che trovava la felicità nel

mangiare e nel bere, ma che un giorno avrebbe conosciuto la freccia del cacciatore.

―Questa è stata una casa corrotta,‖ disse il figlio maggiore alla madre e ai fratelli che

piangevano. ―Ma ora abbiamo pagato il prezzo delle nostre colpe: è stata una lezione. Non

peccheremo mai più.‖

Il ragazzo sorrise alla madre. La donna vide nuove speranze nel futuro, vide la purezza negli

occhi che per tanto tempo erano stati velati dalla bramosia e dall‘odio. Il Signore Buddha aveva

dato loro un segno del suo infinito potere: una lezione che sarebbe durata per il resto della loro vita.

Dolma ora era una regina. I suoi cenci da contadina si erano mutati in sete. Invece di intessere

panni e tappeti per guadagnarsi il pane, ricamava con fili d‘argento e aghi d‘oro.

Ricamava uccelli così belli che si poteva sentire la loro dolce canzone, fiori così leggiadri che

parevano emanare un soave profumo: i minuscoli punti erano come fiocchi di neve, così fini e

delicati, eppure erano perfetti, ogni giro di filo identico all‘altro. Amava profondamente Ngadak e

dedicava la vita a farlo felice. Anche il re era felice. La sua amata era venuta a lui come un gioiello

in un fiore di loto, un vero dono delle misericordiose divinità che vagavano nella pace per i campi al

di là del cielo.

Insieme cavalcavano per le foreste: coglievano le fragole silvestri che brillavano tra le foglie

come rubini, bagnavano i piedi nei freschi ruscelli dei monti, vagavano senza meta, tenendosi per

mano, per colline erbose e piccole valli e poi tornavano ai loro cavalli che brucavano l‘erba

profumata di rugiada sotto gli olmi e i pioppi. Passavano le settimane, passavano le stagioni: le

prime nevi venivano a vestire i campi del loro splendente candore. Poi lentamente fondevano in

fanghiglia giallognola e minuscoli fiori spuntavano ad annunciare il risveglio della primavera. Ogni

cosa rinverdiva, veniva l‘estate e trapassava lentamente l‘autunno. Il ciclo ricominciava, senza mai

cessare, senza mai mutare.

Per tutto questo tempo Dolma era stata così felice che i genitori e il fratello erano stati relegati in

un angolo oscuro della sua mente. Ma un mattino si svegliò e la visione dei suoi vecchi genitori le

apparve davanti così vivida che pensò di dover lasciare il lussuoso palazzo per tornare all‘umile

capanna, miglia e miglia lontana nel regno confinante. Decise di viaggiare senza nessun‘altra

compagnia che il suo scudiero personale, perché si sentiva troppo a disagio di condurre il suo regale

sposo all‘umile capanna delle sue origini.

Parlò al re Ngadak del suo progetto ed egli, pur desiderando ardemente di accompagnarla,

consentì infine a lasciarla andare con un solo scudiero. Si fermò sulla soglia del palazzo a osservare

con una certa apprensione la sua amata che scompariva all‘orizzonte, fra le grandi montagne che

eternamente vegliano sui mortali impegnati a giocare gli strani giochi della vita ai loro piedi.

Il villaggio era cambiato. Le stradette sudicie ora erano lastricate, i negozi sembravano nuovi e

diversi. Dolma rallentò il passo, stupita di vedere tanta ricchezza là dove si aspettava tristezza e

miseria. Avanzava come in un sogno, il cavallo scivolava come su un cuscino d‘aria, dirigendosi

come per istinto verso il vecchio sentiero che una volta conduceva alla capanna di pietra, quella

casa ch‘essa ricordava con amore, malgrado le ricchezze conosciute poi. Cercò con gli occhi la

vecchia casa, ma al suo posto le apparve un grande palazzo bianco, splendente alle luci del

tramonto.

Quando la regina si avvicinò alla bianca dimora, suo padre e sua madre le vennero incontro.

Tashi li seguiva come un nobile principe, con un elegante mantello di seta spinto un po‘ da parte a

mostrare un fodero d‘oro tempestato di gioielli e l‘elsa di una spada d‘argento. I capelli grigi dei

suoi anziani genitori ora erano neri, le rughe degli anni erano sparite, l‘aspetto smunto del povero

era sostituito dalla floridezza del ricco. Dolma si precipitò nelle braccia dei genitori, mentre lo

scudiero si guardava intorno smarrito, come un ospite non invitato a una festa di nozze. Gli avevano

parlato di povertà, ma ora non vedeva nulla di povero.

Dolma ora non si vergognava più di invitare il re e il seguito alla casa dei suoi genitori, e mandò

indietro lo scudiero per invitare tutta la corte. Quando il re arrivò, cominciarono i festeggiamenti.

Egli fu felice di conoscere Dorjee, Choma e Tashi, e li trovò tutti nobili, simpatici e brillanti. Vi

furono musiche e danze, vini e cibi squisiti. Per sette giorni e sette notti il palazzo accolse una festa

continua, quale non si era mai vista prima; e gli ospiti gioirono di ogni nuovo giorno, di ogni nuova

sorpresa che veniva loro offerta. La bianca dimora pareva incantata.

L‘ottavo giorno fu tempo di tornare. Il re partì sul bianco destriero come un crociato, coi suoi

scudieri che lo seguivano in una nube di polvere, dietro la bandiera d‘oro che fluttuava nell‘aria

come la vela di un galeone. Ma Dolma rimase con i genitori per un giorno ancora: anche il suo

scudiero era partito col re, per lasciare che la famiglia si dicesse addio nell‘intimità.

Quella settimana era sembrata un anno. Un incantesimo aveva trasformato la casa; il re e i suoi

scudieri erano vissuti in un sogno, strano sogno romantico dove tutto appariva inspiegabilmente

giusto e naturale. Era la notte del plenilunio. Gli animali cantavano le loro canzoni d‘amore, al

disco della luce che splendeva nel cielo. Le stelle brillavano, come borchie d‘argento su un sipario

di velluto. Le montagne si ergevano alte e superbe in lontananza, catena di picchi bianchi come

denti che scintillavano al sole notturno.

La regina Dolma aveva una stanza speciale. Le pareti e il pavimento erano bianchi, il soffitto era

azzurro come il cielo, piccole candele la illuminavano. Un bianco materasso di piume era coperto

da un copriletto di seta. Di fronte v‘era un altare, dove alcune lampade brillavano nel buio e le

ciotole d‘argento riflettevano le sette piccole fiamme che ne lambivano il burro trasparente. Dietro

le lampade c‘era il Buddha, la statua gigantesca che aveva silenziosamente vegliato sulla vita degli

uomini, sull‘eterno ciclo di nascita, vecchiaia e morte, che continuamente ricomincia senza mai

cessare: la ruota della vita che gira senza fine contemperando il bene e il male, la sofferenza e la

felicità, gli anni di prosperità e gli anni di miseria. E ogni uomo può determinare il proprio futuro

col suo modo di vivere in ciascun giorno della sua vita.

La fanciulla s‘inginocchiò davanti alla statua gigantesca, così come aveva fatto tante volte in

quella che pareva ora un‘altra vita, un‘altra era: la povertà prima che il fato avesse voltato la carta

vincente. Ringraziò il Signore Buddha per il bene che le aveva prodigato, per la felicità che le aveva

consentito di godere, per i genitori che significavano tanto per lei. E si sdraiò tranquilla sul

copriletto di seta. La sua mente era libera da sogni, il suo corpo rimase immobile, come se fosse

caduta in coma, e il torrente di pensieri che passano nella nostra mente mentre dormiamo si fosse

placato.

Il sole era già alto nel cielo quando Dolma aprì gli occhi. Si sentiva ristorata, la sua mente era

pura. Il bianco palazzo era scomparso: la fanciulla era tornata nella casetta di pietra dei suoi

genitori. Ma Dorjee e Choma non erano più nobili signori dal florido aspetto; erano morti da molti

anni. Il bel giovane signore che l‘aveva salutata come un fratello otto giorni prima aveva lasciato da

gran tempo il villaggio per sposare una contadina. Ora aveva dei bambini e aveva da affrontare tutti

i problemi che affliggono i poveri, che avevano afflitto suo padre per tutta la vita. Ma l‘istinto le

disse di non rattristarsi, come l‘istinto le aveva detto queste cose in quella notte senza sogni.

Anche la statua di legno di sandalo del Signore Buddha era scomparsa. La stanza era ancora

buia, ma vi penetravano i raggi del sole in lame sottili. Al posto dove per tanti anni era stata la

statua vi era un gioiello scintillante, una piccola gemma magica che splendeva nel sole: una

reincarnazione venuta dal cuore dell‘antico intaglio, un messaggio inviato dagli dèi.

Dolma ripensò alla settimana di feste. Era stata solo una visione, un sortilegio per compiacere e

illudere Il re suo marito. Dolma aveva ricevuto il premio della fede dei suoi genitori. Le pareva di

vedere ancora la statua come le era apparsa nella bianca stanza la notte precedente: e le sembrò di

vederla svanire come un‘ombra, mentre il minuscolo gioiello brillava ai raggi del sole. La fanciulla

si inginocchiò davanti al gioiello, nel luogo dove era stata una volta la statua, e ringraziò la potenza

di Buddha e levò a lui come un‘offerta il suo cuore e la promessa di irradiare il bene a tutti gli

uomini del mondo.

Dolma pose l‘amuleto incantato in una borsetta di pelle e uscì dalla stanza buia. Il suo cavallo

l‘aspettava, con qualcosa di simile a un sorriso sul muso fedele. La brezza li spinse nel loro

cammino, soffiando nei neri capelli che fluttuavano nell‘aria, morbidi e gentili come una tela di

ragno. Gli alberi si inchinarono quando il cavallo saettò per il valico: la lunga cavalcata era stata

come un battito di ciglia. Il palazzo di re Ngadak apparve all‘orizzonte e Dolma fu felice di essere

tornata a casa, a una incantata pacifica vita di bontà.

Il re uscì incontro alla sua sposa. Dolma aveva l‘aspetto di una dea, di una santa che avesse

intravisto la pace dell‘illuminazione. Il re la prese fra le sue braccia e la condusse al palazzo, al

focolare ch‘essa amava.

―Ho un dono per te,‖ disse la regina, ―un piccolo dono totale che viene dai miei genitori.‖

Dolma diede a Ngadak la gemma scintillante e gli disse che aveva il potere di fare del bene,

poiché aveva in sé la bontà che i suoi genitori avevano sempre avuto. I suoi genitori erano partiti,

disse, per un lungo viaggio che sarebbe terminato nell‘eternità. Solo Buddha e il gioiello magico

condividevano il suo segreto.

FIORI DI CARTA

Un giovane principe passeggiava tutto solo nei giardini che circondavano il palazzo. Sentiva il

dolce profumo di mille rose, il caprifoglio si arrampicava su pergolati di legno di sandalo, piccoli

fiori brillavano come gemme sui prati di velluto verde, rossi, blu, gialli, miriade di petali in una

miriade di colori. Il giovane raccolse un bocciolo di rosa, aspirò il suo gentile profumo. I suoi occhi

si chiusero: nel pensiero gli parve di tenere la sua amata fra le braccia, la pelle della morbida

guancia sfiorava il suo volto, le sue dolci labbra si schiudevano, il suo bacio lo teneva immobile

come una statua, mentre il suo cuore godeva la pace e la felicità totale dell‘amore. Aprì gli occhi: i

fiori ondeggiavano alla brezza gentile, minuscole campanule si aprivano lungo la siepe che divideva

i giardini dalla foresta. Il principe continuava a camminare, ma il suo cuore era pesante, la sua

mente triste. Tutto ciò ch‘egli desiderava era lontano: in un altro regno, in un altro mondo.

Ogni giorno il principe Se Magen Gyalu covava da solo il suo dolore, si abbandonava ai suoi

ricordi. Non si avventurava mai al di là delle porte del palazzo né cavalcava nelle campagne né

parlava di cacce e cavalli, di battaglie e vittorie. La sua vita era semplice, più semplice di quella dei

contadini che lavorano nei campi. Il principe era innamorato, ma il suo amore non poteva essere

nutrito e coltivato, il suo corpo non poteva sentire l‘unione che il suo pensiero costantemente

immaginava. Passeggiava lentamente per i leggiadri giardini e guardava i fiori. Ogni giorno

osservava come crescevano, camminava fra le aiuole passando con i piedi leggeri fra le delicate

corolle variopinte che sorridevano al sole. Lei amava i fiori. E guardando i fiori il principe vedeva

lei, vedeva il suo volto nei teneri petali, il suo sorriso nello sbocciar di una rosa, le sue morbide

labbra erano come la rugiada che brilla al mattino prima che il sole sia alto nel cielo.

Il re era molto preoccupato per suo figlio. Lo guardava camminare lentamente nei giardini, col

volto solcato e depresso, i gesti spenti. Era come se il giovane si fosse ritirato nel suo mondo

interiore, un mondo in cui nessun altro esisteva, tranne il suo amore. Il re ne parlava con la regina,

che comprendeva gli affari di cuore molto meglio di lui: e insieme riflettevano sul problema, ma

pareva che non ci fosse risposta.

La fanciulla di cui il figlio del re era così follemente innamorato era Semo Dungliki, figlia del re

del vicino reame. I due stati in quel momento non erano in guerra, ma restavano nemici: le guerre

combattute nel passato avevano alzato una barriera permanente fra i due paesi, che i sudditi

potevano anche valicare per affari o per piacere, ma non i membri della casa reale: per loro la

barriera era alta e insormontabile e non se ne parlava neppure.

Tuttavia il principe Magen l‘aveva oltrepassata. Mentre cavalcava come il vento per le

campagne, senza accorgersene aveva superato il confine fra il regno di suo padre e quello del re

Gyaltri Gyalpo. Il giovane principe non l‘aveva fatto espressamente: non si era mai preoccupato

delle guerre, dei vecchi giorni penosi ch‘egli sperava ormai dimenticati, sepolti nei nuovi ideali del

futuro. Continuò a cavalcare per i campi finché arrivò a un lago. L‘acqua era limpida e azzurra: egli

si fermò mentre il suo cavallo beveva le fresche onde che lambivano le rive. In lontananza vide una

bella fanciulla che si bagnava e cantava insieme alle sue ancelle. La fanciulla alzò la testa, vide il

principe e i loro occhi catturarono ciascuno il cuore dell‘altro. I due giovani erano innamorati. Il

principe spronò il cavallo, corse come il vento nel cielo e quando la fanciulla uscì dal lago si gettò

ai suoi piedi e le chiese la sua mano di sposa.

―Sì,‖ essa rispose, ―tu sei il Dio dei cieli che è vissuto per tanto tempo nei miei sogni.‖

―Anche tu vivevi nei miei sogni. Ora noi ci siamo trovati e non ci separeremo mai più.‖

Il principe disse il suo nome. Il volto della fanciulla si rattristò.

―Ma io sono la principessa Semo Dungliki, la figlia del n re.

Le ancelle e gli scudieri, come un esercito di spie, guardavano e ascoltavano, pronti a riferire

ogni cosa al re, avidi dei favori che costui gli avrebbe prodigato. I due giovani erano tristi nel cuore,

ben sapendo che non avrebbero mai potuto unirsi. I loro sogni erano divenuti realtà, ma il loro

amore non avrebbe mai potuto fiorire.

Il principe chiese al padre il permesso di sposare la fanciulla, e la principessa naturalmente fece

lo stesso con suo padre: ma la risposta fu un ―no‖ irrevocabile in entrambi i regni. Furono spediti

messaggeri da un paese all‘altro. La principessa, diceva il re Gyaltri Gyalpo, non avrebbe mai più

avuto il permesso di recarsi al lago: e il principe vicino non avrebbe mai più dovuto metter piede nel

suo regno. Anche il padre del principe mandò ovunque messaggi del genere. Le vecchie ferite si

erano riaperte, le cicatrici tornavano a sanguinare. Vecchi ricordi si mutavano in nuove paure, gli

odi del passato divenivano angosce del futuro. Il principe Se Magen Gyalu e la principessa Semo

Dungliki non avrebbero potuto incontrarsi mai più.

Passarono molti mesi. Un giorno il re fece venire suo figlio nella sala del trono. Gli disse che

avrebbe dato il suo permesso al matrimonio, ma temeva che il re Gyaltri Gyalpo non sarebbe stato

d‘accordo.

―Le ferite delle antiche guerre sono penetrate più profondamente di là dai confini,‖ disse al

figlio. ―Se tu riesci a sanare quelle ferite, o a convincere Gyaltri, la principessa sarà tua.‖

Il principe Magen tornò nelle sue stanze con nuove speranze: un peso era caduto dalle sue spalle,

un sottile bagliore di luce era comparso all‘estremità del tunnel d‘amore. Gli pareva di sentire la

principessa vicino a sé, la sua morbida carezza sul suo viso, il suo sorriso che gli scaldava il cuore.

Il principe ben sapeva che non poteva andare così semplicemente al palazzo del re nemico e

chiedergli la mano di sua figlia: ma non sapeva in quale altro modo comportarsi. Pensò tutto il

giorno, e la notte giacque sveglio, assillato da questo nuovo problema, che veniva a sostituirsi

all‘antico: ma ora, almeno, il suo cuore era nuovamente vivo, rinvigorito dalle gentili parole del

padre. Ogni problema, diceva a se stesso, doveva avere una soluzione, e perciò non era più un

problema.

Il giorno dopo il principe di buon mattino lasciò il palazzo — era il primo passo che da lunghi

giorni muoveva fuori dalle sue mura — e si lanciò al galoppo nella luce del giorno nascente, verso

le montagne. La notte di veglia lo aveva ricompensato con un‘idea: un filo di speranza lo guidava

verso le montagne, mentre la luce si faceva un po‘ più chiara, un po‘ più forte. Il minuscolo seme

della speranza stava crescendo.

I raggi sottili del nuovo giorno penetravano attraverso le nere cortine di velluto della notte,

illuminando le campagne e il sentiero che correva tra alte siepi, le fattorie e gli animali ancora

addormentati, alcuni già in piedi, alcuni intenti a ruminare il cibo brucato il giorno prima. Le alte

montagne erano ancora lontane, al di là della pianura sparsa di fattorie e di borgate dove la gente

viveva una vita convulsa di commercio e di affari, e dei piccoli villaggi dove si poteva pascere il

cavallo, riposare all‘ombra di un albero, mangiare i buoni cibi che le contadine cucinavano per i

forestieri che passano come il girare del tempo.

Via via che il giorno avanzava le fattorie si facevano più rade, le foreste si infittivano, il terreno

diventava sterile e freddo, il pulsare della vita diminuiva fino a scomparire. Gli alberi erano

sostituiti da aspre rocce, picchi coperti di neve, caverne e strane rupi che parevano intagliate dalle

dita stesse del Tempo. Il principe Magen lasciò il cavallo a pascolare sotto un albero e cominciò ad

arrampicarsi saltando d‘un balzo torrenti veloci che si precipitavano verso il piano come se fossero

inseguiti da qualche nemico nascosto. Le rupi si fecero più ripide, la scalata più difficile. Il giovane

si tagliava le mani, i piedi gli doloravano, le vesti si laceravano impigliandosi nei massi aguzzi che

sporgevano dal sentiero come sentinelle, come guardie che ammonissero gli intrusi, i visitatori

incauti venuti a turbare la pace dei pendii nevosi; il vento taceva e aspettava.

Su un ciglione di marmo era seduto un uomo. Non era né vecchio né giovane, il suo volto era

quieto, il suo corpo rilassato come una scultura in legno: ma i suoi occhi sorridevano e quasi

ridevano mentre custodivano i segreti della vita come in un profondo pozzo, il pozzo della saggezza

che tutto conosce. L‘uomo era un saggio, un santo mago che poteva cambiare il moto della terra,

arrestare lo scorrer dei fiumi: sapeva parlare agli uccelli e ascoltare i messaggi che gli dèi

affidavano ai venti. Longpo Rig Pachen poteva far splendere il sole in un giorno di tempesta, poteva

far scendere le piogge dalle nuvole, le stelle dal cielo. Poteva guardare un uomo e leggere nei suoi

pensieri: nessuna menzogna poteva ingannarlo, nessuna minaccia poteva impaurirlo. Era vicino agli

dèi, anzi alcuni dicevano ch‘era egli stesso un dio, un dio vivente che osservava l‘uomo e i suoi

errori, senza mai ridere, senza mai aiutare, solo pensando.

Longpo Rig Pachen guardò il principe coi suoi benevoli occhi che tutto sapevano: egli vedeva il

dolore che spezzava il cuore del giovane, e ne soffriva. Soffriva per il mondo, il suo dolore era la

sofferenza del mondo, la sofferenza degli uomini. E la sua gioia consisteva nelle loro gioie, nelle

loro speranze e ambizioni.

―Sono venuto a chiedere il tuo aiuto e il tuo consiglio,‖ disse il principe.

―Lo so,‖ rispose Longpo, sorridendo con comprensione.

Il vecchio saggio ascoltò quietamente il principe che gli spiegava tutta la storia. Egli ben sapeva,

disse il principe che Longpo non lasciava mai le montagne e semplicemente vegliava. Lo faceva per

salvare qualcuno che lo meritasse, per salvare il mondo quando qualcuno cercava di distruggerlo. I

due regni erano stati in guerra per molte generazioni, molti uomini erano morti sui campi di

battaglia dell‘odio, il sangue dei deboli aveva macchiato le mani dei forti. Un matrimonio fra le due

nazioni avrebbe potuto salvare migliaia di vite innocenti. Il principe continuava la sua lunga storia,

e diceva delle guerre, dell‘incontro, dell‘amore che legava i due giovani; il saggio ascoltava e a un

certo punto alzò la palma di una mano: ―Io ti aiuterò, ma anche tu devi aiutare te stesso.‖

Il principe dormì sullo stretto ciglione di marmo, mentre il saggio sedeva pensando, osservando

le stelle passare per le vie dei cieli, la sottile falce della luna calante muoversi a lenti passi, gli

ultimi passi della vecchiaia prima della nascita della luna nuova. Quando il principe si destò,

Longpo Rig Pachen era ancora seduto perfettamente immobile, la sua posizione non era cambiata.

Le stelle erano tramontate, il sole sorgeva da dietro gli alberi, la neve sulle cime dei monti

splendeva come biancheria appena stesa o come marmo lavato da un milione di mari. Mangiarono

noci e datteri, cibo semplice ma puro, il cibo di un filosofo. Poi il principe scese a fatica giù per il

sentiero cosparso di sassi aguzzi, mentre il saggio camminava a suo agio, senza sentire le rocce

taglienti che feriscono la carne. Il principe ritrovò il suo cavallo e insieme avanzarono, l‘uomo,

l‘animale e il saggio, viaggiando lentamente verso la città e i villaggi e gli uomini che vivevano

nelle terre lontane.

Nella prima città che incontrarono il principe Magen acquistò un cavallo bianco per il saggio.

Insieme cavalcarono verso lontani orizzonti, avanzando sempre più veloci senza mai rallentare,

senza fermarsi per mangiare o riposare. Cavalcavano col vento, le chiome e le criniere ondeggianti

nella brezza, le rapide zampe senza riposo, sicure come macchine. Passarono le grandi città, i

villaggi e le fattorie, gli animali nelle stalle. La gente guardava i due cavalli che passavano volando,

un principe e un uomo splendente, né vecchio né giovane, impolverando i passanti che guardavano

le due saette sparire all‘orizzonte. Passarono le colline, la grande capitale dove sorgeva il palazzo

reale circondato dalle alte dimore dei ministri, avanzarono sempre più veloci verso le montagne che

separavano un reame dall‘altro, oltre le fitte foreste della terra di nessuno, verso il palazzo della

principessa amata, verso il paese dell‘antico nemico che improvvisamente appariva come carico di

promesse.

Quando la notte cadde come un manto nero sul paese, il principe e il saggio arrivarono in un

piccolo villaggio non lontano dalla capitale e dal palazzo del re Gyaltri Gyalpo e della regina

Lhazema.

Il saggio additò una piccola casa e disse al principe di bussare e chiedere ospitalità per la notte.

Una luce calda brillava alla finestra, un filo di fumo si levava da un solo camino, un profumo di

domestica pace filtrava dalle fessure della porta.

―Siamo mercanti in viaggio,‖ disse all‘anziana signora che venne ad aprire. ―Le saremmo grati se

volesse darci un posto dove dormire in questa fredda notte, e un po‘ di cibo per riscaldare il freddo

che abbiamo dentro.‖

L‘anziana donna era Ama Gomakyi, una persona gentile che era sempre pronta a offrire calore e

cibo ai visitatori. Accolse i due forestieri nella sua casa, pose sul fuoco altra legna e un bricco per il

tè. Chiese loro da dove venivano e lo scopo della loro visita: le domande cortesi e inutili che gli

estranei fanno quando non c‘è niente da dire. Il principe rispose con un vivace racconto di cosa

intendevano fare, di come ammiravano il paese, di come erano lieti di aver trovato una casa così

ospitale per passarvi la notte. Longpo Rig Pachen sedeva in silenzio, col viso quieto e il respiro

silenzioso, pensando. Mentre la donna continuava a parlare, si venne a sapere che sua figlia era una

delle ancelle del palazzo, che Ama Gomakyi spesso vi si recava a visitarla e conosceva la

principessa Dungliki.

Il principe la guardò con gli occhi sbarrati e un‘espressione stupita sul viso. Longpo Rig Pachen

si limitò a sorridere del suo sorriso di vecchio.

―Il mio amico ed io saremmo lieti di offrire uno speciale fiore di carta alla principessa,‖ disse il

saggio. ―Potresti portarglielo in dono?‖

Ama Gomakyi naturalmente consentì: sapeva che i fiori erano la passione della principessa, sia

che venissero dalla terra o dalla mano dell‘uomo. I tre continuarono a parlare, bevvero tè e

mangiarono pane, si scaldarono al fuoco le mani fredde e dormirono avvolti in coperte, il principe

sognando i sogni dell‘uomo innamorato, il saggio contemplando le pene del mondo. Quando sorse

il mattino il fiore di carta era già fatto, come per magia. Era più bello delle rose che crescevano nei

giardini del principe, e più delicato dei sottili fili d‘argento che il ragno intrecciava tessendo la sua

tela. Dopo aver preparato la colazione ai due ospiti, Ama Gomakyi partì, col bel fiore di carta in una

scatola di vetro, per recarsi al palazzo.

L‘anziana signora fu accolta dalla figlia e condotta alle stanze private della principessa. La

bellissima fanciulla era sempre triste, pensava continuamente all‘uomo che amava, e al giorno in cui

i suoi sogni erano divenuti realtà sulla riva del lago. Pensava alla crudele decisione di suo padre, ai

messaggeri che erano corsi fra i due regni portando la morte a un amore appena nato e distruggendo

le sue speranze.

Quando Ama Gomakyi le offrì la scatola di vetro col fiore di carta gli occhi della fanciulla

brillarono come stelle in una notte profonda. Poi la vecchia spiegò come due stranieri di nobile

aspetto fossero giunti misteriosamente di notte, come di notte avessero fatto quel fiore, ch‘essa

appunto quel mattino portava in dono. Le due stelle brillarono più luminose, la nube nera che

gravava sul cuore della fanciulla si sollevò lentamente ed essa sorrise, e poi rise francamente alle

storie della vecchia e ascoltò con profonda attenzione quando Ama le descrisse il giovane e l‘uomo

saggio che parlava così poco.

