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Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi Dottorato di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti - XXI Ciclo Coordinatore: Prof. Luigi Russo SSD: M-Fil/04 ARTE E SINESTESIA IN MIKEL DUFRENNE di Cecilia Antolini Tutor: Chiar.mo Prof. Luigi Russo Co-tutor: Chiar.mo Prof. Salvatore Tedesco Co-tutor esterno: Chiar.mo Prof. Elio Franzini

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Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi

Dottorato di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti - XXI Ciclo Coordinatore: Prof. Luigi Russo

SSD: M-Fil/04

ARTE E SINESTESIA IN MIKEL DUFRENNE

di Cecilia Antolini

Tutor: Chiar.mo Prof. Luigi Russo Co-tutor: Chiar.mo Prof. Salvatore Tedesco

Co-tutor esterno: Chiar.mo Prof. Elio Franzini

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A mio marito Dario a mia figlia Olivia

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INDICE

INTRODUZIONE............................................................................................................................................. 1

CAPITOLO 1: L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA VERSO MIKEL DUFRENNE ..................20 1.1 Mikel Dufrenne: un’introduzione storica .........................................................................................20 1.2 Antropologia filosofica: lineamenti storici.......................................................................................43 1.3 Riferimenti kantiani............................................................................................................................65 1.4 Helmut Plessner, tra Kant e la fenomenologia husserliana............................................................77 1.5 M. Merleau-Ponty, da H. Plessner verso Dufrenne.........................................................................88

CAPITOLO 2: L’OGGETTO ESTETICO, UN MONDO TRA PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE .......................................................................................................................................96

2.1 La sensibilité généra(lisa)trice..........................................................................................................96 2.2 Il significato dell’oggetto estetico ...................................................................................................121 2.3 Il mondo dell’oggetto estetico .........................................................................................................146

CAPITOLO 3: LA NATURA E L’ORIGINE. TRA FONDAMENTO E POSSIBILITA’ .........159 3.1 L’oggetto estetico come la cosa stessa ...........................................................................................159 3.2 Natura e coscienza: un legame poetico ..........................................................................................180 3.3 Natura poetica ed Estetica...............................................................................................................198 3.4 Materialismo poetico e trascendentale...........................................................................................210

CAPITOLO 4: L’OCCHIO E L’ORECCHIO ...................................................................................219 4.1 Il pittore e il soggetto sinestetico ....................................................................................................219 4.2 Il mondo del tangibile ......................................................................................................................227 4.3 Un soggetto immaginario ................................................................................................................235 4.4 Il virtuale: un’ontologia impossibile...............................................................................................244

CONCLUSIONI ............................................................................................................................................256

BIBLIOGRAFIA...........................................................................................................................................269

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INTRODUZIONE

È solo del 2004 la traduzione italiana dell’ultimo lavoro di Mikel Dufrenne, L’oeil

et l’oreille, pubblicato nel 1987. L’attenzione italiana verso Dufrenne ha risentito negli

anni del privilegio accordato a pensatori come Merleau-Ponty e Sartre finendo con il

riservare alla scuola milanese uno dei pochi e più approfonditi spazi di studio di questo

autore. Profondamente legato, umanamente e filosoficamente, a Dino Formaggio,1 con

il quale tra le altre cose ha realizzato il molto noto Trattato di estetica2, l’autore

francese è stato dunque oggetto di studi approfonditi quasi esclusivamente nel contesto

fenomenologico di Milano.

1 Un’amicizia che è stata sodalizio teorico e umano tra i più intensi e che ben si respira nello scritto di Dino Formaggio realizzato in occasione della morte dell’amico dove con trasporto Formaggio ricorda il loro ultimo saluto: “Et nous, mon cher Mikel, nous nous sommes sentis proches alors, comme nous nous sommes sentis proches l’un de l’autre – et nous nous le sommes dit – le soir de ton dernier appel téléphonique, le 9 juin. Lorsque, sereinement, tu m’annonças que, le landemain, la machine à oxygène qui t’avait pendant des années tenu lié à ton corps (…) devait etre débranchée. J’ai ancore dans les oreilles ta voix qui me salue, douce et paisible comme toujours: “Allo, Dino…” C’était la salutation de toujours comme de quelqu’un qui part en voyage, le signe affectueux de notre solide amitié. Et moi, quoique boulversé par cette nouvelle soudaine, une fois de plus j’étais avec toi, une fois ancore nous nous sommes compris.” (D. Formaggio, Mikel vivant, in “Revue d’esthétique“ 30, 1996, p. 38.) 2 M. Dufrenne, D. Formaggio, Trattato di Estetica, Mondadori, Milano, 2 voll., 1981. Di questo lavoro Formaggio ha parlato, in Mikel vivant (cit. p. 39), come de “l’aboutissement d’un long chemin, le fruit de notre long dialogue engagè précisément à partir de notre première rencontre..”. Si legge nella prefazione un brano molto significativo del comune stile e approccio, nonostante le differenze di pensiero, dei due autori. “Concepito e attuato non certo come un monumento, ma come uno strumento di lavoro, questo Trattato, come metodo d’assieme, è sorto dallo sforzo di rompere ogni chiusura dogmatica, ogni parzializzazione dovuta a fissazioni ideologiche ossificate, e insieme il fastidio e il pericolo di quel che Bachtin aveva così ben individuato come mondo fonologico della cultura moderna. Al monologismo dell’unità dell’essere abbiamo sempre preferito la libera polifonia delle molte voci dialoganti, pur nel loro relativismo armonico o disarmonico, persuasi soprattutto che nessun’altra esperienza come l’arte chiede di essere descritta, fuori da ogni valenza riduttiva (e l’unità ontologica o definitoria è stata spesso questa violenza), in tutto il corpo vivente dei suoi imprevedibili e anarchici mondi, nella perenne metamorfosi della sua meravigliosa veste fenomenica di sensi, di immagini, di segni, di speranze e di destino delle società umane e del mondo. Ogni descrizione, come ogni riflessione, non può darsi che come descrizione in cammino.” (pp. 1-2)

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La scarsa inclinazione nazionale, e in verità anche internazionale, verso questo

autore si spiega forse con la contrapposizione sistematica della sua meditazione a

filosofie come quelle di Heidegger e Derrida, oltre che Blanchot e Lévi-Strauss che

fanno del suo pensiero il luogo quasi solitario di una forma di difesa dell’uomo e della

presenza. Ne è esempio significativo il volume pubblicato nel 1968, Pour l’homme3, che

prendendo le distanze dalla temperie culturale strutturalista e anti-umanista dell’epoca si

propone esplicitamente di “evocare l’antiumanesimo proprio alla filosofia

contemporanea, e di difendere contro di esso l’idea di una filosofia che potrebbe avere

cura dell’uomo.”4 Si capisce in che senso questo pensiero possa essere stato, se non

trascurato, almeno sottovalutato, avendo avuto tra i propri bersagli polemici proprio

quegli autori che con maggior rigore si sono imposti all’attenzione filosofica della

tradizione recente. Tra essi spicca ad esempio Michel Foucault, che Dufrenne addita

come uno dei massimi rappresentanti di quella filosofia che, riconoscendo all’essere un

primato sull’uomo, conduce a una progressiva scomparsa di quest’ultimo e ad un suo

asservimento e nullificazione. In autori come Foucault, così come Heidegger, o Levi-

Strauss e Lacan, benché le loro meditazioni non siano ovviamente raccoglibili sotto un

solo e medesimo indice, Dufrenne rintraccia una corrente di devitalizzazione del reale

che, a suo parere, rischia di impoverire di senso tanto la filosofia quanto il reale stesso.

Uno dei luoghi in cui più radicalmente compare la dissoluzione del soggetto

condannata da Dufrenne è forse il pensiero di Deleuze, con idee quali “macchina

desiderante”, “corpo senz’organi” o “molecolare”; eppure le proposte deleuziane

attraversano spesso il percorso di Dufrenne. Di Deleuze Dufrenne non condivide la

prospettiva, ma certo il progetto di entrambi sembra mirare a un comune empirismo

trascendentale; e anche un certo spinozismo di fondo sembra accomunare i due percorsi,

allontanando entrambi da quella forma di ontologia negativa diffura nel pensiero

contemporaneo francese: “Credere non a un altro mondo, ma al legame tra uomo e

mondo, all’amore o alla vita, credervi come all’impossibile, all’impensabile, che

tuttavia può soltanto essere pensato: ‘Un po’ di possibile sennò soffoco.’”5

3 Pour l’homme, Seuil, Paris 1968. 4 Ivi, p. 9. 5 G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, tr. it. Ubulibri, Milano 2001, p. 190. I rapporti tra Deleuze e Dufrenne furono intimi, come si può leggere in questa lettera firmata da Deleuze in data 25 aprile 1991 e

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L’autonomia di questo autore nei confronti dei grandi sistemi, che rispecchiava tra

l’altro il suo approccio alla vita, è stata ben sintetizzata da Dino Formaggio, nel già

citato articolo dedicato all’amico in occasione della morte:

“Il n’y eut jamais entre nous de désaccord sur nos principes (…) surtout grâce à Mikel, grâce à ce vivant enseignement de quelqu’un qui avait nourri sa philosophie de sa vie, et fait de la philosophie une généreuse plénitude de vie. Il avait toujours affablement fait preuve d’une libre et exceptionnelle souplesse conceptuelle et existentielle. Contre toute raideur autoritairement classificatrice de la vie et de la pensée, contre toute dureté dogmatique des jugements cloisonnants et des divisione artificielles qui rangent personnes et concepts dans des cases, il professa et pratiqua, selon se refus théorique et éthique, une plasticité mentale et physique libératrice.6

L’itinerario di pensiero dufrenniano si è sottratto costantemente ad ogni suo

possibile accostamento univoco a una delle grandi correnti del secondo dopoguerra.

Quello che lui stesso viveva come una forma di anarchismo ne ha fatto un pensatore

indipendente, non restio neppure all’uso di strumenti teorici di altri piegati a nuovi

scopi. Questi elementi, insieme alla rilettura da lui effettuata di alcuni grandi classici del

pensiero, primo fra tutti il concetto di a priori kantiano, è stata probabilmente un freno

all’esplorazione e al recupero dei suoi lavori.7

In linea con questa autonomia, pur inserendo se stesso all’interno di un quadro

fenomenologico, Dufrenne non manca di marcare la propria indipendenza anche dalla

fenomenologia husserliana. In particolare, coerentemente con la rivalutazione

dell’umano cui abbiamo appena accennato nonché con la lezione merleaupontiana, egli

oggi riprodotta nel numero 30 della “Rivista di Estetica”: “Cher Mikel, Merci de ton petit mot, au bout de la circulaire de la revue d’Esthétique. Hélas, je ne pourrai pas participer à ce numéro parce que, ayant enfin terminé le livre que je revais le dernier pour moi, Qu’est-ce que la philosophie?, je voudrais arreter au moins deux ou trois ans, et atteindre à la vraie retraite.C’est d’ailleurs nécessaire parce que l’hiver a été facheux pour ma santé: longue suffocation, attaché comme un chien à ma bouteille d’oxygène, sans souffrance, mais beaucoup de panique respiratoire. Convalescence qui traine. Toutes ces plaintes moins pour m’affliger que pour te faire signe, et souhaiter que ta santé à toi ait bien tenu. J’amais beaucoup nos rencontres, j’espère etre bientot en état de te téléphoner, et de les reprendre. A bientot, je t’ambrasse. Gilles.” 6 D. Formaggio, Mikel vivant, cit. p. 40. 7 In Italia è certo apparsa per tempo una traduzione, benché parziale, dell’opera principale di Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, realizzata non senza coraggio a Roma nel 1969 dalla casa editrice Lerici. Tuttavia la traduzione si è occupata solo del primo volume, che ad oggi risulta difficilmente reperibile. Simile sorte è poi toccata alle altre traduzioni italiane dei lavori di Dufrenne, da Le poetique a Esthétique et philosophie.

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prende le distanze dall’idea del soggetto costituente grazie al quale l’oggetto

rappresenta il mero supporto dell’attività di un soggetto trascendentale. Ne è una chiara

dichiarazione, il passo presente all’interno della Fenomenologia dell’esperienza

estetica8, in cui leggiamo:

La riduzione non culmina più nella scoperta di una coscienza costitutiva, ma nella scoperta della propria impossibilità; sforzarsi di comprendere la tesi del mondo, di rinunciare all’atteggiamento naturale e al suo realismo spontaneo è sperimentare che non si può farlo, che nessuno può astrarsi dal mondo in cui è, e che il rapporto con il mondo quale lo vive in modo irriflesso la percezione, è sempre già dato: e l’intenzionalità è quel progetto, sempre ripreso, attraverso il quale la coscienza concorda con l’oggetto prima di qualsiasi riflessione.9

La domanda di Dufrenne riguarda, sempre, proprio la relazione uomo-mondo,

relazione che egli tenta di descrivere con un uso della fenomenologia in direzione

immanentistica e anti-coscienzialistica; tale direzione lo conduce ad una forma di

materialismo che nel corso di questo lavoro vedremo caratterizzarsi come poetico e

trascendentale in un senso paradossalmente immanente al sensibile.

L’esigenza di base del procedere di Dufrenne si può descrivere come un

riafferramento e una ridescrizione dell’intelletto, e di tutto l’ambito logico predicativo

dell’umano, a partire dalla potenza creatrice ed espressiva del corpo a sua volta letto

costantemente secondo il suo carattere fenomenologico precategoriale.

Una descrizione dell’esperienza della sensibilità sulla base di un suo accordo

costitutivo con il senso implica naturalmente una rivisitazione dei rapporti tra sensibilità

e intelletto, il superamento della dicotomia cartesiano-kantiana tra interno ed esterno,

corpo e anima, uomo e mondo.

Se si è scelto il tema della sinestesia quale cardine su cui svolgere il pensiero

dufrenniano ciò è dovuto alla profonda densità che questa nozione rivela in particolare

nell’ultima opera. Se, infatti, è quasi solo in queste pagine che di sinestesia

8 M. Dufrenne, Phénoménologie de l’experience ésthétique, PUF, Paris 1953, tr. it. parziale, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Roma 1969. 9 Ivi, p. 510.

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esplicitamente si parla, in questo tema confluiscono le più importanti questioni

dell’intera meditazione dell’autore.

È questo quanto il presente lavoro si propone di indagare, nel tentativo di mostrare

la coerenza di un’indagine che ha fatto della controversa nozione di originario il centro

nevralgico del proprio procedere. Quella di Dufrenne è, infatti, una domanda

costantemente riproposta sul senso e il modo in cui origine e originato, origine e

significato, scandiscono il rapporto tra se stessi e, conseguentemente, tra l’uomo e il

mondo. E in questa relazione l’arte si colloca in un’area particolarmente

rappresentativa. Sono appunto gli oggetti d’arte, con il loro connotato dufrenniano di

oggetti estetici, gli enti in grado di aprire e mostrare quelle fessure attraverso cui

l’originario agisce ed è, seppur vagamente, afferrabile.

Ciò che si organizza a partire dai sensi e che, proprio a partire da essi, li sorpassa e

forse persino esclude puntando verso un invisibile, è l’obiettivo che Dufrenne ha di

mira; è questa dinamica tutta umana, in cui un diagramma corporeo diventa azione e

interazione con il mondo, il fondo che si tenta di mettere a fuoco. Con Dufrenne si mira

a cogliere lo splendore del sensibile quale soglia da cui emana il preriflessive, il

precategoriale. E, come ha sintetizzato Formaggio, con Dufrenne compare, tra Schelling

e Merleau-Ponty, il pensiero di un mondo di a priori materiali del senso e del

sentimento così come la loro esaltante primarité constitutive rispetto agli atti etici e

noetici del conoscere e dell’agire. Si punta così a ritrovare, nell’immanenza dei valori

puri di un sensibile che non si trascende, in questo luogo in cui la carne si fa senso, un

originario cosmico indifferenziato, dove l’unità indistinta di soggetto e oggetto celebra

un vivente originario. 10

Tale fondo, rappresentato dall’originario che con Dufrenne prende il nome

spinoziano11 di Natura, è il fondo in cui si radica innanzitutto l’adesione corporea e

percettiva al mondo. Proprio questo è quanto maggiormente preme a Dufrenne porre a

10 Cfr. D. Formaggio, Mikel vivant, cit. p. 40. 11 Spinoza è presente in Dufrenne con la stessa forza con cui lo si ritrova all’interno di buona parte della fenomenologia francese, in particolare Merleau-Ponty. In Spinoza si ritrova un metodo di affrontare il problema della verità che certo resta sullo sfondo dei contributi di questi autori. La verità appare come qualcosa che ha in se stessa a propria causa e alla natura si può guardare solo come a qualcosa di esistente e presente, con i suoi attributi in infiniti modi. Negli autori francesi, nei quali Spinoza filtra attraverso Alain, questo autore compare ‘deteologizzato’ come l’interprete di un principio monistico quale origine del senso, dell’unione tra l’uomo e il mondo.

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tema, nella sua inesauribilità, nel suo costante transitare e, soprattutto, nel suo essere

relazione.

Natura, originario, fondo sono tutti concetti chiave della filosofia di Dufrenne,

articolati in senso perspicuo a partire da una prospettiva che ha nel concetto di presenza

una chiave d’accesso fondamentale. La radicalizzazione del concetto di presenza

operata da Dufrenne, oltre ad essere la sua risposta a quelle che abbiamo indicato come

filosofie dell’assenza, implica la radicalizzazione di una posizione che costantemente ha

presente il mondo come totalità sempre aperta e disponibile alla relazione: presenza

come apertura e presenza come ciò che si dà in quanto già aperta a. Presenza di me al

mondo e del mondo a me.

È entro questo orizzonte che si sviluppa la ricerca di Dufrenne, nella quale la

presenza diventa indice sotto cui raccogliere non solo il reale ma anche il logico e il

prelogico, il possibile e il virtuale. Ciò significa indagare la percezione umana,

attraverso una consapevolezza ovviamente mutuata da Merleau-Ponty, in quanto

accesso per noi al mondo e alla sua verità ma anche riconoscere proprio alla percezione

il ruolo di soglia attiva in cui confluiscono le azioni di sentimento e immaginazione.

Sentimento e immaginazione che proprio nel loro carattere espressivo e prelogico

interessano a questo autore che mira a rintracciare nel corporeo il fondamento e il luogo

da cui ogni dicotomia e ogni conoscenza predicativa possono svilupparsi. La sua è

allora un’indagine sul fatto stesso dell’essere al mondo, prima e più che essere nel

mondo, riconoscendo priorità ontologica proprio a questa relazione. La domanda che la

sinestesia incarna riguarda proprio l’insieme controverso e complesso di tutto ciò che

mi sta intorno e che proprio a partire da me si articola. Quale rapporto vi sia tra i miei

sensi, molteplici, e il sensibile come tessuto carnale che mi ingloba è la questione che,

proprio attraverso la presenza, viene posta e riproposta.

Presenza e rapporto intenzionale uomo mondo sono in Dufrenne i luoghi in cui

agiscono quegli a priori che con questo autore assumono connotati specifici, che nel

corso di questo lavoro saranno esplicitati. Di essi è tuttavia bene tenere presente fin

d’ora l’intenzione principale di Dufrenne, che fu quella di applicare proprio l’idea degli

a priori all’esperienza umana intesa in senso poetico. È questo il modo perseguito

dall’autore per tentare di dare una risposta autonoma ed efficace proprio al problema del

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rapporto soggetto-oggetto. Ciò che egli cerca di mostrare con convinzione è il legame

espressivo che connota, da un lato, il mondo dell’oggetto, nel quale ogni senso eccede le

singole incarnazioni e, dall’altro, il mondo del soggetto, nel quale la percezione del

mondo eccede ogni discorso che volesse fissarla. Al di là di questi due poli, la direzione

della filosofia di Dufrenne è indicata con chiarezza: risalire a quel luogo di emergenza

primordiale, origine assoluta del rapporto originario tra l’uomo e il mondo, che nella sua

filosofia assume il nome di Natura. A questo fondo, originario, percettivo eppure

sempre inafferrabile, mira lo sguardo di questo filosofo che nell’esperienza estetica

rintraccia le fessure concesse all’uomo per intravedere le dicotomie non ancora spezzate

e riconoscere l’enigma del mondo senza in esso dissolversi. È l’esperienza estetica,

infatti, ciò che è in grado di restituire al sensibile il suo essere enigmatico, senza però

sottrargli la sua virtù espressiva. Negli oggetti che essa implica, nel loro essere estetici,

infatti, accade la commistione più intima tra il soggetto e l’oggetto, in un rapporto che è

sì percettivo eppure non prende di mira un dato da analizzare ma un processo che si

costruisce. E tale processo si costruisce nella relazione, nell’accordo a priori grazie a cui

l’uomo si apre alle cose e le cose gli si rivelano.

Ne consegue una non trascurabile domanda sul tipo di verità e sulle modalità del

suo disvelamento che sono concesse all’uomo. Ed è proprio nel senso di una verità in

movimento, disponibile per e attraverso un corpo, che il domandare di Dufrenne invita a

procedere.

Il problema della verità emerge con forza nel momento in cui si voglia dar conto di

un corpo quale base assoluta del nostro commercio col mondo, cogliendo

nell’originarietà della vita percettiva la soglia di ogni pensiero logico, formulazione

scientifica e spinta affettiva. In questo senso la filosofia di Dufrenne raccoglie

certamente le istanze aperte dai suoi immediati predecessori, con importante riguardo

per Merleau-Ponty, inserendosi nel contesto di una ridiscussione del pensiero causale

che naturalmente non significa una sua messa in discussione ma il tentativo di

comprenderne le linee operative e i limiti. Il suo concetto di presenza si allarga infatti al

contesto della verità, che proprio alla percezione si vuole connettere molto più e molto

prima che a una fin troppo ampia ma ristretta idea di causa.

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Accanto a questi elementi si dispongono questioni pertinenti all’estetica come

teoria dell’arte. Nell’indagare il rapporto intenzionale, infatti, e nel farlo con adesione

costante alla dimensione corporea e percettiva, il confronto con quei particolari oggetti

che sono le opere d’arte risulta obbligatorio. È proprio la serie di fessure simboliche che

di fronte ad essi si aprono a consentire una descrizione della relazione sensibile in

termini poetici e dinamici. In questo senso il percorso di Dufrenne è un passaggio

significativo nella storia di quel pensiero che si interroga sul ruolo del sentimento e del

prelogico all’interno del nostro commercio col mondo. Con lui all’arte non si guarda

cercando risposte interenti a un Essere di stampo metafisico o ontologico. Se con lui

l’arte rende visibile non è solo relativamente a un fondo invisibile, non è nel senso di

un’intenzione che mira all’Essere o che, merleaupontianamente, rende la pittura

“metamorfosi dell’Essere nella visione del pittore.” L’Essere invisibile che l’arte con

Dufrenne consente di afferrare è quello della relazione poetica che lega l’uomo al

mondo, in una relazione dinamica in cui il rapporto al senso è genealogico. È la Natura

nel suo essere naturante, nel suo ribollire di possibilità reali e virtuali, ciò che si rende

afferrabile, almeno in figura. È bene tenere presente il ruolo che l’arte riveste in questo

autore, solo così sarà possibile comprendere secondo quale ottica egli vi si rivolga.

L’oggetto estetico di Dufrenne non si presenta come accesso privilegiato a una

regione dell’Essere isolabile, al contrario, esso è propriamente una cosa, un ente che

come tale esercita effetti sensibili e intuitivi nel mondo intorno a sé. Se è importante

rivolgersi agli oggetti estetici per reperire coordinate essenziali al pensiero di Dufrenne,

e forse anche a questioni cardine di tutta la filosofia da Platone in poi, è perché in essi si

esercitano forze che però sono forme e sono rappresentazioni, dunque sensibili.

Tuttavia, proprio nella loro caratteristica sensibile, essi si sottraggono a dinamiche

logiche e costitutive. Dell’oggetto estetico Dufrenne dice che “apre un mondo”,

investendo le coordinate di spazio e tempo di significati importanti quanto opachi;

nell’oggetto estetico di Dufrenne non accade dunque nulla che sia in rapporto con

l’Essere o qualsiasi sua sinonimica definizione, al contrario accadono fatti che, benché

in figura, sono manifestazioni di un senso intuitivo e percettivo. Certo, la Natura di

Dufrenne pone l’inevitabile tentazione di una lettura in senso ontologico, ma la sua

stessa azione nel contesto degli oggetti estetici la ripropone efficacemente su un piano

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molto più vicino al poiein umano: se la Natura vi si manifesta, infatti, lo fa in maniera

per così dire operativa, attraverso il suo essere naturante, quindi produttiva, genealogica

e creativa. Soprattutto, essa lo fa in stretto rapporto con un soggetto percipiente, la cui

presenza all’oggetto è condizione imprescindibile perché lo scambio si attui.

Attraverso l’oggetto estetico e l’arte si delinea una concezione genealogica del

sentimento su cui Dufrenne sembra tornare a più riprese e che acquista importanza

crescente nel nostro discorso. In quest’ottica, infatti, non si affronta il mondo come

totalità indefinita dei fenomeni, totalità variegata ma a suo modo unitaria che è sempre

in qualche modo già là; al contrario, del mondo si valorizza la componente di soglia e

apertura, che ha quasi una “qualità generatrice”, vale a dire non solo in trasformazione

lei stessa ma pronta a trasformare ciò che la incontra. In questo senso si legge il

soggetto stesso come apertura a sua volta genealogica nei confronti del mondo.

L’incondizionato non sarà allora da intendere in maniera ontologico-metafisica come

l’ultimo e inaccessibile oggetto del mondo, ma, al contrario, come quel fondo che è

sempre là e dal quale tutto il resto diparte ed è generato. Generazione che passa, a sua

volta sempre e necessariamente, dal soggetto che è in sé apertura.

Nell’arte si manifesta dunque una sorta di frammento di carne che non appartiene

né al mondo né all’uomo ma rende esplicito e afferrabile il potere naturante e creativo

che appartiene al fondo in cui soggetto e oggetto si incontrano.

L’originario di Dufrenne diventa il correlato di un’indagine dal duplice carattere:

da un lato, infatti, l’interesse si mostra di carattere ontologico, mentre dall’altro è

piuttosto a una forma di antropologia che con questo autore si è portati ad andare.

Dufrenne stesso ha esplicitato tale duplicità, riconoscendo proprio alla filosofia la

possibilità di sottrarsi ad un’opposizione di ontologico ed antropologico: “Au lieu

d’opposer comme on le fait aujourd’hui anthropologie et ontologie, si l’on définit

l’homme comme l’étant qui se soucie de l’être, ne faut-il pas définir l’être comme se

dont se soucie l’homme?”12 E, sostiene Dufrenne, la filosofia così concepita fonda

un’antropologia molto più che non la rifiuti o la superi.13

12 M. Dufrenne, Suis je philosophe?, “Revue d’ésthétique” 30, 1996, p. 62. 13 Ibidem.

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È proprio con gli esiti teorici cui giunge Dufrenne nel suo ultimo lavoro che

l’indagine ontologica mostra il proprio approdo. Le ultime pagine de L’occhio e

l’orecchio, infatti, si concludono con la constatazione dell’impossibilità di un’ontologia:

“Ontologia impossibile tuttavia. L’idea di un’omogeneità del sensibile sfugge alla

nostra presa, l’unità del plurale non è afferrabile.”14

Con la sinestesia, infatti, ed è quanto questo lavoro intende giungere a mostrare,

Dufrenne opta per una soluzione non ontologica del chiasma merleaupontiano, della

commistione tra soggetto e oggetto le cui ambiguità e opacità non rappresentano un

ostacolo bensì una caratteristica di ricchezza.

Sulla rivisitazione di tale chiasma si sviluppa l’indagine di Dufrenne che

programmaticamente intende affrontare il problema della presenza del mondo in

relazione alla coscienza alla luce di un fondo genealogico nel quale ogni monismo si

radica. La sua è una filosofia che punta ad individuare tale fondamento a partire dalla

percezione e, proprio attraverso di essa, reperire un accordo tra una filosofia della

Natura e una filosofia della Coscienza. È questo, d’altra parte, proprio il compito che

egli considera l’impensato della filosofia merleaupontiana che si propone di raccogliere:

se a Merleau-Ponty restava qualcosa da fare o da pensare era proprio di congiungere

l’idea della Natura all’idea del fondamento, “et de surprendre la naissance du dualisme

et les métamorphoses de l’homme et du monde à la racine même du monisme.”15

Intendiamo giungere a queste conclusioni, e le renderemo forse più esplicite e

comprensibili, attraverso una ricognizione critica e descrittiva dei temi e delle nozioni

lungo cui si sviluppa la filosofia di Dufrenne. L’intenzione è quella di mostrare

l’organicità e la coerenza del percorso dell’autore rilevando come nel tema della

sinestesia confluiscano quelle domande che sempre hanno animato il suo percorso.

Il lavoro si articola quindi in quattro capitoli: di essi il primo ha carattere storico e

introduttivo e si propone di indicare un possibile ampliamento della prospettiva

rimarcando come le esigenze di Dufrenne abbiano una possibile e interessante eco in un

ambito da lui in realtà piuttosto lontano. Ci si è rivolti pertanto all’antropologia

14 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, Il Castoro, Milano 2004, p. 204. 15 M. Dufrenne, Maurice Merleau-Ponty, in Jalons, M. Nijhoff, La Hague 1966, p. 221.

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filosofica di stampo tedesco, nella quale sono confluite, benché sotto indici teorici a

volte differenti e comunque mai rigorosamente fenomenologici, istanze affini. Il

percorso di Dufrenne indicherebbe quindi uno dei luoghi significativi di quelle che sono

state le coordinate teoriche di un comune, diffuso e condiviso orizzonte di senso e di

indagine. In particolare, si è voluta sottolineare l’affinità del discorso dufrenniano con

alcune delle conclusioni più rilevanti di una delle figure di spicco dell’antropologia

filosofica tedesca, Helmut Plessner. Benché il primo segua un percorso fenomenologico

che ben lo differenzia dal secondo, per Plessner estesiologia e antropologia sono

intimamente correlate, poiché propriamente estesiologia è la condizione antropologica

dell’uomo, costantemente decentrata, “eccentrica”, rispetto al proprio sé, aperta alla

ricchezza qualitativa del coté oggettuale. L’uomo, per Plessner, è il luogo in cui la

natura e lo spirito si incontrano, ed è importante indagare i punti specifici di rottura e di

vicinanza nei quali si trova l’afferramento reciproco delle strutture naturali e spirituali.

La ricrca di un’apertura al mondo della natura rappresenta d’altronde un programma

metodico altamente diffuso nel clima culturale dell’epoca di Plessner e, sotto questo

aspetto, accomuna la sua rilfessione alle filosofie della vita di Nietzsche, DIlthey e

Bergson ma anche, conducendolo su terreni che hanno nutrito ovviamente anche

Dufrenne, alle teorie fenomenologiche di Husserl e Merleau-Ponty nonchè ai paradigmi

del pragmatismo americano e all’indagine biofilosofica di scienziati come Buytendijk,

Driesch e Uexkull. Al passaggio del secolo, tra Ottocento e Novecento, lo sviluppo

delle scienze dello spirito e le nuove scoperte scientifiche nel campo dell

aneurobiologia, della fisiologia e della psicologia hanno sollecitato la filosofia a

riformulare le sue categorie tradizionali, prima di tutto i concetti di spirito, coscienza,

anima e il loro rapporto con il bios. Per legittimare nella modernità il valore scentifico

della filosofia dinnanzi allo sviluppo delle scienze empiriche occorre, infatti, restituire

al’indagine filosofica il mondo della natura e, con esso e in esso, un uomo in carne e

ossa, che agisca e patisca, complessione di spirito, corpo e anima.

Il primo e comune riferimento da mettere in discussione è rappresentato dunque dai

modelli gnoseologici e antropologici di stampo cartesiano, dal momento che la totale

eterogeneità tra mondo esterno e mondo interno che essi implicano non consente di

afferrare la relazione più complessa che lega, nella dinamica espressiva e genealogica

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della vita, il soggetto e l’oggetto. La questione secolare del rapporto tra corpo, anima e

mondo esige, infatti, il superamento degli schemi unilaterali che le teorie razionaliste e

sensiste hanno ereditato dal cartesianesimo, attraverso una riflessione che consenta di

comprendere il soggetto e l’oggetto quali elementi costitutivi e indiscernibili

dell’esperienza conoscitiva e extraconoscitiva. È sotto questo aspetto che la filosofia di

Dufrenne e l’antropologia filosofica, in linea con le filosofie della vita e il pragmatismo

americano, nonostante le differenze specifiche, concordano fortemente fino a consentire

di guardare a questi temi quali capisaldi della cultura filosofica cui apparteniamo. La

critica è rivolta in tutti i casi a quell’ipostatizzazione del mondo e neutralizzazione

dell’esperienza sensibile cui il dualismo rigidamente cartesiano tra res cogitans e res

extensa conduceva. La concezione sostanzialistica del mondo lascia il posto a una

descrizione dinamica e relazionale tra soggetto e oggetto, il cui confronto si basa

sull’analisi del vivente nel mondo della natura e della pratica, in quella zona d’ombra

che è soglia dell’emergere del senso delle cose.

Lo scopo condiviso è quello di precisare natura e confini del significato sensibile al

fine di ricusare ulteriormente l’analisi intellettualistica che si vuole invece sempre

respingere. L’unità dei sensi non appartiene al medesimo ordine dell’unità degli oggetti

di scienza. Ugualmente, l’effetto della nostra percezione di riunire in un unico mondo le

nostre esperienze sensoriali non avviene secondo il medesimo schema secondo cui la

scienza collega oggetti e fenomeni. Non si tratta, cioè, di una sorta di schema

rappresentativo di oggetti in sequenza spazio temporale, bensì di mettere a fuoco

problematizzare il coglimento del mondo in unità e secondo uno schema presentativo.

La direzione comune è quella che mira all’annichilimento di tutti i dualismi sterili e

scientifici che oppongono anima e corpo. I rapporti tra essi, infatti, in questi itinerari di

pensiero restano oscuri solo fintanto che si cerchi di trattare astrattamente il corpo come

frammento di materia trascurandone i poteri dialettici.

Quello dell’inquadramento, della comprensione e della descrizione dei rapporti tra

gli aspetti corporei dell’uomo e gli aspetti spirituali che lo caratterizzano è un problema

complesso che caratterizza la riflessione sul fenomeno umano tanto nei termini

antropologici quanto nei termini filosofici e fenomenologici in particolare. L’affinità di

temi tra questi autori e questi ambiti di ricerca è l’altro lato dell’importanza filosofica

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che lo sviluppo di questo tipo di questioni, derivate tra l’altro da molteplici e stratificate

esperienze scientifiche, filosofiche e culturali precedenti, ha assunto nel corso del secolo

scorso. La sensibilità viene infatti vissuta e analizzata secondo problematiche

angolazioni al fine di esplicitare la possibilità, tramite essa, di afferrare sensi che i sensi

veri e propri non sono in grado, fisicamente, di esaurire. Il problema della sinestesia,

dell’unità dei sensi e delle loro interazioni diventa allora il problema della possibilità,

che i sensi stessi dischiudono, di afferrare qualcosa (un insieme, un significato) che da

essi permette di esulare.

Con il procedere del lavoro si affrontano invece sistematicamente temi e teorie

propri dell’autore.

Il secondo capitolo riguarda dunque i problemi posti da una descrizione

dell’esperienza estetica nella quale con Dufrenne si tematizza il peculiare rapporto tra

sensibilità, intelletto e ragione. Tale approccio ha consentito di delineare due triangoli

teorici entro i quali si è potuto articolare il restante discorso. Essi si sono sintetizzati

come segue: sensibile, con immaginazione e sensazione, il primo, e sinestesia con

espressione e stile, il secondo. Tutti questi elementi fanno capo, anche se in modi e

secondo angolazioni leggermente differenti, al problema generale dell’unità del

sensibile che, a sua volta, è raccoglibile sotto quello con il quale la filosofia occidentale

si confronta fin dai suoi albori: il problema dall’uno e del molteplice, il particolare e

l’universale, e che implica il problema di come il loro rapporto debba essere inteso. Il

generale, la Natura di Dufrenne, parla sì di un invisibile, ma, diversamente da quello

platonico classico, non si configura come immateriale e sovrasensibile, coglibile solo

dall’intelletto. Con l’autore francese si ha, infatti, una lettura del generale come sempre

e solo concreto, dato sempre e solo nel particolare. Inoltre, il potere di coglierlo non è

appannaggio solo delle facoltà intellettuali grazie all’astrazione logica, poiché esso si

presta ad essere catturato in qualche modo anche dalla percezione, che anzi ne permette

l’incarnazione.

Il discorso sull’esperienza estetica conduce inevitabilmente al tema, già accennato

come centrale per l’autore, dell’oggetto estetico. Nell’oggetto estetico, riferimento

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fondamentale per il percorso di Dufrenne, confluiscono alcuni dei nodi tematici più

significativi e si raccoglie la sintesi dei due triangoli teorici sopra indicati. Attraverso la

messa a fuoco del suo potere espressivo si mostra come esprimere per quell’oggetto sia

in qualche modo trascendersi verso un significato che non è il significato esplicito

assegnato alla rappresentazione, ma un significato più fondamentale che proietti un

mondo. L’obiettivo dell’autore è quindi quello di mostrare come l’oggetto estetico

condivida con la soggettività la possibilità di esser all’origine di un proprio mondo,

irriducibile al mondo oggettivo. Tale mondo, configurato come mondo espresso,

richiede un polo soggettivo che gli cor-risponda e che sia in grado di esercitare quella

particolarissima modalità di apprensione che è quella del sentimento. Modalità di

apprensione che permetterà il coglimento di una parte di realtà tanto reale quanto il

mondo oggettivo se si è compreso il punto fondamentale su cui Dufrenne insiste a più

riprese: “la nozione di mondo ha radice nel singolare processo di disvelamento che

viene effettuato dalla soggettività, cosicché il reale è prima di tutto ciò che viene

realizzato da questa soggettività.”16

Si comprende allora con chiarezza di che tipo di “Mondo” si stia parlando, un

mondo che della realtà e della verità conosce la cerniera soggettiva e il versante di

proposta sempre rinnovata. È questo che consente a Dufrenne di parlarne in termini di

profondità e fondamento, termini pregnanti proprio in virtù del tipo di relazione che

richiedono di attuare e che la modalità di apprensione sentimentale che l’autore indica

come necessaria invita a riconoscere nella loro peculiarità.

Attraverso l’oggetto estetico si mette dunque in luce un possibile scarto sempre

aperto all’interno della relazione uomo-mondo. Scarto che permette di leggere persino il

tempo e lo spazio, con le loro caratteristiche di rigida categorialità, in termini dinamici

ed esistenziali. Oltre ad essere nel tempo e nello spazio, l’oggetto estetico è all’origine

di un proprio tempo e di un proprio spazio: all’origine di un proprio mondo che è un

mondo abitato da sensi e significati anche spazialmente e temporalmente orientati.

Tuttavia, naturalmente, tale mondo con il suo proprio spazio e il proprio tempo, cessa di

16 M. Dufrenne, Phénomenologie de.., cit. p. 282.

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esistere al di fuori dell’esperienza estetica rimanendo come indice di un altrove

comunque possibile.

Di più, l’analisi di questo tema con Dufrenne ci condurrà a riconoscere l’oggetto

estetico come l’oggetto che sorge all’apparire o, in maniera ancora più forte, come la

cossa stessa in un senso che piega decisamente le istanze husserliane in un senso

originale: nel tentativo di reperire il punto di emergenza del senso, si arriva a

riconoscere all’intenzionalità, letta come percettiva, proprio il ruolo di fondamento

irrelativo da cui procedono le distinzioni relative di oggetto e soggetto.

Tra essi, vive una forma intermedia, che ne rende esplicite le prerogative, che è

quella del quasi-soggetto incarnato dalle opere d’arte.

Su questa possibilità dell’oggetto estetico di agire alla stregua di un quasi-soggetto,

si è innestato il passaggio al capitolo successivo. In esso, la Natura come fondo

ontologico e il suo carattere poetico come categoria estetica rappresentano i fili

essenziali del proseguimento della trattazione. Si intende mettere in luce da un lato le

questioni teoriche che animano l’autore e dall’altro le vie che lo conducono, nel suo

ultimo scritto, a introdurre il tema del soggetto sinestetico e della sinestesia quale

categoria centrale della sua ontologia del sensibile. In queste pagine si porta in luce, in

particolare, il senso ontologico dell’intenzionalità e del rapporto di affinità apriorica che

lega oggetto e soggetto. Se, infatti, l’oggetto estetico si compie solo nel suo legame con

le percezione, in questo legame indissolubile con la percezione si inserisce anche il

problema della coscienza conducendo a un’interrogazione dell’oggetto estetico

relativamente al problema dell’intenzionalità. Con Dufrenne la coscienza si riconferma

sempre una coscienza percettiva, la cui trascendenza è per lui stabile e per nulla

illusoria. La coscienza, sartreanamente, esplode verso, ed è così che l’uomo è veramente

al mondo, presente alle cose, invece di avere le cose in rappresentazione nella sua

coscienza. Ed è proprio la presenza del mondo il tema decisivo, il punto critico che

Dufrenne, rivisitando parzialmente Fink e Heidegger, oppone a Husserl. Punto che egli

vede come inizio di un percorso che la metafisica potrebbe illuminare in modo nuovo.

È proprio sul pensiero radicale dell’idea di intenzionalità che invita a concentrarsi

l’attenzione dell’autore: in essa si concentra il fenomeno autenticamente concreto e

primo, l’origine dell’opposizione stessa dell’oggetto e del soggetto.

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Ma è necessario collocare l’intenzionalità nella coscienza? Certamente l’intenzionalità deve essere pensata come origine, ma come origine di una reciprocità o di una complicità piuttosto che di una opposizione. L’intenzionalità non può essere posta nella coscienza poiché ne è la stessa origine, ma sarà piuttosto la coscienza a essere posta nell’intenzionalità di modo che l’intenzionalità possa assumere un senso propriamente ontologico. Questa ontologia dell’origine può essere concepita da una filosofia della Natura alla quale forse ci invita Merleau-Ponty.17

In ogni caso è senz’altro questa la direzione che l’oggetto estetico come viene

descritto da Dufrenne dischiude e indica. Si può così arrivare a comprendere un altro dei

punti più perspicui che vede la percezione estetica come una modalità

dell’intenzionalità portata alla sua più alta intensità. Intenzionalità che rivela il proprio

carattere genealogico e fungente proprio nella relazione che lega la coscienza a questo

tipo di oggetto che si dà sì sempre “in un sol colpo”, ma è un sol colpo esteso in una

durata, poiché l’oggetto è a sua volta una totalità in divenire. L’esperienza estetica

condivide e mostra allora il carattere fungente di un’intenzionalità vissuta.

Quell’intenzionalità che nella sua commistione con la percezione ha il proprio carattere

genealogico e dinamico.

Correlato teorico di tale intenzionalità percettiva che nell’esperienza estetica

raggiunge uno dei suoi culmini più rappresentativi è il fatto che l’essere proprio

dell’oggetto estetico risieda nel suo apparire. Esso infatti è il reale in quanto percepito.

Il suo essere è un essere percepito, profondamente integrato nella regione dell’aistheton;

le sue qualità si dispiegano nel campo del sensibile e in esso si radicano. Nel sensibile si

radica così anche il senso dell’oggetto in questione, senso immanente che non è forse

concettualizzabile ma che è sperimentato senza equivoco e che può essere detto nel

vocabolario dell’affetto.

Nell’ultimo capitolo si indagano i punti di arrivo di questo percorso, che l’autore

formalizza nel suo ultimo lavoro L’occhio e l’orecchio, con particolare riguardo alle

istanze antiscientifiche, alle caratteristiche del soggetto sinestetico in rapporto alla

17 M. Dufrenne, L’oggetto estetico come la “cosa stessa”, in "Fenomenologia e scienza dell'uomo", n. 1, 1985, p. 11.

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fruizione del mondo e le conseguenti problematiche. È in queste pagine che emergerà,

tra l’altro, il rilievo dell’ambito artistico quale luogo in cui con maggior evidenza può

emergere la dinamicità che connota la relazione intenzionale dell’uomo al mondo.

Si intende dunque giungere a mostrare come la sinestesia rappresenti la risposta

non ontologica ai problemi dell’Essere che, appunto nel soggetto sinestetico, mostra la

propria radice ineludibilmente antropologica. Attraverso l’estetica di Dufrenne, si

giunge a riaffermare un’ontologia non come teoria dell’essere ma come esplicitazione

del significato fenomenologico dell’esistenza.

Con il soggetto sinestetico si intende mettere a fuoco un soggetto il cui rapporto

con la verità non sarà mai nichilistico, e però neppure mai causalistico né definitivo; un

rapporto con la verità che l’arte, senza poterla mai davvero produrre fino in fondo, può

tuttavia felicemente mostrare come dinamica simbolica e relazionistica, espressiva e

genealogica, infine virtuale e sinestetica.

Delle spinte teoriche e metodologiche che hanno segnato il passo della sua vita e

del suo pensiero Dufrenne ha fornito una sintesi estremamente efficace in una

conferenza di cui oggi resta traccia nella “Rivista di estetica” pubblicata in occasione

della sua morte. Vale la pena citarne qui un lungo passaggio, in cui il respiro e gli

obiettivi del suo procedere si manifestano con tutta la loro forza.

Et sans doute, devant la réflexion, l’homme semble débouté: tout savoir formalisable tend à s’ériger en savoi absolu et à perdre l’homme dans l’absolu: substance, logos ou concpept. En même temps que son savoir échappe à l’homme, pareillement son acte: que ce soit l’acte inspiré de l’artiste, la contemplation “immortalisante” du sage aritotélicien ou l’acte paradoxal du héros stoicien. Mais nulle philosophie n’a tenu ce bout de la chaîne sans tenir l’autre, celui qui tient l’homme. Et c’est ainsi que’elle s’assure de son objet. Certes, la question qu’elle pose – qu’elle est – est une question radicale, c’est-à-dire trascendentale; mais il ne s’agit pas seulement de la possibilité de la philosophie, mais de la possibilité de tout savoir et de toute enterprise; la question n’est pas la question de la question, mais la question dont précisément l’initiative revient à l’homme, des rapports du questionnement et du questionné: de l’homme et du monde. (...) Il reste à la philosophie à rappeler la science à elle- même, ou plutôt le savant, l’homme qui decrit cette genèse, l’observateur de l’observateur, qui n’est pas l’objet, mais l’inventeur de la science, qui est au monde mais pour le quelle le

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monde prend un sens. La philosophie n’est pas la science parce qu’elle est la conscience de la science: réflexion absolue. Non pas réflexion de l’absolu, si l’on entend par là que le monde susciterait l’homme pour se réflechir à travers lui ou qu’une instance supérieure à l’homme et au monde les susciterait tous deux pour promouvoir un devenir qui soit discours; mais acte du pohilosophe, en qui l’homme se reconnait come absolu à qui la preuve ontologique finit par s’étendre, et qui devient conscius sui. (...) Cet eveloppement réciproque de l’homme et du monde n’est pas une genèse qui consacrerait un monisme; aucun de deux termes ne peut réduire ou engendrer l’autre. La relation n’est, par rapport aux termes, ni antérieure ni productrice; si l’on peut faire émerger le vivant et son milieu d’une totalité individu-milieu, peut être même le sentant et le senti d’un acte commun, qui serait encore une structure métastable, on ne peut engendrer ni la conscience des signification ni la liberté d’où procèdent aussi bien l’instauration d’un ordre de raison et l’affirmation pratique des valeurs. L’eidétique reste toujours en tension avec une génétique. Le problème ultime des rapports de l’homme et du monde est bien plutôt celui de leur affinité, d’une harmonie qu’on n’a pas besoin de croire préétablie: comment le monde peut-il être une partie pour l’homme? En quoi on revient toujours au problème critique: comment la connaissance est-elle possible? Comment l’action est-elle possible dans la mesure où elle s’inscrit dans le temps et signifie progrès? Comment le monde est-il ouvert à l’homme qui l’habite et lui confère un sens? Être philosphe, c’est prendre conscience de ces problèmes et comprendre qu’ils surgissent dès que s’éveille une conscience. La philosophie ne vaut pas une heure de peine si elle nie l’heure, et la peine: si elle rêve de s’installer dans un absolu où l’homme n’est plus qu’une apparence, qui doit mourir pour que le monde soit. Vivre selon la philosophie, il faut que ce soit encore vivre; et qui est incapable de vivre selon la philosophie, il peut au moins tenter de philosopher selon la vie.18

C’è da chiedersi però se non sia anche questa frequentazione della filosofia “in

prima persona”, con le conseguenti derive tratti empiristiche a tratti soggettivistiche, ad

aver contribuito al disinteresse diffuso nei confronti di questo autore. Le sue sono a

volte argomentazioni che ricorrono all’esempio secondo frequenze e modalità che

rischiano di indebolire anzichè corroborare le teorie che egli ha di mira; accanto a ciò, il

passaggio da piani antropologici a contesti ontologici, estetologici e fenomenologici non

brilla per rigore e anzi, in particolare in alcune opere come L’occhio e l’orecchio, è

talvolta talmente serrato da apparire frettoloso.

18 M. Dufrenne, Suis-je philosophe?, cit. pp. 62-65.

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Interessarsi a un autore come Dufrenne significa però accettarne la sfida che,

proprio contro un’eccessiva sistematizzazione del pensiero a scapito del soggetto, invita

a guardare sempre oltre, verso quell’origine che già si sa non si potrà mai davvero dire.

Ma non si può smettere di cercare.

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CAPITOLO 1: L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA

VERSO MIKEL DUFRENNE

1.1 Mikel Dufrenne: un’introduzione storica

La meditazione di Mikel Dufrenne (Clermont, Oise, 1910 - Paris, 1995), ispirata

alla fenomenologia di Sartre e Merleau-Ponty nei confronti dei quali lo stesso autore

riconosce il debito in diverse parti della sua opera, molto attenta ad altri aspetti

fondamentali della filosofia contemporanea, da Husserl ad Heidegger fino a Jaspers e

alle semiologie di varia ispirazione da cui però si mantiene sempre a critica distanza,

incarna uno dei punti di arrivo più rappresentativi della maturazione di quegli elementi

teorici che per decenni hanno percorso l’estetica francese.

Le radici di questo pensiero sono, infatti, puntualmente ravvisabili nella temperie

culturale caratterizzante la Francia dell’ultimo secolo di cui portano in modo netto e

perspicuo i segni, soprattutto rispetto ad un’impostazione che conosce i dissidi delle

interrogazioni più radicali dei suoi predecessori e che sa fondere in sé le diverse

prospettive storiche e teoriche che l’hanno preceduta. Umanista ostile ad ogni torsione

della filosofia verso teologie della trascendenza, è stato nel campo dell’esperienza

estetica che Dufrenne ha concentrato la sua ricerca intorno alle possibilità intrinseche

alla Natura e all’Uomo, punto di partenza e di arrivo della sua meditazione filosofica. Il

suo percorso si snoda lungo due direttrici distinte che vedono sviluppare, accanto ad un

approccio estetico-fenomenologico a sfondo ontologico, una direzione di stampo

antropologico.

Sono queste caratteristiche di sintesi feconda di aspetti che la tradizione filosofica

francese vedeva filtrare attraverso di sé da oltre mezzo secolo a fare del contributo di

Dufrenne uno degli snodi teorici più densi e rappresentativi della storia della filosofia

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recente. Nella sua opera confluiscono difatti istanze tra le più pressanti e ad oggi tuttora

prolifiche della tradizione più prossima. In particolare, è lo sviluppo dell’Estetica, in

quanto autonoma disciplina, a vedere nel contributo dufrenniano un momento

particolarmente saliente dei suoi itinerari.

Constatazione ineludibile in partenza è quella che sottolinea la grande importanza

sempre riconosciuta da Mikel Dufrenne a tematiche di sociologia e antropologia. Le sue

posizioni si esprimono spesso a proposito delle questioni più salienti del secolo19

mostrando come la sua pratica della filosofia non si sia mai discostata da sociologia e

interesse politico. Di questi ultimi, è la dimensione del poiein cui rimandano a fare da

sfondo e punto di riferimento costante per un’elaborazione teorica di stampo

fenomenologico. Se lo sguardo dell’autore non cessa di indagare quanto accade nel

mondo a lui contemporaneo, è tuttavia in questo stesso sguardo che si radica un

pensiero dell’azione che non riduce quest’ultima all’esatta e concreta realizzazione di

un programma pratico, ma la riconosce pregna di potenzialità insondabili di cui

sottolinea la creatività. L’indagine si rivolge pertanto all’evento umano, imprevedibile e

radicato in quel reale tanto più ricco di ogni immaginario. Quello che Dufrenne lascia

individuare dietro i suoi interessi di carattere politico e sociologico è la forza di quegli a

priori irriducibili ad un solo sistema di azione che testimoniano invece, ben più

profondamente, di una risalita possibile e costantemente rinnovabile verso ciò che egli

ripetutamente nomina come l’originario20. L’interesse di questo autore si è rivolto,

infatti, principalmente alla ricerca di una forma di originario e unitario principio che

presieda l’esperienza del mondo e nel quale veder confluire la base fenomenologica di

tale esperienza. L’attenzione per il poiein umano ne nasconde, senza dissimularla per

nulla, una più profonda verso quel poiein che, non rimandando ad alcun sapere né tanto

meno saper-fare, afferisce a un’inesauribile possibilità di invenzione nella misura in cui,

19 Tanto quando egli collabora con quotidiani nazionali come Combat o riviste quali Les cahiers internationaux de sociologie o Esprit, quanto nel momento in cui dà alle stempe opere come La personnalité de base (1953), Pour l’homme (1968), o Subversion/perversion (1977). 20 Cfr. M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, recherche de l’originaire, Paris, Christian Bourgois, 1981.

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come si legge nelle ultime righe de L’inventaire des a priori, “una filosofia dell’azione

chiama a una filosofia della Natura”21.

Questi temi permettono di delineare in modo chiaro le direttrici storiche che

precedono e in qualche modo introducono la meditazione di Dufrenne nella quale,

appunto, elementi tradizionali confluiscono in modo perspicuo e sintetico.

La sua è forse una delle più dense elaborazioni di una filosofia intesa come

“filosofia della cultura”, punto di arrivo della storia del pensiero dell’ultimo secolo,

lontana dalle metafisiche più trascendentali e ancorata piuttosto allo studio meticoloso e

appassionato dei fenomeni e dell’uomo.

Come è stato scritto22, il suo si presenta come un tentativo sempre riproposto di

piegare la fenomenologia a una vocazione immanentistica e anti-coscienzialistica

all’interno di un’estetica soggettivista di matrice kantiana.

Il rapporto stesso di Dufrenne con la fenomenologia è un rapporto caratterizzato da

significativi chiaroscuri, impliciti non-detti e velate mutazioni; la sua è un’estetica che

“peut etre représentée en priorité par la phénoménologie, et de fait notre propos a été

implicitement phénoménologique”23. Una fenomenologia quindi che, come

probabilmente l’intera fenomenologia francese, mutua se stessa dai presupposti

husserliani senza mai perseguirli in modo ripetitivo, ma anzi ricodificandoli all’interno

di orizzonti che già conoscono razionalismo, positivismo e spiritualismo. In questo

senso quella di Dufrenne è una fenomenologia in un senso fortemente merleau-

pontiano, descrizione che ha di mira un’essenza, cioè il significato immanente al

fenomeno e dato con questo.24

21 È bene tenere presente fin d’ora, benché a puro titolo introduttivo, come sia sotto questi aspetti che la pratica politica interessa Dufrenne compatibilmente e parallelamente a quella artistica. Queste due sono infatti considerate analoghe se non altro per il comune atto di correre il rischio dello sconosciuto, dato che ciò che vale per l’azione vale per l’arte, come scrive l’autore: “è questa potenza del fondo che l’arte si sforzerà di ridire”. Ivi, p. 312. 22 E. Franzini, L’estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, Edizioni Unicopli, Milano 1984, p. 348. 23 “Può essere rappresentata prioritariamente dalla fenomenologia e, di fatto, il nostro proposito è implicitamente fenomenologico”, M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome II, Klincksieck, Paris 1976, p. 28. 24 Particolarmente densa di significati storici e teorici è l’assimilazione dei contenuti husserliani da parte di Dufrenne. Un approfondimento esaustivo di questo rapporto si trova nel già citato volume di E. Franzini dedicato all’estetica francese del Novecento a cui si rimanda e nel quale si legge: “Husserl, con

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En tout cas c’est à la phénoménologie qu’ici je me réfère: à cette phénoménologie librement interprétée, dont l’oevre de Merleau-Ponty est la meilleure illustration, qui débouche sur une ontologie ou, comme nous l’avons esquissé, sur une métaphysique de la Nature.25

Restano chiari e presenti, in Dufrenne, seppur a grandi linee, i riferimenti alle

teorie husserliane di intenzionalità, fenomenologia della percezione e teoria degli a

priori, con larga condivisione degli intenti anti-psicologisti. Lo sviluppo generale del

pensiero segue invece poi linee meno rigorose rispetto all’autore tedesco, ritagliando

uno spazio di notevole autonomia che affonda le sue radici principalmente nel terreno

culturale francese.

