Brani di Letteratura Latina - Università degli Studi di ...

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Brani di Letteratura Latina A.A. 2013-2014 Corsi di L 11 e L 12 (triennale) 1 Catullo, c. 10 Varus me meus ad suos amores visum duxerat e foro otiosum, scortillum, ut mihi tum repente visumst, non sane illepidum neque invenustum. Huc ut venimus, incidere nobis sermones varii, in quibus, quid esset iam Bithynia, quo modo se haberet, ecquonam mihi profuisset aere. Respondi, id quod erat, nihil neque ipsis nec praetoribus esse nec cohorti, cur quisquam caput unctius referret, praesertim quibus esset irrumator praetor, nec faceret pili cohortem. 'At certe tamen,' inquiunt 'quod illic natum dicitur esse, comparasti ad lecticam homines.' Ego, ut puellae unum me facerem beatiorem, 'Non' inquam 'mihi tam fuit maligne, ut, provincia quod mala incidisset, non possem octo homines parare rectos.' At mi nullus erat nec hic neque illic, fractum qui veteris pedem grabati in collo sibi collocare posset. Hic illa, ut decuit cinaediorem, 'quaeso,' inquit mihi 'mi Catulle, paulum istos commodǎ! nam volo ad Serapim deferri.' 'Manĕ,' inquii puellae, 'istud quod modo dixeram me habere, fugit me ratio: meus sodalis, Cinnast Gaius, is sibi paravit. Verum, utrum illius an mei, quid ad me? utor tam bene quam mihi pararim. Sed tu insulsa male et molesta vivis, per quam non licet esse neglegentem.' Il mio amico Varo, mentre me ne stavo a perder tempo in piazza, mi aveva portato a conoscere la sua fiamma, un tipetto navigato, come mi sembrò sul momento, ma per niente sgarbata e scomposta. Non appena arriviamo sul posto, capitano fra noi discorsi diversi, fra cui, che cos’era la Bitinia, le sue condizioni e se mi aveva portato qualche soldo. Risposi come stavano le cose: non c’era niente, né per gli abitanti, né per i pretori, né per la compagnia, per cui qualcuno potesse ritornare con i capelli più grassi, specialmente perché avevamo un pretore strafottente, che se ne fregava della compagnia. Mi dicono: “Ma almeno te la sei procurata la comodità tipica del luogo, la portantina e i suoi addetti”. Io, per farmi bello con la ragazza, rispondo: “Per il fatto che mi era toccata una provincia mal messa, non mi è andata poi tanto male da non potermi procurare otto portatori ben piazzati". ”Veramente io non ne avevo neanche uno che riuscisse a prendere addosso il piede di un vecchio lettuccio. A questo punto quella, proprio da figlia di buona mamma, mi fa: “Caro Catullo, per favore prestameli un momento. Voglio appunto arrivare al tempio di Serapide”. Rispondo alla ragazza: “Aspetta, quella cosa che ti ho detto ora che avevo io, mi sono sbagliato; un mio amico, Gaio Cinna, se la è procurata. Ma lui o me, che me ne importa? Ne faccio uso proprio come se l’acquisto fosse mio. Ma tu sei veramente sciocca e fastidiosa; con te non si può dire una bugia”.

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Catullo, c. 10

Varus me meus ad suos amores

visum duxerat e foro otiosum,

scortillum, ut mihi tum repente visumst,

non sane illepidum neque invenustum.

Huc ut venimus, incidere nobis

sermones varii, in quibus, quid esset

iam Bithynia, quo modo se haberet,

ecquonam mihi profuisset aere.

Respondi, id quod erat, nihil neque ipsis

nec praetoribus esse nec cohorti,

cur quisquam caput unctius referret,

praesertim quibus esset irrumator

praetor, nec faceret pili cohortem.

'At certe tamen,' inquiunt 'quod illic

natum dicitur esse, comparasti

ad lecticam homines.' Ego, ut puellae

unum me facerem beatiorem,

'Non' inquam 'mihi tam fuit maligne,

ut, provincia quod mala incidisset,

non possem octo homines parare rectos.'

At mi nullus erat nec hic neque illic,

fractum qui veteris pedem grabati

in collo sibi collocare posset.