Quando l‘anziana signora se ne andò, la principessa Dungliki tolse il fiore dalla scatola di vetro.

E mentre così faceva i delicati petali si aprirono come un rotolo, lo stelo e i petali divennero

improvvisamente una cosa sola, ed ecco il fiore era scomparso e al suo posto la fanciulla si trovò in

mano un foglio di carta coperto di una bellissima scrittura. E lesse le tenere parole: ―Il mio amore è

eterno e presto conquisteremo la felicità.

Dipende da te aiutarmi mentre lottiamo per la nostra vita.―

Leggere quelle parole d‘amore fu per la fanciulla come trovare il vaso del tesoro che sta nascosto

sotto i colori dell‘arcobaleno. Il suo principe stava arrivando, ora essa doveva aiutarlo nei suoi piani

segreti…

Quando Ama Gomakyi rientrò nella sua casetta al villaggio i due eleganti forestieri erano ancora

là. Magen chiese se la principessa aveva gradito il fiore, e la vecchia disse che l‘aveva resa più

felice di qualsiasi cosa vedesse da molti mesi.

―Il suo sorriso era come la luce del sole,‖ disse.

L‘anziana signora preparò il cibo per gli ospiti, e quando tutti ebbero mangiato Longpo Rig

Pachen tirò fuori un altro fiore di carta, ancor più bello e più delicato del primo. I petali erano come

la lieve rugiada del mattino, lo stelo sottile come l‘impronta dei piedi di una fata. Lo strano ospite

che parlava così poco chiese se la vecchia pensasse di tornare ancora una volta al palazzo, con un

secondo dono per la principessa. Ama Gomakyi partì nel primo pomeriggio col fiore di carta nella

scatola di vetro: e pensava fra sé a tutte quelle strane cose: i fiori, i forestieri, la principessa, il

sorriso simile a un raggio di sole.

Quando la vecchia si avvicinò al palazzo la principessa mandò via le sue ancelle e chiuse a

chiave la porta della sua stanza. Si avvicinò al lungo specchio che stava vicino alla finestra e si

dipinse metà della faccia in nero e l‘altra metà in bianco. Si intrecciò i capelli in tre trecce, due

dietro la testa e una che pendeva disordinatamente sulla fronte. Quando la vecchia bussò alla porta,

la principessa Dungliki aprì, afferrò il fiore, guardò lontano dalla povera Ama Gomakyi verso la

porta dell‘ala est e la colpì in faccia con il piccolo specchio d‘oro che teneva in mano.

La vecchia tornò stancamente a casa, triste e insieme sdegnata pensando alle molte cose strane

che erano capitate da quando il giovane gentiluomo e il suo silenzioso compagno erano arrivati alla

sua casetta. Pensava ai fiori di carta, all‘abile mano che doveva averli fatti, pensava alla principessa,

alla sua faccia bizzarramente dipinta, allo schiaffo che le aveva dato, alla collera che aveva

sostituito il sorriso, a quei capelli che pendevano stranamente scompigliati, allo sguardo distante

rivolto verso la porta: e il problema si faceva sempre più complesso.

―Io sono troppo vecchia per questo genere di scherzi,‖ disse ai suoi ospiti quando arrivò a casa.

―Fiori di carta e schiaffi in faccia, tutto questo è così terribile che non si può neanche raccontarlo.‖

Il principe Magen divenne accigliato; era in pena per la sua amata e le strane cose che erano

successe. Longpo Rig Pachen si limitò a sorridere col suo sorriso che tutto sapeva, mentre il

principe lo guardava con tristi occhi interrogativi. Sempre più disperato, guardava storto quello

stregone fabbricante di fiori, senza sapere se piangere o lamentarsi, se rinunciare alla sua ridicola

impresa o cercar di fare a modo suo, andando a chiedere udienza al re.

Quando la vecchia lasciò la stanza il saggio della montagna guardò intensamente il suo reale

novizio e sorrise con uno sguardo umano nel volto quasi sovrumano.

―Non preoccuparti per la tua amata, perché tutto va bene,‖ disse al principe.

Nuove speranze si accesero come una fiamma negli occhi del giovane, che riprese fede nel

vecchio saggio che aveva fatto tanto, e tuttavia sembrava restar seduto senza far nul-l‘altro che

pensare. E la speranza crebbe quando il saggio cominciò a spiegare il senso dei gesti della

principessa. La fanciulla, disse, non poteva rispondere apertamente ai messaggi che aveva ricevuto,

a causa delle molte spie che si annidavano nel palazzo, dove ogni parete aveva occhi e ogni fessura

aveva una lingua che avrebbe mormorato tutto all‘orecchio del re. Anche un messaggio scritto

sarebbe stato intercettato, e così la principessa doveva esser cauta: e cauta era.

―Il lato dipinto in nero del volto della principessa significa che tu dovrai vestire abiti neri e

andare da lei di notte,‖ disse sorridendo l‘uomo della montagna. ―Il lato bianco significa che la

principessa ti ama ancora. Ha guardato la porta dell‘Est perché devi andare a incontrarla per quella

porta, e lo specchio significa che devi andarvi quando la luna è alta nel cielo.‖

―Ma i capelli,‖ chiese il principe, ―i capelli, che cosa significano?‖

―Ah, sì,― replicò Longpo Rig Pachen, ‗Tunica treccia sulla fronte significa che devi andare al

palazzo da solo.‖

Il principe si vestì di nero, col giovane cuore felice: la sua amata era ormai nelle sue braccia, era

venuto il momento della felicità, il giorno che aveva tanto atteso. Si precipitò dal suo maestro per

salutarlo, ma Longpo Rig Pachen aveva altre istruzioni da dare al suo pupillo.

Il saggio spiegò che il solo fatto di rivedere la principessa non avrebbe portato i due regni più

vicini alla riconciliazione. Il principe aveva molte altre cose da fare e ogni istruzione doveva essere

seguita con precisione, se la coppia voleva godere della felicità. Il principe doveva corteggiare la

sua donna, offrirle vino e farla felice, libera da ogni pena, ma nello stesso tempo doveva conservare

la sua lucidità di mente, doveva pensare e ricordare le istruzioni. Quando la fanciulla fosse inebriata

dal forte vino, egli doveva rubare i suoi gioielli, pungere le sue gambe con un tridente a tre punte e

quindi correre via.

Longpo Rig Pachen diede il tridente al principe, che era assai sorpreso dalle strane indicazioni

ricevute; ma aveva fede nel suo maestro. Promise di fare esattamente come gli era stato detto, prese

il piccolo tridente e si accomiatò. Si allontanò a cavallo nella notte silenziosa; il sommesso clip clop

degli zoccoli risuonava sull‘acciottolato delle vie del villaggio, si attenuava sulle piste terrose dei

campi, fra i silenziosi alberi neri sagomati dalle lievi iridescenze bianche e dorate della luna che

saliva lentamente nel cielo. Dalla campagna entrò nelle vie della grande città, dove si udì di nuovo

risuonare il clip clop degli zoccoli sulle strade lastricate, l‘uomo e il cavallo si addentrarono come

una sola ombra lungo i muri dei grandi edifici cittadini, le eleganti dimore dei ricchi e dei potenti.

Ogni cosa qui, pensò il principe, era simile a quella della sua stessa capitale, gli uomini e le case, i

ministri e i palazzi, i mendicanti che non hanno pane e i ricchi che mangiano troppo. Sempre la

stessa cosa, ogni angolo del mondo aveva gli stessi problemi, godeva gli stessi piaceri. Il giovane

principe giurò a se stesso che le guerre sarebbero divenute una cosa del passato, e il futuro avrebbe

goduto della stessa pace che si vedeva nei profondi occhi di Longpo Rig Pachen.

Nascose il cavallo in un folto d‘alberi presso la porta dell‘ala est del palazzo reale, come un ladro

notturno: perché questo in realtà egli era. Strisciò verso la porta, bussò una volta, col colpo leggero

del picchio che china la testa nel sonno: e la principessa era là, non più un sogno ma una realtà. Il

giovane la strinse fra le braccia, mordendosi la lingua nella speranza che il sogno non terminasse,

non svanisse all‘aprirsi degli occhi grevi di sonno, rivelandogli che tutto era un miraggio della

notte. Ma il sogno era vita, il momento più alto della vita: il giovane e la fanciulla, il principe e la

principessa erano alfine stretti l‘uno all‘altra come naufraghi afferrati a una tavola di salvezza.

Camminarono come ombre, come una sola ombra, verso il boschetto, verso gli alti alberi che non

avevano orecchie e non avevano lingua, lontano dagli occhi dei cortigiani, spie del sovrano: quel

tristo sovrano che conservava lunghi rancori e inguaribili ferite. Insieme bevvero il dolce vino, il

nettare dell‘amore che il principe aveva portato con sé in un orcio, mentre la notte di luna cullava i

sensi e riaccendeva la loro passione.

Ma mentre la notte avanzava e la luna si avviava al termine del suo lungo viaggio notturno, le

istruzioni che il mago aveva dato al principe gli tornarono in mente. Tenendo la principessa fra le

braccia, egli pensò alla delusione che avrebbe dovuto darle, pregò che quel momento durasse un

milione di anni, finché i mari del tempo non avessero coperto la terra. Ma il tridente a tre punte gli

pendeva dalla cintura, ammonendolo che se non seguiva le istruzioni del maestro non avrebbe mai

più riafferrato quell‘ultimo breve momento. Quell‘ora insieme alla luce della luna calante sarebbe

stata l‘ultima.

La fanciulla era inebriata dal magico vino, la sua mente vagava fra le stelle che brillavano alte

nei cieli, là dove gli dèi giocavano e osservano gli uomini. Bruscamente il principe le strappò i

gioielli come un ladro con un gesto rapido e disperato. Li gettò in una borsa di cuoio, e prima di

precipitarsi in sella al suo cavallo punse col tridente la gamba della fanciulla. Quindi saettò via

come un‘ombra nella notte. La principessa sbarrò gli occhi sul vuoto, sull‘ombra indistinta che

svaniva nel mantello trascolorante della notte. Tornò a lenti passi verso la porta dell‘ala est,

zoppicando e toccandosi le tre piccole ferite, con nel cuore una pena pari a tre squarci giganteschi.

La mattina dopo la principessa Dungliki era malata e profondamente depressa. Il re era abituato

al volto triste della figlia, che non era più felice dal giorno in cui aveva incontrato il principe sulle

rive del lago: ma ora il suo stato era molto peggiore. Nella sua depressione la principessa non

faceva che pensare a quella strana notte: pensava ai fiori di carta, al vino inebriante, al furto di quei

due o tre gioielli. Tutto questo non aveva senso. Lei amava ancora più profondamente il principe dei

suoi sogni e pregava tacitamente in segreto che tutto andasse per il meglio. E disse al padre che un

ladro comune l‘aveva derubata durante la notte.

Anche il principe era triste. Far male alla donna amata era l‘ultima cosa che potesse desiderare

sulla terra, ma aveva il saggio che lo guidava. Bisognava placare le onde dell‘odio che passavano da

un regno all‘altro, abbattere le muraglie di terrore che i loro progenitori avevano costruito. Longpo

Rig Pachen chiese al principe se tutto era stato fatto a dovere. Era contento del suo regale allievo e

gli disse di raccogliere le sue cose e congedarsi da Ama Gomakyi. Il principe le diede cinque

monete d‘oro per pagare il loro cibo, la ringraziò delle sue cortesie e col saggio maestro al fianco

spronò il cavallo e si allontanò dal villaggio.

Arrivarono a un grande vecchio cimitero. Il maestro diede al suo protetto un‘altra serie di

istruzioni e quindi si allontanò nella chiara aria del mattino, come un dio su un magico destriero.

Aveva detto al principe di liberarsi del cavallo, di gettar via le vesti di seta e gli ornamenti

principeschi e di mettersi a meditare lì nel cimitero, col tridente al suo fianco e le istruzioni in

mente.

Il vecchio saggio aveva preso con sé i gioielli della principessa, e in ogni città o villaggio dove

passava vendeva una gemma, un piccolo pezzo d‘oro, qui una perla e là un diamante. Alla fine di

quel giorno la maggior parte degli orefici del regno avevano un frammento dei gioielli della corona:

e il re ben presto lo venne a sapere. Longpo Rig Pachen fu catturato da cento guardie del palazzo,

legato con grosse cinghie di cuoio e trascinato davanti al potente trono del re, per rispondere del suo

delitto.

Le guardie del palazzo erano schierate tutt‘attono alla grande sala, rigide e severe, con la polvere

del cammino ancora sugli stivali e un sorriso trionfante sui volti ancora sudici per il viaggio. I

ministri stavano ritti nelle loro ricche vesti, lo scrivano era seduto a gambe incrociate vicino a re, e i

suoi occhi stanchi parlavano del suo lungo servizio come segretario di corte. Il re era seduto sul

trono, cupo e incollerito: voleva sapere chi aveva osato derubare la principessa nella sicura cinta del

palazzo.

―Ma io sono soltanto un servitore, Vostra Graziosa Maestà,‖ disse Longpo Rig Pachen, senza

mostrare alcuna traccia d‘ansia o di paura nel suo liscio viso senza età. ―I gioielli mi sono stati dati

dal mio padrone, un dotto monaco che ora sta in meditazione nel cimitero.‖

Longpo Rig Pachen fu gettato in prigione nei più profondi sotterranei del palazzo, mentre le

guardie montavano sui loro stanchi cavalli e cavalcavano ancora una volta verso le campagne e

verso il monaco che meditava nel cimitero. Tornarono poche ore dopo, quando già il sole era

scomparso e gli uccelli tacevano, mentre i lupi della foresta ringhiavano e urlavano aspettando la

luna che illuminasse le loro sinistre imprese. Il re tornò sul suo trono, i ministri stanchi nelle loro

lunghe vesti circondavano come un arco il loro sovrano, il vecchio curvo scrivano sedeva a gambe

incrociate sul pavimento, con un rotolo bianco in una mano e una penna nell‘altra. Le guardie erano

ritte tutt‘intorno, ancora più rigide e sporche, coi sorrisi ancora più larghi, candidi denti in facce

macchiate di nero.

Il principe era in mezzo a loro. Il suo aspetto era grave e santo, onesto e pio. Ascoltò le rabbiose

accuse del re Gyaltri Gyalpo, poi rispose con voce quieta così come il suo maestro gli aveva

insegnato. I gioielli, disse, gli erano stati dati da uno spirito maligno nel cimitero la notte

precedente, lo spirito era entrato cantando nel cimitero buio con una borsa di gioielli in una mano e

un osso umano nell‘altra.

―Quando lo spirito mi vide, non sapeva cosa fare. Io sono un lama in visita e ovviamente non ero

atteso. Lo spirito mi diede i gioielli come un‘offerta e prima che se ne andasse io punsi la sua

gamba col tridente, in modo da marcarlo per il futuro,‖ disse il principe, mostrando al re il piccolo

tridente a tre punte.

Il re naturalmente credette a tutto ciò che il lama aveva detto. Benché riluttante, permise che il

suo servitore venisse liberato dai sotterranei, e insieme al giovane monaco prigioniero uscì

lentamente dal palazzo.

Passò del tempo. In tutto il paese fu dato ordine agli uomini più saggi di fare attenzione a uno

spirito con tre ferite in una gamba. Le guardie del palazzo cercarono nei boschi e nei cimiteri; e gli

occhi e le orecchie che lavoravano per il re divennero ancora più acuti e attenti, per cercare di

intrappolare lo spirito che aveva osato derubare la principessa. E le spie di palazzo sorvegliarono

ancora più strettamente la principessa, sperando che lo spirito notturno tornasse per un secondo

tentativo. Invece di una sola ombra la principessa Dungliki ne aveva ora molte e non sapeva mai se

l‘ancella che le stava dicendo parole gentili era una spia di suo padre o una semplice fanciulla che

voleva rendersi simpatica. Ma a poco a poco le prime notizie giunsero alle orecchie del re.

Un‘ancella aveva visto la principessa mentre faceva il bagno e aveva osservato il segno delle tre

piccole ferite, poi un‘altra vide la stessa cosa, poi una terza e una quarta. Il sovrano non voleva

credere alle sue orecchie e scacciò le spie da palazzo e dal regno, finché non ebbe sentito la storia

tante volte che non sapeva più cosa pensare.

Alla fine il re mandò i suoi messaggeri e le sue guardie a cercare il lama che aveva ferito lo

spirito del cimitero. Trovarono il principe Magen, ancora nei panni di un dotto monaco, e con il suo

strano servitore lo riportarono al palazzo e alla sala del trono. Il vecchio monarca avvilito mandò a

chiamare la principessa, che arrivò col volto triste, mentre un esercito di spie sbirciava dalle pareti e

da dietro le porte. La fanciulla guardò il principe con l‘amore negli occhi ma con un filo soltanto di

speranza nel cuore. Il re mandò le guardie e i cortigiani fuori della sala del trono, e mandò fuori

anche il servitore del lama, guardandolo con sospetto: infine fece chiamare la regina Lazhema.

I quattro erano ora soli nella sala del trono: il re, la regina, il giovane principe travestito da

monaco e una principessa triste con gli occhi ardenti d‘amore.

―Togliti il vestito e mostra al monaco la tua gamba,‖ disse il re Gyaltri Gyalpo alla figlia.

Quando la fanciulla sollevò lentamente la lunga gonna apparverso i segni, uno per uno, in una

linea netta attraverso la gamba. Il re prese il piccolo tridente dalle mani del monaco e accostò le

punte alle cicatrici. Combaciavano perfettamente, come un guanto si adatta a una mano.

―Così tu sei lo spirito che vaga nei cimiteri la notte,‖ disse il re, più a se stesso che alla sua

giovane e bella figlia. ―Devi lasciare il palazzo e andare insieme al lama nel luogo dove gli spiriti

debbono stare.‖

Le spalle del re si erano piegate sotto il peso del dolore. Il volto della regina era affranto come un

otre d‘acqua spaccato e grosse lacrime scendevano lungo le sue guance reali. La principessa fingeva

di essere addolorata: ma aveva capito, e ora sperava, pregava che questo fosse il giorno tanto

desiderato nel corso di innumerevoli giorni vuoti, di un‘eternità di notti insonni. Il re uscì

lentamente dalla sala, mentre le guardie non sapevano cosa fare e cosa pensare. ―La principessa

deve partire immediatamente insieme al lama e al suo servitore,‖ disse tristemente il vecchio re.

―Non sbarrate loro la strada e lasciate che la principessa prenda tutto ciò che vuole.‖

La regina corse dietro al marito, piangendo e singhiozzando: la sua unica figlia era uno spirito!

―Non può essere, non può essere,‖ gridava. ―Lasciala restare, ti prego, lasciala restare con noi al

palazzo.‖

Ma il re aveva ormai deciso. Sua figlia non era più una figlia. L‘aveva ripudiata, espulsa dalla

casa reale, dove aveva vissuto con inganno, essere ultraterreno in forma umana. Doveva andare

nella casa degli spiriti e degli spettri, o essere esorcizzata dal saggio lama che sapeva trattare queste

cose. Il re guardava alla finestra della sua stanza mentre i tre forestieri si allontanavano da palazzo,

il lama, il suo strano servitore e quella che una volta era stata sua figlia. Portavano con sé gioielli e

gemme, l‘oro che apparteneva alla principessa era ora proprietà dello spirito.

Quando il palazzo scomparve in lontananza il principe e la principessa si strinsero le mani, per la

prima volta realmente insieme, come due metà che erano state separate e ora si ricongiungevano

come una pietra che è stata spaccata, e solo con l‘altra sua parte potrà combaciare. Magen e Dungli-

ki guardarono il vecchio saggio, l‘uomo che aveva salvato il loro amore, salvato il mondo.

Camminava un po‘ davanti a loro, portando lo scrigno dell‘oro come se fosse una piuma sul dorso

di un elefante.

Vicino al cimitero dove il principe aveva per la prima volta indossato i panni del lama vi erano

tre cavalli, che li aspettavano per portarli oltre il confine verso la capitale del regno vicino.

Cavalcarono come tre navi sul mare della vita, scivolando facilmente nell‘aria, galoppando verso la

loro casa, verso la libertà, verso l‘amore che avrebbero condiviso: ora avrebbero guarito insieme le

vecchie ferite, il principe e la principessa, l‘amante e l‘amata. Il giorno già spuntava quando

raggiunsero i dintorni del palazzo reale, che il principe ora avrebbe diviso con la sua sposa.

Arrestarono davanti al portone i cavalli fumanti e il principe Magen e la principessa Dungliki

volsero lo sguardo al loro amico e compagno. Egli sorrise il sorriso senza età dell‘uomo saggio:

―Possa la vostra felicità essere duratura, perché il vostro compito è ben lungi dall‘essere terminato.‖

Il maestro sorrise ai giovani amanti: diede loro un fiore di carta in una scatola di vetro e si

allontanò sul suo cavallo come un fantasma, mentre il sole sorgeva sorridendo al nuovo giorno.

LE TRE SORELLE

Il re Wangchukl re Wangchuk sedeva depresso e silenzioso. Girò lo sguardo sulle pareti della sua

stanza: bei dipinti erano appesi in file ordinate, statue d‘oro e di bronzo stavano nelle nicchie, ricchi

intagli pendevano negli angoli. Il pavimento era coperto di folti tappeti, tessuti dalle mani di mille

abili artigiani: sopra la porta fulgide spade incrociate e giavellotti scuri vegliavano come guardie del

corpo sul suo riposo. Il re si alzò dal grande trono e si affacciò alla finestra. Sotto di lui, nelle strade

della capitale, ferveva la vita, gli uomini si muovevano come eserciti di formiche, i mercanti

vantavano a gran voce le loro merci; lungo le vie si vedevano variopinte piramidi di frutti e i

bambini correvano fra le bancarelle del mercato mentre i genitori li sgridavano fra la collera e lo

scherzo. Nobili cavalieri della corte passavano sui loro eleganti destrieri tra la folla, gli yak tiravano

grandi carri carichi dei prodotti delle campagne e gli esattori riscuotevano le tasse devolute a

mantenere felice la vita del re — ma il re era molto lontano dall‘essere felice.

Osservava la vita che scorreva all‘esterno, anelava di prender parte alla naturale gioia di vivere,

bramava le semplici cose essenziali che rendono gli uomini felici. I suoi ministri venivano da lui coi

loro problemi e i loro consigli quotidiani, i servi gli portavano i cibi più squisiti su piatti d‘argento

massiccio, i cortigiani erano pronti ad appagare ogni suo desiderio. Ma non v‘era mai un sorriso né

gaiezza né voci di bambini né baci di sposa per rendere vivi e reali i suoi giorni. Wangchuk aveva

tutto, eppure non aveva nulla. E guardava con invidia gli eserciti di formiche che brulicavano sotto

le sue finestre, e quanto più guardava, tanto più struggente si faceva il suo desiderio di essere una

parte di quella vita, invece che un essere superiore che poteva solo guardare, uno spettatore.

Wangchuk vedeva se stesso come una macchina dell‘amministrazione o come un vecchio animale

impagliato che la gente poteva guardare, ammirare, ma non poteva toccare. La sua vita era solida

ma la sua esistenza era fragile.

Con questi tristi pensieri nel cuore il sovrano aveva raggiunto la soglia inevitabile del

matrimonio. Wangchuk sapeva che questa era l‘unica soluzione, e tuttavia non conosceva alcuna

regina adatta. Le donne di corte erano troppo vecchie 0 troppo grasse o troppo brutte. Le figlie dei

ministri lo guardavano con occhi pieni di finto amore, amabili parole venivano sussurrate dietro i

pilastri ai balli, biglietti non firmati arrivavano su piattini d‘argento, e buoni consigli giungevano

dai suoi consiglieri. Ma tutti questi maneggi lo facevano solo ridere, il riso solitario di un uomo

disperato che cercava il lato comico della vita per evitare la pena e il tormento dei suoi veri

sentimenti.

Fu durante una di queste giornate solitarie che il re decise di guardare al di là delle mura della

città, nelle campagne che si estendevano per miglia e miglia in tutte le direzioni, nel regno ch‘egli

governava e tuttavia raramente vedeva. Chiamò 1 suoi più fidi messaggeri e in una stanza riservata,

lontano dalle orecchie dei ministri e dei consiglieri, diede loro le sue istruzioni. Dovevano viaggiare

per tutto il regno e cercare una moglie adatta per un re, una fanciulla che avesse fascino,

intelligenza e classe, non che avesse la vanità e l‘alterigia che tanto gli dispiacevano nelle dame di

corte.

I mesi passavano lenti e il re diventava impaziente. Uno ad uno i messi reali tornavano e gli

segnalavano una fanciulla di questa e quella famiglia. Wangchuk conosceva la maggior parte delle

nobili famiglie del suo regno, e molte di queste dame che gli venivano proposte erano già state viste

in città, in occasione di qualche cerimonia. Infine, dopo altri lunghi giorni solitari, arrivò un uomo

col miglior consiglio che il re avesse udito da anni. Il messaggero aveva scoperto ima famiglia

nobile che viveva molto lontano, al di là del grande fiume, al di là delle montagne, in una valle dove

pochi viaggiatori arrivavano: era una vedova con una grande fattoria, e non aveva una sola bella

figlia, ma tre. Il re ringraziò il suo leale servitore e lo compensò con monete d‘oro e d‘argento. E

ricordò di aver conosciuto quella famiglia.

Aveva incontrato il padre, nobile signore, molti anni prima a corte e ricordava vagamente di aver

sentito parlare della sua morte: ora la ricca vedova governava le sue terre dove viveva con le tre

figlie. Tutte e tre sarebbero state probabilmente già da gran tempo sposate se la loro casa fosse stata

vicino alla capitale; ma poiché abitavano tanto lontano, era assai più difficile per loro trovare un

marito di nobile casato.

Wangchuk salì alla più alta stanza del palazzo, una piccola camera in cima a una torre. La

camera era piena di polvere perché da gran tempo non era stata usata e a nessun servo era consentito

entrarvi a far pulizia. Dentro vi erano vasi di veleno, erbe e frutti secchi, e animali conservati in

liquidi speciali: i loro corpi senza vita sembravano sogghignare nei vasi trasparenti. Vi erano caldaie

e alambicchi, crogiuoli in cui bollivano pozioni speciali, vi erano bacchette e ramoscelli, foglie di

strani alberi, pietre colorate che venivano da paesi d‘oltremare, vasi giganti con creme speciali

provenienti dalla Cina e dall‘India. La stanza era come una gigantesca scatola magica che poteva

alterare la rotazione della terra; i veleni potevano uccidere un esercito intero, le erbe e le pozioni

potevano guarire un popolo colpito dalla peste nera.