Facendo un passo indietro, i prodromi del pensiero dufrenniano si intravedono nel

quadro apparentemente contraddittorio della filosofia francese di fine Ottocento: al

sostanziale superamento delle dottrine comtiane, e in modo specifico di quelle relative

alla gerarchia evolutiva delle scienze, fa riscontro un generale risveglio dell’attenzione

nei confronti di alcuni principi metodologici generali del positivismo stesso, quali il

rifiuto della metafisica e la ricerca di relazioni costanti fra i fenomeni. Discipline dalle

impostazioni e interessi differenti eppure sotto certi aspetti convergenti quali la fisica, la

biologia, la sociologia e la psicologia hanno ormai preso direzioni molto diverse da

quelle ipotizzate da Comte e nella loro nuova veste sono portatrici di un metodo

«positivo» attento ai «fatti», alla descrizione degli eventi e alla loro comparazione più

che alle grandi «instaurazioni» ideali e metafisiche. Metodo cui la filosofia stessa non si

mostra incline a sottrarsi.

Così, accanto a quella corrente che ama richiamarsi alla tradizione illuminista e che

si esprime attraverso Taine e Renan, accanto a quello spiritualismo che non cessa di

particolare riferimento alle sue ultime opere, è spesso accusato da Dufrenne, come da Merleau-Ponty, di idealismo a causa dell’eccessivo rilievo che avrebbe dato all’attività costituente del soggetto a discapito dell’oggetto, che sarebbe così ridotto a mera costruzione della soggettività trascendentale.” (E. Franzini, op. cit., p. 349.) 25 “In ogni modo, è alla fenomenologia che io mi riferisco: a questa fenomenologia liberamente ispirata, di cui l’opera di Merleau-Ponty è la migliore illustrazione, che sbocca in un’ontologia o, come noi l’abbiamo delineata, in una metafisica della natura.” (M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, cit. p. 29.)

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essere presente, spesso integrato da posizioni kantiane o cartesiane, incarnato da Maine

de Biran a Cousin, Renouvier, Brunschvicg, Ravaisson o Fouillée, si può notare un

profondo mutamento metodologico, che segna i destini della filosofia del nuovo secolo:

Boutroux, ma soprattutto Bergson e Durkheim, al di là delle grandi differenze di

pensiero che li separano, scrive Brehier, “invece di dissolvere la natura umana nel

meccanismo universale come i deterministi, invece di fare delle sue esigenze le

condizioni della realtà come i kantiani, cercano di svelare i rapporti d'interiorità che

collegano l'uomo all'universo, e porlo di nuovo nel circuito di realtà, da cui le teorie

precedenti l'isolavano”26.

In questa nuova ricerca relativa alla «natura» umana non cessano tuttavia di

presentarsi antichi frammenti «positivi», altre varie discontinue tendenze del passato

filosofico e accademico francese; ma, per lo più, come sistematizzato puntualmente da

Brehier, “le filosofie dell'inizio del ventesimo secolo si oppongono tutte insieme alle

filosofie che affermano un'evoluzione o un progresso necessario o quelle che, come in

Taine, lo pongono, senza più alcun determinismo rigoroso”27. E ancor prima, nelle

filosofie di fine secolo, all'interno di una dissoluzione del positivismo ancora lontana

dagli aspetti di più radicale e programmatica opposizione, sono ormai chiari i poli entro

cui oscillano le indagini più feconde: poli compresi tra la realtà generale dell’universo e

la libertà umana, aspetti complementari che vanno indagati nei diversi piani delle loro

correlazioni e interazioni.

L'intera cultura francese è dunque percorsa da una serie di esigenze che, al di là dei

poteri universitari o delle filosofie accademiche, non potevano che frammentarsi in

varie scienze, di cui la filosofia costituisce il costante punto di riferimento e confronto

fino ad assumere i connotati di una «filosofia della cultura». Una filosofia dove “ogni

attività spirituale autentica è un aspetto di quella stessa intelligenza che ha creato le

scienze: la morale vera, l'arte vera, la religione vera, ovvero la morale, la religione, l'arte

liberate dalle formule, dalle tradizioni, dai sentimenti soggettivi, non hanno una radice

diversa da quella del vero sapere.”28

26 E. Brehier, Transformation de la philosophie française, Paris, Flammarion, 1950, p. 17. 27 Ivi, p. 45. 28 Ivi, p. 56.

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In questo quadro, posto a sé è occupato dalla disciplina dell’Estetica, che, come le

altre scienze di derivazione filosofica, partecipa al vero sapere di questa filosofia della

cultura ma senza ridurre ad essa i suoi principi fondanti. Dopo anni di ricerche sul bello

ideale e di esperimenti meccanicistici e empiristici nel campo delle belle arti, è fra i due

secoli che si assiste in Francia al lento processo di nascita di una riconosciuta e rigorosa

“scienza estetica”.

Riconoscere la “crisi del positivismo” è, infatti, senz’altro fondamentale, ma non

sufficiente per inquadrare quelle figure che, da Guyau a Séailles, Delacroix o Lalo,

dedicavano i loro sforzi teorici alla delineazione dell’estetica tra le altre scienze umane,

cercando e trovando supporto per questo anche in teorie e studi di stampo sociologico e

psicologico. Sono strumenti presi in prestito proprio a questo genere di discipline quelli

che permettono, al voltare del secolo, la fondazione di quel nuovo sapere destinato ad

assumere le dimensioni e generare gli effetti che conosciamo nella meditazione

successiva.

Modellata su scienze fisico-biologiche come ad esempio la fisiologia, la disciplina

estetica si configura, prima e più che come ricerca nel campo dell’arte, come ricerca dei

ruoli e delle funzioni degli oggetti estetici e delle «facoltà» soggettive loro collegate

nella coscienza, nella società e nella storia.

È dunque a partire da una serie di ricerche tendenzialmente indipendenti dalle

posizioni più autenticamente filosofiche che nasce in Francia, come del resto in

Germania, quella che oggi riconosciamo come l’estetica contemporanea. Fisiologia,

psicologia e sociologia rappresentano i punti cardinali di una serie di contributi destinati

ad allontanarsi da esse in modo inesorabile ma condannati, neppure troppo

infelicemente, a non affrancarsi mai del tutto.

Ormai ben lontane tuttavia dai deterministici canoni prefissati propri dell’ambito

positivista, tali discipline di riferimento innestano se stesse, con la disciplina estetica

che ad esse guarda, su un territorio di confine, dove a strumenti scientifici di antico uso

vengono assegnati nuovi problemi teorici e poste questioni inedite, sotto rispetti

concettuali prima imprevisti. È dalla fusione di prospettive filosofiche con elementi di

questo tipo che prende il via quell’estetica che, per queste ragioni, E. Brehier non esita a

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definire “semifilosofica” e che si intende rivolta, in primo luogo, alle modalità di

frequentazione del mondo e sua comprensione sotto gli aspetti dell’atto creativo.

Le questioni chiamate in causa dalle discipline che abbiamo visto sullo sfondo, con

particolare riguardo per la psicologia, aiutano a comprendere quell’indubbia centralità

che il problema del soggetto ha all’interno delle prime delineazioni estetiche del secolo.

Tale problema si presenta sotto mentite spoglie nel problema del genio creativo che

raccoglie e rinnova in inedita sintesi tanto la tradizione settecentesca, da Du Bos in poi,

quanto l’ambigua influenza positivista che, ad esempio con Hyppolite Taine29, aveva

presentato il fatto artistico e creativo alla stregua di un fatto scientifico soggetto ad

analisi.

Se, infatti, le teorie positiviste hanno l’indubbia debolezza delle strutture troppo

poco elastiche, è tuttavia anche grazie alla loro influenza nell’ambito della delineazione

dei problemi che l’estetica, in forma ancora di psicologia della creazione, ha la

possibilità di svilupparsi svincolata da motivazioni di carattere metafisico e lontana

dall’affascinante ma teoricamente irrilevante mistica della creazione di stampo

romantico.

Le basi che l’estetica prende in prestito alle discipline sopra indicate rappresentano

la condizione di possibilità per l’estetica stessa di sottrarsi a dinamiche di disordinato

carattere poetico per assumere su di sé, piuttosto, una più proficua meditazione di

carattere genetico delle componenti che ineriscono la prassi del soggetto nel momento

creativo.

Il percorso autoriale che conduce alla nascita della disciplina estetica in territorio

francese all’ombra di psicologia e fisiologia contempla in parte contributi di secondaria

importanza filosofica che provengono per lo più da psicologi e sociologi; tenere fermo il

contributo di tali autori permette tuttavia di ricordare la fondamentale importanza 29 Basti ricordare qui sinteticamente le teorie di Hyppolite Taine quali emergono ne La philosophie de l’art che, pur risalendo al 1865 è stata rimaneggiata negli anni fino ad essere raccolta, sotto forma di antologia di saggi, nel 1881. Se quindi l'opera d'arte è determinata da un insieme di regole culturali ed ambientali precedentemente esistenti, il genio, l'ispirazione o l'invenzione divengono fatti inerenti a un processo psicologico di creazione e vanno inquadrati in un contesto storico-sociale schematicamente inteso, cui ogni opera spirituale può e deve venire ricondotta. L'estetica, per Taine, deve giungere a definire la natura e le condizioni d'esistenza di ogni arte non come nel passato, cercando una regola per il bello, ma costruendo una scienza storica che non impone dei precetti bensì ricerca delle leggi e le cause della produzione del «fatto» opera di arte: «intesa in tal modo, la scienza non condanna né perdona, ma constata e spiega».

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rivestita dalle loro influenze, strumentali se non teoriche, nell’ampliamento dei confini

teorici del positivismo stesso ricondotto ad una prolifica forma di dibattito a più voci e

fra vari ambiti scientifici.

Si deve a Joseph Segond, filosofo che Huisman definisce “mistico ed

empiricissimo”, la sistematizzazione sintetica e storicamente ben costruita di tali

percorsi; sistematizzazione che, benché comparsa a Novecento inoltrato con Le

problème du génie30 del 1930, permette un riesame utile e specifico dei problemi di

psicologia della creazione sotto diversi aspetti filtrati nell’estetica francese. Con questo

autore, che raccoglie in sé, a volte con acume e discreta organicità, contributi tra fine

Ottocento e inizio Novecento, da Guyau a Pulhan fino ad Alain e Breton, si vede

l’estetica ricondotta a una “psicologia dell’arte”, da non intendere come scienza della

natura ma in quanto studio della generazione dei valori spirituali articolati attraverso un

finalismo biologico e indirizzati a un idealismo dei valori che trova nell'estetica il suo

significato più profondo.31 Con buona pace di qualsiasi annosa scienza del bello,

l’estetologo si ritrova investito del compito di “rendersi conto di ciò che noi proviamo

di fronte alle opere d'arte, cercare da un punto di vista puramente psicologico in che

consistono le espressioni di ciò che si chiama la bellezza”32.

Dall’analisi di Segond, i fenomeni che conducono alla creazione non emergono di

per sé misteriosi e incomparabili, ma si presentano riconducibili alla sfera complessa

della sinestesia nella quale confluiscono spettri sentimentali oltre che affettivi che

conducono ad instaurare una “estetica del sentimento” da cui prende avvio, in forza di

una “ricreazione mistica” del nostro essere interiorizzato, una “psicologia del

sentimento stilizzato”. Al mondo interiore si va dunque, con Segond, a guardare, nella

ricerca di una forma d’arte che preceda le concrezioni pratiche dell’arte, caratterizzata

da spontaneità e immediatezza prima di ogni schematizzazione esterna.

Alla base dell'opera si pone un'intuizione soggettiva di carattere affettivo radicata

nella cinestesia, campo “che è impossibile limitare” in quanto “ingloba la nostra intera

esperienza ed anche le creazioni proprie alla vita più raffinata, la vita spirituale

30 J. Segond, Le problème du génie, Flammarion, Paris 1930. 31 Cfr. su questo tema il fondamentale studio di E. Franzini Estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, Edizioni Unicopli, Milano 1984. 32 J. Segond, L'esthétique du sentiment, Boivin, Paris 1927, p. 3.

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integrale”33. Nelle opere di Segond, il campo creativo è considerato in una sua ampiezza

cosmologica e psicologica che trascende la particolarità della creazione artistica

compiendo delle corrispondenze indefinite e senza fine intelligibili dei valori umani34.

Punto di riferimento costante di tutto il suo percorso, fortificato tra l’altro dai

riferimenti autoriali che lo caratterizzano, è quello che vuole l’attenzione costantemente

orientata alla fisiologia, scienza che ha dato origine in Francia a un gran numero di

lavori dedicati al ruolo dei ritmi corporei all'interno dei processi di creazione o

percezione di un'opera d'arte.

Oltre a Segond, è fondamentale tenere presente l’alto numero di autori che dietro

l’impostazione filosofica, e a volte anche essendone privi, hanno visto nel ritmo

fisiologico l’origine stessa dell’estetica, da considerare a partire dalle sue basi organico-

vitali35; impostazione questa non priva di effetti di primaria importanza sulle

meditazioni estetiche proprie della fenomenologia francese e, come vedremo, di quella

di Dufrenne in particolare.36

Al di là di tali e simili estremistiche riduzioni della creazione alla fisiologia, il

corpo e la sua cinestesia occupano un ruolo fondamentale nella costituzione del genio al

quale si riconosce tuttavia, nel rispetto della tradizione, anche una componente casuale,

ineffabile benché non necessariamente misteriosa. Ciò consiste in un'ostinazione

cosciente a scavare tutti i meandri del possibile, in un intelletto riflessivo e pronto a

provare tutte le combinazioni possibili, “in uno sforzo instancabile e sempre cosciente

attraverso il quale si mostrerà il meccanismo stesso della combinazione che si apre, in

breve in un cosciente persistere a voler comprendere indefinitamente il segreto della sua

propria operazione”37.

33 Ivi, p. 114. 34 J. Segond, Le problème du génie, cit., p. 46. 35 Il fondamentale problema dei rapporti fra estetica e fisiologia è trattato da V. Feldman, L'estetica francese contemporanea, a cura di D. Formaggio, Minuziano, Milano l945. 36 Il legame così istituito fra l'attività creativa e i movimenti corporei conduce alcuni autori a far derivare da esso le stesse «facoltà estetiche» della memoria e dell'immaginazione. È il caso, per esempio, di L. Arréat, influenzato dal tedesco G. Hirth di cui, nel 1892, traduce una Fisiologia dell'arte. Indagando il ruolo di memoria e immaginazione in pittori, musicisti, poeti e oratori, Arréat afferma che le distinzioni fra le facoltà nell'ambito funzionale di ciascuna disciplina artistica vanno ricercate esclusivamente nella psicologia e nella fisiologia dei loro protagonisti. 37 J. Segond, Le probléme du gènie, cit., p. 144.

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Sono queste le posizioni che si ritroveranno in maniera evidente ad esempio nel

pensiero di Valéry, con il quale vediamo riaffermare con forza l’idea che la nozione di

genio ispirato e ineffabile sia di per sé vuota, poco esauriente rispetto al chiarimento dei

procedimenti reali della creazione artistica e per nulla utile nello spiegare l’intelligibilità

e ancor meno il senso di un’opera d’arte. Questa è invece piuttosto da osservare nelle

sue caratteristiche di produzione tecnica, storica e culturale, momento perspicuo nel

ciclo fenomenologico della tecnica artistica.

È nella psicologia del genio che si incarna dunque, in particolare in Francia,

quell’incredibile ricchezza di posizioni che accompagna il processo di nascita e

assunzione di autonomia della disciplina estetica. È storicamente al voltare del secolo

che si collocano i prodromi di quegli sviluppi teorici che, via Husserl in Germania, via

Alain, Bachelard, Merleau-Ponty in Francia fino a Dufrenne, porranno all’estetica

domande tra le più feconde. In esse si manterrà fermo il riferimento al corpo e, con

questo, la contaminazione della meditazione filosofia con tematiche che da essa

sembrerebbero esulare ma che, tra psicologia, fisiologia e psichiatria, sapranno offrire

terreno fecondo di sviluppo teorico.

Istanze di questo tipo arrivano infatti ad animare persino la meditazione di

Merleau-Ponty, sin dalla pubblicazione de La structure du comportement38, punto di

avvio che condivide l’interesse per una dimensione psicologica e fisiologica

dell’esistenza e che condurrà alla più matura elaborazione di una fenomenologia di

carattere ontologico e rigoroso.

È ad un simile sostrato che guarda l’opera di Dufrenne, nella quale confluiscono

temi che a volte arrivano ad esulare dai più rigorosi presupposti fenomenologici.

Nel 1968, in piena temperie strutturalista e antiumanista, Dufrenne pubblica il

saggio Pour l’homme, in cui si propone esplicitamente di “evocare l’antiumanesimo

proprio alla filosofia contemporanea, e di difendere contro di esso l’idea di una filosofia

che potrebbe avere cura dell’uomo”39. Lo sfondo della meditazione, se da una parte

tiene saldi i riferimenti alla tradizione fenomenologica, dall’altro piega nella direzione

38 M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, Presses Universitaires de France, Paris 1949. 39 M. Dufrenne, Pour l’homme, cit., p. 9.

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che già con Merleau-Ponty si vide accostarsi a una tradizione di antropologia filosofica

in cui vediamo agire, in particolare, le meditazioni di Segond, i contributi di pensatori

non filosofi quali psicologi, e in particolare antropologi, e i presupposti sviluppati da

figure come quelle di Maurice Pradines40 e, soprattutto, di Erwin Straus41.

Proprio a tali pensatori si rivolge infatti a più riprese esplicitamente la riflessione di

Dufrenne che anzi arriva a indicare il secondo quale modello per uno dei temi centrali

sia per lui che per questo lavoro: il tema dell’unità dei sensi42. È costante e articolato il

riferimento dufrenniano a Vom Sinn der Sinne43, con particolare riguardo per i concetti

dell’abitare del corpo nel mondo, della dimensione percettiva come fondo intuitivo e

corporeo di ogni possibile frequentazione ma anche, in ideale diretto dialogo con

Merleau-Ponty oltre che con Husserl, Heidegger e Cassirer, per il tema del sentire come

terreno che precede la distinzione percettiva tra soggetto e oggetto.

Si ritrova infatti a più riprese, nelle parole di Straus, una forma di introduzione

esplicita a quelli che saranno, via Merleau-Ponty44 gli sviluppi di Dufrenne:

40 M. Pradines (1874-1958), filosofo spiritualista prima ancora che psicologo, professore per oltre vent’anni Strasburgo e poi, dal 1938 alla Sorbonne. La sua ricerca abbraccia il campo psicologico e psicofisico trovando sistemazione prima in Philosophie de la sensation (Paris 1928-34, 3 voll.) poi nel Traité de psychologie générale (Paris 1943-46, 3 voll.) 41 E. Straus (1891-1975), medico e neuropsichiatria tedesco. Allievo a Monaco di Kraepelin, a Zurigo di Beluler e Jung, è stato dal 1931 docente di psichiatria all’Università di Berlino e, dopo essere emigrato negli Stati Uniti nel 1938, al Black Mountain College (North Carolina). Dopo la guerra ha lavorato come direttore al Veteran Administration Hospital di Lexiton in Kentucky e come professore di psichiatria alla University of Louisville. È considerato, insieme a Binswager e Minkowski, fra i più significativi rappresentanti della psichiatria fenomenologica. Fra i suoi lavori si ricordano Geschenis und Erlebnis (Berlin – Gottingen –Heidelberg 1930), la raccolta di saggi Phenomenological Psychology (New York 1966) e soprattutto il fondamentale lavoro sulla sensazione Vom Sinn der Sinne (Berlin – Gottingen –Heidelberg 1935). 42 M. Dufrenne, L’oeil et l’oreille, tr. it. L’occhio e l’orecchio, cit., p. 49 e segg. 43 E. Straus, Vom Sinn der Sinne. Ein Beitrag zur Grundlegung der Psychologie, Springer, Berlin-Gottingen-Heidelberg 1935, tr. francese che qui si utilizza di G. Thines e J.P. Legrand, Du sens des sens. Contribution à l’étude des fondements de la psychologie, Millon, Grenoble 2000. 44 Non a caso entrambi i pensatori sono elencati da Merleau-Ponty fra le “Opere citate” di Phénoménolgie de la perception (cfr. M. Mereleau-Ponty, Phénoménolgie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 587 – 588). A sua volta, nella prefazione alla seconda edizione del proprio volume, Straus colloca Merleau-Ponty (insieme con Binswager, Buytendijk, von Gebsattel e Zutt) fra gli autori nei cui confronti deve riconoscere un “debito profondo” (cfr. E. Straus, op. cit., p. V). È opportuno ricordare, ai fini di una miglior comprensione della molteplicità di riferimenti incrociati, che nela stessa sede egli riconosce inoltre di aver trovato con alcune opere dell’ultimo Husserl pubblicate postume, “su più di un punto una convergenza incoraggiante con le mie proprie vedute” (Ibidem).

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Dell’esperienza vissuta, nella sua globalità, si è sempre preso in considerazione e osservato il momento gnosico, ma mai il momento patico. (…) Il patico appartiene allo stadio più originario dell’esperienza vissuta, e se risulta così difficilmente accessibile tramite la conoscenza concettuale, è proprio perché con i fenomeni noi instauriamo una comunicazione immediatamente attuale, intuitivo-sensibile, ancora di stato preconcettuale.45

Vi è dunque la possibilità di avvicinare la meditazione di Dufrenne proprio a

partire da questa ininterrotta eco di consonanze che scorre da Vom Sinn der Sinne a

Phénoménologie de la perception volgendosi con uguale intensità tanto all’ambito più

strettamente filosofico e fenomenologico quanto a quello, comunque sempre presente,

dischiuso dalle ricerche psicologiche e fisiologiche.

Di tale duplice direzione è impregnata l’intera opera di Dufrenne, fino all’ultimo

scritto L’occhio e l’orecchio, che lascia reagire l’interesse estetico-ontologico su

posizioni di carattere psicologico-antropologico, mettendo forse in campo l’ultimo

tentativo di sintesi offerto dall’autore. In quest’opera, in particolare nel problema della

sinestesia, filtrano e si intrecciano i temi di fondo di tutta la filosofia dufrenniana e,

soprattutto, si leggono chiaramente in filigrana le differenti direzioni di interesse che ne

hanno animato la ricerca. Ma è questo uno dei punti di arrivo cui questo lavoro si

propone di approdare; preliminarmente, è opportuno concentrare l’attenzione sulle

coordinate tematiche che, storicamente e teoricamente, introducono quanto andremo ad

esplorare.

Esiste un passo merleaupontiano, nel quale confliuiscono tanto le ricerche di Straus

quanto i presupposti husserliani, di fondamentale importanza sia all’interno dell’intera

ricerca merleaupontiana che per la sua lettura da parte di Dufrenne, che possiamo

utilizzare a titolo di riferimento introduttivo: è quello che si trova nella Premessa della

Phénoménologie, là dove l’autore si propone di esplicitare a suo modo il senso

dell’esortazione di Husserl a tornare alle cose stesse:

Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la coscienza parla sempre, e nei confronti del quale ogni

45 E. Straus, op.cit., tradotto in italiano in A. Pinotti (a cura di), Erwin Straus, Henri Maldiney. L’estetico e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 43.

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determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato, un fiume.46

La citazione strausiana è esplicita: il riferimento è infatti alla sua celebre

distinzione fra spazio del paesaggio e spazio geografico. Il primo sarebbe uno spazio

originario del “sentire” (Empfinden), che egli intende nella sua inscindibile unità con il

muoversi, in cui il mondo è “qui per me ed è solo così che è qui per me ed è qui in

qualche modo”47; lo spazio geografico è invece spazio in equilibrio precario tra quello

del paesaggio e quello fisico48, è lo spazio “del mondo umano della percezione”49, che

non conosce orizzonte ma coordinate vincolate a un punto-zero stabilito arbitrariamente,

come il meridiano di Greenwich. Se il paesaggio è lo spazio che abitiamo in comune

con l’animale, la geografia è un dove esclusivo dell’essere umano, capace di quella

razionalizzazione globale della spazialità che rappresenta la sua vita.

Il riferimento husserliano è basilare, nel senso letterale di humus cui si attinge e da

cui si diparte, e proprio in questo passo si può leggere una delle direttrici che Merleau-

Ponty lascia avviare, e allontanare, proprio a partire dal padre della fenomenologia. Il

motto di ritorno alle cose stesse è inteso secondo uno slittamento fondamentale, in una

sorta di adeguamento agli interesse dell’autore francese, che lo vede come un ritorno

all’origine stessa dell’espressione, alla fondazione originaria di ogni senso che viene

attribuito alle cose. In Merleau-Ponty, uno dei riferimenti più ricorrenti a Husserl

avviene, infatti, come si legge nei più diversi contesti, sotto lo stimolo costante di un

motivo delle Meditazioni cartesiane: “È l’esperienza […] ancora muta che per la prima

volta deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso”.

La frase compare nella prefazione della Fenomenologia della percezione nel

momento in cui l’autore affronta la riduzione eidetica, a proposito della quale troviamo

un passo da tenere presente: 46 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 17. 47 E. Straus, op. cit., p. 329. 48 “Il mondo percettivo umano sta tra il paesaggio e la fisica. (…) Poiché esso confina con entrambi, con il paesaggio e con la fisica, stando tra di loro, rimane ambiguo in se stesso, e non solo per chi osserva. Teso fra questi contrasti esso si trova in equilibrio estremamente instabile, sempre minacciato da un’oscillazione eccessiva verso questo o quel lato.” Ivi, p. 381. 49 Ibidem.

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Quali che siano le variazioni di senso che infine hanno dato luogo alla parola e al concetto di coscienza come acquisizione del linguaggio, noi abbiamo un mezzo diretto per accedere a ciò che esso designa, abbiamo l’esperienza di noi stessi, di questa coscienza che noi siamo: su tale esperienza si misurano tutti i significati del linguaggio, ed essa fa sì che esso voglia appunto dire qualcosa per noi. “È l’esperienza … ancora muta che ora per la prima volta deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso.” Le essenze di Husserl devono ricondurre con sé tutti i rapporti viventi dell’esperienza, come la rete porta dal fondo del mare i pesci e le alghe palpitanti. […] La funzione del linguaggio consiste nel far esistere le essenze in una separazione che, a dire il vero, è solo apparente, giacché per mezzo del linguaggio esse riposano ancora sulla vita antepredicativa della coscienza.50

Ancora nella Fenomenologia, si ritrova un passo che, facendo riferimento a Kant,

ribadisce la questione nei seguenti termini:

Ma l’Io riflesso differisce dall’Io irriflesso per lo meno in questo, che è stato tematizzato. Come lo stesso Kant osserva acutamente, ciò che è dato non è la coscienza né l’essere puro, ma l’esperienza, ossia, in altri termini, la comunicazione di un soggetto finito con un essere opaco da cui questo soggetto emerge, ma in cui rimane ancorato. È “l’esperienza pura e per così dire ancor muta che ora, per la prima volta, deve essere portata all’espressione pura del suo senso proprio.” Noi abbiamo l’esperienza di un mondo, non nel senso di un sistema di relazioni che determinano interamente ogni evento, ma nel senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile.51

Ne Il visibile e l’invisibile ritroviamo la frase in questione in un passaggio cruciale,

a conclusione del primo capitolo che ha per oggetto l’interrogazione filosofica. Qui il

riferimento, in totale coerenza con l’impostazione dell’opera matura, è ontologico e

riguarda:

Lo svelamento di un Essere che non è posto, poiché non ha bisogno di esserlo, poiché è silenziosamente dietro tutte le nostre affermazioni, negazioni, e anche dietro tutte le domande formulate, non perché si tratti di dimenticarle nel suo silenzio, non perché si tratti di imprigionarlo nelle nostre chiacchiere, ma perché

50 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 24. 51 Ivi, p. 297.

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la filosofia è la mutua riconversione del silenzio e della parola: è l’esperienza ancor muta che deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso.52

Il commento più esauriente a questa “piccola frase” si ha però nel 1959 quando, in

occasione di una discussione con Alphonse de Waelehens53, Merleau-Ponty espone il

postulato husserliano come “il compito più difficile, quasi impossibile” assegnato da

Husserl alla fenomenologia. Compito realizzabile, benché la sua paradossale difficoltà

ne faccia uno dei nodi di maggior interesse, grazie ad una frequentazione del mondo e

ad un linguaggio che si manifestano come un “fare”54 e come un saper-fare prima di

essere tematizzati al livello del sapere esplicito.

Queste linee tematiche mutuate da Husserl, con la libertà propria di Merleau-Ponty,

tornano a intersecare, come in un gioco di specchi e di rimandi incrociati, la prospettiva

di Straus, lungo la già citata analisi dello strato patico della vita che Straus ha messo a

fuoco. Tale strato è infatti quello dell’esperienza al suo stadio genetico e germinale,

originario nel suo essere antecedente tanto alla costituzione del fenomeno come oggetto,

quanto alla costituzione del soggetto come suo correlato.

Abbiamo visto una certa cosa mille volte, e tuttavia non l’abbiamo mai vista veramente. Una domanda ci costringe a vederla correttamente per la prima volta. La prima visione era una visione del sentire, nella partecipazione dell’espressione; la seconda visione, invece, è una visione del percepire. La domanda ci introduce in un nuovo ordine della comprensione. Siamo stati interrogati da “qualcosa” (…) Nella visione del sentire il “qualcosa” era era solo qui ed ora per me, momentaneamente, transitoriamente. Ma ora dopo il passaggio al mondo della percezione, questo esserci-per-me è colto come un momento della serie generale degli eventi.55

In questo continuo rilancio della scommessa di risalire là dove la dimensione

percettiva precede quasi paradossalmente la percezione stessa, che vedremo confluire

mutatis mutandis nel problema sinestetico impostato da Dufrenne, agisce una forma di

consapevolezza del carattere attivo, originario e fungente della relazione percettiva tra

52 Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2003, p. 146. 53 Cfr. B. Waldenfels, Fair voir par les mots, “Chiasmi International” n. 1, 1999, p. 58. 54 M. Merleau-Ponty, La prose du monde, Gallimard, Paris 1965, ed. it. La prosa del mondo, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 54. 55 E. Straus, op. cit., p. 382.

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soggetto e oggetto. Si innesta qui uno dei cardini del nostro percorso e di questa

relazione storica e teorica che corre tra le diverse voci cui stiamo accennando. È il tema

della dimensione antepredicativa dell’esperienza, che Straus tematizza come originaria

apertura simpatetica ed empatica al mondo56 e nel quale Merleau-Ponty, derivandolo

direttamente da Husserl, insedia tutta la fenomenologia della coscienza percettiva che

costituisce la sua Fenomenologia della percezione.

Quella svolta da Merleau-Ponty è un’indagine intorno ai territori precategoriali

dell’esperienza57 in una costante interrogazione dell’originario a partire da corporeità e

56 Cfr. E. Straus, op. cit., pp. 423 e segg.: “Soprattutto, l’interpretazione del sentire come legame simpatetico con il mondo apre la strada alla comprensione dell’intero gruppo dei sintomi (…) L’individualità si trova con ciò racchiusa in un contesto che è già fondato e, insieme, ogni volta di nuovo da fondare. (…) L’esperire simpatetico viene prima del dubbio, e quindi prima della possibilità delle contraddizioni, delle ragioni e delle motivazioni.” Il capitolo è dedicato alla teoria delle allucinazioni e significativamente ripreso da M. Merleau-Ponty nella Fenomenologia, cit., pp. 180 e segg. 57 Il riferimento che storicamente non solo introduce ma anche supporta questa indagine merleau-pontiana è naturalmente rappresentato dalla meditazione di Husserl. Quest’ultima è però a sua volta fortemente debitrice dei contributi di Kant del quale egli mira in qualche modo a completare la prospettiva. È proprio Husserl (cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961) a notare come Kant sembri “accedere a una fondazione diretta, puntata sulle fonti originarie”, ma per interrompersi subito senza indagare il “fungere estetico” originario e fondativo di questa spontaneità. Il riferimento è in particolare a alcuni passi della Critica del giudizio che conviene qui sinteticamente ricordare. Sono quei passi in cui Kant, là dove si concede, con un excursus squisitamente illuministico, di tentare una suddivisione delle belle arti ne reperisce il principio più comodo nell’analogia dell’arte con “quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto più perfettamente possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni” (I. Kant, La critica del giudizio, Laterza, Bari 2007, p. 317). Tale partito linguistico ed espressivo rappresenta una importante novità introdotta in questa sezione, relativamente isolata, della Critica del giudizio. Viene con esso delineato uno statuto delle arti (e forse anche dell’estetica) fondato sulla definizione di esse come espressione e comunicazione di concetti e sensazioni, senza che alcuna considerazione rilevante sia concessa all’antico partito imitativo. Con questa cesura è permesso rintracciare il principio dell’artistico nell’espressione di idee estetiche e con ciò, infatti, iniziare a rilevare due elementi centrali: la speciale valenza conoscitiva riconosciuta all’esperienza estetica, in campo artistico ma non solo, e lo statuto peculiare riconosciuto al sentimento all’interno dell’intera Critica del giudizio. Le idee estetiche sono, per definizione, quelle “rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione a pensare molto, senza però che un qualunque pensiero o concetto possa esser loro adeguato; e che, di conseguenza, nessuna lingua può completamente esprimere e rendere comprensibili” (Ivi, p. 305). Esse esulano dunque dalla logica che obbedisce all’intelletto legiferante, aprendo una dimensione extradiscorsiva e portando sul piano del sensibile qualcosa che ad esso, e alle sue forme precostituite, non è del tutto riconducibile. Con questa indagine si apre la possibilità di leggere l’ambito gnoseologico secondo una fondamentale accezione simbolica, nel momento in cui le facoltà del soggetto rivelano una potenzialità eccedente, e forse superiore, rispetto alla semplice apprensione dei fenomeni sensibili. Questa capacità eccezionale, tutta umana, che si incarna nel genio e nella sua produttiva espressività, è quella che si manifesta nel trovare i modi adeguati alla rappresentazione comunicativa delle idee estetiche nelle loro qualità precategoriali. Il rapporto tra le facoltà si instaura tra immaginazione e intelletto, ma grazie alla libertà vigente in questa relazione, esso si estende fino a coinvolgere anche la ragione. La ragione, in occasione di un’intuizione dell’immaginazione nella libertà creatrice del genio, è spinta a pensare oltre la determinatezza dei concetti, fino a un’unione di sensibile e soprasensibile.

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percezione. Quest’ultima tematizzata come dimensione dell’ambiguità precategoriale

sfuggente ogni oggettivazione della coscienza tetica, diretta da una logica vissuta cui

l’intelletto non richiede rendiconto. La percezione, così come la descrive l’autore

francese, dischiude infatti la primordiale aderenza dell’io al mondo senza mai essere del

tutto categorizzabile negli univoci schemi del pensiero intellettuale. “Cercare l’essenza

della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita

per noi come accesso alla verità”58.

La sintesi operata dal corpo percipiente è di carattere prelogico, non si attesta nella

trasparenza di una coscienza tetica e percepire le cose significa, in prima istanza,

viverle59.

Sulla base di questa notazione, meno banale di quanto sembri, si attesta la

valorizzazione di un aspetto decisivo dell’intenzionalità, con il riconoscimento del

primato dell’intenzionalità fungente su quella tematica.

Non si tratta di sdoppiare la coscienza umana in un pensiero assoluto, che, dal di fuori, le assegnerebbe i suoi fini. Si tratta invece di riconoscere la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata ad un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi, e il mondo come quell’individuo preoggettivo la cui unità imperiosa prescrive alla conoscenza il suo scopo60.

Kant delinea quindi una conoscenza che, avendo di mira “ciò che trascende la natura”, configurandosi come “una coscienza del soprasensibile”, non si può spiegare perché irriducibile a un concetto, ma si può esprimere. Ciò significa precisamente “esprimere ciò ch’è inesprimibile nello stato d’animo in cui ci mette una rappresentazione e renderlo comunicabile universalmente” (Ivi, p. 311). Si parla, a questo proposito, di ipotiposi simbolica, cioè di una modalità di esibizione allusiva di quelle rappresentazioni prive di concetti adeguati che sono appunto le idee estetiche. L’idea estetica rivela la messa in atto di una esibizione simbolica, quindi non diretta e dimostrativa ma indiretta e analogica, del soprasensibile. La riflessione sul giudizio estetico porta alla rivelazione di come, nel libero gioco delle facoltà conoscitive suscitato da una bella forma e dal piacere libero e universale che ne consegue, al soggetto sia concessa l’esperienza di qualcosa che trascende il piano dei fenomeni determinati da una meccanicistica causalità. A partire dalla relazione del soggetto con oggetti apparentemente radicati nella sensibilità e nella contingenza si apre la possibilità di passare dal modo di pensare valido per i fenomeni a quello applicabile a realtà sovrasensibili. In tal senso, a partire da Kant, si può nominare la possibilità di una modalità di conoscenza simbolica, nella misura in cui la concezione espressiva dell’arte si trova direttamente collegata agli aspetti dei fenomeni non afferrabili in modo logico e pur tuttavia esteticamente ben presenti. Ne risulta, per l’esperienza estetica, una valenza gnoseologica peculiare che si può a giusto titolo configurare come conoscenza simbolica, che illumina quei territori sui quali non è possibile esercitare una conoscenza effettiva. 58 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 26. 59 Per un approfondimento di questi aspetti si veda S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 24 e segg. 60 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 27.

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L’intenzionalità fungente costituisce, nelle parole di Merleau-Ponty, “l’unità

naturale antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri,

nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio, più chiaramente che nella conoscenza

oggettiva”61 e che porta in evidenza l’originarietà ineludibile dell’atteggiamento

naturale, di carattere eminentemente sensibile-affettivo, nel quale si radica la verità

antepredicativa della nostra stessa vita. Esiste dunque uno scarto, che va riconosciuto e

tematizzato, tra l’intenzionalità tematica della coscienza rappresentativa, incarnata nel

Cogito riflesso, e la spontaneità selvaggia dell’intenzionalità corporea che ricorda come

anche la vita percettiva sia in filigrana attraversata da un’ineludibile intenzionalità.

Strumento teorico fondamentale è qui evidentemente la distinzione husserliana tra

intenzionalità d’atto e intenzionalità fungente, cioè tra un rapporto col mondo

configurato come conoscitivo in senso stretto e una modalità di relazione che lo

trascende. Nell’ottica merleaupontiana, un movimento intenzionale si impone come

base trascendentale da tematizzare non più, come per Husserl, in quanto intenzionalità

della coscienza, non più nell’ordine dell’oggettività già costituita o in quello di un atto

teoretico, bensì su un piano sotteso e precedente ognuno di questi atti, su un piano

fungente.

Per Merleau-Ponty questo si traduce in una riduzione iniziale dell’intenzionalità

alla corporeità quale base naturale indispensabile per ogni costituzione di senso.

L’introduzione e la seconda parte della Fenomenologia della percezione comprendono

una dettagliata analisi del fenomeno del sentire tesa a mostrarne la valenza di

intenzionalità primordiale. Al sentire corporale viene ricondotta ogni condizione del

pensiero concettuale e questo lo rende irriducibile alla sola ricettività e passività dei

sensi. Nemmeno le sensazioni più elementari, ad esempio le differenze di colore,

possono ridursi semplicemente a un certo stato del corpo passivamente sollecitato:

piuttosto “esse si offrono con una fisionomia motrice, avviluppate in una significazione

vitale”62.

61 Ibidem. 62 Ivi, p. 292. Cfr. E. Straus: “Il vedere non è solo un avere colore e luce, l’udire non è solo un avere suoni e rumori. Vedere e udire sono modi diveri della comunicazione del mondo, ed è per questo motivo

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La stessa vita fungente assume in quest’ottica il ruolo del trascendentale, che a sua

volta viene dunque fatto discendere sul piano più squisitamente estetico e quindi, in

ultima istanza, prettamente umano. “Il sentire è questa comunicazione vitale con il

mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita. È ad esso che

l’oggetto percepito e il percipiente devono il loro spessore. È il tessuto intenzionale che

lo sforzo di conoscenza cercherà di decomporre”63.

All’origine si colloca l’identificazione del più profondo nucleo di soggettività,

formulato filosoficamente nell’idea di una vita di coscienza anonima che, nella

Fenomenologia della percezione, si configura come Cogito tacito. Questo io silenzioso

che esperisce l’immediato contatto con la propria vita prima di esprimersi con la parola

è assunto a luogo di fondazione dell’io articolato nel linguaggio razionale che si

manifesta nel Cogito riflesso. Esso costituisce anche una forma di limite: non può

divenire oggetto di conoscenza ma solo forma di vita al di qua di qualsiasi

chiarificazione concettuale, è estraneo alla coscienza tetica.64

Tra la sfera percettiva e il Cogito si instaura un rapporto fondamentale, la cui

chiave di lettura, in ottica trascendentale, è primariamente rappresentata dall’aspetto

estetico della relazione tra corpo e oggetto.

Il trascendentale stesso è ridefinito alla luce della corporeità percipiente, il cui

fungere è rigorosamente estetico. Su questo piano si staglia l’importanza

dell’intenzionalità fungente, anonima ma sempre presente, originale, riconducibile alla

motilità. Come specifica Andrea Bonomi65, il corpo, non appartenendo al regno dell’in

sé, è animato da un movimento esistenziale polarizzato verso il mondo, e la coscienza si

configura come l’inerire alla cosa attraverso la mediazione del corpo. “Il corpo è il

nostro mezzo generale per avere un mondo”66.

che la sfera visiva è più strettamente affine al delirio, mentre quella uditiva è affine alla metamorfosi schizofrenica.” (op. cit., p. 425). 63 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 309. 64 È molto indicativo notare come la transizione dal Cogito tacito a quello parlato non sia descritta in termini di progresso ma piuttosto come un necessario appiattimento della pienezza della dimensione primordiale. 65 A. Bonomi, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano 1967, p. 71. 66 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 202.

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Il corpo si spoglia delle valenze oggettuali di cui è rivestito nella fisiologia classica,

per essere invece investito del ruolo di veicolo primo del nostro essere-al-mondo; esso è

il campo primordiale di ogni nostra esperienza, “mediatore di un mondo”67.

Inoltre, il sentire è quel primo atto grazie a cui ci è possibile costituire una certa

identità degli oggetti senza che si renda necessario l’intervento della riflessione. I sensi si traducono vicendevolmente senza aver bisogno di un interprete, si comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea. Queste osservazioni permettono di dare tutto il suo senso all’espressione di Herder: “L’uomo è un sensorio comune, che ora è toccato da una parte ora dall’altra.” Con la nozione di schema corporeo non è solo l’unità del corpo a essere descritta in modo nuovo, ma anche, attraverso di essa l’unità dell’oggetto.68

Il sentire rinvia certo alla ricettività corporea, ma la sua attività giunge fino alla

costituzione degli oggetti, con la loro unità e il loro senso.

Costituita inizialmente dai sensi senza l’intervento della facoltà riflessiva, la prima

identità degli oggetti percepiti precede dunque il cogito per ancorarsi profondamente in

un ambito pre-riflessivo. Si spiega in questo modo la qualificazione del sentire come

forma di intenzionalità pre-riflessiva.

Questa descrizione della peculiarità del corpo, e della sua intenzionalità nella

dinamica di apprensione del reale, può stendersi su due temi differenti, a loro volta

intrecciati al problema dell’espressione, generale e artistica: lo spazio e il simbolo.

In primo luogo, il corpo come soglia di apertura del nostro essere-al-mondo si pone

in una relazione peculiare con la categoria dello spazio69. Tra spazialità del corpo e

spazialità oggettiva esiste uno scarto, inevitabilmente aperto dalla valenza

trascendentale della relazione corporale. La spazialità del corpo è nettamente diversa da

quella degli oggetti esterni: essa “non è una spazialità di posizione, ma una spazialità di

situazione”70. In tal senso l’orientamento corporeo non è ricavabile dal riferimento

posizionale a coordinate esteriori, il Qui del corpo si configura come un Qui originario,

67 Ivi, p. 200. 68 Ivi, p. 314. 69 Certo anche la relazione temporale non è priva di interesse, ma necessariamente estranea alla trattazione in questa sede. Per un’esaustiva indagine di questo aspetto si veda A. Bonomi, op. cit., cap. V, p. 101 e sgg. 70 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 153.

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assoluto71. E assoluto è ugualmente il sapere sotteso alla presenza del corpo, quel sapere

innato che fa in modo che sempre si sappia “dov’è la pipa”72.

Nella chiarificazione del nostro essere-al-mondo attraverso il tema della spazialità

corporea si ritrova il tema dell’intenzionalità. Lo spazio corporeo, infatti, “può essermi

dato in una intenzione di prensione senza essermi dato in una intenzione di

conoscenza”73. È a partire dal corpo, dunque, che si incarna e concretizza quel principio

originario di presa sul mondo precedente la tematizzazione della coscienza tetica,

dell’intenzionalità d’atto. Si riconferma con ciò centrale il fungere originale

dell’intenzionalità corporea identificabile con l’apertura fondamentale della motilità.

Quest’ultima dischiude di fronte al soggetto un orizzonte di virtualità da rinnovare e

ristrutturare di continuo, condizione di possibilità di tutte le formalizzazioni

comportamentali a venire. In questa prospettiva, di carattere trascendentale, “il corpo è

eminentemente uno spazio espressivo”74.

C’è un originario inerire estetico, dove questo aggettivo assume tutte le valenze più

etimologiche possibile, alla base del rapporto uomo-mondo e soprattutto sulla soglia di

apertura di ogni possibile dinamica espressiva75.

In secondo luogo, è possibile vedere qui la rivelazione di una forma di valenza

simbolica che Merleau-Ponty tematizza dall’apertura dagli stessi atti corporali.

Nell’operazione del percepire avviene una simbolizzazione a livello dei registri

sensoriali ognuno dei quali viene spontaneamente tradotto negli altri. È quello che

Merleau-Ponty descrive come un dialogo intersensoriale, che permette l’accesso alla

cosa nella sua ipseità. Tuttavia,

71 Cfr. A. Bonomi, op. cit., p. 67. 72 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 153. 73 Ivi, p. 158. 74 Ivi, p. 202. In questo contesto teorico il corpo viene assimilato alle opere d’arte, “cioè esseri in cui non si può distinguere l’espressione dall’espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale”. Esso, come l’opera, si configura come un “nodo di significati viventi”, “un insieme di significati vissuti che va verso il proprio equilibrio” (Cfr ivi, pp. 216-218) Questa notazione rivelerà la propria efficacia là dove, con Dufrenne, passeremo all’analisi del problema sinestetico in relazione al campo artistico. 75 “Il mio corpo è il luogo, o meglio l’attualità stessa del fenomeno di espressione (Ausdruck), in esso l’esperienza visiva e quella auditiva, per esempio, sono l’una pregnante dell’altra, il loro valore espressivo fonda l’unità antepredicativa del mondo percepito e, attraverso di essa, l’espressione verbale (Darstellung) e il significato intellettuale (Bedeutung)”. (Ivi, p. 314)

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L’ipseità non è mai raggiunta: ogni aspetto della cosa che cade sotto la nostra percezione non è che un invito a percepire oltre, e una pausa momentanea nel processo percettivo. Se raggiungessimo la cosa stessa […] essa cesserebbe di esistere come cosa nel momento stesso in cui crederemmo di possederla.76

L’apprensione della cosa avviene percettivamente tramite uno schema corporeo i

cui aspetti sensoriali “sono immediatamente simbolici l’uno dell’altro perché il mio

corpo è appunto un sistema già fatto di equivalenze e trasposizioni intersensoriali”77.

Nell’unità antepredicativa della percezione si radica ogni possibilità di donazione di

senso, all’oggetto naturale ma anche agli oggetti culturali e ai significati intellettuali.

In questa prospettiva si chiarisce la valenza simbolica riconoscibile all’origine

medesima del nostro essere-al-mondo: le sensazioni corporee non vanno a costituire un

rigido schema estetico senza sbocco, bensì forniscono la possibilità stessa del nostro

“frequentare questo mondo, comprenderlo e trovargli un significato”78, costituendo il

corpo stesso come “simbolica generale del mondo”79.

Nell’originarietà di questa esperienza non tetica, preoggettiva e precosciente, infine

eminentemente estetica, si dipartono diverse intenzioni, ancora vuote, che

nell’esperienza della cosa potranno riempirsi del pensiero tetico. “La riflessione stessa

coglie quindi il suo senso pieno solo se menziona il contenuto irriflesso che presuppone,

di cui beneficia, e che per essa costituisce un passato originario, un passato che non è

mai stato presente.”80

Sono questi alcuni dei riferimenti teorici più densi che nel pensiero di Dufrenne

troveranno non solo ripresa, ma anche sviluppo autonomo e completamento originale.

Per quanto radicata in indagini di carattere estetico, quella di Dufrenne è una

filosofia che mira a sfociare in un’etica, nella quale l’uomo nella sua totalità patico-

pratica rappresenta il centro assoluto. Rispetto alla fenomenologia merleau-pontiana

Dufrenne si pone quasi con l’intento di chiudere, completandolo, un percorso che

l’amico, a causa della prematura scomparsa, non poté che lasciare abbozzato. È un 76 Ivi, p. 312. 77 Ivi, p. 314. 78 Ivi, p. 316. 79 Ibidem. 80 Ivi, p. 322.

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percorso che dalla fenomenologia della percezione aveva ormai preso con ogni evidenza

una direzione strettamente legata a problematiche ontologico-antropologiche di cui è

riccamente intessuto quell’archivio di temi che Merleau-Ponty si proponeva di

sviluppare, rimasti nelle densissime note di lavoro che seguono l’edizione italiana de Il

visibile e l’invisibile. L’ontologia cui guarda Dufrenne condivide l’orizzonte

antropologico di quella dell’ultimo lavoro merleau-pontiano: “Questo mondo, questo

Essere, fattività e idealità indivise, che non è uno, nel senso degli individui che

contiene, e tanto meno, nella stesso senso è due o più, non è niente di misterioso: è in

esso che abitano, a prescindere da ciò che ne diciamo, la nostra vita, la nostra scienza e

la nostra filosofia.”81

In entrambi i casi l’ontologia si presenta “decapitata” in senso esperienziale (se si

vuole “fenomenologico”); non si tratta di un ontologia husserliana, come tentativo di

cogliere descrittivamente il significato dell’esperienza in relazione alle singole “regioni”

di oggetti. Al contrario, quello che questi autori perseguono, è un incessante movimento

di interrogazione dell’Essere nelle sue esperienze grezze, in quella trama

“precateogoriale” che è carne delle cose e del visibile, che li fodera, li sostiene e li

alimenta e che ne rappresenta la possibilità e la latenza.

Al lavoro di Merleau-Ponty Dufrenne guarda in modo esplicito e programmatico,

tenendone sempre presente la lezione soprattutto relativamente ai temi di percezione,

coscienza percettiva e intenzionalità fungente. Sono infatti questi tre degli elementi

peculiari, cardini dell’ontologia come della prospettiva antropologica di Merleau-Ponty

che Dufrenne mutua dichiaratamente.

È qui, così come nella commistione con altre discipline extrafilosofiche che

l’autore programmaticamente non rifugge, che si può reperire un punto di contatto

peculiare e significativo con le istanze che altrove, teoricamente e geograficamente, si

andavano affermando.

81 Ivi, p. 136.

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Ci si riferisce in particolare a quella disciplina che, sotto l’etichetta

significativamente troppo ampia di antropologia filosofica, ha fatto la sua comparsa

ufficiale nella Germania negli anni Venti del secolo scorso.

I punti di tangenza tra la riflessione dufrenniana, nonché l’estetica in generale, e i

temi dell’antropologia filosofica sono molteplici e formano una costellazione teorica di

alcuni degli sviluppi più interessanti di temi centrali a entrambi gli orizzonti.

Prima di riservare spazio a tali incroci, sarà opportuno gettare un sintetico sguardo

sull’evoluzione storica dell’antropologia filosofica, così da intravedere quali percorsi

l’hanno introdotta e cercare di comprenderne il più efficacemente possibile le questioni,

le loro linee di sviluppo e la metodologia di indagine.

1.2 Antropologia filosofica: lineamenti storici

Se è nel Novecento che l’antropologia assume i caratteri che la portano a

rispondere ad esigenze in sintonia con quelle filosofiche, tanto da influenzare la

definizione di un settore di essa come antropologia filosofica, è però nel Settecento che

affondano le sue radici storiche, nello stesso humus e in quell’orizzonte di indagini e

interrogativi che, sotto aspetti altri ma non discordanti, conduceva altrove alla nascita

dell’estetica.

Dedicheremo ora alcuni cenni alle condizioni storiche che l’hanno introdotta e ne

hanno permesso di delineare le caratteristiche teoriche, anche se esse, come si mostrerà,

si intersecano di frequente e anzi si sovrappongono a quelle dell’antropologia tout court.

Vedremo anche come tali condizioni storiche abbiano un punto di passaggio

fondamentale nella meditazione kantiana e come proprio grazie a quest’ultima sia

possibile rilevare un punto di incontro fondamentale tra gli interessi che animano

l’antropologia filosofica e quelli che invece vivono nell’estetica.

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Come riflessione filosofica che mira a delineare una immagine unitaria di

quell’essere complesso che è l’umano, riflettendo sui risultati delle scienze che in modi

e con strumenti differenti si occupano dell’uomo, l’antropologia filosofica mira a porsi

come:

Scienza fondamentale dell’essenza e della costruzione essenziale dell’uomo; una

scienza fondamentale del suo rapporto con i regni della natura (regno anorganico, regno

delle piante, regno degli animali) e con il fondamento di tutte le cose; una sicenza della

sua origine metafisica essenziale e del suo inizio fisico, psichico e spirituale nel mondo;

delle forze e potenze che lo muovono e che egli muove; una scienza delle tendenze e

delle leggi fondamentali del suo sviluppo biologico, storico-spirituale e sociale, tanto

delle possibilità essenziali di questo sviluppo quanto delle sue effettualità. È qui

contenuto il problema psico-fisico anima-corpo e il problema poetico-vitale. Soltanto

una tale antropologia sarebbe in grado di dare un fondamento ultimo di natura filosofica

nonché, insieme, scopi della ricerca sicuri e definiti, a tutte le scienze che hanno a che

fare con l’oggetto “uomo”, alle scienze naturali e mediche, a quelle che si occupano

della preistoria, alle scienze etnologiche, a quelle storiche e a quelle sociali, alla

psicologia normale e alla psicologia evolutiva nonché alla caratterologia.82

Intenti apparentemente enciclopedici, che mostrano chiaramente un’esigenza forte,

alimentata dalla capillarizzazione scientifica che ha caratterizzato il grande sviluppo del

ventesimo secolo. In seguito alla inedita moltiplicazione e differenziazione delle scienze

relative ai diversi aspetti dell’uomo, ed al loro potenziamento esplosivo, infatti, ha preso

vita un tipo di approfondimento rispetto all’umano che ha costantemente privilegiato

l’analisi e la delimitazione di singole aree di interesse, a scapito della considerazione del

fenomeno umano nella complessità della sua unità.

