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Dante Alighieri – DIVINA COMMEDIA -INFERNO

CANTO XXII – ANALISI, COMMENTO E PARAFRASI

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CANTO XXII – ANALISI, COMMENTO E PARAFRASI

Canto XXIIPosizione VIII cerchio - Malebolge - (fraudolenti); 5ª bolgia

Peccatori Barattieri

Pena Sono tuffati nella pece bollente; vengono uncinati e straziati dai diavoli se cercano di riemergere

Contrappasso Come in vita si invischiarono in affari oscuri e truffaldini, così ora sono tuffati nella pece, e tormentati da diavoli menzogneri come loro

Dante incontra I diavoli Malebranche; Ciampolo di Navarra, frate Gomita, Michele Zanche

■ Sequenze narrative

► vv 1-12 UN COMMENTO AL SEGNALE DI BARBARICCIA Il canto si apre con una rassegna dei vari tipi di segnali acustici usati dagli eserciti, il cui spunto è stato offerto a Dante dallo sconcio segnale di Barbariccia alla fine del canto precedente. Dopo questa comica divagazione, riprende il racconto.

► vv 13 – 36 LA FIERA COMPAGNIA (Delfini, rane e una lontra)Camminando lungo la quinta bolgia, Dante osserva i tentativi dei barattieri di

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CANTO XXII – ANALISI, COMMENTO E PARAFRASI

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riemergere dalla pece, per trovare un po’ di sollievo; essi però si rituffano non appena scorgono Barbariccia.

► vv 37 – 63 CIAMPOLO DI NAVARRA Uno dei dannati, che non ha fatto in tempo a reimmergersi, viene arpionato per i capelli da Graffiacane e tratto a riva. Mentre i diavoli si accingono a farne strazio, Dante chiede a Virgilio qualche informazione su questo dannato. Si tratta di Ciampolo di Navarra, barattiere presso la corte del re di Navarra Tebaldo II. Ciriatto lo ferisce con una zanna e Barbariccia intende infilzarlo col forcone, ma prima acconsente che gli venga rivolta ancora qualche domanda.

vv. 64 – 90 FRATE GOMITA E MICHELE ZANCHE Virgilio gli chiede allora se sotto la pece vi sia qualche italiano; nonostante l’impazienza dei diavoli, Ciampolo riesce a nominare frate Gomita e Michele Zanche, due barattieri sardi che anche nella pece continuano a rievocare la propria terra.

► vv. 90- 132 LA BEFFA DI CIAMPOLO Ciampolo dichiara di essere in grado di richiamare dalla pece, con un fischio convenzionale, altri dannati, a patto però che i Malebranche si allontanino un po’. Malgrado l’opposizione di Ciriatto, che ha intuito l’inganno, i diavoli accettano la sfida; cogliendo al volo l’occasione, Ciampolo si getta allora nella pece, riuscendo a sfuggire all’inseguimento di Alichino.

► vv. 132 – 151 LA ZUFFA DEI DIAVOLI Sentendosi beffati, i diavoli cominciano ad azzuffarsi tra loro; il più furioso è Calcabrina, che si avventa contro un compagno e cade con lui nella pece. Mentre i Malebranche soccorrono i due, Dante e Virgilio si allontanano.

■ Temi e motivi

La «fiera compagnia» L’apertura del canto si pone come ampio e vivace commento al gesto sconcio di Barbariccia (ed elli avea del cul fatto trombetta) su cui si era chiuso quello precedente, che per ambientazione e registro stilistico forma con questo, come si è già detto, una compatta unità narrativa. A partire dal singolare «segnale» di Barbariccia, viene qui narrato l’intero tragitto compiuto da Dante e Virgilio lungo l’argine della bolgia, con la scorta della fiera compagnia dei diavoli predisposta da Malacoda. I dieci diavoli ricompaiono qui non coralmente, o soltanto come semplici nomi come nel canto precedente, ma ciascuno con una precisa connotazione caratteriale, che sembra quasi porre sullo stesso piano demoni e uomini. Si va dall’irruenza e dal piacere della violenza, comuni a tutti, all’insofferenza di Libicocco, al mal piglio di Barbariccia, alla diffidenza di

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Cagnazzo, alla presunzione e quindi al rammarico di Alichino, all’ira di Calcabrina.