Hic illa, ut decuit cinaediorem,

'quaeso,' inquit mihi 'mi Catulle, paulum

istos commodǎ! nam volo ad Serapim

deferri.' 'Manĕ,' inquii puellae,

'istud quod modo dixeram me habere,

fugit me ratio: meus sodalis,

Cinnast Gaius, is sibi paravit.

Verum, utrum illius an mei, quid ad me?

utor tam bene quam mihi pararim.

Sed tu insulsa male et molesta vivis,

per quam non licet esse neglegentem.'

Il mio amico Varo, mentre me ne stavo a perder

tempo in piazza, mi aveva portato a conoscere la sua

fiamma, un tipetto navigato, come mi sembrò sul

momento, ma per niente sgarbata e scomposta. Non

appena arriviamo sul posto, capitano fra noi discorsi

diversi, fra cui, che cos’era la Bitinia, le sue

condizioni e se mi aveva portato qualche soldo.

Risposi come stavano le cose: non c’era niente, né per

gli abitanti, né per i pretori, né per la compagnia, per

cui qualcuno potesse ritornare con i capelli più grassi,

specialmente perché avevamo un pretore strafottente,

che se ne fregava della compagnia. Mi dicono: “Ma

almeno te la sei procurata la comodità tipica del

luogo, la portantina e i suoi addetti”. Io, per farmi

bello con la ragazza, rispondo: “Per il fatto che mi era

toccata una provincia mal messa, non mi è andata poi

tanto male da non potermi procurare otto portatori

ben piazzati". ”Veramente io non ne avevo neanche

uno che riuscisse a prendere addosso il piede di un

vecchio lettuccio. A questo punto quella, proprio da

figlia di buona mamma, mi fa: “Caro Catullo, per

favore prestameli un momento. Voglio appunto

arrivare al tempio di Serapide”. Rispondo alla

ragazza: “Aspetta, quella cosa che ti ho detto ora che

avevo io, mi sono sbagliato; un mio amico, Gaio

Cinna, se la è procurata. Ma lui o me, che me ne

importa? Ne faccio uso proprio come se l’acquisto

fosse mio. Ma tu sei veramente sciocca e fastidiosa;

con te non si può dire una bugia”.

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Orazio, Satire, l. 1, 9

Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,

nescio quid meditans nugarum, totus in illis:

accurrit quidam notus mihi nomine tantum

arreptaque manu 'quid agis, dulcissime rerum?'

'suaviter, ut nunc est,' inquam 'et cupio omnia quae vis.'

Cum adsectaretur, 'numquid vis?' occupo. At ille

'noris nos' inquit; 'docti sumus.' Hic ego 'pluris

hoc' inquam 'mihi eris.' Misere discedere quaerens

ire modo ocius, interdum consistere, in aurem

dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos

manaret talos. 'o te, Bolane, cerebri

felicem' aiebam tacitus, cum quidlibet ille

garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi

nil respondebam, 'misere cupis' inquit 'abire:

iamdudum video; sed nil agis: usque tenebo;

persequar hinc quo nunc iter est tibi.' 'nil opus est te

circumagi: quendam volo visere non tibi notum;

trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos.'

'Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te.'

Demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,

cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille:

'Si bene me novi, non Viscum pluris amicum,

non Varium facies; nam quis me scribere pluris

aut citius possit versus? quis membra movere

mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto.'

Interpellandi locus hic erat 'Est tibi mater,

cognati, quis te salvo est opus?' 'Haud mihi quisquam.

Omnis conposui.' 'Felices. nunc ego resto.

Confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella

quod puero cecinit divina mota anus urna:

"Hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis

nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:

garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,

si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas."'

Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei

praeterita, et casu tum respondere vadato

debebat, quod ni fecisset, perdere litem.

'Si me amas,' inquit 'paulum hic ades.' 'Inteream, si

aut valeo stare aut novi civilia iura;

et propero quo scis.' 'Dubius sum, quid faciam', inquit,

'tene relinquam an rem.' 'Me, sodes.' 'non faciam' ille,

et praecedere coepit; ego, ut contendere durum

cum victore, sequor. 'Maecenas quomodo tecum?'