Proprio alla complessità unitaria del fenomeno umano, invece, si è rivolta quella

nuova disciplina che, assegnando alla questione un posto centrale e principale, si

82 M. Scheler, Uomo e storia, in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Guida, Napoli 1988, p. 257

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proponeva di affrontarla secondo criteri e con strumenti indipendenti rispetto agli altri

problemi filosofici.

Quella che si manifesta nei primi decenni del Novecento è dunque una forma di

interrogazione del fenomeno umano che si pone il compito e il dovere di tenere conto

tanto dei risultati offerti dalle scienze quanto delle istanze che, al modo della filosofia,

conducevano a ribadire un’autorità disciplinare teorica nella complessità delle

caratteristiche dell’oggetto in questione.

Le risposte vengono dunque cercate secondo strade indipendenti, e solo in parte

parallele, da ogni logica costruzione di filosofie già compiute; strade che spesso

incrociano quelle delle scienze e che al grado di oggettività delle scienze, almeno delle

scienze umane, aspirano.

Prima ancora di essere filosofica, infatti, la disciplina dell’antropologia tout court

ha dovuto ritagliare il proprio spazio d’azione all’interno delle scienza umane andando a

configurarsi sì come una di esse, ma giungendo anche a esserne il minimo comune

denominatore, l’ambito da cui tutte le altre partono e ritornano.83

La disciplina dell’antropologia filosofica ha continuato a condividere questo

orizzonte, integrandolo però con le prospettive mutuate da quella sorta di “nuovo

umanesimo” che le correnti esistenzialistiche e fenomenologiche, nonché

neoidealistiche e spiritualistiche, aprivano. Uno degli impulsi più significativi è stato

poi senza dubbio rappresentato dalla crisi dell’ideologia positivista e scientista e dalla

reazione da parte della filosofia all’invasività totalizzante e fortemente tendente alla

frammentazione e specializzazione che caratterizzava le scienze.

83 La questione del rapporto con le altre scienza umane, che riguarda l’antropologia tanto nella sua accezione scientifica quanto in quella filosofica, è uno dei nodi teorici su cui si divide la sua storia. Per semplificare si può ricordare la bipartizione caratteristica tra l’accezione dominante in Germania e quella dominante in Francia e nei paesi anglofoni. La prima vede l’antropologia come studio dell’uomo da un punto di vista principalmente biologico da mettere in relazione sul piano morfologico e fisiologico con le altre specie; la seconda privilegia piuttosto le caratterisitiche comuni all’etnologia come ricerca sulle culture primitive e studio delle relazioni che hanno legato l’uomo e l’ambiente dai punti di vista culturale e sociale. Cfr. a questo proposito C. Tullio Altan, Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo, Bompiani, Milano 1993 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati-Boringhieri, Torino 1992.

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In nessun’altra epoca, come ha puntualizzato Maria Teresa Pansera84, le concezioni

sull’essenza e l’origine dell’uomo sono state così incerte, indefinite e molteplici nella

loro polisemanticità. “Noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto

completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso; in cui egli non sa più che

cosa è, ma nello stesso tempo sa anche che non lo sa.”85

Nel loro Le filosofie del Novecento86, Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari fanno

notare come la crisi dell’uomo e la frammentazione della sua autoimmagine si possano

in parte far derivare proprio da quegli sviluppi scientifici con i quali si erano raggiunti i

maggiori successi: l’astronomia copernicana, che aveva rimosso la terra, e con essa

l’Uomo, dal centro dell’universo87; l’evoluzionismo darwiniano, con cui all’Uomo

84 M. T. Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori Editori, Milano 2001, p. 3. 85 M. Scheler, Uomo e storia, cit., p. 257-258. 86 G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002. 87 Il riferimento ai mutamenti insorti in seguito alla cosmologia copernicana è più denso di conseguenze e significati rispetto all’antropologia, e a quella filosofica in particolare, di quanto si potrebbe a tutta prima presupporre. Il mondo copernicano è, infatti, quell’universo in cui, per la prima volta, viene messa a questione in modo esplicito la correlazione tra la concezione dell’astronomia e la coscienza che l’uomo ha di sé. L’uomo copernicano, come tematizza approfonditamente H. Blumenberg (cfr. H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, F.a.M., Suhrkamp 1974, tr. it. C. Marelli, La leggitimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, pp. 133-240 e pp. 372-489), ha preso coscienza della propria perifericità nell’universo che si presenta a lui nella propria imprescrutabile immensità, inchiodandolo ad una ormai impossibile identità tra ciò che vede e ciò che sa, tra evidenza visiva e realtà, natura e teoria. Secondo le metafora che Blumenberg teorizza, “geocentrismo ed eliocentrismo, ovvero acentrismo, diventano diagrammi dai quali si deve poter derivare un indice per capire cosa ci stia a fare l’uomo nel mondo. Questa direzionalità del nostro autointendimento ad opera della metafora cosmologica è diventata un topos della nostra attuale critica della situazione contemporanea, e si è così smarrita di gran lunga la differenza che c’è fra l’interpretazione metaforica di un risultato teoretico e l’assunzione della sua causalità a esplicazione di qualcosa da esso e con esso. Il mondo copernicano diventa la metafora per l’operazione critica che toglie legittimità al principio della teleologia, alla ‘causa finalis’, nell’insieme delle cause aristoteliche; e non c’è dubbio che solo la metafora copernicana fece esplodere primamente il pathos della deteologizzazione, che solo su di essa riposa una nuova coscienza di sé legata all’eccentricità cosmica dell’uomo”. (H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Buovier, Bonn 1960, tr. It. M. V. Serra, Paradigmi per una metaforologia, Mulino, Bologna 1969, pp. 139-140). O ancora, come scrive A. O. Lovejoy: “Solo dopo che la terra aveva perduto il suo monopolio, i suoi abitanti cominciarono a scoprire il proprio interesse maggiore nell’andamento generale degli avvenimenti terrestri, e giunsero a parlare finalmente delle loro vicende effettive e potenziali – per quanto il complesso di esse per comune ammissione non costituisse se non un episodio momentaneo nelle infinite vicissitudini del tempo e non avesse altra scena se non una minuscola isola in un cosmo incommensurabile e incomprensibile – come se il destino generale dell’universo dipendesse interamente da esse o in esse raggiungesse il suo compimento.” (A. O. Lovejoy, The great chain of being. A study of the history of an idea, Harvard Univ. Press 1936 tr. it. L. Formigari, La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 150-151). A partire dal XVI secolo non c’è campo umano che possa sottrarsi ai segni di questo epocale cambiamento epistemologico dove il concetto stesso di autoconservazione della specie, non più rassicurato dal calore della certezza divina, viene messo in discussione reclamando, di conseguenza, la massima attenzione sull’autoconoscenza della specie e, prima ancora degli individui. “Tratto caratteristico

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veniva sottratto ogni predominio nei confronti degli altri viventi; infine, la psicoanalisi

che, con il riconoscimento dell’importanza delle componenti inconsce della vita, aveva

reso persino il governo della coscienza appannaggio irraggiungibile.88

Se da una parte, inoltre, il massimo della frammentazione proveniva dall’ambito

scientifico, dall’altra le scienze umane non offrivano pacificazione migliore. Tutte

(psicologia, etnologia, sociologia ecc.) tendevano a riunire i propri esiti empirici sotto

l’egida di un’interpretazione unificante ed armonizzante.

Da una situazione storica e teorica di questo tipo deriverebbe quindi quel bisogno

così acuto di un intervento filosofico che, senza addentrarsi in metafisiche visioni

lontane dalle istanze della scienza, sappia ricomporre in unità la figura umana.

L’antropologia filosofica arriva a presentarsi dunque come quella branca del sapere

che elabora i dati forniti dalle singole scienze che riguardano l’uomo senza tuttavia

mirare a porsi né come loro supporto né come loro pari. “Ponendosi al crocevia tra

filosofia, scienze della natura e scienze dell’uomo, l’antropologia filosofica vuole

riallacciare i fili di un discorso che aiuti l’essere umano a recuperare la comprensione di dell’età nuova fu l’affermazione della vita; l’uomo e i suoi rapporti naturali con l’ambiente divennero il centro dell’interesse. Vivere, far valere la propria volontà di potenza, godere la bellezza della vita e dei riflessi di essa, la letteratura e l’arte: ecco il nuovo complesso di vita, che allora si presentò alla coscienza. Di tutto ciò si ebbe il riflesso filosofico in un’ampia letteratura, che aveva per oggetto l’uomo, la condizionalità fisiologica della vita dell’anima, la potenza degli affetti, i temperamenti, la diversità dei caratteri negli individui e nei popoli, la fisiognomica e il rimanente corredo dei mezzi atti a far conoscere i caratteri e infine le conseguenze che da questa scienza dell’uomo si potevano far derivare per la condotta morale. (…) La letteratura che così si andava formando possiede la sua dottrina di scuola, costituita da una nuova antropologia. Questa, a differenza della psicologia moderna, esamina lo stesso nucleo sostanziale della natura umana, il nesso vitale, nel quale si esprimono il contenuto e i valori della vita, i gradi evolutivi di tale espressione, i rapporti con l’ambiente e infine le forme individuali di esistenza per le quali l’uomo si differenzia. (…) Il tratto più saliente di essa consiste nella mutata valutazione della sensibilità umana nel campo della percezione e dell’affetto.” (W. Dilthey, “La funzione dell’antropologia nella cultura dei secoli decimosesto e decimonono”, tr. it. G. Sanna in Id. L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 210-218). Notazioni su questo tema non mancano neppure nei più noti rappresentanti dell’antropologia filosofica. H. Plessner afferma: “La svolta copernicana non è una semplice metafora. Nel suo segno sta tutto il mondo moderno.” E ancora Gehelen scrive che il potenziale di autocomprensione offerto dall’immagine cosmologica è un elemento antropologicamente costitutivo. Che per esempio l’uomo sia attratto da ritmi e regolarità astrali la si deve a una sorta di risonanza “che è per così dire una specie di senso interno dell’uomo per il proprio elemento costituzionale e risponde a ciò che nel mondo esterno presenta affinità con tale propria costituzione: e se noi oggi parliamo ancora del corso degli astri, dell’andamento di una macchina, questi non sono paragoni superficiali, bensì autoconcezioni di determinati tratti caratteristici dell’uomo, oggettivati per il fenomeno di risonanza, dell’uomo che interpreta il mondo secondo la sua immagine e viceversa se stesso secondo immagini del mondo.” (A. Gehelen, Der Mensch im technischen Zeitalter, Rowohlt, Munchen 1957, tr. it. A. B. Cori, L’uomo nell’era della tecnica, Sugarco, Milano 1984, p. 25). 88 G. Fornero, S. Tassinari, op. cit., p. 1308.

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se stesso e a identificare i tratti caratteristici della sua esistenza”89. La risposta

antropologica alla frammentazione dei saperi nonché dei livelli di realtà mette in campo

quindi una forma di reazione a un decentramento e una capillarizzazione ancor più

generali; al punto che il compito antropologico è stato definito come “interpretazione

filosofica dei risultati scientifici”90. Il riferimento all’empiria è sì centrale, senza tuttavia

che l’oggetto in questione sia costituito realmente ed esclusivamente dai dati empirici.91

Al contrario di quanto avveniva nell’antichità92 risulta impossibile basare qualsivoglia

ricerca sulle certezze che provengono da dicotomie rigide e accertate come quelle che

tradizionalmente tagliavano il mondo biologico, con la contrapposizione tra uomo e

animale, o il mondo politico, con quella tra libero e schiavo o tra uomo e barbaro.

In questo quadro disarticolato e frammentato si inserisce dunque la nascita di

questa disciplina che risente e anzi incarna essa stessa lo spirito del tempo da cui prende

vita, tanto da aver condotto a parlarne come di una “tendenza fondamentale” di

un’epoca. Stiamo parlando degli anni Venti, uno dei periodi più fervidi e intensi della

storia del Novecento: gli anni “dell’inestricabile incrocio di conservatorismo e

avanguardismo, di volontà innovativa e clima melanconico”93, gli anni della repubblica

di Weimar. Sono gli anni in cui si avvertono con maggior veemenza gli effetti dei

mutamenti epistemologici avvenuti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e

in cui essi si mischiano, con risultati imprevedibili, con crisi di tutt’altro genere come

quella sociale, politica e culturale94. “Grande è la ricchezza di un’epoca in agonia, di

89 Ibidem. 90 J. Habermas, Antropologia, in Aa. Vv., Filosofia, Feltrinelli, Milano 1966, p. 20. 91 Questo è un aspetto che avvicina significativamente l’antropologia all’epistemologia, dalla quale tuttavia resta sempre ben distinta per quanto concerne le finalità: l’antropologia ha infatti di mira la costituzione di un’immagine globale dell’uomo e non la delineazione di una logica e metodologia di ricerca rigorosa come è per l’epistemologia. 92 Sull’antropologia antica cfr. R. B. Onians, The origins of european thought about the body, the mind, the soul, the world, time and fate, tr. it P. Zaninoni, Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano 1998; M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari, donne all’origine della razionalità scientifica, Saggiatore, Milano 1979; M. Vegetti, P. Manali, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, Episteme ed., Milano 1977; M. Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Bollati-Boringhieri, Torino 1988; G. Reale, Corpo, anima, salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano 1999. 93 M. Russo, La provincia dell’uomo, La città del sole, Napoli 2000, p. 158. 94 Benché la gran parte dei movimenti culturali legati al periodo di Weimar – espressionismo, architettura funzionale, fisica della relatività, psicanalisi e psicologia del profondo, sociologia della conoscenza, atonalismo ecc. – risalissero agli anni prebellici, fu a partire dagli anni Venti che essi: “penetrarono nella coscienza popolare e cominciarono ad influire sull’atteggiamento della gente verso se stessa e verso il

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una sorprendente epoca di confusione in cui si mescolano sera e mattina, negli anni

Venti.”95

La cultura e la filosofia sono significativamente segnate da due tipi di eco96: da una

parte il requiem spengleriano del Tramonto dell’occidente, dall’altra la preoccupata ma

mondo nel quale viveva. (…) Fu quindi soltanto negli anni Venti che vennero organizzate speciali esposizioni di artisti moderni e che i visitatori dei musei si abituarono a vedere i pittori rompere con tutti i canoni formalistici del passato. La cultura di Weimar fu prevalentemente moderna anche perché quelli che la crearono sentivano di appartenere a una nuova età e credevano di vivere anche loro in una nuova epoca nella quale tutto doveva essere creato di nuovo. La guerra aveva scavato un enorme abisso tra loro e il passato, le cui istituzioni, tradizioni e valori erano stati distrutti senza rimedio, e sentivano tutto questo come una liberazione e una sfida. (…) Questa sensazione dell’inizio di qualcosa di nuovo, quest’ansia di essere diversi e di fare le cose in maniera diversa fu la caratteristica dello stile degli anni venti. (C. Craig, Germany 1866-1945, Oxford Univ. Press, 1978, tr. it. O. A. Merla, Storia della Germania 1866-1945, Ed. Riuniti, Roma 1983, p. 509). A molti elementi della modernità (tecnica, democrazia, avvento delle masse, assenza di assoluti) si cercò di dare una risposta, e non un rifiuto inappellabile, per mezzo di nuovi strumenti teorici e artistici. Tale “modernismo” si accompagna però a una diffusa “ansia di totalità”, la spinta regressiva che trovava appagamento in parole come ‘popolo’, ‘organismo’, ‘impero’, ‘comunità’, ‘capo’ fino a rendere questa ansia da totalità intrisa d’odio. “Il mondo politico, e talvolta anche il privato, fu un mondo paranoico, fitto di nemici: la meccanizzazione disumanizzante, il materialismo capitalista, il razionalismo ateo, una società sradicata, il cosmopolitismo ebreo e il grande mostro che tutto divora, la città.” (P. Gay, Weimar culture. The outsider as insider, 1968, tr. it. M. Merci, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 1978, p. 132). Il tratto più caratteristico di questa collisione tra ‘ansia di totalità’ e coscienza del nuovo risulta essere un certo distacco, quell’atteggiamento ironico immortalato da Musil e professato da Thomas Mann, il cui figlio Klaus, peraltro, ebbe a scrivere “noi siamo una generazione che ha, per così dire, in comune una sola cosa: la perplessità. Infatti non abbiamo trovato ancora uno scopo per il quale unirci in uno sforzo comune, anche se tutti partecipiamo alla ricerca di esso” (cit. in G. Craig, op. cit., p. 516). Plessner stesso scrive a proposito degli artisti: “Per questi uomini che perseguivano l’opera rivoluzionaria prima della guerra, in un’epoca di trasformazione, era sopravvissuto soltanto l’atteggiamento ironico verso una società già in sé dissestata ma non ancora crollata. Ciò si manifestava nella tendenza alla sperimentazione e al controllo razionale delle premesse – tendenza finora tenue e del tutto secondaria – del lavoro letterario, rappresentativo, architettonico e musicale. Schonberg, Brecht, Klee, Musil, Gropius mettono in evidenza questa nuova serietà distanziandosi ironicamente dalla realtà, che aveva assunto in sé e superato la cultura formalistica del tardo romanticismo della rivoluzione etico-estetica intorno al 1900. Questa serietà era nata dal fuoco della delusione, dell’umiliazione nazionale e umana, dalla disperazione e dal definitivo disincantamento, dal ferimento e dalla rivolta, questa volta non più soltanto artistica bensì dell’uomo stesso. (H. Plessner, La leggenda degli anni venti, in Al di qua dell’utopia, cit. pp. 100-101). Cfr anche W. Laqueur, Weimar. A cultural history, Weidenfeld a. Nicolson, London 1974, tr. it. L. Magliano La repubblica di Weimar, Rizzoli, Milano 1979 e J. Willet, The new sobrietà. At and politics in the Weimar period, Thames a. Hudson, London 1978. 95 E. Bloch, Erbschaft unserer Zeit, (1935), tr. it. L. Boella, Eredità del nostro tempo, p. 5. 96 Due, senza considerare una delle posizioni più dense. È opportuno ricordare, infatti, per l’assoluta importanza dell’impatto generato in seno alla cultura dell’epoca e successiva, che è su questa scena che irrompe, nel 1927, Heidegger con Essere e tempo. M. Russo (op. cit., p. 161) rileva che, nonostante la forza innovatrice, dimostrata appunto dall’immediato successo riscosso, tale opera fu da molti recepita come una fondazione dell’antropologia, o comunque come un’opera da inscrivere nella dominante inclinazione antropologica della filosofia recente. In fondo Heidegger sembrava caduto vittima di uno stato di cose che egli stesso ha saputo perfettamente diagnosticare: “Oggi la parola ‘antropologia’ non è più da gran tempo il semplice nome di una disciplina, ma indica la tendenza fondamentale della posizione attualmente assunta dall’uomo sia rispetto a se stesso sia rispetto alla totalità dell’ente. Secondo questa posizione fondamentale, si ritiene di conoscere e di comprendere qualcosa solo quando si sia trovata una

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fiduciosa ridiscesa alle fonti della “costituzione originaria del senso” che Husserl

progetta nella Crisi delle scienze europee. Mentre ancora vive l’influsso neokantiano, si

fa strada con acutezza il problema della storia97, si acclimata la filosofia della vita e

viene applicato sempre più di frequente, con rigore variabile, il metodo

fenomenologico.98

spiegazione antropologica al riguardo. L’antropologia non cerca soltanto la verità intorno all’uomo, ma pretende di stabilire che cose saignifichi, in generale, la verità.” (M. Heidegger, Kant una das Problem der Metaphysik (1929), tr. it. M. E. Reina, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 181). A parte ogni eventuale affinità, è al passo seguente che si imputa generalmente la causa dell’equivoco e della impossibile sovrapposizione del pensiero di Heidegger con qualsivoglia tradizione antropologica: “l’analitica dell’Esserci non pretende di offrire un’ontologia completa dell’Esserci, ontologia che deve essere certamente costruita se qualche cosa come un’antropologia ‘filosofica’ deve poggiare le basi su qualcosa di filosoficamente sufficienti. In vista di un’antropologia possibile o della sua fondazione ontologica, l’interpretazione che segue non offre che alcuni frammenti, anche se tutt’altro che inessenziali.” (M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1978, p. 72). Per un quadro della ricezione di quest’opera in quegli anni si rimanda a C. Strube, Kritik und Rezeption von ‘Sein und Zeit’ in den ersten Jahren nach seinem Erscheinen, in “Perspektive der Philosophie”, 9, 1983, pp. 41-67, in cui è interessante vedere che essa, mentre per tutto finalmente rompe in modo decisivo con la filosofia ‘teoreticistica’, avvicinandosi alla filosofia della vita e all’antropologia, viene da perte di queste ultime criticata perché ancora troppo formale, universalizzante e finto concreta. Del resto, nonostante la sempre rimarcata differenza, lo stesso Plessner rileva: “Sulla portata relativa ad una critica radicale di tutta la metafisica fino ad oggi e alla rifondazione dell’ontologia si deve dare un giudizio scettico. Ma come paradigma di una nuova dottrina dell’uomo Essere e tempo non ha ancora esaurito il suo ruolo. Ha dato un esempio, e rinvia, traversando il vincolo che lo lega all’epoca in cui è sorto, ben oltre la sua epoca.” (H. Plessner, Deutsches Philosophieren…, cit., p. 161). La critica heideggeriana all’antropologia era comunque di vecchia data, iniziata già in occasione del corso del ’23, Ontologie – Hermeneutik der Faktizitat (tr. it. G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, Guida, Napoli 1988, p 29 e segg.) in cui il bersaglio polemico era Scheler. 97 È naturalmente all’opera spengleriana che si deve la ripresa programmatica del problema della storia. Come scrisse Plessne: “Non più gli eventi, non le prospettive, appartenenti a essi, di speranza e paura, di tradizione e attesa, collegano il filo della storia. Con la relativizzazione delle norme, dei valori e degli ideali, essa si disfa, lasciando come residuo una determinazione dell’essere umano altrettanto puramente formale quanto fatale: la sua storicità. Questa può significare tutto, ma per se stessa non significa nulla. Il successo di Spengler, per quanto affettivamente condizionato dalla situazione di allora (la nostra sconfitta come parte di un generale declino, anche dei vincitori), aveva ragioni più profonde. Innanzitutto, il proprio mondo perde gravità nella coscienza di una relatività globale, che penetra spazio, tempo, concetti, assiomi, valorizzazioni. (…) Ma poi, l’aspetto relativo acuisce l’autocoscienza, sottraendole la base ritenuta ovvia nella vita quotidiana. Noi tutti crediamo di vivere in una natura indipendente da noi, la quale possiede un suo fisso ordine. Facciamo affidamento nella ragione, negli imperativi della coscienza morale e della bellezza, quasi parlassero a tutti gli uomini di tutte le epoche. Che così di fatto non sia, che niente di ovvio, nessuna permanente base in temporale per tutte le epoche ci sia (le più elementari verità dello spazio, della logica e della matematica comprese), risospinge l’uomo su se stesso, lo discopre a se medesimo”. (H. Plessner, Deutches Philosophieren in der Epoche der Weltkriege (1953), cit. in M. Russo, op. cit, p. 160). 98 Lo stesso Husserl non manca di fare riferimento alla situazione dell’epoca e alla posizione, in seno ad essa, dell’antropologia filosofica: “Nell’ultimo decennio, com’è noto, si sta imponendo tra le nuove generazioni della filosofia tedesca una crescente dedizione all’antropologia filosofica. La filosofia della vita di Wilhelm Dilthey, un’antropologia sotto nuove vesti, esercita un grande influsso. Anche il cosiddetto movimento fenomenologico è catturato dalla nuova tendenza. Si dice che soltanto nell’uomo, e in ispecie in una teoria riguardante l’essenza del suo esserci concreto e mondano, risiederebbe il vero

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Il clima generale che contraddistingue umori e pensieri è quello che è stato definito

da Menscheitsdammerung, descritto tanto chiaramente da Karl Jaspers in un testo,

Situazone spirituale del tempo (1931), divenuto paradigmatico:

Da più di mezzo secolo si è fatto questione della situazione spirituale del tempo; ciascuna generazione ha risposto secondo le proprie circostanze. Ma se prima si trattava di una riflessione di pochi, i quali avvertivano la minaccia del nostro mondo spirituale, adesso, da dopo la guerra, ognuno si trova coinvolto in questa questone. (…) Ci furono tempi in cui l’uomo avvertiva il suo mondo come un mondo permanente, incastonato tra una scomparsa età dell’oro e una fine del mondo promanante dalla divinità. A confronto con questi tempi, l’uomo è sradicato, sapendosi collocato solo in una determinata situazione storica dell’esser umano. È come se egli non potesse più sostenere l’essere. Noi vorremmo penetrare il fondo della realtà nella quale stiamo; perciò è come se il terreno ci sprofondasse sotto i piedi: giacché, andata in frantumi l’irrefrangabile unità, non vediamo che un mero esistere, da un lato, e la nostra e altrui coscienza di questo esistere dall’altro. Noi non riflettiamo solo sul mondo, ma anche su come viene concepito, e dubitiamo della verità di ogni concezione; dietro ogni uità apparente dell’esserci e della coscienza di esso, scorgiamo di nuovo la differenza tra mondo reale e mondo saputo. (…) Si è diffusa la consapevolezza che tutto fallisce; non c’è nulla che non possa essere messo in questione; niente di autentico riesce a comprovarsi; è un vortice infinito, consistente nel reciproco inganno e nell’autoinganno attraverso ideologie. La coscienza dell’epoca si separa da ogni essere e s’affaccenda con se stessa. Chi pensa così sente se stesso come un nulla. La sua coscienza della fine è al tempo stesso coscienza della nullità del suo proprio essere. La sradicata coscienza dell’epoca è finita sottosopra. 99

Se questo è stato lo spirito del tempo, l’insieme mostrava con chiarezza tutti i suoi

elementi di criticità. L’epoca tutta è stata di fatti descritta come “nata sotto il segno del

fondamento della filosofia. In questo si ravvisa una necessaria riforma dell’originaria fenomenologia della costituzione, una riforma solo attraverso la quale essa raggiungerebbe l’autentica dimensione filosofica. Viene compiuto dunque un completo rivolgimento dell’atteggiamento fondamentale iniziale. Mentre la fenomenologia originaria, maturatasi poi come trascendentale, respinge la partecipazione di qualunque tipo di scienza dell’uomo al lavoro di fondazione filosofico, adesso dovrebbe valere invece il contrario: la filosofia fenomenologica dovrebbe essere ricostruita in modo completamente nuovo a partire dall’esserci umano. In questa discussione ritornano, in veste rinnovata, le vecchie contrapposizioni che avevano agitato la filosofia dell’età moderna. Fin dall’inizio, la tendenza che tipicamente appartiene a quest’epoca si esplica in due direzioni contrapposte: l’una in quella antropologica (o psicologistica), l’altra in quella trascendentalistica. La fondazione soggettiva della filosofia, avvertita costantemente come necessità, deve effettuarla senz’altro – così dice una parte – la psicologia. Dall’altra si esige una scienza della soggettività trascendentale, completamente nuova, solo sulla cui base tutte le altre scienze, e dunque anche la psicologia, andrebbero fondate filosoficamente.” (E. Husserl, Phanomenologie una Anthropologie, in “Philosophy and phenomelogical research”, II, 1941-1942, p. 1). 99 K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, cit., pp.5-6, 15.

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‘soggetto’”, di cui doveva probabilmente scontare tutti gli sdoppiamenti intrinseci:

soggetto e uomo, ‘io’ trascendentale e ‘io’ empirico.100

A questo si aggiunge la situazione tecnico-scientifica, cui abbiamo già accennato, e

le molteplici risposte che da tale ambito vengono date al problema uomo. “Quello che

esse hanno da offrire in positivo viene largamente superato dalla ulteriore entificazione

cui inevitabilmente riducono l’esistenza umana.”101 La ricerca si spinge verso

profondità inesplorate, dimensioni altre in cui ricompattare in un ordine nuovo quel

100 È lo stesso Plessner a proporre una lettura della filosofia dell’epoca, reputata esistenzialistica, o metafisica, o autoscientista, nei termini di una reazione in cui ontologismo nichilistico, l’eroicizzazione della finitezza e della singolarità apparivano piuttosto una fuga dalla crisi del tempo che un prenderne solo distanza critica. La reazione sarebbe quindi stata sintomo evidente del suo stato di crisi. La lettura plessneriana inserisce tale crisi nel quadro della defunzionalizzazione della filosofia, via via acuitasi nell’età del capitalismo avanzato, di cui ci si riesce a fare un’idea esatta solo collegandola al ‘caso Germania’. L’idea chiave, esplicitata da M. Russo (op. cit. pp. 165,166) è quella del ritardo storico che affligge la storia tedesca: “quando nei secoli Sedicesimo e diciassettesimo le principali nazioni europee avevano formato stati nazionali e sviluppato una concezione dello stato e della società civile, istituendosi così una simmetria tra sviluppo politico-economico e coscienza sociale e culturale, la Germania era frammentata in numerosi staterelli. Il ruolo di potenza unificatrice toccò pertanto – a fronte della religione del lavoro e della verità interiore – a intellettuali e in particolare filosofi. Ma ad un’unificazione solo concettuale, cui fa riscontro la verità coscienziosa del singolo, non corrisponde alcuna unità reale né una effettiva coscienza politica. L’occasione per la formazione di una cosciente Zivilisation (che comporta un’accettazione dell’anonimia, dell’estraniazione, della convenzionalità, dell’abilità diplomatica, proprie della sfera pubblica, sfera della superficialità), da potersi vivere senza scissioni schizofreniche, mancò e almeno fino alla catastrofe nazista tale mancanza non poté essere più recuperata. Lo scompenso tra Kultur e Zivilisation è l’emblema del ‘ritardo’, del dislivello endemico della storia tedesca; grandezza e miseria della Germania cominciano qui. Con l’unificazione bismarkinana e l’enorme crescita economica, scientifica e industriale, la Germania si trovò – da idea di nazione senza nazione reale - ad essere una “grande potenza senza idea di stato”, uno stato cioè dove la potenza reale è tutto. L’importante ruolo ‘formatore’ degli intellettuali – che spiega non solo la straordinaria ricchezza della filosofia tedesca, ma la sua ‘serietà’ esistenziale, la ‘missione’ vitale di cui si sentiva investita – viene sminuendosi, sostituita com’è dal meccanismo di produzione e dall’industrializzazione della scienza. Il controllo sulla politica e sullo stato, sia pure nella forma irreale della speculazione e della letteratura, viene meno; i tentativi di inserirsi, di esercitare una funzione diretta di indirizzo vengono troppo tardi rispetto alle modificazioni in atto. L’assenza di una reale identificazione con lo stato-nazione, dunque di una partecipazione cosciente alla cosa pubblica, spiega il bisogno di trovare “radici” altrove, bisogno che sfocia da un lato nella mitizzazione del passato eroico, nell’ideologia del popolo e della razza, nell’enfatizzazione comunitaria. Dall’altro, per gli intellettuali che non condividono queste posizioni, si pone il problema di una ridefinizione di ruolo, compressi come sono per un verso nella Zivilisation industriale, dall’altro dalle masse ‘incolte’ ma sempre più dominanti proprio in virtù dello sviluppo economico. Il più delle volte la soluzione risulta essere il recupero di una autentica dimensione individuale (decisionismo esistenziale), il ripristino in varie forme di una sovradeterminazione dell’essenza della filosofia. L’acutezza con cui venne avvertita l’irrappresentabilità della totalità e di un’immagine unitaria dell’uomo fu pari solo alla forza con cui prima era stata costruita. Il radicalismo critico della filosofia tedesca andò di pari passo con la propria progressiva disintegrazione e defunzionalizzazione sociale. Lo stesso processo di crisi non fu così virulento in quei paesi dove la filosofia non era stata investita (proprio perché il ceto che la esercitava era parte effettiva di una società meno disarticolata) di tanta significatività e da lungo tempo s’era abituata ad una disincantata osservazione analitica del tipo ‘uomo’ (quel disincanto scettico che la ‘profondità’ germanica dileggiava come ‘superficialità’).” 101 M. Russo, op. cit., p. 168.

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mondo improntato alla più disorientante fluidificazione dell’esperienza. Persino delle

correnti artistiche, in particolare dell’espressionismo, si arrivò a scrivere come

dell’unica forza capace di attingere una “nuova immagine dell’uomo” in mezzo al “caos

di distruzione della realtà”102. E in mezzo a tale caos neppure il ceto intellettuale ed

accademico si sentiva in grado di svolgere quella funzione d’orientamento e formazione

che precedentemente aveva incarnato secondo il modello di Humboldt, fondatore

dell’università di Berlino.103 “Buona parte della propria crisi di stato si trasfuse in una

diagnosi di universale crisi della cultura; il tema della crisi divenne una specie di rituale,

una moda, un’ossessione, resa sublime solo dalla talora stupefacente fora analitica e

diagnostica.”104 Sul piano filosofico il contraccolpo si manifesta nel radicalismo dei

nuovi progetti filosofici nel cui solco l’antropologia filosofica si insedia proprio

rispondendo, dopo la sparizione di ogni certezza del soggetto, a questa sorta di appello

perché l’”uomo” potesse essere “salvato”. E il primo passo verso questa redenzione si

concretizzò nel ricondurre ogni disperso spaesamento a una singola domanda, che

l’antropologia filosofica ha raccolto e direttamente affrontato: chi è l’uomo?

“Abbattuti gli idoli, abbattuti i ‘megaracconti’, abbattuta persino, come in una sorta

di vendicativo genium malignum cartesiano, la consistenza della realtà, la compattezza

dell’esperienza, ci si chiese se e cosa resta dell’uomo medesimo. L’uomo senza qualità

è fatto di qualità senza l’uomo; di questo antico personaggio sembrano esistere ormai

solo più i sintomi.”105

102 G. Benn, Expressionismus (1934), tr. it. a c. di L. Zagari in Id., Lo smalto del nulla, Adelphi, Milano 1992, pp. 152-153. “Realtà, demonico concetto proprio dell’Europa: felici solo quelle epoche e generazioni in cui ce n’era una indubitabile, quale profondo primo tremito del Medioevo al dissolversi di quella religiosa, quale fondamentale scosa ora, dopo il 1910, al frantumarsi di quella scientifica, divenuta ‘reale’ ormai da quattro secoli. Nuova realtà, perché la scienza potè evidentemente distruggere solo quella antica, l’uomo guardò dentro di sé e dietro di sé. Fuori si dissolsero i più antichi resti della realtà, e ciò che rimase furono solo relazioni e funzioni. Dissoluzione della natura, dissoluzione della storia… persino le forze più concrete come stato e società ormai impossibili da afferrare come sostanza, sempre solo il funzionamento in sé e solo il processo in quanto tale…geniale psicologia della razza bianca: impoverita ma maniacale, sottonutrita ma sovraeccitata; con venti marchi nella tasca dei pantaloni prendono le distanze da Sils Maria e dal Golgota e si comprano le formule del processo funzionale. Questo fu il periodo 1920-25, questo era il mondo votato al tramonto.” 103 Cfr. F. K. Ringer, Die Gelehrten. Der Niedergang der deutschen Mandarine 1890-1933, Klett, Stuttgart 1983, p. 229 e segg. 104 Ibidem. 105 M. Russo, op. cit, p. 173. Nella stessa sede si rimanda opportunamente alla seguente citazione: “Non esiste più affatto l’uomo, esistono ancora solo i suoi sintomi. In questi cinquant’anni abbiamo visto strani movimenti, l’estinguersi e l’accendersi di cose nuove, soprattutto: la liquidazione della verità e un porre le

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Così lo stesso Scheler:

Sicchè noi possediamo tre antropologie, una scientifica, una filosofica, una teologica, le quali non si curano l’una dell’altra – un’idea unitaria dell’uomo, però, non la possediamo. Inoltre la crescente moltitudine delle scienze specialistiche che s’occupano dell’uomo, nasconde, per quanto preziose esse possano essere, l’essenza dell’uomo più che non illuminarla. Se si pensa poi che i tre menzionati gruppi di idee tradizionali oggi sono notevolmente scossi, in particolare la soluzione darwinistica del problema dell’origine dell’uomo, si può allora dire che l’uomo mai, in nessuna epoca, è diventato così problematico a se stesso. (…) Nonostante, dunque, la ricchezza delle informazioni di cui disponiamo, l’autoproblematicità dell’uomo ha oggi raggiunto un massimo sconosciuto alle altre epoche.106

In definitiva si può dire che è una forma di esasperata autoproblematicità

dell’uomo a dar vita, in questo preciso momento epistemico, tanto allo sfondo filosofico

dell’antropologia quanto, viceversa, allo sfondo antropologico della filosofia107. E come

nota Scheler:

Posso constatare con soddisfazione che oggi i problemi di un’antropologia filosofica sono addirittura diventati in Germania il punto centrale di tutta la problematica filosofica, e anzi ben oltre l’ambiente filosofico, biologi, medici, psicologi e sociologi, lavorano ad una nuova immagine della costituzione essenziale dell’uomo.108

Il riferimento ad esponenti di altre discipline, che abbiamo già visto caratterizzare

l’indirizzo disciplinare in questione, assume un connotato di ulteriore significatività nel

momento in cui di esso si comprenda la portata all’interno di una ricerca intellettuale fondamenta dello stile. Non bastano più le interpretazioni per andare avanti, il destino lavora, la trasmutazione si volge dalla nostra parte. Fra poco le luci di bengala della crisi e gli articoli di terza pagina sui fondamenti delle cose non saranno altro che pascolo per gli struzzi o una steppa sulla quale corrono le volpi. Ottimismo e pessimismo si abbracceranno come due giovani nella fornace di fuoco, e le loro ceneri un vento mongolico le disperderà. Scappatoie non ce ne saranno più, i tentativi di ricostituzione del centro perduto avranno l’effetto di un movimento di riforma, come il Mazdaznan.” (G. Benn, Lo smalto…, cit. pp. 264-265). 106 M. Scheler, Die stellung der Menschen in Kosmos (1928), in Id. Schriften zur Anthropologie (a c. di M. Arndt), Reclam, Stuttgart 1994, pp. 126-128. 107 “Quando la potenza della unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno dell’antropologia.” (G. W. F. Hegel, Primi scritti critici, Mursia, Milano 2006, p. 15). 108 M. Scheler, Stellung, cit., p. 126.

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che cerca altresì i mezzi per tematizzare e affrontare aspetti come l’essere organico,

l’espressività corporea, l’emozionale, la fantasia, l’inconscio, insieme alle loro

manifestazioni culturali. E infatti, in maniera quasi inedita in campo filosofico,

l’intellettuale volge in quegli anni lo sguardo alla vita corporea.109

Sulla base di ciò le letture del fenomeno antropologico hanno seguito

caratterizzazioni quali: efficiente visione del mondo, filosofia finalmente scientifica,

ultimo territorio rimasto alla filosofia o anche reazione filosofica alle scienze.

“Si trattava in quest’ottica di un’operazione quasi anamnestica: all’uomo in crisi,

frantumato, deraciné, all’uomo invaso dal suo stesso mondo, dagli incubi notturni e

dalle nevrosi quotidiane, all’uomo dal volto cancellato, fu riofferto innanzitutto il

perimetro della sua immagine fisica, e, con essa, una serie di mappe per ritessere il filo

dell’identità; mappe per rivivere l’interno, la singolarità autentica e insostituibile, e

mappe per l’esterno, per ricordare che alla fin fine pur dietro il caos e l’estraneazione, a

109 H. Plessner si esprime a questo proposito così: “Ogni epoca trova la sua parola redentrice. La terminologia del diciassettesimo secolo culmina nel concetto di ragione, quella del diciottesimo nel concetto di sviluppo, quella del presente nel concetto di vita. Ciascuna epoca indica in questo modo qualcosa di diverso; ‘ragione’ fa risaltare l’intemporale e l’universalmente vincolante, ‘sviluppo’ ciò che incessantemente diviene e si accresce, ‘vita’ ciò che demonicamente gioca, che inconsciamente crea. E tuttavia le epoche vogliono cogliere tutte il medesimo; per esse l’autentico significato delle parole diventa solo lo strumento, a non dire il pretesto, per rendere visibile quell’ultima profondità delle cose, senza la coscienza del quale ogni umano cominciamento resta senza sfondo e insensato. Ora, che a un’epoca proprio questo concetto, e nessun altro, venga come simbolo o pretesto, ha motivi precisi. Come redentrice una parola agisce solo se l’epoca pronuncia in essa, al tempo stesso, la propria giustificazione e la propria sentenza. Il grande momento per l’odeologia della vita venne con la caduta dell’ottimismo progressistico, con la stanchezza della civiltà, con la disperazione riguardo al senso creatore del socialismo. Un’epoca profondamente rassegnata cominciò a vedere come ideologia del capitalismo avanzato in espansione ciò che finora era valso come incrollabile possibilità: sviluppo e progresso di tutta l’esistenza organica e dell’agire umano. Con tale risveglio venne anche la nostalgia di un nuovo sogno, di un nuovo incantamento. Solo, da che cosa si sarebbe lasciata incantare un’epoca diventata così sospettosa, scettica e relativistica? Per una trascendenza in grande stile si era diventati troppo razionali e coscienti, per l’immanenza troppo mondani, troppo avventurieri. L’uomo lo si vedeve nella sua condizionatezza storica ed evolutiva. Al tempo stesso, però, natura e storia avevano esaurito la loro forza persuasiva sugli animi, da quando si credette di essere arrivati a scoprire che le loro leggi e le grandi linee della loro configurazione derivavano dal potere creatore dello spirito umano. Incantare poteva solo qualcosa di indiscutibile, coglibile al di qua di ogni ideologia, di dio e dello stato, della natura e della storia, e dalla quale forse le ideologie stesse sorgono, venendone però di nuovo inghiottite: la vita. In questa parola l’epoca percepisce la propria forza, il proprio dinamismo, la propria capacità di gioco, la sua gioia per la demonicità del futuro ignoto – e le proprie debolezze, la propria mancanza di originarietà nel vivere dedizione e capacità; con questa nuova formula magica, che fin da Nietzsche esercita il suo effetto, l’epoca di svolge e si perseguita. Una filosofia della vita ancque, originariamente con la missione di affascinare la nuova generazione – come ogni generazione è stata tenuta nella fascinazione di una filosofia – ora però chiamata a condurre questa alla conoscenza e liberarla così dall’incantamento. (H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, tr. it. I gradi dell’organico e dell’uomo, cit., pp. 3-4).

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ciò che sfugge al controllo, dietro alla storia impazzita, resta sempre il personaggio

uomo, la natura umana, teomorfica, ontologica, o storica o biologica che fosse.”110

È dunque in questo contesto che si radicano le meditazioni dei tre pensatori111 ai

quali si ascrive storicamente e teoricamente la genesi ufficiale dell’antropologia

filosofica: Max Scheler 112, Arnold Gehelen113 e Helmut Plessner114.

110 M. Russo, op. cit., p. 183. 111 Sono stati rilevati tre motivi particolari del perché essi abbiano ritenuto di non avere nulla alle loro spalle. In primo luogo l’aspirazione, tutta umana, alla paternità assoluta, che ha portato anche ad alcuni ungenti commenti come quello secondo cui “la continuità dell’antropologia filosofica stava a quanto pare nel fatto che i suoi autori avevano copiato gli uni dagli altri” (W. Lepenies, Wandel der Disziplinkonstellationen in den Wissenschaften vom Menschen, Solaris, Innsbruck 1983, p. 70, cit. in M. Pangallo, op. cit., p. 195). In secondo luogo, l’identificazione della filosofia con l’antropologia, dunque dell’antropologia come una nuova forma ‘moderna’, ‘scientifica’, unitaria e sistematica della filosofia, il cui compito risulta stare, essenzialmente, nel proporre un’immagine complessiva e ben fondata dell’uomo. Infine, l’incapacità, che da quanto detto è conseguita, di potere e volere scorgere somiglianze con tentativi precedenti. Detto questo, va comunque rilevato qualche avvertimento in questi autori di predeccessori di cui tenere conto. Così Gehelen: “L’antropologia filosofica, o teoria dlel’uomo, non è una scienza nuova. L’ultima opera di Kant portava il titolo di Antropologia (1798) e, sebbene questo vocabolo sia stato utilizzato in misura crescente per indicare l’ultimo capitolo della zoologia, ossia della scienza dell’uomo in senso fisico, la tradizione di una scienza filosofica di questo tipo non si è mai interrotta del tutto, anzi si assiste a partire all’incirca dalla metà degli anni venti, ad un vivace sviluppo in diverse direzioni.” (A. Gehelen, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, tr. it. G. Auletta, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, p. 83) Egli rileva inoltre (ivi, p. 192): “Fino al XVII secolo non c’è un’antropologia filosofica, ma c’è, naturalmente, una teoria dell’uomo all’interno della teologia. Qui si tratta espressamente di una scienza non empirica (…) la filosofia si è emancipata dal vincolo con la teologia nel XVII secolo con Cartesio.” E Plessner: “L’antropologia filosofica non è una scoperta dei nostri tempi. Una filosofia dell’uomo c’è sempre stata, se per ‘uomo’ non si intende una particolare formazione nel cosmo (e per antropologia una teoria di questa formazione in considerazione del suo rapporto con l’essere, la sua posizione), ma l’orizzonte dei compiti assegnatici, che sono stati visti – nelle diverse culture e spaziando su grandi distanze storiche – come peculiari dell’uomo (…) Ce n’è d’avanzo per poter parlare di una storia della’antropologia filosofica. Solo non è permesso dimenticare che essa è intrecciata con la storia delle scienze in generale, e in modo particolarmente intimo con la storia delle scienze umane. (…) Ciò che per secoli s’era tenuto conneso, tenuto insieme dai cardini dell’immagine teologica del mondo, si scinde esplicitamente, dopo che quei cardini sono venuti meno. (…) A ben vedere nell’antropologia filosofica trova compimento l’intenzione che per la prima volta nelle analisi dell’uomo del XVI e XVII secolo si rese visibile e, attraverso i grandi inglesi e francesi del XVIII secolo, raggiunse il suo culmine in Kant.” (H. PLessner, op. cit., pp. 33-34). E ancora, altrove, lo stesso Plessner sottolinea che “l’esigenza di un’antropologia filosofica è il tardo riflesso di un lungo cammino percorso dal pensiero moderno applicatosi all’uomo, che ha immerso la sua natura in una luce tanto più chiara, quanto più il suo ruolo nel mondo diventava oscuro. Tardi, nel decorso di questa storia, si è svegliato l’interesse empirico per le cose umane, tardi si è canalizzato in un metodo scientifico proprio, perché la teologia ha dominato la scena ancora nel Settecento. Solo più tarid le narrazioni di viaggi e le notizie di scoperte furono prese sul serio per la conoscenza, e si cominciò a confrontare il proprio mondo con quello non cristiano. (…) L’antropologia di Kant, un’opera secondaria nella sua produzione filosofica, offre ancora, quasi come in una vetrina delle rarità, frammenti di una psicologia individuale e collettiva antelettera, dal punto di vista prammatico della conoscenza dell’uomo. Per la Germania la scienza empirica dell’uomo diventò rilevante filosoficamente soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, da quando cioè le scienze umanistiche di tipo storico, la psicologia, la biologia e sociologia, avevano privato la posizione dell’uomo dei suoi sostegni tradizionali: la scoperta del pluralismo e della storicità dei sistemi di norme umane accese in modo virulento la critica al proprio

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Poggiando su comuni atteggiamenti e istanze teoriche, la costituzione

dell’antropologia filosofica come disciplina autonoma viene in luce innanzitutto come

fenomeno moderno, anzi peculiare del pensiero postmedievale, e come fenomeno

tedesco poiché è in Germania che di essa si consolida lo sfondo filosofico.

A partire dai significati dell’attributo “filosofico” si diramano direzioni che, se non

precise, sono precisamente configurabili in termini di efficacia di un approccio mirante

all’essenziale, di ampiezza di veduta e di capacità conglobante e dialettizzante che nella

filosofia tradizionalmente si incarnano. Il richiamo tanto esplicito alla filosofia è inoltre

manifestazione programmatica e consapevole della volontà, oltre che della necessità,

comuni all’antropologia scientifica, di affrancarsi da termini, discorsi e riferimenti

condivisi con la tradizione metafisico-teologica115; dall’urgenza di sottrarsi a principi di

sistema di norme europeo. Con la relativizzazione della coscienza a forze vitali e sociali finì una storia dell’emancipazione, svoltasi da Cartesio all’esistenzialismo.” (Al di qua dell’utopia, cit., pp. 187-188). 112 Max Ferdinand Scheler nasce nel 1874 a Monaco di Baviera. Cresciuto secondo i precetti del giudaismo in una famiglia ebraica, a quindici anni rinnega la propria formazione per convertirsi al cristianesimo. Tutta la vita adulta e persino parte dei suoi scritti portano tangibili i segni di questa conversione. Nel corso della sua vita, infatti, il rapporto con la fede non si assestò mai su una posizione definitiva, ondeggiando tra fasi di tormentato ripudio e fasi di cieca adesione fino ad un distacco definitivo negli ultimi anni prima della morte, avvenuta all’ospedale di Francoforte nel maggio del 1929. 113 Arnold Gehelen nasce a Lipsia nel 1904 da padre editore. Dopo un semestre trascorso a Colonia, dove frequenta le lezioni di Max Scheler e Nicolai Hartman, si laurea in filosofia con una tesi sul pensiero del sui maestro Hans Driesch e ottien la libera docenza nel 1930. Nel 1938 si trasferisce a Konisberg dove ottiene la cattedra di filosofia che era stata di Kant. Nel 1940 si sposta all’Università di Vienna dove insegna fino alla fine della guerra quando, come tutti i docenti “tedesche del Reich” in Austria perde la cattedra. I suoi rapporti con il nazismo furono difficili e controversi: all’inizio della sua carriera sembrava esserci un certo legame con il partito al potere, ma fin dai primi anni 40 emersero tensioni con la classe politica fino a un allontanamento ancor più evidente a causa della fredda accoglienza riservata al suo fondamentale L’uomo la sua natura e il suo posto nel mondo. Muore ad Amburgo nel 1976. 114 Helmut Plessner nasce nel 1892 a Wiesbaden. Frequentò la facoltà di Medicina e poi si traferì ad Heidelberg, dove seguì corsi di Zoologia e Filosofia. Nel 1914 frequenta i corsi di Husserl a Gottinga e in seguito, specialmente dopo la svolta Husserliana del 1913 abbandonò la città e proseguì i suoi studi occupandosi di Kant. Nel 1926 ottiene il primo incarico accademico all’Università di Colonia fino a che nel 1932 non è costretto ad abbandonare tale attività e la Germania a causa delle leggi razziali. Vi fa ritorno nel 1951 e ottiene la cattedra di Sociologia all’università di Gottinga, ma i suoi interessi filosofici si fanno in questo periodo sempre più assidui. Plessner muore a Gottinga, nel 1985, a 92 anni. 115 “La sostituzione del primato della teologia con il primato dell’antropologia fu una tendenza caratteristica e predominante della modernità. Il primato dell’antropologia significò due cose interrelate tra loro: l’unico oggetto di conoscenza interessante o accessibile è l’uomo e i restanti oggetti, cioè extra o ultra umani, devono essere visti in rapporto all’uomo, poiché essi sono conoscibili solo nella misura in cui partecipano a quel rapporto, poiché dunque essi possono essere rappresentati solo entro, e soprattutto mediante la prospettiva conoscitiva umana. Dal primato dell’antropologia risultò così il primato della gnoseologia. Ma prima ancora, cioè dalla prima fase del movimento umanistico, il primato dell’antropologia si era coscientemente e apertamente legato alla priorità della questione pratico-morale

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autorità divina e istanze teologiche per rivolgersi invece a criteri di autolegittimazione

che facessero capo esclusivamente alla logica e alla ratio116.

Se gli albori dell’antropologia si intravedono a grandi linee quando, a partire dalla

metà del Sedicesimo secolo, psicologia e somatologia confluiscono in un tipo di studio

unificato, quelli dell’antropologia fiosofica hanno carattere ancora meno determinabile

ed identificabile.

Non si può forse dire che prima della nascita dell’antropologia non esistesse un

sapere di questo tipo, ma esso ha sempre mantenuto carattere implicito e disarticolato.

Si deve a Werner Sombart117 il merito di aver indagato ed indicato con considerevole

puntualità i criteri di identificabilità della tradizione alla base di tale disciplina:

l’elemento della sistematicità e quello dell’empiricità. “La parola antropologia – in

tedesco dottrina dell’uomo – definisce due ambiti conoscitivi, dei quali l’uno contiene la

dottrina dell’essere e del senso, l’altro la dottrina dell’esistenza concreta e specifica

dell’uomo.”118 Al primo gruppo appartiene la antropologia speculativa, al secondo

quella antropologia che:

Cerca di raggiungere un sapere universale dell’uomo e perciò si mantiene all’interno dell’esperienza e dell’evidenza logica, e, dunque, ha carattere scientifico. Si ha una tale antropologia come ramo della conoscenza autonomo, quando un determinato complesso di conoscenze o di problemi viene raccolto in unità mediante il suo correlarsi all’uomo e viene provvisto di specifica denominazione. La sistematizzazione può essere di tipo più esteriore, quando si raggruppano e si indirizzo differenti campi conoscitivi allo studio dell’uomo -p. es. si fondono la dottrina della psiche e quella del corpo-, o può essere una sistematizzazione interna, come quando si parte dall’assenza dell’uomo e se ne deducono le differenti scienze dell’uomo.119

rispetto a quella teologica e ontologica” (P. Kondylis, Die neuzeitliche Metaphysikkritik, Klett-Cotta, Stuttgart 1990, pp. 20-21, tr. it. M. Russo, op. cit., p. 69). 116 Con una leggera forzatura teorica ma con condivisibile elasticità tematica, un emblema di ciò è indicato da M. Russo (op. cit. p. 69) nell’invito kantiano alla ragione che nella Critica della ragion pura che risuona così: “la ragione dovrà assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé, e di erigere un tribunale che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne e immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura stessa” (I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. G. Gentile, Laterza, Bari 1971, p. 7). 117 W. Sombart, Beitrage zur Geschichte der wissenschaftlichen Antropologie, in “Sitzungsber. Preuss. Akad. D. Wiss”, phil.-hist- Klasse 13, 1938 pp. 96-130 tr. it. in M. Russo, op. cit., p. 33. 118 Ibidem. 119 Ibidem.

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Secondo un’ampia ricostruzione storiografica120 che fa capo alla sistematizzazione

approfondita di Odo Marquard121 (1928), il cui filo conduttore è la storia del concetto e

del termine in questione, l’antropologia inizierebbe ufficialmente nel 1501 con la

pubblicazione da parte del Magister Magnus Hundt del Antropologium de hominis

digitate, natura et proprietatibus, cui seguirebbe un’altra tappa significativa alla fine del

secolo con la Psychologia anthropologica sive animae humanae doctrina di Otto

Cassmann. Profondamente debitrici della tradizione umanistico-rinascimentale, queste

opere rappresentano però solo uno snodo simbolico, più suggestivo che scientifico, di

quello che sarà lo sviluppo della disciplina in senso stretto. La sua affermazione

autonoma e istituzionalizzata si inizia ad intravedere, infatti, solo nel corso del XVIII

secolo, in quel periodo in cui si verificano quei presupposti teorici che Sergio Moravia

ha indicato con puntualità quali condizioni di possibilità teoriche della costituzione

degli interessi precipui delle scienze umane prima e dell’antropologia filosofica poi: la

liberalizzazione epistemologica, la mondanizzazione di “tutto” l’uomo, la riabilitazione

della corporeità umana, la scoperta dell’ambiente e l’apertura geo-antropologica verso

l’Altro (dove Altro è tanto lo straniero, quanto il selvaggio e il pazzo) 122.