Il re non era solo un monarca, un uomo di nobile nascita e sangue reale, ma era anche un potente

mago. Poteva mutare una sedia in un cavallo, poteva attraversare un fiume su una tavola di legno

come in una barca; poteva sparire e riapparire, cambiare forma e aspetto, essere in una stanza e un

istante dopo in un‘altra, o in un‘altra città, o essere in due posti nello stesso momento. Poteva volare

verso la luna in una barca di stelle, sorridere con gli dèi e giocare con gli angeli. Il cielo era il suo

campo di gioco nella notte, l‘oceano la sua vasca da bagno. Sapeva parlare agli uccelli, cantare con

gli alberi e nuotare coi pesci. Tuttavia, il re era sempre un uomo, ed erano gli uomini che lo

rattristavano. Era libero come un uccello ma ricordava continuamente di essere un uomo fra gli

uomini, un uomo che doveva fare le cose adatte alla sua natura e alle sue forze. La libertà degli

uccelli era per lui solo temporanea e ben presto la realtà sopraggiungeva a schiacciarlo con la sua

forza, a trascinarlo ancora una volta alla sala del consiglio, fra i consiglieri e le loro brutte figlie, i

ministri con le loro facce pompose e le loro false cortesie.

La grande chiave di ferro girò nella toppa e la porta si spalancò. Il re era solo con le cose che

amava di più, le sue creme e pozioni magiche, i veleni e le erbe, le caldaie ribollenti e i misteriosi

alambicchi. Per il re questa era la sua casa. Questa era la realtà vera, che mancava nelle stanze

inferiori, dove i servi discutevano e i cuochi si azzuffavano, i ministri decidevano e i consiglieri

consigliavano.

Il re aveva deciso di trasformarsi in un cane. Non uno dei soliti cani che abbaiano ai mendicanti e

vagano a branchi per le strade, ma un cane parlante, uno di quei giganteschi animali che in tempi

remoti vivevano nel reame, di cui parlavano ancora le vecchie leggende. I cani parlanti erano stati

amici della famiglia reale per più di quanto i vecchi potessero ricordare. Avevano portato messaggi

durante la guerra, avevano spaventato gli elefanti che avanzavano caricando per le colline, avevano

fatto prigionieri i nemici che stavano in agguato nei boschi e si nascondevano dietro gli alberi. I

cani erano stati sempre rispettati dal popolo, soprattutto perché tutti sapevano quanto fossero cari al

re. Erano conosciuti come sudditi leali a cui il re dava udienza, se la chiedevano: e per questa

ragione i sudditi li tenevano in grande stima. Ma i cani erano creature sensibili, e ormai erano delusi

dell‘uomo. Vivevano sulle colline, a molte miglia di distanza: erano divenuti una leggenda di remoti

giorni in cui il cane e l‘uomo stavano a fianco a fianco in battaglia, e il miglior amico di un cane era

un uomo, e di un uomo era il suo cane fedele. Ora gli uomini continuavano a tenersi in casa i rozzi

animali che chiamavano cani, quelle creature ringhiose che mordevano le gambe dei passanti e

correvano a branchi per le vie della città.

Wangchuk assunse dunque la forma di un cane dei tempi antichi e lasciò il palazzo nel cuor della

notte. Portava con sé una serie di pozioni magiche ed erbe speciali, in una piccola borsa legata sotto

il suo corpo. Come cibo, si sarebbe accontentato dei doni della terra. Avrebbe potuto volare in un

lampo alla casa della nobile vedova; ma voleva aver tempo di abituarsi alla sua nuova vita di cane,

un cane parlante che avrebbe sorpreso la gente a causa della sua rarità. Lunghe ombre stendevano le

dita sottili per fondersi col nero della notte. Gli alberi tacevano, gli uccelli dormivano, poiché si

levano presto al mattino. Nella città si sentì abbaiare un cane e sbattere un porta. Una donna gridò e

rapaci passi corsero nella notte. I buoni dormivano, mentre i malvagi macchinavano delitti. Le

streghe volavano fra le cime degli alberi: si facevano cose segrete, si dicevano e ripetevano storie, si

rompevano promesse, si lanciavano minacce. La notte era fredda e un vento gelido soffiava contro

tutti quelli che vagabondavano e passava attraverso la pelliccia del travestimento del re, mordendo

le sue zampe che si muovevano veloci mentre si allontanava dalla città e si dirigeva verso la vedova

e le sue tre figlie.

Il viaggio avrebbe potuto durare molti giorni, molte settimane e altri giorni ancora, ma il cane

magico correva come il vento, una volta uscito dalle mura della città; un uccello abbassò il volo per

osservare lo strano cane, e poi saettò alto nell‘aria, libero dai legami della terra e dai problemi

dell‘uomo. Il cane continuava a correre come una lepre elettrica su pista, senza mai rallentare né

fermarsi per mangiare o riposare. L‘uccello scorse il grande cane in lontananza e affrettò il volo per

raggiungerlo e osservarlo una seconda volta; ma le ali cominciarono a dolergli, come cariche di un

grave peso; il cane sparì in lontananza e l‘uccello ricadde in basso, troppo stanco per volare, ricadde

attraverso l‘aria e posò sfinito su un albero amico.

Wangchuk avanzava rapidamente fra le ombre della notte. Osservava le stelle sopra la sua testa,

come sottili ricami d‘argento su un manto blu, e la sottile falce della luna all‘ultimo quarto. Una

civetta fece udire il suo verso e un pipistrello drizzò il suo volo cieco verso l‘alto, trovando la strada

per un istinto misterioso: e fischiando e ronzando sparì in una nera piega del cielo. Il re avanzava

veloce. Traversò a nuoto il fiume, superò a grandi balzi le colline e salì le alte montagne.

Lentamente la notte volgeva alla fine. Il cielo era ancora nero alla sommità, ma l‘orizzonte

lentamente schiariva, come se una fila di alberi lontani fosse stata incendiata. Il sole comparve,

dapprima debole, poi di colpo balzò fuori dal pozzo dove aveva dormito la notte e salì lentamente

nel cielo, come il pallone che un bimbo si lascia sfuggire alla fiera. Il viaggiatore riposò per qualche

ora, prese un po‘ di cibo dalle erbe e dagli alberi, dai fiori che sonnecchiano sulle colline. Quindi

riprese il cammino, osservando il sole che saliva nel cielo e raggiungeva lo zenith sul suo capo. Gli

uccelli cinguettavano fra gli alberi, saltellando per tener lontano il freddo dell‘inverno dalle loro

piume ben oliate. Era un tempo adatto alla contemplazione, il riposo invernale che viene prima della

costruzione dei nidi, dello schiudersi delle uova, delle lezioni di volo, prima del tempo in cui gli

uccelli devono nutrire i loro piccoli, eternamente nutrire i piccoli cercando vermi e bruchi per

riempire i piccoli ventri che diventano ogni giorno più grossi. Poi viene il giorno del primo volo, i

nidiacei tremanti di paura si gettano fra gli alberi, riposano un attimo fra le foglie, tirano il fiato, poi

via di nuovo, provando le ali, cadendo e rialzandosi, mentre le madri trattengono il fiato e i padri

guardano con orgoglio paterno. Finalmente i piccoli si staccano, si fanno il loro nido, allevano i loro

piccoli, aggiungono la loro offerta al ciclo della vita, che eternamente ruota senza cambiare e senza

fermarsi mai. Al tramonto del secondo giorno, il re Wangchuk, il possente cane dei tempi antichi,

arrivò alla dimora dove la vedova You-don viveva con le sue tre figlie. Con la larga zampa bussò

alla spessa porta di legno.

―Io sono Dhondup il Cane, un forestiero che cerca un posto per passare la notte‖, chiamò

porgendo l‘orecchio al fruscio di gonne che si affrettavano verso la porta.

La vedova lo guardò sorpresa. Aveva sentito parlare di cani parlanti, ma non ne aveva mai visto

uno. Era sempre lieta di accogliere uno straniero, disse a Dhondup: poteva passare la notte nel

granaio — insieme agli altri animali. Dhondup, il re travestito, sorrise grato alla vedova che lo

conduceva nel granaio pieno di paglia. Le vacche si guardarono intorno e poi seguitarono a

ruminare, le galline chiocciarono becchettando qualche nonnulla per terra, una capra li guardò coi

piccoli occhi neri, poi tornò alle sue occupazioni.

Dhondup ringraziò la cortese signora e si sdraiò sulla paglia, animale fra altri animali. Si svegliò

ai suoni della fattoria, i contadini che ridevano, gli operai che affilavano i loro utensili, le pastorelle

che scherzavano coi mietitori. Dalla sua borsa il re trasse un sacchetto di grano e andò a bussare alla

porta della vedova. La ringraziò per avergli consentito di passare la notte al caldo del granaio e la

pregò di conservargli il sacchetto di grano. Le tre fanciulle uscirono dalla casa e osservarono

meravigliate il cane parlante, nascondendo risatine sommesse dietro le mani e dicendo che erano

sempre liete di incontrare un leale amico del re, perché tutti i cani parlanti, come si diceva in giro,

erano ―leali amici del re‖. Dhondup sorrise col sorriso pieno di denti dei cani, salutò la famiglia e si

allontanò lentamente per tornare al palazzo che aveva lasciato solo due giorni prima.

Mentre le donne agitavano le mani in segno di saluto, Dhondup volse la testa, le guardò di sopra

la spalla e gridò il suo ultimo monito. ―A proposito,‖ disse, ―qualunque cosa facciate, dovete

conservare il sacchetto di grano.‖

Le donne chiusero la porta e si abbandonarono a grandi scoppi di risa. Un cane parlante. Un

sacchetto di grano. Leali amici del re. Non lo avrebbero mai creduto possibile se non avessero visto

il cane coi loro occhi e non lo avessero sentito parlare con le loro orecchie. Anche i contadini della

fattoria, che avevano visto e sentito Dhondup, non finivano più di parlare del cane: e continuavano a

chiedere alla vedova You-don che cosa aveva detto e cosa aveva fatto e dove andava e quando

tornava e un sacco di domande impossibili. Per giorni e giorni fu l‘unico argomento di

conversazione. Ma via via che i giorni diventavano settimane e nelle campagne continuava la

monotonia del lavoro quotidiano, Dhondup finì per essere dimenticato. Venne la primavera, ed era

tempo di seminare le messi per il prossimo raccolto. Il cane parlante era ora sepolto sotto strati e

strati di nuovi pensieri. Non era più tornato a riprendersi il sacchetto di grano, e un giorno la vedova

lo trovò in un angolo tutto coperto di polvere.

―Facciamo un po‘ di birra chang per i nostri contadini; un bel bicchiere di birra è gradito in

estate,‖ disse la madre alle figlie.

Ma le fanciulle avevano naturalmente una memoria migliore. Ricordarono alla madre la sua

promessa e le dissero che non si doveva fare la birra chang se non dopo aver mietuto il frumento

nuovo. Passò una settimana, e la vedova fece la stessa proposta; e la cosa si ripete più e più volte,

ma sempre le fanciulle le ricordavano la promessa. Deludere il cane, dicevano, poteva portare

sventura.

―Ma il cane era già molto vecchio quando è venuto,‖ disse un giorno la madre. ―Può darsi che

ormai sia morto.‖

Il tempo del raccolto si avvicinava e le donne erano abituate ad aiutare i loro contadini nel lavoro

dei campi e nella raccolta delle messi. Solevano anche preparare una grossa botte di chang perché

tutti potessero godersi il raccolto d‘autunno. La madre aveva tante volte proposto di usare il vecchio

sacchetto di frumento per fare la birra, sicché alla fine le tre figlie consentirono. Insieme fecero il

chang e dopo la mietitura lo servirono in ciotole di legno. I contadini si diedero a cantare e danzare

e le tre fanciulle si unirono a loro. Il raccolto era stato buono e avrebbero ottenuto buoni prezzi in

città.

Era giusto celebrare, e tutti erano molto felici, anzi qualcuno, a dir la verità, era anche un po‘

brillo.

Il giorno dopo la festa si udì bussare alla porta, e con grande sorpresa di tutti ecco comparire

Dhondup, il cane parlante, che tornava dopo quasi un anno a chiedere il suo sacchetto di grano.

―Ma noi abbiamo usato il grano per fare il chang,― disse la vedova, ancora tutta allegra per la

festa del giorno prima. ‗Tuttavia abbiamo una quantità di grano nostro, e possiamo restituirne il

doppio, se volete, e anche dieci volte tanto.‖

Il re-cane restò molto male, e pieno di collera ricordò alla vedova la sua promessa, le ripeté le

parole che le aveva detto partendo: ―Dovete conservare per me questo sacchetto di grano.‖ Ma la

vedova ripeté che lo aveva adoperato per fare chang per i suoi contadini.

Continuarono così per un pezzo, a botta e risposta: il cane ricordava alla vedova la sua promessa,

la vedova gli offriva grano nuovo per sostituire il vecchio. Dhondup appariva triste e avvilito,

Youdon era ancora tutta allegra, la festa del raccolto era stata un grande successo e quando avessero

portato i loro prodotti in città li avrebbero venduti ad alto prezzo. Tutto andava così bene nella vita

— ed ecco che tornava il cane parlante.

―Bene, se il mio frumento non è abbastanza buono per te, scegli qualcosa d‘altro, e sarà tuo,‖

disse la donna.

―Qualunque cosa?‖ chiese Dhondup.

―Certo, qualunque cosa.‖

Dhondup disse che desiderava prendere in moglie la maggiore delle tre figlie. Si sentiva solo

nella piccola casa dove viveva e aveva bisogno delle mani di una donna per render più piacevole la

sua vita. Mentre esprimeva il suo desiderio il volto della vedova passò dall‘allegria all‘orrore. La

sua nobile figlia sposare un cane! Neanche pensarci. E così lo disse a Dhondup. ―Ma voi avete già

mancato a una promessa… mancare a due promesse…‖

La vedova Youdon rifletté sulle sue parole: sapeva che, se ingannava il cane parlante, il re

sarebbe venuto a saperlo e allora non una sola figlia avrebbe finito per fare un matrimonio ignobile,

ma tutte e tre. Irritare il re non era mai consigliabile, soprattutto per una donna nella sua posizione.

Youdon pensò alla richiesta del cane e alle conseguenze che le sarebbero cadute addosso se

rifiutava. Soppesava le due cose nella sua mente, come i due piatti della bilancia al mercato. E

sentiva che una scelta le era virtualmente impossibile: era come tagliar la testa a una figlia per

salvare le altre due. I pensieri si inseguivano veloci nella sua mente, come cavalli su un campo di

corse. E il cane parlante continuava a guardarla, senza sorridere e senza muoversi, aspettando

semplicemente con i grandi occhi quasi umani vigili e attenti: occhi umani e pensieri umani nello

strano corpo di un cane. Infine, dopo aver riflettuto per diversi minuti, la vedova acconsentì.

La figlia maggiore, Kunsang, era anch‘essa scossa e inorridita all‘idea di dover sposare il cane

parlante; ma obbedì alla richiesta della madre, senza sapere perché si dovesse prendere una

decisione così grave. Era sorpresa della collera che la madre mostrava, ma non sapeva che era finta,

una falsa faccia per una brutta situazione. Pensò di aver fatto qualcosa di male: forse era una

punizione, forse in una vita precedente essa era stata crudele con un cane, e così ora era costretta a

sposarne uno. Si volse a guardare le sorelle, che erano ritte sulla soglia con il volto rattristato, e si

mise in cammino accanto al cane silenzioso, il cane che parlava, ma solo quando aveva qualcosa da

dire.

Camminarono lentamente attraverso i campi dell‘infanzia di Kunsang. La fanciulla guardava i

vecchi alberi nodosi, le vacche al pascolo, il sottile ruscello che serpeggiava come un nastro

d‘argento attraverso i campi coltivati verdi e gialli. Ogni tanto sorrideva a qualche ricordo del

passato che le appariva vivo e vivido per un attimo e ben presto svaniva, cancellato dai pensieri del

futuro. Il futuro. Che cosa sarebbe stato il suo futuro? che vita avrebbe avuto come moglie di un

cane parlante? Era abbastanza gentile, pensava la fanciulla, ma non era certo un compagno adatto

per un matrimonio.

Proseguendo nel suo cammino, la strana coppia giunse al grande fiume che attraversava tutto il

regno. Le acque erano basse nel punto del guado, ma erano veloci e piene di gorghi, e molto

pericolose se uno metteva un piede in fallo mentre le guadava immerso nell‘acqua fino alla vita. Gli

alberi delle due rive si incurvavano verso il fiume e i loro rami pendevano fino a sfiorare la

superficie dell‘acqua, creando minuscoli vortici che continuamente comparivano e sparivano,

perpetua lama d‘argento in movimento che tagliava le campagne. Quando arrivarono sulla riva

Dhondup invitò la fanciulla a salirgli in groppa, per evitare di bagnarsi. Kunsang rispose che non

c‘era problema: poteva benissimo guadare il fiume da sola. Il cane parlante le chiese se poteva

almeno portarle gli stivaletti fino all‘altra riva.

―Dopo tutto,‖ disse, ―stai per diventare mia moglie.‖

La fanciulla consentì. Il cane si gettò a nuoto attraverso la forte corrente, mentre la fanciulla

guadava cautamente al suo fianco. Tagliarono obliquamente il fiume e trovarono una piccola

insenatura che permise loro di compiere più facilmente l‘ultimo faticoso tratto del guado. Si

riposarono sull‘altra riva, mentre la fanciulla faceva asciugare la sua lunga veste e gli stivaletti

vivacemente colorati che avevano ricevuto non pochi spruzzi durante la traversata. Per lei quel

guado fu come il passaggio da una fase della vita all‘altra. Il fiume segnava la sua vita passata e la

prima pagina di un nuovo capitolo. Si chiese che parole avrebbero scritto insieme, su quella pagina,

la donna e il cane. Dhondup osservava la fanciulla e cercava di conoscerne il carattere. Desiderava

sposare una delle tre sorelle, e perciò ogni esperienza era una prova, un controllo delle sue qualità

morali. Esaminava le virtù e l‘orgoglio, la purezza e la vanità, bilanciando luna cosa all‘altra,

cercando di riconoscere se Kunsang sarebbe stata la regina adatta, o se la sua ricerca di una sposa

doveva continuare.

Entrambi erano immersi nei loro pensieri mentre continuavano il viaggio. Poche parole

passavano dall‘uno all‘altro, ognuno aveva le sue idee e i suoi sentimenti. Infine arrivarono a una

modesta casetta poco fuori di un villaggio: era un altro sortilegio, una manifestazione dei poteri

magici del re. Era stato un viaggio lungo, entrambi erano stanchi: era tempo di preparare la cena e

andare a letto.

―C‘è un po‘ di carne per te da cucinare, lasciami le ossa e gli scarti,‖ disse Dhondup.

Kunsang obbedì al marito. Mangiò la buona carne e pose una ciotola di grasso e ossi sul

pavimento per il cane. Dhondup finì il suo pasto, pensoso. La sua futura moglie era di certo

obbediente, ma non c‘è un momento in cui bisogna pure scoprire le cose? I due dormirono per tutta

la notte, e continuarono questa strana vita, via via che i giorni passavano, come una marea che viene

e va. Dhondup mangiava le ossa avanzate, gli scarti della fanciulla e le cose che sogliono mangiare i

cani. Lei dormiva nel grande letto di legno, mentre il cane si acciambellava in un angolo del

pavimento.

Passarono così diversi giorni e la donna e il cane continuavano la loro vita in comune. Un bel

mattino Dhondup disse alla fanciulla che doveva tornare alla casa di sua madre: l‘avrebbe raggiunta

dopo pochi giorni.

Kunsang tornò dalla madre e il cane parlante arrivò pochi giorni dopo. Spiegò che voleva

restituire Kunsang e desiderava invece sposare Tsering Wangmo, la seconda delle figlie. La vedova

non fu affatto contenta della cosa, ma infine consentì alla richiesta, poiché la angosciava il pensiero

del re e del suo potere. Ora la sua figlia minore avrebbe potuto avere degne e nobili nozze con un

alto personaggio, ma la povera Tsering Wangmo avrebbe dovuto essere sacrificata a un futuro

ch‘essa non avrebbe mai compreso.

Dhondup e Tsering Wangmo fecero colazione e poi lasciarono la fattoria, mentre i contadini e le

pastorelle guardavano e nascondevano i sorrisetti pettegoli dietro sguardi furtivi. Gli allegri colori

della fattoria scomparvero in lontananza, boschi e campi si aprirono davanti ai due viaggiatori. Gli

animali selvatici li spiavano da dietro gli alberi, gettando loro rapidi sguardi e poi fuggendo veloci,

spaventati dal gigantesco cane che camminava tranquillo a fianco della fanciulla. Infine raggiunsero

il fiume, trovarono il punto più stretto e si prepararono a guadarlo.

―Lascia che ti porti in groppa‖, propose Dhondup.

Ma la fanciulla rispose che sarebbe stato molto più facile per lei attraversare da sola, piuttosto

che imporre una tale fatica al povero cane.

―Bene, almeno lascia che porti i tuoi stivaletti.‖

E di nuovo la fanciulla replicò che preferiva portare i suoi stivaletti lei stessa. Dopo tutto, lei

poteva guadare il fiume, mentre il cane doveva nuotare. Giunti sull‘altra riva, riposarono insieme.

Tsering Wangmo cominciò a fare domande: dove stavano andando, che cosa avrebbero fatto, se il

cane conosceva il re, e così via. Era gentile ed espansiva, e sembrava molto più felice della sua

sorella maggiore. Continuarono a camminare per boschi e pianure, passarono alte colline erbose e

torrentelli scroscianti. Quando raggiunsero la casa di Dhondup, poco fuori il villaggio, non

mangiavano da molte ore.

―Prepara la carne per te, e lascia a me le ossa e i rifiuti,‖ disse il cane parlante.

Tsering Wangmo mise a cuocere il cibo e subito lavò i piatti, pulì tutt‘attorno le mensole e si rese

utile — così come deve fare una moglie. Quando fu il momento di servire in tavola, trovò due

grandi piatti e divise egualmente la carne e gli ossi, le parti magre e quelle grasse: Tsering Wangmo

non ne prese né troppo né troppo poco, le parti buone e quelle scadenti trovarono posto in entrambi

i piatti e tanto la fanciulla che il cane si godettero egualmente il pranzo. Via via che passavano i

giorni Dhondup trovava molte buone qualità nella seconda figlia della vedova. Era sempre gentile e

onesta, faceva quello che doveva fare e sorrideva allegramente mentre lavorava. Il re cane era felice

con la fanciulla: eppure c‘era un pensiero che continuava ad assillarlo. Se Tsering Wangmo aveva

più qualità della sorella maggiore, forse la minore delle tre ne aveva ancora di più. Un giorno che

questo pensiero era più insistente del solito, il saggio cane dagli occhi umani e dalla mente regale

disse alla fanciulla di tornare dalla madre. Lui l‘avrebbe raggiunta, promise, dopo qualche giorno.

Così Tsering Wangmo tornò dalla vedova Youdon: nella sua fattoria, con le sue sorelle, le vacche

nei grandi capannoni e i contadini che facevano così presto a ridere della gente. Quando dopo pochi

giorni Dhondup arrivò alla fattoria, la vedova quasi si aspettava la sua richiesta: ma la più giovane e

la più bella delle tre sorelle, Sangmo, sarebbe stata una sposa degna del più nobile dei gentiluomini

del paese, e il cane parlante avrebbe distrutto questi progetti. La vedova Youdon discusse e gridò,

pregò e promise. Ma il cane parlante le ricordò le antiche promesse, e infine la donna cedette,

piangendo e gridando, schiumando dalla rabbia. Gli occhi umani del cane la guardavano

impassibili, senza collera né tristezza, solo pensosi, nella speranza che l‘avvenire sarebbe stato

quale la sua magica mente aveva progettato.

Il cane e la fanciulla lasciarono la fattoria. I contadini avevano visto la furiosa collera della

padrona e si tenevano fuori tiro, badavano al lavoro e sbrigavano le faccende per cui si aspettavano

di esser pagati alla fine del mese. Era difficile trovar lavoro in questa parte del mondo, e perdere il

posto sarebbe stato peggio che perdere un braccio o perdere il padre. Sangmo camminavano a

fianco del cane, sorridendo quando lui le sorrideva, pensosa quando lo vedeva pensoso.

Traversarono le foreste e le grandi pianure. Gli uccelli si libravano nell‘aria tranquilla come

giocattoli di carta pendenti dal soffitto della stanza di un bambino, e come se si spezzasse una fune

piombavano giù a capofitto come pietre dal cielo; due colpi e si risollevavano per restare immobili a

osservare i viaggiatori che camminavano e il mondo che continuava a ruotare.

Infine raggiunsero il fiume e il cane fece per la terza volta la sua proposta: ―Sarebbe una follia,‖

disse la fanciulla. ―Io posso camminare a guado nel fiume e risparmiare a te la lunga nuotata,

portandoti sulle mie spalle.‖

Sangmo legò insieme le stringhe dei suoi stivaletti rossi e blu, li diede da portare a Dhondup e

poi sollevò il suo non lieve peso e se lo caricò sulle spalle. Lentamente, come un pastore con

un‘agnella ferita, la fanciulla guadò il fiume, immersa fino alla vita nell‘acqua vorticosa. Raggiunta

l‘altra riva, era stanca ma felice: felice di vedere il primo vero sorriso sulla faccia del cane parlante,

un sorriso caldo, essa pensò, e quasi umano.

Dhondup si comportò allo stesso modo che con le altre due figlie della vedova. Disse a Sangmo

di cuocere la carne per lei e conservare per lui i rifiuti. Ma, diversamente da Kunsang, che aveva

fatto così come le era stato detto, e da Tsering Wangmo, che aveva diviso il cibo in parti eguali, la

più giovane delle tre sorelle diede i bocconi migliori al cane e tenne per sé gli scarti. Insistè che il

cane dormisse nel letto migliore e lei si accovacciò ai suoi piedi. Era come se lei fosse il cane, e lui

un essere umano. Ma fu anche evidente fin dall‘inizio che Sangmo sarebbe stata una regina ideale,

una madre ideale del futuro re. Dhondup pensava alla sua futura vita al palazzo reale, alle allegre

voci dei bambini, con la tavola apparecchiata per la famiglia, invece che per un uomo solo.

I giorni passavano lenti e felici. Il cane e la fanciulla passeggiavano insieme, parlavano fra loro

durante le lunghe serate, raccontavano storie e filastrocche. Via via che passava il tempo, e i giorni

diventavano settimane e le settimane diventavano mesi, un legame speciale si andava creando fra la

strana coppia. Nessun amico visitava quella casa solitaria, ma essi non ne avevano bisogno.

Avevano le loro storie e le loro idee, una filosofia della vita, la sintesi di tutte le cose viventi.

Pensavano alle montagne, si chiedevano perché gli alberi crescevano così alti e gli uccelli

cantavano così dolcemente. Parlavano del mistero della vita, dei segreti della gioia, degli enigmi

dell‘esistenza. Il cane usciva da solo e tornava a casa con cibi prelibati. Sagmo chiedeva da dove

venivano: ma Dhondup rispondeva semplicemente che erano un dono degli dèi.

L‘insolito rapporto fra la fanciulla e il cane era veramente idilliaco, un romantico sogno

cementato dalla realtà, prova vivente che l‘amore sta nella mente, non nel corpo. Quando furono

passati circa nove mesi la minuscola casa felice appena fuori del villaggio del Paese-che-non-c‘è fu

rallegrata da un nuovo miracolo. Sangmo, la fanciulla, aveva messo al mondo due bellissimi

cuccioli; Dhondup, il cane, era il padre felice. L‘avvenimento era una pietra miliare in quello strano

eppur riuscito rapporto che avrebbe sorpreso la vecchia vedova e l‘avrebbe gettata nella più grande

perplessità. Le sue speranze e le sue ambizioni erano state distrutte, ma la sua figlia minore, la più

bella, aveva trovato la vera felicità.