L’inganno di Ciampolo La parte centrale del canto ha come protagonista il barattiere Ciampolo di Navarra; tale focalizzazione non è tuttavia dovuta, come in altre occasioni, ad una significativa vicenda terrena di questo personaggio, del quale in realtà non sappiamo nulla più di quanto dice Dante, ma semplicemente alla funzione qui assegnatagli di antagonista dei diavoli. Egli infatti, mettendo in atto uno degli inganni del suo vasto repertorio, riuscirà a beffare i demoni e a sfuggire alle loro grinfie, provocando così una zuffa che finirà per trascinare nella pece pure Alichino e Calcabrina, in una scena animata e grottesca – enfatizzata dal poeta attraverso un appello al lettore (v. 118) –, nella quale culmina l’episodio (E noi lasciammo lor così ’mpacciati). La caduta dei diavoli nella pece e la zuffa che ne consegue permettono a Dante di sottrarsi alle loro mire, e ciò sembra corrispondere in controluce a quanto dichiarato in precedenza da Brunetto Latini in Inf. XV, 73-74 (Faccian le bestie fiesolane strame/ di lor medesme) e a quanto dichiarerà Cacciaguida* in Par. XVII, 61-66 (E quel che più ti graverà le spalle,/ sarà la compagnia malvagia e scempia/ con la qual tu cadrai in questa valle;/ che tutta ingrata, tutta matta ed empia/ si farà contr’a te; ma, poco appresso,/ ella, non tu, n’avrà rossa la tempia).

► vv 1-12 UN COMMENTO AL SEGNALE DI BARBARICCIA

Io vidi già cavalier muover campo,e cominciare stormo e far lor mostra,e talvolta partir per loro scampo; 3

corridor vidi per la terra vostra,o Aretini, e vidi gir gualdane,fedir torneamenti e correr giostra; 6

quando con trombe, e quando con campane,con tamburi e con cenni di castella,e con cose nostrali e con istrane; 9

né già con sì diversa cennamellacavalier vidi muover né pedoni,né nave a segno di terra o di stella. 12

Io vidi un tempo cavalieri mettersi in marcia, e iniziare l’assalto e fare evoluzioni durante le parate, e a volte ritirarsi per mettersi in salvo;

vidi soldati a cavallo sul vostro suolo, o Aretini, e vidi fare incursioni devastatrici, scontrarsi le squadre nei tornei e cimentarsi i singoli nei duelli;

a volte con trombe, e a volte con campane, con tamburi e con segnali dalle fortezze, e con strumenti nostri e forestieri;

ma certamente mai con un così insolito zufolo vidi partire cavalieri o fanti, o nave ad un segnale dato dalla riva o indicato da una costellazione.

Questa scena, come molte di quelle con cui si aprono i canti di Malebolge, costituisce un quadro a sé, ben delimitato nel flusso della narrazione.La similitudine dell’arzanà de’ Vinizíani, posta all’inizio del canto precedente, risultava più strettamente legata al contenuto di questo, poiché in essa erano anticipati alcuni dei motivi di maggior rilievo della quinta bolgia: l’oscurità

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accentuata dal colore della pece, l’irrequietezza di diavoli e dannati, l’attenzione dei Poeta rivolta ai gruppi e all’azione, più che ai singoli e all’indagine etico - psicologica. La scena ariosa che introduce al racconto nel canto XXII, così contrastante con l’atmosfera infernale nell’evocazione di vasti spazi e’ nell’insistente richiamo a movimenti di moltitudini disciplinate e concordi, fa spicco più decisamente nel tessuto di raggiri e di primitive cupidigie che caratterizza l’episodio dei barattieri. Va ancora notato che mentre la similitudine dell’arzanà de’ Viniziani riallaccia la pena di questi peccatori ad un mondo di instancabile operosità artigiana, il quadro delle precise evoluzioni di eserciti, che funge da preludio al secondo tempo della commedia di questa bolgia, ricollega lo sconcio comportamento dei diavoli ad un mondo di virtù pittoresche e feudali.

Barbariccia non si comporta certo da signore facendo quel rumoraccio, ma qui chi insiste è Dante. E, ad apertura di canto ci prende anche in giro. con una sontuosa descrizione di manovre militari, che poeta e pellegrino ricavano dal repertorio dei loro trascorsi comuni nella cavalleria della Repubblica fiorentina.Dunque: “Ho visto a suo tempo - dice in sostanza Dante Alighieri - non è che io non abbia mai visto soldati a cavallo levare il campo e mettersi in marcia, o muovere all’attacco, o disporsi in rassegna o, alle brutte, battere in ritirata: e ho visto esploratori in avanscoperta nel vostro territorio. Aretini, e ho visto fior di scorrerie, ma anche scontri di squadre per torneo o di guerrieri singoli per giostra, ho visto. E tutto corredato ora dal suono di trombe, di campane o di tamburi, ora dalla segnaletica a fuoco da fortezza a fortezza: con metodi e strumenti delle parti nostre, ma anche roba estera... Onestamente. però. non ho mai visto né cavalieri né fanterie, e tanto meno navi orientate su segnalazioni costiere o sulla posizione delle stelle, mettersi in moto al segnale di così stravagante “cennamella”.