Risale al 1719, ed è di grande rilevanza notare la contemporaneità con i primi

riferimenti teoricamente consapevoli all’estetica, la prima lezione universitaria dedicata

all’antropologia che viene tenuta a Lipsia dal professore di retorica Gottfried P. Muller;

è del 1754 il volume Antropologia naturalis sublimior del professore di medicina Karl

W. Struve e del 1772 la Anthropologie fur Arzte und Weltweise di Ernst Platner,

anch’egli professore di medicina. Nel semestre invernale tra il 1772 e il 1773 Kant tiene

il suo primo corso di antropologia che prelude alla pubblicazione, nel 1798 120 Cfr. M. Russo, op. cit., p. 34. 121 “Questa tradizione e storia dell’antropologia filosofica è una faccenda che non rientra né in ciò che è eternamente umano né deriva da una qualche filosofia eterna, ma risulta in tutto e per tutto un frutto esclusivo della ‘modernità’. In generale già la parola ‘antropologia’ esiste certamente solo a partire dal XVI secolo. E la teoria filosofica che ricorre a questo vocabolo come fosse uno slogan si consolida anzitutto a partire da un duplice distacco, possibile solo in epoca moderna: un distacco della filosofia da un lato dalla ‘metafisica scolastica tradizionale’ e dall’altro dalla ‘scienza matematica della natura’. Questo duplice distacco consiste, di fatto, in una svolta in direzione del mondo della vita ed è in questa forma, una prima condizione della necessità e della crescente importanza dell’antropologia filosofica” (O. Marquard, Compensazioni. Antropologia ed estetica, a cura di T. Guffaro, Armando Editore, Roma 2007). 122 S. Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei Lumi, Sansoni, Firenze 1982, pp. 3-43.

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dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht123. Fino alla metà dell’Ottocento, si

assiste a una continua fioritura delle pubblicazioni relative a temi antropologici che

incarnano forse una vera e propria moda il cui culmine si verifica nelle innumerevoli

filosofie della natura che in età romantica fanno dei temi antropologici il proprio nucleo.

Appartiene a questo contesto, e ne incarna il senso con considerevole significatività, la

celebre affermazione di Feuerbach per cui “la nuova filosofia fa dell’uomo, nel quale

include la natura come base dell’uomo, l’oggetto unico, universale e supremo della

filosofia – e fa quindi dell’antropologia, integrata alla fisiologia, la scienza

universale”124.

La meditazione sull’uomo in questo periodo non può rimanere indifferente neppure

al sorgere e all’affermarsi, proprio tra Settecento ed Ottocento, della biologia in senso

moderno125. Si pone pertanto anche il filosofo, oltre che l’antropologo, di fronte alle

urgenze delle indagini sui rapporti tra mente e corpo, sull’intelligenza degli animali,

sulle patologie fisiche e psichiche, sulle facoltà e i limiti della conoscenza, che non a

caso rappresentano i temi caratteristici dell’Illuminismo.

“La radicale riabilitazione della sensibilità e la valorizzazione ontologica della

materia sono i due indici sotto cui il pensiero poté non soltanto configurarsi come

orientato sull’uomo, ma, forte, di un nuovo sapere scientifico, tendere a risolversi in una

conoscenza complessiva di tutto l’uomo, fin giù alle sue cellule, e di qui tornare a

comprendere i principi del suo operare mondano.”126

Allo stesso tempo, l’altra caratteristica fondamentale, che fa sì che proprio qui si

vedano i prodromi del tipo di interesse che stiamo descrivendo, riguarda le nuove

123 I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), tr. it. G. Vidari, Antropologia pragmatica, Laterza, Bari 1993. 124 L. Feuerbach, Grundasatze der Phiosophie der Zukunft (1843), tr. it. C. Cesa, Principi della filosofia dell’avvenire, in Id., Scritti filosofici, Laterza, Bari 1976, p. 271. 125 “Alla fine del secolo, si modificano dunque i rapporti tra interno ed esterno, fra aspetti superficiali e realtà profonda, fra organi e funzioni. Attraverso il confronto degli organismi, l’analisi scopre un sistema di rapporti che si articolano in profondità e assicurano il funzionamento dell’essere vivente. Dietro le forme visibili si profila un’architettura segreta, imposta dalle necessità della vita. (…) A poco a poco viene delineandosi l’oggetto di una scienza che non studia più i vegetali o gli animali come facenti parte di determinate classi di esseri naturali, ma studia l’essere vivente, dotato di una certa particolare organizzazione che gli conferisce delle particolari proprietà. (…) Il problema è quello di mettere in evidenza le caratteristiche comuni a tutti gli esseri viventi e di dare un contenuto a quella che viene ormai chiamata la vita.” (F. Jacob, La logique du vivant. Une histoire de l’héredité, Gallimard, Paris 1970, tr. it. A. e S. Serafini, La logica del vivente, Einaudi 1971, pp. 107-109). 126 M. Russo, Op. cit., p. 75.

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risposte offerte al problema del dualismo. Nonostante lo sviluppo biologico e le

attenzioni prima impensate che esso impone, infatti, è nella direzione opposta al

materialismo che si sviluppano i contributi più significativi. Una vera e propria

antropologia nasce solo nel momento in cui si sfalda la presa del dualismo cartesiano127

oltre che ogni impostazione fortemente materialistica e meccanicistica, in favore

piuttosto di una visione plurilaterale, in grado di comprendere l’uomo nella sua globalità

e unità psicofisica.128

Materiale e spirituale si configurano quindi come due aspetti inscindibili,

vicendevolmente influenzatisi dove la natura si invera, sia sul piano orizzontale che su

quello verticale arricchendo a dismisura le potenzialità da esplorare. Queste, tra tardo

Settecento e inizio Ottocento, si raccolgono in maniere particolarmente accentuata sotto

il tema della sensibilità, indice e soglia materiale quanto spirituale per l’essenza umana

che si va indagando. La sfera del sensibile -e vedremo come questo sarà fondamentale

tanto per l’antropologia filosofica che si vorrà considerare quanto, soprattutto, per la

meditazione di Dufrenne che tornerà centrale più avanti- si riscopre via d’accesso non

solo per gli aspetti superficiali immediatamente disponibili della mondanità, ma anche

per quell’altrove e quell’altro impensabile e indefinibile che nel sogno, nel sentimento,

nell’arte, nella follia e nella sessualità si adombra. “Regni dell’incoscienza intesa come

ciò che sta a lato o sotto la coscienza, come il non-razionalizzabile dentro cui la stessa

ragione affonda le radici e il cui terreno è quello fibroso, opaco e in trascendibile della

127 A lungo è durato l’impatto della sistematizzazione cartesiana sulle teorie successive e tuttavia, nell’ottica di sviluppo di un’antropologia come sapere globale intorno all’uomo, essa ha presto mostrato le proprie ingerenze in termini di impaccio. Al contempo è vero che proprio la tradizione cartesiana, tematizzando il dominio materiale della natura umana come qualcosa di accessibile al modo delle altre cose del mondo naturale cioè attraverso spiegazioni meccaniche e matematiche, aveva favorito in maniera sensibile l’avvio di uno studio scientifico e sistematico dei meccanismi che regolano la corporeità. Come ha scritto M. Russo (op. cit. p. 84), infatti: “Il modello dualistico fu a lungo predominante e influenzò direttamente e indirettamente lo sviluppo dell’antropologia. Direttamente, perché da molti, soprattutto medici e naturalisti, l’antropologia fu intesa come studio della fisiologia umana, alla psicologia o alla metafisica spettando invece il compito di indagare sulla parte razionale. Indirettamente, perché comunque intesa l’antropologia, l’uomo rimaneva connotato dalla duplicità (anima-corpo, senso-intelletto, passione-ragione), dalla ‘gemina natura’ cui dovevano corrispondere diverse prospettive e metodi di ricerca. Ciò contribuì a mantenere lo statuto epistemologico-disciplinare dell’antropologia fortemente oscillante. L’antropologia poteva ora venire considerata dottrina della natura corporale dell’uomo, ora di quella spirituale e morale (spesso confondendosi con la psicologia, o risolvendosi in un’attardata moralistica), ora, ancora, come dottrina della doppia natura umana, ritenuta o un composto eterogeneo o una effettiva connessione e comunione di fisico e psichico.” 128 Cfr. S. Moravia, op. cit., p. 37.

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vita.”129 Questi sono i temi che andranno a confluire nella filosofia della natura e in

quella medicina speculativa in cui Marquard ravvisa il culmine ottocentesco

dell’antropologia prima del suo definitivo assetto nel Novecento.

In queste sue prime ed embrionali manifestazioni, inoltre, l’antropologia tra Sette e

Ottocento, influenzata come abbiamo detto dal forte incremento delle scienze

biologiche, non è lontana neppure dal campo più propriamente medico; anzi, gran parte

degli studi antropologici in questo periodo sono opera proprio di medici-filosofi. Non a

caso è proprio ad uno di loro, Ernst Platner, che pare sia dovuto l’uso per la prima volta

del termine ‘Antropologia’130 in relazione allo studio dei rapporti tra corpo e spirito,

natura e psiche. “Il concetto platneriano di antropologia indica esattamente il punto in

cui (…) antropologia fisica e antropologia morale si toccano. La storia del concetto di

antropologia nel diciottesimo secolo riflette così quella tendenza, nella storia della

medicina, al superamento della separazione tra fisiologia e filosofia.”131

Nei suoi studi132, Platner distingue infatti la fisiologia dalla psicologia proprio sulla

base della diversità degli oggetti che indagano: la prima essendo deputata all’analisi

esclusiva del corpo e la seconda a quella separata dei poteri e delle facoltà dello spirito.

Segue questa impostazione la sua definizione di antropologia come studio dei “reciproci

rapporti, limitazioni e relazioni” tra anima e corpo.

Quella di Platner è un’impostazione che risente particolarmente dell’esigenza di

empiria e concretezza che nella filosofia non si vedeva del tutto rispettata. Non gli

interessa il raggiungimento di verità metafisiche circa la relazione tra anima e corpo,

che egli vede come un anelito cui è impossibile dare soddisfazione. Piuttosto, egli

guarda al chiarimento dei diversi rapporti, sensazioni e stati d’animo, di cui facciamo

quotidianamente esperienza in noi e negli altri, poiché se la realtà psichica è in qualche

modo conoscibile, essa lo è solo attraverso l’esperienza del mondo. Con Platner si vede

chiaramente come la ricerca di scambio e interazione tra medici e filosofi fosse presente

129 M. Russo, op. cit., p. 83. 130 Cfr. M. Linden, Untersuchungen zum Antropologiebegriff des 18. Jarhunderts, Lang, Fam 1976, tr. it. M. Russo, op. cit., p. 84. 131 M. Riedel, Verstehen oder Erklaren? Zur Theorie und Gesichichte der hermeneutischen Wissenschaften, Klett-Cotta, Stuttgart 1978, tr. it. G. di Costanzo, Comprendere o spiegare? Teoria e storia delle scienze ermeneutiche, Guida, Napoli 1989, p. 15. 132 Cfr. il già citato Anthropologie fur Arzte und Weltweise del 1772.

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e pressante là dove si riteneva che, in mancanza di questo tipo di scambio, ai filosofi

non sarebbe rimasta che una generica moralistica priva di applicazione mentre i medici

sarebbero rimasti privi di una visione generale e universale del fine ultimo della propria

attività. Ora, non è in questione la fondatezza o meno di tali teorie, ma è bene tenere

presente come con Platner si sia ancora sullo sfondo di un forte dualismo che

l’antropologia si fa largo nel momento stesso in cui tenta di stemperarlo.

Di tale dualismo, pur nella ricerca di unità, a lungo si terrà conto; in parte proprio a

causa dell’impostazione disciplinare stessa, che si vuole impostata sì sul rigore teorico,

ma anche e soprattutto dedicata a una crescita ed un perfezionamento intesi in termini

assolutamente pratici. La filosofia stessa viene letta i termini di Weltweisheit (saggezza

mondana), strumento pratico che si tenta di affinare nel tentativo di raggiungere una

forma di felicità. Questa impostazione è strettamente correlata a un’altra idea intorno a

cui si è sviluppato l’insieme di esigenze messe in campo dall’antropologia: è l’idea della

Bestimmung133, di una forma di destinazione cui l’uomo è chiamato a mirare e che a sua

volta implica in modo imprescindibile l’idea di progresso. Nel versuch einer

Anthropologie oder Philosophie des Menschen nach seiner korperlischen Anlagen134

del 1974 scrive ad esempio Johannes Ith che, secondo il suo autentico concetto “la

filosofia dell’uomo, o l’antropologia nel suo significato corrente, deve avere ad oggetto

la natura e i più generali rapporti e la destinazione (Bestimmung) dell’uomo.”135

L’idea è ampiamente condivisa, come testimoniano i numerosi riferimenti che

costellano gli scritti dei più diversi autori. Wezel, ad esempio, argomenta che essendo il

sommo fine ultimo dell’uomo lo scopo della vera antropologia, “la più alta destinazione

(Bestimmung) dell’uomo può ben essere raggiunta semplicemente tramite la corretta

conoscenza della natura umana, e di conseguenza tramite innanzitutto lo sviluppo

completo ed adeguato di tutte le disposizioni naturali dell’uomo, dato che il nostro

comportamento per la gran parte dipende dalle nostre concezioni.”136 “Armonia ed

equilibrio tra entrambi i fini, tra il progredire delle due parti della nostra natura, quella

133 Su questo tema nelle sue implicazioni antropologiche, cfr. L. Fonnescu, Antropologia e idealismo la destinazione dell’uomo nell’etica di Fiche, Laterza, Bari 1995. 134 Cit. in M. Linden, op. cit., p. 127. 135 Ibidem. 136 A. Wezel, Grundriss eines eigentlichen Systems der anthropologischen Psychologie uberaupt und empirischen insbesondere (1804) cit. in M. Linden, op. cit., p. 134.

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soprasensibile e quella votata al godimento della felicità sensibile, dev’essere la

destinazione dell’uomo, altrimenti, riguardo al rapporto tra queste due disposizioni

ugualmente originarie del suo essere e dei fini che ne risultano, egli resta a se stesso un

eterno enigma.”137 Anche con Herder l’umanità intesa come insieme di tutti i tratti fisici

e spirituali più sublimi dell’uomo “è il compito dell’autentica filosofia umana”138.

Che sia nell’accezione platneriana, o che sia in stretta relazione più con la

fisiologia o più con la psicologia, in ogni caso è al voltare del secolo che si può davvero

iniziare a considerare l’antropologia come scienza autonoma, benché con caratteristiche

ancora in fase di sviluppo.

Anche gli esiti cui sembra si arrivi nel corso del XVIII secolo rappresentano

comunque solo punti di passaggio verso quella dimensione che abbiamo visto destinata

a diventare incomparabilmente più ampia, all’epoca affatto prevedibile.

Esempio lampante di quel fermento e della serie di effetti che si andavano

preparando è, se ci è concesso un passo indietro, la collocazione nella storia del

pensiero del contributo kantiano insieme agli oltre trent’anni di corsi sull’antropologia

da lui tenuti e solo recentemente139 rivalutati; se da una parte è lo stesso Kant a

qualificare tali studi come letture divulgative, letteralmente “populäre Vörtrage”140, è

però impossibile pensare, data l’ampiezza dei materiali, che essi abbiano occupato un

posto irrilevante o secondario nell’organizzazione dei suoi percorsi.

Al fine di chiarire, quindi, ulteriormente l’eredità filosofica che l’antropologia ha

raccolto, e preparando il terreno per una introduzione ai contributi plessneriani che, 137 K.H.L. Politz, Populare Anthropologie oder Kunde von dem Menschen nach seinen sinnlichen und geistigen Anlagen (1800), cit. in M. Landmann, De homine. Der mensch im spiegel seines Gedankens, Alber, Freiburg-Munchen 1962, p. 380, cit. in M. Russo, op. cit., p. 89. 138 J. C. Herder, Ideen zu einer Geschichtphilosophie der Menscheit (1784), tr. it. V. Verra, Idee per una filosofia della storia della umanità, Laterza, Bari 1992, p. 60. 139 Cfr. a questo proposito G. M. Tortolone, Esperienza e conoscenza. Aspetti ermeneutici dell’antropologia kantiana, Mursia, Torino 1996 e P. Manganaro, L’antropologia di Kant, Guida, Napoli 1983. 140 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 4. Questa notazione kantiana è perfettamente in linea, d’altronde, con il carattere divulgativo che in generale l’antropologia non cessò di avere nel corso del secolo: “La popolarità che lo studio dell’uomo raggiunse verso la fine del secolo diciassettesimo si mostra forse nel modo più evidente con la assai ampia letteratura antropologica, la quale si rivolgeva a quei cittadini colti, amanti della discussione, da cui partiva la richiesta di letture divulgative e di svago sull’argomento ‘uomo’”. (M. Linden, cit. p. 81).

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come vedremo, riecheggiano in modo significativo quanto andremo successivamente

indagando insieme a Dufrenne, intendiamo ora soffermarci brevemente su suggestioni

kantiane con un duplice obiettivo: da una parte mostrare, come detto, il background

filosofico dell’antropologia e nello specifico di quella plessneriana e, dall’altra, mettere

in luce l’affinità di temi che correla l’antropologia filosofica con il più ampio orizzonte

dischiuso dall’estetica, settecentesca prima e fenomenologica poi.

Vedremo pertanto come dai molteplici interessi che animano gli studi kantiani, e in

particolare dalla cesura, che è al contempo legame, tra gli studi antropologici e quelli

critici e dall’attenzione che in essi si concentra rispetto al problema della sensibilità, sia

possibile desumere parte dell’impianto plessneriano. L’attenzione sarà naturalmente

rivolta quasi esclusivamente al settore estesiologico della ricerca e al tema dei sensi e

della loro unità.141

1.3 Riferimenti kantiani

Risale al 1798 la Antropologia pragmatica, l’opera in cui Kant organizza in modo

sistematico la propria riflessione intorno alla natura dell’uomo, assumendo come punto

di vista centrale quello del rapporto tra interno ed esterno. La distinzione su cui si regge

tutto l’impianto separa la conoscenza fisiologica dell’uomo da quella pragmatica

secondo l’idea che tutto quello che si può affermare dell’uomo scientificamente è

riducibile alla fenomenicità, cioè alla sua fisiologia, escludendone quindi tutta la “natura

in sé”, teoricamente inafferrabile, il suo carattere intelligente, imponderabile.142

Pur fermo restando, dunque, l’ovvia posizione di minor importanza rispetto alla

meditazione critica, sono stati messi in luce significati non secondari in quell’orizzonte

di indagine che in seguito sarebbe appartenuto all’antropologia filosofica. In particolare,

sono gli aspetti collegati alla praticità e concreta messa in atto della teoresi quelli che a

141 Per una più esaustiva introduzione a Plessner che comprenda anche la filosofia sociale e politica, qui necessariamente trascurata, cfr. S. Giammusso, Potere e comprendere. La questione dell’esperienza storica e l’opera di Helmut Plessner, Guerini, Milano 1995. 142 Cfr. I. Crispini, Tra corpo e anima. Riflessioni sulla natura umana da Kant a Plessner, Saggi Marsilio, Venezia 2004, p. 27.

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partire da Kant vengono mutuati, approfonditi e, benché piegati a differenti intenti,

lasciati agire. Il ruolo dell’antropologia, così come Kant consente di figurarlo, è

profondamente legato, infatti, a quegli eventi concreti che corrispondono alle leggi

morali e che vedono l’uomo non solo come attento osservatore ma anche e soprattutto,

chiamato in causa da protagonista sulla scena di quel mondo che osserva. Pragmatico è,

significativamente, l’aggettivo che denota l’approccio antropologico kantiano,

indicando espressamente l’applicazione delle regole acquisite alla vita concreta143, lo

studio delle norme che guidano un Gebrauch für die Welt, un migliore uso del mondo.

L’intreccio sostanziale è così quello che del percorso antropologico fa una sorta di

contraltare per quello morale144 e di integrazione fondamentale per un approccio

filosofico al mondo dell’empiria umana145 al fine di considerare “quello che l’uomo

come essere libero fa oppure può e deve fare di se stesso”.146

Proprio questa aderenza al piano concreto e immanente dell’esistenza rappresenta

uno degli impianti di base che dall’approccio kantiano si ritrovano essenzialmente in

tutta la storia delle idee antropologiche successiva. Non è infatti in primis a partire da

questioni fisiologiche che esse si sviluppano, meno che mai in Kant, ma da prospettive

143 Cfr. M Russo, op. cit., p. 99 e segg. 144 P. Mangano, op. cit., p. 280 esplicita l’antropologia kantiana proprio come “referenza esterna” della morale, momento in cui la libertà “s’inchioda nella finitezza”, nella contingenza e attualità del mondo empirico. 145 Non a caso molti dei termini che ricorrono nella trattazione kantiana in questione sono termini che potremmo dire “sporchi di mondo”: Weltkenntnis, Weltklugheit, Weltweisheit… 146 I.Kant, op. cit., p. 3. Questo è uno dei punti in cui l’approccio kantiano si mostra tanto vicino alla sua lontana filiazione quanto da essa molto distante. Il suo interesse non si rivolge mai, infatti, al contrario di quello che avverrà quando l’identità dell’antropologia raggiungerà una maggior definizione, al versante fisiologico e naturale dell’uomo. La concezione della natura umana figurata da Kant ha carattere, potremmo dire, restrittivo. Scrive infatti Kant: “La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che va oltre la costituzione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse ad altra felicità o perfezione se non a quelle che egli stesso, libero da istinti, si crea con la propria ragione. In altre parole, la natura non fa nulla di superfluo e non è prodiga nell’uso dei mezzi ai suoi fini. Essa diede all’uomo la ragione e, su di questa fondata, la libertà del volere, e con ciò ha dato un chiaro indizio della sua intenzione circa il modo di dotarlo. Egli cioè doveva essere guidato non dall’istinto e neppure essere fornito a conoscenza innata, ma doveva piuttosto tutto ricavare da se stesso. Le provvidenze relative al cibo, alle vesti, ai mezzi di difesa e sicurezza esterna (per le quali la natura non gli diede né le corna del toro, né gli artigli del leone, né i denti del cane ma solo le mani), ogni divertimento che potesse rendere piacevole la vita, la stessa sua perspicacia e avvedutezza e persino la buona disposizione del volere dovevano essere interamente opera sua. Pare che qui la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualità animali dell’uomo strettamente, rigorosamente, al bisogno supremo di una esistenza iniziale.” (I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltburgerlicher Absicht (1784), tr. it. Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici, Utet, Torino 1956, p. 126).

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prettamente connesse all’orizzonte esistenziale nelle sue manifestazioni pratiche. E

proprio in queste prospettive, che già Foucault ha rintracciato e riconosciuto nella loro

peculiarità147, si radicano alcuni punti di riferimento essenziali per l’antropologia

filosofica. Si deve a Kant, in questo senso, l’aver suggellato il legame dell’antropologia

con le questioni dell’agire morale. Una delle questioni più importanti che con lui si

sollevano riguarda ad esempio il problema del rapporto tra la teoria e la prassi che

concerne a sua volta tanto il ruolo istituzionale della filosofia quanto quello tecnico

delle facoltà dell’uomo.

Nel percorso kantiano si legge un tipo di interesse animato da quella stessa

domanda che regge l’antropologia filosofica nei suoi percorsi:

Io ho imparato dalla Critica della ragion pura che la filosofia non è una scienza delle rappresentazioni, dei concetti e delle idee, o una scienza di tutta la scienza, o qualcos’altro di simile; ma è una scienza dell’uomo, del suo rappresentare, pensare e agire. Essa deve presentare l’uomo in tutte le sue componenti, come egli è e come deve essere, cioè tanto secondo le sue determinazioni naturali quanto anche secondo la condizione della sua moralità e della sua libertà.148

Se la risposta di Kant ha trovato la propria messa a fuoco nell’analisi critico

trascendentale delle facoltà, in particolare della ragione, quella antropologica è invece

rimasta ben ancorata a questo campo pratico esistenziale, con tutti i rischi di empirismo,

sia detto, che questo comporta. Si mette così in luce, di nuovo, come l’attenzione

antropologica sia rivolta sì a quel fondo inattingibile (Abgrund) che è la ragione umana,

ma solo per vederne e mostrarne le incarnazioni vitali. A questo aspetto dell’analisi

kantiana si è fatto costante e continuo riferimento, mutuando dal grande pensatore non

tanto la cesura, che pure esiste, tra teoria e prassi, quanto la connessione che tra esse

rimane adombrata persino nella distinzione netta degli scritti. Filosofia critica e filosofia

antropologica risulterebbero quindi, in Kant stesso e a partire da lui, i due lati

inseparabili di un’indagine globale dove all’uomo si tende attraverso un percorso che ne

147 Risale al 1960 la presentazione da parte sua della prima traduzione in francese dell’Antropologia pragmatica, accompagnata da 124 pagine di inedito commento, come parte dei lavori previsti per il conseguimento del dottorato alla Sorbona. Questo rappresentò uno dei punti di avvio de Le parole e le cose (cfr. la biografia di J. Miller, The passion of Michel Foucault, tr. it. E. Campominosi, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994). 148 I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Mursia, Torino 1994, p. 277.

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prenda di mira tutte le componenti senza dimenticare di considerare gli ambiti nella loro

autonomia; lasciando tuttavia alla scienza, cui comunque l’antropologia filosofica in

qualche modo non vuole del tutto rinunciare, la conoscenza di quelle determinanti che

sono rigorosamente verificabili.

La distinzione kantiana tra filosofia critica e studi antropologici, di fatti, è stata

letta149 nei termini di un approccio ai campi della teoria e della prassi nella

consapevolezza della stretta relazione che li lega e, al contempo, della loro insolubile

dicotomia. Le ricerche antropologiche risulterebbero, in tal senso, un “modo di

filosofare ab externo, che, abbandonata la gravosa opera autocritica consentisse

finalmente di guardare in presa diretta ‘cosa c’è’, senza più il rischio di tradimento del

proprio ufficio critico e della propria finalità suprema: l’homo noumenon.”150 In

quest’ottica, il contributo kantiano rappresenterebbe una prima e rigorosa apertura che,

a partire da un questionare filosofico, si avvicinasse al soggetto umano puntando

direttamente sulle pieghe concrete del suo agire. “Finalmente la filosofia poteva fare

ingresso e impegnarsi direttamente nel mondo effettuale degli uomini, osservandone le

colorate superfici e recuperando volti ed espressioni prima cancellati.”151 Animata da

un’esigenza, solo in parte comprensibile, di concretezza, questa lettura manca forse

della profondità che il sistema critico imporrebbe, ma ha il merito di sottolineare e

ribadire quella caratteristica dell’antropologia che ne rappresenta l’essenza, oltre che

forse il limite: l’interesse per il mondo della vita nella sua messa in atto specifica e

reale152, prima ancora dell’approfondimento delle strutture che lo reggono

universalmente ed a priori.

L’attenzione che nell’antropologia filosofica si è manifestato nei confronti del coté

pragmatico dell’antropologia kantiana si motiva, pertanto, con un’interpretazione di

149 M. Russo, op. cit., pp. 113 e segg. 150 Ivi, p. 115. 151 Ibidem. 152 “Antropologia filosofica si denomina non qualunque teoria dell’uomo, ma quella che diventa possibile con l’abbandono della metafisica di scuola tradizionale e delle scienze matematiche della natura, e cioè con il rivolgersi al ‘mondo della vita’ e divenendo fondamentale con il ‘rivolgersi alla natura’ ossia con la rinuncia alla filosofia della storia. L’antropologia filosofica è allora –sotto la condizione di una fondamentale comunanza: il volgersi al mondo della vita– il contrario della filosofia della storia; in quanto si rivolge alla natura.” O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Surkamp, FaM, 1983.

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esso nei termini di oggettivazione tangibile di un fondo irriducibile, di cui si percepisce

la presenza e si sentono gli effetti senza tuttavia potervi attingere direttamente.

Un ulteriore fondamentale punto di tangenza che correla il contributo kantiano

tanto agli usi che se ne sono fatti in ambito antropologico quanto all’ancora più esteso

campo estetico è quello che investe in modo fondamentale il tema della sensibilità.

Interpretato da Ines Crispini addirittura nei termini di una “apologia della

sensibilità”153 tale contributo sembra adombrare un interesse leggibile in stretta

relazione con quello che anima in diverso modo, ma eguale misura, antropologia

filosofica ed estetica. Nelle “Osservazioni generali sull’estetica trascendentale”, Kant

contesta in modo diretto l’idea che dalla sensibilità si possano ricavare solo

rappresentazioni confuse delle cose, apprensioni parziali e confuse di ciò che le cose

sono in se stesse e su cui l’intelletto sarebbe chiamato ad intervenire per riportare

distinzione e chiarezza154. Come scrive Kant:

Noi, mediante il senso non è già che semplicemente conosciamo in modo oscuro la natura delle cose in sé, ma non la conosciamo punto; e, appena prescindiamo dalla nostra natura soggettiva, non si trova più, né può essere trovato l’oggetto rappresentato con le proprietà che gli attribuiva l’intuizione sensibile, poiché appunto questa natura soggettiva determina la forma di esso come fenomeno.155

Riguardo a questo punto è tuttavia stato rilevato come uno dei riferimenti kantiani

di maggior spessore sia rintracciabile proprio all’interno dell’Antropologia da un punto

di vista pragmatico che permette di sottolineare, nella direzione già indicata da

Manganaro, come l’antropologia non sia tanto distante dalla filosofia trascendentale e

anzi, a tratti, sia ad essa più affine che non alla psicologia156. “Dal testo della

153 I. Crispini, op. cit., p. 41. 154 I. Kant, Critica della ragione pura, Laterza, Bari 1960, p. 216. 155 Ivi, p. 85. 156 Cfr. I. Crispini, op. cit., p. 42, P. Manganaro, op. cit., p. 121. Su questo tema del rapporto tra l’antropologia kantiana e la psicologia di scuola wolffiano-leibniziana cfr. N. Hinske, La psiclogia empirica di Wolff e l’antropologia pragmatica di Kant. La fondazione di una nuova scienza empirica e le sue complicazioni, in AA. VV., La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Atti del convegno internazionale, Napoli 2-5 aprile 1997, a cura di G. Cacciatore, V. Gessa-Kurotschka, H. Poser, M. Sanna, Guida, Napoli 1999, pp. 207-224. In generale tutti i commentatori concordano nel

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Antropologia risulta infatti assai chiaro lo spostamento del rapporto tra sensibilità e

intelletto dal piano del gradualismo razionalistico leibniziano al piano distintivo. Al

posto della chiarezza e della confusione, all’intelletto e alla sensibilità è assegnata una

funzione, l’attività o la passività, e questo è un punto veramente importante”157.

Il testo dell’Antropologia non è correlato a questo proposito con le Lezioni di

antropologia158 bensì con la prima critica. Nelle lezioni non si trova, infatti, alcuna

spiegazione riguardo alla ragione per cui i due segni distintivi fondamentali di intelletto

e sensibilità siano attività e passività, come invece si legge nella prima critica.

Dall’interpretazione che stiamo seguendo risulta chiaro, quindi, che l’antropologia

kantiana deve, dopo il 1770, l’occasione della sua origine non tanto alla psicologia

empirica quanto a quella trascendentale, cioè a quella rifondazione della psicologia

tradizionale in base alle nuove strutture di conoscenza dell’Analitica, per cui alla

‘chiarezza’ e alla ‘distinzione’ si sopperisce meglio con i contrassegni dell’ ‘intuizione’

e del concetto. “Il significato dunque dei rapporti tra sensibilità e intelletto è una di

quelle questioni che investono direttamente il senso della fondazione filosofica kantiana

e, nel contempo, assumono una precisa rilevanza antropologica.”159

Nel testo dell’Antropologia del ’98 Kant imposta la questione della distinzione tra

sensibilità e intelletto in questo modo:

Riguardo allo stato delle rappresentazioni il mio animo o è agente, e allora dimostra una facoltà, oppure è passivo e allora possiede una sensibilità. Una conoscenza racchiude in sé ambedue le cose e le possibilità di averle trae il nome di facoltà di conoscere dalla parte più eccellente, cioè dall’attività dell’animo di collegare le rappresentazioni e di separare le une dalle altre.160

All’interno di questo quadro quello che è condivisibilmente messo in luce, e che

rivelerà i propri legami anche con quanto andremo successivamente indagando, è la

rimandare, come fondamentale strumento di indagine e ricostruzione delle fonti della antropologia kantiana, a R. Brandt, Kommentar zu Band 25 “Antropologie” der Kant-Ausgabe der Akademie der Wissenschaften, Gottingen 1997, cit. in I. Crispini, op. cit., p. 43. 157 I. Crispini, op. cit., p. 42. 158 I. Kant, Vorlesungen uber Anthropologie, in Gesammelte Schriften, bd. Xxv, a cura di R. Brandt e W. Stark, W. De Gruyter, Berlin-New York 1997. 159 I. Crispini, op. cit., p. 43. 160 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 23.

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complessità del problema dei rapporti tra le due facoltà in questione nel contesto della

riflessione antropologica, laddove questi rapporti si rivelano particolarmente intrecciati

e molteplici e in ogni caso mai definitivamente determinati secondo le caratterisitiche di

attività e passività. “Anzi, la trattazione pragmatica rivela come i luoghi e le figure di

queste due facoltà investano la possibilità di determinare complessivamente la

Menschenkenntnis.”161 L’analisi di cui stiamo tenendo conto prosegue ravvisando,

all’interno delle argomentazioni162 kantiane a favore della sensibilità contro le forme di

razionalismo leibnizio-wolffiane, una forma di svelamento delle tensioni e delle

disarmonie delle figure speculative della filosofia trascendentale e,

contemporaneamente, le duplicità e le tensioni che appartengono alla natura dell’uomo.

L’argomentazion kantiana, infatti, all’interno dell’Antropologia, si sviluppa a

partire dalla attribuzione del carattere di passività della sensibilità e quello di facoltà

vera e propria all’intelletto e prosegue, in linea con la prima Critica, riprendendo

l’antica polemica nei confronti della scuola leibniziano-wolffiana163. A tale tradizione si

imputa l’errore di aver caratterizzato la sensibilità come una facoltà di rappresentazioni

indistinte e l’intelletto come capacità di elaborare rappresentazioni distinte, e di aver

quindi individuato una differenza a livello esclusivamente formale, logica, della

coscienza, anziché reale, psicologica, relativa cioè anche al contenuto del pensiero. È

161 I. Crispini, op. cit., p. 43. 162 Argomentazioni che, a volte, sottraggono la distinzione tra attività e ricettività alla conseguente separazione-opposizione tra due ordini di sapere, quello logico e quello psicologico e, a volte, invece, drasticamente ve la risolvono. (Cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 24.) 163 Come stiamo per mostrare, la posizione kantiana si snoda lungo un rovesciamento totale del rapporto tradizionale che, secondo la metafisica leibiniziano-wolffiana, legherebbe intelletto e sensibilità. Vedremo tra poco, brevemente, gli esiti cui esso conduce e la loro rilevanza per il percorso che si sta affrontando in questa sede. Meno pertinente per noi, ma di non minore interesse, è invece un’altra conseguenza importantissima di tale posizione che è bene qui ricordare. Con l’esito kantiano, infatti, la recettività, e con essa la finitezza, è posta come necessità ontologica, come elemento imprescindibile nell’apprensione degli oggetti, riducendo così l’ideale di scienza compiuta o di sapere assoluto ad un semplice ideale soggettivo, un puro pensiero cui non risponde alcuna realtà in sé. Secondo la prospettiva tracciata da Kant, quindi, come ha notato I. Crispini nel testo che stiamo citando (p. 46), “la scienza non giungerà mai, non più della metafisica, a razionalizzare completamente il mondo, poiché ogni conoscenza oggettiva implica sempre un dato sensibile e, dunque, un momento non concettuale. E, d’altro canto, la pretesa oggettività assoluta della scienza o della metafisica viene sgretolata nell’idea che il conoscere è comunque un’attività di una natura soggettiva, un atto creativo di un soggetto di cui Kant vuole certo tracciare il profilo trascendentale, universale, quando conduce la critica delle facoltà del conoscere o dell’agire, nel senso proprio di ciò che è comune a tutti gli individui che appartengono alla medesima specie e senza dimenticare che questa specie potrebbe essere specificamente l’umanità. L’unica oggettività pensabile è, dunque, quella pur sempre relativa, di una natura soggettiva e non certo quella oggettività degli oggetti cui la scienza e la metafisica illusoriamente aspirano.”

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così che la sensibilità consisterebbe soltanto in una forma di mancanza di chiarezza

mentre la natura della rappresentazione intellettuale consisterebbe nella capacità di

analizzare e illuminare il contenuto oscuro delle rappresentazioni parziali offerte dalla

conoscenza sensibile. La posizione di Kant risulta invece connotata da tutt’altra

convinzione, che risulta rintracciabile già a partire da La critica della ragion pura: la

sensibilità è infatti per lui qualcosa di assolutamente positivo, un’aggiunta

indispensabile alla rappresentazione dell’intelletto e un momento prioritario e

necessario alla produzione di una conoscenza.164 La conclusione di tale difesa della

sensibilità si risolve in una vera e propria “Apologia della sensibilità” tesa alla

dimostrazione di tre punti sostanziali: i sensi non perturbano, non comandano

all’intelletto e non ingannano.165 La sensibilità si trova assunta nella sua evidenza

fenomenica. Nel momento in cui sembra che i sensi perturbino, è l’intelletto a

intervenire, nel senso che esso:

Trascura i suoi doveri e (senza avere prima ordinato le rappresentazioni dei sensi sotto leggi), poi si lagna del loro perturbamento, come se lo si dovesse imputare alla natura originariamente sensibile dell’uomo.166

Il motivo per cui abbiamo dedicato spazio a questi temi kantiani emerge a questo

punto con chiarezza: si trova infatti qui uno dei significati più profondi per quanto

riguarda la connessione kantiana con l’antropologia e, al contempo, con i temi più

propriamente estetici che qui si vanno indagando. L’interesse dell’apologia dei sensi

kantiana sembra, infatti, superare quello della difesa di questa facoltà come

fondamentale per la conoscenza; rivelandosi essere piuttosto un interesse che investe,

direttamente, l’obiettivo stesso dell’antropologia.

È proprio la sensibilità, infatti, come è stato scritto, il vasto territorio su cui si basa

e si sviluppa questa scienza pragmatica dell’uomo. Se le regole dell’intelletto si trovano

infine nella logica, l’orizzonte sterminato dischiuso dalla sensibilità umana trova le sue

regole più generali in questa disciplina che non solo studia l’uomo come fenomeno, ma

164 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 23-24. 165 Ivi, p. 26. 166 Ivi, p. 27.

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ne precisa anche tutte le attività e le funzioni in cui la sensibilità è direttamente

chiamata in causa: udito, vista, immaginazione, piacere, desiderio, creatività.167

È duplice dunque la conseguenza cui conduce questa posizione kantiana a favore

della sensibilità. Come si legge nell’Antropologia:

Ciò che vi è di passivo nella sensibilità, che noi, d’altronde, non possiamo eliminare, è propriamente la caus di tutto il male che le si attribuisce. La perfezione interna all’uomo consiste in ciò: che egli abbia in suo potere l’uso di tutte le sue facoltà per sottoporlo alla propria libera volontà. Ma per questo si richiede che l’intelletto domini, ma non indebolisca, la sensibilità (…): senza la sensibilità, infatti, non ci sarebbe materia che possa essere elaborata ad uso dell’intelletto legislatore.168

Il primo esito riguarda quindi, chiaramente, la caratteristica di passività che

inevitabilmente investe la sensibilità: da essa non è possibile prescindere all’interno del

processo conoscitivo di cui rappresenta, invece, una conditio sine qua non. Senza di

questa, il vuoto e il non senso delle funzioni logiche intellettuali.

Il secondo esito investe il versante antropologico della riflessione sulle facoltà del

conoscere: con esso viene ribadita la forma sensibile della conoscenza medesima, per

sua natura legata ad una soggettività che determini gli oggetti come fenomeni,

inaccessibili e inesistenti qualora da tale soggettività si cerchi di prescindere.

Per completare il quadro di questi cenni ai lasciti kantiani, prima di sfruttarli per

passare concretamente a Plessner, è bene ricordare, seppure molto brevemente, che Kant

si è d’altra parte imposto anche quale obiettivo polemico nel corso della meditazione

antropologica là dove essa ha assunto le caratteristiche di antropologia filosofica. È il

caso in particolare di Max Scheler cui qui brevemente accenniamo proprio nell’ottica di

mostrare la polivalenza degli effetti generati dal pensiero kantiano sullo sviluppo delle

tesi che portarono alla nascita e affermazione dell’antropologia filosofica. Oltre a ciò si

nota come, proprio sui temi innescati dall’opposizione a Kant, Scheler sviluppi una

meditazione antropologica intorno all’ordine apriorico dell’uomo che non è estranea, in

167 Cfr. I. Crispini, op. cit., pp. 44-45. 168 I. Kant, Antropologia, cit., p. 27.

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parte, alla fondamentale nozione di a priori che vedremo svilupparsi nella ricerca di

Dufrenne.

Proprio in riferimento a quel legame, qui già messo in luce, che con Kant si

suggella tra antropologia e agire morale, Scheler sviluppa dunque una ricerca tesa alla

fondazione di un’etica “materiale dei valori”169. Il suo fondamentale Il formalismo

nell’etica e l’etica materiale dei valori170 rappresenta infatti il tentativo di una

fondazione contenutistica e non formale dell’etica, attraverso cui mantenere l’idea

kantiana di un’etica non relativistica né utilitaristica né eudemonistica, che si presenti

però libera da quei condizionamenti formali con cui Kant, a parere di Scheler, l’aveva

privata di ogni contenuto171. La nuova etica cui punta Scheler, in sintonia con

quell’anelito alla materialità e concretezza della vita che caratterizza tutta

l’impostazione antropologica e sul quale torneremo, si fonda sulla possibilità di un a

169 È di recente pubblicazione lo studio, cui rimandiamo, realizzato da Giuliana Mancuso sul dibattuto neokantismo del giovane Scheler. Cfr. G. Mancuso, Il giovane Scheler, LED Edizioni Universitarie, Milano 2008. 170 M. Scheler, Der formalismus in der Ethik und die materiale Wertehtik, 1913-27, tr. it. di G. Caronello Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Vita e Pensiero, Milano 1975. 171 A questo proposito è stato opportunamente scritto: “Il misurarsi di Scheler con la filosofia trascendentale kantiana, con la posizione che essa ha rappresentato nella storia della filosofia, con il retaggio kantiano successivo non assume, a mio avviso, mai lo spessore di una posizione interpretativa né, tanto meno, il carattere di una rielaborazione delle categorie del criticismo in funzione nuova, come è avvenuto per il neocriticismo. Piuttosto il tentativo scheleriano si configura come necessità di sottolineare le lacune intrinseche del pensiero kantiano per evidenziare, soprattutto nei primi scritti, lo statuto fondamentale del nuovo metodo fenomenologico e per spostare nel campo della pratica quello che, in fondo, era un problema centrale anche nella riflessione del neokantismo, cioè il problema del rapporto tra possibilità (il trascendentale) e realtà e, all’interno di questo, il problema lasciato irrisolto dalla filosofia kantiana, del contrasto tra ragione e sensibilità. In questa prospettiva va dunque inquadrato il rifiuto scheleriano del metodo trascendentale anche nelle rielaborazioni della scuola di Marburg e nella reinterpretazione di Cohen, in quanto l’impianto trascendentale, a causa del suo apriorismo formale, non offre comunque spazio all’apporto del divenire storico e culturale, sfociando inevitabilmente in un oggettivismo logico che impone di attribuire anche alla riflessione etica un carattere teoretico-conoscitivo e un legame stretto con la logica.” (I. Crispini, op. cit. p. 75). Scrive d’altronde Scheler stesso: “Solo in quanto il contenuto a priorico essenziale viene trovato nelle cose stesse e tutti i principi e i concetti dell’intelletto trovano in esso la loro effettuazione (il loro riempimento) sfuggiamo alla conseguenza di fare della filosofia una sapienza verbale (…). È quindi del tutto assurdo voler ricondurre l’essenza della verità o l’essenza dell’oggetto, rispettivamente, ad una necessità del giudicare o dei principi e alla necessità di una connessione delle rappresentazioni (…). La necessità di una proposizione è, appunto oggettiva soltanto quando essa riposa su di una oggettiva visione di un contenuto apriorico.” (M. Scheler, op. cit., pp. 72-75).

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priori materiale172 basato a sua volta sul superamento di quello che egli legge come un

falso dualismo tra ragione (Vernunft) e sensibilità (Sinnlichkeit).

In contrapposizione a Kant, noi tendiamo quindi a sviluppare decisamente un apriorismo dell’emozionale e a spezzare la falsa identità sinora operata tra apriorismo e razionalismo. L’‘etica emozionale’, a differenza dell’‘etica razionale’, non è necessariamente un empirismo che desumerebbe i valori etici dall’osservazione e dall’induzione. La percezione affettiva, il preferire e il posporre, l’amare e l’odiare hanno nello spirito un loro contenuto a priori specifico che è idipendente dall’esperienza induttiva come lo sono le pure leggi del pensiero. Nell’uno e nell’altro ambito sussiste un’intuizione eidetica degli atti e delle loro ‘materie’, dei loro rapporti di fondazione e delle loro correlazioni. Nell’uno e nell’altro caso sussistono l’‘evidenza’ e la più rigorosa esattezza dell’accertamento fenomenologico.173

Quello cui punta Scheler, in contrapposizione a Kant, è un “apriorismo

dell’emozionale”, che implica una scissione tra apriorismo e razionalismo.

Per potere costruire un’etica materiale apriori bisogna finirla una volta per tutte con il pregiudizio che riduce lo spirito umano all’alternativa della ragione contrapposta alla sensibilità e non ammette di poter ricevere nulla se non dall’una o dall’altra delle due sorgenti.174

In tale prospettiva la volontà viene a perdere il primato che le conferiva il

razionalismo etico, diventando più semplicemente un mezzo per indirizzarci verso certi

valori piuttosto che altri. L’aspetto fondamentale delle analisi scheleriane175 consiste,

dunque, nel sancire l’autonomia e l’indipendenza delle formazioni spirituali del mondo

morale rispetto alle strutture logiche e conoscitive proprie di ogni sapere razionale.

Nell’ottica di Scheler si tratta pertanto di mettere in luce e far risaltare l’esistenza di

172 Pur in assenza di ogni diretta filiazione si può accennare qui alla ricerca di Dufrenne e alla sua basilare teorizzazione della nozione di a priori, con particolare riguardo per quegli a priori affettivi che rappresentano un punto saliente del suo percorso e sui quali inevitabilmente torneremo. 173 M. Scheler op. cit., p. 26. 174 Ivi, p. 83. 175 Per un approfondimento di questi temi cfr. I. Crispini, op. cit., p. 80.

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quello che Blaise Pascal chiamava “l’ordre du coeur”, quella “logique du coeur” i cui

dati costitutivi sono apriori.176

Che lo si veda, come nel caso di Scheler, quale punto di riferimento da cui

discostarsi; che non si accetti di considerarlo quale capostipite di alcuna dottrina

antropologica sostenendo che di fatto l’antropologia pragmatica non ha avuto alcun

seguito dopo la sua opera; che si ammetta al contrario la rilevanza storica e teorica,

anche nel contesto antropologico, delle ricerche kantiane; in ogni caso quella di Kant

resta quale tappa estremamente significativa di un percorso di idee di cui non si può non

tenere conto, pur o proprio perché in contrasto con la tendenza fisiologistica e

psicologistica delle antropologie dell’epoca.

Come è stato scritto:

Ciò che Kant diede agli studenti degli anni sessanta fu la rinnovata convinzione, dopo quasi un quarantennio di wolffismo scolastico dominante, che si dovessero finalmente sostituire le sterili esercitazioni logistiche e le vuote costruzioni metafisiche con una filosofia utile all’uomo comune; ed invero con le lezioni kantiane la ‘dottrina dell’uomo’ come chiama Wundt l’istanza della ‘terza generazione illuministica’, quella del trentennio 1750 – 80, fa negli anni sessanta il suo rientro nel mondo accademico.177

I cenni a Kant, doverosi all’interno di questo percorso, richiederebbero uno spazio

di approfondimento che qui è impossibile dedicare. Di essi ci è dunque utile tenere

ferme le suggestioni e gli eco che maggiormente, e se non altro più esplicitamente, si

avvertono all’interno del tema circoscritto e degli autori che andiamo trattando.

Su queste basi possiamo quindi passare alla delineazione del problema della

sensibilità da parte di Plessner, l’autore tra gli antropologi filosofici che appare più

176 “Tutta la nostra vita spirituale, e non soltanto il conoscere oggettivo e il pensare nel senso di conoscenza dell’essere, possiede atti e leggi di atti, beninteso la vita pura, indipendente secondo la sua essenza ed il suo contenuto dalla situazione di fatto dell’umana organizzazione. Anche la parte emozionale dello spirito, il sentire, il preferire, l’amare, l’odiare, ha un contenuto originario apriorico, che non è tolto in prestito dal pensare e che l’etica, in piena indipendenza dalla logica, ha il compito di rivelare. C’è un apriorico ordre du coeur, o logique du coeur, come dice acutamente Blaise Pascal.” (M. Scheler, Il formalismo…, cit. p. 63). 177 N. Merker, L’illuminismo in Germania. L’età di Lessing, Ed. Riuniti, Roma 1989, pp. 111-112.

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rappresentativo di quella comunione di intenti e affinità di tematiche che Dufrenne e

l’estetica fenomenologica in generale hanno messo in campo al modo della filosofia.

1.4 Helmut Plessner, tra Kant e la fenomenologia husserliana

Proprio allo sfondo kantiano di cui sopra ha dedicato larga parte dei suoi studi

Helmut Plessner che con tale sostrato si confronta a più riprese, treando da esso lo

spunto, anche polemico, per giungere ad alcuni dei suoi esiti più interessanti. Esiti che

riguardano in massima parte il problema dei sensi e della loro unità e relazione.

Gli scritti giovanili dell’autore sono prevalentemente dedicati allo studio del

criticismo kantiano mentre gli scritti successivi al 1928, anno cardine della ‘svolta

antropologica’ recano tangibili segni di un ormai avvenuto e maturo discostamento.178

Ma è nel periodo a metà tra queste due fasi, precisabile cronologicamente sull’anno

1923, che Plessner si dedica a quello tra i suoi temi più rilevante per noi: il problema

estesiologico179. È quello l’anno in cui vede la luce l’ampio studio, portato a termine nel

dicembre del 1922, sul problema dell’unità e molteplicità dei sensi Die Einheit der

178 Del resto, è lo stesso Plessner, riprendendo le parole di Windelband, a scrivere: “comprendere Kant significa oltrepassarlo” (Gesammelte Schriften II, cit., p. 17). 179 Il concetto di estesiologia fa parte della nostra tradizione filosofica in modo più sensibile di quanto a prima vista non sembri. Se la consultazione di una qualunque dizionario filosofico italiano non porterà alcun chiarimento rispetto a questa voce, praticamente inespressa. Alla voce “estetica” dell’Abbagnano (in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1988, p. 433), tuttavia, tra gli sviluppi del’estetica del secondo Novecento, M. Ferrarsi indica un atteggiamento estetologico in senso ampio volto a recuperare la nozione baumgarteniana di conoscenza sensibile, “il cui oggetto prioritario non è il dominio dell’arte, né del bello, ma quello della sensazione come aisthesis e più complessivamente di tutta la sfera dell’apparire in quanto ambito complementare e insieme distinto da quello logico” e il concetto kantiano di estetica trascendentale, indipendente dal carattere soggettivo del giudizio di gusto. Tra gli autori che in modo diverso hanno contribuito allo sviluppo di tale orientamento nell’estetica si ricordano: Husserl delle Analisi delle sintesi passive e di Esperienza e giudizio; le indagini di Merleau-Ponty sul carattere estetico dell’ontologia in I visibile e l’invisibile; il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche; le riflessioni di Goodman e Garroni sull’estetica come filosofia non speciale; le ricerche di Walton (Mimesis come creazione di finzione) sulla differenza specifica tra realtà e immaginazione. In ambito poi più nettamente scientifico Ferrarsi sottolinea il rilievo delle teorie della percezione della psicologia della Gestalt. Infine, Derrida ha contribuito sensibilmente, con la sua ‘grammatologia’ su basi kantiane e fenomenologiche all’approfondimento dei rapporti tra logica ed estetica.

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Sinne. Grundlinien einer Asthesiologie des Geistes180 all’interno del quale è

significativamente compresa una lunga appendice sul sistema critico kantiano come

teoria della conoscenza: Kants System unter dem Gesichtspunkt einer Erkenntnistheorie

der Philosophie181. Quest’opera si era posta al centro della intensa discussione

filosofico-scientifica tedesca, ormai invalsa dalla seconda metà dell’Ottocento, intorno a

natura e struttura delle leggi del pensiero; la stessa discussione, nel segno generale di un

“ritorno Kant”, aveva tra l’altro portato alla fondazione della “psicologia fisiologica”

da parte di Wundt e Helmoltz. È questo tra l’altro il momento in cui, come abbiamo già

accennato in fase introduttiva, l’intreccio tra psicologia, fisiologia e teoria della

conoscenza caratterizza il dibattito culturale e filosofico.182 È proprio a questo dibattito

e questa temperie culturale che fa riferimento Plessner fin dalla prefazione del libro che

nasce infatti, secondo il disegno iniziale, come primo volume di un progetto editoriale

di stampo cassireriano sulla teoria della conoscenza che doveva dipartirsi, anziché dal

linguaggio, dalla teoria della conoscenza sensibile. Il tentativo era quello di “mettere in

crisi i limiti formali dell’estetica trascendentale kantiana dall’interno, dimostrandone

l’incapacità, in base ai postulati della ragione pura, di legittimare una teoria critica della

sensibilità.”183

Quando però, nella seconda metà degli anni venti, gli interessi dell’autore si

concentrano sistematicamente sulle possibilità e i metodi dell’antropologia filosofica il

progetto si arresta. “Nondimeno, è significativo che l’esito estremo o sviluppo di una

riflessione estetica che intende mettere in crisi i limiti formali della filosofia kantiana in

modo strutturale, muovendo cioè dalla stessa estetica trascendentale, e non dalla terza

Critica, è la presa di distanza definitiva di Plessner dalla Erkenntnistheorie di 180 L’unità dei sensi. Lineamenti fondamentali di estesiologia dello spirito, in Gesammelte Schriften, Suhrkampf, Frankfurt am Mein 1980-85. Tr. it. parziale in Helmut Plessner, Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi il suono, a cura di A. Ruco, Clueb Bologna 2007. 181 Il sistema di Kant dal punto di vista di una teoria della conoscenza della filosofia, ora in Ibidem. Pp. 323-345. 182 Tramite una chiave di lettura introdotta da Fries e Maimon l’analisi della conoscenza era stata ricondotta alla psicologia divenendo analisi dell’esperienza come viene resa possibile dalla nostra organizzazione psicofisica. La teoria della conoscenza passava quindi per l’analisi dei processi di sensazione, percezione e coscienzializzazione che i risultati delle scienze positive andavano chiarendo. Su questo dibattito scientifico-filosofico che in area tedesca si è sviluppato a partire da Fries e Maimon, cfr. S. Poggi, I sistemi dell’esperienza, Il Mulino, Milano 1977. 183 Cfr. A. Ruco, Estetica e antropologia filosofica nella teoria estesiologica di Helmut Plessner, prefazione a H. Plessner, Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a c. di A. Ruco, Clueb, Bologna 2007, pp. 7-61 in particolare pp. 12 e segg.

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derivazione kantiana e neokantiana e l’elaborazione di una teoria più vicina al mondo

della vita, nei suoi aspetti estesiologici e antropologici.”184

L’obiettivo teorico entro cui si muove Plessner è far riconoscere al criticismo le sue

stesse lacune e limiti, approfondendo metodicamente i punti di rottura con esso.