Pochi mesi erano passati dalla nascita di Bagdo e Tashi quando Dhondup disse a Sangmo di

preparare dei viveri per un viaggio. Dovevano recarsi al di là delle colline per una festa speciale, ma

era una sorpresa e Sangmo doveva mordersi la lingua e non fare domande. Sangmo pensò che

probabilmente sarebbero andati a trovare sua madre e le sue due sorelle; ma Dhondup manteneva

strettamente il segreto ed essa doveva aspettare per vedere che cosa sarebbe accaduto.

Camminarono molte miglia, lentamente, osservando il paese, ascoltando il mormorio del fiume,

degli alberi e del vento, senza stanchezza e senza pena.

Dhondup camminava alla testa della famiglia quando Sangmo lo vide salire a lunghi passi su per

una collina, allontanarsi a poco a poco e farsi sempre più piccolo via via che la distanza cresceva.

Lontano si vedeva una grande tenda di nomadi: un filo di fumo saliva serpeggiando nel freddo cielo

invernale, uno yak emise un basso muggito mentre adagiava il grosso corpo a terra, per far riposare

le stanche zampe che avrebbero potuto camminare intorno al mondo, intorno all‘universo.

Improvvisamente scoppiò una selvaggia orchestra di suoni, cani che urlavano latravano

ringhiavano, un branco di cani affamati di strage, assetati di sangue. Dhondup era scomparso oltre

la vetta della collina erbosa e si udiva urlare e abbaiare la sua voce, per metà umana per metà

bestiale. Si trovava in mezzo al branco selvaggio dei cani nomadi e combatteva per la sua vita, la

battaglia più lunga e più dura. La sua mente umana annaspava per trovare una posizione più forte

mentre tutti i suoi istinti animali erano desti per proteggerlo e lottare fino alla fine.

Sangmo si precipitò su per la collina, senza neppur pensare che anche la sua vita poteva essere in

pericolo. La paura la spingeva avanti, e Bagdo e Tashi la seguivano, inconsapevoli. La scena era

come un campo di battaglia dopo un massacro. Ovunque pozze di sangue, brandelli di pelliccia,

come se Dhondup fosse stato fatto a brani da un potente gigante e poi gettato a disperdersi nel

vento. Il dolore trafisse la fanciulla come una lama. I suoi occhi pieni di orrore scrutarono in mezzo

alla carneficina. I cani selvaggi, come un branco di lupi, latravano in lontananza, felici che una

caccia a sorpresa fosse venuta a rallegrare i loro spiriti animaleschi. La fanciulla era rimasta muta,

inorridita: cadde in ginocchio come per pregare, mentre i due piccoli si rannicchiavano tra le sue

gonne e i tre volti erano rigati dalle lacrime.

―Sangmo, Sangmo.‖

Una voce chiamò il suo nome. Si udì un tintinnare di campanelli, il galoppo regolare di un

cavallo, un cavallo che sapeva bene il suo mestiere e trottava con facilità e con cura, portando il suo

cavaliere come un soffio d‘aria, invece che sul duro cuoio di una sella.

―Sangmo, Sangmo.‖

La fanciulla non riusciva a parlare, non riusciva a rispondere. Un bellissimo cavaliere, come un

dio del passato, veniva lentamente su per la collina, dopo aver lasciato il cavallo ai piedi del colle.

―Sangmo, sono io, puoi smettere di piangere, tutto ora va bene,‖ disse il cavaliere. ―Io sono

Dhondup il Cane, e Wangchuk il Re.‖

Fu un colpo troppo forte per la fanciulla. La morte di suo marito il cane parlante, e ora l‘arrivo di

Wangchuk il Re. Sangmo spalancò gli occhi, le lacrime vi spuntarono come minuscole perle

perfette e scesero come un piccolo fiume d‘argento attraverso le guance rosa che il freddo

dell‘inverno rendeva più accese. Lentamente cominciava a capire: era come l‘alba che dissipava il

nero della notte, come un giorno di sole che irrompe attraverso le nere nubi della disperazione. Si

svegliò da un lungo sogno; un sogno che era durato tutta una vita più un giorno: ma ora era il giorno

del risveglio, il giorno della rinascita. Wangchuk sollevò Bagdo per il minuscolo collare e lo scosse.

Lentamente la forma di cagnolino disparve, e davanti agli occhi stupiti di Sangmo comparve un bel

giovane principe. E anche Tashi, la minuscola cagno-lina dai pensosi occhi innocenti, si trasformò

lentamente in una leggiadra principessina.

―Ora capisco,‖ disse Sangmo, stringendosi al marito, abbracciando quella forma umana che per

tanto tempo le era rimasta celata, e che tuttavia essa aveva ugualmente amato.

Era passato più di un anno da quando il re era stato per l‘ultima volta nel suo palazzo, che

guardava dall‘alto sulla sua capitale. Quando passò a cavallo per le vie della città, con la sua sposa

dietro di lui su un bianco destriero, le folle lo salutarono alzando grida di giubilo e il clamore arrivò

ai cieli e gli dèi beati si rallegrarono anch‘essi. Per la prima volta il popolo poteva vedere il suo re

qual era in realtà, quel re felice che tutti amavano, in cui tutti riponevano la loro fiducia. I suoi occhi

tristi erano ora pieni di gioia, e nella sua gioia il popolo poteva trovare la felicità.

PERCHÉ IL PESCIOLINO RIDEVA

Il re Gyalpo Gyapchung aveva ormai superato il fiore della giovinezza e ora stava

arrotondandosi con la maturità. Insomma diciamo pure che era vecchio e grasso, ma a nessuno

conveniva dirlo. Stava seduto sui gradini che conducevano alla balconata, coi piedi larghi e il

pancione coperto di seta che pendeva in mezzo alle gambe come un sacco di grano. Soffiava e

sbuffava gonfiando e sgonfiando le vecchie guance cascanti come il mantice di un fabbro e

asciugando di tratto in tratto la sottile riga di sudore che gli imperlava la fronte. Le larghe maniche

della cappa regale gli servivano da fazzoletto; una mano asciugava il sudore e l‘altra grattava il suo

sacco di grano.

Il re tirò su a fatica il grosso corpo e salì lentamente gli ultimi due o tre gradini. Tirò un sospiro

di sollievo, con un sorriso di vittoria sull‘ampio faccione, ansando come un bue che tiri l‘aratro su

un terreno pesante. Si lasciò cadere nella grande poltrona di ferro, il suo trono da balconata, che

sembrava fatto apposta per il corpulento sovrano, anche se invece si trovava al palazzo già da

generazioni. Sul tavolo accanto al trono stava un vaso di pietra pieno di acqua fresca: era il

premuroso gesto di un servo fidato, che era corso fino alle cucine fiabe tibetane del palazzo per

procurare quel piacevole ristoro al suo padrone.

La campagna si stendeva davanti ai suoi occhi come un quadro dipinto su una tela. Vi erano

alberi, prati, colline, un fiume che serpeggiava in fondo alla valle, e sullo sfondo le montagne

incappucciate di neve dove vivevano gli dèi. Campi di differenti colori si alternavano nella pianura,

disegnando come una trapunta a toppe per il letto di un gigante. Il frumento e l‘orzo si alternavano

al granturco e all‘avena, alla terra bruna di un campo incolto, al verde di un pascolo. In alto, soffici

nuvole bianche vagavano liberamente nel cielo come palloni sfuggiti dalle dita distratte di un

bambino. Di tratto in tratto un raggio di sole illuminava una metà della valle mentre l‘altra metà

restava nell‘ombra.

Era una bella giornata di primavera e Gyapchung era contento di essersi trascinato su per i ripidi

gradini della balconata. Bevve un lungo sorso dal vaso di pietra, mandò fuori una lunga boccata

d‘aria e si rilassò nel profondo cuscino che ammorbidiva il trono.

A un tratto il re fissò lo sguardo, metà seccato e metà divertito, perché invece degli alberi vedeva

ondeggiare le figure di due giovani amanti, che si godevano gli antichissimi riti della primavera. Il

vecchio re sorrise fra sé osservando i giovani amanti che si trastullavano nell‘erba dietro al palazzo.

Ben poche persone si recavano in quell‘angolo nascosto, forse nessuno sapeva che questo era uno

dei posti favoriti del sovrano. Gli amanti saltavano e si rotolavano con gran divertimento

dell‘insospettato spettatore, il quale tornava col pensiero alla sua gioventù… ma qui gli veniva in

mente che ora aveva cento mogli e non aveva né l‘energia né il tempo di renderle tutte felici.

Quel ch‘era cominciato come un piacere era divenuto un problema. Più il re pensava alle sue

cento mogli, più si preoccupava per loro. Se le figurava tutte sole e infelici, ma non riusciva a

trovare una soluzione. Tirò su a fatica il suo peso dal trono di ferro e scese lentamente la scalinata.

Almeno la discesa era assai più facile della salita. Davanti a lui si apriva il giardino, con piccoli

laghetti e fontane spumeggianti, alberi da frutto e aiuole fiorite e le erbacce sfuggite all‘attenzione

dei giardinieri. Il re camminava lentamente, con la sua andatura oscillante come i fiori ai suoi piedi,

pensando alle sue infelici mogli e alla giovane coppia che era così felice nell‘erba morbida sotto la

balconata del palazzo. Quando passò vicino al laghetto con la fontana rocciosa gli si presentò

all‘improvviso la più strana cosa che avesse mai veduto: un pesciolino saltò fuori dall‘acqua e

scoppiò a ridere.

Gyapchung si inginocchiò nell‘erba e con gli occhi sbarrati come piattini guardò giù nell‘acqua

gorgogliante, mentre il pesciolino nuotava in cerchio tutt‘attorno con un ghigno da intenditore sul

muso squamoso. Le grasse ginocchia del re erano tutte infangate e fradice, e i suoi grossi occhi

sporgenti avevano lo sguardo di un uomo che ha appena visto un miracolo. Si allontanò presto

presto, con la sua andatura dondolante da papero, come un pollo inseguito dal macellaio, e ansando

e sudando arrivò alla sua camera. I ministri entrarono con le facce gravi come una notte senza stelle,

guardarono perplessi le reali ginocchia tutte sporche di fango, e si agitarono come madri ansiose

mentre il monarca comandava gemendo di stare un po‘ fermi e scuoteva la testa rotonda come una

boa nel mare in tempesta.

―Non è successo niente,‖ gridava al di sopra dello schiamazzo dei suoi cortigiani. ―Ma se state

un po‘ zitti vi dirò quel che mi è capitato.‖ Tutti tacquero, in attesa di udire i guai del loro sovrano

dalle ginocchia infangate, pronti a offrire i loro servigi. Gyapchung si domandò perché doveva

sempre gridare prima di riuscire a dire due parole; eppure si supponeva che fosse lui il sovrano.

Così pensava fra sé mentre raccontava come stesse passeggiando nei giardini del palazzo — i

due giovani amanti gli erano usciti di mente – quando improvvisamente un pesciolino era saltato

fuori dal laghetto ed era scoppiato in una risata. I ministri tossicchiavano e facevano ―bah, bah‖, e

―boh, boh‖ e si guardavano l‘un l‘altro aspettando che qualcuno venisse fuori con qualche

spiegazione: ma a poco a poco il tos-sicchiamento cessò e ci fu silenzio. Nessuno sapeva perché il

pesciolino avesse riso.

―Ma voi dovreste essere i ministri,‖ brontolò il re. ―E se non lo sapete voi, chi dovrebbe

saperlo?‖

I ministri tornarono a guardarsi l‘un l‘altro, ma nessuno trovò una risposta. Il re si asciugò la

fronte con la stessa manica di prima, guardandoli uno dopo l‘altro come se fossero una banda di

scolaretti colti a rubare le mele dai frutteti reali.

―Forse rideva perché era felice,‖ azzardò uno del gruppo.

―Forse aveva il raffreddore e quello che voi avete sentito era uno starnuto e non una risata,‖ disse

un‘altra voce.

Ora che il ghiaccio era rotto cominciò a venir fuori un fiume di parole. Ogni ministro aveva

ritrovato se stesso e ciascuno gridava sopra la testa dell‘altro, girando gli occhi qua e là per

incontrare lo sguardo del re, assordato da tutto quel chiasso, e cercando di dimostrargli coi gesti che

la sua propria idea era migliore di tutte le altre: finché una voce rombante come un tuono li fece

tutti tacere come tante mummie.

―Scemenze, scemenze, scemenze,‖ gridò il re. ―Io voglio sapere perché il pesce rideva, non

sentire le vostre stupide idee.‖

Gyalpo Gyapchung volse verso Ladoe Chen uno sguardo scrutatore come un raggio di luce che

rompe le tenebre. Il re stimava quell‘uomo più di qualsiasi altro suo cortigiano. Era il più silenzioso,

il più dotto di tutti, e spesso sapeva cose che i suoi colleghi avevano cercato a lungo di conoscere

nell‘oscurità della loro ignoranza.

―Che cosa pensate che significhi questo presagio?‖ chiese il re, guardando Ladoe Chen.

―Non lo so, mio signore.‖

―Allora sarà tuo compito scoprirlo.‖

Gli altri ministri parvero un po‘ offesi di non essere stati scelti per quell‘incarico, anche se

segretamente erano ben contenti che fosse ricaduto sulle spalle di un altro. Guardarono il silenzioso

ministro con occhi gelosi e sospettosi, sperando nel profondo del cuore che fallisse nella sua

missione e fosse bandito dalla corte. Il re congedò i consiglieri con un cerino della tozza mano

ingioiellata e si immerse in meditazione, con quel pesciolino ridacchiante che seguitava a nuotare

nei suoi pensieri e le sue cento mogli tutt‘attorno con occhi imploranti, che lo abbracciavano come

il bel giovane ch‘egli era stato alcuni, beh, diciamo parecchi anni prima.

Ladoe Chen se ne tornò a casa a lenti passi per le polverose vie della città, con le mani congiunte

dietro il dorso, le sopracciglia aggrottate e la fronte corrugata come i solchi appena lasciati

dall‘aratro trascinato dal bue. Diversamente dai suoi colleghi, che tornavano a casa in splendide

carrozze, il silenzioso ministro preferiva sempre camminare, ripensando ai problemi dell‘oggi e

cercando le risposte per il domani. Ma l‘enigma di quel giorno era stato intessuto con l‘abilità degli

antichi. E non bastava pensare una risposta: bisognava scoprirla.

Quando il sole si destò dal suo sonno per iniziare la sua passeggiata nei cieli il ministro balzò in

sella alla sua giumenta grigia e partì nella luce del giorno nascente. I galli cantavano, le cornacchie

gracchiavano. La giumenta si godeva l‘aria fresca e trottava allegramente, sollevando la polvere con

gli zoccoli e sorridendo alle vacche che si godevano la colazione mattutina. Ladoe Chen cavalcò

verso le colline per far visita a un vecchio lama, un saggio che molti anni prima era stato l‘indovino

di corte ed era ancora il più sapiente di tutti gli abitanti del regno. Dopo poche ore di cavalcata il

ministro trovò il vecchio pensatore nella sua grotta da eremita, a metà strada sul versante del monte.

Spiegò al saggio il problema e il saggio si mise a pensare, si grattò il mento, si grattò la testa calva

che brillava alla luce del sole — ma non disse una parola.

Il ministro disperato tornò alla sua giumenta e si allontanò nel quieto pomeriggio. Se l‘indovino

non lo sapeva, allora nessuno avrebbe potuto saperlo. Tornò a casa tardi, decise di non toccare cena

e se ne andò a letto tutto preoccupato. Si alzò di nuovo all‘alba e si allontanò a cavallo nel giorno

nascente, per visitare un altro saggio che viveva in un piccolo monastero. Ma ancora una volta

Ladoe Chen non ottenne alcuna risposta. Ogni giorno cavalcava per le campagne chiedendo

consiglio ai più saggi monaci e agli uomini più intelligenti del regno. Ma nessuno sapeva perché il

pesce si era messo a ridere. Il ministro si avviliva sempre più e in poche settimane parve invecchiato

di parecchi anni. Si inchinava davanti al re e riferiva che nulla di nuovo si era potuto scoprire. Ogni

giorno il suo viso si faceva più triste, il suo inchino più profondo e le sue scuse più umili. Il re

continuava a tormentarsi sul mistero del pesciolino e spesso andava al laghetto per vedere se poteva

ritrovare quel piccolo mostro. E il ministro veniva sempre a saperlo, guardando le sue ginocchia

infangate e la faccia lunga del suo sovrano. Parlavano e parlavano del pesce che rideva; ma più

parole dicevano, più complesso si faceva il mistero.

Un giorno Ladoe Chen sedeva malinconico nella sua bella casa quando suo figlio entrò e si

sedette accanto a lui. Sherap Chen guardò suo padre con un giovanile sorriso e gli chiese se poteva

essergli di aiuto nella ricerca di una soluzione per l‘enigma del pesce.

―Nel regno che confina col nostro ci sono molti uomini saggi e molte donne sagge: sono loro che

ci daranno risposta.‖

Il vecchio ministro sorrise paternamente al suo energico figliolo e lo ringraziò per l‘aiuto che gli

offriva.

―Se vuoi fare tu questo viaggio, e riesci a risolvere il problema, potrai averne un‘alta

ricompensa,‖ disse il padre.

Il giorno dopo Sherap partì per il regno vicino. Portava nel sacco una zampa d‘agnello, una

focaccia d‘orzo tsampa e una piccola quantità di burro. Si pose in cammino a lunghi passi, perché

un cavallo non poteva servire sugli alti valichi delle montagne, e nel suo giovanile entusiasmo

andava fischiettando un‘arietta. Si sentiva sicuro di riuscire là dove suo padre e gli altri ministri

erano falliti. Avanzava allegramente, saltando sui sassi e sorridendo agli uccellini, che svolazzavano

sugli alberi più alti da dove potevano osservarlo. Ogni tanto si fermava a riposare, mangiava

qualcosa, dormiva sotto le siepi che circondavano le tenute dei gentiluomini di campagna e all‘alba

del giorno dopo si rimetteva in cammino, diretto verso le alte montagne e la frontiera che divideva il

regno dal paese vicino.

Mentre si arrampicava su per una collina rocciosa, Sherap Chen incontrò un uomo che stava

seduto sull‘erba ai piedi di un albero di ginepro e faceva colazione. Il giovane sedette vicino a lui, e

come l‘altro tirò fuori il cibo dal sacco di cuoio. L‘uomo mangiò il suo agnello, la focaccia e il

burro, prendendo un boccone dell‘uno e un boccone dell‘altro. Invece Sherap Chen tirò fuori un

coltello, tagliò un pezzo di carne dalla sua zampa d‘agnello e lo mangiò, poi mangiò la focaccia e il

burro.

―Questa è una cosa un po‘ insolita,‖ disse Kalsang, tanto per attaccar discorso.

―Davvero insolita,‖ confermò il giovane, ma gli piaceva così, e avviò cordialmente la

conversazione. I due parlarono dei loro problemi e risultò che Kalsang abitava proprio nel regno

vicino, dove il nostro giovanotto era diretto. Quando finirono di mangiare continuarono il loro

cammino insieme, arrampicandosi sempre più in alto, al di sopra del limite delle foreste fino ai

nevai, che aspettavano la metà dell‘estate per fondersi completamente.

Camminarono così fianco a fianco, il giovane allegro come una giornata di primavera, il suo

compagno, beh, un po‘ perplesso. Ogni tanto Kalsang gettava un‘occhiata di sbieco al giovane

fischiettante che marciava accanto a lui. ―Forse è matto,‖ diceva fra sé, spostandosi un po‘ a sinistra,

nel caso che il ragazzo avesse un accesso di pazzia. Rispondeva alle domande del giovane con

parole caute e accuratamente scelte, cercando di non irritare quel tipo certamente un po‘ squilibrato,

come uno che non è abituato a trattare con un forestiero, anche se ne conosce bene la lingua.

Quando raggiunsero il fiume l‘uomo sedette sulla riva, si levò gli stivali e guadò cautamente la

rapida corrente. Mentre si muoveva nel fiume poco profondo, guardò Sherap Chen, e rimase

esterrefatto: il giovane era saltato dritto dritto in mezzo al fiume e ora lo guadava con gli stivali ai

piedi. Kalsang pensò che era meglio non parlar neppure dello strano fatto, non volendo indispettire

il gioviale giovanotto.

Infine si arrampicarono su per l‘ultima ripida salita e attraversarono la linea di demarcazione fra

un paese e l‘altro. Oltre le colline la pianura si stendeva come una tovaglia variopinta, perché la

vegetazione primaverile era tutta in fiore: dorato il grano, rossi i fiori, verdi le foglie nuove, azzurro

il cielo sullo sfondo. Le casette sparse nella pianura erano come vasetti di sale e pepe, salsierine e

lattierine. I sottili ruscelli sembravano coltelli e forchette, disposti con cura ad angolo retto coi

cucchiai, e le pozzanghere dove gli yak si bagnavano erano come piatti di terracotta.

―Ecco la mia casa, là in lontananza,‖ disse Kalsang, additando una fattoria dove gli animali

oziavano al sole e gli orti si alternavano come una fila di carte da gioco.

Sherap Chen chiese al vecchio se avesse un figlio: ma costui viveva solo con una giovane figlia

che lo aiutava a condurre avanti il podere, preparava il cibo e dava da mangiare agli animali.

Camminando verso la fattoria, il giovane domandò se i vasi di terracotta dipinti in rosso che stavano

sul tetto erano mai stati usati. Kalsang pensò che il giovanotto era più stupido del previsto: i vasi

erano dipinti, perciò evidentemente non erano mai stati messi sul fuoco.

―No,‖ rispose con un sorrisetto falso, ―sono nuovi di zecca.‖

Poi il giovane chiese se la fattoria era sua, e l‘uomo disse di sì. Chiese poi se il frumento era già

stato mangiato — ed era ancora lì che ondeggiava nei campi — e Kalsang naturalmente rispose che

non era ancora stato mietuto. Quando infine il giovane gli domandò un rifugio per passarvi la notte,

il proprietario della fattoria non si sentì di rifiutarglielo. Continuava a ripetere fra sé: ―Questo qui è

matto… questo qui è matto…‖ ma non seppe come respingere quel figliolo, matto, sì, ma tanto

allegro.

Kalsang gli presentò la sua graziosa figlia Yangchen e Sherap sedette alla grande tavola di legno,

mentre Kalsang tirava la fanciulla in disparte per avvertirla di stare attenta.

―Questo qui è un matto, così non dir niente che possa irritarlo/‘ disse il vecchio.

Invece la serata fu molto piacevole. La fanciulla trovò il giovanotto assai divertente e ben

lontano dall‘essere matto: anzi pensava che fosse piuttosto intelligente. Parlarono delle cose di cui

parlano di solito i giovani, mentre il vecchio se ne stava imbronciato in un angolo a osservare i loro

volti sorridenti e ad ascoltare le loro parole che rimbalzavano qua e là per la stanza.

Via via che la notte si faceva più nera, i pensieri del povero Kalsang diventavano sempre più

tetri. Se ne stava nel suo angolo a covare i suoi dubbi, preoccupato per la notte, temendo che quel

giovane matto avesse uno dei suoi accessi di pazzia e si mettesse a correre smaniando per la fattoria,

come posseduto dal demonio.

Le stelle illuminavano in gruppi capricciosi il cielo primaverile quando il giovane salì la scala

esterna per raggiungere il suo giaciglio sul tetto. Sorrise alla leggiadra fanciulla attraverso una

finestra aperta e poi fece di corsa gli ultimi gradini, felice di avere le stelle per coperte e la luna

come lampada. Invece nella stanza sottostante l‘atmosfera era cupa, il padre guardava la figlia, che

distoglieva accigliata lo sguardo.

―Te l‘ho detto che è matto,‖ diceva Kalsang. ―Perché sei stata tanto tempo a parlare con lui?‖

―Io penso invece che sia molto simpatico,‖ rispondeva la fanciulla. ―Comunque, cosa ti fa

credere che sia matto? Io lo trovo anzi piuttosto intelligente.‖

Kalsang rimase pazientemente seduto, con la sua faccia paterna imperturbabile come una

maschera, e parlò delle strane azioni del giovane. Disse alla figlia come Sherap Chen avesse

mangiato il suo cibo in modo tutto diverso da quello degli altri. Narrò come avesse guadato il fiume

tenendosi gli stivali ai piedi, parlò dei vasi rossi e del fatto che il giovanotto aveva chiesto se una

parte del frumento era stata mangiata, mentre il frumento era ancora tutto nei campi.

Yangchen ascoltava pensosa, mentre le rotelline della sua mente saggia giravano e giravano

come un delicato meccanismo. Ringraziò il padre e promise di pensare seriamente a ciò che le

aveva detto: il giorno dopo sarebbe venuta da lui con una risposta. Pensò e pensò a tutte le cose che

il giovane le aveva detto, alla loro conversazione dopo il pranzo e alle accuse fatte dal padre. Pensò

e pensò e alla fine trovò la risposta. Si coricò e dormì profondamente come un bambino.

Il giovane sedeva sul tetto e osservava il sole salire lento e silenzioso nel cielo azzurro quando

Yangchen bussò alla porta del padre, ansiosa di dargli la buona notizia che, sperava, lo avrebbe

tranquillizzato. Il vecchio non aveva dormito così bene, si era svegliato a ogni rumore, aspettandosi

che il pazzo si precipitasse nella sua stanza. I suoi vecchi occhi stavano aperti a fatica, le rughe del

tempo erano come cicatrici sulla sua fronte, le sue guance erano cascanti come logore sacche di

cuoio. Yangchen sembrava un fiore di eliotropio, sbocciato accanto a un vecchio albero nodoso.

―Va tutto bene, padre,‖ disse la fanciulla. ―Sherap Chen non è punto matto, anzi è un uomo molto

intelligente.‖

Kalsang sorrise alla figlia mentre essa gli chiariva il mistero. La fanciulla spiegò al padre che

Sherap aveva mangiato le sue pietanze separatamente perché voleva gustare il sapore di ognuna,

invece di mescolarle tutte insieme. Non conosceva il fiume che doveva guadare e lo aveva

attraversato con gli stivali ai piedi in caso che sul fondo ci fossero ciottoli aguzzi o frammenti di

vetro. La questione dei vasi d‘argilla riguardava direttamente la fanciulla. In realtà il giovane voleva

sapere se lei fosse stata usata o no, ma era troppo timido per domandarlo. Quanto al frumento,

voleva sapere se una parte di esso avrebbe dovuto essere pagata per saldare dei debiti, dopo la

mietitura.

―Egli è molto, molto intelligente e tu devi essere molto gentile con lui d‘ora in poi,‖ disse la

fanciulla, ammonendo il padre col suo bel ditino come se fosse uno scolaretto.

A colazione l‘atmosfera era molto migliore di quanto fosse stata la sera prima. Kalsang pose al

giovane ogni sorta di domande, come a compensarlo del suo silenzio del giorno avanti, e apprese

così che Sherap era figlio di un ministro del re e cercava la risposta a un importante mistero di cui il

sovrano molto si angustiava.

―Io sono sicuro che non lo so, ma Yangchen probabilmente lo saprà,‖ disse Kalsang, sorridendo

al giovane invece di serbare il cipiglio di prima.