La cennamella è un rudimentale strumento della famiglia delle cornamuse, che a fine Duecento integrò con altri fiati, come tromba e zufolo, l’organico delle bande militari, limitato in precedenza alle percussioni. Qui, insomma, Dante - presentatore esordisce sul marziale sostenuto, cambiando radicalmente tono: ci illude di aver cambiato anche argomento: poi, di colpo. con uno scarto brusco e inopinato torna sul peto che aveva siglato il canto scorso, obbligandoci, oltre tutto, a immaginare tecnicamente il sedere di un diavolo come uno strumento a fiato.Ha un bel giustificarsi, ora, con la storia che quella dei dieci demòni era una compagnia da far paura, e che, dati luogo e circostanze, bisognava pur rassegnarsi alla loro grossolanità plebea... Chi si adegua alla grossolanità dei personaggi-diavoli non è lo spaurito

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personaggio - pellegrino: è il personaggio-poeta che la manipola e la assume a registro espositivo, distillandola secondo il dosaggio calibratissimo di accelerazioni e di pause, di incisi e di sottintesi, di dilazioni, di ammicchi e di spiazzamenti, che ci viene esibito nel portentoso pezzo di bravura di questo canto XXII.

► vv 13 – 36 LA FIERA COMPAGNIA (Delfini, rane e una lontra)

Noi andavam con li diece demoni.Ahi f iera compagnia! ma ne la chiesacoi santi , e in taverna coi ghiottoni .  15

Noi procedevamo con i dieci diavoli: ah, paurosa compagnia! ma in chiesa si sta con i santi, e nell’osteria con i furfanti.

Con il suo duca, il pellegrino trotta, dunque, sull’argine, dietro a quelle dieci canaglie; costretto ad assistere alle loro canagliate (e a riferirle) da poeta se la caverà ripetendo una frase di sapore proverbiale, ( ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni). simile a quella che si ritrova in un passo di un romanzo popolare del ‘200, la Tavola Ritonda: "qui si afferma la parola usata, che dice così: gli mercatanti hanno botteghe, e gli bevitori hanno taverne, e’ giuocatori hanno taolieri, e ogni simile con simile".

Pur a la pegola era la mia ’ntesa,per veder de la bolgia ogne contegnoe de la gente ch’entro v’era incesa. 18

Come i dalfini, quando fanno segnoa’ marinar con l’arco de la schienache s’argomentin di campar lor legno, 21

talor così, ad alleggiar la pena,mostrav’alcun de’ peccatori ’l dossoe nascondea in men che non balena. 24

E come a l’orlo de l’acqua d’un fossostanno i ranocchi pur col muso fuori,sì che celano i piedi e l’altro grosso, 27

sì stavan d’ogne parte i peccatori;ma come s’appressava Barbariccia,così si ritraén sotto i bollori. 30

La mia attenzione era rivolta costantemente alla pece, per osservare ogni aspetto della bolgia e dellamoltitudine che in essa era bruciata.

Come i delfini, quando, inarcando il dorso, avvertono i marinai d’ingegnarsi a salvare la loro nave,

così talvolta, per alleviare la sofferenza, qualcuno dei dannati esponeva la schiena, e la celava più rapido del lampo.

E come i ranocchi stanno sull’orlo dell’acqua di un fossato col solo muso fuori, in modo da nascondere lezampe e il resto del corpo,

così i peccatori stavano da ogni parte; ma non appena Barbariccia si avvicinava, subito si ritiravano sottola pece bollente.

E riattacca il racconto: “Io non avevo occhi che per la pegola, giacchè volevo vedermi bene questa bolgia in ogni suo particolare , e anche la gente che ci stava dentro tutta brasata. Avete presente i segnali che fanno i delfini con l’arco della

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schiena ai marinai, perché si diano da fare a mettere in salvo la barca?...”Sia detto per inciso: la vocazione salvifica dei delfini, testimoniata da remotissime favole micenee, è tesaurizzata dal cristianesimo, che sceglie il delfino fra gli emblemi del Redentore, e convalida, in orizzonte più circoscritto, l’etologia dell’età nostra.più o meno come fanno i delfini, talor così, per alleggerire lo strazio, qualche peccatore mostrava il groppone, e lo rinascondeva in un batter d’occhio. Se poi avete notato come si dispongono i ranocchi sull’orlo di un fosso. che mettono fuori solo il muso, mentre i piedi e tutto il grosso del corpo se lo tengono nascosto nell’acqua, potete farvi un’idea di come stavano appostate diverse anime peccatrici lungo i bordi del pegolone. Sennonché, appena vedevano che s’appressava Barbariccia, anche quelle si ricacciavano sotto i bollori come saette.

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,uno aspettar così, com’elli ’ncontrach’una rana rimane e l’altra spiccia; 33

e Graffiacan, che li era più di contra,li arruncigliò le ’mpegolate chiomee trassel sù, che mi parve una lontra. 36

Vidi, e ancora il mio cuore ne prova sgomento, uno di loro stare in attesa, così come accade che una rana resta ferma e un’altra spicca il salto;

e Graffiacane che più degli altri gli stava di fronte, gli afferrò con l’uncino i capelli impeciati e lo sollevò, in modo che mi sembrò una lontra.