Il riferimento oppositivo a Kant, che pure di questi raccoglie notevole eredità,

risuona in modo molto esplicito fin dal momento in cui, là dove si accinge ad esporre i

criteri metodologici e i problemi teorici generali dell’estesiologia, l’autore ne lamenta la

carenza di immediatezza con questo passo:

Il veterocriticismo di Kant e il neocriticismo dei kantiani di tutti gli orientamenti (la scuola di Marburgo, di Heidelberg), ma anche tutti gli altri orientamenti attuali che si attengono al procedimento critico come il solo possibile per la filosofia, sono d’ostacolo per elaborare una filosofia della natura e delle sue forme. Infatti il procedimento critico tenta di dimostrare i criteri del sentire, del volere, del pensare, del credere e per tale ragione, persino nella sua versione più ampia, può sfociare soltanto in una filosofia della cultura. Così come Kant ha voluto definire la facoltà conoscietiva dell’uomo in base alle sue prestazioni matematiche e scientifico-naturali, ovvero ha voluto definire i confini del conoscere in modo analitico-regressivo, in base ai confini ideali di queste prestazioni, i suoi perfezionatori moderni tentano di aggiungervi le prestazioni storiche e della scienza della cultura, per ottenere uno sguardo più vasto sulle facoltà teoretiche. La costruzione della natura nelle scienze naturali concorda con la costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito. Non importa, inoltre se la critica filosofica pervenga ai criteri di valutazione soltanto attraverso un’analisi delle scienze o in parte anche attraverso un’analisi immediata delle opere. Il fatto è che con questo metodo è stato tolto alla filosofia un accesso immediato alla natura. L’ambiente immediato resta incomprensibile. 185

Sono questi, nelle loro istanze di globalità e immediatezza, i contorni entro cui si

delinea il problema estesiologico così come Plessner invita a configurarlo e che, come si

legge e come si è detto, mira al totale superamento delle dicotomie cartesiane a favore

di un riafferramento della realtà secondo declinazioni onnicomprensive.

In questa tematica si vedono confluire questioni etiche, estetiche e gnoseologiche

secondo l’articolato tentativo dell’autore di elaborare un’analisi della realtà che sappia

abbracciarne la complessità oltre che l’armonia in modo più efficace delle prospettive di

idealismo e realismo. 184 Ivi, p. 13. 185 H. Plessner, Autopresentazione inedita dell’”unità dei sensi”, in A. Ruco, op. cit., p. 61.

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L’impostazione formalistica di matrice kantiana si rivela per Plessner incapace di

esaurire la ricchezza di contenuti con cui noi esperiamo il mondo. Da questa

constatazione l’autore trae uno dei motivi che lo spingono al superamento di tale

impostazione in favore di una visione della sensibilità che sleghi i caratteri di oggettività

dal loro esclusivo rapporto con le esperienze scientifiche. Come prosegue il passo che

abbiamo citato:

Non basta basare una dottrina delle scienze dello spirito e della storia su una dottrina dell’intuizione e della percezione tagliata soltanto sulla scienza della natura. Una critica universale dell’intelletto e della ragione esige una critica dei sensi altrettanto universale.186

Tale critica dei sensi si traduce in una sorta di domanda-guida esplicitabile nei

termini di “dove si trova il senso della sensibilità?”187 e che risponde a una duplice

esigenza: da una parte restare fedeli alla ricchezza e pienezza dell’esperienza vitale del

mondo, e dall’altro trovarne un fondamento legittimante, sistema delle condizioni che

rendono valida quell’esperienza, non meramente soggettiva ma oggettiva, riconoscibile

e coordinata. L’indagine plessneriana sui sensi, presentandosi come una estesiologia, e

più precisamente come una estesiologia dello spirito,188 si discosta rapidamente

dall’estetica come filosofia dell’arte per rivolgersi piuttosto in modo diretto alla

grammatica del sensibile e del corporeo. “Il genitivo dello spirito in questo caso ha

valore sia oggettivo sia soggettivo, rinvia al tentativo di legittimare un accordo

reciproco – materiale o funzionale che sia – tra la sensibilità e l’insieme delle modalità

di elaborazione di senso dello spirito, le prestazioni culturali oltre che della scienza,

dell’arte e del linguaggio.”189

Come esplicita A. Ruco nel volume che abbiamo citato, nel sottolineare il rilievo

che assume lo spirito nelle sue ricerche estetiche Plessner mette in luce il carattere

critico-trascendentale della sua riflessione estetica e la conseguente presa di distanza dai

186 Ivi, p. 62. 187 H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 76. 188 “Definiamo estesiologia quella disciplina, dottrina della percezione o della sensazione, tuttavia con l’aggiunta pienamente giustificata: dello spirito, ponendo l’accento sulla netta linea di separazione tra la nuova questione e la questione più chiaramente psicofisica che emergerà più avanti.” (Ivi, p. 32). 189 Cfr. A. Ruco, op. cit., p. 15.

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metodi empirici della scienza della natura, le cui indagini quantitative non permettono

di comprendere la natura qualitativa del problema dell’unità dei sensi.190

L’estesiologia dello spirito è allora, precisamente:

La scienza dei modi di simbolizzazione dei contenuti spirituali e dei fondamenti di essi. Essa mostra, che a determinati conferimenti di senso [Sinngebungen] sono necessari determinati materiali e perché non altri sono possibili. Conseguentemente essa è la via data per l’interpretazione della molteplicità delle modalità sensibili. Da questo obiettivo discende, con altrettanta necessità, che a essa è concesso di trascegliere solo quei domini di valore a cui corrispondono connessioni pure di significazione e intuizione. Non l’intera pienezza della cultura, non tutte le produzioni di valore dell’uomo vengono indagate, ma solo le possibilità del suo comprendere e le materie a queste specifiche, nelle e con le quali il comprendere è connesso.191

Lo spirituale cui rimanda l’estesiologia plessneriana è allora l’insieme degli atti di

conferimento di senso e nel momento in cui di esso si tenti di discutere la validità

occorre che l’insieme di questi atti sia in rapporto necessario con ciò che viene investito

del senso.192 Gli atti di un certo tipo, cioè, si possono relazionare esclusivamente con

determinati contenuti sensibili. L’estesiologia plessneriana è allora quella forma di

indagine che proprio a tale rapporto esclusivo si rivolge, studiando le condizioni

materiali della produzione di senso.

In questo senso quello che con Plessner si delinea come compito principale

dell’indagine è il reperimento di un nesso che renda possibile legare, senza costringerla

né distruggerla, la varietà dell’esperienza; di un elemento unificante che sia al tempo

stesso a priori, ossia non meramente empirico, e tuttavia già sempre ricco di contenuto.

“Contenuto e principio d’unità dovranno stare in un rapporto di connessione intrinseca,

effettiva, concreta, non quindi in un rapporto di connessione formale, di vuota

legalità.”193

190 Cfr. Ibidem. 191 H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 278. 192 È stata notata la risonanza avvertibile in questo contesto della definizione di ‘simbolo’ offerta da Cassirer: “Abbiamo tentato di far rientrare in esso il complesso di quei fenomeni in cui si presenta in genere una qualsiasi ‘realizzazione significativa’ del sensibile, in cui un elemento sensibile, nella fattispecie del suo esistere e del suo esser-così, si presenta al tempo stesso come differenziazione e materializzazione, come manifestazione e incarnazione di un significato”. (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. 3, I, Nuova Italia, Firenze 1984, p. 124). 193 M. Russo, op. cit., p. 237.

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Tutta la questione si radica sul nucleo teorico fondamentale della riflessione di

Plessner, che è l’intento di tematizzare la differenza, la ricchezza di sfumature

qualitative del mondo, salvaguardandone la singola molteplice e variegata ricchezza

irriducibile alla generalità del concetto. È proprio in queste zone d’ombra, dove il rigore

scientifico perde la sua presa in favore di un più elastico approccio indagativo, che si

posiziona l’uomo, nella sua individualità che è vita vissuta prima che compresa.

L’uomo è il luogo in cui la natura e lo spirito si incontrano, e vale la pena indagare i punti specifici di rottura e di vicinanza nei quali si trova l’afferramento reciproco delle strutture naturali e spirituali.194

Le molteplici forme in cui appare la materia seguono nell’essere umano variazioni

e articolazioni, a loro volta conduttrici di senso, che è lo “spirituale”, con la propria

inventiva e creatività, a produrre e rendere possibili. È per tale ragione che, considerata

la varietà dei modi fondamentali di apparizione delle cose e considerato il loro essere

indissolubilmente legati ai sensi corporei, Plessner arriva a parlare di unità di anima, o

spirito, e corpo e con ciò della persona umana come “regno intermedio dell’indifferenza

psicofisica”195. Quello che con queste considerazioni si mira a mettere in luce è

quell’intima conformità, cui più volte Plessner ritorna, tra la nostra organizzazione

sensibile con le forme e i modi possibili della significazione, quindi su quel nesso

inscindibile tra fisico e simbolico. “Nell’articolazione del mondo intuitivo, nello strano

fatto della sua differenziazione sensibile, è custodita una legge di senso, se così non è,

se conformità non c’è, se nesso necessario non c’è, allora veramente le differenze

qualitative sensibili hanno, come volevano Kant e i kantiani, carattere meramente

empirico e quindi valenza meramente soggettiva”196.

Quelli che egli suggerisce di chiamare forme ideali e prodotti culturali non sono

entità astratte surrettiziamente aggiunte a insignificanti sezioni di materia; al contrario, 194 H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 371. 195 È da Scheler che il concetto di ‘indifferenza psicofisica’ giunge a Plessner. Con Scheler, infatti: “il processo vitale fisiologico e quello psichico sono dal punto di vista ontologico strettamente identici. Essi sono solo fenomenicamente diversi, ma anche fenomenicamente sono strettamente identici nelle leggi di struttura nella ritmica del loro decorso…” (M. Scheler, Die stellung der Menschen in Kosmos, cit. p. 196). 196 M. Russo, op. cit., p. 251.

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essi esistono come forme sensibili e la possibilità di una loro integrazione sensibile è ciò

di cui la ricerca estesiologia si propone di dar conto.

Il fatto che il mondo appaia in modi acustici, tattili, visivi, olfattivi e che questi

modi, per quanto intimamente interrelati secondo specifiche disposizioni sinestetiche

del soggetto, siano qualità fenomenicamente irriducibili esige, per Plessner, la

possibilità di legittimare un’unità positiva, non intermodale, dei sensi. Con essa, non si

intende tuttavia delineare un’immagine del mondo parcellizzata, ridotta alla somma di

qualità empiriche variegate. La prospettiva plessneriana tende piuttosto a prendere le

distanze dalle ricerche empiriche della psicologia e della fisiologia, per indagare le

qualità molteplici dell’esperienza sul piano filosofico. Nell’ambito scientifico, infatti, i

contenuti della sensazione si trovano ridotti a quantità calcolabili oppure considerati in

termini asettici e astratti come materia, dati sensibili o impressioni esterne. La domanda

di Plessner muove proprio da questa forma di mancanza verso l’obiettivo di rendere

conto dei “modi di apparizione di questo mondo”197.

A tali modi di apparizione di questo mondo egli guarda sempre alla luce della

costituzione di quel soggetto che tale mondo esperisce. Di tale soggetto, umano

naturalmente, si interpreta come elemento costitutivo l’intreccio tra corporeo e spirituale

indicando pertanto la possibilità di una riflessione filosofica che integri in qualche modo

il modello delle scienze, superandole tuttavia nel far reagire le strutture basilari della

natura umana di cui esse si occupano con la molteplicità storica e culturale che tale

natura completa e complica.

La questione dell’unità dei sensi si prospetta quindi nei termini dell’unità delle

molteplici modalità che ogni cosa implica per manifestarsi.

Da questo presupposto si può comprendere un’altra caratteristica fondamentale che

tale indagine ha per il suo autore: l’elaborazione di una estesiologia dello spirito è per

Plessner condizione di possibilità per l’elaborazione di una ontologia della conoscenza.

197 H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p 23. Vedremo come questo sfondo sia condiviso dalla ricerca fenomenologica dufrenniana, che condivide il senso dell’osservazione merleau-pontiana: “Il pensiero oggettivo ignora il soggetto della percezione. Esso si dà infatti il mondo bell’e fatto, come contesto di ogni evento possibile e tratta la percezione come uno di questi eventi.” (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 284).

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Di più, la sua antropologia filosofica stessa, che segue le istanze estesiologiche, si

presenta come continuamento teorico delle prospettive dischiuse con l’estesiologia, e

questo nonostante le molteplici diversità.

All’antropologia filosofica spetterebbe dunque il compito di rappresentare un

approfondimento teorico e metodico rispetto agli scenari dischiusi con l’estesiologia.

Con quest’ultima, infatti, Plessner propone un metodo per affrontare i problemi che

dalla filosofia della cultura, regressivamente, giunge fino a una forma di biologia

filosofica.

Il carattere presentato inizialmente dalle ricerche estesiologiche è quello comune

alla secolare riflessione teoretico-conoscitiva del valore oggettuale dei sensi e della loro

molteplicità. Il percorso plessneriano, però, conduce a un passaggio dell’attenzione con

il problema dell’oggettualità spostato in secondo piano in favore di ciò che per Plessner,

concerne effettivamente la molteplicità dei sensi: la differenziazione delle loro modalità.

Con tale spostamento si chiarisce che la teoria delle modalità costruisce per la questione

dell’oggettualità “esattamente il fondamento della sua soluzione”.198

Oltre che su Kant, Plessner ha lavorato a lungo su Husserl, sul problema della

forma sistematica in filosofia e sul problema filosofico metodologico dell’accesso ai

fenomeni, perseguendo l’obiettivo di coniugare i due ambiti.199 In tutto il suo percorso

non si perde mai la consapevolezza della difficoltà di dover rispondere

antropologicamente a problemi teoretici e questo per la natura stessa dell’antropologia,

costitutivamente in bilico tra riflessione e osservazione, rigore teorico e elasticità

interpretativa, principi “astratti” e concretezza. Il metodo husserliano della descrizione,

interpretato nella sua inesausta fiducia naturale nei confronti del mondo delle cose, resta

198 H. Plessner, Die Eineheit…, cit. p. 294. 199 L’interrogazione del criticismo Kantiano avviene costantemente all’ombra di un filtro fenomenologico, nel tentativo di legittimare il carattere costruttivo e spontaneo di un principio incondizionato del filosofare. La sua esigenza di approfondire la filosofia critica di Kant matura, infatti, tra il 1914 e il 19196 durante gli anni di studio dottorale a Gottingen, dove egli concorda con Husserl un progetto di ricerca sul pensiero scientifico di Fiche in rapporto alla problematica dell’Io e della coscienza intenzionale nella fenomenologia (il primo volume delle Idee era stato pubblicato l’anno prima). Presto però Plessner si accorge che una tale ricerca non può prescindere da un attento studio della filosofia kantiana. Per tale ragione, quando Husserl nel 1916 viene chiamato a Friburgo, Plessner anziché seguirlo decide di concludere il suo progetto di dottorato a Erlangen con il neokantiano Paul Hansel.

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alla base di tutta la ricerca plessneriana e del suo sforzo di elaborare un sistema critico

aperto.

Per inciso, è interessante a questo proposito ricordare, e probabilmente Plessner lo

sapeva sebbene non vi faccia cenno, che anche Husserl, nel corso della sua

‘somatologia’, parla di unità ‘fisico-estesiologica’, di uno ‘strato estesiologico’ inteso

come il campo o sistema di sensazioni specifiche del corpo proprio psicofisico che

sempre inerisce, condizionandola, a qualunque sensazione fisica.200

Le due direttrici, kantiana e husserliana, rappresentano dunque, come dicevamo, i

cardini basilari che consentono di comprendere il sistema antropologico plessneriano

“all’interno del quale l’istanza di matrice kantiana, risalire a ciò che rende possibile

l’esperienza, si arricchisce e dilata grazie al metodo fenomenologico dell’intuizione di

essenza capace di promuovere il ritorno alle cose stesse.”201 Queste prospettive vengono

interpretate e utilizzate all’ombra di quel bisogno di concretezza che l’autore

costantemente sottolinea202 e con il quale, comprensibilmente, stride però spesso

l’aspirazione al rigore sistematico che ugualmente lo anima. La dicotomia resta pertanto

viva e dichiarata lungo la meditazione di una vita: la ricerca di idee e asserti filosofici di

natura indiretta, ipotetica, riflessiva, che possano formare un tutto autoconsistente e

però possano essere misurati, revisionati e sperimentati nell’esperienza diretta. Da un

lato, dunque, c’è un’istanza sintetico-costruttiva, il cercare un principio unificante

capace di autoverifica e autoapprensione nel corso della propria stessa attività

200 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Einaudi, Torino 1982, pp. 547-551. E in relazione a ciò si ricorda questo passo: “l’intuizione è caratterizzata da questo, che essa si riferisce a un oggetto in modo tale che in questo riferirsi l’oggetto steso si dà immediatamente. (…) I modi di un tale darsi di qualcosa sono i sensi, e ciascuno dà di volta in volta, in un determinato ambito, un molteplice, ciascuno ha un campo del proprio darsi. Ciascun senso, Kant non analizza ulteriormente ciò, ha un determinato campo; i colori non possono essere mai ascoltati, i suoni mai visti. (…) Ciò che in generale nell’ambito di un senso può darsi va analizzato innanzitutto secondo la sua struttura materiale. Tale analisi Kant stesso ha mancato di farla, e, finora, quasi l’intera filosofia; è un’analisi specificamente fenomenologica, fatta da Husserl per la prima volta nelle sue iniziali lezioni a Gottinga, un’analisi che lui stesso usava chiamare estesiologia dei sensi.” (M. Heidegger, Logic-Vorlesung 1925-26, cit. in M. Russo, op. cit., p. 231 n.). 201 M. Russo, op. cit., p. 206. 202 “Questo volevo io fin da studente a Heidelberg nel 1914: un principio della filosofia che non ci lasci nuotare contro al flusso sospingente costantemente in avanti della vita. Volevo un collegamento del romanticismo con Bergson – a quei tempi un’equiparazione della critica alla vita, pensare e natare, scrivania e frescura estiva in un sol colpo. Ora si mostra che il metodo della ascesa è certo la via che va al mare – il sole alle mie spalle…” Così in una lettera di Plessner all’amico Josef Konig nel dicembre del 1924 in cui l’autore allude alla consapevolezza di un afferramento diretto della realtà (in H. Plessner – J. Konig, Briefwechsel 1923-1933, cit. in M. Russo, op. cit., p. 207 n.).

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unificante: se l’esperienza, spiegata in base a tela principio, risulta essere un complesso

ordinato, un sistema coerente, allora il principio è valido e può effettivamente essere

definito condizione dell’esperienza. Dall’altro c’è l’esigenza di ripristinare l’integrità

dell’esperienza così come essa ordinariamente si presenta, spontaneamente viene fatta,

in tutta la sua varietà e ricchezza. A questa esigenza Plessner trova risposta nell’analisi

fenomenologica203, cui egli stesso dedica alcuni saggi espositivi.204

Dell’uso che egli intende fare di questa filosofia è lui stesso a dare indicazioni:

Tutto quello che si capisce da sé, che è immediatamente comprensibile, perché noi lo viviamo ogni giorno nell’indisturbato andamento delle cose e nel linguaggio quotidiano, diventa in questo modo un tema espressivo. Ma lo può diventare solo se noi lo prendiamo da un punto di vista paradigmatico. Ciò che ci permette, per esempio, di chiamare accordo un accordo e di distinguerlo da una conversazione o da una promessa deve essere in qualche modo ancorato a una struttura oggettiva della cosa, ad uno specifico ‘qualcosa’ appunto di questa cosa, alla sua essenza e se ciò riabilita l’osservazione ingenua, prescientifica (…) è perché il fenomenologo segue sempre il principio del rispetto della intenzionalità delle cose che di volta in volta gli si presentano, rispetto cioè del ‘senso dell’atto’ (Aktsinn) di cui ogni volta prendiamo coscienza.205

Come è stato scritto206, l’enorme potenziale liberatorio della fenomenologia,

smantellati teoremi speculativi, posizioni scientifiche, ‘ismi’ di ogni genere, stava

appunto nella possibilità di riacquisire alla filosofia, sotto il titolo di ‘fenomeni’,

l’infinito campo dell’esperienza, “andando da una melodia a una cifra, da un ricordo a

un affetto, da un calcolo a un’allucinazione, senza imbrigliarli in un sistema

definitivo”207. In essa “l’epoca dell’esperienza aperta sembra avere veramente trovato la

sua filosofia: filosofia come scienza tra le scienze, come lavoro in un orizzonte

203 Plessner racconta un episodio personale, cit. in M. Russo (Op. cit., p. 209) illustrativo del proprio bisogno di concretezza. Tra il 1914 e il ’15 egli lavora sul rapporto tra coscienza fichtiana e coscienza husserliana, ponendo continuamente domande su ciò a Husserl, di cui seguiva i seminari. Una volta di ritorno da uno di questi seminari, davanti al cancello di casa di Husserl, questi “manifestò il suo profondo malumore: ‘tutto l’idealismo tedesco mi è sempre stato allergico. Per tutta la mia vita – e qui impugnò il suo snello bastone da passeggio dall’impugnatura d’argento e lo puntò contro il montante del cancello – non ho fatto altro che cercare la realtà.’ In una maniera insuperabilmente plastica il bastone rappresenta l’atto intenzionale e il montante la sua realizzazione.” 204 Cfr. Phanomenologie. Das werk Edmund Husserls (1938); Bei Husserl in Gottingen (1959); Husserl in Gottingen (1959). 205 H. Plessner, Al di qua dell’utopia, cit., pp. 107-112. 206 M. Russo, op.cit., p. 210. 207 Ibidem.

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aperto”208, ed invero la fenomenologia è “una filosofia sul terreno dell’esperienza, una

filosofia come esperienza che, più ampiamente che la Ratio opposta all’empiria,

abbraccia a posteriori e a priori”209. Altrettanto che l’ermeneutica, la fenomenologia

rivela la propria utilità nel condurre al superamento del dualismo tra scienza e teoria

della conoscenza ossia della opposta sopravalutazione di uno di quegli aspetti del reale

che o si lasciano raggiungere con procedimento empirico (a posteriori) o mediante

elaborazione teorica (a priori). Il problema fondamentale, per Plessner e nel quadro più

completo degli obiettivi dell’antropologia filosofica, è invece quello di tenere insieme

entrambi.210 La questione adombra l’ulteriore dicotomia entro cui la meditazione

plessneriana si è coerentemente e costantemente assestata: la dicotomia tra ontologico

ed empirico. È proprio a metà tra questi ambiti, in una sorta di regione intermedia, vista

anche come soglia e ponte di passaggio tra entrambi, che Plessner – e l’antropologia

208 H. Plessner, Al di qua dell’utopia, cit. p. 109. 209 H. Plessner, Phanomenologie…, cit. p. 142. 210 È fondamentale, a proposito di questi temi, il riferimento costante da parte di Plessner alla filosofia della vita di Dilthey nella quale egli trova uno strumento utile al superamento di quello che egli vede come limite della fenomenologia, ossia l’idealismo coscienzialistico. Di Dilthey, Plessner apprezza in particolare la considerazione dell’uomo e della realtà come concretamente appaiono, ossia nelle loro determinazioni storiche, così come si depositano e si stratificano nella cultura. In Dilthey tutto viene riportato all’immanenza – processo della storia – rendendo impossibile un esame del reale che non si estenda alla ‘connessione dinamica’ di concetti, valori, norme, linguaggio, arte, conoscenza, insomma a tutto l’insieme di ciò che viene denominato cultura o ‘prodotto spirituale’. Alla coscienza soggettiva trascendentale subentra la totalità vitale, la vita quale intreccio di forze che dalle sfere più elementari della sensazione e del vissuto urge verso l’oggettivazione, spinge ad agire, creare, esprimersi. Se già per il fenomenologo l’intuizione non è quella astratta e formale delle scienze, bensì quella ‘piena’ del vissuto coscienziale, per l’ermeneuta l’intuizione si articola sempre necessariamente all’interno di una grammatica culturale, storicamente mobile e mutevole. Come si esprime lo stesso Plessner: “La vita nel senso di Dilthey è l’esperienza storica stessa, essa dischiude espressivamente la propria piena profondità alla comprensione che l’investe. Nel medium della loro propria storia, agendo e patendo, soggetto e oggetto sono reciprocamente apparentati e trasparenti l’uno per l’altro nella comunicazione e nell comprensione (…). Questo è il senso della parola ‘vita’ usato terminologicamente da Ditlhey; essa trae da sé stessa il suo significato, assieme alle categorie ermeneutiche che le appartengono, consegnandoli alla comprensione pensante; essa, nella linea della sua realtà effettiva divenuta storia, forma le sue stesse condizioni di possibilità. Mai ci si riconduce ad una zona di valori puri o di verità eterne oltre – o sovrasotriche. L’eterno nel contenuto delle prestazioni umane non perde la sua pretesa nei confronti della vita, ma certo perde la sua distanza ontologica da essa. Le categorie della vita sono pertanto grandezze storicamente divenute, che hanno potere di formare la storia. La filosofia si trova qui in uno scambio con l’esperienza del tutto nuovo: non più in una fissa distanza dalla conoscenza probabilistica di essa, o rinunciando a sé in favore di questa, e neanche come trasformazione ed esternazione dell’esperienza nel senso hegeliano, mainserita nel circolo con essa e nello scambio medesimo; una teoria essa stessa non conchiusa di un passato storico non conchiuso. La relazione tra apriori e aposteriori in questo senso è innanzitutto il fondamento per le connessioni su cui poggiano i giudizi di storia spirituale dei filologi, dei giuristi, degli economisti e degli storici.” (H. Plessner, Lebenphilosophie und Phanomenologie (1949), cit. in M. Russo, op. cit., p. 212.) L’analisi dell’opera di Plessner in relazione allo storicismo è condotta in modo ampio e particolareggiato nel libro di S. Giammusso, Potere e comprendere…, cit.

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filosofica in generale – dischiude, che si colloca l’indagine incessantemente rilanciata.

Di questa regione, faticosamente si cerca la descrizione, in un’indagine certo in linea

sotto alcuni aspetti con la fenomenologia: quello che resta da comprendere, la questione

fondamentale sempre di nuovo riproposta211 è dunque se a tale regione si possa pensare

come un luogo epistemico, di fondazione o esplicazione dei fenomeni secondo leggi,

ordini, relazioni, o non piuttosto il luogo in cui ogni fondazione, struttura, diviene

problematica. La terza ipotesi, infine, è quella che ne vede i caratteri tanto di fondazione

quanto di problematicità: la stabilità dell’episteme e la discontinuità che il domandare

stesso produce e alimenta.

1.5 M. Merleau-Ponty, da H. Plessner verso Dufrenne

Il riferimento all’a priori kantiano è quell’elemento all’ombra del quale si

raccolgono, prima di diramarsi in differenti direzioni, le riflessioni tanto di Plessner

quanto di Dufrenne, e prima di lui Merleau-Ponty.

Di quest’ultimo si può tenere fermo un passo presente nella Fenomenologia della

percezione, che esplicita la posizione dell’autore nei confronti di Kant e nella quale si

riflettono eco significative di quanto esposto con Plessner e di quanto seguirà con

Dufrenne:

Kant ha già dimostrato che l’a priori non è conoscibile prima dell’esperienza, cioè fuori del nostro orizzonte di fattività, e che è assurdo distinguere due elementi reali della conoscenza, uno dei quali sarebbe a priori e l’altro a posteriori. Nella sua filosofia l’a priori conserva il carattere di ciò che deve essere, in contrapposizione a ciò che esiste di fatto e come determinazione antropologica, solo nella misura in cui egli non ha seguito fino in fondo il suo programma, che si proponeva di definire le nostre facoltà conoscitive mediante la nostra condizione di fatto e che doveva obbligarlo a ricollocare ogni essere concepibile sullo sfondo di questo mondo. A partire dal momento in cui l’esperienza – cioè l’apertura al nostro mondo di fatto – è riconosciuta come il comnciamento della conoscenza, non c’è più modo di distinguere un piano della verità a priori e un piano delle verità di fatto, ciò che il mondo dev’essere e ciò

211 E messa puntualmente a fuoco da V. Vitello nella presentazione al volume di M. Russo (op. cit. pp. 9-19).

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che esso effettivamente è. L’unità dei sensi, che passava per verità a priori, non è più se non l’espressione formale di una contingenza fondamentale: il fatto che siamo al mondo; - la diversità dei sensi, che era considerata come data a posteriori, anche nella forma concreta che essa assume in un soggetto umano, appare necessaria a questo mondo, cioè al solo mondo che possiamo pensare in modo conseguente: diviene dunque una verità a priori.

La meditazione merleaupontiana, in particolare nelle prime opere, è costellata di

passi in cui riecheggia in modo esplicito la riflessione di Plessner.

Se anche non si può certo parlare di filiazione diretta, è però possibile ravvisare se

non altro alcuni passaggi considerabili come trait d’union teorico e simbolico tra i due

autori cui ci rivolgiamo, considerando la grande influenza avuta da Merleau-Ponty sul

pensiero di Dufrenne.

Uno degli esempi più lampanti si trova ancora nella Fenomenologia della

percezione:

La sensazione, così come ce la offre l’esperienza, non è più una materia indifferente e un momento astratto, ma è una delle nostre superfici di contatto con l’essere, una struttura di coscienza: anziché avere uno spazio unico, condizione universale di tutte le qualità, con ciascuna di esse abbiamo una maniera particolare di inerire allo spazio e, in un certo qual senso, di fare dello spazio. Non è né contraddittorio né impossibile che ogni senso costituisca un piccolo mondo all’interno di quello grande; anzi, è in ragione della sua particolarità che ogni senso è necessario al tutto e sbocca in esso.212

Come si vede, è in questa linea di pensiero che le considerazione di Plessner

trovano nel pensatore francese una sorta di commento virtuale.

Ancora, quella della differenziazione e delle proprietà specifiche dei sensi, con

tutte le implicazioni nei riguardi di una teoria della conoscenza nonché di un’ontologia,

che fanno sensibilmente parte del problema estesiologico plessneriano, sono punti

essenziali nello sviluppo della filosofia merleaupontiana prima e dufrenniana, poi.

Come si legge di nuovo ne La fenomenologia della percezione:

212 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 300.

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I sensi sono distinti l’uno dall’altro e distinti dall’intellezione, in quanto ciascuno di essi porta con sé una struttua d’essere che non è esattamente trasferibile. Possiamo riconoscerlo perché abbiamo respinto il formalismo della coscienza e fatto del corpo il soggetto della percezione. E possiamo riconoscerlo senza compromettere l’unità dei sensi. Infatti, i sensi comunicano. (…) L’esperienza sensoriale è instabile ed è estranea alla percezione naturale, la quale si effettua con il nostro corpo tutto insieme e sbocca in un mondo intersensoriale.213

Un comune atteggiamento nei confronti delle certezze frammentate della scienza,

così come lo abbiamo visto sviluppato da Plessner, fa parte dei binari su cui si sviluppa

la fenomenologia dell’autore francese.

La percezione sinestesica è la regola e se non ce ne accorgiamo, è perché il sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo disimparato a vedere, a udire e, in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione corporea e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò ce dobbiamo vedere, udire e sentire. (…) I sensi comunicano tra di essi aprendosi alla struttura della cosa. (…) Pertanto, considerati come qualità incomparabili, i “dati dei diversi sensi” dipendono da altrettanti mondi separati, dal momento che ciascuno di essi è, nella sua essenza particolare, una maniera di modulare la cosa: ciò non toglie che comunichino tutti in virtù del loro nucleo significativo.214

Lo scopo, in questo caso, resta quello di precisare natura e confini del significato

sensibile al fine di ricusare ulteriormente l’analisi intellettualistica che l’autore vuole

invece sempre respingere. L’unità dei sensi non appartiene al medesimo ordine

dell’unità degli oggetti di scienza. Ugualmente, l’effetto della nostra percezione di

riunire in un unico mondo le nostre esperienze sensoriali non avviene secondo il

medesimo schema secondo cui la scienza collega oggetti e fenomeni. Non si tratta, cioè,

di una sorta di schema rappresentativo di oggetti in sequenza spazio temporale, bensì di

coglimento di qualcosa in unità e secondo uno schema presentativo.

Torneremo più avanti su queste distinzioni che vedremo ripresentarsi con

Dufrenne, che di fatti da Merleau-Ponty le deriva, in modo significativo.

213 Ivi, p. 303-304. 214 Ivi, p. 308-309.

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Appartiene sempre a Merleau-Ponty quell’orizzonte che, con una comunanza di

tesi talora perfetta con Plessner, l’autore francese dischiude nel suo volume del 1942 La

struttura del comportamento.215 All’interno di quest’opera sono numerosi i riferimenti a

letture comuni, in particolare a F. Buytendijk in collaborazione con il quale Plessner

stesso pubblicò un lavoro.216 All’interno de La struttura del comportamento Merleau-

Ponty si propone di discutere, basandosi principalmente sulla psicologia della forma, le

teorie sul comportamento delle principali scuole di psicologia, con particolare riguardo

per la psicologia della Gestalt e il behaviorismo. Differentemente dalla psicologia della

Gestalt, tuttavia, egli intende tematizzare tutti i diversi livelli, e le differenze che tra loro

intercorrono, in cui il comportamento si manifesta. Quest’ultimo, infatti, occupa una

sorta di regione intermedia tra fisico e psichico:

La struttura del comportamento quale si offre all’esperienza percettiva non è né cosa né coscienza, ed è questo che la rende opaca all’intelligenza. (…) Il comportamento è quindi fatto di relazioni, non è un involucro di coscienza pura, e come testimone di un comportamento io non sono una coscienza pura.217

Ciò significa comprendere il comportamento come la sola possibilità di afferrare il

corpo proprio e quello altrui nella sua specificità: cioè senza confonderlo col corpo

oggettivamente considerato della scienza fisiologica, riconoscendone la valenza

oggettuale e soggettiva allo stesso tempo. Ogni corpo sfugge ad ogni considerazione che

investirebbe un oggetto statico, presentandosi come il centro di prospettive e di

comportamenti verso il mondo che solo lui è.218 Non si può, in altre parole, ricondurre il

corpo in quanto tale alla cosa semplicemente percepita nel mondo, nella misura in cui i

suoi movimenti saranno sempre dei comportamenti: mai riferibili a un corpo estraneo

quale oggetto tra gli oggetti. I gesti del corpo, infatti, non sono coscienza astratta, ma

modi reali di stare al mondo e di esistere.

215 M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, PUF, Paris 1942, 3° ed. 2006. 216 Die physiologische Erklarung das Verhaltens (1935). 217 M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 208-209. 218 È stato notato (M. Pangallo, op. cit., p. 80), e indicato quale punto debole, come così dicendo Merleau-Ponty assegni il medesimo statuto fenomenologico al comportamento vissuto in prima persona come a quello osservato in altri. Se da un lato, infatti, una certa sinonimia tra i due è innegabile, dall’altro risulta fenomenologicamente poco condivisibile l’atto di porli sullo stesso piano.

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Di più, contrariamente a quanto accade per gli animali, i comportamenti dell’uomo

sono essi stessi portatori e generatori di significati tanto reali quanto simbolici:

Con le forme simboliche, compare una condotta che esprime lo stimolo per se stesso, che si apre alla verità e al valore proprio delle cose, che tende all’adeguazione del significante e del significato, dell’intenzione e di ciò che essa mira. A questo punto il comportamento non ha più solamente un significato ma è egli stesso un significato.219

Interno ed esterno giocano un ruolo pressoché paritario e comunque mai del tutto

distinguibile nell’influenzare un comportamento; entrambi si articolano in modo

variabile e ogni volta influente nel suo complesso e per la sua complessità.

I rapporti tra l’individuo e il suo ambiente seguono costantemente un andamento

dialettico, per la descrizione del quale la nozione di ‘forma’ mantiene la propria

efficacia: “La forma è una configurazione visiva, sonora o addirittura anteriore alla

distinzione dei sensi, nella quale il valore sensoriale di ogni elemento è determinato in

base alla sua funzione nell’insieme e varia con questa funzione.”220

Di più, i differenti livelli su cui si assesta il comportamento dell’individuo umano

si spiegano secondo un duplice andamento che segue il corpo e l’anima, nel cui regno

intermedio trova posto l’elemento spirituale. Con quest’ultimo, inoltre, si inserisce nel

discorso anche quell’apertura all’agire morale che abbiamo visto dischiudersi con Kant,

essere perseguito con fermezza da Plessner e nel quale vedremo sboccare il percorso di

Dufrenne. Leggiamo:

Qui si vuole uguagliare la coscienza all’intera esperienza, raccogliere nella coscienza per sé tutta la vita della coscienza in sé. Una filosofia di ispirazione criticista fonda la morale sulla riflessione che ritrova dietro tutti gli oggetti, il soggetto pensante nella sua libertà. Se al contrario riconosciamo, sia pure a titolo di fenomeno, una esistenza della coscienza e delle sue strutture resistenti, la nostra conoscenza dipende da ciò che noi siamo, la morale comincia con una critica psicologica e sociologica di se stessa, all’uomo non si assicura dall’inizio di avere una fonte di moralità, la coscienza di sé non gli appartiene di diritto, e non si acquisisce che attraverso l’elucidazione del suo essere concreto, non si

219 M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 133. 220 Ivi, p. 212.

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verifica che attraverso l’integrazione attiva delle dialettiche isolate -corpo e anima-, tra le quali egli è inzialmente dislocato.221

Una descrizione dell’uomo non può quindi avvenire nei termini di un essere

animale dotato di ragione, anche gli istinti rientrano nella dialettica spirituale, così come

questa è inconcepibile al di fuori delle situazioni concrete in cui si incarna.

Materia, vita e spirito non vanno a formare ordini distinti di realtà, indipendenti e

ciechi, ma rappresentano tre piani di significazione, tre forme di unità che tra loro

interagiscono e si legano “secondo una dialettica particolare”.222 Infine indistinguibili,

se non nei termini di differenti gradi di integrazione,223 si esibiscono in unità in quella

forma di fenomeno che è il comportamento umano.

È in questa visione che si invera, in una direzione che lo stesso Plessner a più

riprese aveva percorso, l’annichilimento di tutti i dualismi sterili e scientifici che

oppongono anima e corpo. I rapporti tra essi, infatti, nella lezione merleaupontiana,

restano oscuri solo fintanto che si cerchi di trattare astrattamente il corpo come

frammento di materia trascurandone i poteri dialettici.

Infatti:

Il soggetto vive in un universo di esperienza, in un ambiente neutro rispetto a distinzioni sostanziali tra l’organismo, il pensiero e l’estensione; in un commercio diretto con gli esseri, le cose ed il suo proprio corpo. L’ego come centro dal quale irradiano le sue intenzioni, il corpo che le sostiene e le cose cui si rivolgono, non sono confusi tra loro: sono soltanto tre settori di un unico campo.224

Si trovano numerosi rimandi virtuali ai problemi estesiologici, grazie ai quali è

possibile afferrare svariate suggestioni teoriche.

Come per Plessner, per Merleau-Ponty l’esperienza di una cosa reale non può

essere spiegata con l’azione di questa sulla mia mente. Se è il senso delle cose ciò che

221 Ivi, p. 240. 222 Ivi, p. 217. 223 Ibidem. 224 Ivi, p. 205.

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infine giunge alla coscienza umana, esso giunge però solo in virtù delle esperienze

percettive e ancora in virtù di queste ultime esso è in grado di trascenderle.

Il comportamento diventa pertanto il luogo in cui la profonda solidarietà che lega

corpo e anima si manifesta e rende intelligibile.

La soluzione merleaupontiana va poi oltre e si manifesta in una specifica visione

della coscienza, letta esplicitamente nei termini di coscienza percettiva. Infatti, come si

legge nella Fenomenologia della percezione: “Per quanto concerne la coscienza,

dobbiamo concepirla non più come una coscienza costituente e come un puro essere-

per-sé, ma come una coscienza percettiva, come il soggetto di un comportamento, come

essere al mondo o esistenza.”225

Prima di passare alla trattazione diretta di Dufrenne, che è quanto ci sta

maggiormente a cuore, possiamo concludere questa breve diversione merleau-pontiana

riassumendo i motivi che ci hanno condotto ad aprirla e, con essi, i punti che questi

primi due capitoli ci hanno permesso di mettere a fuoco.

Quello dell’inquadramento, della comprensione e della descrizione dei rapporti tra

gli aspetti corporei dell’uomo e gli aspetti spirituali che lo caratterizzano è un problema

complesso che, come abbiamo visto, caratterizza la riflessione sul fenomeno umano

tanto nei termini antropologici quanto nei termini filosofici e fenomenologici in

particolare. L’affinità di temi tra questi autori e questi ambiti di ricerca è l’altro lato

dell’importanza filosofica che lo sviluppo di questo tipo di questioni, che come abbiamo

visto a loro volta affondavano in molteplici e stratificate esperienze scientifiche,

filosofiche e culturali precedenti, ha assunto nel corso del secolo scorso.

Le iniziali digressioni di carattere storico sono quindi servite per molteplici ragioni.

Quelle relative a Dufrenne hanno permesso di mettere a fuoco la provenienza della

sua meditazione e di sottolinearne la pregnanza nel quadro delle questioni che da oltre

un secolo animavano l’estetica francese e che, come si vede nella seconda parte del

primo capitolo, non sono estranee allo sfondo teorico dell’antropologia filosofica di area

tedesca.

225 Mereleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 456.

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Quelle relative all’antropologia filosofica, necessarie ad introdurre una disciplina

tanto complessa e in Italia non a tutti nota, hanno risposto a un duplice obiettivo:

innanzitutto mettere in luce il momento storico in cui questo tipo di problemi si è fatto

strada e radicato in modo ineludibile nell’orizzonte dei pensatori. Momento in cui la

differenziazione dei saperi e la loro specializzazione ha portato in primo piano la

frammentazione dell’umano e richiesto un suo nuovo e più completo riafferramento. In

secondo luogo, è stato possibile esplicitare il medesimo humus da cui hanno preso vita

quelle due declinazioni tanto distanti, eppure sotto molteplici aspetti tanto affini,

dell’interrogazione dell’umano rappresentate dall’estetica e dall’antropologia filosofica.

Con Plessner, e grazie all’apertura fornita dai riferimenti kantiani, abbiamo visto

come la sensibilità sia stata vissuta e analizzata secondo problematiche angolazioni al

fine di esplicitare la possibilità di, tramite essa, afferrare sensi che i sensi veri e propri

non sono in grado, fisicamente, di esaurire. Il problema della sinestesia, dell’unità dei

sensi e delle loro interazioni diventa allora il problema della possibilità, che tramite essi

ci è offerta, di afferrare qualcosa (un insieme, un significato) che da essi permette di

esulare.

Se è possibile individuare in questo aspetto una delle caratteristiche fondamentali

dell’umano, si spiega allora quella comunanza di direzioni che abbiamo cercato di

esplicitare. Si spiega anche la necessità di un cenno a Merleau-Ponty, per il quale il non

percepibile che è oltre e grazie a la nostra percezione è stato oggetto delle ricerche di

una vita, dal momento che è a partire dal suo pensiero che ci si può avvicinare a quello

di Dufrenne.

Di quest’ultimo indagheremo in particolare il concetto di sinestesia all’interno

dell’indagine antropologica, così come esso è implicato dalla sua notion d’à priori.

Cercheremo poi di farla agire nel contesto artistico, facendo perno sull’eredità teorica

dell’autore, raccolta nell’ultima opera L’occhio e l’orecchio. Dovremmo poterne

ricavare un quadro esauriente della concezione del soggetto da parte dell’autore

arricchita dalle aperture offerte dalla proposta dufrenniana di pensare un quasi-soggetto

che si incarna nelle opere d’arte.

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CAPITOLO 2: L’OGGETTO ESTETICO, UN MONDO

TRA PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE

2.1 La sensibilité généra(lisa)trice

Il passaggio da un orizzonte specificamente antropologico ad uno dove la

prospettiva antropologica si integra con una più strettamente fenomenologica richiede in

prima istanza una notazione basilare: in questo ambito qualsiasi discorso che abbia per

oggetto l’uomo si configura essenzialmente e in modo pressoché assoluto come un

discorso sul corpo. È a questo che, sulla scia dell’eredità husserliana, tanto con

Merleau-Ponty che con Dufrenne si guarda esplicitamente, nel costante tentativo di

chiarirne le valenze sia antropologiche sia ontologiche e persino metafisiche.

In questa linea, nella meditazione di Mikel Dufrenne confluiscono, reagendo l’uno

sull’altro secondo nuove prospettive, tanto i lasciti merleaupontiani che quelli

husserliani. In particolare, Dufrenne ha e tiene costantemente più che presente la figura

che con Merleau-Ponty esplicita le relazioni che legano il soggetto, inteso sempre come

soggetto percettivo, al mondo delle cose e degli altri soggetti: la carne, che va a

svolgere la funzione dell’antico termine “elemento, nel senso in cui lo si impiegava per

parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco”226. Concepita come “nozione

ultima”, la carne è intesa “nel senso di una cosa generale, a mezza strada fra l’individuo

spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere

in qualsiasi luogo se ne trovi una particella”227.

226 Il visibile e l’invisibile, cit., p. 156. 227 Ibidem.

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Come ricorda Emmanuel de Saint Aubert228, la scelta del termine carne da parte di

Merleau-Ponty pone al lettore l’inevitabile tentazione di ricondurre il concetto al Leib

husserliano di Ideen II o della Quinta Meditazione Cartesiana229. Termine di difficile

traduzione, il Leib designa in Husserl il corpo vivente, ma anche il corpo vissuto, quello

legato a una soggettività. Distinto quindi dal corpo materiale fisico, che i tedeschi

indicano col termine di Korper, che non si può considerare secondo questo duplice

punto di vista, il Leib è in prima istanza il mio corpo, intimamente vissuto dall’interno,

immediatamente avvertito come la mia soggettività, sensibile e senziente. Sotto questo

punto di vista la carne di Merleau-Ponty potrebbe condividere alcuni aspetti con la

nozione di Husserl, designando tanto il corpo vivente quanto quello vissuto o anche ciò

che ne L’uomo e le avversità viene semplicemente chiamato il “corpo animato”230. Un

esplicito accostamento della chair al Leib si trova in realtà solo in pochi brevi passaggi

di alcune note personali non destinate alla pubblicazione, in cui i due concetti sono

assimilati, come troviamo ad esempio nelle note di lavoro che seguono Il visibile e

l’invisibile: “La carne, il Leib, non è una somma di toccarsi (di sensazioni tattili), ma

nemmeno una somma di sensazioni tattili + delle ‘cinestesi’, è un ‘io posso’”231.

Il Leib husserliano si presenta in effetti, diversamente dalla chair del filosofo

francese, come una totalità metodicamente isolabile all’interno della relazione

intenzionale, “resto di un’operazione astrattiva”232. Mai del tutto riducibile, descritta in

termini dinamici, la carne merleau-pontiana è invece costantemente in circolo,

sostanzialmente impura nel suo continuo rimescolamento negli altri e nel mondo.

228 E. de Saint Aubert, Du lien des etres aux éléments de l’etre. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951, Vrin, Paris 2004. 229 Una possibile corrispondenza della chair merleau-pontiana con il Leib di Husserl sembra esplicitamente considerata da M. Richir in Le sensibile dans le reve, in Merleau-Ponty, Notes de cours sur “L’origine de la géométrie de Husserl, suivi de Recherches sur la phénoménologie de Merleau-Ponty, Presses Universitaires de France, Paris 1998, pp. 239-254. 230 M. Merleau-Ponty, L’uomo e le avversità, in Segni, cit., pp. 294-317. 231 Note di lavoro, ne Il visibile e l’invisibile, cit. p. 267. Un’analisi dettagliata delle occorrenze del termine Leib nei testi di Merleau-Ponty si ha in E. de Saint Aubert, op. cit., in cui si sottolinea come l’uso del termine sia quasi del tutto riservato all’interno dei tre corsi su Husserl (1957, 1959 e 1960.) 232 P. Ricoeur, Edmund Husserl. La cinquiéme méditation cartésienne, in A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986.

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La carne non rientra nella meditazione merleau-pontiana in un’ottica di

ripensamento husserliano, bensì assume caratteri che la rendono un’originale novità233,

inserita in un progetto decisamente personale.

Nella chair del filosofo francese è tuttavia presente un ripensamento radicale e

rigoroso di un concetto husserliano: il darsi in carne e ossa234. Al paragrafo 24 di Ideen

I, Husserl enuncia il noto “principio di tutti i principi” della fenomenologia: ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà.235

In questo modo la verità è raccolta sotto l’evidenza dell’intuizione, come presenza

incarnata di ciò che è percepito. Nell’intuizione, immaginativa o percettiva, l’oggetto

non è rappresentato, ma letteralmente presentato, presente in carne e ossa236. Alla

descrizione essenziale della percezione risulta estraneo ogni riferimento alla sensazione,

con un allargamento del campo percettivo anche a qualcosa che è sostanzialmente

assente237.

Barbaras ritiene in modo condivisibile che senza dubbio questa prospettiva informi

l’approccio al tema della percezione sviluppato da Merleau-Ponty, in particolare

all’interno de Il visibile e l’invisibile, dove la fede percettiva può essere letta all’ombra

della donazione in carne e ossa con una radicalizzazione della prospettiva husserliana.

Secondo questa comune impostazione è possibile tematizzare la percezione sfuggendo

alla dicotomia di sensibile e intelligibile: non è la sensazione che apre l’indagine sul

233 “Ed è noto che nella filosofia tradizionale non c’è nome per designare tutto ciò”. M. Merleau-Ponty, (Il visibile e l’invisibile, cit. p. 155.)

234 Il parallelismo riscontrabile tra i concetti dei due filosofi è tematizzato in particolare da R. Barbaras, in Le tournant de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Vrin, Paris, 1998, p. 82. 235 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a c. di E. Filippini, Giulio Einaudi Editore, Torino 1970, pp. 50-51. 236 “L’esperienza originalmente offerente è la percezione, nel senso usuale della parola” (Ivi, p. 15), “La visione empirica, in ispecie, l’esperienza, è coscienza di un oggetto individuale; […] in quanto è percezione, lo porta a datità originaria, ossia è consapevolezza di afferrare l’oggetto nell’originale, in carne ed ossa” (Ivi, p. 19.) 237 L’esempio più pregnante è senz’altro costituito da alcuni passaggi relativi al tema del ricordo primario, distinto dalla rimemorazione e assimilabile alla percezione. Il tema è complesso e certo non esauribile in questa sede dove si ritiene preferibile, per quanto non esauriente, un breve cenno funzionale alla comprensione dell’ottica di Merleau-Ponty.

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rapporto percettivo, bensì questa modalità di emergenza del mondo denotata come darsi

in carne.

L’aspetto più originale e interessante è la descrizione di questo emergere del

mondo in termini di iniziazione a un certo senso238 d’essere, se non proprio al senso

dell’Essere, dei fenomeni stessi del mondo. Ciò significa riconoscere nell’originario

mélange percettivo il germe di ogni riconoscimento di senso, che eccede ogni

determinazione, più o meno implicita, dell’essere in termini di Oggetto puro e semplice.

La presenza carnale è quel fondo a partire dal quale qualcosa come un oggetto può

essere investito di senso; essa esplicita il fungere di una presenza originaria sulla cui

base si può pensare e comprendere ogni articolazione e donazione di senso.

La digressione su questo tema non è trascurabile, come vedremo, la carne

merleaupontiana è sfondo teorico molto pregnante per tutto il percorso di Dufrenne. Ma

tale inciso non è secondario soprattutto per l’esplicitazione di un’impostazione di

pensiero che si può ritrovare con costanza anche in Mikel Dufrenne: l’interrogazione

del rapporto originario col mondo e tra i soggetti è profonda e radicale, essendo la

domanda che sola può portare in luce l’emergenza dell’essere e del suo senso per noi

che equivale a esplicitare il nostro modo di frequentare il mondo.

È possibile identificare in questo sfondo le forze che continuano ad esercitarsi nel

cammino dufrenniano e, tenendole presente, prendere come punto di partenza, utile a

mettere a fuoco direzioni e intenti del percorso, lo scritto che egli dedica alla Sensibilité

238 Si impone a questo proposito una precisazione terminologica: in Merleau-Ponty, che non entra a fondo nel valore logico e linguistico della distinzione tra senso e significato, questi due termini restano indistinti. Di fatto, come osserva J. Hyppolite (Figures de la pensée philosophique, PUF, Paris 1971), si può ravvisare una riduzione di ogni significato al senso. È comunque vero che l’assenza di un esplicita distinzione tra senso e significato non è casuale nelle opere di Merleau-Ponty. Tutte le sue analisi sono infatti in sintonia con una tesi che egli mutua da Sartre: “Il punto di vista di una coscienza pura è contradditorio: non vi è che il punto di vista della coscienza impegnata. Il che significa che la conoscenza e l’azione non sono che due facce astratte di una relazione originale e concreta”. (Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 384). Di fatto Merleau-Ponty assume una distinzione tra senso e significato, ma si mostra convinto che nessuno dei due possa presentarsi se non con-fuso all’altro. Un passo rende esplicita la reciproca implicazione; infatti, come si può leggere nella citazione che segue, il significato rappresenta il correlato della coscienza nella sua contemplazione disinteressata, mentre il senso rimanda al sapere della prassi in connivenza passionale con il reale: “ Noi non abbiamo altro modo di sapere ciò che è un quadro o una cosa se non guardarli, e il loro significato non si rivela che se noi li guardiamo da un certo punto di vista, da una certa distanza e in un certo senso, in una parola se noi mettiamo al servizio dello spettacolo la nostra connivenza col mondo.” (Fenomenologia…, cit., p. 548). Pertanto, non v’è “spettacolo” che non nasconda una “connivenza”, significato che non vesta un senso.

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génératrice, del 1960.239 Qui, a partire da alcuni passi del Traité d’Esthétique di

Raymond Bayer (1898-1959), uno dei protagonisti dell'estetica francese di ispirazione

realistico-formale e cofondatore insieme a Lalo e Souriau della “Revue d'Esthétique”

nel 1948, Dufrenne si interroga su “cette sensibilité qui semble revendiquer les

fonctions de l’intelligence”240, protagonista dell’esperienza estetica. Quello che snoda in

queste pagine è un percorso intorno ad alcuni dei temi rimasti sempre centrali nella sua

filosofia, come la sensibilità e l’esperienza estetica in generale, esplicitati però secondo

un’angolazione particolarmente pregnante che non sempre si ripresenta con la stessa

sintetica decisione nei testi più importanti.

Seguiamo allora l’esposizione dell’autore intorno a questo tema, al fine di mettere a

punto alcune delle linee che saranno guida di quanto seguirà, indice dei suoi e nostri

interessi, interrogativi e riferimenti teorici.

Notazione di base e di partenza, forse banale ma non scontata -almeno non in

quell’orizzonte teorico dove Dufrenne sceglie di collocarsi tra la fenomenologia

husserliana e quella francese- è quella che ribadisce il ruolo primario della sensibilità

all’interno dell’esperienza estetica.241 Ma è proprio questa sensibilità essenziale a

rivelarsi immediatamente oggetto di una seria messa in questione, nelle sue commistioni

con gli ambiti che tradizionalmente riguardano intelletto e jugement. Quello che preme

al Dufrenne di queste pagine, in linea con le indagini filosofiche di una vita, è districare

il melange percettivo che, in presenza di un oggetto estetico, mette in corto circuito

essere e apparire, ragione e sentimento.