Andavo casualmente per la via Sacra, riflettendo,

com’è mio costume, su qualche sciocchezza, ma tutto

preso; mi si presenta un tipo a me noto solo di nome e

stringendomi la mano mi dice: “Come stai, amico

carissimo?” “Benissimo” – rispondo – “almeno per ora

e ti auguro tutto il bene che vuoi”. Poiché mi teneva

dietro, lo prevengo: “Desideri qualcosa?”, ma quello “Ci

conosci; siamo intellettuali”. E io gli dico “Per questo mi

sarai più caro” . Cercando senza successo di svicolare,

ora andavo più in fretta, ora mi fermavo, ora dicevo non

so cosa al ragazzo, mentre il sudore mi scendeva sino ali

calcagni. Dicevo fra me: “Beato te, Bolano, per la tua

stizza”, e quello intanto ciarlava, lodando i vicoli e la

città. Poiché non gli rispondevo, mi fa: “Cerchi invano

di piantarmi, l’ho ormai capito, ma non ci riuscirai; ti

terrò sino in fondo; ti accompagnerò di qua sino alla tua

meta.” “Non c’è bisogno che tu faccia un giro lungo:

voglio andare a visitare un tipo che non conosci; abita

lontano oltre Tevere, vicino ai giardini di Cesare.” “Non

ho nulla da fare e sono allenato: ti accompagnerò sino in

fondo” Abbasso le orecchie, come un asinello seccato,

quando col dorso riceve un carico troppo pesante. Ma

quello ricomincia: “Se mi conosci bene, non stimerai più

amico Visco o Vario; infatti chi potrebbe scrivere versi

più di me e meglio? Chi saprebbe muoversi in modo più

sinuoso? Anche Ermogene invidierebbe il mio modo di

cantare.” Era il momento di interromperlo: “Hai una

madre, hai parenti, che ti vogliono sano e salvo?” “Non

ho nessuno, li ho seppelliti tutti.” “Beati loro! Ora resto

io. Finiscimi; infatti mi incalza il triste fato che mi

predisse, quand’ero piccolo, una vecchia sabina,

muovendo la sua urna magica: “Questo non sarà portato

via da funesti veleni, né da spada nemica, né da pleurite

o da tosse, o da gotta invalidante: un chiacchierone,

quando che sia, lo distruggerà; se ha senno, eviti i

ciarlieri, non appena diventerà adulto.” Si era giunti al

tempio di Vesta, essendo trascorso un quarto del giorno,

e per caso il mio tipo doveva rispondere in giudizio,

avendo dato garanzie e se non l’avesse fatto, avrebbe

perso la causa. “Se mi vuoi bene”, mi dice, “fermati un

momento qui”. “Possa io morire, se ce la faccio a stare in

piedi o se conosco le questioni di legge; e poi mi affretto

per dove tu sai”. “Sono indeciso su che fare”, dice, ”se

lasciare te o il mio affare”. “Ti prego, lascia me”. “Non

lo farò” ribatte e comincia a precedermi. Io, poiché è

duro contrastare chi ha già vinto, lo seguo. Ricomincia

così: “In che rapporti stai con Mecenate?”

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Hinc repetit. “Paucorum hominum est mentis bene sanae”

'Nemo dexterius fortuna est usus. haberes

magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,

hunc hominem velles si tradere: dispeream, ni

summosses omnis.' 'Non isto vivimus illic,

quo tu rere, modo; domus hac nec purior ulla est

nec magis his aliena malis; nil mi officit, inquam,

ditior hic aut est quia doctior; est locus uni

cuique suus.' 'Magnum narras, vix credibile.' 'Atqui

sic habet.' 'Accendis quare cupiam magis illi

proximus esse.' 'Velis tantummodo: quae tua virtus,

expugnabis: et est qui vinci possit eoque

difficilis aditus primos habet.' 'Haud mihi dero:

muneribus servos corrumpam; non, hodie si

exclusus fuero, desistam; tempora quaeram,

occurram in triviis, deducam. Nil sine magno

vita labore dedit mortalibus.' Haec dum agit, ecce

Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum

qui pulchre nosset. Consistimus. 'Unde venis et

quo tendis?' rogat et respondet. vellere coepi

et pressare manu lentissima bracchia, nutans,

distorquens oculos, ut me eriperet. Male salsus

ridens dissimulare; meum iecur urere bilis.