"Che ti vedo a questo punto?” prosegue il poeta. . Ti vedo (e se ci penso, raccapriccio di nuovo) uno lì fermo che aspettava, come capita alle rane, appunto, che mentre l’altra schizza via, l’una rimane. E Graffiacane. che gli stava giusto di rimpetto. gli infilzò e arrotolò con l’uncino, in una parola. gli arruncigliò le chiome incollate dalla pece, e lo tirò su, che sai cosa mi parve? Mi parve una lontra.”

► vv 37 – 63 CIAMPOLO DI NAVARRA

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,sì li notai quando fuorono eletti,e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come. 36

Io conoscevo già il nome di tutti quanti i diavoli. poiché li avevo con tanta cura annotati quando vennero scelti, e poi avevo fatto attenzione al modo in cui si chiamavano l’un l’altro.

“Ma tu. Dante” direte. “come fai a saperlo, che era proprio Graffiacane quel diavolo lì preciso? Magari”, direte. “ti stai inventando tutto...”

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Nossignori: è che, a quel punto, io sapevo già a memoria il nome di tutti quanti uno per uno. talmente bene me li ero registrati quando il capo aveva fatto la selezione con l’appello: e poi - vorrei aggiungere- tutte le volte che capitava si chiamassero fra loro, badavo come.” Dato che ci siamo, e dato che li rivedremo tutti in questo canto, uno per uno. ripassiamoci anche noi, per ordine d’entrata, la locandina dei diavoli comandati di ronda nel canto passato: GRAFFIACANE (e si è già visto in azione), RUBICANTE (arriva subito) e CIRIATTO, diavoli semplici; BARBARICCIA, diavolo-caporale; LIBICOCCO. DRAGHIGNAZZO, FARFARELLO. CAGNAZZO. ALICHINO e CALCABRINA, diavoli semplici.

"O Rubicante, fa che tu li mettili unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!",gridavan tutti insieme i maladetti. 42

E io: "Maestro mio, fa, se tu puoi,che tu sappi chi è lo sciaguratovenuto a man de li avversari suoi". 45

Lo duca mio li s’accostò allato;domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:"I’ fui del regno di Navarra nato. 48

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,che m’avea generato d’un ribaldo,distruggitor di sé e di sue cose. 51

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;quivi mi misi a far baratteria,di ch’io rendo ragione in questo caldo". 54

" O Rubicante, fa in modo di mettergli addosso gli artigli, in modo da scuoiarlo! " urlavano concordi i malvagi.

E io: " Maestro, cerca, se puoi, di sapere chi è lo sventurato caduto in balìa dei suoi nemici ".

Virgilio gli siavvicinò fermandosi al suo fianco; gli chiese di dove fosse, e quello rispose: " Io fui nativo del regno di Navarra.

Mia madre, che mi aveva generato da un furfante, suicida e scialacquatore, mi mise al servizio di unsignore.

Fui in seguito alla corte del valente re Tebaldo: qui mi diedi ad esercitare la baratteria; del quale peccato rendo conto in questo bollore ".

“«O Rubicante, che aspetti a mettergli gli unghioni addosso, così lo scuoi?» urlavano tutti insieme quei maledetti. E io, al mio maestro: «Maestro mio, perché non trovi il modo di sapere chi è quel disgraziato che s’è fatto pizzicare dal nemico?». E Virgilio, tranquillo, gli si accosta per dilato e gli domanda di dov’è. E quello rispuose. così, appeso per i capelli a un arpione: nero lustro e gocciolante come una lontra, quello non lo mandò al diavolo, lo duca mio (che nella circostanza sarebbe stato legittimo e anche facile), ma rispuose, e con molta precisione: «Io sono, anzi, ero nato nel regno di Navarra. Mia madre cominciò con il mandarmi a servizio da un

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gentiluomo, la quale mi aveva messo al mondo (povera donna) con un debosciato che si era distrutto da sé (morì ammazzandosi, praticamente), dopo aver distrutto il patrimonio di famiglia. In un secondo momento, entrai nel personale domestico del buon re Tebaldo».”

Ciampolo da Navarra

Di questo personaggio nulla si sa, se non quello che ci viene detto da Dante stesso: fu al servizio del re Tebaldo II di Navarra, (V come conte di Champagne), sotto il quale commise malversazioni. Lo stesso nome Ciampolo, peraltro, non compare nel testo, ma viene attribuito al

personaggio dagli antichi commentatori. Per questo è stato anche identificato col poeta giullaresco Rutebeuf, anch'egli attivo alla corte di re Tebaldo, del quale commemorò la partecipazione alla Crociata di San Luigi.

Chi era “il buon re Tebaldo”?