C’est toujours au verdict de la sensibilité que nous nous en remettons, créateur pour juger que l’oeuvre est achevée, spectateur pour juger qu’elle est belle. Ainsi déjà la sensibilité semble exercer la fonction du jugement.242

Ma, continua Dufrenne, si tratta di un tipo di giudizio lontano da quello

tradizionale, poiché in questo caso esso non si esercita sull’oggetto stesso, presentandosi

239 La sensibilité génératrice, “Revue d’Esthétique”, Paris 1960, XIII, 2 oggi in M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, Tome 1, Klincksieck, Paris 1988, pp. 62-71. 240 Ivi, p. 62. 241 “Que l’expérience esthétique concerne en premier la sensibilité, nul n’en doute”. (Ivi, p. 62.) 242 Ibidem

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piuttosto come la promessa di un’attesa colmata in un’esperienza “felice”. Uno dei

primi riferimenti nel chiarimento di questi temi è rappresentato da Husserl, in

particolare dal suo concetto di riempimento così come Dufrenne lo legge e lo cita da

Ideen II. Se ogni atto, nel suo essere donazione di senso, percezione di un oggetto, è

ricerca e attesa e in maniera generale l’evidenza è il riempimento dell’intenzionalità da

parte della presenza dell’oggetto, al livello della sensibilità questo riempimento può

essere quantitativo o qualitativo; l’uno teso al riconoscimento della realtà di un oggetto

l’altro all’afferramento della sua bellezza. Ma lo strumento husserliano non basta a

Dufrenne per rendere conto di quella sensibilità che, nell’esperienza estetica, condivide

e addirittura secondo lui rivendica, alcune caratteristiche dell’intelligenza. In questo,

come dichiara egli stesso, l’autore è più in linea con certe meditazioni di Heidegger che

riconoscono al sentire estetico l’allure del pensare. Allure che, evidentemente, richiede

esplicitazione e comprensione filosofica dei “caractères pensifs” del sentire estetico,

inteso come “sensibilité-sentiment”243. “Si ce sentiment nous situe en deçà de

l’intelligence et de sa fonction judicatoire, par lui du moins nous sommes d’intelligence

avec l’oeuvre; nous éprouvons l’oeuvre dans sa vérité.”244 E questa verità è per

Dufrenne molto lontana dall’idea del vero per adeguazione. A questa nozione egli

sostituisce piuttosto il concetto di svelamento (dévoilement), pregnante in un’ottica che

dell’esperienza estetica voglia centrare la componente di “apparire” e mettere questa in

stretta e diretta relazione con l’essere. È proprio in questa prospettiva, infatti, che

Dufrenne costruisce il suo discorso e, all’interno stesso della direzione fortemente

ontologica innesta e rivela un profondo interesse antropologico. Si legge precisamente

in queste righe una delle affermazioni dove la sintesi di queste due direzioni si

manifesta con maggior chiarezza, non a caso riguardo all’esperienza estetica.

Prima di citarla e analizzarla leggiamo brevemente come egli vi giunga attraverso

l’idea di svelamento sulla quale pare investire con determinazione:

Le dévoilement n’est pas l’acte de l’Être, c’est la vocation d’un être, et c’est pourquoi cet être en appelle à ma sensibilité, comme déjà à la sensibilité du

243 Ivi, p. 63. 244 Ibidem.

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créateur pour qui chaque esquisse doit apparaître pour comparaître devant son jugement.245

Ne emergono alcune scelte lessicali e teoriche salienti. La prima è quella, in linea

con l’apertura del saggio, dell’appello alla sensibilità; sottolineata e confermata in

questo caso, però, nel suo carattere ontologico di appartenenza rispetto all’oggetto

considerato. In secondo luogo, viene dichiarata e ribadita la dimensione intersoggettiva

dell’esperienza estetica nell’accostare la sensibilità percipiente, diciamo del pubblico, a

quella dell’autore di un’opera. Infine, con la sottile distinzione tra apparaître e

comparaître, l’apparire di un’opera viene articolato tanto nel suo venire alla presenza,

assumere esistenza dal nulla, quanto nel suo più semplice ripresentarsi alla vista e, ogni

volta di nuovo, al giudizio.

Diventa più importante e sottile il riferimento al rapporto percettivo in termini

anche di apparire, proprio perché la nozione di svelamento chiama in causa una

componente di innovazione e rinascita che nell’apparire stesso si manifesta. Quando

questa percezione riguarda l’oggetto estetico, allora, il rimando non può più essere

esclusivamente contenuto entro i limiti della presenza e dell’indiscutibile realtà. Al

contrario, quella che Dufrenne delinea qui, è una caratterizzazione di considerevole

importanza dell’oggetto estetico in chiave antropologica, poiché: “L’expérience

esthétique n’est pas l’expérience de la présence, mais de la réalité d’un objet qui

requiert pour être que je lui sois present”246. Al di fuori di questa presenza, che è

termine pregnante nel percorso del filosofo tanto da diventare, come si vedrà, filo

conduttore del suo ultimo scritto, l’oggetto estetico semplicemente non esiste. La sua

realtà stessa viene messa in completa discussione e tutti i suoi possibili effetti annullati

in un discorso vano.247

Il punto saliente che emerge in questo saggio riguarda quindi, da una parte, la

caratterizzazione antropologica dell’oggetto estetico proprio in quanto 245 Ibidem. 246 Ibidem. 247 La centralità di questa presenza percettiva non indebolisce, ma anzi corrobora, la necessità di indagare anche le specificità ontologiche che all’oggetto estetico appartengono. Tale ambito è tuttavia meglio affrontato nell’opera principale Phénoménologie de l’experience esthétique della quale ci occuperemo più avanti.

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indissolubilmente legato a un momento di presenza al soggetto e, dall’altra, la lettura

della percezione che ne rende possibile l’apparire -nel duplice senso di apparaitre e

comparaitre- in termini di sensibilité généralisatrice. In essa Dufrenne mostra l’azione

congiunta di un sentire che è già, esso stesso, più che percezione poiché:

Ce qui est à l’oeuvre dans cette perception, ce qui aiguise la sensibilité

esthétique, c’est l’imagination. Non point l’imagination emportée et délirante que la perception toujours réprime, mais l’imagination ordonnante et exaltante. “Un des caractères principaux de la sensibilité généralisatrice, c’est d’être une sensibilité imaginative” écrit Bayer.248

Sul tipo di azione di questa immaginazione interna all’attività percettiva l’autore

torna a più riprese nei suoi scritti successivi, mantenendo una coerenza che completa

lungo il percorso quello che nel testo qui preso in esame è lasciato inespresso.

L’immaginazione che agisce nella percezione degli oggetti estetici come la intende

Dufrenne è già quella che si prepara a tornare anni dopo ne L’occhio e l’orecchio, è:

Meno potere di associare che potere di aprirsi e di comunicare, di lasciare che il sentito riecheggi nel senziente. È importante, ribadiamolo, distinguere nettamente tra un immaginario che, procedendo dal soggetto, offusca la percezione fino ad annullarla nell’illusione, e un immaginario che dispiega e arricchisce il senso del percepito.249

Con l’apertura immaginativa, con lo scarto operato all’interno della realtà percepita

dall’azione dell’immaginazione, l’oggetto estetico può essere colto nelle sue molteplici

stratificazioni che chiamano in causa quell’approccio vasto e globale che si raccoglie

sotto il segno della sinestesia. Ma il saggio che stiamo seguendo ora, vira in una

direzione diversa. Non meno perspicua. Qui, nel momento in cui si interroga

sull’apertura e la varietà insite nell’oggetto estetico e nella sua percezione, Dufrenne

rintraccia il polo unificatore del processo nel concetto di espressione. È l’espressione il

luogo in cui la dispersione immaginativa della sensibilità generalizzatrice si raccoglie

sotto un segno unico e singolare che permette l’identificazione (che è al tempo stesso 248 M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 65. 249 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 134.

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creazione) dell’oggetto. Certo, e Dufrenne lo sa bene e lo riconosce poche righe dopo,

chiamare in causa l’espressione implica una forma di sapere precedente, una mediazione

o, con la forma che usa lui, il fatto che non si vada mai nel mondo a mani vuote; ma

quello che conta, per lui e per noi, è il fatto che l’afferramento finale avviene in un sol

colpo, poiché tutto ciò che accade nella percezione estetica riguarda l’antepredicativo e

ci riporta sempre “à la spontaneité d’avant la connaissance”250, cioè

all’immaginazione251.

Grazie alla sensibilité généralisatrice si dischiude inoltre l’accesso a quella che

Dufrenne, in linea con Husserl, indica come l’essenza dell’oggetto. Il carattere

principale di tale essenza risulta quello di essere sensibile, incarnata e disponibile alla

presentificazione. Tutto il senso dell’oggetto non dipende da una concettualizzazione di

esso, al contrario, è un senso “totalement immanent au sensibile”. In questo modo,

lontana da derive metafisiche, quella di Dufrenne si chiarisce esplicitamente come una

posizione che riconosce la possibilità del dialogo tra momento percettivo e

caratteristiche ontologiche come anche, in definitiva, tra antropologia e ontologia.

A questa immaginazione, tuttavia, l’uomo è introdotto, nella teoria dufrenniana, nel

più paradossale dei modi: non tramite aperture scomposte, che conducono al disordine

di fantasmi e fantasie, bensì “par ce qu’il y a d’intelligent dans la sensibilité

estéthique”.252 Lo sbocco immaginativo, quindi, si configura come elemento d’ordine e

di rigore, benché libero; elemento comunicativo e, benché intellettuale, sempre

sensibile. Di più, “dans le sujet l’imagination est d’abord le pouvoir d’unifier le

sensibile”.253 Su questo punto Dufrenne è esplicito nel marcare la propria diversità da

Kant: l’unità del sensibile non rimanda per lui al concetto, come per il maestro tedesco,

250 M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 66. 251 Questo snodo teorico non sembra rappresentare un caposaldo privo di indecisioni nel percorso di Dufrenne. In un testo di qualche anno precedente la preoccupazione dell’autore sembrava più quella di affrancare la percezione estetica da qualsiasi altra influenza per riconoscerle piuttosto una forma di primato. “La perception esthétique, en effet, est la perception royale, celle qui ne veut être que perception, sans se laisser seduire ni par l’imagination qui invite à vagabonder autour de l’objet présent, ni par l’entendement qui invite à le redire, pour le maitriser, à des déterminations conceptuelles” (M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, “Revue philosophique”, 1-3, PUF, Paris 1954 oggi in M Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome 1, p. 55.) Già in queste pagine, tuttavia, l’autore adombrava la necessità di dare ragione della componente concettuale che abita la percezione sensibile che lo condurrà quindi, in seguito, allo sviluppo dell’idea qui presa in esame di sensibilité génératrice. 252 M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 66. 253 Ibidem.

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ma sempre e solo al sentimento sensibile. Rimanda alla presenza del mondo che, seppur

in modi ineffabili, si rivela sempre e innanzitutto al sentimento.

Car il faut aussitôt ajouter que l’imagination, en même temps qu’elle unifie, illimite l’objet, le dilate aux dimensions d’un monde: elle n’ajoute pas de l’imaginaire au réel, mais elle grandit le réel jusqu’à l’imaginaire, un imaginaire qui est ancore le réel et qui achève de l’unifier au lieu de le disperser.

Questa osservazione conduce a una conclusione ulteriore, che dall’oggetto si sposta

sul soggetto, poiché l’unità del primo non è consacrata se non nell’unificazione anche

del secondo che, tutto intero, si fa presente all’oggetto. Elevando, in una forma di

progressione che è anche in un certo modo sovrapposizione e equivalenza, la sensibilità

al sentimento. In tal modo, è proprio grazie all’azione dell’immaginazione, nei termini

in cui la descrive Dufrenne, che tra sensibilità e sentimento si instaura quella

comunicazione che è flusso e corto circuito, caratteristica specifica della percezione

estetica: rigorosa eppure ineffabile.

La dispersione che l’immaginazione sa riunire non è quindi legata esclusivamente

alla diversità e molteplicità del reale e alle variegate sfumature dell’oggetto estetico;

oltre a questo, infatti, essa investe con altrettanta forza tutte le potenze dell’io per

restituire di esso un’immagine singolare. Nella quale le differenze coesistono ma non ne

disperdono unità né unicità.

Di questa immaginazione che agisce nel momento percettivo, grazie al suo potere

unificante quanto creativo, si può allora capire il carattere prelogico e, in perfetta linea

con le direzioni degli interessi dell’autore, originario. In questo modo si risolve la

dicotomia tra sensibile e intelligibile senza negare il coté concettuale dell’oggetto

estetico; anzi, di esso si riconosce necessità e particolarità poiché “ce qu’il y a de

logique” nell’oggetto estetico “ne peut être dit que dans le langage de l’affectivité”.254

Come si vede, questo ci riconduce con coerenza al fondo merleaupontiano che abbiamo

citato in apertura, quello che riconosce nel rapporto carnale al mondo il nodo in cui la

dicotomia tra sensi e concetti si scioglie.

254 Ivi, p. 69.

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Immaginazione e sensazione sono all’opera nella percezione estetica, nella

sensibilité généralisatrice, ma Dufrenne non manca di chiarire quanto intensamente

esse siano all’opera nella fase creativa del lavoro artistico. In questo senso si crea una

sorta di livellamento lessicale, che è tutt’altro che un appiattimento, tra espressione e

percezione estetica, che a sua volta conduce agli ambiti di riferimento della sinestesia e

dello stile.

Quest’ultimo, in senso assolutamente merleaupontiano, è ben chiaro a Dufrenne

che anche nel testo qui esaminato vi fa esplicito riferimento riconducendo sotto di esso

l’azione dell’immaginazione come l’abbiamo appena vista che a sua volta diventa

“marque d’un style”.255 La sinestesia, invece, viene chiamata in causa in maniera meno

esplicita benché con coerenza teorica. La dispersione sensibile, infatti, che

l’immaginazione riunisce e che la sensibilità generalizzatrice afferra con le sue

componenti concettuali, condivide la problematicità della differenziazione dei sensi, la

necessità di una loro comprensione in unità anche in forza del loro rappresentare un

accesso a ciò che di sensibile nell’oggetto estetico non c’è.

Si capisce quindi, probabilmente, il valore originario e fungente delle nozioni che

in questo modo si dispiegano e che, a loro volta, tornano a dialogare assiduamente con

quell’intenzionalità fungente tematizzata da Husserl cui abbiamo fatto riferimento in

apertura di questa tesi. Il rapporto che unisce soggetto e oggetto nella percezione

estetica, con la quale ora intendiamo insieme a Dufrenne sia l’atto del creatore che

quello dello spettatore, si configura allora come rapporto originario al mondo del quale

è bene sottolineare come sia non delirio ma uno dei modi di nominare “le premier

visage che le monde révèle à l’homme, le logos enveloppé dans la nature”.256

Quello dell’immaginazione in questo contesto si riconferma allora un ruolo

comunicativo grazie al quale Dufrenne può equiparare, al fine di chiarirli possibilmente

entrambi, il rapporto tra l’uomo e il mondo e quello tra l’artista e l’opera che del primo

rappresenta un esempio significativo. La potenza del vedere e la potenza del fare si

intrecciano allora in un insieme che nell’oggetto estetico trova compimento. È su questa

base che Dufrenne sente il richiamo che, proprio a partire da una filosofia dell’arte,

255 Ibidem. 256 Ibidem.

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spinge verso una filosofia della natura secondo quel binario di interessi che costituisce

una delle sue principali linee guida.

La prima conclusione a cui possiamo giungere allora, grazie alla sintesi teorica

offerta dallo scritto sulla sensibilité généralisatrice è quella che permette di indicare, se

non altro, i contorni teorici che delimitano il nostro percorso che è forse possibile

configurare in due triangoli: sensibile con sensazione e immaginazione, sinestesia con

espressione e stile.

Tutti questi elementi fanno capo, anche se in modi e secondo angolazioni

leggermente differenti, al problema generale dell’unità del sensibile che, a sua volta, è

raccoglibile sotto quello con il quale la filosofia occidentale si confronta fin dai suoi

albori: il problema dall’uno e del molteplice.

Indagare questi temi con Dufrenne significa accettare di farlo rimanendo a stretto

contatto con quel dominio sfrangiato e variegato che è il mondo delle arti. È Dufrenne

stesso a indicare espressamente questa notazione; nella maggior parte dei casi attraverso

una pratica filosofica spesso e volentieri sporca d’arte, ma anche con un passo esplicito

che si legge ne L’occhio e l’orecchio.

Le ragioni, e ce ne sono due, per cui chiederemo alle arti se e come tendano a ritrovare l’unità originaria del sensibile, non sono immediatamente evidenti. Il problema con il quale ci stiamo confrontando è, infatti, quello dell’uno e del molteplice, e quanto osserviamo in prima istanza è la pluralizzazione dell’arte, la pluralità delle arti che conferma la pluralità del sensibile.257

La frammentazione dei sensi fa parte dei riferimenti dufrenniani con una costanza

che gli deriva tanto dai suoi interessi specifici quanto, altrettanto, da quell’immensa

mole di lavoro che egli mutua da Merleau-Ponty.

Nella sua analisi, tenendo anche e soprattutto conto di quel ruolo che egli

attribuisce all’immaginazione, Dufrenne opera una strenua difesa della tattilità258

257 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 138. 258 Il tatto è stato protagonista, com’è noto, di innumerevoli analisi, spesso legate anche all’arte in diverse sue manifestazioni. Burke, ad esempio, pur continuando a ribadire il trionfo della vista, era arrivato ad

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parallela a una critica della priorità che la vista possiede nella storia della cultura e della

civiltà occidentali. D’altra parte, l’apertura alle cose così come la descrive Dufrenne,

non avviene grazie a singole e separate azioni che si sintetizzano ma tramite una

comunicazione nella totalità del corpo di tutti gli organi sensoriali. Tutto il corpo, nella

sua interezza, è chiamato in causa nel momento percettivo senza che sia mai possibile

stabilire confini netti tra ciò che è percepito dall’occhio piuttosto che dal naso. Quello

che su cui l’autore francese torna a più riprese, e che la sensibilité généralisatrice che

abbiamo descritto presenta eloquentemente, è il ruolo attivo, e non semplicemente

ricettivo, dei sensi. Da questa impostazione che vede i sensi come campi interagenti

consegue l’eliminazione definitiva di ogni netta separazione e specificità degli organi

sensoriali. L’intera percezione è allora descrivibile in termini di sinestesia se, con

Dufrenne, si riconosce un’unità originaria dei registri sensoriali.

Come vedremo, ma possiamo già anticipare qui, L’occhio e l’orecchio rappresenta

il luogo in cui la riflessione su questi temi raggiunge il culmine e in cui si condensa

quell’intreccio tra estetologia, fenomenologia e ontologia che caratterizza tutta la vita

filosofica dell’autore. Qui la categoria di sinestesia è ripensata, a partire dal Merleau-

Ponty di Fenomenologia della percezione, quale categoria centrale di un’ontologia del

sensibile.

Trattiamo dunque il primo dei nodi che abbiamo messo a fuoco con l’excursus

sulla sensibilité généralisatrice, che è rappresentato dal sensibile con sensazione259 e

immaginazione e vediamo secondo quali linee teoriche e con quali intenti filosofici

attribuire al tatto il ruolo di senso del bello, suscettibile di essere eccitato da alcuni oggetti con la stessa forza con cui altri oggetti producono piacere per la vista. “Sentire e vedere, sotto questo riguardo, differiscono in pochi punti. Il tatto riceve il piacere della morbidezza, che non è originariamente un oggetto della vista; la vista, d’altro canto, afferra il colore, che può difficilmente essere percepito dal tatto. Il tatto, inoltre, ha il vantaggio nel piacere che trae da un moderato grado di calore; ma l’occhio trionfa per l’infinita estensione e molteplicità dei suoi oggetti”. Tuttavia, l somiglianza tra il piacere suscitato dal tatto e quello suscitato dalla vista è talmente evidente che, per Burke, se fosse possibile distinguere i colori con il tatto, la loro disposizione giudicata bella dalla vista sarebbe allo stesso modo gradita al senso tattile. (E. Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime, a cura di G. Sertoli e G. Maglietta, Aesthetica, Palermo 1998, pp. 133-134.) 259 Dufrenne sceglie espressamente di parlare di sensibile anziché di sensazione con il rispettabile l’obiettivo di “evitare la trappola dell’atomismo psicologico. Se ci accadrà di far riferimento ancora alla sensazione, sarà pensando a Cézanne e al suo dipingere la sensazione che ne parleremo. La difficoltà che Cézanne non ha mai smesso di affrontare per poterla dipingere, il filosofo la incontra per poterla descrivere.” (M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 86.)

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l’autore lo mette a fuoco. Per comprendere in maniera efficace in che modo Dufrenne

possa parlare di unità originaria dei registri sensoriali è bene seguire Dufrenne là dove

egli, in esplicito e costante dialogo e debito verso Merleau-Ponty, si occupa del

sensibile intendendolo come carne.

Merleau-Ponty chiama il sensibile “carne”; nozione ultima, egli dice, ultima perché prima, giacchè si connette alla questione per così dire, più iniziale, che non è quella dell’origine ma quella dell’originario, del c’è [il y a] in quanto c’è dell’ente o della physis. Il sensibile è l’apparire dell’originario, il suo venire alla presenza. Non dobbiamo farci scrupoli e lasciarci guidare da ciò che si esperisce nella presenza.260

Agisce qui quella consapevolezza che è base portante di tutta la riflessione

fenomenologica che Dufrenne stesso palesa quando scrive, poco dopo: “La percezione

mi mette al mondo”261. Vi è un’originalità assoluta e fungente nella percezione, la stessa

tematizzata tra Husserl e Merleau-Ponty all’inizio di questo lavoro come intenzionalità

fungente, dove lo sfondo è rappresentato dall’unità; quella stessa unità che rende

possibile tanto la dualità di soggetto e oggetto quanto la pluralità dei sensi.

La dualità non viene dunque più posta dall’inizio e come irriducibile, così come la coscienza non può più beneficiare del privilegio dell’assolutezza accordatole dalla fenomenologia husserliana e nemmeno la materia può più godere del privilegio accordatole dal materialismo. Ora, ciò che non può più essere posto come principio diviene effetto, ma questo non significa che non c’è arché, significa soltanto che il c’è è l’arché; il soggetto e l’oggetto custodiscono nel loro essere la traccia dell’originario dal quale sono generati e che li fa co-naturali; detto altrimenti: il naturato testimonia del naturante dal quale nasce. Tuttavia è sempre già nato e può essere colto soltanto come tale.

In questa che egli definisce una “strana alleanza”262 che costituisce la carne il

soggetto e l’oggetto non sono quindi ancora separati e tutto ciò che è sensibile lo è in

maniera globale, che sia sentito o senziente. È questo quel luogo fondamentale nella

filosofia dufrenniana, quell’originario per lui tanto più importante perché il luogo della

260 Ivi, p. 87. 261 Ibidem 262 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, In Esthétique et philosophie, cit., tome 2 p. 92.

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Natura, che diventa mondo solo successivamente, nell’attimo in cui si produce

l’inversione, la rottura, l’atto percettivo dal quale nascono e si distinguono il soggetto e

l’oggetto, il senziente e il sentito. È questa forma di nascita doppia e simultanea a

rendere presente il mondo e, in questa presenza,263 lasciare esistere ogni dicotomia.264

La nozione di presenza rappresenta in Dufrenne il correlato imprescindibile di

quell’originario di cui, attraverso la sensazione, stiamo seguendo le tracce e, benché

teorizzata con precisione solo nell’ultima opera, attraversa in modo significativo tutto il

suo filosofare.265 Come è stato condivisibilmente notato: “Certo è che la questione della

presenza contiene e porta con sé tutti i temi dell’ultima sua opera, nessuno escluso:

sensi, sinestesie, immaginario, virtuale vanno tutti riguardati dentro l’orizzonte di quella

nozione, quale ancoraggio ontologico della fenomenologia del sensibile”266.

La presenza dufrenniana va immediatamente messa a fuoco come presenza a,

implicando quindi, conseguentemente, una prima e ineludibile forma di differenza che

Dufrenne legge con le parole di Sartre: “Ogni presenza a implica dualità, quindi

separazione almeno virtuale”267. Questo è importante nella misura in cui, ricercando

quell’originario unitario indifferenziato si sia in grado di riconoscere la posizione da cui

263 Quella della presenza è una delle nozioni fondamentali su cui si impernia L’occhio e l’orecchio. A partire da essa si articolano tutti i concetti-chiave del filosofare dell’autore. Come è stato notato: “Se parte influente della filosofia contemporanea ha fatto dell’assenza il suo termine privilegiato, Dufrenne risponde a essa con una radicalizzazione della nozione di presenza. Certo, ci sono più aspetti per cui una simile radicalizzazione fa problema: così come non è possibile in assoluto definire la nozione di assenza, analogamente si deve dire per la nozione di presenza; è il gioco inesauribile della loro coappartenenza ciò che fa realmente problema e che meriterebbe, forse, l’attenzione del filosofo. Resta il fatto che Dufrenne incardina su quel concetto una parte non marginale della sua speculazione.” (C. Fontana, Prefazione dell’edizione italiana de L’occhio e l’orecchio, cit. p. 13.) 264 Ed è proprio, ma lo vedremo meglio più avanti, attraverso la percezione estetica che nella separazione sempre già attualizzata della nostra esistenza si manifesta una possibilità di riaccedere all’originario, lontano eppur sempre presente. 265 È altrettanto significativo considerare che proprio l’ultimo lavoro rimasto in concluso di Merleau-Ponty si è arrestato sul concetto di Presenza sul quale evidentemente il filosofo stava ritornando a meditare. La ripresa di Dufrenne è allora doppiamente significativa se è vero, come vedremo, che la sua riflessione finale mira proprio a concludere quello che egli riteneva il percorso in concluso dell’amico e maestro. 266 E questo resta vero nonostante le questioni che restano aperte. “Proviamo a elencarne qualcuna: innanzitutto, che le ‘cose’ stiano in mia presenza è un dato originario oppure si rende necessaria un’ulteriore retrocessione fenomenologica? Che cosa sono le cose ‘intorno a me’? e soprattutto, che cosa è questo ‘intorno’? importantissima è poi la domanda circa l’affermazione di apertura del brano appena citato, vale a dire: che cosa significa che le cose mi stanno intorno secondo una disposizione? Potremmo pensare il senso del brano come segue: non è forse che le cose non solo accadono secondo una disposizione ma, soprattutto, non è forse quel disporre a far emergere le cose in quanto tali e con un intorno?” (C. Fontana, cit., p. 15.) 267 M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 77.

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lo si sta cercando: una posizione che già conosce la rottura e la lontananza poiché “io

non sono mai del tutto uno con: c’è sempre una certa distanza”268. E tale distanza

riguarda anche, e anzi soprattutto, quegli stessi sensi che rendono possibile la presenza;

sensi che, nell’atto stesso di sentire si confermano come sensi a distanza.

Uno degli aspetti indubitabilmente più interessanti e più densi del tema della

presenza riguarda la duplicità di azione che l’autore le riconosce: quando ne parla,

infatti, Dufrenne sovrappone in essa tanto la presenza al mondo quanto la presenza a sé.

Con tale nozione, quindi, viene adombrata un’analisi del problema della coscienza del

mondo che implica anche, in maniera rilevante, il problema della coscienza di sé o

autocoscienza.

La coscienza si desta come coscienza del mondo e la presenza è, in primo luogo, presenza al mondo, quel mondo dal quale faccio sempre ritorno su me stesso. Debbo forse operare diversamente questo movimento di andata e ritorno? La presenza al mondo è già da sempre la mia presenza.

Il modo in cui Dufrenne affronta questo elemento è profondamente correlato e anzi

totalmente debitore della descrizione merleaupontiana della coscienza in termini di

coscienza percettiva che abbiamo visto nel corso del precedente capitolo. Dufrenne lo

chiarisce in termini piuttosto sintetici, ma il debito verso il suo maestro è riconosciuto a

più riprese tanto da consentire di pensare che per lui la nozione merleaupontiana di

coscienza percettiva fosse da dare per scontata: “Il corpo è coscienza e non bisogna fare

di quest’ultima un’istanza separata.”269

In questo modo la stessa dicotomia tra corpo e coscienza viene risolta nel tema

della presenza senza soluzione di continuità con la lettura carnale del sensibile. I sensi,

infatti, non si possono descrivere per Dufrenne come strumenti a disposizione di una

sorta di coscienza sovrana che possa utilizzarli scegliendoli e attivandoli a piacimento;

al contrario, essi sono esattamente questo estremo della carne in cui la carne del mondo

diviene sensibile nell’attimo stesso in cui è sentita.270 E, come il mondo, diviene

sensibile l’Io stesso del soggetto che si esperisce, se possiamo accettare, con l’autore, il 268 Ibidem. 269 Ibidem 270 Cfr. M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 92.

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fatto che “presenza al mondo e presenza a sé sono dunque indissociabili”271. Certo,

suggerire una lettura della presenza come sinonimo di coscienza è probabilmente

spingere Dufrenne un po’ oltre le sue intenzioni, ma è forse possibile allora, almeno, un

avvicinamento che si fermi solo poco prima della sovrapposizione dei due termini272.

La riflessione sul sensibile può essere condotta, secondo l’autore francese, solo in

funzione della presenza, di questa presenza al mondo sempre differita e a distanza di cui

i sensi, anch’essi a distanza, sono gli artefici.

La questione della presenza al mondo è, dunque, quella sola a partire dalla quale

Dufrenne può elaborare l’idea del sensibile. Tale idea si sviluppa pertanto sulla base di

quella posizione fondamentale in cui la nozione di presenza ci ha disposti e che vede il

mondo come qualcosa che c’è per un ente che ne è parte, in una circolarità dove la

stessa separazione tra soggetti e oggetti parte da un cortocircuito:

L’essere nel mondo è qui – Da – c’è ed è così che ci è un mondo per esso; ma di questo mondo esso ne è anche, senza per questo ridursi del tutto al mondo stesso. Questa presenza, per chi la vive, è meno la sua presenza al mondo che la presenza del mondo a lui. Ciò non significa tuttavia che vi sia una presentazione a una coscienza situata fuori di essa; né significa il darsi di una presenza frontale, come quella del quadro rispetto all’occhio concepita dai teorici della prospettiva artificiale. Il mondo non è davanti a me bensì intorno a me; l’occhio stesso lo sa, essendo sferico e avendo, pertanto, una visione che spinge fino ai suoi margini. L’occhio non lo sento come uno specchio, piuttosto come un’apertura attraverso la quale il mondo mi penetra così come, possedendo una vista acuta, io penetro in esso. Infatti, io sono a contatto con il mondo, o meglio sono corpo a corpo con il mondo.273

Il sensibile è allora descrivibile solo in termini di una globalità inglobante di fronte

alla quale è impossibile arretrare e sulla quale ogni punto di vista sembra impossibile:

“è in esso che si esperisce la presenza ancor priva di distanza”274. Eppure, ovviamente, è

271 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 82. 272 “Noi siamo pertanto esseri nel mondo, presenti al mondo e, al contempo, presenti a noi stessi; senza però, che la presenza sia mai totale, senza essere mai pienamente noi stessi né del tutto identificabili al percepito: senza essere Dio.” (M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 83) 273 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 85. 274 Ivi, p. 87. È questo uno dei (numerosi) passaggi in cui la presenza di Merleau-Ponty, peraltro esplicitata dall’autore stesso che fa riferimento al concetto di Einfühlung, si fa pregnante. Una delle note di lavoro de Il visibile e l’invisibile è, tra le altre, particolarmente rappresentativa di questo dialogo: “Carne del mondo, descritta (a proposito di tempo, spazio, movimento) come segregazione, dimensionalità, continuazione, latenza, sopravanzamento – Poi interrogare di nuovo questi fenomeni-problemi: essi ci rinviano a Einfühlung percipiente-percepito, in quanto vogliono dire che noi siamo già

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sempre sotto la specie del sensibile che il mondo ci è presente, “mai come un in-sé

intoccabile”275.

Quello che risulta fondamentale per Dufrenne, e che resta riferimento

imprescindibile nel suo percorso, è il riconoscimento del sensibile come di qualcosa a

partire dal quale tutto comincia. “E tanto peggio per quell’atteggiamento filosofico che

si vieta di parlare di cominciamento!”276 Tutto il filosofare dufrenniano si incardina su

una concezione dell’umano, della natura e dell’arte letti all’ombra di un’origine e la

presenza e l’azione dell’originario sono punti problematici quanto essenziali nel

percorso dell’autore.

Delle qualità sensibili, e Dufrenne fa proprio l’esempio del colore277, si può così

parlare come di eventi, che sopravvengono contemporaneamente al soggetto e

all’oggetto: la sensazione altro non è, allora, che l’evento del sensibile. E, al tempo

stesso, evento del soggetto. “La percezione mi mette al mondo”278.

È determinante la conseguenza che se ne trae e che Dufrenne affronta nel già citato

saggio dedicato all’originario. La percezione, intesa come evento originario, costituisce

infatti il soggetto nella sua singolarità e originalità. Egli è nel sensibile, sul sensibile,

un’apertura singolare. La sensorialità stessa, “inséparable de l’individuation”279, diventa

principium individuationis. Occorre allora ribadire come quell’unità originaria cui

Dufrenne mira non sia figura metafisica di un tentativo di pacificazione della

molteplicità del reale bensì, più perspicumente, indicazione teorica della possibilità di

riconoscere un fondo comune al mondo e all’umano, “totalità che non è la mera somma

dei corpi materiali né dei fatti psichici, ma piuttosto l’elemento comune al senziente e

nell’essere così descritto, che noi ne siamo, che fra esso e noi c’è Einfühlung. Ciò significa che il mio corpo è fatto della stessa carne del mondo (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è partecipe il mondo, esso la riflette, il mondo sopravanza su di essa ed essa sopravanza sul mondo (il sentito saturo di soggettività e al tempo stesso di materialità), essi sono in rapporto di trasgressione o di sopravanzamento – Ciò vuole anche dire: il mio corpo non è soltanto un percepito tra i percepiti, è misurante di tutti, Nullpunkt di tutte le dimensioni del mondo. (…) Parallelamente esso si tocca e si vede. E quindi è capace di toccare e vedere qualcosa, ossia di essere aperto a delle cose nelle quali (Malebranche) esso legge le sue modificazioni.” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., pp. 260-261.) 275 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 86. 276 Ibidem 277 Ibidem 278 Ivi, p. 88. 279 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 92

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al sentito, quel che si potrebbe definire l’elemento percipi dell’originario vale a dire

dell’Essere”280: la Natura.

Di questa Natura, fondo originario che resta sempre da afferrare, la percezione

comune non coglie se non forme rese necessarie da codici e corrispondenze culturali. Il

proponimento di Dufrenne è allora proprio quello di smascherare tali codici e, attraverso

un’analisi il più possibile dettagliata della percezione, nelle sue differenze dalla

percezione estetica, mostrarne l’azione e recuperare il fondo che, dietro di essi, lavora.

È la differenziazione sensoriale a mettere in campo, attraverso la pluralizzazione

del sensibile, la necessità di interrogarsi sull’unità di quel plurale e a porre così la

domanda se sia possibile almeno pensare tale unità se non proprio conoscerla. Quello

che si adombra dietro questa interrogazione, condotta in particolare nell’ultimo scritto

del filosofo, è allora di nuovo il problema di come attingere a quel fondo Originario

dove la Natura agisce e si rende presente prima di essere ridotta a oggetto di

conoscenza.

Il tema del sensibile diventa allora centrale in Dufrenne non solo per l’ovvia

condivisione etimologica con i temi dell’estetica ma anche e soprattutto per la

prospettiva con cui il filosofo francese vi si rapporta. La sua, infatti, è una dichiarata

presa di posizione nei confronti di molta filosofia concentrata più volentieri sul tema del

linguaggio o legata alle tradizionali distinzioni fra soggetto e oggetto, fra attività e

passività.281 Ne L’occhio e l’orecchio Dufrenne dichiaratamente si propone, reagendo a

‘l’imperialismo dell’occhio” della nostra cultura, di “riflettere intorno alla pluralità dei

sensi o, più esattamente, intorno a ciò che si organizza a partire dai sensi – dobbiamo

chiamarlo sensazione, sentimento o sensibile?”282 Proprio questa triade terminologica

rappresenta un nucleo che, lungo tutta la meditazione del filosofo anche nelle opere che

precedono L’occhio e l’orecchio, non mai ha cessato di essere vista come qualcosa la

cui distinzione non è né semplice né scontata.

280 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 89. 281 Queste tendenze peraltro, come ha notato M. Carbone (Il sensibile e l’eccedente, Guerini studio, Milano 1996 p. 17), non si sono mai necessariamente poste in alternativa. 282 M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 32.

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Nell’ultimo lavoro l’approccio è più deciso di quanto non sia parso in precedenza.

Qui è messo in chiaro, fin dall’introduzione, che è possibile parlare di sensi “senza con

ciò essere costretti a chiamare in causa delle sensazioni, senza cadere nella trappola del

riferimento all’interiorità. (…) La pluralità non è più la prima parola, come accade

quando si distingua il sentire dalla sensazione”283. Nella ricerca di unità e unicità

intorno al tema del sensibile, in quella sorta di risalita verso un punto zero e infinito del

rapporto uomo-mondo, Dufrenne sa bene di non poter fissare quella “prima parola” in

una coscienza. “È possibile, infatti, che la coscienza sia una, ad esempio unità

dell’appercezione, ma essa ha un’unità di per sé, non ha nulla in sé stessa.”284

Centrale in questa analisi è proprio la conclusione cui giunge l’autore a questo

proposito, conclusione che è anche impostazione programmatica del suo percorso.

L’unità, infatti, se di unità è possibile in qualche modo parlare, risiede nel fatto, scrive

Dufrenne, “che la coscienza ‘tende a’, nel fatto di darsi attraverso i registri del

sensibile”285; risiede in un movimento intenzionale che, quello sì, può essere descritto in

termini di unicità nella molteplicità. L’unità non è quindi il prodotto di un’attività

unificante, ma una proprietà di alcune cose “in quanto sentite”, nel loro essere calate e

introdotte nel rapporto intenzionale “che con ogni evidenza non esclude la diversità di

quelle stesse cose e di quanto vi è di mobile e variopinto nel mondo”286.

La dualità di soggetto e oggetto non è questione da discutere. Essa va, bensì,

oltrepassata, perché solo così è possibile pensare e afferrare, prima di viverla, l’unità

“come unità dell’intenzione e di ciò che la riempie, unità del senziente e del sentito.”287

Perché sia possibile pensare un’unità, per Dufrenne, è allora una fenomenologia del

sentire quella forma di domandare che bisogna perseguire. Forma di domandare che, in

effetti, ne L’occhio e l’orecchio non fa che raccogliere e proseguire un percorso

coerente precedentemente avviato. È allora particolarmente singolare e significativo che

sia proprio nell’ultima sua opera, in quella sorta di rilancio e testamento filosofico, che

questi temi si facciano pressanti. Ricorrendo a Struas, Dufrenne specifica: “il sentire

deve essere concepito come modo di comunicazione tra un sé -Selbst- e il mondo, 283 Ibidem. 284 Ibidem. 285 Ivi, p. 33. 286 Ibidem. 287 Ibidem.

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comunicazione che deve essere sufficientemente stretta affinché il rapporto sé-mondo

possa manifestarsi come totalità.”288 Il rapporto di originaria implicazione reciproca che

ci lega al mondo è quello che deve caratterizzare, per Dufrenne, l’impostazione del

discorso il quale deve privarsi di ogni riferimento pregiudiziale alla dicotomia fra

soggetto e oggetto.

Fin da Phénomenologie de l’expérience esthétique la correlazione percettiva è il

tema all’ombra del quale è possibile affrontare il problema della relazione tra soggetto e

oggetto all’interno dell’esperienza estetica.289 L’intenzionalità percettiva con il suo

carattere fungente rivela nella fenomenologia dell’esperienza estetica tutto il suo senso e

la sua portata. Come abbiamo già messo in luce, all’oggetto estetico è infatti essenziale,

per trovare il proprio compimento, la percezione di uno spettatore, la quale ha il suo

stadio originario nella “presenza” in cui la sensibilità dell’uno e la corporeità dell’altro

compongono una totalità indiscernibile.

Come distinguere allora percezione ordinaria e percezione estetica? Una possibilità

che Dufrenne esplora a più riprese è quella di collocare questa demarcazione

nell’ambito del sentimento come facoltà peculiare alla percezione estetica: è infatti sul

piano del vissuto che esse si differenziano in modo radicale. “Al sentimento, infatti,

l’oggetto estetico rivela la sua espressività, il suo mondo affettivo, si rivela ‘quasi-

soggetto’ insomma, portando a termine la sua autogenesi.”290 La percezione estetica,

contrariamente a quella ordinaria che cerca e può trovare solo verità sull’oggetto, cerca

la verità dell’oggetto, cerca cioè la sua forma che è insieme di sensibile e di senso.291 È

in questo senso che la percezione estetica è la percezione royale, che non chiede di

essere altro che percezione, mentre:

288 Ibidem. 289 La fenomenologia dell’esperienza estetica è, infatti, per lui, in via privilegiata, descrizione dell’esperienza percettiva dello spettatore e del costituirsi in essa dell’oggetto estetico, che vi si rivela dotato di un proprio “mondo” con una sua specifica struttura sensibile. Da ciò come ha scritto M. Carbone (op. cit., p. 37) la definizione dell’oggetto estetico come ‘quasi-soggetto’ della quale sono evidenti i nessi da un lato con la riabilitazione ontologica del sensibile decretata da Merleau-Ponty e dall’altro con il darsi dell’opera d’arte quale presenza in oggettiva descritto da Maldiney. 290 M. Carbone, op. cit., p. 37. 291 “A tutta prima tale differenza può forse richiamare la distinzione proposta da Straus fra sentire e percepire, ma al proposito va allora sottolineato che Dufrenne non descrive la percezione estetica e quella ordinaria come essenzialmente diverse, considerando piuttosto la prima quale verità della percezione tout-court.” (Ibidem).

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La perception ordinare, toujours tentée par l’intellection dès qu’elle accède à la représentation, cherche une verité sur l’objet, qui donne eventuellement une prise à la praxis, et la cherche autour de l’objet, dans les relations qui l’unissent aux autres objets, la perception esthétique cherche la vérité de l’objet, telle qu’elle est immédiatement donne dans le sensible.292

Il sentimento, inteso come “facoltà che permette all’uomo di cogliere le qualità

materiali che, come ‘a priori’, costituiscono la struttura affettiva dell’oggetto estetico e

della soggettività”293 è allora la dimensione entro cui si dispiega la percezione estetica,

tanto creatrice quanto fruitrice.

In linea con questo pensiero, l’oggetto estetico si qualifica come il correlato di ciò

che Dufrenne chiama a priori affettivo. Attraverso questa elaborazione teorica originale

ed efficace, come ha scritto Barilli, “i sentimenti, più che materie brute, spessori iletici

gravanti sulla coscienza, sono forme, categorie non meno di quelle dell'intelletto, e che

adempiono alla stessa funzione di unificare il materiale percettivo".294 Un a priori

quindi, caratterizzato come trascendentale “in quanto unifica la materia nel quadro di

un’unità di senso; e intenzionale, in quanto non resta dentro l’uomo ma si estrinseca sul

mondo.”295 Altrettanto importante è la seconda notazione che già Barilli ha messo in

luce e che rappresenta uno dei nostri punti di riferimento essenziali. Infatti, il correlato

di tale a priori all’ombra del quale la percezione procede, è l’espressione che, a sua

volta, “non sarà più l’automanifestarsi di uno stato d’animo interno, ma un cavar fuori

dal mondo aspetti e profili sotto la sollecitazione catalizzante di un sentimento-modo

generale di condotta"296. Si deve ancora a Barilli la messa a fuoco di un ulteriore

passaggio fondamentale grazie al quale si sottolinea che:

Ovviamente non è che ogni manifestazione affettiva abbia uno sfocio nell’estetica. Gli a priori affettivi li incontriamo prima di tutto sul piano della presenza, nell'ambito della prassi quotidiana, dell'esperienza comune [...] Comprendiamo allora che tali a priori affettivi, colti in questa fase iniziale della loro attività [che si svolge nella sfera della coscienza preriflessiva], altro non sono se non un diverso aspetto dell'immaginazione pratica, appartengono al vasto capitolo delle formazioni generali, eidetiche, spontaneamente sorgenti

292 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 55. 293 E. Franzini, “Natura e poesia. Su un inventario degli a priori di Mikel Dufrenne”, Fenomenologia e scienze dell’uomo, n. 2, 1982, p. 67. 294 R. Barilli, Per un'estetica mondana, Bologna, Il Mulino, 1964, p. 284 295 Ibidem. 296 Ibidem.

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dall'incontro tra l'uomo e il mondo, da cui poi per affinamento e vaglio riflessivo si potranno ricavare le formazioni più responsabili e culturalmente più agguerrite.297

Quello che emerge e che va tenuto presente è allora il ruolo non neutro né

secondario che affettività e immaginazione hanno fin dai primi momenti preriflessivi

del rapporto intenzionale al mondo; affettività e immaginazione, nella lettura

dufrenniana, sono infatti due dimensioni costitutive di quello strato di esperienza

identificabile con l’intenzionalità fungente, la percezione nelle sue caratteristiche

preriflessive e, in generale, l’adesione dell’umano al mondo originario della Natura.

Prima di continuare è allora bene soffermarsi ancora brevemente sul ruolo che

Dufrenne attribuise all’immaginazione nel processo. Il tema dell’immaginazione lo

interessa in particolar modo nella misura in cui la maggior parte delle dottrine che lo

hanno affrontato gli sembrano averlo fatto sotto l’egida di un appiattimento di

immaginario e irreale. Tale appiattimento conduce, nella sua lettura, a una forma di

opposizione tra reale e immaginario basata sull’idea che il reale sia già sempre

determinato, o se non altro determinabile, e renda sempre possibile l’esclusione

dell’irreale immaginario dal quadro percepito. Sarebbe pertanto la percezione stessa a

rappresentare il garante nell’insieme del giudizio di realtà.

Ma, nota Dufrenne: “Peut-être faut-il précautionneusement controler cette

perception pour séparer, dans ce qu’elle offre, le bon grain de l’ivraie, le perçu de

l’imaginaire.”298 L’immaginario definito come irreale va rapidamente a corrispondere

all’illusorio, incarnando così il nemico principale di ogni forma di razionalismo.

Tuttavia, è proprio tale corrispondenza affrettatamente articolata tra immaginario e

irreale quello che Dufrenne mette in discussione. Seguiamo allora la sua riflessione,

esplicitata nel citato saggio dedicato proprio a L’imaginaire299, intorno a quel campo

semantico fort confus che è il paradigma immagine/immaginario/immaginazione.

La prima osservazione esprime una consapevolezza metodologica: presi

isolatamente i tre termini pongono tre differenti problemi. L’immaginazione, un 297 Ibidem. 298 M. Dufrenne, L’imaginaire, in Esthétique et philosophie, cit. tome 2, p. 100. 299 Ivi, pp. 100 e segg.

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problema critico o antropologico: “quel est ce pouvoir (cette “faculté”) d’imaginer,

comment joue-t-elle et que signifie-t-elle pour une conscience?” Nell’immagine si

riscontra invce un problema di carattere gnoseologico: “quelle est, selon les aspects

qu’elle peut revêtire, sa fonction dans la connaissance?” Infine, il problema implicito

nel polo dell’immaginario è un problema di tipo ontologico: “peut-il se définir par

rapport au réel, et qu’implique leur confrontation pour l’un et l’autre terme?”

È quest’ultimo il nodo problematico che sta maggiormente a cuore all’autore ma

per affrontarlo è necessario dissociare i tre termini del paradigma di partenza.

Nella descrizione di Dufrenne, non essendo l’immagine necessariamente un

prodotto dell’immaginazione, essa si riferisce piuttosto alla percezione stessa, senza che

una facoltà immaginativa le si debba opporre. Senza per forza chiamare in causa

l’immaginazione, l’immagine può avere quello che egli chiama il privilegio di

consegnarci dunque ora la cosa ora il suo concetto300.

Ma l’immaginazione è altrettanto lontana dall’immaginario, ciò che è immaginato

non è necessariamente irreale anzi; “l’imaginé n’est pas imaginaire, il est réel, et même

suprêmement”301. Perché la percezione non sia, infatti, solo registrazione passiva di dati

ma, più proficuamente, atto dello spirito, è necessario che l’immaginazione sia sempre

presente in essa.

Que la perception soit fausse d’abord, cela signifie sans doute la servitude d’une pensée soumise à l’empire du corps, mais aussi la liberté du jugement; le faux, c’est aussi l’invisible qui n’apparait jamais, que l’art seul peut fixer, et dont l’introduction dans le plein du monde témoigne pour l’esprit – un esprit qui se révèle et s’éprouve au détour de l’erreur.

300 Può essere utile, al fine di chiarire questo punto, riportare gli esempi cui ricorre Dufrenne (L’imaginaire, cit. p. 101). L’immagine diventa l’immagine di un concetto quando sembra che un concetto venga ad abitarla ed illustrarla: davanti ad un uomo che urla e trema si può dire “è l’immagine della collera”, poiché sembra che un’essenza venga a radicarsi in questo comportamento esemplare. Qui il percepito è afferrato come ciò che ci consegna tale essenza. Allo stesso modo, oltre che a concepire, l’immagine può anche spingere a immaginare, ma è sempre innnanzitutto alla percezione che essa si presenta. Il secondo esempio riguarda un impiego della parola immagine che no sbocca nemmeno sull’immaginazione. È quello condiviso dal latino species e dal greco eidolon. Secondo questa lettura la percezione non rimanda alla cosa stessa, ma è questo rappresentante che solo può superare la distanza tra soggetto e oggetto e bussare alla porta di una coscienza separata. L’immagine arriva quindi a designare la percezione stessa, un rapporto al percepito che prescinde ogni mediazione. Da questo punto di vista la cosa si presenta senza dover essere rappresentata e l’immagine è il miglior approccio all’oggetto senza riferimenti al concetto. Questa valle si mostra nella sua verità sensibile, nella sua essenza singolare, che non è l’essenza della valle come l’uomo agitato poteva esserlo della collera. 301 Ivi, p. 102.

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Come ha sintetizzato efficacemente Elio Franzini302, dunque, per Dufrenne la

funzione primaria dell’immaginario all’interno della percezione è quella di performare

il reale facendolo divenire, secondo l’insegnamento di Alain, un progetto umano,

l’affermazione di un valore che disvela un senso del reale. “L’immaginazione quindi

non è l’irreale da contrapporre al reale percepito, ma un sistema di possibili che aderisce

alla fissità del dato animandolo nella sua stessa ricchezza rappresentativa.”303

Vi è dunque, all’interno dell’immaginazione stessa, una forma di espressione

dell’uomo che riguarda però innanzitutto, ed è questo probabilmente il punto più

importante, il suo rapporto percettivo al mondo a seconda di ciò che da esso egli si

aspetta e desidera. È così che l’immaginario può esprimere il mondo stesso, più e prima

che l’irrealtà la quale, a sua volta, non può essere proposta o ispirata all’uomo se non

dal reale. “C’est ensuite que l’imaginarie peut exprimer aussi le monde, que l’irréel peut

être proposé ou inspiré à l’homme par le réel, enfin que la Nature peut imaginer à

travers l’homme.”304

Come è già stato notato, tuttavia, né Dufrenne né Sartre “hanno messo in luce, dal

lato di una fenomenologia delle immagini, la densità degli sfondi in cui vive e si orienta

l’oggetto percepito e in cui le immagini che ad esso aderiscono rivestono un ruolo

fondamentale per la sua definizione propriamente estetica.” 305

Partendo da quella sintesi di temi rappresentata dalla nozione di sensibilité

généralisatrice abbiamo dunque messo a punto i due triangoli teorici che ci sembrano

rappresentare le pareti parallele della filosofia dufrenniana. Questi sono, come abbiamo

detto: sensibile con sensazione e immaginazione, sinestesia con espressione e stile.

302 E. Franzini, L’estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, cit. pp. 339. 303 Ibidem. 304 M. Dufrenne, L’imaginaire, cit. p. 108. 305 Ivi, pp. 341 e segg. Secondo questa lettura, infatti, “gli oggetti percepiti sono carichi di quegli elementi immaginari che Bachelard ha chiamato rêveries, elementi che permettono una valorizzazione immaginativa del percepito nella sua stessa immanenza concreta dove, al di là di voli ‘nullificanti’ si mettono in luce i suoi aspetti simbolici e metaforici, che nell’opera d’arte, come scrive Durand, fanno apparire un ‘senso segreto’, l’epifania di un mistero.”

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Di essi abbiamo iniziato ad approciare il tema del sensibile, e abbiamo potuto

vedere, attraverso le nozioni di carne e presenza, come in esso si radichi e trovi slancio

filosofico una delle questioni più care a Dufrenne, cioè quella riguardante la Natura,

l’originario.

All’interno del tema del sensibile abbiamo visto ritagliare lo spazio proprio alla

percezione, che è tuttavia con Dufrenne uno spazio largamente condiviso

dall’immaginazione. Il rapporto percettivo al mondo, grazie alla descrizione della

sensibilité généralisatrice, si può afferrare come un rapporto sempre aperto e in fieri

all’interno del quale sono da sempre implicate le sfumature di affettività e

immaginazione. Questo significa accettare l’intenzionalità fungente come una dinamica

relazionale mai chiusa, nella quale il mondo non si scopre semplicemente ma in qualche

modo sempre si forma. E sempre secondo la cifra del possibile che attraverso

l’immaginario accompagna persino la sensazione. Ci torneremo più avanti, l’importante

è comprendere fin d’ora come il triangolo di sensibilità, con percezione e

immaginazione sia per questo autore estremamente forte e significativo. È su queste

basi che possiamo comprendere la componente espressiva che l’intervento del

sentimento apporta alla relazione con il mondo. Tale componente caratterizza

stilisticamente la percezione stessa, come modalità genetica e non semplicemente

ricettiva in rapporto al senso. Il culmine di ciò, come vedremo, sarà rappresentato

dall’immagine della sinestesia.

2.2 Il significato dell’oggetto estetico

Per passare al secondo dei triangoli teorici che abbiamo indicato, quello relativo ad

espressione, stile e sinestesia, può esserci utile considerare quel passo della

Phenoménologie de l’experience esthétique che l’autore dedica a delineare se e come un

oggetto estetico sia in grado di significare. Il problema della significazione dell’oggetto

estetico rappresenta una parte particolarmente saliente di quel problema più generale,

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centrale tanto nella filosofia di Dufrenne quanto nel nostro percorso, che è il problema

del senso del mondo, della nostra possibilità di coglierlo e, in ultima istanza, quindi, il

problema della sua verità. Verità della quale non solo si dovranno esplicitare i caratteri

ma anche se e come all’uomo sia dato coglierla, tenuto conto della rigida base estetica,

cioè corporea, in cui la fenomenologia francese, e Dufrenne in particolare, lo colloca.

Tutta la riflessione dufrenniana converge verso un punto specifico, che egli stesso

riassume in una duplice domanda:

Se l’opera serba un potere significativo, se l’oggetto estetico non è un mero sensibile, qual è da un lato il posto di quella significazione nella struttura dell’opera, o anche la sua funzione di dinamismo nell’atto creatore? E, d’altra parte, com’è colta dalla percezione estetica?306

Si vede qui come il problema relativo alla percezione estetica sia, considerato nelle

sue conseguente teoriche, un problema di coglimento di senso oltre che di sensibile; un

problema di definizione del nostro commercio con il mondo. Commercio che l’arte

mette in scena in modo esemplare continuando a ricordare come quell’invisibile che

sappiamo essere parte del nostro panorama costantemente richieda di essere ridefinito e

afferrato, descritto e ricompreso.

Proprio il Senso è quindi il cardine su cui ruota il domandare qui in questione che

conduce a seguire Dufrenne nell’analisi di un aspetto essenziale dell’oggetto estetico: il

suo potere di significare.

Per mettere in luce questa caratteristica Dufrenne si serve del confronto con quelli

che egli chiama “oggetti significanti”307, la cui funzione consiste non nel permettere

un’azione o soddisfare un bisogno, ma nel dispensare sapere, come un libro di scienza o

un catechismo.308 Ben conscio della differenza che separa questi oggetti dalle opere

306 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthetique, cit. p. 192. 307 Ivi, p. 183. 308 “Senza dubbio qualsiasi oggetto può essere detto significante, ma bisogna dare un posto a parte a quelli in cui il significato non serve semplicemente a destare l’azione, e non si perde quando questa sia compiuta: un libro di scienza, un catechismo un album di fotografie e già, più modestamente, il cartello indicatore, sono segni il cui significato non determina un’azione se non fornendo prima un’informazione. In un mondo culturale che, come il nostro, attribuisce un grande valore alla conoscenza positiva e ai mezzi per fissarla e diffonderla, questi oggetti significanti formano un gruppo autonomo e prestigioso, il

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d’arte, Dufrenne è tuttavia portato a interrogarsi sulla possibilità che le opere d’arte

hanno, in luoghi ove scienza e religione ancora sono sovrapposte o dove non esistono

biblioteche, di trasmettere quel sapere. “Suger sa bene che il catechismo si legge sulla

pietra dei timpani o dei capitelli di Saint-Denis; e noi impariamo la religione dei Sumeri

dai loro bassorilievi”309. È infatti solo con l’arte moderna che l’aggettivo “figurativo”

arriva a designare un carattere facoltativo delle arti. La domanda da porsi, quella dietro

cui probabilmente si cela più di una risposta, riguarda allora proprio il carattere

significante dell’oggetto estetico. Esso, dunque, “non attende da noi prima di tutto la

lettura di questo significato?”310.