'certe nescio quid secreto velle loqui te

aiebas mecum.' 'Memini bene, sed meliore

tempore dicam; hodie tricensima sabbata: vin tu

curtis Iudaeis oppedere?' 'Nulla mihi' inquam

'relligio est.' 'At mi: sum paulo infirmior, unus

multorum. Ignosces; alias loquar.' Huncine solem

tam nigrum surrexe mihi! Fugit inprobus ac me

sub cultro linquit. Casu venit obvius illi

adversarius et 'Quo tu, turpissime?' magna

inclamat voce, et 'Licet antestari?' ego vero

oppono auriculam. rapit in ius; clamor utrimque,

undique concursus. sic me servavit Apollo.

“E’ uomo di pochi amici e molto razionale”. “Nessuno

si è servito più abilmente della fortuna. Avresti in me un

valido sostegno, che saprebbe stare al secondo posto, se

tu volessi presentargli il sottoscritto; possa io morire, se

non avresti già allontanati tutti gli altri”. “Ma lì non si

vive nel modo come tu pensi; non vi è nessun ambiente

più puro di questo, né più estraneo a questi mali; non mi

dà nessun fastidio - dico - se uno sia più ricco o più

dotto di me; ognuno ha il suo posto”. “Mi dici un fatto

eccezionale, quasi incredibile”. “Eppure le cose stanno

così”. “Mi stimoli, perché vorrei ancora di più essergli

vicino”. “Purché tu lo voglia: date le tue capacità, lo

vincerai: ed è una persona che può essere vinta, perciò

rende difficili i primi approcci”. “Non mi stancherò, mi

comprerò i servi con regalie; se oggi non sarò accolto,

non mi darò per vinto; cercherò i momenti opportuni, lo

fermerò nei crocicchi; lo prenderò in disparte. La vita

non ha dato niente ai mortali senza un grande impegno”.

Mentre dice così, ecco mi viene incontro Fusco Aristio,

un caro mio amico che lo conosceva bene. Ci fermiamo.

“Da dove vieni e dove vai?” Chiede e risponde.

Cominciai a tirargli e a stringergli le braccia del tutto

inerti, muovendo la testa e storcendo gli occhi, affinché

mi salvasse. Mostrandosi inopportunamente spiritoso lui

faceva finta di niente sorridendo; il mio fegato bruciava

di rabbia. “Dicevi che volevi parlarmi in disparte di non

so che cosa”. “Me lo ricordo, ma te lo dirò in un

momento più adatto; oggi è il trentesimo sabato; vorresti

fare un affronto agli Ebrei circoncisi?” “Non sono

religioso”, rispondo. “Ma io sì; io sono un po’

sempliciotto, uno dei tanti; mi perdonerai; ti parlerò in

altra occasione”. Il giorno d’oggi mi è sorto veramente

sotto una cattiva luce! Il furfante se ne va e mi lascia

sotto il coltello. Per caso viene incontro al mio

accompagnatore il suo avversario legale e “dove vai

sciagurato?” gli fa a gran voce e “è possibile chiamarti

come testimone?” Io subito porgo l’orecchio. Lo trascina

in tribunale; chiasso da entrambe le parti; gente che si

precipita. Così Apollo mi ha salvato.

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Ovidio, Metamorfosi, 4, 285-388

(Salmacide) 'Unde sit infamis, quare male fortibus undis

Salmacis enervet tactosque remolliat artus,

discite. Causa latet, vis est notissima fontis.

Mercurio puerum diva Cythereide natum

naides Idaeis enutrivere sub antris,

cuius erat facies, in qua materque paterque

cognosci possent; nomen quoque traxit ab illis.

Is tria cum primum fecit quinquennia, montes

deseruit patrios Idaque altrice relicta

ignotis errare locis, ignota videre

flumina gaudebat, studio minuente laborem.

Ille etiam Lycias urbes Lyciaeque propinquos

Caras adit: videt hic stagnum lucentis ad imum

usque solum lymphae; non illic canna palustris

nec steriles ulvae nec acuta cuspide iunci;

perspicuus liquor est; stagni tamen ultima vivo

caespite cinguntur semperque virentibus herbis.