Nipote acquisito di Carlo d’Angiò, questo Thibaut, Secondo come re di Navarra, e Quinto come conte di Champagne, era nato nel 1235; nel ‘53 salì sul trono; fra il ‘60 e il ‘66 si industriò per quanto potesse a mettere i bastoni fra le ruote alle compagnie commerciali di Firenze ghibellina che operavano in terra di Francia: nel ‘70 partecipò alla crociata contro il Bey di Tunisi e. per l'occasione, contrasse la peste. che lo uccise di lì a poco in Sicilia. Che - a quanto capita di leggere a piè di pagina, Dante lo apprezzasse particolarmente come troviero in lingua d'oil è dubbio. Infatti il rex Navarre onorevolmente menzionato nel De vulgari eloquentia (II, vi 6) è. per l'esattezza, suo padre, anche se non si può giurare che Dante li distinguesse.

E Cirïatto, a cui di bocca usciad’ogne parte una sanna come a porco,li fé sentir come l’una sdruscia. 57

Tra male gatte era venuto ’l sorco;ma Barbariccia il chiuse con le bracciae disse: "State in là, mentr’io lo ’nforco". 60

E al maestro mio volse la faccia;

E Ciriatto, al quale dalla bocca sporgeva da ogni parte una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una di esse lacerava.

Il topo era capitato tra gatte cattive; ma Barbariccia lo circondò con le braccia, e disse: " State lontani, finché lo tengo stretto ".

E rivolse il viso a Virgilio:

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"Domanda", disse, "ancor, se più disiisaper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia". 63

" Chiedi ancora " disse " se desideri sapere altro da lui, prima che qualcuno ne faccia scempio ".

 “Quivi”. stava dicendo la lontra, “cioè alla corte di re Tebaldo, mi misi a far baratteria: attività” conclude, “che pago in questa caldaia.” A questo punto Ciriatto, riconoscibile per le due zanne che gli sbucavano di bocca da una parte e dall’altra come a un porco nel senso di cinghiale, gli fece constatare che bastava una a sdrucirlo. Belle gatte da pelare s’era preso il povero sorcetto! Fortuna che il caporale Barbariccia lo bloccò inforcandolo per di dietro con le braccia e con le zampe (positura non proprio signorile), al grido: ‘Fintanto che lo reggo io, fatevi tutti in là!”. Poi si girò al maestro: “Se qualche altra cosetta desideri saper da lui, chiedigliela, prima che questi lo facciano a pezzi!” (buon diavolo, dopotutto).

Più che sulla crudeltà dei custodi di questa bolgia, Dante insiste, in questo come nel canto precedente, sulla loro irrequietezza, sulla mobilità dei loro istinti e atteggiamenti, sulla loro indisciplina. Barbariccia, al quale il suo capo Malacoda ha affidato il compito di guidare il plotone dei dieci diavoli e di accompagnare Dante e Virgilio, cerca di affermare la propria autorità di capo e l’efficienza del manipolo da lui comandato. Nel contrasto fra la sua "autorevolezza teorica, nominale e velleitaria" e la sua "esautorazione ad opera degli indocili sudditi" trova la sua espressione una delle note di maggior risalto comico del canto. (Sozzi)

vv. 64 – 90 FRATE GOMITA E MICHELE ZANCHE

Lo duca dunque: "Or dì: de li altri riiconosci tu alcun che sia latinosotto la pece?". E quelli: "I’ mi partii, 66

poco è, da un che fu di là vicino.Così foss’io ancor con lui coperto,ch’i’ non temerei unghia né uncino!". 69

E Libicocco "Troppo avem sofferto",disse; e preseli ’l braccio col runciglio,sì che, stracciando, ne portò un lacerto. 72

Allora Virgilio: " Dimmi dunque: degli altri malvagi che stanno sotto la pece, conosci qualcuno che sia italiano?" E quello: " Io mi allontanai,

poco fa, da uno che fu di quelle parti: potessi ancora essere sotto la pece con lui! non avrei infatti da temere artiglio né uncino ".

E Libicocco: “Troppo abbiamo sofferto”disse; e e gli arpionandogli un braccio con tanta violenza che stracciando gliene portò via un pezzo

Dante e Virgilio sembrano però tifare una volta tanto per il dannato (una concessione del tutto straordinaria all'ineluttabilità del giudizio divino che commistiona le pene giuste ai dannati, in linea però con l'atipicità di questo brano), quindi gli rivolgono un'altra domanda ritardando il supplizio: "de li altri

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rii / conosci tu alcun che sia latino (qui sinonimo di italiano)/ sotto la pece?". Il dannato risponde che lì accanto a lui c'era fino a poco fa un "vicino" dell'Italia, un sardo, e che tanto vorrebbe tornare accanto a lui sotto la pece senza paura né di unghia né di uncino.Nel ritmo incalzante dell'episodio, il discorso di Ciampòlo è di nuovo interrotto dai diavoli. Libicocco, che freme di impazienza per usare l'uncino profferisce laconicamente "Troppo avem sofferto!" e gli stacca un pezzo di braccio con l'arpione. 