Uno dei primi caratteri dell’oggetto estetico di cui in questa analisi va tenuto conto

è allora quello relativo al suo rapporto con realtà e verità. Esso, se è suscettibile di verità

in quanto rappresenta, non si rivolge tuttavia a quel tipo di verità cui sembrano

rivolgersi gli oggetti intellettuali. “Sospettiamo che si tratti di una verità ad esso

intrinseca, che non può verificarsi nel mondo degli oggetti reali, una verità non inerente

a ciò che rappresenta ma a come lo rappresenta”311. Nel momento in cui la verità cui

l’opera tende si situi fuori di essa in modo che proprio il mondo reale diventi verifica

del suo senso, l’opera in questione perde semplicemente il suo carattere estetico per

collocarsi, invece, altrove. Quello che interessa a Dufrenne è però oltre questa irrealtà

del significato, poiché ciò che ci viene rappresentato non sempre ha molto interesse e

non è questo che deve animare la nostra attenzione, a differenza di quanto accade per

l’oggetto significante che si giudica esattamente in base a ciò che significa e per il quale

la forma dipende completamente dal contenuto.312 Rispetto al proprio contenuto

l’oggetto estetico ha un atteggiamento del tutto diverso, genera effetti di tutt’altro tipo e,

soprattutto, richiede un approccio completamente differente. In questa analisi, che a

tratti indulge anche a notazioni di carattere un po’ empirico, l’autore mira a sottolineare

cui prestigio del resto si estende pericolosamente dino ai sottoprodotti più degradati, fino ai giornali e alla pubblicità.” (Ivi, pp. 183-184) 309 Ivi, p. 184. 310 (Ibidem.) Si propaga da qui, e vi torneremo a più riprese, quella distinzione fondamentale per l’autore tra significato ed espressione che lui stesso specifica a proposito di questi temi in una nota in cui sottolinea tra l’altro come tale distinzione sia parallela a quella proposta da Souriau tra esistenza reica ed esistenza trascendente. 311 Ivi, p. 185. 312 Cfr ivi pp. 186 e segg.

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un particolare aspetto relativo all’oggetto estetico e, di riflesso, al mondo dell’arte come

a quello della vita: “L’oggetto estetico non dimostra, mostra”313. L’arte significante non

imita e la sua verità non è in alcun modo rintracciabile nella verosimiglianza.

“Quell’oggetto irreale che vi è rappresentato non intende essere una copia del reale, il

cui valore sia proporzionale all’esattezza.”314

È qui evidente il rimando a diversi contributi merleaupontiani. In particolare, è

noto il passo in cui l’esclusione artistica di una pratica rappresentativa viene

formalizzata:

Nessuna pittura valida è mai consistita nella semplice rappresentazione. […] la concezione moderna della pittura come espressione creatrice è stata una novità molto più per il pubblico che per i pittori stessi i quali l’hanno sempre praticata anche se non ne facevano la teoria.315

Merleau-Ponty prende netta distanza dal concetto di rappresentazione,

formalizzando esplicitamente una precisa critica della Vorstellung316. L’artista

manifesta ciò che secondo il filosofo ogni uomo fa in senso lato: non mira a

rappresentarsi un’idea, un’immagine, che rispecchi la realtà, ma tende a ricreare questa

stessa realtà come egli stesso la vive, riconfigurandola dal suo proprio punto di vista

vissuto. Per questo motivo, davanti a una tela nessuno spettatore vedrà solamente l’evocazione di una donna, o di un mestiere, né di un comportamento, neppure di una ‘concezione della vita’ (quella del modello o

313 Ibidem. 314 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthetique, cit. p. 188. 315 M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 74, corsivo mio. 316 Il rifiuto di una coscienza di tipo rappresentazionale in Merleau-Ponty è radicale. A questo proposito è significativa una nota di lavoro che segue l’edizione italiana de Il visibile e l’invisibile, datata Maggio 1960: “Generalizzare la critica del quadro visivo in critica della Vorstellung. Infatti la critica del quadro visivo non è critica del realismo, o dell’idealismo (sinossi) solamente – è essenzialmente critica del senso d’essere dato da entrambi alla cosa e al mondo. Vale a dire il senso d’essere In sé (in sé non riferito all’unica fonte del suo senso: la distanza, lo scarto, la trascendenza, la carne) orbene, se questa è la critica del quadro visivo, essa si generalizza in critica della Vorstellung. […] Ciò che io intendo fare è restituire il mondo come senso d’essere assolutamente diverso dal ‘rappresentato’, cioè come l’Essere verticale che nessuna delle ‘rappresentazioni’ esaurisce e che tutte raggiungono, l’Essere selvaggio.” (Il visibile e l’invisibile, cit., p. 265.) Su tale rifiuto di Merleau-Ponty si veda R. Bernet, The phenomenon of the gaze in Merleau-Ponty and Lacan, in “Chiasmi International” n. 1, 1999, pp. 105-118.

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quella del pittore), ma di un modo tipico di abitare il mondo e di trattarlo, infine di significarlo.317

Lo stesso autore che Dufrenne cita a questo proposito è dialogo implicito con

Merleau-Ponty. Il riferimento è infatti a Malraux, quello stesso Malraux, che Merleau-

Ponty assume spesso come obiettivo polemico prendendo le distanze dalla sua idea

secondo cui il movimento della pittura moderna in generale rappresenterebbe un ritorno

all’individualismo, e che fornisce tuttavia al filosofo una definizione che egli trova

largamente condivisibile nel definire lo stile: “deformazione coerente”. Benché per

Malraux ciò significasse la volontà dell’artista di trovare e utilizzare un linguaggio

strettamente personale, visto attraverso la lente degli scritti husserliani con Merleau-

Ponty il concetto viene ricondotto al modo naturale che ogni uomo possiede, e ogni

artista manifesta con particolare evidenza, di esprimersi utilizzando il proprio corpo, i

propri gesti, il proprio comportamento quale struttura intima e significante di per sé.

Il riferimento a Malraux con Dufrenne si sposta leggermente, ma la direzione resta

la medesima. Il Malraux citato in questo caso è infatti quello che raccomanda allo

spettatore di “non giudicare l’opera come se fosse un qualsiasi oggetto significante,

confrontare l’oggetto rappresentato con l’oggetto reale per denunciarne o rettificarne le

infedeltà, insomma voltare le spalle all’oggetto estetico per evocare quell’oggetto

reale.”318 Quello che il confronto portato avanti da Dufrenne mira a sottolineare e

ribadire è infatti che “l’oggetto estetico non è l’organo di un sapere, e neppure il

surrogato di un originale”319 perché “l’oggetto estetico non è un segno che rimandi ad

altro che a se stesso”320.

Non si mira a negare e annichilire ogni forma di significazione interna all’oggetto

estetico, al contrario, si punta a comprendere come a tale significazione sia estranea

l’imitazione, da parte dell’oggetto rappresentato, di un oggetto o fatto mondano. Il

317 La prosa del mondo, cit., p. 78, corsivo mio. Abbiamo già incontrato nel primo capitolo l’idea di un significato esistenziale, sotteso e precedente quello concettuale, che si può riconoscere in ogni atto di espressione, linguistica ma non solo. 318 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 188. 319 Ibidem. 320 E ancora: “Un ritratto, somigliante o meno, è un oggetto estetico solo quando cessa di essere un ritratto – l’equivalente di ciò che è oggi per noi una fotografia: quando non sono tentato di evocare un modello, e l’oggetto dipinto mi sembra necessariamente determinato dalla pittura, quando davanti al Cartesio di Franz Hals invece di pensare a Cartesio penso ad Hals, o piuttosto sono sul suo stesso piano.” (Ibidem.)

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significato dell’oggetto estetico si esaurisce nel fatto che qualcosa sia rappresentato o

proferito, anche se questo qualcosa come nel caso dell’arte astratta non possa essere

identificato. Certo però, l’opera ha sempre un soggetto. Soggetto che, non essendo la

cosa principale che attiri la nostra attenzione né esiga l’imitazione del reale, deve forse

essere identificato come il mezzo di un’altra significazione e, per se stesso, forse

soltanto un simbolo. È questa la domanda in cui si sintetizza questo passaggio del

percorso Dufrenniano e che adombra già non solo le sue conclusioni ma una serie di

conseguenze che rimbalzano, insieme alla domanda, sul problema di come

quell’apparente disprezzo delle apparenze possa ancora significare. Tornando sul

confronto tra oggetto estetico e oggetto significante e sulla loro sovrapposizione fino

all’identità in determinate epoche, Dufrenne indica nel sacro quel significare cui

l’oggetto in questione rimanda. L’oggetto estetico, che l’autore legge come sacro prima

che come opera d’arte, esprime innanzitutto “quella verità che non sta nelle apparenze

insignificanti del mondo quotidiano, ma nelle grandi forze cosmiche che lo attraversano,

negli eventi esemplari che il mito racconta e la festa ripete, in ciò che dà un senso alle

apparenze invece che riceverlo da queste.”321 Nell’opera d’arte allora si traduce la

percezione che l’individuo ha del mondo, quella percezione che attraverso le apparenze

“frammentarie e insignificanti” sa riscoprire forze cosmiche e vitali. Una prima

conseguenza di questa lettura, molto poetica e suggestiva, implica che il significato

delle arti selvagge sia innanzitutto mistico, ben più che estetico, e che, di conseguenza,

l’opera non tenda a divenire oggetto estetico bensì lo diventi suo malgrado. Vi è una

densa attenzione antropologica che agisce qui, sullo sfondo di questo discorso. Quando

dice che l’oggetto estetico è tale in quanto è percepito, infatti, Dufrenne dice più di

quanto sembri. La presenza, come abbiamo visto sopra, è certo conditio sine qua non

dell’emergere, dell’apparire dell’oggetto estetico, ma prima ancora che l’oggetto

estetico possa apparire, affinché esso possa esistere, deve sparire l’oggetto sacro. Il

vaso, la maschera e il bronzo del museo aprono la strada alla tela e al quadro dei nostri

artisti proprio per il loro essere nel museo; per il fatto stesso che, guardandoli, non si

partecipa più in alcun modo alla fede che li fece nascere. “È allora che l’opera d’arte

321 Ivi, p. 189.

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subisce ‘la sua metamorfosi’: cessa di essere simbolo per divenire oggetto estetico.”322

Situazione ambigua: celebra il trionfo dell’oggetto estetico, e con esso del nostro

rapporto all’arte e infine al mondo, mentre constata quasi con rassegnazione la fine di

un altro tipo di rapporto all’arte e infine al mondo.323 Da una parte, dunque, l’oggetto

estetico è figlio di una forma di morte, è sedimentazione di un significato nel mezzo di

una globale “indifferenza ai significati”.324 Ma tale indifferenza ai significati non

rappresenta sempre uno sbocco morto; è proprio su questo sfondo, infatti, che l’opera

come noi la conosciamo può divenire oggetto estetico. Vi è una forma di crescita

progressiva in questa sorta di “perdita dell’ingenuità” che sottrae alla religione ogni

ruolo estetico per affidarlo invece, esclusivamente, all’oggetto. Oggetto che non perde,

ma muta, il suo potere di significare. Il timpano di Autun, per seguire l’esempio

dell’autore, può forse perdere per noi la sua funzione didattica, ma come oggetto

estetico, precipitato di una forma d’arte passata, esercita comunque un suo potere.

Potere che si tratta, allora, di mettere a fuoco. Si torna a ribadire quindi l’indifferenza

del soggetto dell’opera, poiché è il soggetto stesso a parlarci “e per il modo in cui è

trattato”.325

322 Ibidem. 323 Teniamo presente, e ci sarà utile, il passo che Merleau-Ponty dedica al museo e ai significati che in esso vanno in campo: “Sotto questo profilo, la funzione del Museo, come quella della biblioteca, non è completamente benefica. Il Museo ci dà modo di vedere insieme, come momenti di un unico sforzo, produzioni che giacevano nel mondo, immerse nei culti o nelle civiltà di cui volevano essere l’ornamento: in questo senso esso fonda la nostra coscienza della pittura come pittura. Ma quest’ultima risiede anzitutto in ogni pittore che lavora, e vi risiede allo stato puro, mentre il Museo la compromette con i cupi piaceri della retrospezione. […] Sentiamo bene che si perde qualcosa e che questo raccoglimento da necropoli non è il vero ambiente dell’arte, che tante gioie e sofferenze, tanta collera, tanto lavoro non erano destinati a riflettere un giorno la trista luce del Museo. […] Mentre in ogni pittore lo stile viveva come la pulsazione del suo cuore e lo rendeva appunto capace di riconoscere ogni sforzo come diverso dal suo, il Museo riconverte questa storicità segreta, pudica, non deliberata, involontaria, insomma vivente, in una storia ufficiale e sfarzosa. […] Il Museo fa sì che i pittori divengano per noi misteriosi, come le piovre o le aragoste. Queste opere che nacquero nel calore di una vita, esso le trasforma in prodigi di un altro mondo, e il respiro che le animava non è più, nell’atmosfera pensosa del Museo e sotto la protezione dei suoi vetri, se non un debole palpito della superficie. Il Museo uccide la veemenza della pittura come la biblioteca, diceva Sartre, trasforma in ‘messaggi’ quegli scritti che originariamente furono i gesti di un uomo. Esso è storicità di morte; e c’è una storicità di vita, di cui il Museo ci dà solo l’immagine decaduta: quella che risiede nel pittore al lavoro, quando egli congiunge con un unico gesto la tradizione che riprende e quella che fonda, quella che d’un sol tratto lo unisce a tutto ciò che è stato dipinto nel mondo, senza che egli debba lasciare il suo posto, il suo tempo, il suo lavoro benedetto e maledetto, e che riconcilia le pitture in quanto ciascuna di esse esprime l’esistenza intera, in quanto sono tutte riuscite – invece di riconciliarle perché sono tutte finite e come altrettanti gesti vani.” (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., pp. 90-91.) 324 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 191. 325 Ibidem.

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Continuando nel confronto iniziale tra oggetto estetico e oggetto significante, si

può così cogliere come per entrambi il soggetto sia centrale ma anche come per il

primo, a differenza di quanto accade per l’altro, esso sia centrale non in sé ma per come

viene trattato. In questo caso, infatti, detto in altre parole, il soggetto è un ingrediente

inevitabile dell’opera ma non tanto per se stesso quanto “per la forma che gli è data e

grazie alla quale diventa espressione”.326 Il significato in questo caso non rimanda più a

nulla di esterno: esso, al contrario, è immanente al significante. In questo modo si

distingue anche, nuovamente, la percezione ordinaria, che cerca il senso del dato oltre il

dato, da quella estetica. “L’oggetto estetico trasmette il proprio senso soltanto a

condizione che, invece di attraversare il dato, la percezione vi si fermi; non tollera che

se ne stacchi.”327

Nell’oggetto estetico è all’opera una forma di significazione primordiale che si può

concepire come luogo trascendentale dell’unità tra significato e significante, il punto di

emergenza stesso della loro differenza che si configurerà solo in un secondo momento

come significativa328. La relazione che intercorre in questa prospettiva tra i due elementi

riconducibili al significato e al significante può essere descritta in analogia a quella che

regola la semeiotica medica. Sotto questa luce, infatti, il sintomo si presenta come segno

della malattia solo nel momento stesso in cui anch’essa sorge. Si presentano insieme,

passibili di differenziazione solo alla forza di uno sguardo astraente e successivo. Il

sintomo non designa la malattia, esso la è, accade simultaneamente con lei e sun piptein,

in effetti, cadere insieme, è proprio il contenuto della più semplice considerazione

etimologica.

Con maggiore coerenza si può parlare di semiosi affettiva, interpretando l’oggetto

estetico come avente un significato, precisamente come espressione di un contenuto,

326 “Non è espressivo il Giudizio universale descritto da un libro di teologia, ma lo è il Giudizio universale scolpito da Gislebert, non la malattia descritta da un manuale di patologia, ma la malattia trasporta nella mimica di una danza selvaggia.” (Ibidem.) 327 Ivi, p. 194. 328 La consapevolezza sottesa a questa prospettiva è basilare tanto nella filosofia di Merleau-Ponty quanto in quella di Dufrenne. Indagare alla sua origine il fenomeno del significato, espresso in arte o in altra forma, implica privarsi di ogni significazione già istituita. Trascurare il punto di emergenza del significato equivarrebbe a non comprendere nessuna creazione, nessuna cultura, rimanendo ancorati alla supposizione di un mondo “intelligibile dove tutto sia in anticipo significato”. (Cfr. M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 76.)

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che ad esso e solo ad esso pertiene. “E in effetti il significato non ha esistenza

autonoma; esiste solo mediante l’oggetto estetico che lo rivela, non gli preesiste”.329

In questo modo, in un certo senso, l’oggetto estetico dice qualcosa e proprio su

questo dire torna a interrogarsi Dufrenne puntando sull’oggetto estetico come

linguaggio,330 poiché nelle sue modalità e nel suo schema di procedimento, così come

nelle sue molteplici possibilità di essere inteso, si radica tutto il suo significato. Non

solo. Proprio l’analisi dell’oggetto estetico in relazione al linguaggio consente di

giungere ad alcune conclusioni salienti che dall’oggetto estetico permettono di esulare

per illuminare meglio l’immagine dell’uomo di Dufrenne e, con essa, il suo rapporto al

mondo. Il linguaggio viene infatti descritto in analogia con l’uomo stesso: “che vive

identificandosi con il proprio corpo, e inaugura il pensiero desolidarizzandosi dal corpo

senza potergli mai sfuggire, il linguaggio è diviso tra il monismo in cui si radica e il

dualismo in cui rischia di abolirsi portandosi a compimento.”331 L’equilibrio possibile è

allora sempre un equilibrio instabile, “tra l’essere del gesto, attraverso il quale diventa

espressivo, e l’essere del verbo, attraverso il quale diventa razionale”332. La lettura

dell’umano che sottende questa descrizione si rivela con efficacia in termini di apertura

e contrasto. La stessa apertura e lo stesso contrasto che reggono la percezione come

soglia di apertura dell’umano e suo accesso al mondo; radicata in un monismo di cui il

solo soggetto è portatore e però sempre nuovamente dispersa e passibile della

frammentazione e della lacerazione che l’attività razionale, con astrazione successiva,

può apportare. È la stessa divisione che sussiste tra l’indifferenziato della carne e il

sempre individuato della ragione; la stessa distanza che si legge, e Dufrenne lo esplicita,

tra natura e spirito.333 Di tale distanza si comprende l’ampiezza: essa riguarda ancora la

329 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 194. 330 “Ogni oggetto, infatti, è in un certo senso un linguaggio; e inversamente il linguaggio è una specie di oggetto.” (Ivi, p. 196) 331 Ibidem. 332 Ibidem. 333 Il riferimento, che Dufrenne esplicita in una nota, è alle Recherches sur la nature et le fonctions du langage di B. Parain in cui l’autore “sembra partire dalla constatazione che l’origine del linguaggio ci è nascosta; a questo punto non possiamo risolvere il problema della denominazione, né essere certi che le parole abbiano un qualche avvallo, sia una cosa singola di cui costituiscono il segno naturale, sia un’essenza intelligibile di cui costituiscano il segno convenzionale. Ma se questo problema resta in sospeso, c’è un’altra funzione del linguaggio, la cui dimostrazione il cui esame ci conduce non più verso l’inafferrabile principio ma verso il fine del liguaggio. (…) Il linguaggio è allora un programma, un

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funzione del linguaggio. Funzione che è ambigua, potendo implicare tanto un ruolo

espressivo quanto uno significante:

Significante in quanto racchiude un significato oggettivo che in qualche modo ad essa è esterno e richiede l’uso dell’intelletto, espressiva in quanto porta in sé un significato immanente che trascende il senso oggettivo colto dall’intelletto; la parola è segno e più che segno, dice e contemporaneamente mostra, e ciò che mostra è diverso da ciò che dice.334

Su tale duplice possibilità di funzionare che caratterizza il linguaggio è bene

insistere: grazie ad essa, e alle analogie e differenze che Dufrenne indica rispetto al

funzionamento espressivo dell’oggetto estetico, si renderanno chiari tanto alcuni nodi

problematici fondamentali insieme ad alcune delle linee teoriche essenziali.

Una delle caratteristiche principali del linguaggio, così come lo descrive Dufrenne,

è quella di essere “strumento razionale”, riguardante cioè una forma di comunicazione e

di azione che sa e vuole stabilirsi al livello del pensiero: “e il pensiero può prendere

coscienza di sé solo facendo del linguaggio un mezzo e non un fine”335. Questa

esplicitazione del carattere razionale del linguaggio e della significazione che lo abita

non è secondaria rendendo possibile, per differenza, l’attribuzione di un carattere che

sia altro dal razionale a qualcosa che sia altro dal linguaggio. Come vedremo, infatti,

l’indagine generale riguarda proprio, e in misura che non è possibile ignorare, le

condizioni di possibilità della razionalità stessa come schema di interpretazione del

mondo, come base dell’atteggiamento scientifico nonché di quello ingenuo. Oltre a

quella che è comunemente indicata come razionalità, e forse prima di essa, vi è infatti

l’oggetto della ricerca di Dufrenne. Oggetto di cui non si può dare per scontata

l’esistenza.

Del linguaggio allora si può e si deve dire anche che oltre al dominio della

razionalità appartiene a quello “del pensiero o dell’azione”. E pensiero e azione, come

conoscenza e pratica, sono proprio quegli atteggiamenti al di là dei quali si gioca il

ordine o una promessa: esprime il possibile e non il reale, un possibile da realizzarsi. Di qui l’idea di una teoria espressionista del linguaggio.” (Ibidem, n.) 334 Ivi, p. 196. 335 Ivi, p. 197.

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gioco dell’estetizzazione; quegli atteggiamenti la cui riduzione è forse la condizione

necessaria per accedere al piano estetico e fungente, o anche espressivo, stilitistico,

sinestesico, dell’esistenza.

All’interno del linguaggio, inteso come trasmissione di significati, agisce un senso

che è sempre presupposto, che può essere oggettivo solo a patto di essergli anche

immanente. Ma al linguaggio Dufrenne, che ancora una volta ricalca e cita Merleau-

Ponty aderendovi in parte tanto da darne alcuni presupposti per scontati, riconosce la

possibilità anche di un’altra caratteristica. Quella che Merleau-Ponty chiama “parola

originaria” è la figura che esplicita come ogni linguaggio possa, e Dufrenne

significativamente dice “divenendo estetico”, proporre un senso che sia diretta

secrezione del segno. Il linguaggio può, cioè, portare con sé il proprio senso nell’attimo

stesso in cui si manifesta, senza tradurre necessariamente un’idea preesistente né

supporre una comunicazione già realizzata tra gli interlocutori. La prima parola di cui

Merleau-Ponty si serviva, metaforicamente ma non troppo, è quella parola lanciata

“senza sapere se essa potrà essere altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di

vita individuale in cui nasce e presentare (…) l’esistenza indipendente di un senso

identificabile”336. A questa dimensione del linguaggio precedente la sua stessa

formalizzazione punta anche la descrizione dell’oggetto estetico di Dufrenne. Ma prima

di giungervi l’autore indugia su un’altra caratteristica dell’espressività del linguaggio,

che è quella di essere all’interno di una relazione tra un io e un tu. Il linguaggio, nel suo

essere espressivo, non porta alla presenza solo un senso nuovo ma manifesta anche il

soggetto. Esso “è un gesto di cui leggo il senso e che mi indica le intenzioni di chi mi

parla, non è soltanto il mezzo per comunicare un’idea con la scelta stessa delle parole,

ma il mezzo per darsi.”337 Quando Dufrenne pensa alla parola “a partire dal gesto” sta

ovviamente ricalcando, con la consapevolezza di utilizzare uno strumento acuto, la

distinzione merleaupontiana338 tra parola parlante e parola parlata. Parola parlante è

per definizione quella “nella quale l’intenzione significante si trova allo stato

336 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, in Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 32. 337 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 199. 338 Distinzione teorica funzionale formalizzata all’interno della Fenomenologia della percezione, là dove si affronta il tema del corpo come espressione insieme alla parola e ripresa più tardi ne La prosa del mondo, ed. it. Editori Riuniti, Roma 1984.

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nascente”339, che spezza il silenzio primordiale. Al contrario, la parola parlata “fruisce

dei significati disponibili come di un patrimonio acquisito”340, è “il linguaggio

successivo, quello che è acquisito e che svanisce davanti al significato di cui è diventato

portatore”.341

È densamente significativo a tale proposito un passo presente in Sulla

fenomenologia del linguaggio342 con cui Dufrenne sembra esplicitamente volere

dialogare: Le parole, le costruzioni necessarie per portare all’espressione la mia intenzione significativa, si presentano alla mia mente, quando parlo, solo in virtù di ciò che Humboldt chiamava innere Sprachform (e che i moderni chiamano Wortbegriff), ossia in virtù di un certo stile di parola da cui essi sorgono e secondo il quale si organizzano senza che io abbia bisogno di rappresentarmeli. C’è una significazione “langagière” del linguaggio che opera la mediazione tra la mia intenzione ancor muta e le parole, cosicché le mie parole sorprendono me stesso e mi insegnano il mio pensiero. I segni organizzati hanno il loro senso immanente che non deriva dall’“io penso” ma dall’“io posso”. Questa azione a distanza del linguaggio, che raggiunge le significazioni senza toccarle, questa eloquenza che le indica in modo perentorio, senza mai tramutarle in parole e senza far cessare il silenzio della coscienza, sono un caso eminente dell’intenzionalità corporea.343

L’atto linguistico è rigorosamente ricondotto sotto, senza però certo essere ridotto

a, il movimento intenzionale del corpo, quella espressività generale che nell’apertura

estetica corporea trova il primo assoluto luogo di fondazione. L’analisi del fatto

linguistico porta in evidenza un significato esistenziale sotteso a quello concettuale che

si può e si deve riconoscere al parlare.

La parola in questo senso si configura come “l’eccedere della nostra esistenza

sull’essere naturale”344. E questa è la chiave interpretativa fondamentale, la

339 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 269. 340 Ibidem. 341 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 38. 342 Comunicazione fatta a Bruxelles il 13 aprile 1951 in occasione del Primo Colloquio Internazionale di Fenomenologia, pubblicata per la prima volta in Problèmes actuels de la Phénoménologie nel 1952, ora pubblicato in Segni, cit. pp. 117-134. 343 Ivi, p. 122. 344 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 269.

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consapevolezza che, al di là di ogni possibile e forse legittima obiezione345, permette in

ogni caso un’impostazione che resta valida. Vitale si rivela infatti la messa in luce

dell’atto linguistico, e con esso di ogni possibile atto espressivo, come infinita apertura

creatrice, non fedele traduzione da affiancare o sovrapporre a sostrati sempre presenti e

di incerta provenienza.

Paragonabile a un gesto, la parola ha con ciò che esprime lo stesso rapporto che

lega il nostro corpo con l’oggetto cui tendiamo, intenzionato in modo implicito senza

che alcuna rappresentazione di noi stessi e dell’ambiente sia richiesta346. “La

significazione anima la parola come il mondo anima il corpo: mediante una presenza

sorda, che suscita le mie intenzioni senza dispiegarsi di fronte ad esse”347.

L’azione delle parole si attua nel loro essere attirate a distanza dal pensiero “come

le maree dalla luna”348, in un potere evocativo che va oltre il richiamo di una

significazione da parte di un “indice indifferente e predestinato”349. In questo senso il

predicato più forte del linguaggio è quello di essere “obliquo e autonomo”350 in un

processo espressivo che non si regola su un sostrato testuale predefinito.351 Dufrenne

raccoglie con particolare attenzione l’indicazione del linguaggio espressivo come

qualcosa di non condannato ad aderire a componenti oggettive predefinite; gli interessa

la possibile immediatezza e spontaneità della comprensione che si attua in questo caso,

il suo carattere non predicativo né grammaticale. L’elemento cui queste caratteristiche

introducono, infatti, con la sua potenza e le sue difficoltà, è rappresentato da “ciò che

viene comunemente chiamato sentimento”352. Sentimento che, a sua volta, incarna

345 Vale a titolo di esempio l’osservazione di L. Fontaine-De Visscher: “la parola, essendo il suo proprio eccesso, può provenire solo dalla parola, e non da una non-parola, che sarebbe Significato puro e che al limite escluderebbe ogni significante come inessenziale” (L. Fontaine-De Visscher, Phénomène ou structure? Essai sur le language chez Merleau-Ponty, Publications des Facultés Universitaires Saint-Luois, Bruxelles 1974, cit. in M. Carbone, Ai confine dell’esprimibile, Guerini Studio, Milano 1990, p. 61.) 346 Cfr M. Merleau-Ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio, cit, p. 122. 347 Ivi, p. 123. 348 Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, in Segni, cit., p. 69. 349 Ibidem. 350 Ivi, p. 70. 351 “La parola opera sempre su uno sfondo di parola, non è mai altro che una piega nell’immenso tessuto del parlare. Per comprenderla non dobbiamo consultare qualche lessico interiore che ci dia, per i vocaboli o le forme, i pensieri puri a cui essi corrisponderebbero: basta che ci offriamo alla sua vita, al suo movimento di differenziazione o di articolazione, alla sua eloquente gesticolazione”. (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, cit., p. 69) 352 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 201.

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quell’area problematica la cui descrizione sfugge la rigidità delle categorie eppure

impone assoluta attenzione e massima cautela. Nelle parole di Dufrenne, sentimento è

“precisamente un certo modo di essere al mondo, d’istituire con esso una certa

relazione, di scoprirne un volto e vivervi certe emozioni; appunto nei sentimenti si

elabora il rapporto originale di un essere col mondo e si manifesta l’inafferrabile

spontaneità del per-sé”353.

Emerge così in modo preciso come sia un fondo affettivo e sentimentale ad

alimentare e precedere, secondo Dufrenne, le categorizzazioni e predicazioni che

avvengono nel linguaggio, quindi nella pratica, quindi nella ragione. Categorizzazioni e

predicazioni la cui natura si caratterizza pertanto all’interno di una prospettiva

fortemente antropologica che si pone al confine, mai definitivamente delimitato, con le

regioni -e i problemi- dell’ontologia. Qui il sentimento agisce in un duplice senso.

Innanzitutto rivela l’azione di un per-sé a cui resta estraneo ogni solipsismo. Proprio il

potere espressivo, infatti, con il sentimento su cui fa leva, rivela il senso di un

comportamento costitutivamente aperto all’altro; rivela il potere di un per-sé che è

anche, sempre e costitutivamente, un per-altri. In secondo luogo, nell’oggetto

dell’espressione, quindi nel sentimento, si rende visibile e presente ciò che l’esperienza

comune costantemente nasconde: “ciò che è senza concetto”354. Poiché soltanto

dell’oggetto c’è concetto, dove è in causa un soggetto, almeno quando si tratti dell’atto

fondamentale per cui è soggetto, e cioè della sua relazione più spontanea con il mondo,

il concetto è inoperante.”355 Il linguaggio diventa allora quell’apertura attraverso la

quale è possibile scorgere, seppur sempre di sfuggita, il luogo primario ove l’adesione al

mondo è totale e spontanea, disarticolata e assoluta. Questo ci rimanda coerentemente al

pensiero dello stile, sul quale dovremo tornare. Inoltre, questa descrizione del

linguaggio implica una seconda conseguenza teorica: quella che spinge a comprendere

come l’apertura del linguaggio implichi l’ingresso de soggetto non solo in uno stato di

cose relazionale e razionale, ma anche in un contesto pratico. Quindi etico. Nominare

l’oggetto, infatti, non significa solo invocarlo, ma anche “farlo entrare nel regno della

353 Ibidem. 354 Ibidem. 355 Ibidem.

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ragione; parlare è impegnarsi – se stessi e l’altro – a sottomettersi alle esigenze formali

e anche etiche del pensiero.”356

La dimensione relazionale-razionale del linguaggio esprime con precisione le

caratteristiche dell’agire umano, proprio quelle caratteristiche a monte delle quali

Dufrenne spinge ad indagare. La razionalità, infatti, condivide il campo con una forma

di frattura, che nel caso del linguaggio Dufrenne configura come “frattura semantica”,

in virtù della quale esiste la possibilità di riflessione stessa. Una forma di separazione

che consente il confronto. La descrizione dell’espressività del linguaggio punta invece

l’attenzione su un’altra possibilità sempre sottesa all’esperienza: quella di cogliere la

presenza del mondo proprio come presenza, che a sua volta non richiede sempre e per

forza che si metta in gioco il potere di giudicare né le regole del giudizio. In questo

modo, anche la verità sottesa al discorso si riconfigura in termini non predicativi; si

riconfigura come verità nella e della presenza, non ancora umanizzata perciò non ancora

soggetta alla ragione con le sue dicotomie.

L’esempio cui ricorre Dufrenne è quello della diversa reazione che, di fronte a un

bel paesaggio, avranno un uomo qualunque e un artista. Il primo ricorrerà al linguaggio,

come forma di conversione di “un’impressione eloquente ma informe in un’impressione

lucida e legittima”; sentirà infatti l’esigenza di articolare il proprio pensiero, per

comprenderlo lui stesso oltre che condividerlo. L’artista, al contrario, volendo

“perpetuare il mistero dell’oggetto, non chiarirlo”357 prenderà i pennelli e inizierà a

dipingere, lasciando che il paesaggio e la cosa dipinta coincidano in pieno e che il loro

senso resti opaco quanto intenso.

Non è naturalmente casuale che l’opposizione riguardi il fare artistico e quello

comune: vedremo infatti come sia proprio l’arte la dimensione dell’umano che, nella

meditazione del filosofo francese, meglio rende visibile il rapporto originario ed

espressivo al mondo.

Tornando però all’espressività del linguaggio, e alla sua utilità descrittiva, troviamo

nuovamente sottolineata l’assenza dell’universo della ragione dal momento espressivo.

Naturalmente, Dufrenne non sta questionando la possibilità della ragione né mettendone

356 Ivi, p. 202. 357 Ibidem.

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in dubbio l’importanza. Il suo è piuttosto un discorso che mira a ricollocarsi nella

prospettiva fenomenologica che Merleau-Ponty gli ha indicato. La fenomenologia

descritta da Merleau-Ponty che qui si ripercorre è infatti:

Una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro “fattività”. È una filosofia trascendentale che pone fra parentesi, per comprenderle, le affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre “già là” prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico.358

È questa la base teorica di tutto il meditare di Dufrenne, lente attraverso la quale è

possibile seguirne il percorso. Si spiega in questi termini, allora, anche l’interesse

dell’autore nei confronti del linguaggio come luogo in cui si manifesta il sorgere di una

razionalità che non è sempre là, che non è se non in seguito a una fertile rottura.

Riconoscere l’espressività del linguaggio implica riconoscergli il potere, non certo

metafisico ma molto umano, di esprimere un oggetto nel momento stesso in cui l’uomo

si esprime in esso ed, esprimendosi, gli conferisce “il potere di significare, e forse di

significare un senso nuovo”.359 Il senso ed il pensiero sono quindi da ricomprendere nel

loro sorgere e fondarsi a partire da quello che letteralmente è un “incanto”

nell’espressione: un luogo in cui, come nella magia, i rapporti di causa ed effetto, le

predicazioni e le previsioni non sono ammissibili.

È quindi a partire dall’espressione, e Dufrenne tiene a sottolinearlo proprio perché

applicandolo poi all’oggetto estetico questa notazione gli sarà particolarmente utile, e a

partire dal suo essere indifferenziato che il linguaggio trova il proprio fondamento e il

segno il proprio senso. E la condizione perché questo accada, perché l’epressione possa

incarnarsi – dire verificarsi sarebbe troppo ambiguo – è il fatto che in essa si manifesta

un soggetto.

Al soggetto, umano e individuale, si riconosce così un ruolo cardine, in lui si

riconosce la condizione di possibilità di ogni apparire di senso interno al linguaggio e

358 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 15. 359 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 205.

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esterno nella comunicazione. E abbiamo visto come il terreno umano da cui questa

dinamica attinge sia il sentimento, grazie al quale descrittivamente ma anche

operativamente è possibile cogliere e vivere quella fondamentale adesione spontanea al

mondo. Proprio in questa non discorsiva ma affettiva partecipazione con le cose nella

quale si fonda ogni potenzialità espressiva trova il proprio ancoraggio il concetto di stile

sul quale più avanti torneremo e che ci aiuterà a comprendere meglio il delicato

rapporto tra “ciò che è senza concetto” e gli oggetti con cui comunemente operiamo,

sempre nella pratica e sempre nel concetto.

Servendosi delle conclusioni cui giunge la sua analisi del linguaggio, Dufrenne può

così passare all’oggetto estetico, alla sua virtù espressiva con le implicazioni teoriche

cui il suo stesso riconoscimento conduce.

Nell’oggetto estetico, infatti, si verifica quello che la descrizione del linguaggio ha

visto accadere nel momento della parola originale, “che al tempo stesso desta un

sentimento e scongiura una presenza, più che recarci un senso concettuale.”360

L’oggetto estetico nella lettura di Dufrenne, è quello che, più di ogni altro, è in grado di

abitare quel terreno su cui la concettualizzazione non attecchisce. Terreno caratterizzato,

invece, da una dimensione estetica che riguarda anche i segni e i sensi che lo abitano.

Quando si tratti di una poesia, tale dimensione estetica riguarda le parole che la

compongono, “quelle accozzaglie di parole” insolite solo per l’intelletto che “non

dubitiamo che dicano qualche cosa che essi soli possono dire, in modo incalzante”.361

Meno poetico, meno empirico e più pregnante è però l’oggetto estetico del quale

l’espressività venga descritta in modo più generale. In esso, non soltanto nel linguaggio

della poesia, ma nell’atteggiamento della ballerina, nella curva della melodia come nella

sagoma di una colonna, infatti, se qualcosa si dice si dice in un modo che “non può

tradursi in termini di mondo”362, o se non altro non nei termini del mondo che siamo

abituati a frequentare. L’espressività dell’oggetto estetico, letta in termini di

trasmissione di un senso la cui comprensione non può avvenire sotto la lente

dell’intelletto, è un’espressività che, come abbiamo ripetuto, rimanda a un fungere 360 Ivi, p. 206. 361 Ibidem. 362 Ivi, p. 207.

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estetico e sentimentale. Ma soprattutto, rimanda alla componente di apertura e relativo

inserimento di un senso nuovo che tale fungere dischiude. Questo ha ripercussioni

importanti sul rapporto tra l’oggetto estetico e la verità le quali, a loro volta, non sono

indifferenti alla descrizione del problema della verità nel quadro più generale della vita

e della filosofia. Quella che l’oggetto estetico mette in campo, nella sua lettura di

oggetto espressivo, quindi creatore di un senso che solo in esso e per la prima volta si

manifesta, è la possibilità che il vero, il reale dunque l’oggetto su cui basiamo le nostre

pratiche e conoscenze, non sia quell’indubitabile e unitario essere con cui la scienza

crede di confrontarsi. È la possibilità che ogni reale sia attraversato in filigrana dal

mondo del possibile, altrettanto meritevole di attenzione e dignità filosofica. Tutto ciò

che è nell’oggetto estetico, infatti, non richiede – né avrebbe senso farlo – di essere

messo in relazione con dimensioni e comportamenti oggettivi. A tutto ciò che vi si trova

non si può chiedere che rimandi a una storia reale, esso “è vero soltanto in un mondo

che lui stesso mi apre”.363 La sua stessa espressività, parallelamente a quella del

linguaggio, implica la sua potenziale creatività; il suo potere fondativo e inaugurale, il

suo essere apertura e passaggio. Del reale, di quel mondo là fuori, l’oggetto estetico

semplicemente non fa parte. Il suo mondo appartiene a lui e a lui solo, “e al di là c’è

soltanto il reale da cui l’oggetto estetico è assente”364.

È evidente che riferirsi al reale accompagnandolo con soltanto è scelta lessicale

non neutra. Vi si rivela infatti, di nuovo, quel pensiero che respinge la totale adesione di

vero e reale in favore di una più sfumata e ricca articolazione di tale rapporto. L’oggetto

estetico, e il mondo che intorno ad esso si apre, è abitato dalla propria verità cui

espressivamente egli stesso dà vita; verità che è più vicina al dominio del sentimento,

quindi a quello della vita, che al dominio del pensiero e della ratio.

Preme a questo punto eivtare, e Dufrenne non manca di rimarcarlo, un possibile

grave equivoco. Insistere sull’espressione dell’oggetto estetico suggerendone il legame

con il sentimento non implica in alcun modo metterlo in relazione con l’emozione. “È

importante non confondere emozione e sentimento, commovente ed espressivo.”365 Il

363 Ibidem. 364 Ibidem. 365 Ivi, p. 208.

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rapporto che il vero oggetto estetico, “l’arte vera”366, instaura con il corpo non è

“compiacente”, “non è per lusingarlo ma per convincerlo.”367 Tale convincimento,

affine ma differente da quello che la ragione ottiene dal reale, appartiene al mondo della

conoscenza, nella misura in cui quel mondo cui l’espressività dell’oggetto estetico

introduce è in qualche modo conoscibile. Ma in quest’ambito la conoscenza si ritrova

collocata su un binario separato. Di fronte all’oggetto estetico “il sentimento che (esso)

desta è un mezzo di conoscere quel mondo, uno strumento di conoscenza”, diverso

quindi dall’emozione, che è solo “un mezzo di difesa e il segno di uno

sconvolgimento.”368 L’oggetto estetico, che Dufrenne volentieri assimila all’arte, può

essere significante solo a condizione di essere espressivo: quindi in grado di creare e

scoprire da sé quei nuovi significati che saprà poi trasmettere. Esso, infatti, come la

parola quando è espressiva, reca in sé la cosa e il suo senso, portandoli a una presenza

che dobbiamo dire affettiva. “L’arte”, infatti, “non rappresenta veramente se non

esprimendo, vale a dire comunicando, attraverso la magia del sensibile, un certo

sentimento grazie al quale l’oggetto rappresentato può apparire presente. È significante

prima di tutto perché è espressiva.”369 Si ottiene così un’adesione quasi totale tra

espressività e significatività che a sua volta sposta il cardine della significatività del

sensibile proprio sulla sua espressività. È quest’ultima, infatti, a permettere che il

“sensibile grezzo” si trasformi in “sensibile estetico”370, che il fondo selvaggio si

trasformi in primo piano significante.

Al pari della parola originaria, l’oggetto estetico in quanto espressione appartiene a

quell’“atteggiamento centrale in base al quale è parimenti possibile conoscere, agire e

creare”371, in un fare che ha l’imprevedibilità ma anche l’ineluttabilità dell’originario.

L’oggetto estetico si configura così, come il fare artistico, quale gesto inaugurale, che in

quanto tale, citando Dufrenne, “dà senso e consacra assai più di quanto non dia

inizio”372, e, citando Merleau-Ponty, “introduce un senso in ciò che non ne aveva, e

366 Ibidem. 367 Ibidem. 368 Ibidem. 369 Ivi, p. 209. 370 Ivi, p. 210. 371 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, cit., p. 41. 372 Dufrenne M., Estetica e filosofia, cit., p. 5.

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dunque, invece di esaurirsi nell’istante in cui ha luogo, inaugura un ordine, fonda

un’istituzione o una tradizione”373.

La descrizione del rapporto tra oggetto estetico e significato si rivela funzionale per

comprendere altresì il rapporto tra il sensibile e il significato, che nel fenomeno

dell’espressione trovano la propria cerniera. “Se il sensibile è così portatore di un

significato cui dà una propria inflessione e che diventa espressione, si può dire che

inversamente questo significato informa il sensibile.”374 In una forma di circolarità non

viziosa, l’in-formazione del significato investe il sensibile e al contempo da esso

diparte. Da una parte, infatti, è quasi evidente, troviamo un’informazione nel senso più

comune del termine come elemento che consente di avere conoscenza di fatti. La

struttura cui rimanda ha la forma di un passato, di un già significato che si tratta di

reiterare e trasmettere. Sul versante espressivo, invece, si fa pregnante la valenza

etimologica dell’informazione, che, come tutti sanno, restituisce l’idea originaria di

messa in forma, del dare forma modellando e rimanda al tempo presente del participio

del significante.

In questo nodo significato informato l’elemento del significato come senso da

trasmettere va concepito, con Merleau-Ponty, “in una dimensione che non è più quella

del concetto o dell’essenza ma quello dell’esistenza”375. Questa prospettiva è

perfettamente in linea con l’impostazione attraverso cui Dufrenne riconduce il parlare, e

l’esprimersi in generale, a un fare prima che a un sapere concettuale, a una dimensione

eminentemente esistenziale. In questo senso, risalendo nuovamente al fungere

antepredicativo dell’intenzionalità ricollegata a una prospettiva eminentemente

esistenziale di “vita vissuta”, ci si ritrova a contatto con una dimensione ancora lontana

dalla formalità del concetto. Tale dimensione rientra a pieno titolo nella sfera di

influenza di contenuti affettivi, emotivi, motori primi di ogni operazione di espressione

e fondazione di significati nell’ottica qui considerata.

Quella che si vede all’opera nell’oggetto estetico è una forma grazie alla quale è

unificato l’oggetto estetico stesso. “L’oggetto estetico (…) ci appare come un tutto: è 373 M. Merleau-Ponty, l linguaggio indiretto…, cit., p. 96. 374 Dufrenne M.. Phenomenologie…, cit. p. 210. 375 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 61.

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unificato dalla sua forma. Ma questa forma non è più soltanto l’unità del sensibile, è

l’unità del senso.”376 La forma, nella realtà dell’oggetto estetico, non si riferisce in alcun

modo al contenuto che in esso è rappresentato, e il discorso sulla forma in relazione al

significato non è quindi, in alcun modo, un discorso sul significato degli oggetti

rappresentati. “Sta qui il segreto dell’opera d’arte, e vi insisteremo ancora: il soggetto

viene esattamente a coincidere con la forma del sensibile, è forma di quella forma”.377

La forma ultima dell’oggetto estetico, infatti, è proprio la sua espressione nella quale

prende corpo “il senso del suo senso”.378 “Così la forma si ricollega al rappresentato

unicamente perché è innanzi tutto collegata al sensibile, cui è immanente la

rappresentazione. È il principio di organizzazione di quel sensibile, ciò che lo esalta, e

non più il contorno.”379 Si comprende allora anche perché il coglimento della forma così

intesa non possa essere appannaggio della percezione comune, sempre “occupata a

identificare l’oggetto per conoscerlo o utilizzarlo.”380

Con evidenti riferimenti alla Psicologia della Forma, Dufrenne amplia la possibilità

di identificare l’oggetto, estetico ma anche in generale, al di là della sua organizzazione

spazio-temporale di dato, per estenderne il riconoscimento fino alla sua espressività. Per

l’oggetto estetico poi, l’aspetto affettivo si rivela ineludibile: esso ne fa parte in modo

costitutivo, poiché “esso (l’oggetto) non parla soltanto con la ricchezza del sensibile, ma

per quella qualità affettiva che esprime e che permette i riconoscerlo senza passare

attraverso il concetto.”381 La sua forma si completa con l’aspetto affettivo, che non ne

rappresenta una superficiale sovrastruttura ma, al contrario, costituisce la sua unità.

Unità che, infatti, “non è soltanto sensibile ma affettiva.”382

In questo senso l’aspetto affettivo non è da cogliere come una delle possibili e

molteplici forme attraverso cui il reale si completa, bensì come un suo “nuovo viso”383:

un suo aspetto che comprende anche gli altri, con i quali interagisce e si compenetra.

L’oggetto impone e implica tale componente, senza opporle un’altra parte come si

376 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 211. 377 Ivi, p. 214. 378 Ibidem. 379 Ibidem. 380 Ibidem. 381 Ivi, p. 215. 382 Ibidem. 383 Ibidem.

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opporrebbe un primo piano a uno sfondo, e in questa unità gestaltica è l’unità

significante dell’oggetto. Quello che a Dufrenne preme rilevare è proprio questa

compenetrazione tra unità e senso che fa della forma estetica un’unità significante che

amplia la visione di J. Hersch, che l’autore ha ripetutamente citato, di “quella forma

assoluta capace di conferire all’opera d’arte un’esistenza non derivata”.384 Definire la

forma implica, infatti, nella sua visione, un riferimento ineludibile al senso e, di riflesso,

al sentimento “nella misura in cui il sentimento fa cogliere l’espressione che è a sua

volta senso.”385 Questo scongiura il rischio di interpretare la forma come qualcosa di

astratto che informa la materia, riafferrandola invece nelle sue caratteristiche

ontologiche oltre che estetiche. Dufrenne si spinge fino a raccogliere il concetto di

anima aristotelico e la nozione di Gestalt sotto il medesimo indice, facendoli coincidere

secondo l’idea che “la forma è l’anima dell’opera come l’anima è la forma del

corpo.”386 La distinzione tra forma e materia è una dicotomia che non gli interessa più

nella misura in cui “tutta la materia, da cui non può essere escluso il senso, è assunta

dalla forma.”387

E tale forma, o tale anima organizzata, in ogni caso questa totalità significante

entro cui si raccoglie l’unità dell’oggetto estetico esiste per la percezione e per la

scienza che ne deriva. La forma, ciò “per cui un oggetto ha un senso” è innanzitutto un

affare estetico; la sua stessa esistenza è subordinata alla percezione che la coglie. E da

questa percezione essa si lascia decifrare, imponendosi in modo tanto diretto, “senza

tener conto delle esigenze dell’intelletto e secondo un’esigenza che le è propria”388

poiché, lo ripetiamo, la sua significazione ha qualcosa di “misterioso”, irriducibile al

discorso.

Dufrenne non si sta riferendo qui a quella “profondità incomprensibile del senso”

che tutte le arti, soprattutto della nostra epoca, hanno ripetutamente sfruttato e

sottolineato. Per lui, infatti, “anche l’arte in apparenza più facile cela qualche cosa di

384 Ivi, p. 216. 385 Ivi, p. 217. 386 Ibidem. 387 Ibidem. 388 Ivi, p. 218.

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misterioso per il semplice fatto che si rivolge alla percezione, e da questa al sentimento,

piuttosto che all’intelletto.”389

Si vede qui, molto chiaramente, quale sia l’interesse vero, la questione

fondamentale: di che cosa realmente si sta parlando, effettivamente, se non di questa

modalità di relazionarsi con il mondo che esula il dominio della logica per manifestarsi

invece indubitabilmente attraverso le opacità indicibili della corporeità e dell’esteticità?

La questione della forma dell’oggetto estetico, il problema del suo senso, chiama in

causa, infatti, la necessità di puntualizzare se e come esso si relazioni con le potenzialità

recettive del soggetto che la esperisce e con il mondo che la circonda. E questo esige,

ancora una volta, che di tale ricettività e di tale mondo si dia conto. L’oggetto estetico si

relaziona alla nostra percezione secondo strutture affini ma differenti dall’oggetto

naturale. Di quest’ultimo condivide “l’indifferenza, l’opacità, la sufficienza”390, ma

diversamente da esso, l’oggetto estetico non è sempre in balìa del mondo. La cosa

naturale, infatti, rimanda sempre, “di cosa in cosa, a un mondo in cui si radica e sullo

sfondo del quale appare: il suo in-sé è come affetto da impotenza, essa non è neppure

completamente ciò che è, perché è in balia del mondo.” 391 E questa perenne relazione

con il suo sfondo attiva la nostra percezione, che ha una sola risorsa: “quella di

comprenderla (la cosa), cioè di coglierla nel suo contesto.”392 Ecco perché qui la

percezione tende a tramutarsi in intellezione, animando in noi la costante

preoccupazione di trovare una forma di oggettività stabile, punto di riferimento saldo e

fermo come un punto cardinale.

La cosa naturale si configura come “puramente cosa (…) quella cosa che non è

posseduta e animata da un significato intrinseco, quella cosa non espressiva appartiene

all’essere solo per perdervisi”.393 È quasi neutro persino il suo portato ontologico, dal

momento che “l’essere che essa attesta è l’essere indeterminato, che non è l’unità ma

l’abisso delle determinazioni, l’essere deserto di cui la natura, finché non porta il

marchio delle determinazioni umane, è l’immagine.”394

389 Ibidem. 390 Ibidem. 391 Ibidem. 392 Ibidem. 393 Ivi, p. 219. 394 Ibidem.

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L’esteriorità dell’oggetto estetico, invece, si unifica proprio in virtù della forma e

nella sua forma manifesta anche “una promessa di interiorità”. Questo esclude quel

rapporto al mondo come a uno sfondo cui si giunga, come abbiamo visto, “di cosa in

cosa”. Esclude la necessità e annulla l’utilità di cogliere la cosa nel suo contesto al fine

di comprenderla: l’oggetto estetico “è a se stesso il proprio mondo”395 e per

comprenderlo non si può fare altro che restargli il più vicino possibile, nei suoi paraggi,

e ad esso costantemente tornare. Nei suoi confronti non valgono più i punti di

riferimento offerti dal mondo delle cose naturali, essi semplicemente si annullano in

quel nuovo orizzonte che la sua stessa espressività introduce e dischiude.

Deriva da qui la celebre definizione, problematica e utilissima, dell’oggetto estetico

come di un “quasi soggetto”. Nel momento in cui si riconosce la forma come promessa

di interiorità, infatti, se ne coglie il portato espressivo che rende l’oggetto estetico simile

a un per-sé:

C’è un per-sé dell’in-sé, che è per l’in-sé la propria assunzione, un modo di essere luminoso a forza di opacità non ricevendo una luce estranea mediante la quale si disegni un mondo, ma facendo scaturire da sé la propria luce; è questo l’esprimere. Diremo così che l’oggetto estetico è un quasi-soggetto.396

Da questa notazione, e dalle conseguenze che Dufrenne ne trae relativamente

all’oggetto estetico, derivano alcune considerazioni che contribuiscono in maniera

notevole a una descrizione perspicua del rapporto uomo-mondo e del ruolo che in esso

svolge la sinestesia.

Prima di arrivarci, tuttavia, può essere utile comprendere con Dufrenne a quali

schemi corrisponde la descrizione del rapporto tra l’oggetto estetico e il mondo. Proprio

nel suo essere un quasi-soggetto, infatti, esso caratterizza a tratti per analogia a tratti per

differenza, il Soggetto tout court, la cui relazione intenzionale al mondo sfugge la

rigidità di una descrizione basata su semplici dicotomie.

Quella dell’oggetto estetico è una situazione soggetta a un’ambiguità ineludibile.

Ambiguità che anzi renderebbe maggiormente produttivo l’afferramento teorico del

quadro globale. 395 Ibidem. 396 Ibidem.