Sherap Chen spiegò come il re fosse molto infelice da quando il pesciolino era saltato fuori dal

laghetto e gli aveva riso in faccia. Parlò del suo povero padre ormai avviato precocemente alla

tomba, e di come gli avesse promesso di cercare una risposta in questa terra straniera. La fanciulla

ascoltava con profonda attenzione, mentre suo padre si limitava a sollevare le folte sopracciglia,

senza però avere alcuna idea del perché il pesciolino ridesse. Ma Yangchen sorrideva pensosa:

sapeva tutto del pesce che rideva. In realtà sapeva molte cose, per essere una fanciulla così giovane

e graziosa.

―Vieni,‖ disse, ―faremo visita al tuo re insieme.‖

I due uomini guardarono sbalorditi il grazioso visetto rotondo; ma la fanciulla era così sicura di

sé che non pensarono neppure di sollevare obiezioni. Posero del cibo in borse di pelle, chiusero la

porta della fattoria e salutarono con un cenno della mano i campi dorati che ondeggiavano alla

brezza del mattino. Salirono fino al confine, si arrampicarono fino al nevaio che si stava sciogliendo

e si trasformava in pozzanghere gelate sotto i loro scarponi da montagna. Quando il sole tramontò

dietro una fila di snelli pioppi i tre viandanti erano già scesi lungo l‘altro versante della montagna, e

si trovavano vicini ai primi minuscoli villaggi di Gyalpo Gyapchung.

Ogni notte si fermavano in casa di qualche gentile contadino, mangiavano focacce calde e

bevevano tè con burro fresco. Poi riprendevano allegramente il cammino: i due uomini

continuavano a domandare perché il pesciolino ridesse e la fanciulla rispondeva che dovevano aver

pazienza e aspettare finché fossero arrivati a corte. Finalmente giunsero alla casa del ministro Ladoe

Chen, il quale bramava anch‘egli disperatamente di sapere perché il pesce ridesse. Ma Yangchen

rispose ancora con un sorriso e gli disse di aspettare fino al giorno dopo, quando tutti avrebbero

potuto scoprire perché il pesciolino era saltato fuori dal laghetto e aveva riso in faccia al potente

monarca.

Yangchen dormì benissimo, con un sorriso sul giovane viso, mentre nell‘altra stanza i tre uomini

ripensavano a tutta quella storia. Non riuscivano a trovare una ragione logica, ma quel che più li

seccava era che una ragazza così giovane si prendesse gioco di loro. Sedettero insieme a colazione,

cercando di strappare la risposta dalle labbra della fanciulla, mentre i servi versavano il tè e

indugiavano accanto a loro più del necessario, sperando di afferrare qualche notizia a proposito del

problema del re. Prima che il ministro, suo figlio, il vecchio e la fanciulla arrivassero al palazzo

reale, tutta la città era in subbuglio e circolavano ogni sorta di voci. Dicevano che la fanciulla era

maestra di magia, anzi in realtà era un pesce in forme umane e aggiungevano ogni genere di strane e

bizzarre cose, nessuna delle quali naturalmente era vera.

Il re sedeva sul trono con un largo e rotondo sorriso sul volto. I ministri chiacchierando e

ridacchiando sedevano tut-t‘attorno come galline starnazzanti, alzando le voci pettegole per poi

tacere di colpo al cenno della sua tozza mano. Il ministro Ladoe Chen era ritto presso il trono con

volto grave e pensoso, sperando che il re restasse soddisfatto ed evitando accuratamente gli sguardi

maliziosi dei suoi colleghi. Kalsang appariva stanco dopo la lunga camminata, ma era orgoglioso di

trovarsi al cospetto del sovrano, anche se provava una certa paura al pensiero che la sua intelligente

figliuola potesse far fiasco e farsi ridere dietro da tutti.

Si fece silenzio. Il re si piegò in avanti, col grosso ventre che gli pendeva fra le gambe come

mammelle, e girò la testa rotonda da un lato in modo che il suo enorme orecchio potesse ricevere

per primo il messaggio. Lo schiamazzo dei ministri era finalmente cessato. Tutti aspettavano in

astioso silenzio, col muso lungo, guardando la leggiadra fanciulla che sembrava così calma e sicura

di sé, come una regina che è abituata alla compagnia dei re.

―Anzitutto dobbiamo fare cento lucchetti d‘oro,‖ disse la fanciulla, ―ma con una sola chiave

speciale che li apra tutti quanti.‖

Il re rimase a bocca aperta, i ministri tossicchiarono. Serrature, una chiave. Ma cosa aveva a che

fare col pesce che rideva? Tuttavia la fanciulla era così tranquilla e sicura di sé che non osarono dir

di no. Avevano aspettato tanto per trovare la risposta all‘enigma, e fare cento lucchetti non era certo

un problema. Il re mandò i suoi messi dai migliori fabbri della città con speciali istruzioni, una

guardia armata partì con uno scrigno d‘oro, tanti bei lingotti d‘oro che dovevano essere trasformati

in preziosi lucchetti. Uno dei ministri tossì e si alzò in piedi. Aveva un‘obiezione da fare, ma prima

che potesse emettere la voce una grossa mano tozza gli fece cenno di sedersi di nuovo. Il re

Gyapchung era ben deciso a portare avanti il progetto a tutti i costi.

Verso sera le guardie del corpo tornarono indietro. Invece del grande scrigno portavano tante

borse d‘argento, ognuna delle quali conteneva un lucchetto appena fatto, e una borsetta speciale con

una chiave specialissima.

―Ora dovete prendere i lucchetti e chiudere ognuna delle vostre mogli in una camera separata/‘

disse Yangchen.

I ministri tossicchiarono un‘altra volta e il re si limitò a gettar loro uno sguardo altero. Che fu

abbastanza per tenerli quieti. Poi guardò la leggiadra fanciulla che sedeva tranquillamente a gambe

incrociate su un cuscino di velluto. Non sapeva bene cosa pensare del suo suggerimento, ma in

qualche modo pareva che si fidasse di lei, come se le sue parole fossero il comando di una gentile

divinità.

II re dunque si avviò e le sue guardie e i suoi ministri lo seguirono in processione. Trovarono

tutte le mogli, e una per una le chiusero in camere separate con la chiave speciale.

La processione andò in giro per tutto il palazzo, come se fosse un giorno di festa, e infine tornò

nella sala del consiglio, dove Yangchen sedeva beatamente sul pavimento, come un monaco in

meditazione. I ministri si infilarono tutti al loro posto mentre le guardie marciavano rigide verso la

porta come in una grande parata. Il re guardò la fanciulla, come per dire: ―Beh, e ora?‖, ma non

disse nulla. Subiva il fascino della leggiadra giovinetta e aspettava le prossime istruzioni. Se lei gli

avesse detto di volare sulla luna, probabilmente avrebbe cercato di farlo.

―Ora dovete aspettare fino a domani,‖ disse Yangchen. ―E prima che il sole sorga nel cielo

dovete liberare ognuna delle vostre mogli dalle loro camere chiuse a chiave.‖

Inutile dire che tutti i ministri tossicchiarono, ma fecero immediatamente silenzio, senza bisogno

che il re dovesse aggrottare le ciglia o sollevare un tozzo dito. Il sovrano e i suoi cortigiani uscirono

dalla sala, fra le guardie rigide sull‘attenti come una fila di statue. Il re si ritirò nelle sue stanze e si

preparò ad andare a letto. Non era abituato ad alzarsi così presto al mattino e aveva dimenticato

com‘era l‘aurora. I ministri salirono sulle loro eleganti carrozze, perché anche loro dovevano alzarsi

prima dell‘alba.

Il ministro Ladoe Chen durante la cena guardava pensieroso la sua giovane e leggiadra ospite.

Anch‘egli insieme agli altri due uomini che sedevano a tavola la tempestò di domande. Erano tutti

ansiosi di scoprire il mistero del pesce, e ora avevano da pensare anche all‘altro mistero dei cento

lucchetti d‘oro. Nessuno dormì quella notte — nessuno, naturalmente, tranne Yangchen. I ministri si

agitarono e si rigirarono nelle loro eleganti lenzuola di seta, il re si rotolava su e giù come un

enorme macigno in una frana, e la casa di Ladoe Chen vibrava addirittura di mille pensieri.

Pareva che fossero passati solo pochi minuti, ed era già l‘ora di alzarsi. Un pugno d‘uomini

storditi e con gli occhi pesti andò incontro al re nella sua camera. Il sole era ancora nascosto

nell‘ombra e la luna impallidiva alle prime luci dell‘alba. Di nuovo marciarono come un corteo

carnevalesco, col re Gyapchung in testa che brandiva la chiave d‘oro come una bandiera. Lo

seguivano la fanciulla, il ministro Ladoe Chen con la faccia severa, suo figlio Sherap e Kalsang, che

appariva il più stanco di tutti: dietro si trascinavano tutti gli altri ministri. In coda venivano le

guardie, sempre rigide e marziali come soldatini di piombo coi loro sorrisi stampati sulla faccia.

Il corteo passò da una camera all‘altra, aprendo successivamente tutti i lucchetti d‘oro con la

chiave speciale. Quando ebbero liberato tutte le mogli, la storia era belle finita. Perché in

novantanove stanze trovarono non soltanto una regina addormentata, ma anche un giovanotto

abbracciato con lei. La più giovane e leggiadra delle regine era rimasta fedele al suo sposo, ma le

altre… e il re non sapeva cosa fare delle sue mogli infedeli e dei loro sfacciati amanti.

Il re Gyalpo Gyapchung pensò al giorno in cui aveva visto la giovane coppia trastullarsi al sole

di primavera. Pensò alla balconata, al giardino e al laghetto da dove il pesciolino era balzato fuori

con la sua insolente risata. Si era tanto preoccupato di come render felici le sue cento mogli, mentre

in tutto quel tempo ciascuna aveva pensato a soddisfarsi da sé.

―Ora sapete perché il pesce rideva,‖ disse Yangchen sorridendo al grasso re, che si grattava la

testa e guardava le sue novantanove cattive mogli e i loro amanti che stavano loro dietro in silenzio

a capo chino.

Ma il re Gyapchung non era un uomo cattivo, anzi qualcuno diceva che era troppo buono per

aver fortuna. Disse alle regine che potevano lasciare il palazzo e cominciare una nuova vita con

l‘uomo che ciascuna amava. I ministri tossicchiarono, ma il re li guardò severamente ed essi fecero

silenzio. Il ministro Ladoe Chen fu ricompensato, e anche il povero vecchio Kalsang fu premiato

per avere una figlia così intelligente. Il re sorrise a Yangchen e disse che ora gli era rimasta una sola

sposa fedele e quindi doveva ricominciare a farsi la sua riserva di mogli.

Yangchen ringraziò il re per la sua gentile offerta e sorrise a Sherap Chen: e tutti videro dove la

fanciulla aveva realmente riposto il suo cuore.

IL CADAVERE PARLANTE

Nei tempi antichi la vita era molto diversa. Sui monti e per le valli vagavano non solo gli uomini,

ma anche diavoli e dèi, maghi e stregoni. Gli animali capivano gli uomini quando parlavano, e gli

uomini sapevano capire gli animali quando non dicevano niente. Ma gli inizi del tempo eran passati

da molto. Erano passati i tempi in cui ogni uomo che respirava sulla terra possedeva le stesse cose

del suo vicino. Secoli di cambiamenti avevano sostituito l‘antica semplicità: l‘oro e le pietre

preziose non erano più nascosti sottoterra, ma adornavano i ricchi e i potenti. Gli uomini avevano

imparato a odiare, ad amare, a rispettare Dio e a temere la collera delle sue divinità.

In questi giorni di cambiamento nacquero tre bambini. Uno era figlio del re, il secondo era il

primogenito del più importante ministro del re, e il terzo era figlio di un mendicante. Il principe e il

figlio del ministro vivevano l‘uno vicino all‘altro nei due splendidi palazzi del regno. Il principe

Dhondup passeggiava nei boschi che circondavano il palazzo e si incontrava con Tashi, che viveva

nel palazzo vicino. I due ragazzi crebbero insieme, mentre i loro padri erano costantemente occupati

ad amministrare le finanze e le leggi del regno nella grande Camera del Consiglio. Quando i due

ragazzi passeggiavano insieme, discutendo di cavalli e di duelli alla spada, passavano sempre vicino

a un misero tugurio. Era qui che viveva Nicho Sangbo con i suoi poveri genitori.

Nicho cresceva bello e forte, e pieno di gelosia per gli altri due ragazzi. Una volta udì discutere

su chi corresse più veloce e gridò a voce altissima che li avrebbe vinti entrambi alla corsa. Quelli

accolsero subito la sfida, ridendo delle sue vanterie; si tolsero i bei vestiti e dissero che la corsa

cominciava. Si schierarono dietro un filare di alberi e di qui si proposero di raggiungere un alto

abete che si alzava a qualche miglio di distanza, svettando molto al di sopra degli altri alberi nel

bosco.

Il principe contò fino a tre e i ragazzi partirono, correndo così veloci che il vento si fermò a

guardarli e ad ascoltare i battiti dei loro cuori e i loro ritmici passi. Dapprima era in testa il principe

Dhondup, poi il suo amico, il figlio del ministro, prese il primo posto. Nicho Sangbo correva

restando fra i due; poi passò in testa. Ma ben presto si lasciò nuovamente superare, quando correre

in testa divenne troppo faticoso. Ognuno cercava di mantenere il secondo posto, correndo al passo

del primo, per conservare ogni oncia di forza per l‘ultimo scatto disperato verso l‘abete che pareva

sempre lontano miglia e miglia, in un altro mondo, in un‘altra vita. I volti dei ragazzi erano

congestionati e il fiato che usciva da ogni bocca era così ardente e violento che avrebbe potuto

cuocere una focaccia. Ciascuno correva come se la corsa fosse una questione di vita o di morte. Il

principe doveva dimostrare la sua capacità di essere un capo, perché un giorno avrebbe governato il

regno. Anche Tashi doveva dimostrare la sua capacità di essere un braccio destro del re. Arrivare

secondo non sarebbe stato un successo, ma arrivare ultimo significava un fallimento completo. E gli

pareva che tutto il suo avvenire dipendesse dal suo posto nella corsa. Quanto al figlio del

mendicante, il povero Nicho Sangbo, che si era vantato di essere un grande atleta, arrivare ultimo

sarebbe stato per lui come dimostrare che non meritava altra posizione nella società se non quella

che suo padre aveva tenuto per tutta la vita.

L‘alto abete che sembrava lontano mille miglia era una realtà. Ancora pochi balzi, pochi tronchi

d‘albero da superare, pochi cespugli da aggirare o saltare. Sono gli ultimi cento metri: il principe è

in testa, seguito da Nicho Sangbo. Il figlio del ministro scatta in testa. Sono gli ultimi cinquanta,

venti, dieci. I ragazzi sono tutti e tre affiancati e protendono le mani nell‘aria senza vento cercando

di trovare la forza di montare in testa. Tutti e tre, con le facce rosse e i cuori che battono come

tamburi, si precipitano verso il grosso tronco.

Ma nessuno seppe mai quale fu la mano che aveva toccato per prima la corteccia dell‘albero.

Nessuno dei tre ragazzi era in sé in quegli ultimi attimi, quando i crampi allo stomaco li abbatterono

ai piedi dell‘albero e lampi bianchi e azzurri di tortura fisica attraversarono i loro cervelli in uno

spasimo che toccava il limite del dolore e del piacere. Caddero a terra ammucchiati, si rialzarono, si

guardarono intorno come un atleta alla fine di una maratona, poi crollarono a terra, metà ridendo

metà mordendosi la lingua, senza sapere se cantar vittoria o piangere una sconfitta.

―La vittoria è mia…‖ diceva uno dei ragazzi e gli altri due ridevano, lo zittivano e reclamavano il

primo posto. La discussione continuava e nessuno voleva cedere di un pollice. Infine il principe si

mise a ridere, Tashi, il suo amico, rise con lui e quando Nicho Sangbo si unì al coro ogni rancore

svanì e furono poste le basi di una vera amicizia. Una improvvisa somiglianza li legava; con la

maglietta inzuppata di sudore il principe non si distingueva dal mendicante. Erano tutti e tre un

mucchio di ossa doloranti che avevano bisogno di un buon bagno e un riposo ristoratore.

Via via che i giorni e le settimane diventavano mesi e anni, i tre ragazzi si facevano sempre più

amici: una strana amicizia basata sulla competizione, perché quando si trovavano nei boschi fra il

palazzo reale e la dimora del ministro subito si mettevano a saltare, correre, scagliar pietre e

giavellotti o a fare la lotta come feroci guerrieri. Ma se uno faceva il salto più alto, un altro

scagliava la pietra più lontano, o con mira più precisa. Saltavano il ruscello là dov‘era largo, e

ridevano se si bagnavano i piedi. Scagliavano giavellotti contro gli alberi e segnavano il punteggio

migliore per chi colpiva i rami più sottili che ondeggiavano al vento; e danzavano di piacere se tutti

e tre i giavellotti andavano a perdersi in lontananza.

Un giorno che si erano addentrati nel folto del bosco giunsero a quello stesso vecchio abete, che

si ergeva maestoso al di sopra degli altri alberi. L‘abete aveva osservato la corsa e aveva riso come

un saggio alle follie di quegli ingenui ragazzi. Il vecchio albero aveva visto crescere intorno a sé il

mondo, e ora dormiva di giorno e ondeggiava con le ombre la notte. Sulla sua cima v‘era un

gigantesco nido, che era stato costruito quando l‘albero era solo un giovane virgulto, e poi era stato

continuamente ampliato, via via che gli anni passavano e gli uccelli nutrivano i loro piccoli sempre

più lontano dagli sguardi dell‘uomo. Il principe scagliò una pietra sul nido e lo colpì giusto al

centro. Tashi fece lo stesso e Nicho Sangbo li imitò.

―Colpire il nido è facile,‖ disse ridendo il principe Dhondup. ―Io sarei capace di abbatterlo e

farlo cadere giusto ai nostri piedi.‖

Era la solita sfida gettata agli altri. Così cominciavano tutti i giochi. Uno proclamava di saper

fare questo o quello meglio degli altri, e gli altri ridevano e si accingevano a dimostrargli che aveva

torto. Si misero dunque tutti a tirar pietre, e per lo più facevano centro, ma il nido, quell‘ammasso di

rametti e piume, anche se ballava fra i rami non sembrava mai sul punto di cadere.

―Credevo che lo avresti tirato giù senza difficoltà,‖ disse Tashi.

―Lo farò,‖ rispose il principe. ―E per dimostrartelo, se tu lo farai cadere per primo avrai metà del

mio regno quando diventerò re; e lo stesso vale per Nicho Sangbo.‖

Tashi rispose prontamente a una sfida così orgogliosa. Promise metà della ricchezza di suo padre

al vincitore, e scagliò con tutte le sue forze la sua pietra contro il nido, lassù fra i più alti rami

dell‘albero. Nicho Sangbo non aveva ricchezze da offrire, ma promise che, se uno degli altri due

avesse vinto, lui lo avrebbe servito fedelmente per il resto della sua vita.

Per tutto il giorno le pietre volarono nell‘aria: alcune colpivano il nido, altre sparivano tra le

foglie. Il nido ondeggiava di qua e di là, ma non sembrava mai in procinto di cadere ai loro piedi. I

tre ragazzi scagliarono pietre finché i muscoli del loro braccio destro lanciarono spasimi di dolore

fino alla spalla. Cercarono allora di scagliare le pietre col sinistro, ma ben presto rinunciarono

perché la mira non riusciva mai abbastanza precisa. Il sole percorse i cieli in un arco dorato,

l‘azzurro splendente del giorno si offuscò nel crepuscolo. Gli alberi cantarono la canzone della sera,

una ninnananna per allettare le ninfe del bosco che sarebbero uscite a danzare sotto le stelle. Le

lunghe ombre della notte cominciavano a nascondere il nido, che era ancora appollaiato

imperturbabile sul più alto ramo.

―Sembra proprio che nessuno di noi debba vincere,‖ disse Tashi, il figlio del ricco ministro. ―Io

me ne vado a casa a pranzare.‖

Il principe decise di andarsene anch‘egli. Il re sicuramente lo stava aspettando a cena — e non è

mai consigliabile fare aspettare un re, anche se è il proprio padre. Ma Nicho Sangbo decise di

continuare a tirare. Promise che, se abbatteva il nido, lo avrebbe fatto solo nel modo più onesto e

leale.

―Ho detto certo delle bugie nella mia vita passata, come figlio di un mendicante, ma d‘ora in poi

non ne dirò più nemmeno una,‖ disse agli amici.

Il principe e il figlio del ministro ebbero fiducia in lui e se ne andarono attraverso i boschi,

parlando ad alta voce in modo che i diavoli non venissero a spaventarli. Ma Nicho Sangbo restò ai

piedi dell‘albero, scagliando pietre e pregando in cuor suo che quello fosse il momento della sua

fortuna. Si immaginava la ricchezza che sarebbe stata sua‘, il regno che avrebbe diviso col principe,

i servi che gli avrebbero servito il pranzo, sellato il cavallo, le danzatrici che si sarebbero aggirate

fra le marmoree colonne del suo palazzo vestite di veli sottili come l‘aria.

Questi erano pensieri che passavano nella mente di Nicho Sangbo quando la grande pietra che

aveva appena scagliato colpì esattamente la sommità del nido. La grandezza della pietra e la forza

mortale con cui fu scagliata strapparono il nido dalla forcella di robusti rami dove era stato ben fisso

per tanti anni. Il nido traballò da una parte e dall‘altra, poi lentamente si staccò e cadde balzelloni di

ramo in ramo e infine si fermò, non lontano da luogo dove era ritto il fanciullo.

Ma non fu con gioia che Nicho guardò il nido mezzo sfasciato: fu con paura. Perché dal mucchio

di rami e foglie emerse lentamente la figura rossa di un monaco, uno di quegli eremiti che passano i

loro giorni meditando sul mondo e sugli uomini e contemplando il cielo sulla loro testa.

―Chi è costui che vuol disturbare la meditazione di un vecchio monaco?‖ disse il lama Lhodup

Ngingbo.

Il ragazzo si fece piccolo piccolo, sporgendo un po‘ la lingua per mostrare che non era la lingua

nera di un diavolo. Umilmente si scusò e parlò della sua vita disgraziata. Non era che un povero

mendicante, disse, mentre i suoi amici avevano ricchezza e fama. Tutto quel che desiderava era

vincere la gara. Il lama ascoltò con grande interesse, scuotendo via la polvere dalle sue vesti. Ogni

tanto se ne usciva con un ―ehm‖, ―oh!‖, ―eh, eh‖, rifletteva e si grattava la testa e ascoltava con

somma attenzione mentre Nicho Sangbo gli parlava delle molte gare, delle molte competizioni,

delle corse — e della sfida con le pietre.

―Sei fortunato ad aver vinto la gara,‖ disse il saggio lama. ―Perché la provvidenza ha voluto che

tu non solo vinca una fortuna, ma salvi il mondo intero da un terribile malanno che sta per

scatenarsi.‖

Ora il fanciullo aveva ritirato la lingua dentro la bocca e ascoltava ad occhi sbarrati il vecchio

lama calvo che gli parlava dell‘orrendo Rongodup. Era un cadavere parlante che viveva nel cimitero

di Dgyger Suwatse, la dimora dei cadaveri, dei diavoli, degli spiriti maligni e delle cose nere che

sono rimaste intrappolate fra questa vita e la vita futura. Vi sono molti cadaveri e molti diavoli a

Dgyger Suwatse, diceva il lama: e tutti vogliono scappare ed entrare nel mondo degli uomini, per

cui bisogna esser molto prudenti. Appena vedrai Rongodup, spiegò il lama, dovrai prenderlo e

portarlo qui da me.

―Quando arriverai al cimitero, tutti i cadaveri parlanti vorranno venire con te,‖ disse il lama. ―Ma

tu devi lasciarli là. Rongodup dirà: ‗Non prendermi‘ e così tu riconoscerai qual è quello che devi

portarmi qui.‖

Il lama Lhodup diede al ragazzo una scure, una rete e una fune e gli spiegò che Rongodup il

cadavere parlante si doveva trovare in un albero di sandalo. Nicho doveva tagliare l‘albero,

prendere il cadavere nella rete e poi portarlo al lama nel bosco.

―Un‘ultima cosa,‖ disse il vecchio eremita. ―Non devi in nessun caso parlare al cadavere. Se lo

farai, qualche cosa di terribile succederà…‖

Nicho Sangbo tornò alla capanna di suo padre per spiegare che il giorno dopo doveva partire per

un lungo viaggio. Quella notte il suo sonno fu pieno di sogni, nei meandri della sua mente, fate e

divinità splendevano come le lampade al burro in un tempio e le tenebre del Maligno strisciavano

attorno, cercando di spegnere le luci e calare le cortine delle tenebre. ―Succederà qualche cosa di

terribile… succederà qualcosa di terribile…‖ La voce del lama risuonava come un‘eco vibrando

contro le pareti del suo cervello, sicché il ragazzo d‘improvviso si destò e strisciò fuori dal letto.

―Succederà qualcosa di terribile…‖ gli tornò di colpo alla mente e le parole gli riecheggiarono

dentro e si insinuarono nei suoi pensieri, ricordandogli il grave compito che lo aspettava. Doveva

salvare il mondo. Questo era assai meglio che la metà di una fortuna; e assai migliore sarebbe stata

la sua vita futura a causa del bene che ora egli faceva, o almeno si preparava a fare.

Il giovanotto ripose un po‘ di cibo in un sacchetto e si mise in cammino per il lungo viaggio fino

a Dgyger Suwatse. Camminò tutto il giorno, finché i suoi piedi furono gonfi e sudici, e la sua

schiena provò quel dolore che vi fa desiderare di spingerla in avanti, drizzarla come una freccia o

stenderla a terra come una lastra di pietra, per poter dormire come i morti nel cimitero: solo che qui,

a quanto pareva, c‘erano più spiriti vivi che morti. Forse i loro corpi avevano abbandonato la corsa,

ma i loro spiriti continuavano a vivere, i neri spiriti che avrebbero appestato il mondo e distrutto il

bene che gli uomini buoni cercano di fare. Al tramonto Nicho Sangbo si fermò: mangiò un po‘ del

cibo che aveva riposto nel suo sacchetto, bevve da un ruscello e si sdraiò a contemplare le stelle che

brillavano nel cielo sopra la sua testa: quelle infuocate che comparivano e subito svanivano come

frecce, le grandi stelle brillanti che fanno impallidire le più piccole, i gruppi di stelle che

palpitavano in grappolo. Il sonno venne facilmente: la giornata era stata lunga e la notte era stata

piena di neri pensieri.

Il sole saliva già al di sopra degli alberi quando gli occhi del giovane Nicho si aprirono sul nuovo

giorno. Una nuova vita incominciava: sarebbero nati bambini, sarebbero morti uomini e donne, la

ruota della vita continuava a girare, chiudendo le porte di un giorno e aprendo le porte dell‘altro. Gli

alberi brillavano ancora della rugiada della notte, i raggi del sole erano ancora deboli, le nubi

sostituivano le nere cortine che gli dèi tirano ogni notte attraverso il cielo.

Nicho Sangbo continuò a marciare, percorrendo la distanza fra i boschi e il cimitero di Dgyger

Suwatse come quando si traccia una linea retta nella polvere. Avanzava con passo continuo e sicuro.