Draghignazzo anco i volle dar di pigliogiuso a le gambe; onde ’l decurio lorosi volse intorno intorno con mal piglio. 75

Quand’elli un poco rappaciati fuoro,a lui, ch’ancor mirava sua ferita,domandò ’l duca mio sanza dimoro: 78

"Chi fu colui da cui mala partitadi’ che facesti per venire a proda?".Ed ei rispuose: "Fu frate Gomita, 81

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,e fé sì lor, che ciascun se ne loda. 84

Danar si tolse e lasciolli di piano,sì com’e’ dice; e ne li altri offici anchebarattier fu non picciol, ma sovrano. 87

Pure Draghignazzo lo volle colpire giù nelle gambe; per cui il loro capo si volse tutto intorno con espressione adirata.

Quando costoro si furono un po’ quietati, Virgilio senza indugio domandò a lui, che ancora osservava la sua ferita:

"Chi fu quello dal quale dici che facesti male a separarti per avvicinarti alla riva ? " Ed egli rispose: "Fu frate Gomita,

quello di Gallura, ricettacolo d’ogni inganno, il quale ebbe in suo potere i nemici del suo signore, e li trattò in maniera tale che ognuno se ne compiace.

Prese denaro, e li lasciò andare liberi con procedimento sommario, così come egli stesso dice; e anche negli altri incarichi non fu barattiere da poco, ma sommo.

Draghignazzo allora alla vista del sangue si esalta e si avventa sulle gambe del poveretto, ma basta un'occhiataccia del loro capo (il decurio) per fermarli. Le ferite però non sono orride e non danno dolore al malcapitato (si pensi per esempio il raccapriccio di Dante in altre occasioni come con gli scialacquatori o i seminatori di discordie per sottolineare anche qui il tono scanzonato e grottesco), il quale le guarda, ma riprende subito a parlare, spronato da Virgilio.Il dannato di cui parlava poco fa è Frate Gomita, gallurese, ricettacolo (vasel) di ogni frode, che trattò i nemici del suo signore (suo donno, ricalcato sul sardo che usa come articolo determinativo "su") in maniera che ognuno ne ebbe profitto (lui e loro, intende: prese i soldi e li lasciò liberi; ma anche negli altri offici fu un barattiere, "non picciol, ma sovrano").

Frate Gomita di GalluraIn realtà non viene incontrato direttamente, ma citato da un suo compagno di pena, Ciampolo da Navarra, che lo definisce vasel d'ogni froda: vicario di Nino

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Visconti che resse il giudicato di Gallura in Sardegna, commise abbondanti malversazioni fin quando non lasciò evadere dei prigionieri dietro riscatto, crimine per il quale venne impiccato.

Usa con esso donno Michel Zanchedi Logodoro; e a dir di Sardignale lingue lor non si sentono stanche. 90

Sta spesso con lui messer Michele Zanche di Logudoro; e le loro lingue, nel parlare della Sardegna, non avvertono mai la stanchezza.

Con lui c'è Michele Zanche del Logudoro, e le loro due lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna.

Michele ZancheEra siniscalco del re Enzo di Svevia, sposo della giudicessa Adelasia di Torres: conquistò la sua fiducia per poi compiere continue frodi (secondo le cronache, non supportate da documenti in merito).Allorché, nel 1239, Enzo andò via dalla Sardegna, nominò "donno Michel" vicario nel giudicato (anche questa notizia non è storicamente accertata): lui, però, sfruttando per i propri interessi il potere conferitogli, si arricchì parecchio facendosi pagare i favori che elargiva a molti sudditi (come liberare i detenuti).Già nel 1236, Zanche fece parte del complotto per assassinare a Sassari il giovane giudice Barisone III di Torres, al quale succedette la sorella Adelasia, il cui primo marito Ubaldo Visconti di Gallura sembra non fosse estraneo all'organizzazione del delitto. Il reggente Ithocorre aveva, infatti, oberato i sassaresi di onerosi tributi: la protesta dilagò e lo Zanche, insieme ad altri nobili locali, fu esiliato a Genova.Dopo la morte di Enzo, nel 1272 in Bologna, pare che Zanche usurpasse completamente l'autorità sovrana, tanto che, non a ragione, alcuni scrittori lo considerano l'ultimo giudice turritano. Pietro di Dante afferma che Michele sposò la regina Adelasia (divorziata da Enzo) e ne ebbe una figlia, Caterina, più tardi moglie del genovese Branca Doria. La suddetta notizia non trova riscontri in alcun documento, come pure il fatto che, invece di Adelasia, l'intraprendente uomo avesse impalmato Bianca Lancia, presunta madre del sovrano svevo (lo era del fratellastro Manfredi). In ogni caso Michele esercitò il suo ufficio non tenendo conto della legittima giudicessa Adelasia, confinata nel castello di Burgos e deceduta intorno al 1259.Per motivi non chiari, ma legati certamente a interessi successori, nel 1275, il genero Branca Doria fece uccidere a tradimento lo Zanche durante un convivio nel suo castello della Nurra, alla presenza del cugino Barisone Doria: il cadavere del barattiere fu poi fatto a pezzi.La scomparsa di Adelasia causò l'estinzione del giudicato di Torres, le cui