Nympha colit, sed nec venatibus apta nec arcus

flectere quae soleat nec quae contendere cursu,

solaque Naiadum celeri non nota Dianae.

Saepe suas illi fama est dixisse sorores

“Salmaci, vel iaculum vel pictas sume pharetras

et tua cum duris venatibus otia misce!”

Nec iaculum sumit nec pictas illa pharetras,

nec sua cum duris venatibus otia miscet,

sed modo fonte suo formosos perluit artus,

saepe Cytoriaco deducit pectine crines

et, quid se deceat, spectatas consulit undas;

nunc perlucenti circumdata corpus amictu

mollibus aut foliis aut mollibus incubat herbis,

saepe legit flores. Et tum quoque forte legebat,

cum puerum vidit visumque optavit habere.

'Nec tamen ante adiit, etsi properabat adire,

quam se conposuit, quam circumspexit amictus

et finxit vultum et meruit formosa videri.

Tunc sic orsa loqui: “Puer o dignissime credi

esse deus, seu tu deus es, potes esse Cupido,

sive es mortalis, qui te genuere, beati,

et frater felix, et fortunata profecto,

si qua tibi soror est, et quae dedit ubera nutrix;

sed longe cunctis longeque beatior illa,

si qua tibi sponsa est, si quam dignabere taeda.

Haec tibi sive aliqua est, mea sit furtiva voluptas,

seu nulla est, ego sim, thalamumque ineamus eundem.”

Per qual motivo Salmacide sia malfamata, perché con

le sue onde minute snervi e fiacchi le membra appena

toccate, state bene a sentire. La causa è ignota, ma la

capacità del laghetto è ben nota. Il figlio della dea di

Citera e di Mercurio fu nutrito da piccolo da Naiadi

negli antri dell’Ida; il suo volto era tale che si potevano

riconoscere il padre e la madre, e anche il suo nome era

tratto da entrambi. Questi, non appena compì quindici

anni, lasciò i monti della sua terra, lasciò l’Ida che lo

aveva nutrito, e si divertiva a vagare per luoghi

sconosciuti, a visitare fiumi mai visti, giaché tale voglia

gli alleggeriva la fatica. Egli volle recarsi anche nelle

città della Licia e nella vicina Caria;qui vede un laghetto

con un’acqua limpidissima sino al fondo; lì non c’erano

canne di palude, né sterili alghe, né giunchi dalla punta

aguzza; la superficie è trasparente, tuttavia i bordi dello

stagno sono circondati da cespugli rigogliosi e da arbusti

sempre verdi. Lì abita una ninfa, ma non brava a

cacciare, né abituata a flettere l’arco, né a far gare di

corsa, unica fra le Naiadi non è conosciuta dalla veloce

Diana. Si dice che spesso le sue sorelle le abbiano detto:

«Salmacide, prendi in mano il giavellotto o la faretra

dipinta, e alterna i tuoi passatempi con gli impegni della

caccia». Ma quella non prende né giavellotto né la

faretra dipinta e non vuole alternare i passatempi con le

faticose cacce; ma ora bagna le sue belle membra nella

sua fonte, e più spesso col pettine di Citoro distende i

capelli, ed inoltre specchiandosi nelle acque chiede loro

come stia meglio; ora fasciando il corpo con veste

rilucente si sdraia su morbide foglie o su soffice erba,

spesso raccoglie dei fiori. Anche allora casualmente li

raccoglieve, quando vede il ragazzo e desiderò

conquistarlo appena lo vide. Tuttavia non si fece avanti,

benché lo desiderasse, prima di acconciarsi, prima di

controllare le vesti, quindi atteggiò il suo volto e si

giudicò di apparire avvenente. Allora cominciò a parlare

così: «O ragazzo ben degno di essere creduto un dio, se

poi lo sei, potresti essere Cupido, se poi sei umano,

fortunati I tuoi genitori, beato tuo fratello e certamente

felice tua sorella, se ne hai una, e la nutrice che ti diede il

seno, ma di gran lunga più di tutti è felice la tua

fidanzata, se ne hai una, se hai ritenuto una donna degna

di sposarti. Se tu ne hai una, il mio sia un piacere rubato,

se poi non c’è nessuna, allora possa esserlo io, e

uniamoci nello stesso letto.