Ascoltava gli uccelli che salutavano la luce del giorno, i fiori che schiudevano i loro petali, l‘erba

che si svegliava e si drizzava attenta come un esercito che si prepari per una lunga marcia.

Nicho Sangbo camminò ancora una volta per tutto il giorno.

Quattro giorni e quattro notti passarono prima che la li nea nella polvere fosse completa. Il

giovane figlio del mendicante in cerca del mezzo per salvare il mondo raggiunse infine Dgyger

Suwatse, la nera casa dei senza casa, dei viandanti che non possono andare in nessun luogo, dei

corpi con spiriti che non vogliono dormire e degli spiriti con corpi che non si possono vedere.

―Prendimi con te… prendimi con te… prendimi con te…‖: le voci del cimitero riecheggiavano nella

silenziosa campagna.

Il sole già dormiva, la luna si stava preparando a un‘altra lunga notte di veglia. Prendimi,

prendimi, prendimi, le parole suonavano piene e vuote, profonde e basse, in tono di preghiera e di

minaccia, di maledizione e di pianto. Prendimi, prendimi. Corpi con membra che potevano

muoversi e serici movimenti di spiriti che non potevano dormire, spiriti che cercavano redenzione e

libertà, una libertà che solo il tempo poteva dare, nella sua infinita immemorabile saggezza.

Nicho Sangbo vide l‘albero di sandalo in mezzo al cimitero. Sentì dita di ghiaccio che cercavano

di afferrarlo mentre camminava attraverso la cacofonia di voci vuote, di spiriti che bramavano la

liberazione ma non potevano trovarla. Alzò gli occhi e vide il cadavere senza vita nell‘albero di

sandalo, mentre un sorriso di vittoria gli illuminava il viso.

―Non prendermi… non prendermi…‖

La voce senza vita uscì da un corpo inanimato. Il giovane colpì con la lama della scure la

corteccia dell‘albero, e quando esso cominciò a barcollare si preparò con la rete, pronto a catturare

il maligno Rongodup, la minaccia che non dormiva.

Con il corpo di Rongodup ben legato e avvolto nella rete, nel quarto giorno di viaggio il giovane

campione prese la via del ritorno ai boschi della sua infanzia, dove il monaco in meditazione

aspettava Rongodup.

―Dove stiamo andando?‖ chiese il cadavere.

Il ragazzo non rispose.

―Dove mi porti? Mi sembri un così bravo giovane. Stiamo andando in qualche bel posto?‖

Rongodup faceva una domanda dopo l‘altra. Propose indovinelli, problemi e interrogativi, fece

promesse e minacce, pregò e pianse.

Quel corpo senza vita pareva tremare di collera, e poi singhiozzare di autocommiserazione.

Faceva domande, domande e ancora domande. Ma Nicho Sangbo ricordava bene quel che gli aveva

detto il lama.

E non diceva nulla.

―Se non vuoi parlare con me, puoi almeno raccontare una storia…‖

―Bene, se non vuoi raccontarmi una storia, allora te ne racconterò una io,‖ disse il cadavere.

―Una volta, tanti anni fa,‖ cominciò, ―c‘erano tre ragazzi. Uno era figlio di un re, il secondo era

figlio del primo ministro del re e il terzo era figlio di un mendicante.‖

Il cadavere tacque: sentiva i nervi del ragazzo tesi fino allo spasimo e sul punto di cedere.

―Ora, questi tre ragazzi erano amici, malgrado ognuno avesse un‘origine e una posizione tanto

diversa da quelle degli altri due. La ragione della loro amicizia,‖ continuò la voce vuota, ―era che

tutti avevano la passione della competizione. Ciascuno cercava sempre di superare gli altri due nei

giochi e nelle prove, e ridevano insieme quando tutti e tre fallivano in qualche sfida speciale.‖

Il cadavere poteva sentire la tensione di Nicho, come una belva in agguato, pronta a balzare sulla

preda. Le orecchie del ragazzo si erano drizzate come quelle di una tigre selvaggia, i suoi sensi

erano vigili, vibranti mentre la narrazione continuava.

―Un giorno,― continuò il cadavere, ‖i tre giovani sentirono parlare di una leggiadra fanciulla, di

nome Yetok, che viveva in un villaggio ai margini di un bosco. La fanciulla era molto bella ma non

aveva mai detto una parola da quando era nata. Restava seduta e pensava, sorrideva alle persone che

passavano vicino alla bella casa di suo padre, e continuava a pensare.

―Sentendo parlare della fanciulla, il giovane principe disse che per lui sarebbe stato facile farla

parlare.

‗La farò mia sposa,‘ disse agli amici. ‗E allora avrà tante cose da dire.‘

―Gli altri si misero a ridere, e il principe disse che loro due non avevano nessuna probabilità di

riuscire. Gli altri due affermarono che sarebbero sicuramente riusciti là dove il principe avrebbe

fallito.

E fecero una scommessa. Il principe disse che se uno degli altri due fosse riuscito, gli avrebbe

dato metà del suo regno. Il figlio del ministro consentì a dare la metà della sua ricchezza al vincitore

e il figlio del mendicante promise che gli avrebbe dato l‘unica cosa che aveva, ossia i suoi servigi,

per tutto il resto della sua vita.

―Il principe, poiché aveva dato inizio alla competizione, fece il primo tentativo. Si recò dalla

fanciulla con cento elefanti, gioielli, pietre preziose e splendide sete. Le chiese di sposarlo e di

essere così un giorno regina del suo regno. Ye-tok sorrise al bel giovane principe, ma dal suo

atteggiamento si vide chiaramente che non voleva diventare la sua sposa né essere principessa e in

futuro regina di tutto il paese.

―Il giorno dopo fu il turno del giovane ricco. Si recò dalla fanciulla con un seguito di mille

scudieri, con doni venuti dai paesi d‘oltremare e la promessa ch‘essa avrebbe potuto avere tutto ciò

che avesse desiderato. Ma Yetok si limitò a sorridere il triste sorriso di sempre, e fu evidente a tutti

che non voleva diventare la moglie del figlio del primo ministro.‖

Il cadavere sentì passare nel corpo di Nicho un senso di sollievo, mentre i suoi muscoli si

rilassavano. E continuò la sua storia, narrando che il figlio del mendicante non aveva parenti ricchi,

ma aveva un cervello eccellente nella testa. Diversamente dagli altri due, il giovanotto povero non

poteva presentarsi con doni e promesse: quindi doveva tentare un sistema diverso.

―Ora,― continuò il cadavere, ‖invece di presentarsi direttamente alla fanciulla, egli si recò da una

vecchia saggia che viveva al villaggio e le disse che il suo cuore ardeva d‘amore per Yetok: per lei

egli avrebbe fatto qualsiasi cosa. La vecchia si mise a ridere. Parlò al giovane mendicante del

principe e della sua proposta, gli parlò del figlio del ministro e delle sue molte promesse. Ma nulla

poteva indurre la fanciulla a dire di sì.

Il giovane povero non intendeva però darsi per vinto. Pregò e supplicò la vecchia che gli dicesse

perché la fanciulla non parlava: e infine la vecchia cedette e gli raccontò una lunga e infelice storia.

―Yetok nella sua prima vita era stata una pettirossa,‖ spiegò il cadavere, ―e viveva su un alto

albero vicino a una fattoria. Aveva due piccoli da curare e un pettirosso che le portava il cibo. Ma

un giorno un terribile incendio scoppiò nella fattoria. I piccoli,erano troppo implumi per volare, e

così alla fine tutta la famigliola perì tra le fiamme. Poi la pettirossa rinacque come colomba. E

viveva felice coi suoi tre pulcini e un colombo che le portava il cibo: ma ancora una volta un

incendio scoppiò vicino al nido e tutti perirono tra le fiamme.‖

Il cadavere si fermò per tirare il fiato, o qualunque sia la causa per cui i cadaveri si fermano.

Nicho Sangbo era ansioso di sentire il resto della storia, ma teneva la bocca ben chiusa e la lingua

quieta. Il cadavere parlante di Rongodup sospirò e proseguì il racconto, spiegando che quando

Yetok era rinata come fanciulla, era così triste che non diceva mai una parola.

―Ora il giovane povero conosceva tutta la storia, e così decise di presentarsi a Yetok. Si era

fermato la notte in casa della saggia vecchia e appena si fece giorno si recò alla bella casa di Yetok.

Bussò alla porta e la silenziosa fanciulla uscì col suo bel sorriso a vedere chi era. Il giovane cadde in

ginocchio, piangendo e gemendo e balbettando parole come… finalmente siamo di nuovo insieme.

Era evidente, dall‘espressione della fanciulla, ch‘essa non capiva che cosa stesse dicendo, ma

lentamente il suo stupore divenne meraviglia. Il giovane le raccontò la storia della sua vita come

pettirosso, e poi come colomba. Parlò dei tragici incendi e poi le rivelò ch‘egli era l‘uccello

maschio, rinato come mendicante, sempre in cerca della sua sposa che aveva perduto tra le fiamme.

―Dapprima la fanciulla non credette neanche una parola‖, continuò il cadavere, ―ma quando egli

cominciò a raccontarle ogni particolare delle vite passate, lentamente gli credette. E quand‘egli le

chiese di sposarlo un‘altra volta, e per la terza volta dividere con lui i giorni della sua vita, Yetok

mosse cautamente la lingua e infine disse: ‗Sì, ci sposeremo un‘altra volta.‘‖

Il cadavere rise fra sé e continuò narrando che i due si sposarono, il principe e il figlio del

ministro vennero alle nozze e pagarono la loro scommessa.

Yetok e il figlio del mendicante, che ora possedeva metà del regno, vissero felicemente e uno alla

volta riebbero i loro tre piccoli…

―Ma lui ha avuto tutto e io niente…‖

Di colpo, senza preavviso e senza alcuna ragione apparente, le funi che legavano il corpo senza

vita nella rete si spezzarono.

La rete si ruppe e la vita tornò nel corpo maligno di Rongodup.

Ora la voce aveva un corpo vivo per i suoi perfidi e neri maneggi. Rongodup corse via

saltellando e cantando: ―Sono libero… sono libero… sono libero…‖, mentre Nicho Sangbo

ricordava le parole ammonitrici del lama: ―Succederà qualcosa di terribile…‖

IL RE E IL LADRO

La lista dei furti era lunga da far paura. Ogni famiglia nobile nel regno ne aveva sofferto, come

se la peste fosse sopraggiunta a spazzare il paese.

‗‗Insomma, questo non va,― disse un giorno il ministro Palghoe. ―È tempo, ormai, che vi

decidiate a fare qualcosa.‖

Il ministro uscì dalla sala in un fruscio di vesti di seta, ma il re Khamsum Wangdu si mise a

ridere. Erano molti anni che ogni mattina gli toccava sentire le lamentele del ministro Palghoe. Se

non era una cosa, era un‘altra. Il corpulento nobiluomo era rosso di rabbia ogni volta che entrava

nella sala del consiglio. Calava le sue vistose rotondità in una poltrona e cominciava a lamentarsi.

Le messi sarebbero state rovinate se il Mago della Pioggia non interveniva… gli abitanti delle

colline non avevano pagato le tasse… era necessario costruire un nuovo monastero e non c‘era

manodopera disponibile… e ora c‘era un ladro che infuriava tutte le notti, rapinando i più

importanti dignitari di corte e facendo fare ai capi della nazione la figura di completi cretini.

―Sì, lo so,‖ rispondeva pazientemente il re. ―Stiamo facendo del nostro meglio.‖

Palghoe soffiava come un vapore e marciava maestosamente fuori dalla sala, con le guance

carnose tinte di rosso cupo e il mento sporto in avanti, il vero ritratto dell‘aristocratico offeso.

―Il nostro meglio,‖ lo sentivano bofonchiare, ―Se questo è il nostro meglio, ecco, insomma non è

abbastanza. Il nostro meglio…‖

Il re Khamsum Wangdu sentiva le lagnanze trascinarsi e allontanarsi, finché non si udivano più

che i passi pesanti del nobile grassone sui pavimenti di marmo. Ma il re era seccato. Il ladro in

realtà era una cosa da nulla: quello che lo infastidiva era il lagnoso ministro Palghoe e lui, il re, non

sapeva cosa fare. Il ministro era uno degli uomini più ricchi e influenti del paese. I suoi

possedimenti si estendevano per centinaia di ettari e migliaia di contadini si guadagnavano il pane

coltivando le sue terre. Possedeva tanti capi di bestiame quanti ne aveva il re e se avesse avuto un

carattere migliore avrebbe goduto di egual prestigio. Così invece tutti conoscevano Palghoe per

quello che era. Se si fosse arrivati a una scissione, il re sapeva bene per chi avrebbe tenuto il popolo.

Passò un mese. I furti non erano cessati né erano cessate le lagnanze. Palghoe era tornato nella

sala del consiglio, sbuffando e lagnandosi come al solito e chiedendo che, insomma, si facesse

qualche cosa.

―Credo di avere una risposta al nostro problema,‖ fece il re sogghignando. ―Ben presto sono

sicuro che non avremo più di che preoccuparci.‖

―Bene, è un bel sollievo, a dir poco,‖ replicò il ministro. ―È quasi tempo che si faccia qualcosa.‖

Marciò fuori della sala con la solita andatura, incrociando lo scrivano di corte che stava venendo

dal re. Lo scrivano entrò e sedette tutto attento ai piedi del trono, reggendo in equilibrio fra le dita

una lunga peana d‘oca su un rotolo di carta bianca che aveva steso su una tavoletta di legno. E

mentre il re parlava, lentamente tracciò le parole: L‘audace ladro che sta in mezzo a noi non sarà

mai capace di rubare l‘ascia di corallo che sta nascosta nei sotterranei del palazzo.

E se poi ci provasse, e riuscisse in tale impresa, le autorità non puniranno il colpevole.

Per ordine del re Khamsum Wangdu Lo scrivano uscì in gran fretta e fece una ventina di copie. A

sera il bando era già nelle mani dei membri della corte, e il giorno dopo era affisso nei tabelloni a

tutti gli angoli della città. La gente si raccoglieva a guardare, ma in realtà il bando era destinato a un

solo paio d‘occhi.

Il bando fu presto dimenticato, come soleva accadere per le richieste di denaro, per gli appelli a

un‘offerta per un nuovo monastero e via dicendo. Alla fine di quella giornata i manifesti erano stati

strappati dai tabelloni e i bambini ne gettavano i brandelli ai cani randagi che giravano per le strade

in cerca di cibo.

Il sole tremolò e si spense come una candela, il crepuscolo trapassò nella notte e una sottile falce

di luna salì nei cieli, nascondendosi a tratti fra le nubi e lasciando la notte molto nera.

Ma uno dei bandi non era stato strappato né lasciato ai bambini. Era scomparso dal sacco del

banditore mentre faceva il suo giro per la città. Il banditore era sicuro che nel suo sacco ci fossero

venti bandi e non riusciva a capire perché non fosse riuscito a riempire che diciannove tabelloni. 11

ventesimo bando era pulitamente arrotolato nella giacchetta di Tsechen, un bravo giovanotto amato

da tutti, stimato da tutti, anche se nessuno naturalmente era a conoscenza delle sue operazioni

notturne negli splendidi palazzi della nobiltà del regno.

Tsechen il ladro camminò silenziosamente per le buie strade della città. Con l‘agilità di un gatto

scalò il muro di cinta del castello, come un‘ombra scivolò oltre le sentinelle e con un suo trucco

segreto aprì i lucchetti e i catenacci dei sotterranei ed entrò. Ben presto la medesima ombra ne uscì,

scivolò oltre le sentinelle e varcò di nuovo il muro di cinta. Il ladro tornò a casa sua e la preziosa

ascia di corallo era nella tasca della sua giacchetta.

Il giorno dopo all‘alba Khamsum si affrettò a recarsi nei sotterranei. Tutto era ben chiuso, tutto

era al suo posto. La guardia che teneva le chiavi aprì il gigantesco catenaccio, spinse indietro le

potenti sbarre e il re entrò nell‘ombra dei profondi sotterranei. Con una candela in mano cercò la

sua ascia. Ma al posto dell‘ascia trovò il bando che aveva dettato il giorno prima allo scrivano di

corte.

Il re era assolutamente stupefatto, e anche un po‘ emozionato. Quasi quasi invidiava l‘uomo che

poteva aggirarsi come un‘ombra per il castello e prendersi qualsiasi oggetto di valore come una

magica gazza ladra. Mentre ancora stava bevendo il suo mattutino tè col burro e mangiava il pane

cotto nelle cucine del palazzo, mandò a chiamare lo scrivano, che arrivò subito dal suo padrone e

fece danzare la sua penna d‘oca sui bianchi fogli di carta. Era un nuovo messaggio per il ladro: una

sfida a rubare la sella che era stata donata al re dal Grande Maestro che viveva al di là delle

montagne. La sella era fatta come tutte le altre selle, ma era assai meno pratica, perché era fatta

d‘oro massiccio.

Il re aveva già deciso che si sarebbe messo la sella d‘oro sul letto a mo‘ di cuscino, anche se

doveva essere un po‘ dura: in questo modo, pensava, l‘audace brigante non avrebbe avuto nessuna

probabilità di riuscire. Ed era così ansioso di sventare i piani del ladro che si ritirò nella sua camera

da letto due ore prima del solito. Uscì sul balcone e osservò a lungo la foschia che indugiava intorno

alle cime dei monti e cadeva lentamente come pesante vapore nella valle. La notte era nera, solo

poche stelle coraggiose mostravano il viso attraverso i veli di nebbia. Khamsum rabbrividì e si

strinse il lungo mantello intorno alle spalle mentre lasciava il freddo della notte per rientrare nella

sua camera ben riscaldata. Chiuse personalmente tutte le finestre, non fidandosi di lasciar fare

quell‘importante lavoro a un servo, tirò il catenaccio alla porta e si sdraiò sul suo letto, osservando

l‘alone di luce intorno alla fiammella danzante della lampada a olio. E mentre meditava sulla

fiammella chinò il capo e sprofondò lentamente in un sonno tranquillo.

Dal balcone Tsechen il ladro era stato a guardarlo. Prima ancora che il re chiudesse le finestre,

aveva infilato un pezzetto di cartone nella serratura. Ora era facile tirar fuori il cartoncino

dall‘esterno e aprire pian piano la finestra. Balzò nella stanza e con movimenti rapidi e silenziosi

arrotolò il mantello del re facendone un cuscino. Dentro vi pose il secondo bando che era stato

affisso quella mattina stessa agli angoli della città. E ora aspettò. Rimase a osservare il re come una

balia che guarda un bambino irrequieto, aspettando il momento più opportuno per agire.

Passò un‘ora, ne passarono due. Ma Tsechen era lì seduto, paziente, in silenzio come un animale

che aspetta di balzare sulla preda. Finalmente il momento buono arrivò. Il re rotolò da una parte, e

prima che potesse tornare alla solita posizione la sella d‘oro se n‘era andata e al suo posto c‘era il

mantello arrotolato. Il re si accomodò a bell‘agio sul nuovo soffice cuscino e si immerse in un

sonno ancor più profondo: la sella e il furfante erano ben lontani dai suoi sogni e dai suoi pensieri

notturni.

Il ladro strisciò verso la finestra e scivolò fuori, sul nebbioso balcone. Con lo stesso pezzo di

cartoncino fece accuratamente rientrare il nasello della serratura al suo posto. Nulla si era mosso,

tranne la sella d‘oro. Con la sua preda avvolta in un sacco, Tsechen scivolò giù dalla balconata fino

al piano di sotto, di qui saltò sui rami di un albero vicino e scese cautamente fino a terra. La fitta

nebbia posava sul suolo come un tappeto, al di sopra della nebbia apparivano i monti lontani

incappucciati di bianco, un cane abbaiò e altri cani si unirono al coro. Avvolto nella notte nebbiosa,

il ladro scomparve come un‘ombra.

Il re si svegliò all‘udire il gentile picchiettio della pioggia mattutina contro le finestre. Gli alberi

stormivano, i loro rami ondeggianti cantavano la canzone del vento. Mentre guardava la luce

dell‘alba che spuntava, il re si accorse che il suo cuscino era morbido: sotto la sua testa c‘era il

mantello blu che si era tolto la notte prima. Dentro vi trovò il bando: e naturalmente la sella era

sparita. Khamsum Wangdu si infuriò contro la propria stupidità, ma sentì che, senza volerlo, la sua

ammirazione per il ladro era ancora cresciuta.

A colazione fece chiamare ancora lo scrivano: un altro bando, un‘altra sfida al notturno

scassinatore. Questa volta il re proclamava che se il ladro fosse riuscito a rubare i suoi reali

pantaloni, non solo sarebbe stato perdonato, ma sarebbe stato anche ricompensato. Il manifesto del

bando fu affisso in tutta la città quando la mattina era ancora avvolta nelle brume, mentre la gente

guardava, rideva alla bizzarra sfida e si domandava che cosa potesse mai significare.

Il ministro Palghoe fece il suo ingresso mentre il re stava pranzando e volle sapere che cosa

succedeva. Khamsum semplicemente non era disposto a sopportare il suo piagnucoloso ministro e

lo congedò il più presto possibile. Era di ottimo umore, sicuro di poter cogliere il suo ladro con le

mani nel sacco e di poter magari imparare qualche cosa da quel bel tipo con la mano lesta.

Il giorno cominciò a spegnersi nel crepuscolo. Khamsum ancora una volta si ritirò presto nelle

sue stanze, chiuse accuratamente le finestre e tirò il catenaccio alla porta. E ora, invece di togliersi i

calzoni e mettersi la camicia da notte, andò a letto con i suoi regali pantaloni addosso. Si tirò su il

copriletto fino al mento e si diede ad osservare i riflessi della lampada a olio che danzava sul

soffitto. E che lentamente lo cullarono finché sprofondò in un sonno tranquillo e senza pensieri.

Tsechen attese qualche minuto e quindi entrò nella camera da letto del re col solito trucco del

cartoncino. Sedette silenziosamente accanto al letto e sollevò la coperta. Aveva in tasca una scatola

di legno, e nella scatola una numerosa famiglia di formiche. Le formiche uscirono lentamente dalla

scatola, guardando da una parte e dall‘altra, e si infilarono nel caldo letto del re.

Ben presto dozzine e dozzine di formiche penetrarono nei calzoni regali. Nel sonno il re sentiva

prurito, si grattava e lentamente, ma decisamente, si tirò giù i calzoni per sentire un po‘ di refrigerio.

Quando i calzoni furono scesi fino ai piedi del re, fu facile al ladro tirarli fuori dal letto e poi

portarli via con sé nella scura notte nebbiosa.

Il re Khamsum stava ancora grattandosi le braccia e le gambe quando il sole si levò nella sottile

nebbia mattutina. Si guardò le gambe — e vide che i pantaloni non c‘erano più. Guardò sotto le

coperte, e vide le formiche, centinaia di formiche che correvano su e giù come un esercito, come se

fossero nel loro nuovo formicaio. Il re spazzò via le formiche con pochi colpi della mano e chiamò

un servo che ripulisse la stanza. Ancora una volta il ladro lo aveva sconfitto. Questa volta il re non

lanciò una nuova sfida al ladro: lo invitò a pranzo al palazzo reale.

Tsechen fu assai sorpreso quando vide affisso ai tabelloni della città il manifesto con l‘invito del

re. Sospettò che potesse essere una trappola: ma aveva pensato che il capo della nazione fosse un

uomo d‘onore, e decise di accettare. Se poi lo avessero gettato in prigione, naturalmente non

sarebbe stato difficile per lui passare attraverso i muri e sparire nella notte mentre il carceriere

dormiva. Così mise il suo più bel vestito di seta e, fatto un pacchetto coi calzoni del re, si avviò

verso il palazzo.

Si inchinò profondamente quando il re entrò nella grande sala del banchetto. C era una tavola

apparecchiata per due persone: segno che tutto andava per il meglio. E quando i servi si inchinarono

e uscirono, il re e il ladro poterono parlare insieme per la prima volta.

―Tu sei veramente un pessimo soggetto e meriteresti di esser gettato in prigione,‖ disse

Khamsum.

Dal tono della voce, Tsechen riconobbe che le cose andavano bene. ―Ma io ho portato a Vostra

Maestà un dono per farmi perdonare.‖

Il re aprì il pacchetto e tirò fuori i calzoni. Dentro c‘era il bando regale, scritto dallo scrivano. I

due uomini si misero a ridere, poi fecero tintinnare i bicchieri e brindarono alla loro amicizia.

Parlarono e parlarono come se fossero vecchi amici, interrompendo la conversazione solo

quando un servo entrava in silenzio con una nuova bottiglia di vino. Il re voleva sapere tante cose

sulla vita di ladro, e il ladro naturalmente voleva sapere come viveva un re. Le ore passarono, la

luna sorse e tramontò, una fila di bottiglie vuote si allineò sul pavimento finché solo gli ultimi sorsi

di liquore restarono in fondo a due boccali abbandonati.

Per l‘ospite del sovrano era stata preparata una camera speciale. Entrambi dormirono per gran

parte della mattina e si ritrovarono insieme a colazione. Risero e scherzarono come fratelli e poi si

diressero insieme alle scuderie reali. Il re montò il suo stallone favorito e lasciò a Tsechen la scelta

fra gli altri bellissimi animali.

Quindi il re e il ladro cavalcarono insieme nei prati dietro il palazzo e poi su per le colline

selvose, Khamsum Wangdu sul suo stallone nero e il suo amico su una bella puledra marrone.

Galopparono come il vento, su e giù per le praterie e le foreste che si arrampicano sempre più in

alto lungo verdi pendii maestosi. Vedevano tutta la città stendersi ai loro piedi, come le casette di un

presepe da bambini, mentre in lontananza si elevavano i picchi rocciosi e i valichi bianchi di neve,

dove dimorano solo gli spiriti maligni.

Quando tornarono alle scuderie, lo stalliere stava aspettando con panno e striglia per strigliare il

pelame dei cavalli. Khamsum ricondusse il suo nuovo amico al palazzo, ponendo il suo braccio

regale intorno alle spalle del giovane ladro.

La loro amicizia crebbe, finché alla fine i due uomini divennero inseparabili. Tsechen aveva le

sue stanze al palazzo, e servi per soddisfare ogni suo desiderio. Tutto procedeva bene, finché un

giorno il ministro Palghoe fece la sua comparsa al palazzo.

―Vedo che questo ladro non è stato ancora catturato,‖ disse al re con la sua voce lamentosa. ―Ha

rubato quasi ad ogni ministro nel paese ed ora è probabilmente scomparso per recarsi in qualche

paese straniero.‖

―Ma voi, siete stato rapinato anche voi, mio caro ministro?‖ chiese il re.

―No, io non sono stato rapinato, ma non è questo il punto. I miei amici lo sono stati, e io voglio

che sia fatta giustizia.‖

―E sicuramente sarà fatta,‖ replicò il re.

Palghoe si allontanò con la sua andatura dondolante come quella di un‘anatra, rabbioso come

sempre e con la faccia rossa di collera. Quella sera, a pranzo, Khamsum parlò al suo amico ladro di

quel grosso problema che era per lui il ministro. Nessuno in tutto il regno sapeva che il migliore

amico del re era stato una volta il famigerato fuorilegge: era un segreto su cui entrambi avevano

spesso scherzato. Ma il problema del ministro Palghoe non era un segreto, e sicuramente non era

neanche uno scherzo.