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terre furono spartite tra i Doria, i Malaspina, il giudicato di Arborea e il Libero Comune di Sassari

► vv. 91- 132 LA BEFFA DI CIAMPOLO

Omè, vedete l’altro che digrigna;i’ direi anche, ma i’ temo ch’ellonon s’apparecchi a grattarmi la tigna". 93

E ’l gran proposto, vòlto a Farfarelloche stralunava li occhi per fedire,disse: "Fatti ’n costà, malvagio uccello!". 96

"Se voi volete vedere o udire",ricominciò lo spaürato appresso,"Toschi o Lombardi, io ne farò venire; 99

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,sì ch’ei non teman de le lor vendette;e io, seggendo in questo loco stesso, 102

per un ch’io son, ne farò venir settequand’io suffolerò, com’è nostro usodi fare allor che fori alcun si mette". 105

Ahimè, guardate l’altro diavolo che digrigna i denti; parlerei ancora, ma temo che quello si prepari a graffiarmi ".

E il grande capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi pronto a colpire, disse: " Tirati in là, uccellaccio ".

" Se voi desiderate vedere o ascoltare " riprese a dire quindi quello spaventato "Toscani o Lombardi, io ne farò arrivare;

ma che i Malebranche si tengano un po’ in disparte, in modo che essi non temano le loro punizioni; ed io, stando in questo stesso luogo

per uno solo che sono, ne farò venire parecchi quando fischierò, come è nostra abitudine fare allorché qualcuno di noi si tira fuori.

Al vedere i diavoli minacciarlo sempre più da vicino, Ciampolo si zittisce. Farfarello sta "stralunando" gli occhi e il gran proposto (un altro modo di indicare ancora Barbariccia, che è stato appunto proposto come capo dagli altri diavoli) lo scaccia: "Fatti 'n costà, malvagio uccello!". Ciampolo allora propone un patto di scambio: se essi (Dante e Virgilio) vogliono vedere altri loro compaesani Toscani e Lombardi, lui li può richiamare se i Malebranche staranno un poco in ritirata (in cesso), così che essi non temano le loro ombre; basterà che egli "suffoli" un segnale convenuto e parecchi (sette con valore indeterminato) usciranno fuori.

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,crollando ’l capo, e disse: "Odi maliziach’elli ha pensata per gittarsi giuso!". 108

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,rispuose: "Malizioso son io troppo,quand’io procuro a’ mia maggior trestizia". 111

Alichin non si tenne e, di rintoppoa li altri, disse a lui: "Se tu ti cali,io non ti verrò dietro di gualoppo, 114

ma batterò sovra la pece l’ali.

Cagnazzo a queste parole alzò il muso, scrollando la testa, e disse: " Senti, l’astuzia che ha escogitato per tuffarsi giù!”

Per cui egli, che conosceva raggiri in abbondanza, rispose: " Sono fin troppo astuto, dal momento che causo maggior dolore ai miei compagni ".

Alichino non si trattenne e, in contrasto con gli altri demoni gli disse: " Se tu ti immergi, io non ti inseguirò correndo,

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Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,a veder se tu sol più di noi vali". 117

ma volerò sulla pece: si abbandoni la sommità dell’argine, e l’argine stesso sia a noi riparo, per vedere se tu da solo sei più abile di noi ".

Al che Cagnazzo leva il muso e lo accusa di volerli ingannare per tornare nella pece, ma Ciampolo risponde di compiere l'inganno a danno degli altri dannati, adescando i diavoli. Alichino allora, in contrasto con gli altri diavoli, accetta per primo la sua proposta, minacciandolo di riafferrarlo se solo tenta di ributtarsi nella pece ("non ti verrò dietro di galoppo, / ma batterò sopra la pece l'ali" cioè con le mie ali sarò più veloce che un cavallo al galoppo).

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:ciascun da l’altra costa li occhi volse,quel prima, ch’a ciò fare era più crudo. 

O lettore, saprai di un gioco strano ogni diavolo rivolse lo sguardo verso la parte opposta dell’argine; e per primo quello (Cagnazzo) che era stato il più restio a fare ciò.

Dante si rivolge al lettore con una espressione che riecheggia il modo in cui si rivolgevano al pubblico i giullari. Questi cercavano di attirarne l’attenzione mettendo in rilievo la novità degli argomenti da loro trattati. Dante sfrutta qui effetti comici del tipo più basso, al fine di sottolineare lo stato di degradazione in cui si trovano accomunati dannati e tormentatori della quinta bolgia. L’interpretazione che il Croce dà di questo passo riesce abbastanza persuasiva nel determinare lo stato d’animo con il quale Dante considera lo spettacolo: "Plebeo è lo spettacolo, e Dante ride, ma non come plebe che si affiati con plebe,bensì sempre come lui, Dante, che getta lo sguardo su quell’aspetto dell’umanità, di un’umanità che è quasi fanciullescamente sfrenata e chiasseggìante, e non permette la seria indignazione, e nemmeno la ripugnanza che si vela il volto, ma anzi eccita all’osservazione curiosa e al riso, per la stravaganza stessa e l’enormità di ciò che si osserva, e che esce da ogni gentile e civile consuetudine".