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Nais ab his tacuit. Pueri rubor ora notavit;

nescit, enim, quid amor; sed et erubuisse decebat:

Hic color aprica pendentibus arbore pomis aut ebori tincto est aut sub candore rubenti,

cum frustra resonant aera auxiliaria, lunae.

Poscenti nymphae sine fine sororia saltem

oscula iamque manus ad eburnea colla ferenti “desinis, an fugio tecumque” ait “ista relinquo?”

Salmacis extimuit “loca” que “haec tibi libera trado,

hospes” ait simulatque gradu discedere verso, tum quoque respiciens, fruticumque recondita silva

delituit flexuque genu submisit; at ille,

scilicet ut vacuis et inobservatus in herbis,

huc it et hinc illuc et in adludentibus undis

summa pedum taloque tenus vestigia tinguit; nec mora, temperie blandarum captus aquarum

mollia de tenero velamina corpore ponit.

Tum vero placuit, nudaeque cupidine formae

Salmacis exarsit; flagrant quoque lumina nymphae,

non aliter quam cum puro nitidissimus orbe

opposita speculi referitur imagine Phoebus; vixque moram patitur, vix iam sua gaudia differt,

iam cupit amplecti, iam se male continet amens.

Ille cavis velox adplauso corpore palmis

desilit in latices alternaque bracchia ducens

in liquidis translucet aquis, ut eburnea si quis

signa tegat claro vel candida lilia vitro.

“Vicimus et meus est” exclamat nais, et omni

veste procul iacta mediis inmittitur undis, pugnantemque tenet, luctantiaque oscula carpit,

subiectatque manus, invitaque pectora tangit

et nunc hac iuveni, nunc circumfunditur illac;

denique nitentem contra elabique volentem

inplicat ut serpens, quam regia sustinet ales sublimemque rapit: pendens caput illa pedesque

adligat et cauda spatiantes inplicat alas;

utve solent hederae longos intexere truncos, utque sub aequoribus deprensum polypus hostem

continet ex omni dimissis parte flagellis. Perstat Atlantiades sperataque gaudia nymphae

denegat; illa premit commissaque corpore toto

sicut inhaerebat, “pugnes licet, inprobe,” dixit,

“non tamen effugies. Ita, di, iubeatis, et istum

nulla dies a me nec me deducat ab isto.”