―Davvero mi piacerebbe farlo arrabbiare tanto da vederlo scoppiare.‖

―E allora è il momento che anche il suo palazzo sia saccheggiato dal perfido ladro e dal suo

regale complice,‖ disse Tsechen.

Khamsum Wangdu rise alla proposta, ma più ci pensava e più l‘idea lo attirava.

―E perché no?‖ fece scherzando. ―Questo realmente lo farebbe impazzire al punto che sono

sicuro scoppierebbe.‖

Risero e bevvero insieme un po‘ troppo vino e trascorsero la serata fra scherzi e canzoni

scollacciate. Quando il servo cessò di portargli il vino decisero che era tempo di andare a letto, ma

era anche il momento buono per progettare l‘attacco al palazzo di Palghoe.

Pochi giorni dopo tutto era pronto. Il re e il ladro uscirono a cavallo fra le colline come al solito,

nell‘aria c‘era un profumo di fiori e di ginepro, gli uccelli volavano a stormi sopra di loro,

scendevano in picchiata, poi si alzavano di nuovo, su e giù, su e giù, come i cavalli della giostra.

Sotto di loro si vedevano le case degli uomini. I due cavalieri galoppavano veloci fendendo l‘aria,

scendendo a precipizio i declivi erbosi, lontano dalla città, in mezzo ai campi, fra messi bionde e

orti verdi, fra solitarie fattorie con yak e vacche che pascolavano nell‘erba fresca, mentre il sole alto

nei cieli splendeva sia per gli animali sia per gli uomini.

Una galassia di stelle servì da soffitto al re e al suo amico. I cavalli vagavano liberamente

masticando l‘erba e riposando sotto i pioppi, che oscillavano nella quieta notte, seguendo il ritmo

del vento. La luna era al primo quarto e la sua luce aggiungeva un‘aureola al morbido fogliame

degli alberi.

I due cavalieri bevvero il latte offerto da una vicina fattoria, mangiarono insieme pane e giuncata

e quindi ripartirono a cavallo diretti alla grande tenuta di Palghoe. A sera arrivarono alle terre del

ministro. Decisero di riposare all‘aperto per un‘altra notte e poi saccheggiare la casa nella notte

successiva. La luna sarebbe stata ancora più splendente, sarebbe stata adatta per quella beffa reale.

Dormirono ancora una notte sotto le stelle, guardando il cielo e i milioni di astri che come strani

veicoli dello spazio passano da un cosmo all‘altro, apparendo e sparendo, entrano in questo mondo

e poi lo lasciano per un altro e la loro soglia è una piccola fessura nel cielo, lo spazio fra le cortine

nere del mondo.

Khamsum e Tsechen passarono la giornata progettando il furto. Il professionista spiegò al suo

allievo che il segreto era tutto nel silenzio.

―Una volta che saremo entrati nella casa, non dovremo più dire neppure una parola. Nessun

oggetto dev‘essere toccato se non sia necessario. Dobbiamo essere veloci come una coppia di gatti

affamati, e poi sgusciar via nella notte col nostro sacco pieno di bottino,‖ spiegava Tsechen.

II re ascoltava, ma tutto questo per lui era ancora un gioco. Anche durante la lunga cavalcata fino

alla tenuta di Palghoe non era del tutto convinto di essere sul punto di introdursi nel palazzo del

ministro come un volgare bandito e poi derubare la nobile famiglia di tutte le sue gemme preziose e

le sue suppellettili d‘oro. Se davvero riuscivano nell‘impresa, aveva deciso fra sé, tutto quel tesoro

sarebbe stato donato come offerta ai poveri. Il rubare, nel senso comune della parola, non era solo

un atto illegale rispetto alle leggi dello stato, ma era anche contrario alle convinzioni religiose di

tutta la popolazione.

Khamsum Wangdu parlò dei suoi dubbi all‘amico, ma Tsechen si limitò a ridere.

―Siamo andati troppo oltre per tornare indietro,‖ disse. ―Comunque, il bottino può benissimo

andare ai poveri.‖

Il re era ben lieto di trovare l‘amico d‘accordo su questo punto. Gli dava maggior fiducia, e

contribuiva anche a stringere un nuovo legame fra i due uomini, a rafforzare un rapporto che si era

continuamente intensificato fin dal loro primo pranzo insieme, fin dai loro primi scherzi. Il re

tornava col pensiero a quel pacchetto ben confezionato, coi suoi calzoni dentro, che Tsechen era

venuto a restituirgli a palazzo. Ricordava la sella d‘oro, l‘ascia di corallo e il custode delle sue

chiavi, che era stato menato per il naso da un‘ombra trasparente.

Quando i primi veli scuri della notte si posarono sulle campagne i due cavalieri cercarono un

nascondiglio per i loro cavalli. Li legarono a un pioppo e quindi avanzarono scivolando silenziosi

fra i cespugli e i campi di orzo, finché si trovarono di fronte al bianco palazzo del ministro. Il re

aveva superato tutti i suoi timori e aspettava ansioso di dare inizio all‘audace impresa. I suoi sensi

erano ben desti, tesi come antenne a frugare le ombre per cercarvi un nascondiglio. Le montagne in

lontananza avevano ancora uno strano splendore rosa. In qualche punto all‘orizzonte un

campanaccio tintinnò e di colpo tacque. Khamsum sentiva rizzarsi i peli sottili della nuca e delle

braccia, e sulla sua fronte e nelle palme delle mani si andavano formando minuscole goccioline di

sudore.

Tsechen era completamente rilassato, quasi felice di potere ancora una volta esercitare quel

mestiere in cui era diventato così esperto. Il suo portamento e i suoi gesti erano completamente

cambiati. Ora non era più il giovane gentiluomo che cantava e scherzava corteggiando le fanciulle.

Il suo viso era teso come quello di un animale da preda, i suoi occhi frugavano nella notte,

fissandosi ad ogni movimento, attento a qualsiasi cosa potesse tradirli.

Quando raggiunsero la casa tutte le luci erano spente. Gli uomini dormivano, l‘unico movimento

era quello della luna che saliva a lenti passi nel cielo.

―Ricordati, nessun rumore,‖ bisbigliò il ladro.

Trasse un sottile pezzo di fil di ferro da una borsetta di pelle, lo infilò nell‘intelaiatura di una

finestra: ed ecco, come per magia, il paletto si alzò, la finestra si aperse. Il giovane ladro balzò

agilmente nella spaziosa cucina, poi aiutò il suo amico dilettante ad entrare, ammonendolo sempre

col dito alzato, perché restasse in silenzio.

Una volta entrati nella cucina, era tempo di dividersi: il re da una parte, il ladro dall‘altra, per

fare una ricerca sistematica di tutti gli oggetti pregevoli che un ministro doveva tenere nella sua

casa. Ognuno dei due aveva un sacco e alcuni panni morbidi, in modo che l‘oro e i gioielli non si

urtassero tintinnando e non svegliassero la casa sepolta nel sonno. Tsechen sapeva esattamente dove

guardare, perché la gente nasconde sempre le sue cose preziose negli stessi posti, e non v‘era

serratura che potesse sbarrargli la strada e impedirgli di arraffare le cose preziose che vi erano

nascoste.

Per il re era invece tutta un‘avventura. Si accontentava degli oggetti che la gente tiene in mostra

sulle mensole. Si sentiva persino in imbarazzo se doveva aprire lo sportello di una credenza, come

se temesse di vederne balzar fuori una bestia feroce. Poi passò vicino all‘altare di famiglia e sentì

nel profondo del cuore che quel che stava facendo era sbagliato, anche se era metà uno scherzo e

metà un‘opera pia in favore dei poveri della città. Fece un umile inchino alla santa statua e alle

immagini sacre e poi sgusciò in silenzio indietro, verso la cucina, col sacco pieno solo a metà, e per

lo più di oggetti senza valore.

Quando entrò in cucina vide controluce la sagoma dell‘amico Tsechen che si ingozzava

avidamente del cibo conservato nella dispensa. Khamsum chiuse la porta e poi sbadatamente urtò

una pala di legno e la fece cadere.

La grossa pala, che era collocata accanto ai sacchi di grano, crollò a terra con fragore. Un cane

abbaiò. In qualche punto, ai piani di sopra, si accese una luce. Si sentirono passi frettolosi scendere

le scale e voci che chiamavano e gridavano. Parole assonnate, domande irose. Qualcuno gridava:

―C‘è un ladro! C‘è un ladro!‖ Tsechen era già balzato attraverso la finestra aperta, ma il re aveva

perduto qualche secondo prezioso: per lui era troppo tardi. La porta si aprì, la pallida luce di una

lampada a olio filtrò nella stanza. Di colpo gli parve che dozzine e dozzine di mani lo afferrassero e

lo malmenassero.

―Io sono il re, sono il re,‖ gridava al di sopra del frastuono.

Ma più gridava e più quelle mani lo abbrancavano e lo scrollavano. Ogni volta che proclamava

di essere il re le percosse diventavano più violente, la collera cresceva: Khamsum poteva sentire la

voce di Palghoe, nelle cui aspre parole vibrava l‘orgoglio. Gli pareva di vedere il suo corpulento

ministro avanzare nella grande sala del consiglio col suo ladro ben legato e tenuto fra due guardie. E

si permise una silenziosa risata, sapendo che quell‘orgoglio doveva ben presto essere schiacciato.

Intanto Tsechen stava aspettando il suo regale amico.

Non appena si rese conto che Khamsum era stato catturato dai servitori della nobile famiglia,

passò immediatamente all‘azione. Si precipitò verso un mucchio di fieno che stava lì accanto, batté

la sua pietra focaia contro un sasso e subito vivide fiamme lingueggiarono nel fieno secco.

―Al fuoco, al fuoco!‖ si diede a gridare. ―C‘è un incendio!‖

In un attimo la fattoria fu tutta in fiamme e piena di ombre danzanti, lingue di fuoco si

allungarono verso il granaio. Tsechen poteva vedere gli uomini correre di qua e di là con le facce

assonnate e stralunate: gentiluomini e servi, eguali nelle loro lunghe camicie da notte bianche, come

un gruppo di fantasmi in uno spettacolo paesano.

Familiari e servi corsero alle pompe e alle cisterne, per gettare acqua sul fuoco. Solo Palghoe

rimase indietro. Gridava istruzioni dalla porta, e intanto custodiva il re, ora tutto legato. Ma Tsechen

fu rapidissimo. Saltò dentro dalla finestra aperta, rovesciò il ministro e liberò il suo amico. Ora le

funi servirono per legare ben stretto il ministro; e quindi il re e il ladro scapparono dalla finestra,

senza dimenticare naturalmente i loro sacchi d‘oro e di gemme. Scomparvero nel nero mantello

della notte, corsero attraverso i campi d‘orzo finché trovarono i loro cavalli in mezzo ai pioppi.

Insieme galopparono via nel buio, ridendo e cantando alla luna.

Intanto, nella cucina del palazzo, Palghoe il ministro si agitava e urlava chiamando i servi.

Quando le fiamme furono tutte spente, i servi tornarono in cucina, più stanchi e persino più rabbiosi

di prima, con le facce ormai del tutto sveglie, ma nere di caligine e impiastrate dalle lacrime

provocate dal fumo.

―Liberatemi, il ladro è scappato,‖ gridava Palghoe. ―Sono il padrone.‖

―Prima era il re, e ora è il padrone di casa,‖ dissero voci stanche e arrabbiate.

Più Palghoe pretendeva di essere liberato, più forti erano le busse. E continuarono a picchiarlo

finché la figlia di Palghoe accese un‘altra lampada e la sollevò fino al suo viso. Quando vide che era

davvero suo padre, non seppe più se ridere o piangere: e così la saggia figlia disse quietamente ai

servi di slegare il padrone e poi uscire in cerca del vero ladro.

La ricerca naturalmente era inutile: ormai i due cavalieri erano ben lontani. Il sole stava sorgendo

quando uno scalpitar di zoccoli risuonò lungo la strada. Il re pensò al ministro Palghoe, immaginò la

sua faccia ringhiosa, contorta dal dispetto e dalla rabbia. E quasi quasi voleva tornare indietro,

giusto per poter dare un‘occhiata alla scena.

Tsechen era ancora freddo e imperturbabile: si permise solo un sorriso di piacere che illuminò

per un attimo la sua giovane faccia. La sua puledra bruna cavalcava accanto allo stallone, le criniere

e le code ondeggiavano nella gentile brezza mattutina. Lo splendore dorato del sole tingeva

l‘orizzonte.

LO STRANO SOGNO

C‘erano una volta due saggi che vivevano su un‘alta montagna, al di sopra degli alberi, lontani

dagli animali selvatici, lontani dall‘uomo e dai suoi problemi. La neve non lasciava mai i picchi

aguzzi che si levavano in fila come i denti del diavolo. I due saggi sedevano a gambe incrociate

nella neve: meditavano, acquisivano le conoscenze che giacciono celate nel profondo, pensavano al

mondo e all‘uomo, all‘uomo moderno che non aveva più rispetto per gli dèi. Quando non

meditavano, raccontavano storie: antiche storie di giorni passati, che parlavano dell‘inizio del

tempo, del sole e della luna, delle stelle nelle sette galassie del tempo. Ma le storie che raccontavano

erano sempre le stesse. L‘intreccio poteva cambiare qua e là, ma la fine era sempre prevedibile: la

ragione era sempre del potente, il bene andava con Dio e il male al diavolo.

Quando il più giovane dei due saggi domandava perché questo accadesse, il più anziano diceva

che questa era la legge del mondo. Gli antichi erano stati uomini buoni e le loro storie rivelavano la

virtù ch‘essi avevano cercato di insegnare al mondo. Ma gli uomini erano sordi alle parole della

saggezza e cercavano la salvezza per le vie del mondo, come uno che cerchi una coppa d‘acqua

fresca che ha appena gettato nel mare.

―Ma vi è ancora un‘altra storia che non ho mai raccontato,‖ disse il vecchio saggio al più

giovane. ―E dice che bisogna cercare il Giusto, non forse nelle vie del mondo, ma nelle vie degli

dèi.‖

L‘uomo più giovane spinse una gamba sotto l‘altra, cercando la posizione più comoda per un

lungo ascolto, e concentrò la sua attenzione sul vecchio eremita. Il vecchio sedeva quietamente

come se fosse pronto per la meditazione: sospirò, trasse un profondo respiro… Ed ecco la storia che

narrò.

Si era alla metà del tempo. Gli alberi coprivano metà delle terre e le messi dell‘uomo coprivano

l‘altra metà. I saggi stavano sulle alte montagne e i pazzi vagavano per le pianure della vita. Gli

uomini lottavano fra loro per il potere, il re viveva in costante timore, maghi e stregoni intessevano i

loro sortilegi per tutto il paese. Il re era spaventato perché un astrologo aveva scrutato a fondo negli

oracoli delle stelle e aveva predetto la sua caduta. E così vedeva in ogni uomo un nemico, non si

fidava più di nessuno e temeva la collera degli dèi. Governava il suo regno con la frusta in mano,

senza mai allentare le sue leggi crudeli, senza curarsi se i figli della terra soffrivano, schiacciati dal

terrore.

Ma lontano in mezzo ai campi viveva una coppia felice. Dorjeertsing e la sua sposa Vashi

Chodon avevano atteso a lungo la nascita di un bambino. E il giorno felice era vicino, la minuscola

casetta era ordinata e pulita, candidi asciugamani e panni pendevano in fila, e fasce erano pronte in

attesa del neonato. Dorjeertsing si dava da fare: correva qua e là, come ogni padre in attesa,

preparava il cibo, curava la moglie, manteneva l‘acqua calda bollente sul focolare. Poi venne il

tempo, le doglie crebbero e crebbero finché la donna diede alla luce un bel maschietto.

Tseden Dorgee crebbe forte e bello, era più alto degli altri ragazzi della sua età, aveva un fascino

magnetico, una mente avida di sapere. Poneva al padre ogni sorta di bizzarre domande sulle cose

del mondo. Perché la neve era sempre sulle cime dei monti? Perché gli uccelli cantavano e non

parlavano con lui? Perché le giornate erano più lunghe delle notti? Dorjeertsing cercava di

rispondere come meglio poteva: viziava il suo bel figliuolo e dedicava la vita a soddisfare i suoi

minimi desideri. Vashi Chodon teneva sempre da parte i cibi migliori per il ragazzo e non gli faceva

mai fare lavori servili nei campi. Il ragazzo passava il tempo a far domande: chiedeva al falegname

come faceva a costruire tavoli e sedie, al mugnaio come si faceva il pane, al tessitore come otteneva

tessuti così fini.

Tseden Dorgee era ancora molto giovane quando la tragedia colpì la sua famiglia. Il suo

affettuoso e paziente padre, Dorjeertsing, morì, lasciando alla moglie il compito di allevare il

ragazzo, di guadagnar denaro per comperare cibo dai mercanti del villaggio e di rispondere alle

domande, che diventavano sempre più difficili via via che il ragazzo cresceva. Ma il tempo passava:

Tseden Dorgee si svegliava al mattino e udiva gli uccelli cantare fra gli alberi e le fronde stormire,

mentre le montagne ascoltavano. Vagava nei boschi, faceva domande sui fiori e dava a ogni fiore un

nome speciale secondo il colore e la forma, secondo se erano robusti o delicati, se il loro profumo

era come il sottile aroma della grande città o vuoto come l‘aria quando resta immobile. Il ragazzo si

faceva sempre più forte e più bello via via che i giorni diventavano anni. Era conosciuto da tutti, e

quel che più conta era caro a tutti quelli che lo conoscevano. La gente amava le sue domande,

rideva ai suoi scherzi fanciulleschi e gli offriva dolci e biscotti in scatole di legno quando passava

cantando.

Il vecchio eremita sospirò, aprì gli occhi per pochi secondi e poi li richiuse.

Ora, la madre del fanciullo andava ogni giorno a prender l‘acqua alla fontana che stava in mezzo

al villaggio. Raccontava con orgoglio tutto ciò che Tseden Dorgee aveva detto e fatto, e le donne del

villaggio ascoltavano con attenzione, perché amavano il fanciullo e si rallegravano delle sue

avventure, come un gruppo di zie senza figli che adorano l‘unico maschio della famiglia. Ma un

mattino il fatto ch‘essa aveva da raccontare era più stupefacente del solito — e doveva avere il

finale più straordinario, come la storia dirà.

Tutto incominciò quando un mattino all‘alba il ragazzo venne correndo dalla madre. Aveva fatto

un sogno, disse, ed era così strano che ne era un po‘ spaventato. Aveva sognato che stava seduto a

gambe incrociate, come un gigantesco monaco anacoreta. Il cielo sulla sua testa si era spaccato in

due, come un foglio di carta. Una metà del cielo era avvolta intorno alle sue spalle come uno scialle,

l‘altra metà serviva da stuoia, e fluttuava intorno a lui come un puro lago di lucida seta. Le sue due

mani erano stese e aperte: in una palma stavano le possenti montagne di oriente, nell‘altra le

montagne di occidente. Il grande fiume che scende serpeggiando per la valle fino alle basse pianure

era scomparso in una sola immensa sorsata nello stomaco del ragazzo.

Vashi Chodon rimase presso la fontana tutta la mattina. Le donne ascoltavano a bocca aperta e

con gli occhi sbarrati: erano convinte che il sogno doveva essere vero, poiché lo aveva sognato il

giovane Tseden Dorgee, ma non capivano che cosa potesse significare. I mariti vennero anch‘essi

alla fontana a sentire la storia e poi la riferirono agli amici, e la sentirono i lavoratori dei campi, i

mercanti e gli uomini d‘affari che venivano a visitare la città. A sera tutti i villaggi del distretto la

conoscevano. E in pochi giorni anche gli abitanti della città parlavano del sogno. Infine un ministro

udì la storia, la raccontò a un ministro ancora più importante, il quale ne parlò alla regina e questa la

riferì al re. Ora tutti sapevano del fantastico sogno e il giovanetto divenne famoso in tutto il paese.

Tutti pensavano ch‘egli dovesse essere un grand‘uo-mo, un capo, forse anche un dio in forma

umana. Tutti parlavano del sogno e tutti speravano di avere l‘occasione di incontrare il sognatore —

tutti, naturalmente, eccetto il re.

Il re Dowabakpa pensava al vecchio astrologo, al presagio che aveva letto nelle stelle, quello

della sua caduta. Guardava con orgoglio il suo figlio maggiore, domandandosi se gli sarebbe

succeduto sul trono, guardava gli altri principi e le principesse, non sapendo quale sarebbe stato il

loro avvenire. Se il ragazzo del villaggio aveva avuto un tale sogno ora, pensava il re, quale potere

avrebbe avuto quando fosse diventato adulto? Pensava e si angustiava, sgridava i servi, ordinava ai

ministri di tenersi fuori dai piedi — e diceva ai suoi agenti delle tasse di assicurarsi che tutti fossero

in regola. Anche se era il re, non poteva così semplicemente far uccidere il ragazzo: ci voleva

qualche cosa di più astuto. Infine decise di invitare la madre del fanciullo al palazzo reale, per

interrogarla più a fondo sul famoso sogno.

Vashi Chodon arrivò con le sue vesti migliori: era ordinata e pulita, si poteva quasi prenderla per

una dama di corte. Il re Dowabakpa sorrise dal suo trono incrostato di gemme: invitò la donna a

sedere davanti a sé e fece servire dolciumi e bibite fresche. Lei non si era mai seduta davanti a un re

e si sentiva piena d‘orgoglio: accoglieva in sé tutta la bellezza del palazzo, si imprimeva nella

mente la storia per raccontarla poi alle donne presso la fontana. Sicuro, disse al re, il sogno era

completamente vero. Suo figlio era bello, forte e intelligente: un vero capo.

―Bene, in questo caso,‖ disse il re accigliato, ―mi piacerebbe metterlo alla prova. Se riuscirà, sarà

il primo ministro del regno.‖

Ma il sorriso che illuminava il volto di Vashi Chodon si mutò ben presto in un‘espressione di

orrore. Suo figlio Tseden Dorgee doveva andare alla grande caverna che si apriva in cima al monte e

restare sull‘entrata per una settimana. Tutti sapevano, compresa Vashi Chodon, che la caverna era la

dimora di Daksemo, un diavolo divoratore di uomini, della sua perfida moglie e dei suoi cinque

malvagi figli. La donna sapeva che il suo ragazzo non sarebbe mai sopravvissuto alla tremenda

prova. Il suo viso prima così sorridente era ora bagnato di lacrime, i vini prelibati le facevano

groppo in gola, il cibo le pesava come piombo sullo stomaco. Implorò il re perché a suo figlio fosse

risparmiata la terribile prova: ma il crudele signore rimase irremovibile.

―Se non vi piegherete alle mie richieste,‖ ammonì, ―sarete cuciti insieme nella pelle di un bue e

gettati nel fiume.‖

Vashi Chodon tornò lentamente a casa, col cuore pesante e triste. Sapeva che nessun uomo

avrebbe potuto passare sette giorni fuori della tana di Daksemo. Suo figlio sarebbe morto, e lei

sarebbe rimasta una povera vedova sola e senza figli. E la sua vita non avrebbe più avuto scopo.

Tuttavia le restava in cuore un filo di speranza, un‘ombra di fiducia negli dèi e nella buona fortuna.

Decise di dire al figlio che doveva recarsi alla caverna: ma non gli avrebbe detto nulla dei diavoli,

sperando che il fato gli avrebbe teso una mano pietosa.

Tseden Dorgee ascoltò tutto emozionato ciò che il re aveva detto. Osservava il volto della madre,

indovinando che qualche cosa non andava, nel profondo del cuore della donna. Ascoltò

attentamente quanto la madre gli diceva della prova che avrebbe dovuto affrontare, senza sapere

esattamente a che cosa una tale prova potesse servire né perché il re volesse fare di lui un ministro,

figurarsi poi un primo ministro! Il ragazzo non sapeva la storia di Daksemo e dei diavoli della

caverna, perché le storie dei tempi antichi si andavano perdendo, gli uomini avevano ormai troppo

da fare nel mondo. Ma Tseden Dorgee non si preoccupava minimamente di quei sette giorni che

avrebbero messo a prova la sua forza e il suo coraggio: era ansioso di partire, di cominciare una

nuova vita nella capitale, nel palazzo reale dove avrebbe potuto essere un ministro del re.

II giovane Tseden doveva partire il giorno dopo per la caverna. Quella notte Vashi Chodon

impastò sette pani rotondi, uno per ogni giorno, e andò a letto col cuore stretto, piena di terrore, con

la mente assillata dai dubbi.

Ma il giorno dopo il giovane cantava e si sentiva felice. Ripose i pani in un sacco, baciò sua

madre sulla guancia e si mise in cammino verso i monti lontani. Aveva una piccola mappa di quella

speciale caverna che doveva trovare e la seguì attentamente: non voleva deludere il re né fallire

nell‘impresa. L‘aria si faceva sempre più fredda via via che saliva su per quelle montagne straniere.

Si sentiva libero e fresco: quel viaggio poteva portarlo alla capitale, al palazzo, a fianco del re.

Chiudeva gli occhi e vedeva gentiluomini elegantemente vestiti, dame di corte in abiti di seta.

Immaginava tavole coperte di cibi prelibati, vini versati in calici d‘oro, i sorrisi melliflui

dell‘aristocrazia, gli inchini e le riverenze, la musica come le voci di mille angeli, i corni d‘oro, le

trombe d‘argento. La neve ghiacciata ora scricchiolava sotto i suoi piedi, il paesaggio era qua e là

chiazzato di bianco, i fiori erano tristi e spogli, le loro fronde estive erano cadute e i rami invernali

erano nudi e freddi.

Il giovane eremita mosse le gambe per cercare una posizione più comoda; non voleva disturbare

il vecchio saggio, il suo guru, il suo maestro.

Il giovanotto arrivò infine alla caverna. Aveva una coperta per proteggersi dal freddo e il sacco

con i sette pani. Li tirò fuori per vederli e contarli.

―Ne mangerò uno il primo giorno, un altro il secondo, un altro il terzo, finché tutti saranno

consumati e allora me ne tornerò a casa,‖ diceva fra sé.

Li contò allo stesso modo quando li rimise nel sacco. Stava chiudendo la fibbia quando vide

un‘ombra disegnarsi sulla neve. Si girò per guardare e vide un‘orribile creatura con la bocca aperta

da un lato, le ginocchia piegate e uno sguardo smarrito.

―Non ci mangiare,‖ implorava la misera creatura, ―non ci mangiare.‖

I diavoli nella caverna lo avevano sentito contare e avevano pensato di esser proprio loro a dover

essere mangiati. Da molte generazioni, da quando la terra era ancora giovane, Daksemo aveva

divorato gli esseri umani che passavano per la montagna, e ora sua moglie e i suoi cinque figli

stavano imparando il gusto della carne umana. Ma prima gli uomini erano terrorizzati alla vista di

Daksemo e strillavano quando li immergeva nell‘enorme caldaia nera. Invece ora c‘era qui un

giovane, un ragazzo che prometteva di mangiarsi ogni giorno un membro della famiglia.

Tseden Dorgee rispose prontamente: ―Devo mangiarvi tutti, ho un incarico urgente affidatomi dal

re.‖ o Daksemo si contorceva e strisciava per la caverna, gli altri diavoli si erano appiattiti presso

l‘entrata, gracchiando e mugolando, pregando per la loro vita.