Lo Navarrese ben suo tempo colse;fermò le piante a terra, e in un puntosaltò e dal proposto lor si sciolse. 123

Di che ciascun di colpa fu compunto,ma quei più che cagion fu del difetto;però si mosse e gridò: "Tu se’ giunto!". 126

Ma poco i valse: ché l’ali al sospettonon potero avanzar; quelli andò sotto,e quei drizzò volando suso il petto: 129

Il Navarrese scelse bene l’attimo a lui favorevole; puntò i piedi a terra, e di colpo saltò e si liberò dal loro capo.

Di ciò ognuno si sentì colpevole, ma maggìormente quello che era stato causa dello sbaglio; perciò si slanciò e gridò: " Tu sei preso ! "

Ma a poco gli servì perché le (sue) ali non poterono avere la meglio, sulla paura (del

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non altrimenti l’anitra di botto,quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,ed ei ritorna sù crucciato e rotto. 132

Navarrese) : quello s’immerse, e questo volando diresse verso l’alto il petto:

non diversamente l’anitra si tuffa nell’acqua all’improvviso, quando si avvicina il falcone, e questo se ne torna su indispettito"e spossato.

Tutti stanno a guardare, ma il Navarrese, studiato il momento giusto, si acquatta e poi spicca il tuffo nella pece beffando tutti. Alichino spicca il salto per acciuffarlo, ma deve fare come il falcone che risale quando l'anatra si nasconde sotto l'acqua: "l'ali al sospetto non potero avanzar" cioè più rapida delle ali fu la paura. Tutti sono presi dai rimorsi, ma più di tutti Alichino

► vv. 133 – 151 LA ZUFFA DEI DIAVOLI

Irato Calcabrina de la buffa,volando dietro li tenne, invaghitoche quei campasse per aver la zuffa; 135

e come ’l barattier fu disparito,così volse li artigli al suo compagno,e fu con lui sopra ’l fosso ghermito. 138

Ma l’altro fu bene sparvier grifagnoad artigliar ben lui, e amenduecadder nel mezzo del bogliente stagno. 141

Lo caldo sghermitor sùbito fue;ma però di levarsi era neente,sì avieno inviscate l’ali sue. 144

Ma Calcabrina adirato per la beffa, lo seguì volando, preso dal desiderio che il Navarrese si salvasse per aver modo di azzuffarsi con Alichino;

e non appena il barattiere fu scomparso, immediatamente rivolse gli artigli contro Il suo compagno, e con lui si avvínghiò sopra lo stagno.

Ma l’altro fu davvero un rapace sparviero nell’artigliarlo a dovere, e caddero entrambi nel mezzo della palude bollente.

Il calore immediatamente li separò; ma uscirne era impossibile, a tal punto avevano le ali invischiate.

Dopo di lui Calcabrina, che aveva seguito il volo sperando che il dannato fuggisse per potersi azzuffare; infatti appena il barattiere sparisce egli rivolge i suoi artigli al compagno, che a sua volta risponde con artigliate da sparvier grifagno. Nella zuffa entrambi però rotolano nella pece bollente. Il caldo si rivela meraviglioso pacificatore perché i due si separano subito....L’animata narrazione che ha avuto per oggetto diavoli e dannati della quinta bolgia culmina in una rissa fra diavoli causata dall’astuzia di un dannato. Ma nessuno dei due contendenti può considerarsi vincitore; è la pece, lo strumento muto della giustizia divina, il vero trionfatore di questo singolare scontro. Per una sorta di bizzarro contrappasso tocca ora ai tormentatori subire la sorte riservata alle loro vittime. "I cuochi sono diventati lessi a loro volta."

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Barbariccia, con li altri suoi dolente,quattro ne fé volar da l’altra costacon tutt’i raffi, e assai prestamente 147

di qua, di là discesero a la posta;porser li uncini verso li ’mpaniati,ch’eran già cotti dentro da la crosta. 150

E noi lasciammo lor così ’mpacciati.

Barbariccia crucciato insieme agli altri suoi compagni, ordinò che quattro volassero fin sull’altra spondacon tutti i loro uncini, e questi, molto velocemente

di qua, di là, calarono nel posto indicato: tesero gli uncini in direzione degli invischiati, che erano già bruciati sotto la pelle diventata dura

e noi li abbandonammo mentre si trovavano in queste difficoltà.

Il caldo si rivela meraviglioso pacificatore perché i due si separano subito....ma non riescono a rialzarsi in volo con le ali tutte invischiate di pece, e devono essere afferrati dai compagni, pur essendo "già cotti dentro la crosta".

Approfittando della confusione, Dante e Virgilio se ne vanno.