vota suos habuere deos; nam mixta duorum

corpora iunguntur, faciesque inducitur illis

una. velut, si quis conducat cortice ramos,

Dopo ciò la naiade tacque. Il volto del ragazzo si coprì di

rossore. Non conosce, appunto, l’amore, ma il rossore

gli stava bene. Quel colore è tipico di frutti pendenti da

un albero soleggiato, o di avorio dipinto, o della luna

rossa nel suo pallore, quando invano risuonano o bronzi

di accompagnamento. Alla ninfa, che chiedeva

incessantemente almeno baci di fratello e già spingeva le

mani al suo pallido collo, lui dice: «La smetti ? Oppure

me ne vado e lascio te e i tuoi luoghi». Salmacide ebbe

paura e disse: «Forestiero, ti lascio il posto senza

obiezioni» e finge di andarsene dopo aver girato le

spalle, ma continuando aguardare sempre indietro; si

nascose in diparte fra cespugli di arbusti e si appostò

rimanendo piegata. L’altro poi, pensando di essere

inosservato fra i cespugli isolati, va qua e là e affonda la

pianta dei piedi sino ai talloni fra le onde basse; subito

dopo preso dalla tiepida piacevolezza delle onde, si

toglie dal corpo acerbo la sua veste morbida. Allora in

verità sprigionò fascino e Salmacide divampò di

desiderio per quella nudità tanto bella; ache gli occhi

della ninfa brillarono, non diversamente del modo in cui

il disco apollineo si riflette splendido nella superficie

frontale di uno specchio; la giovane non sopporta di

aspettare, di rimandare a dopo il suo piacere, ormai

brama di abbracciarlo, ormai fuori di sé non sa

trattenersi. L’altro battendosi il corpo col cavo delle

mani salta nel laghetto e muovendo le braccia l’una dopo

l’altra, traspare nelle limpide acque, come se qualcuno

ricopra statue d’avorio o candidi gigli con vetro

trasparente. «Ce l’ho fatta! È mio!» Esclama la naiade, e

gettando lontano le sue vesti si spinge fra le onde, cerca

di tenerlo mentre l’altro resiste e gli strappa baci

riluttanti; porta in basso le sue mani, gli tocca il petto

contro la sua volontà, e ora da un lato , ora dall’altro si

avvinghia al ragazzo; infine mentre lui resiste e cerca di

sfuggire, lo avvolge come un serpente che, ghermito

dalla regina degli uccelli, sia trasportato in alto; la serpe,

pur sospesa, cerca di avvolgerela testa e gli artigli e con

la coda cerca di stringere le ampie ali; allo stesso modo

di solito le edere si attaccano ai lunghi tronchi, allo

stesso modo il polpo ferma un avversario colto

sott’acqua allungando i tentacoli in ogni parte. Resiste il

discendente di Atlante e rifiuta alla ninfa il piacere

sperato; ma quella lo incalza e stringendolo con tutto il

corpo e standogli attaccata, gli dice: «Resisti pure,

crudele, non riuscirai a sfuggirmi. O dei, ordinate che

costui non sia da me separato neppure un momento, né

io da lui». Il desiderio trovò dei favorevoli; i due corpi si

fondono; un sol volto si adatta ad entrambi. Come se

qualcuno,

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crescendo iungi pariterque adolescere cernit,

sic ubi conplexu coierunt membra tenaci,

nec duo sunt et forma duplex, nec femina dici

nec puer ut possit, neutrumque et utrumque videntur.

'Ergo ubi se liquidas, quo vir descenderat, undas

semimarem fecisse videt mollitaque in illis

membra, manus tendens, sed iam non voce virili

Hermaphroditus ait: “Nato date munera vestro,

et pater et genetrix, amborum nomen habenti:

quisquis in hos fontes vir venerit, exeat inde

semivir et tactis subito mollescat in undis!”

Motus uterque parens nati rata verba biformis

fecit et incesto fontem medicamine tinxit.'

Marziale, Epigrammi, 4, 22

Primos passa toros et adhuc placanda marito

merserat in nitidos se Cleopatra lacus,

dum fugit amplexus. Sed prodidit unda latentem;

lucebat, totis cum tegeretur aquis:

condita sic puro numerantur lilia vitro,

sic prohibet tenuis gemma latere rosas.

Insilui mersusque vadis luctantia carpsi

basia: perspicuae plus vetuistis aquae.

costringa dei rami a stare uniti e a crescere in una

corteccia e li veda svilupparsi insieme, così quando le

membra si saldarono con intrinseca fusione, non furono

più due con duplice aspetto, sì che non si poté

distinguere il maschio e la femmina, ma sembrano

entrambi e nessuno dei due.

Quindi quando il ragazzo comprende che le limpide

onde in cui era disceso da maschio, gli avevano

dimezzato la mascolinità e in esse il suo vigore s’era

attenuato, tendendo le mani, ma con voce non più da

uomo Ermafrodito disse: «O padre e madre, concedete

un desiderio al vostro figlio che porta i nomi di

entrambi: qualunque uomo scenderà in questa fonte, ne

esca effeminato e perda vigore appena toccate le onde».

Entrambi i genitori furono scossi e per esaudire le

parole del figlio androgino, impregnarono la sorgente

con un filtro transmutante.

Cleopatra, dopo aver subito il talamo per la prima

volta e ancora non sottomessa al marito, si era immersa

in un terso laghetto per sfuggire all’abbraccio. L’onda la

tradì mentre lei cercava di nascondersi; era splendida,

pur essendo ricoperta interamente dalle acque; così i

gigli si possono contare sotto un limpido vetro; così un

sottile cristallo impedisce che le rose si nascondano.

Balzai nel lago, ma, una volta immerso, riuscii a

strappare solo baci riluttanti: o acque diafane, voi mi

impediste di andare oltre.

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