―Se ci lasci andare non mangeremo più nessun uomo/‘ disse Daksemo, ma i pensieri del giovane

Tseden erano troppo lontani. Ora si rendeva conto del perché il re gli aveva chiesto di restare alla

caverna per sette giorni: sarebbe stata la sua fine. Ma non capiva perché sua madre non gli avesse

detto niente. Forse lei non sapeva nulla dei diavoli, oppure temeva per la propria vita.

I diavoli strillavano e si contorcevano, supplicando e mentendo, graffiando il sudicio pavimento

con le orride unghie adunche, mordendosi le labbra con la bocca piena di schiuma.

―Se tu non ci mangerai, io ti farò potente come il re,‖ disse Daksemo.

II giovane ascoltò più attentamente, senza cedere di un millimetro, ben sapendo che aveva in

mano le carte vincenti e che doveva rimanere padrone della situazione, altrimenti sarebbe finito

nella caldaia bollente. Daksemo disse che possedeva uno speciale mestolo d‘oro, che era magico: lo

si agitava da una parte e qualunque cosa si desiderasse compariva, lo si agitava dall‘altra e

qualunque cosa si desiderasse spariva. Tseden Dorgee acconsentì a provare il mestolo magico prima

di divorare il primo diavolo. Lo agitò tre volte a destra, e il sontuoso banchetto che aveva pensato

comparve. Mangiò a sazietà, agitò il mestolo tre volte a sinistra e i resti del banchetto scomparvero.

―Ora che hai mangiato, sarai troppo sazio per cominciare con uno di noi,‖ disse Daksemo.

Tseden Dorgee assentì. Disse che avrebbe accettato il mestolo d‘oro, ma promise che sarebbe

tornato se mai avesse sentito che i diavoli avevano mangiato un altro essere umano. E allora, disse,

certamente li avrebbe mangiali tutti, uno al giorno. Daksemo fece un sorrisetto nero, i giovani

diavoli starnazzarono tutt‘attorno come uccellini senz‘ali, sollevando nugoli di polvere ed

emettendo i più sgradevoli suoni che mai Tseden Dorgee avesse udito.

Il giovane si sentiva felice: il suo agile cervello aveva sconfitto in astuzia i diavoli della caverna.

Aveva il mestolo magico per procurarsi qualunque cosa potesse desiderare, ed era libero, totalmente

libero da fatiche e preoccupazioni. Agitò il mestolo tre volte a destra e comparve un caldo mantello.

Indossò il mantello e salì più in alto sulla montagna, attraverso le nubi che celavano i picchi, oltre al

grande ghiacciaio verde su cui pochi uomini avevano messo piede; e scese nelle sconosciute

contrade delle antiche leggende. Camminava nel fitto strato di neve con gli stivali di cuoio che il

mestolo aveva fatto apparire. E quando calò nera e fredda la notte, fece comparire un materasso

spesso, delle belle lenzuola e una decina di coperte. Dormì bene, sognando le stelle che danzavano

nei cieli, e si svegliò all‘aurora.

Il sole sorgeva dalle montagne e splendeva sul candido manto di neve. Il giovane agitò il mestolo

d‘oro a sinistra e il letto sparì. Si rimise in marcia sorridendo, e tenendo nascosto il mestolo sotto il

caldo mantello che la magia gli aveva procurato il giorno prima. Mentre così avanzava verso le

avventure della vita vide un bizzarro ometto che gli veniva incontro.

―Buongiorno, signore,‖ disse il ragazzo. ―Una bella giornata per andare a spasso.‖

―Lo sarebbe, se avessi un po‘ di cibo nello stomaco.‖

L‘ometto sedette con la faccia lunga, lamentandosi del mondo e del suo stomaco vuoto, che

ruggiva come le onde dell‘oceano. Tseden Dorgee gli fece diverse domande, un‘abitudine che aveva

da quando era bambino, finché venne a sapere che l‘ometto possedeva un bastone magico. Quando

voleva qualche cosa che aveva visto, mandava là il suo bastone, il quale ritornava da lui con

l‘oggetto.

―Il guaio è,‖ disse l‘ometto, ―che non ho visto molto cibo sulle montagne.‖

Il giovanotto fu molto impressionato e un astuto piano si formò a poco a poco nella sua mente.

Esibì le proprietà magiche del suo mestolo d‘oro e fece apparire una eccellente colazione. L‘uomo

mangiò e le grosse onde dell‘oceano divennero un gentile sciabordio contro morbida sabbia.

―Mi piace molto il vostro bastone,‖ disse il giovane, ―e si potrebbe fare un cambio.‖

L‘ometto non poteva credere alle sue orecchie. Il suo bastone poteva portargli solo quello ch‘egli

vedeva, mentre il mestolo aveva poteri assai maggiori. ―Il ragazzo dev‘essere tanto stupido quanto è

giovane,‖ pensò e acconsentì subito all‘affare. Sorrise tutto felice e si avviò verso la cima della

montagna, fischiando una canzoncina che il ragazzo non aveva mai sentito. Si era allontanato di

circa un miglio, facendo ruotare il mestolo come un giocattolo, quando Tseden Dorgee disse al

bastone: ―Vai, prendi il mestolo d‘oro e torna subito indietro.‖

Il bastone non si fece nessuno scrupolo di derubare il vecchio padrone e corse su per la

montagna. Diede un colpo sulla testa all‘ometto, prese il mestolo d‘oro e volò giù per il pendio fino

a Tseden Dorgee, giovanotto felice che ora poteva viaggiare attraverso la vita con due strumenti

magici invece di uno. Si rimise in marcia, togliendosi il mantello e gli stivali quando alle montagne

coperte di neve seguì il verde delle pianure. Il cammino del giovane era come una festa

interminabile. Si faceva sempre portare i cibi migliori, i letti più morbidi: parlava e rideva con la

gente che incontrava, faceva molte domande e imparava le cose della vita.

Il sole tramontava, ritirando la sua luce come una bassa marea. Il giovane monaco sorrise al suo

maestro durante una lunga pausa, pensando alle parole udite, bevendone il significato come miele

fresco, il nettare della parola. Il sole infuocato ardeva come un‘enorme sfera arancione

all‘orizzonte, gli alberi sotto di loro si ergevano come statue sul candido sfondo della neve vergine.

Il vecchio saggio continuò la sua storia.

Tseden Dorgee viveva felice attraverso le avventure della vita, sempre aiutato e spesso salvato

dal mestolo magico e dall‘abile bastone volante, finché un giorno incontrò un uomo con un

mantello a scacchi rossi e verdi: un tipo allegro che rideva senza un pensiero al mondo. Il suo

mantello a scacchi ondeggiava nel vento, al ritmo del passo. Il giovanotto e l‘allegro viandante

chiacchierarono lietamente insieme, parlando delle fiere che avevano visitato, dei ristoranti dove si

mangiava bene e di tutte le cose meravigliose che capitavano in quel mitico paese.

―Ora però devo andarmene,‖ disse l‘allegro compagno. ―È il momento di cercare qualcosa da

mangiare.‖

―Ma dove potrai trovare del cibo?‖ chiese il giovanotto.

L‘uomo spiegò che il mantello era magico. Bastava ch‘egli vedesse una cosa, e il mantello

andava a prenderla e gliela portava. Tseden Dorgee trovò assai desiderabile il mantello e mise in

opera il vecchio trucco. L‘uomo naturalmente pensò che il ragazzo fosse matto, o a dir poco assai

immaturo, e fu più che contento di barattare il mantello con il mestolo d‘oro. Ma naturalmente gli

accadde la stessa cosa. L‘allegro viandante si era solo allontanato di un miglio o giù di lì, ridendo e

cantando per la sua buona fortuna, quando il bastone magico e il mantello magico lo attaccarono, gli

diedero un buon colpo in testa e riportarono il mestolo d‘oro al ragazzo.

Tseden Dorgee si sentiva soddisfatto di se stesso. Non un solo strumento magico, non due, ma tre

erano in sua mano e lo avrebbero aiutato a farsi un posto nella storia. Viaggiò a lungo nel paese,

produceva moneta magica per pagare i suoi conti nelle migliori taverne, o dormiva in morbidi

materassi, col bastone e il mantello accanto a sé come sentinelle, a difesa del padrone dalle cose

nere che sono in agguato nella notte. Viaggiò per tutto il paese cavalcando bellissimi cavalli, e se

qualcuno si azzoppava semplicemente agitava il mestolo d‘oro tre volte a sinistra e il cavallo

spariva come un‘ombra nella nebbia. E Tseden riprendeva il cammino a piedi, con gli occhi ridenti

volti ad ammirare le campagne, i fiori e gli uccelli che cantavano ma non parlavano mai con lui.

Passava lunghe ore facendo il verso alle cornacchie, ma le nere ombre nel cielo ridevano e

continuavano i loro discorsi privati, o saettavano via salendo alte nel cielo, verso gli innumerevoli

firmamenti che ruotano come un‘eco interminabile attraverso l‘eternità dello spazio.

Il nostro giovanotto stava pensando di abbandonare le campagne e tornare ai suoni e alla vita

della città quando incontrò un uomo alto e possente, coi muscoli che guizzavano sotto la pelle, un

torace come la prua di un galeone e un martello di ferro appoggiato sulle spalle massicce. Sembrava

un costruttore di case: ma in risposta alle innumerevoli domande del ragazzo, risultò che il

costruttore era il martello, e l‘uomo era soltanto il disegnatore.

―Io mostro al martello dove voglio che sia costruita una casa e lui si mette al lavoro,‖ disse a

Tseden.

Quando il gigante aveva bisogno di denaro, il martello costruiva un bel palazzo, e la prima

persona che offriva un prezzo conveniente poteva comprarsi una casa di cui essere orgogliosa. Il

ragazzo trovò assai interessante il martello e offrì il suo mestolo d‘oro in cambio.

―L‘oro potrà durare parecchi anni,‖ obiettò il massiccio individuo, ―ma il mio martello durerà

tutta la vita.‖

Il giovanotto sorridendo mostrò i poteri del mestolo. Gli sarebbe tanto piaciuto costruire case,

spiegò al gigante; sarebbe stato molto meglio che avere qualsiasi oggetto si potesse immaginare. Il

gigante afferrò subito l‘occasione. Basta costruire case, basta cercar compratori. Una vita piena di

agi e di lusso. Avrebbe avuto cento servi, una carrozza d‘oro, bellissime ancelle, qualsiasi cosa

potesse desiderare, o prodotta dal mestolo d‘oro o comprata con denaro che il mestolo avrebbe

prodotto. Si allontanò tenendo ben stretto il suo mestolo, quando improvvisamente, pochi minuti

dopo aver lasciato il ragazzo, si vide piombare addosso un bastone e un mantello che volavano per

aria, e che incominciarono a picchiarlo. Il robusto individuo cercò di lottare, ma sentiva i ceppi

della terra che lo legavano, mentre nessuna forza di gravità poteva trattenere gli aggressori. II

mantello si attorcigliò alla sua gola, il bastone gli picchiò in testa. Infine egli lasciò il mestolo d‘oro

e i tre magici strumenti si allontanarono, tornando all‘astuto giovanotto che li aspettava in vetta alla

collina.

Con quattro strumenti magici a sua disposizione, il giovane pensò che era tempo per lui di

tornare al villaggio natio e alla madre che non vedeva da quasi un anno: aveva anche un dovere da

compiere verso il re Dowabakpa. Riprese il viaggio attraverso quella terra straniera che gli aveva

dato così preziosi doni. Viaggiò per diversi giorni, ed era in procinto di scalare l‘ultima montagna

— doveva essere pressa poco vicino al luogo dove aveva incontrato l‘ometto col bastone volante —

quando improvvisamente vide apparire in lontananza un vecchio saggio con una lunga barba, le

vesti di un asceta e sul viso una grande saggezza. Sotto il braccio l‘uomo portava con sé una bella

borsa di pelle di capra.

―Dove andate, con codesta bella borsa?‖ chiese Tseden Dorgee al vecchio saggio, mentre il suo

fascino magnetico esercitava sull‘uomo un sortilegio che lo turbava e lo faceva sentire felice

quando avrebbe dovuto essere molto triste.

Seppe così che il vecchio asceta era un Mago della Pioggia. Ovunque ci fosse un periodo di

siccità, egli prendeva la sua borsa di pelle, l‘agitava nell‘aria e subito una pioggia abbondante

veniva ad irrigare la terra assetata. Nello stesso modo, quando troppa pioggia o troppa neve

facevano soffrire la gente, egli accorreva con la sua borsa a riportare il sole. Per questo la gente gli

pagava piccole somme di denaro, abbastanza da permettergli di vivere la modesta vita di un

pensatore. Ma quell‘uomo era ben lontano dall‘essere un acuto pensatore, perché il giovane si valse

del suo trucco favorito: col solito sotterfugio propose lo scambio, disse quanto gli sarebbe piaciuto

essere un Mago della Pioggia, mostrò le virtù del mestolo d‘oro, e infine i due uomini conclusero

l‘affare e si separarono. Ma è inutile dire che il bastone e il mantello compirono ben presto la loro

solita impresa: colpirono il povero mago sulla testa e lo derubarono del mestolo d‘oro.

Il giovanotto ora aveva tutto ciò che desiderava. Ogni cosa che vedeva nel pensiero compariva

davanti ai suoi occhi; e ogni cosa che i suoi occhi vedevano gli era procurata dal bastone. Il martello

di ferro poteva costruirgli una bella casa e la borsa di pelle di capra poteva controllare il tempo.

La neve si fece più alta sotto i suoi piedi, e il gelo dell‘alta montagna lo sorprese. Egli ricordò il

caldo mantello e gli sii vali che si era procurato un anno prima: agitò il mestolo d‘oro, ed eccoli lì

davanti ai suoi occhi, belli e come nuovi. Avrebbe anche potuto far tornare il sole: ma gli piaceva

quel paesaggio candido, gli alberi gravati dal peso della neve, gli uccelli che lasciavano minuscole

impronte come folletti dopo una notte di danze sotto la luna. Ma a poco a poco gli alberi diradarono

e sparirono. Egli si trovava nuovamente in cima alla montagna che segnava il confine fra un regno e

l‘altro, fra un modo di vita e l‘altro.

Quella notte il martello di ferro costruì una piccola casa, il mestolo d‘oro fece comparire un

caldo fuoco e un banchetto degno di un re. Il viaggiatore dormì in un letto di morbide piume, e

quando si svegliò un freddo sole saliva lentamente al di sopra delle montagne. Il giovane lasciò in

piedi la casa, perché potesse servire per altri viandanti sorpresi dal freddo e dalla neve: e si mise in

marcia con i suoi cinque magici amici verso il villaggio che aveva lasciato tanto tempo prima. Si

sentiva come uno che torna in luoghi conosciuti nell‘infanzia. I suoi ricordi erano impalliditi, sua

madre era solo una figura confusa in lunghe vesti, le strade erano strette ed estranee. Ricordava i

mercanti che gli avevano dato dei biscotti, i contadini che avevano riso alle sue storie. I suoi ricordi

non erano né buoni né cattivi, i suoi sentimenti erano indifferenti. Venne il tramonto: il ragazzo

passò la notte in un‘altra casa di ferro. La distanza fra le montagne e la sua casa diminuiva, la strada

gli divenne familiare, diversamente dalle strade nuove che aveva percorso per un anno. Ora

riconosceva il paesaggio, erano gli stessi alberi, gli uccelli cantavano le stesse canzoni, i fiori

avevano gli stessi nomi mentre aspettavano sotto la neve che la primavera venisse a liberarli.

Era già notte quando arrivò alla casa di sua madre. Vashi Chodon era invecchiata per il dolore ed

era ancora più povera di prima. I suoi abiti erano laceri, la casa sembrava più vecchia e più sporca.

La donna non poteva credere che quel robusto giovanotto con quegli abiti eleganti fosse suo figlio,

Tseden Dorgee: per tanto tempo lo aveva creduto morto, divorato da Daksemo e dai diavoli della

caverna, ma ora egli era qui, vivo, forte e bello. Tseden Dorgee sorrise ai dubbi di sua madre: le

raccontò del sogno, della prova, dei sette pani che gli avevano salvato la vita e avevano fatto la sua

fortuna. A poco a poco raccontò alla madre tutta la storia, le fece vedere i poteri del mestolo d‘oro e

insieme mangiarono i cibi prelibati, i migliori ch‘essa avesse mai gustato dopo la sua visita al

palazzo, tanto tempo prima. Vashi Chodon dormì quella notte in un letto nuovo, su un materasso di

piume, fra morbide coperte di lana. Invece di preparare la colazione e andare a prender acqua,

pranzò con l‘immaginazione di suo figlio. La vita era nuovamente reale: non solo Tseden Dorgee

era tornato, ma era tornato in bellezza.

―Ce soltanto una cosa,‖ disse il giovane alla madre. ―Non devi dir nulla alle donne dei miei

strumenti magici.‖

Tseden Dorgee e Vashi Chodon vivevano felici insieme. Avevano bruciato i vecchi mobili della

casa, e il mestolo d‘oro aveva fatto apparire molti bellissimi oggetti nuovi. Le pareti sgretolate

erano state ridipinte, ogni traccia di polvere pulita. Tutto era perfetto. Il giovane avrebbe potuto

anche costruire una casa di ferro a molti piani per sua madre: ma non voleva che il re sapesse del

suo ritorno, non ancora. E così evitava la gente del villaggio: se ne andava tutto solo la sera a fare

lunghe passeggiate per le campagne, ritrovando i pensieri della sua infanzia, ricordando le canzoni

che aveva cantato ai fiori, le storie che aveva sussurrato agli alberi parlanti. Poi tornava a casa,

pranzava — o almeno immaginava il pranzo — poi si coricava, e pensava, dormiva, sognava.

Una sera dopo cena Tseden Dorgee annunciò alla madre che pensava di partire quella stessa notte

per un affare importante. Non doveva preoccuparsi, le disse, perché tutto sarebbe andato per il

meglio. Vashi Chodon era invece molto angosciata: aveva pianto per tanto tempo la morte del iiglio

che quando era tornato le era sembrato un dono degli dèi. Dover affrontare nuovamente le stesse

pene, le paure, l‘angoscia di non saper nulla sarebbe stato come vivere in uno degli inferni. Ma il

giovane promise che sarebbe tornato presto, o avrebbe mandato qualcuno a prenderla. Quando la

luna salì nel cielo per il suo viaggio notturno egli lasciò la casa coi suoi quattro strumenti magici

appesi alla cintura e il magico mantello a scacchi sulle spalle.

Viaggiò tutta la notte, dormì in una tenda magica durante il giorno e poi proseguì il viaggio,

avvicinandosi sempre più alla capitale e al palazzo del re Dowabakpa. Vide molta gente sul suo

cammino, perché ogni miglio lo portava più vicino alla grande città, alle migliaia di abitanti che

vivevano in poche dozzine di strette vie, dove i mercanti esponevano le loro merci, i fattori

cercavano di vendere i loro prodotti, dove insomma si svolgeva tutta la vita della città, col governo

e con le tasse, coi suoi lavori e le sue pene.

La notte seguente Tseden Dorgee arrivò nei giardini che circondavano il magnifico palazzo reale.

La luna era bassa, la notte nera, le stelle pallide e lontane, come timorose di mostrare il loro trepido

viso. Sul campo erboso dove di giorno giocavano i bambini il giovane segnò i quattro angoli del

castello che voleva costruire e ordinò al suo martello di ferro di lavorare rapidamente, usando il

nero della notte per innalzare un potente castello, con torri e ponti levatoi, un portale irto di punte di

ferro, torri che arrivassero al cielo e porte che neppure un intero esercito potesse rovesciare. Il

martello lavorò rapidamente, muovendosi di qua e di là, forgiando in silenzio muri e pavimenti, e il

castello prese forma come una tempesta di sabbia uscita dal nulla.

Quando sorse l‘aurora il castello era finito, un possente edificio nero che torreggiava alto sul

palazzo reale e lo faceva sembrare un umile granaio accanto a una fattoria. Il castello era come un

animale gigantesco che bloccava il sole e gettava un‘ombra nera su tutta la città. La gente lo

guardava con timore e diffidenza, non sapendo se era meglio fare i bagagli e andarsene, oppure

aspettare e vedere se era un Dio o un diavolo quello che era arrivato quella notte, se era un amico o

un nemico venuto a scuotere le radici stesse della loro esistenza.

Il re Dowabakpa si teneva nascosto nella veranda del palazzo e sbirciava timoroso il nero

castello che gettava la sua ombra sulla città. La sua mente tornava al vecchio astrologo e al suo

sinistro presagio. Vedeva la sua vita e le sue ambizioni cadere a pezzi tutt‘intorno. Pensava al suo

figlio maggiore, il principe che un giorno doveva diventare re, e si domandava smarrito se mai il

giovane sarebbe salito al trono. Guardava tremando il possente castello di ferro e non sapeva se

questa fosse veramente la fine o se fosse una visita degli dèi, una semplice ―apparizione‖, di cui

sempre parlavano gli antichi.

Questi erano i pensieri del re, questi erano i timori dei cittadini quando un altro fatto avvenne,

ancora più sorprendente. Un vecchio bastone nodoso e un logoro mantello a scacchi rossi e verdi

cominciarono a volare per tutta la città, spingendo la gente dentro le case e picchiando sulle

orecchie quei pochi che volevano resistere. Quando tutti furono rinchiusi nelle loro case, il bastone

magico e il mantello a scacchi attaccarono il palazzo reale, ne scacciarono i principi e le

principesse, sorpresero le guardie di palazzo e le gettarono giù dalle scale di marmo, fecero

scappare la regina e bastonarono il re. Fu un giorno terribile per tutti. Il re si rese conto che

l‘oracolo si avverava, ma ancora la gente non sapeva che cosa stava succedendo. Guardavano fuori

dalle finestre e se si avventuravano nelle strade o un bastone o un mantello accorreva subito a

ricacciarli indietro. Il palazzo reale era completamente nel caos, le guardie erano tutte ammucchiate

sul pavimento insieme al trono, ai calici d‘oro e alle gemme preziose; i membri della famiglia reale,

inseguiti in ogni angolo, erano coperti di polvere e sudiciume, e il bastone e il mantello stavano

girando dappertutto, prendevano tutti gli oggetti di pregio e tornavano poi nel nero castello di ferro.

Quando scese la notte Tseden Dorgee stava ancora ridendo. Il mantello e il bastone riposavano

mentr‘egli era seduto a uno splendido banchetto. Nel frattempo però il re si era ripreso e aveva

deciso di fare un ultimo tentativo per sconfiggere l‘invisibile minaccia che era in agguato dentro il

castello. Riunì tutte le sue truppe e le mandò in città con una promessa: se i cittadini lo aiutavano a

battere il terrore del castello, non ci sarebbero state più tasse per dieci anni. Naturalmente tutti

acconsentirono e accorsero al palazzo come uccelli migratori in cerca di climi più miti. Portarono

con sé tutto il legname e tutto l‘olio che poterono raccogliere, e, col re in testa, marciarono dal

palazzo verso il castello. Vi ammucchiarono intorno la legna e la inzupparono di olio. Per tutta la

notte lavorarono: raccolsero altra legna, altro olio, tutto ciò che poteva bruciare fu gettato

sull‘enorme mucchio. La nera notte era alla fine, il sole si stava levando, il re, alla testa dei suoi

generali e dei suoi ministri, marciò verso il centro dell‘enorme catasta e vi diede fuoco. Le fiamme

corsero veloci su per la legna secca impregnata di olio.

L‘incendio divampò sempre più violento, come i fuochi dell‘inferno, le mura di ferro

cominciarono a curvarsi e a crollare, la porta principale fu abbattuta e le truppe cominciarono a

penetrare nel castello. Le torri crollavano, il ferro diventava rosso e incandescente per il calore. Gli

uomini gridavano, esultavano, la loro lunga notte di fatica finiva in un grande folle assalto contro il

castello, contro l‘intruso nascosto, contro il bastone e il mantello a scacchi. ―Dieci anni senza

tasse,‖ gridavano tutti, gettando altra legna nel fuoco.

Dentro il castello Tseden Dorgee se ne stava tranquillo e senza timore. Per tutta la notte era stato

a osservare gli uomini ai piedi del castello, che trafficavano come formiche bruciando vivi per

difendere i loro misfatti. Era sempre stata una città malvagia, con un uomo ancor più malvagio al

suo governo. Il giovane non sentiva nulla, né gioia né pena. Mentre le fiamme divampavano sempre

più alte intorno alle mura e le guardie di palazzo avanzavano da un piano all‘altro, Tseden Dorgee si

recò a lenti passi nella torre gigantesca che si ergeva al centro del castello. Salì i gradini di ferro, col

mantello che ondeggiava nell‘aria senza vento, il bastone e il martello magico appesi alla cintura, il

mestolo d‘oro sotto il braccio, la borsa di pelle di capra in mano.

Si fermò sul piccolo balcone alla sommità della torre. Guardò ai suoi piedi gli uomini che come

insetti indaffarati lavoravano senza sosta: e gli insetti si fermarono e guardarono in alto verso di lui,

pieni di paura e sgomento. Il giovane alzò le braccia verso il cielo come se fosse un Dio pronto a

spiccare un volo nell‘universo; invece gettò la preziosa borsa in aria, più in alto delle nubi; e la

borsa colpì il soffitto del cielo e poi scese lentamente fluttuando come un pallone scoppiato. Pochi

secondi dopo il cielo si spaccò in due come un foglio di carta, lampi accecanti serpeggiarono nella

fessura, i tuoni rombarono e la pioggia cadde a torrenti spegnendo l‘incendio e inondando le strade.

Le montagne a est crollarono in una sola immensa frana, poi le montagne a ovest subirono la stessa

sorte. La pioggia cadde come una cascata senza fine, infinito torrente d‘acqua che sommerse la

pianura, smosse i macigni che rotolarono con fragore lungo i versanti delle montagne. Enormi

valanghe si rovesciarono come due immense onde sulla campagna, il grande fiume scompar ve via

via che l‘inondazione sommergeva la valle.

Il sogno si era avverato. Tseden Dorgee era realmente più che un comune mortale. Il re riunì la

sua famiglia e partì per l‘esilio, nel timore che la collera del giovane signore del castello si

espandesse come un ectoplasma e lo inghiottisse. La città era praticamente distrutta. Le strette

strade dove era stato praticato il vizio e il delitto da quando la generazione precedente aveva

lasciato questo mondo erano diventate ruscelli che entravano e uscivano dalle case e scorrevano sui

muri crollati. Tseden Dorgee usci dal castello semidistrutto, agitò il suo mestolo tre volte a sinistra e

le rovine scomparvero; i relitti della città galleggiavano in sudici mucchi, ma il mestolo d‘oro

sgomberò tutto, distrusse il marciume e ricostruì le case. La gente diede al re la colpa di tutto quello

che era successo e salutò Tseden Dorgee come nuovo sovrano: e tutti giurarono che la bontà

avrebbe regnato nel paese da quel giorno fino alla fine del tempo.

Il saggio vecchio monaco aprì gli occhi e sorrise al giovane discepolo.

―Ora ho molte cose a cui pensare,‖ disse il giovane eremita, muovendo le membra intorpidite per

cercare una nuova posizione, e aggrottò le sopracciglia, pensando, considerando, contemplando.