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L’oggetto estetico, infatti, è “nel mondo e contemporaneamente è principio di un

mondo”397 come un soggetto esercita delle “capacità di presa” sul mondo che, a sua

volta, “non è soltanto spettacolo ma anche teatro delle nostre azioni e dei nostri

progetti”.398 Per Dufrenne, la dimostrazione di queste caratteristiche implica e anzi esige

il coglimento del contesto relazionale nel quale si giocano tutti gli equilibri tra oggetto e

soggetto. Contesto relazionale che, come detto, esclude ogni forma di descrizione in

chiave dicotomica poiché:

Il mondo è quella luce proiettata da ciascuno secondo il proprio essere nel mondo, e tuttavia anche il luogo comune, la luce di tutte queste luci, l’orizzonte degli orizzonti; ciascuno vi è preso, e tuttavia esso è preso in ciascuno, e soltanto al limite è il mondo di nessuno, l’in sé che non sia per me.399

Nell’espressività dei soggetti, che l’oggetto estetico condivide, si delinea

chiaramente quel paradosso che riguarda tanto il mondo quanto i soggetti che lo

abitano: l’espressione, infatti, indica da una parte l’essere di una soggettività e,

dall’altra, “la possibilità di un mondo irradiato da quella soggettività”.400

Nell’espressività dei soggetti, che l’oggetto estetico condivide, si delinea

chiaramente quel paradosso che riguarda tanto il mondo quanto i soggetti che lo

abitano: l’espressione, infatti, indica da una parte l’essere di una soggettività e,

dall’altra, “la possibilità di un mondo irradiato da quella soggettività”.401

Ancora una volta è la cerniera che unisce e separa la vita riflessa della ratio dalla

vita vissuta del corpo a manifestarsi quale limite assurdo, paradossale eppure

immensamente significativo: infatti, “in quanto rifletto, questo mondo è mio e si spegne

con me; in quanto vivo, ne sono oltrepassato e preso dentro come un topo in una

trappola.”402 Per questa ragione, e Dufrenne riconosce la responsabilità teorica di questa

397 Ivi, p. 221. 398 Ivi, p. 222. 399 Ivi, p. 223. 400 Ibidem. 401 Ibidem. 402 Ivi, p. 224.

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consapevolezza, una riflessione veramente trascendentale sarà quella capace di ritornare

a “quella prima certezza scoprendomi in situazione.”403

Come quello del soggetto, il rapporto dell’oggetto estetico con il mondo è un

rapporto opaco e disarticolato, condannato a una ineludibile ambiguità che ne

rappresenta altresì la fertilità di significati.

Così, il mio rapporto col mondo e il mondo stesso sono ambigui; ho il mio mondo nel mondo, e tuttavia il mio mondo è soltanto il mondo. Allo stesso modo potremmo parlare di un mondo dell’oggetto estetico; c’è soltanto il mondo, e tuttavia quell’oggetto è gravido di un suo mondo.404

Questo rende chiara la difficoltà di descrivere il modo in cui l’oggetto estetico si

lascia cogliere all’interno del mondo, essendo esso profondamente differente dalle cose

naturali e dal loro modo di presentarsi.

Proprio a questo tema dedicheremo dunque il prossimo paragrafo.

2.3 Il mondo dell’oggetto estetico

Come abbiamo accennato, seguire Dufrenne lungo la sua meditazione a proposito

dell’oggetto estetico e del suo rapporto con il mondo ci permetterà di cogliere, secondo

analogie e differenze, quella specifica relazione con il mondo che caratterizza l’uomo, al

di là delle specificità dell’oggetto estetico. Questo sarà particolarmente utile

nell’illustrare il ruolo, teorico e metaforico, a sua volta giocato dalla sinestesia in tale

rapporto. Ruolo di cui vedremo le implicazioni più simboliche proprio nel contesto

dell’arte.

Ma, andando con ordine, seguiamo ora l’autore nella problematica e per nulla

scontata delineazione del rapporto tra l’oggetto estetico e il (suo) mondo.

Il percorso dell’autore è disseminato di riferimenti ed esempi che a volte non

temono di confondersi con un certo empirismo. Spesso deboli, quasi mai davvero

403 Ibidem. 404 Ibidem.

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illuminanti, tali riferimenti fanno tuttavia parte degli scritti di Dufrenne in maniera tanto

diffusa da diventarne quasi una cifra caratteristica. Si potrebbe riflettere a lungo sui

motivi che spingono l’autore a scelte a volte tanto poco rigorose. Forse però è

preferibile e più efficace prescinderne, limitandosi a tenere conto dei contributi teorici

che, ben oltre il sensismo apparente, non perdono la propria pregnanza.

Uno di questi riguarda appunto il ruolo del mondo rispetto all’oggetto estetico e

viceversa.

Rispetto agli altri oggetti del mondo, quegli oggetti il cui uso ci richiede un

controllo e una conoscenza accurati che le concezioni deterministiche contribuiscono ad

affilare, l’oggetto estetico si pone con una maggiore indipendenza. La stessa

indipendenza che contraddistingue l’essere vivente, “che si distingue dall’ambiente e gli

si unisce attraverso la propria mobilità”405. Similmente, anche se secondo sfumature

ancora diverse, l’oggetto estetico è abitato da un’energia estranea alla cosa naturale che

fa sì che esso sfugga all’integrazione percettiva del mondo quotidiano. Di più, come

abbiamo già visto, l’oggetto estetico esige una presenza che, attraverso la percezione,

porti esso stesso alla Presenza. Tra lo spettatore e l’oggetto estetico corre un corto

circuito per cui, nella visione di Dufrenne, il primo diventa anche attore del secondo.

“L’oggetto estetico estetizza ciò che gli sta intorno integrandolo nel proprio mondo, fa

di quei contorni altrettante province del suo regno, servitori della sua potenza.”406

Purtroppo è proprio questo uno dei nodi in cui l’autore più diffusamente indulge a quel

tipo di esemplificazione cui abbiamo accennato.407 Quello che gli interessava mostrare,

405 Ivi, p. 226. 406 Ivi, p. 227. 407 Ecco, ad esempio, un passo in cui l’indulgenza a esemplificazioni forse un po’ prolisse ed empiriche si manifesta con chiarezza. Si vede bene come la questione teorica sia più che pregnante, eppure diluita a tal punto da risultare quasi pretestuosa. “La percezione stenta a isolare l’oggetto dal campo percettivo. Con le arti temporali, a rigore, è possibile, hanno una propria durata, e vedremo come questa conferisca loro un’indipendenza più manifesta e un’interiorità più sensibile; e si può ascoltare della musica o della poesia ciudendo gli occhi. Allo stesso modo le arti in cui la significazione è più eloquente, come quelle del linguaggio, ci trascinano più facilmente nel loro mondo particolare e ci fanno lasciare le zone del quotidiano. Ma le arti dello spazio permettono meno facilmente questa separazione: l’oggetto spaziale prende posto nello spazio quotidiano per il suo peso di materia e la sua struttura di cosa. Come si affermerà allora l’oggetto estetico? Annettendo quel vicinato indiscreto ed esercitando su di esso la sua regalità estetica. Consideriamo infatti un monumento: il castello di Versailles: ne faccio il giro, vi entro, lo visito; svolgo intorno ad esso una specie di danza sacra, attraverso i viali che mi apre; ne prendo una molteplicità di vedute, alcune privilegiate, alcune insignificanti, tanto che posso dire di vederlo veramente dalla spianata, o dal tappeto verde, o da un cert’altro luogo in cui mi colloco. Mentre musica e teatro mi sollevano in alto su un tappeto magico e mi depongono in un altrove che non è più nel mondo, il

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e che forse sarebbe stato chiarito con maggior vigore in assenza di tali esempi, resta

comunque denso e significativo. Si tratta del ruolo “regalmente” estetico che l’opera

sarebbe in grado di giocare nella dinamica di rapporti intersoggettivi. Essa, infatti,

“diviene il soggetto degli oggetti in cui regna, calamita l’ambiente come fa, secondo

Sartre, lo sguardo altrui. Tutto converge verso di lei e attraverso lei si trasforma.”408 Tra

l’oggetto estetico e gli altri oggetti si leva una sorta di velo: separazione fisica e

concettuale che lo sguardo stesso di chi osserva mette in scena. Vi è, infatti, secondo

Dufrenne, una solidarietà intrinseca e indissolubile tra l’oggetto estetico e lo sguardo

poiché “è estetico ciò che conta esteticamente per lo sguardo.”409 Questa forma di

solidarietà non è però priva di contraddizioni e problemi, ben sintetizzati anche nel fatto

che i limiti dell’estetico e i limiti dello sguardo non sempre coincidono; lasciando

presentire un allargamento del campo estetico ben oltre quello che il singolo sguardo

può mettere a fuoco. Ma, al di là dell’empiricissima notazione che “so bene che il

monumento, il parco, il cielo non stanno interamente nel mio campo percettivo

presente”410, quello che conta è proprio quel travalicare dell’oggetto estetico rispetto al

mio sguardo benché l’oggetto estetico si offra sempre come totalmente presente. “Ma è

tuttavia lo sguardo, almeno uno sguardo possibile, ad assegnargli i limiti della sua

influenza, perché appunto per lo sguardo è estetico.”411 Stagliandosi sul fondo del

mondo l’oggetto estetico al contempo lo nega, in una dinamica di piani multipli che

sostanzialmente mette tra parentesi quel contorno succube della “regalità” dell’oggetto.

Certo, ciò non significa che il mondo reale al cospetto dell’oggetto estetico sia del tutto

abolito, “perché allora sogneremmo l’oggetto estetico invece di percepirlo”412; lo spazio

ritagliato dall’oggetto estetico risponde a una sorta di cono di luce che “irrealizza il monumento mi fissa nel mondo annunciandosi come oggetto del mondo. Tuttavia si staglia nettamente su di un fondale. Quale? È questo parco da cui lo contemplo o che vedo attraverso le finestre, questa città che è a sua immagine, questo cielo senza pari dell’Ile-de-France. Però quel parco non è esattamente uno scenario associato al monumento; mentre lo scenario annuncia l’ingresso nel mondo dell’Opéra, dove ha la sua ragione d’essere, e con ciò allontana il mondo naturale, il parco inerisce al mondo naturale con tutte le radici degli alberi; è un vero parco, che ha la sua verità nel mondo delle potenze vegetali e delle stagioni cui comanda obbedendo, sorgendo dal bosco che lo cinge e gli rende omaggio. Collega il castello ala natura, lo mette al mondo, come fanno la piazza con i tigli e la fontana di pietra per la chiesa del paese, la pianura della Beauce per la guglia di Chartres.” (Ivi, p. 228.) 408 Ivi, p. 229. 409 Ivi, p. 230. 410 Ibidem. 411 Ibidem. 412 Ibidem.

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reale estetizzandolo.”413 E proprio nella condizione imprescindibile di essere all’interno

di quel mondo in cui “facciamo presa su un dato inesauribile”, e tuttavia in questo suo

rapporto stretto e ambiguo con una forma di irrealtà, l’oggetto estetico riconferma la

propria ineludibile vocazione sensibile. “Per l’oggetto estetico importa essere nel

mondo, e precisamente perché non esiste un sensibile, né un senso immanente al

sensibile, se non per le cose del mondo.”414 La sua posizione profondamente sensibile

risponde ad una sorta di sforzo di “liberarsi dalla condizione di cosa”, sforzo

descrivibile proprio in virtù della distanza che sempre separa le mere cose dagli oggetti

estetici.

È proprio questa distanza che Dufrenne mira a tematizzare e problematizzare,

riuscendo nell’intento di chiarire le difficoltà teoriche che investono una descrizione

determinista e dicotomica del mondo e del nostro modo di relazionarsi ad esso.

La medesima differenza riguarda l’oggetto estetico nel suo rapporto con il tempo;

tempo che, nei confronti dell’oggetto estetico sarà sempre caratterizzato in quanto

umano e storico. “Ogni oggetto estetico è un ‘monumento storico’.”415 Il rapporto con il

tempo non riguarda però tanto il corpo dell’oggetto che, in quanto cosa, appartiene al

tempo delle cose; riguarda piuttosto, e in maniera ben più significativa e pregnante, la

sua forma e il suo senso, “tutto ciò che l’uomo vi percepisce e vi legge, ciò che dice

dell’uomo e che l’uomo ne dice.”416 Proprio perché in costante relazione con il tempo

umano, allora, l’oggetto estetico si trova in una posizione ambigua anche rispetto al

tempo, poiché “la sua relazione con il tempo umano ha l’ambiguità della storicità.”417 Il

suo essere nel tempo è carico di conseguenze sul suo essere stesso poiché ogni sguardo

successivo riattiva l’oggetto estetico con la medesima forza del primo. L’oggetto

estetico si trova trascinato dagli sguardi umani nel tempo della storia, “e conosce una

fortuna diversa a seconda dell’intenzione di questi sguardi e della loro attitudine a

coglierlo.”418 Il mondo stesso dell’oggetto estetico si trova impigliato nel mondo,

diacronicamente in movimento, del suo pubblico e, benché senza dubbio esista una

413 Ivi, p. 231. 414 Ibidem. 415 Ibidem. 416 Ivi, p. 232. 417 Ibidem. 418 Ibidem.

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verità atemporale di quell’oggetto, ogni spettatore contribuirà a lievi ma inesorabili

mutamenti. Infatti:

È destino di questa essenza singolare fenomenizzarsi, consegnarsi a dei guardiani, come dice Heidegger, che non possono esserle sempre fedeli, o piuttosto che le sono fedeli soltanto trasferendola nel proprio mondo, consegnandola alle vicissitudini della storia.419

Dufrenne sta dunque dicendo due cose, entrambe molto importanti: esiste nel

mondo una particolare categoria di oggetti in grado di relazionarsi al tempo e allo

spazio secondo schemi differenti da quelli che riguardano gli oggetti in generale. Tale

possibilità non viene a questi oggetti da carattersitiche metafisiche di dubbia

dimostrabilità, bensì dalla particolare modalità con cui i essi si manifesta un senso e un

significato. Infatti, è ovvio, non si tratta qui di un’impossibile differenziazione del

tempo e dello spazio come categorie oggettive: in quanto oggetto l’oggetto estetico si

inserisce nello spazio e nel tempo che sono i nostri, né più né meno di quelli di qualsiasi

altra cosa. Il senso dell’oggetto estetico, però, è un senso dinamico che investe il tempo

e lo spazio essendone investito a sua volta. Non solo è come se in qualche modo

crescesse, quasi alla stregua di un essere umano che invecchia; ma, poiché risponde ad

un tempo storicamente e umanamente scandito, esso muta costantemente la propria

posizione e con essa, potenzialmente, ogni volta il proprio senso. Si capisce allora con

chiarezza cosa significhi per Dufrenne notare che: “attraverso i vortici della storia

generale, l’arte sembra essere al principio di una propria storia, o almeno di una storia le

cui relazioni con la storia generale non siano fissate da uno stretto determinismo.”420

Quello che si sta delineando è allora un possibile scarto sempre aperto all’interno

della relazione uomo-mondo. Scarto che permette di leggere persino il tempo e lo

spazio, con le loro caratteristiche di rigida categorialità, in termini dinamici ed

esistenziali. Oltre ad essere nel tempo e nello spazio, l’oggetto estetico è all’origine di

un proprio tempo e di un proprio spazio: all’origine di un proprio mondo che è un

mondo abitato da sensi e significati anche spazialmente e temporalmente orientati. 419 Ivi, p. 233. 420 Ibidem.

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Tuttavia, naturalmente, tale mondo con il suo proprio spazio e il proprio tempo, cessa di

esistere al di fuori dell’esperienza estetica rimanendo come indice di un altrove

comunque possibile.

L’indipendenza dell’oggetto estetico non può essere totale, né nella storia né nello

spazio; eppure quello che esso apre è un mondo almeno in parte indipendente, sia nella

storia sia nello spazio.

In questa apertura rappresentata dall’oggetto estetico ben si inquadra il tema dello

stile: quello stile tanto individuale quanto collettivo che, da un punto di vista artistico,

rappresenta un modo d’essere e d’operare proprio di un autore e della sua epoca. Ma, al

di là del senso artistico, lo stile dell’oggetto estetico si ricollega a quanto visto a

proposito dell’espressione. Il suo è un ruolo cardine, attraverso cui il mondo e l’oggetto

estetico, come anche il mondo e il soggetto, si cor-rispondono in una dinamica di

scambi reciproci. Tali rapporti si configurano come un chiasma di soggettività e

oggettività, in quanto ognuno di noi, così come ogni oggetto estetico, è una particolare

presa di posizione sul mondo mentre al contempo il mondo si presenta entro un certo

orizzonte di invarianza oggettiva421.

È dunque questo chiasma ambiguo che caratterizza la modalità secondo cui

l’oggetto estetico si rapporta allo spazio e al tempo; la forma dell’oggetto estetico, che

ne rappresenta “in certo modo l’essenza singolare ma sensibile”422, ha a che fare con la

sua verità la quale, a sua volta, si relaziona al corpo sensibile dell’oggetto in maniera

sfuggente. Si tratta, infatti, di “una verità che ha bisogno del corpo materiale per

manifestarsi, ma non si lascia identificare con quel corpo.”423 Allo stesso modo, il suo

senso, si incardina su uno spazio e un tempo cui tuttavia si sottrae costantemente.

Si arriva così a cogliere, di nuovo, il carattere duplice che contraddistingue

l’oggetto estetico; il suo abitare una verità che non si esaurisce nella sua forma e

421 “Quando mi chiedo che cos’è il qualcosa o il mondo o la cosa materiale, io non sono ancora il puro spettatore che, in virtù dell’atto di ideazione, sto per divenire: sono un campo di esperienze nel quale si delineano soltanto la famiglia delle cose materiali, e altre famiglie, e il mondo come loro stile comune; la famiglia delle cose dette e il mondo della parola come loro stile comune, e infine lo stile astratto e scarno del qualcosa in generale.” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 130.) 422 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 243. 423 Ibidem.

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neppure nel suo senso. Una verità dinamica e mutevole, che persino lo spazio e il tempo

non inquadrano mai definitivamente.

Così, per la forma intesa come verità, l’oggetto estetico è atemporale, “ma poiché

la sua forma è forma di un corpo, è votato al mondo e al tempo.” Il suo senso subisce il

medesimo movimento, ondeggiando in maniera significativa tra il suo inerire

indissolubilmente al sensibile e il suo sfuggirgli di continuo. Come sintetizza infine

Dufrenne:

In altre parole, la forma è la verità dell’oggetto estetico; e ha quella qualità atemporale che è propria alla verità, la verità in quanto essere del vero, e non in quanto evento prodotto in una storia: perché bisogna anche che la verità appaia. Ma precisamente, la verità dell’oggetto estetico non può apparire altrimenti che nel sensibile, nell’immediato esserci della natura. Cosicché quella verità, immediatamente legata al suo apparire, solidale con la sua espressione, è subito temporale: non ha la possibilità di rifugio in un cielo intelligibile.424

Collocandosi al principio di un mondo, dunque, l’oggetto estetico reca la sua

propria verità. Una verità che sfugge tuttavia la concettualizzazione rigorosa per

scivolare invece, molto più significativamente, nei territori dell’esistenza; in quei

territori in cui, come abbiamo già accennato, la riflessione veramente trascendentale

saprà coglierci “in situazione”.

L’oggetto estetico rappresenta allora un corpo esemplare, in senso proprio, in cui si

incarna e si manifesta un possibile e reale accesso alla verità e al senso che non si regola

sulle antinomie del pensiero causale e sulle rigide risoluzioni del determinismo.

Dandosi come qualcosa che “non è del mondo, ma costituisce un proprio mondo”425,

l’oggetto estetico rappresenta, al modo delle cose, quello che è agito al modo dei

soggetti: esso “resta una cosa del mondo, percepita come cosa del mondo, ma trascende

la propria condizione di cosa opponendo al mondo il proprio mondo.”426

Grazie alle possibilità dischiuse dalla descrizione dell’oggetto estetico, si delinea

così ulteriormente quell’interpretazione dell’umano in chiave di soglia e apertura nei

confronti di un mondo che non rappresenta solo lo spettacolo cui assistiamo ma anche il

424 Ivi, p. 244 (Corsivo mio). 425 Ibidem. 426 Ivi, p. 245.

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teatro in cui agiamo. Questa illustrazione non considera ovviamente solo l’aspetto

pratico delle azioni -che pure, da un punto di vista etico interessa moltissimo Dufrenne-;

lo spettacolo del mondo, infatti, viene investito di sensi sempre nuovi proprio a partire

da quella molteplicità costante di individui che in esso operano. Dire dell’oggetto

estetico che esso “apre un mondo”, rappresentando un quasi-soggetto, significa

riconoscergli quel potere di fondare i significati che ogni individuo, con l’apertura

percettiva che incarna il proprio corpo, riproduce.

Alla base della lettura dell’oggetto estetico come soglia di apertura di un mondo vi

è il riferimento costante ad alcuni punti della meditazione di Merleau-Ponty, in

particolare alla trama carnale del mondo che abbiamo già indicato come sostrato teorico

essenziale di tutto il percorso di Dufrenne.

Nella trama carnale del mondo si radica l’esperienza del Mondo e, con esso,

dell’Altro. Tuttavia descrivere la specificità di questa esperienza comporta assumere

consapevolmente due coordinate non scontate: l’Altro non è afferrabile come una cosa

del mondo né da cercare come pura coscienza altra427. Tale definizione esclude

l’alternativa tra Altro come semplice oggetto nel mondo e Altro come coscienza pura.

Non si indica, infatti, in questo modo una presenza determinata che fungerebbe da

segno di una coscienza assente per noi perché presente esclusivamente a se stessa. Al

contrario, la presenza è l’accordo stesso con l’assenza, il corpo presente dialoga tanto

con la dimensione privata quanto con quella intersoggettiva, in quella dinamica di

scambi e aperture che è stata descritta come chair.

Latore di un paradosso formale, l’Altro è rigorosamente definito da Merleau-Ponty

come “presentazione originaria (Urprasentation) di ciò che per principio è

l’impresentabile (Nichturprasentierbar)”428.

Benché questa definizione dell’Altro come presentazione originaria

dell’impresentabile sia applicabile in linea di principio anche alla cosa percepita,

l’Altro, contrariamente alle cose del mondo, si anima sotto i nostri occhi incarnandosi in

un comportamento e in un orientamento coerente. Ne deriva la strutturale impossibilità

di situarlo su un piano strettamente oggettivo riducendolo a movimenti meccanici, “esso

427 Cfr. R. Barbaras, De l’etre du phénomène, cit., p. 295. 428 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 251.

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è al di qua della quiete e del movimento oggettivi”429. Ciò implica il riconoscimento del

corpo altrui come incarnazione di un vivere che lo anima, Nichturprasentierbar per

definizione; significa che la percezione dell’altro come fenomeno non si indirizza

sempre e soltanto sul Per Sé dell’Altro, ma viene dirottata altrettanto su ciò che egli

stesso mostra con l’orientamento dei propri movimenti. Questi ultimi si frappongono

nella percezione dell’Altro, a testimonianza di una sua unità di fondo, di un suo sempre

rinnovabile potenziale je peux, aprendo così la possibilità di configurare o almeno

concepire una dimensione completamente altra da quella oggettiva semplicemente

percepita.

Ciò significa comprendere il comportamento come la sola possibilità di afferrare il

corpo altrui nella sua specificità: cioè senza confonderlo col corpo oggettivamente

considerato della scienza fisiologica, riconoscendone la valenza oggettuale e soggettiva

allo stesso tempo. Il corpo dell’altro sfugge ad ogni considerazione che investirebbe un

oggetto statico, presentandosi come il centro di prospettive e di comportamenti verso il

mondo che solo lui è430. Non si può, in altre parole, ricondurre il corpo altrui in quanto

tale alla cosa semplicemente percepita nel mondo, nella misura in cui i suoi movimenti

saranno sempre dei comportamenti: mai riferibili a un corpo estraneo quale oggetto tra

gli oggetti.

Ogni ipotesi di dualismo tra un corpo oggettivo e i movimenti che lo animerebbero

crolla a favore di una lettura unitaria del visibile431. Il corpo altrui, come il mio, è una

struttura bipolare in continuo scambio dialettico tra coscienza interiore e mondo

esteriore. L’Altro come fenomeno emerge in tutta la sua autonoma identità come

portatore unico di una concentrazione di differenze inseparabili, incarnazione attiva di 429 Ivi, p. 238. 430 È stato notato (M. Pangallo, op. cit., p. 80), e indicato quale punto debole, come così dicendo Merleau-Ponty assegni il medesimo statuto fenomenologico al comportamento vissuto in prima persona come a quello osservato in altri. Se da un lato, infatti, una certa sinonimia tra i due è innegabile, dall’altro risulta fenomenologicamente poco condivisibile l’atto di porli sullo stesso piano. 431 “Definire lo spirito come l’altra faccia del corpo – Noi non abbiamo idea di uno spirito che non sia sotteso da un corpo, che non si stabilisca su questo suolo – “L’altra faccia” significa che il corpo, in quanto ha quest’altra faccia, non è descrivibile in termini oggettivi, in termini di in sé, – che quest’altra faccia è veramente l’altra faccia del corpo, trabocca in esso, sopravanza su di esso, è nascosta in esso – e in pari tempo ha bisogno di esso, termina in esso, si ancora in esso. C’è un corpo dello spirito e uno spirito del corpo e un chiasma tra di essi. L’altra faccia da intendere non, come nel pensiero oggettivo, nel senso di un’altra proiezione del medesimo geometrale, ma nel senso di Ueberstieg del corpo verso una profondità, una dimensionalità che non è quella dell’estensione, e di trascendenza del negativo verso il sensibile”. (Il visibile e l’invisibile, cit., p. 271.)

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una certa apertura di mondo. Se la sua presenza apre un mondo, evidentemente non si

colloca con semplicità all’interno del mondo percepito, non essendo dunque mai qui e

ora nel senso di un oggetto, ma sempre in una “specie di località”.

Alla luce di ciò, inoltre, diviene comprensibile la densa dichiarazione di Merleau-

Ponty per cui nella incarnazione si individua “il fatto tipico, l’articolazione essenziale

della mia trascendenza costitutiva”432.

L’Altro si configura dunque come uno scarto nella apparentemente rassicurante

semplicità del rapporto tra me e il mio mondo, lasciando intendere chiaramente che c’è

qualcos’altro da considerare.

Imponendosi a un superficiale illusorio solipsismo, in altre parole, l’Altro produce

un decentramento della mia relazione col mondo. L’apertura è là; tutta da indagare

anche se, o proprio perché, mai esauribile.

È quanto esplicita il noto principio secondo cui è necessario:

Non considerare l’invisibile come un altro visibile “possibile” o un “possibile” visibile per un altro: ciò equivarrebbe a distruggere la membratura che ci congiunge ad esso. Del resto, poiché quest’“altro” che lo “vedrebbe”, o questo “altro mondo” che esso costituirebbe, sarebbe necessariamente collegato al nostro, la possibilità vera riapparirebbe necessariamente in questo collegamento. L’invisibile è qui senza essere oggetto, è la trascendenza pura senza maschera ontica. E in fin dei conti anche i visibili stessi sono solo centrati su un nucleo di assenza433.

È così che l’apparizione dell’Altro si manifesta primariamente come la prova di

uno scarto dissonante all’interno del mio proprio visibile.

Proprio a questo scarto fa ritorno Dufrenne. Quello che gli interessa, però, non è

indagarlo solo nella sua dimensione umana, ma anche attraverso la particolarità

dell’oggetto estetico, nella sua dimensione oggettiva. Quest’ultima, infatti, assume

particolare rilevanza per lui nella misura in cui gli consente di portare l’attenzione sul

versante oggettivo del rapporto uomo-mondo e non solo sul versante soggettivo.

432 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 246. 433 Ivi, p. 242.

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Di questo versante oggettivo a Dufrenne preme sottolineare la valenza espressiva,

il potere creativo che appartiene all’oggetto estetico nei confronti del senso così come al

soggetto nei confronti del mondo. Tematizzare l’oggetto estetico come un quasi-

soggetto significa dunque mettere in questione il mondo delle cose, quel mondo

oggettivo che la scienza pretende di dominare; significa aprirvi uno squarcio e implica

rimetterne in questione se non l’unità, la modalità con cui essa si possa dare e cogliere:

Ora nel mondo oggettivo, che la scienza cerca di dominare, si può pensare che l’idea di quell’unità venga dal principio stesso di unificazione: ciò che assicura l’unità del mondo -che permette di pensare un mondo- è che tutte le cose siano ugualmente sottomesse alle condizioni dell’oggettività; ciò che determina l’indeterminato è almeno il fatto che esso è infinitamente determinabile. Sta veramente qui la fonte dell’idea di mondo?434

Se questo non può valere, come abbiamo visto, per l’idea di un mondo che sia

proprio all’oggetto estetico la questione si amplia e si complica, richiedendo un

approccio più flessibile insieme alla consapevolezza della mancanza di rigidità.

Quello che abbiamo indicato come lo squarcio aperto dall’oggetto estetico

all’interno del mondo non è mai disgiungibile dalla presenza percettiva del soggetto. La

presenza dell’oggetto estetico rappresenta così una sorta di campo d’azione intermedio,

in cui un oggetto manifesta la possibilità di comportarsi diversamente dalle cose naturali

e, al contempo, chiede al soggetto di esercitare modalità di apprensione differenti da

quelle che normalmente esercita sulle cose del mondo.

Nell’oggetto estetico si mette quindi in scena una forma di ambiguità costitutiva e

proprio su questa forma di ambiguità dovremo concentrare la nostra attenzione nelle

pagine che seguiranno. Vedremo sciogliersi l’ambiguità nel riconoscimento di un

rapporto intenzionale al mondo che è molto più complesso che non ambiguo.

Accettiamo, momentaneamente, di configurarlo secondo l’idea di ambiguità e

riassumiamo quindi quali sono i termini che ambiguamente vi agiscono.

434 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 258.

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All’interno di quel mondo composto da oggetti che possiamo percepire secondo il

segno del determinismo troviamo oggetti che a questo segno si sottraggono. Tali

oggetti, che definiamo estetici, “portano in sé il loro principio di unità”435, si

relazionano cioè al resto del mondo (altri oggetti e soggetti) secondo modalità loro

proprie e indipendenti che, come abbiamo visto, arrivano a riguardare persino le

categorie di spazio e tempo. Il principio di unità di cui sono portatori riguarda tanto

l’unità percepita dell’apparenza (corporea) quanto l’unità sentita di un mondo cui

l’apparenza introduce o, come dice Dufrenne, che essa “emana”. In tal modo la presenza

corporea di tali oggetti e il senso che in essi si incarna formano una totalità

indistinguibile, un’unità che “si converte in mondo.”436 A questo movimento di scambio

reciproco e dinamico tra corpo e suo senso che l’oggetto estetico rende esplicito come

movimento espressivo si deve dunque la fondazione dell’unità di quel mondo singolare

che tale oggetto è.

Nell’oggetto estetico si manifesta lo stile inteso come lo stile artistico del suo

autore; ma in esso si manifesta soprattutto quello stile come “generalità

preconcettuale”437 che, come diceva Merleau-Ponty, “è ciò che rende possibile ogni

significazione”438. Esso è un primum posto al di qua di qualsiasi significato, la modalità

unica e irrinunciabile attraverso la quale un senso emerge dall’indifferenziato,

dischiudendo al soggetto l’accesso a un regno sconosciuto.

Con lo stile si porta quindi in evidenza la singolarità della soglia di emergenza di

ogni senso, nella misura in cui esso appare come ciò che dà forma all’esperienza,

manifestando la visione e frequentazione del mondo proprie di un singolo439 nel suo

spontaneo e abituale commercio col mondo.

Letta in questo modo

435 Ibidem. 436 Ibidem. 437 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 65, corsivo nel testo. 438 Ivi, p. 76. 439 Nella prospettiva dufrenniana come in quella merleau-pontiana questa nozione viene svolta in totale coerenza con la sempre sottesa tematizzazione della percezione. Lo stile del singolo è infatti visto emergere a partire dal fondo comune offerto dal mondo percepito. Anzi, alla stessa percezione viene riconosciuto e riconfermato il compito preciso di offrire una prima stilizzazione e articolazione del mondo attraverso scarti e differenziazioni anzitutto percettive.

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L’espressione dunque fonda l’unità di un mondo singolare. Non è l’unità di uno spazio percettibile, di una somma totalizzabile, un’unità che possa essere colta dal di fuori, sorvolata e definita; essa procede da una coesione interna che a sua volta può essere soggetta soltanto alla logica del sentimento.440

E in questa logica del sentimento si regola allora quello che non è più tanto un

indagare fenomenologico ma soprattutto un movimento ontologico dove “il radicamento

stesso del senso, la Lebenswelt, assume la specificità di un Essere naturante.”441

Questa lettura espressiva dell’oggetto estetico investe altresì, e l’abbiamo già detto,

l’interpretazione della posizione del soggetto. L’oggetto estetico, infatti, non è oggetto

per un’intenzionalità descrivibile solo in termini di “mirare a” bensì anche di

“partecipare a”. In questa partecipazione, dove riflessione e sentimento interferiscono in

modo continuo l’uno con l’altro, il quasi-soggetto che è l’oggetto estetico si riconferma

espressivo nel senso che abbiamo indicato, stilisticamente orientato e ambiguamente a

contatto con quel fondo precategoriale (Essere o Natura) dove ogni senso può ancora

cristallizzarsi.

Se l’oggetto estetico incarna tale fondo, si comprende allora anche come Dufrenne

possa guardare all’arte quale luogo in cui l’Essere o la Natura si rivelano. Passeremo ora

a questo fronte, con l’obiettivo di vedervi agire la sinestesia quale figura principale di

quel rapporto ambiguamente chiasmatico tra oggetto e soggetto che abbiamo visto agire

per mezzo dell’oggetto estetico.

440 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 262. 441 E. Franzini, op. cit., p. 371.

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CAPITOLO 3: LA NATURA E L’ORIGINE. TRA

FONDAMENTO E POSSIBILITA’

3.1 L’oggetto estetico come la cosa stessa

Quanto detto fin qui conduce ad interrogarsi sulla natura di questo “mondo” cui

abbiamo fatto riferimento in relazione all’oggetto estetico. Questo mondo che esso

stesso apre, inserendo uno scarto in quella che dovrebbe essere un’oggettività

facilmente identificabile e rigorosamente esplorabile. Come abbiamo già sottolineato,

infatti, il percorso di Dufrenne è fortemente improntato da quell’interesse squisitamente

fenomenologico, in senso merleaupontiano, che mira a una descrizione del reale, e della

sua verità, che sappia andare oltre rigidi causalismi deterministici per riconoscere,

sottolineare e comprendere la ricchezza genealogica del rapporto percettivo con il

mondo.

Per questa ragione Dufrenne non teme di chiamare “mondo” quell’atmosfera

trasmessa dall’oggetto estetico e che egli stesso riconosce come irreale, preferendo alla

dicotomia tra reale e irreale una più fertile e meno rigida commistione. Il problema

nasce, ancora, dal ruolo regolatore che l’intelletto abitualmente riveste e dalle sue

esigenze classificatore e predicative:

Per l’intelletto non c’è altro mondo se non il mondo oggettivo: la ragione, anche se è responsabile dell’idea cosmologica, non fa nient’altro che pensare l’attività dell’intelletto spingendola al limite; una concezione esistenziale del mondo che lo soggettivizzi legandolo all’opera d’arte, e attraverso questa a un soggetto concreto, è un non senso. Dobbiamo accettare questa obiezione?442

442 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 275.

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Dufrenne non si sta interrogando, né lo farà successivamente, su un problema di

realtà. Che un mondo intrinseco ai segni sia un mito non è questione che lo riguardi. Il

suo, infatti, è un problema di rapporto con queste entità, reali e corporee o possibili e

incorporee che siano, e con gli effetti della loro verità. Effetti che riguardano tanto il

mondo oggettivo quanto, soprattutto e in maniera notevolmente più importante e

interessante, la sfera del soggetto. Le due sfere, infatti, vivono una relazione di cui

Dufrenne, con Jaspers, riconosce la problematicità. La nozione stessa di un mondo

oggettivo e totale non risulta infatti accettabile, “non appena l’utilizzo scopro che mi

rimanda al mio mondo, il mondo in cui sono e che sono, e che costituisce per me

insieme un correlato e un destino”443. Per l’individuo che lo vive, il mondo è

ambiguamente proiezione personale, elastica e metaforica, quanto reale, incalzante e

irriducibile presenza oggettiva. E su questo duplice ruolo è necessario soffermarsi.

Dufrenne pensa a come persino i biologi, sulle orme degli antichi sociologi,

riconoscono le strutture del mondo come “environnement, come qualcosa che

costituisce il vivente ma anche, per un’irriducibile causalità reciproca, è da lui

costituito.”444 Riconoscere la soggettività del mondo come sua parte costitutiva implica

riconoscerne la presenza e la serietà, annullando al contempo il monopolio al mondo

oggettivo. Quest’ultimo, infatti, “non è né il mondo vero di fronte al quale gli altri

sarebbero puramente illusori, né il mondo totale di cui gli altri siano soltanto parti.”445

Al contrario, proprio il suo radicamento nel mondo della coesistenza dei soggetti

respinge il rischio di nichilismo solipsista che nell’oggetto-mondo vede l’unica e ultima

parola possibile, quella che zittisce l’uomo. Il fatto stesso di essere oggettivo per un

soggetto lo inserisce nella realtà di essere oggettivo per tutti i soggetti, passibile di

esperienza scientifica eppure sempre foriero di quella “esperienza iniziale del mondo

soggettivo”.446 Non c’è apprensione di un mondo senza che vi sia, prima e a sua

condizione, un sentimento del mondo; cioè, in altri termini, non vi è oggetto prima che

443 Ivi, p. 276. 444 Ibidem. 445 Ibidem. 446 Ivi, p. 277.

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vi sia adesione antepredicativa, sentimentale, fungente da parte di un soggetto.447 Il

mondo oggettivo allora, quello che crediamo di riconoscere quale cifra comune di tutti i

raggi che si dipartono dalle infinite soggettività, diventa dunque punto d’appoggio

privilegiato per qualsiasi discorso sul mondo si voglia fare. Privilegio che gli deriva,

nella visione di Dufrenne, proprio dal rappresentare “il limite cui tende ogni mondo

soggettivo quando cessa di essere vissuto per essere pensato”448. Tuttavia, la radice di

questo mondo oggettivo, che crediamo fisso e irriducibile, non affonda nella metafisica

certezza di un Essere altrettanto inflessibilmente fermo; al contrario, tale radice è

sempre e solo da cercarsi nel mondo soggettivo. La relazione fondamentale del mondo,

allora, non è quella che lega un Oggetto ad una soggettività trascendentale pura. Tale

soggettività trascendentale pura, infatti, non esiste e al suo posto si fa strada un soggetto

definibile solo in virtù di quella stessa relazione con il mondo, “per lo stile del suo

essere nel mondo.”449 È questa circolarità falsamente ambigua che l’oggetto estetico e il

suo “avere un mondo” figurano. La peculiarità stessa dell’oggetto in questione rivela

tutta la sua efficacia teorica nel consentire questa riconfigurazione della dialettica

soggetto-oggetto. Delineandosi come un quasi-soggetto, l’oggetto estetico richiede

infatti una profonda e radicale rilettura della distinzione tra oggettivo e soggettivo; ed è

proprio a tale rilettura che la filosofia di Dufrenne costantemente mira con l’obiettivo di

ritrovare la distinzione tra soggettivo e oggettivo solo dopo averla attraversata per

ricollocarsene al di qua.

Attraverso una lettura della prima critica di Kant che forse non tutti i kantiani

apprezzerebbero ma di cui non è qui in questione l’analisi, Dufrenne individua al di là

dei poteri dell’intelletto un incondizionato cui tendere cercando di andare oltre quei

principi attraverso cui l’intelletto cerca di ricondurre a un’unità. Il passo merita di essere

citato per intero:

447 L’immagine scientifica cui ricorre Dufrenne con quel suo modo di esemplificare a volte un po’ leggero è efficace: “E quando la teoria della relatività ci insegna che in virtù dell’equivalenza meccanica tra il riposo e la traslazione rettilinea uniforme, enunciata dal principio d’identità, ogni osservazione è legata all’osservatore, ci sembra quasi di trovarvi una trasposizione scientifica dell’idea che ogni apprensione di un mondo sia legata a un sentimento del mondo.” (Ibidem) 448 Ivi, p. 278. 449 Ibidem.

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Infatti, se ora ci collochiamo, per ritrovarla, al di qua della distinzione tra soggettivo e oggettivo, che cosa significa l’idea di mondo? Ce lo dice Kant: è un’idea della ragione che presuppone il lavoro dell’intelletto, quel lavoro con cui esso istituisce un ordine tra i fenomeni. Infatti la ragione “si riferisce all’intelletto… essendo la facoltà di ricondurre all’unità le regole dell’intelletto mediante i principi”; e tanto stretta è la sua relazione con l’intelletto che Kant, dopo aver detto che “i concetti puri della ragione…che sono idee trascendentali…sono dati dalla natura stessa della ragione”, aggiunge altrove che “soltanto dall’intelletto possono emanare concetti puri e trascendentali, mentra la ragione non produce propriamente alcun concetto, e non fa nient’altro che liberare il concetto dell’intelletto dalle inevitabili restrizioni di un’esperienza possibile”, in modo che “le idee trascendentali non sono nient’altro che le categorie estese fino all’incondizionato.” Così l’idea di mondo è propriamente incondizionata: la ragione cerca soltanto l’incondizionato. L’idea della totalità dei fenomeni è semplicemente un’applicazione e un’illustrazione dell’idea di un’unità primordiale: è perché “l’incondizionato è sempre contenuto nella totalità assoluta della serie, quando ce la rappresentiamo nell’immaginazione…” che “la ragione decide di partire dall’idea di totalità, sebbene in realtà il suo fine ultimo sia l’incondizionato.” Perciò l’incondizionato non sta al termine di una serie, non è l’ultimo e inaccessibile oggetto di una rappresentazione ma piuttosto l’anima della serie, ciò per cui la serie è serie; questo principio “in cui rientra ogni esperienza, ma che in sé non è mai oggetto di esperienza” può essere determinato con una deduzione logica analoga a quella che permette di scoprire le categorie a partire dai giudizi. Ma allora non si potrebbe dire che l’incondizionato, se è inafferrabile per l’intelletto, si rivela al sentimento, che l’idea del mondo è innanzitutto sentimento di un mondo (come la legge morale, espressione pratica della ragione, è colta innanzitutto nel rispetto)?450

Emerge con chiarezza quella concezione genealogica del sentimento su cui

Dufrenne sembra tornare a più riprese e che acquista importanza crescente nel nostro

discorso. In quest’ottica, infatti, non si affronta il mondo come “totalità indefinita dei

fenomeni”451, totalità variegata ma a suo modo unitaria che è sempre in qualche modo

già là; al contrario, del mondo si valorizza la componente di soglia e apertura, che ha

quasi una “qualità generatrice”452, vale a dire non solo in trasformazione lei stessa ma

pronta a trasformare ciò che la incontra. In questo senso si legge il soggetto stesso come

apertura a sua volta genealogica nei confronti del mondo. L’incondizionato non sarà

allora da intendere in maniera ontologico-metafisica come l’ultimo e inaccessibile

oggetto del mondo, ma, al contrario, come quel fondo che è sempre là e dal quale tutto

450 Ivi, p. 279. 451 Ibidem. 452 Ibidem.

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il resto diparte ed è generato. Generazione che passa, a sua volta sempre e

necessariamente, dal soggetto del quale si dice, recuperando Heidegger, che è “in sé

apertura perché è (…) trascendentale.”453

Ed è proprio questa caratteristica che si desume a proposito del soggetto quella di

cui Dufrenne si preoccupa maggiormente e sulla quale concentra la propria attenzione,

mostrando di raccogliere e condividere quello che in una nota significativamente

chiama “lo scivolamento dal cosmologico all’esistenziale”454 operato da Heidegger.

Dufrenne legge questo punto come il luogo in cui Heidegger si ricollega a Kant. Non è

qui in questione la legittimità di questa tesi, che comunque pare condivisibile, quanto

l’importanza che il suo significato riveste nella lettura dufrenniana. L’Heidegger qui

citato discerne infatti in Kant due significati del mondo, “l’uno propriamente

cosmologico che si ricollega alla metafisica tradizionale, l’altro esistenziale, che non si

ritrova soltanto nella Antropologia ma già nella Critica”455 e proprio su questa lettura

duale dell’esistente sta focalizzando la propria attenzione il nostro autore. Il punto per

lui più importante, “il solo che qui ci importi”456, consiste proprio nella distanza che

separa il mondo come totalità dei fenomeni, che è un incondizionato ancora relativo a

una coscienza finita, da quello che Kant distingue come ideale trascendentale, “che è la

totalità di tutte le cose come oggetto dell’intuitus originarius”. L’idea adombrata, che

Dufrenne fa sua, è l’allusione oltre che alla finitezza della conoscenza, “all’essere

dell’uomo di cui questa finitezza è struttura fondamentale.”457 Su questa allusione pesa

il carico, che l’interpretazione di Heidegger secondo Dufrenne esplicita in modo

esemplare, del senso delle analisi che Kant offre nella sua Antropologia, in particolare

là dove egli dice “il concetto del mondo designa il concetto relativo a ciò che interessa

necessariamente ogni uomo.”458 Vi è dunque una tensione, su cui Dufrenne sta

evidentemente insistendo, tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tensione che nasce

nell’eperienza originaria del mondo la quale a sua volta è tuttavia “al di qua

453 Ibidem. 454 Ibidem, nota. 455 Ibidem. 456 Ibidem. 457 Ivi, p. 280. 458 Ibidem. Qui Dufrenne sta citando l’Heidegger di Kant e il problema della metafisica.

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dell’oggettivo e del soggettivo.”459 Ed è proprio questa impossibilità di dare la

precedenza al mondo oggettivo o a quello soggettivo, dettata dalla loro carnale e

genealogica commistione, la conclusione cui l’autore ci conduce e che l’oggetto

estetico, apparendo come “essente nel mondo e apertura a un mondo”460 incarna e

conferma.

Si legge in queste pagine una delle conclusioni più rappresentative del percorso di

Dufrenne e della sua peculiare tensione tra antropologia e ontologia. Tensione mai del

tutto risolta, la cui chiave di interpretazione può essere offerta secondo l’autore da

un’applicazione particolare del metodo fenomenologico. La fenomenologia, infatti, è in

grado, a suo parere, di “condurre a una specie di psicanalisi esistenziale, a condizione

che si accetti il passaggio dal trascendentale all’empirico, dall’ontologico

all’antropologico.”461 Di tale psicanalisi esistenziale si può forse comprendere il senso

tenendo presente quell’indeterminato e originario che Dufrenne ha di mira.

L’accostamento della fenomenologia alla psicanalisi non è nuovo462, la prima, infatti,

come scriveva già Merleau-Ponty, condivide con la seconda un obiettivo fondamentale:

quello di comprendere il senso dell’evento umano senza collegarlo a “condizioni

459 Ibidem. 460 Ibidem. 461 Ivi, p. 281. 462 Dufrenne eredita quella che in Merelau-Ponty era un’impostazione silenziosa e profonda. Quasi tutte le opere di questo autore recano tracce della psicanalisi freudiana, anche se non senza che siano manifestate riserve e avanzate critiche. L’itinerario complessivo è comunque scandito da un progressivo aumento dell’interesse per questi temi. Principale motivo di ciò è il riconoscimento da parte di Merleau-Ponty dell’opera di Freud come luogo decisivo del passaggio dalla rappresentazione del corpo oggettivo, derivata dalla medicina ottocentesca, alla novecentesca tematica fenomenologica del corpo vissuto. Nel complesso, Merleau-Ponty compie nei confronti di Freud un’operazione formalmente analoga a quella attuata nei riguardi di Husserl: fare reagire l’intenzione profonda dell’impensato contro quella programmatica e storicizzata, “separando il quadro di riferimento globale di Freud (individuato nell’adesione a un orientamento positivistico e determinista) dalla sua autentica interpretazione dell’Eros, che è poi integrata nella prospettiva fenomenologica di una filosofia dell’esistenza.” (S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987, p. 274.) In particolare, malgrado i primi commenti poco indulgenti presenti ne La Struttura del comportamento, alcune suggestioni psicanalitiche si impongono fondatamente nella Fenomenologia della percezione, nei corsi tenuti alla Sorbonne tra il 1949 e il 1952 e in diversi articoli. Nella Fenomenologia, in particolare, l’autore mostra di rendersi conto della superficialità della sua precedente lettura dell’opera di Freud che non può essere intesa come la mera riduzione della complessità del comportamento umano alla sua infrastruttura sessuale. Una vicinanza dichiarata tra fenomenologia e psicanalisi si trova esplicitata nella prefazione al libro di Hesnard (A. Hesnard, L’oeuvre de Freud et son importance pour le monde moderne, Payot, Paris 1960, p. 9.) in cui si legge che la fenomenologia e la psicanalisi non sono parallele convergendo invece entrambe verso la medesima latenza. Merleau-Ponty comprende la distanza che separa la psicanalisi freudiana da una mera riduzione della psicologia alla biologia e raccoglie la scoperta di un “movimento dialettico” in “funzioni ritenute puramente corporee.” (Fenomenologia…, cit., p. 224)

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meccaniche”463. Ugualmente, come ha notato Mancini464, anche i bersagli polemici sono

comuni, individuabili nel determinismo proprio di una concezione positivistica

dell’essere e nel coscienzialismo465. Alla psicanalisi si riconosce il merito di conferire a

una particolare sfera dell’esistenza, quella sessuale per l’appunto, una capacità di

simbolizzazione che fa ricomprendere in essa l’intera esistenza nella sua

pluridimensionalità. E proprio sotto la lente esistenziale la lettura freudiana rivela

influssi strutturali importanti sull’opera di Merleau-Ponty e, per suo tramite, di

Dufrenne. Nel registro dell’esistenza, infatti, il rapporto tra la vita corporea e lo

psichismo diventa una relazione di espressione reciproca. Il corpo non è più concepito

come un involucro indifferente per lo spirito, bensì come l’elemento in cui l’esistenza,

nella sua articolata complessità, si simbolizza e si attua. La lettura freudiana della

sessualità contribuisce a mostrare un luogo peculiare della dialettica di spirito e corpo

nei termini merleau-pontiani che fanno perno sul tema dell’espressione in relazione

all’espresso, dove un polo è già sempre immanente a quell’altro. Ugualmente, essa

chiarisce quella dialettica che Dufrenne intende rendere dinamica tra mondo oggettivo e

soggettivo. La psicanalisi di Freud è in questo affine all’impostazione di entrambi gli

autori, per cui l’esistenza è senso incarnato in quanto punto di contatto tra corpo e

significato spirituale che esso veicola e il mondo oggettivo è mondo incarnato a partire

dalla soglia originaria e soggettiva. Questo rientra tra le “più durature acquisizioni della

psicanalisi”466 che, insegnando a trattare la sessualità, e più in generale la corporeità,

come una dialettica offre uno strumento valido per comprendere una costituiva

ambiguità come costitutiva ed essenziale all’uomo; di più, essa insegna che “l’equivoco

è essenziale all’esistenza umana, e tutto ciò che noi viviamo o pensiamo ha sempre più

di un senso”.467

463 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie…, p. 225. 464 S. Mancini, op. cit., p. 275. 465 Quest’ultimo è definitivamente messo fuori gioco tanto dall’epoché fenomenologica – che perviene a disoccultare l’intenzionalità fungente della vita anonima della soggettività trascendentale – quanto dall’operazione psicanalitica che ritrova e riconosce nella sessualità “le relazioni e gli atteggiamenti che prima venivano scambiati per relazioni e atteggiamenti di coscienza” (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia…, cit., p. 224.) 466 Ibidem. 467 Ivi, p. 237.

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Si capisce quindi perché Dufrenne si spinga a ipotizzare una fenomenologia come

varco verso una psicanalisi esistenziale. Il principio fondamentale è quello che lo

impegna nel tentativo di risalire a quel primum che nessun casualismo può identificare

grazie al quale il soggetto stesso, con le sue caratteristiche, è possibile. Dufrenne

completa l’esortazione a passare dall’ontologia all’antropologia con una nota ambigua e

impegnativa. Di questo passaggio egli dice, infatti, che esso “è per l’ontologia un

problema decisivo e inevitabile: bisogna tornare nella caverna.”468 E che cos’è la

caverna se non, con una flessione non indifferente di Platone, il luogo dove

l’indeterminato è ancora possibile? Il luogo sì dell’inganno, ma anche del primo e

originario domandare, che è adesione alle cose pur nel loro essere ombre.

Nella caverna si trova allora ancora quell’inconscio, cui la fenomenologia di

Dufrenne invita a tornare, che come già esplicitava Meraleu-Ponty è

da cercare, non in fondo a noi, dietro la nostra ‘coscienza’, ma davanti a noi, come articolazioni del nostro campo. Esso è inconscio per il fatto che non è oggetto, ma è ciò grazie a cui gli oggetti sono possibili, è la costellazione in cui si legge il nostro avvenire – l’inconscio è tra di essi come l’intervallo degli alberi tra gli alberi, o come il loro livello comune. È la Urgemeinschaftung della nostra vita intenzionale, l’Ineinander degli altri in noi e di noi negli altri.469

L’inconscio in questa prospettiva trascende evidentemente l’approccio strettamente

psicanalitico, investendo una sfera di elementi ben più ampia di quella cui si attiene

l’interesse freudiano e dischiudendo una visione che permette, e anzi esige, di trattare

l’uomo secondo un registro simbolico e relazionistico piuttosto che ristrettamente

causalistico e sostanzialistico. Registro che l’esperienza estetica percorre e ripercorre,

riattivandolo costantemente. “Nell’esperienza estetica, l’incondizionato è

quell’atmosfera di mondo che viene rivelata dall’espressione, e in cui si manifesta la

trascendenza di un soggetto.”470 È forse un peccato che nel momento in cui Dufrenne

torna all’oggetto estetico come quasi soggetto da inserire in questa dinamica appena

illustrata scelga di farlo ricollegandosi al suo essere opera di un autore nella quale

468 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 281. 469 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., , p. 197. 470 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 281.

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appare sempre un soggetto. La descrizione dell’oggetto estetico in termini di quasi

soggetto non sembrerebbe infatti avere bisogno della stampella empirica del riferimento

al suo autore; la sua efficacia è ampiamente risolta nel suo potere espressivo perché

esprimere “per quell’oggetto è in qualche modo trascendersi verso un significato che

non è il significato esplicito assegnato alla rappresentazione, ma un significato più

fondamentale che proietti un mondo.”471 L’obiettivo, centrale e centrato, dell’autore è

quindi quello di mostrare come l’oggetto estetico condivida con la soggettività la

possibilità di esser all’origine di un proprio mondo, “irriducibile al mondo oggettivo.”472

Tale mondo, configurato come mondo espresso, richiede un polo soggettivo che gli cor-

risponda e che sia in grado di esercitare quella particolarissima modalità di apprensione

che è quella del sentimento. Modalità di apprensione che permetterà il coglimento di

una parte di realtà tanto reale quanto il mondo oggettivo se si è compreso il punto

fondamentale su cui Dufrenne insiste a più riprese: “la nozione di mondo ha radice nel

singolare processo di disvelamento che viene effettuato dalla soggettività, cosicché il

reale è prima di tutto ciò che viene realizzato da questa soggettività.”473

Si comprende allora con chiarezza di che tipo di “Mondo” si stia parlando, un

mondo che della realtà e della verità conosce la cerniera soggettiva e il versante di

proposta sempre rinnovata. È questo che consente a Dufrenne di parlarne in termini di

profondità e fondamento, termini pregnanti proprio in virtù del tipo di relazione che

richiedono di attuare e che la modalità di apprensione sentimentale che l’autore indica

come necessaria invita a riconoscere nella loro peculiarità.

La relazione tra l’oggetto estetico e il fondo indeterminato e originario cui esso

rinvia è messa in luce con particolare efficacia da uno scritto tratto da una conferenza

che Dufrenne ha dedicato nel 1979 alla Profondeur come dimensione dell’oggetto

estetico.474 Vi si trovano sintetizzati molti dei concetti su cui si fonda l’impianto del

pensiero di Dufrenne.

471 Ibidem. 472 Ivi, p. 283. 473 Ivi, p. 282. 474 M. Dufrenne, La profondeur comme dimension de l’objet esthétique, in Esthétique et philosophie, cit. tome 3, pp. 140-146.

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Indagando l’idea di profondeur Dufrenne mira a tematizzare quel fondo

incondizionato che abbiamo visto emergere con forza relativamente al territorio di

competenza dell’oggetto estetico:

Il signifie l’incommensurable, ce qui échappe à nos prises jusqu’à nous donner le vertige, mais aussi ce qui se dissimile sous la surface et demeure caché: le fond, et pareillement, dans la profondeur du temps, l’originaire. Le fond fonde: ce caché n’est pas seulement fondation, il semble receler le secret du sens qu’il porte.475

Accanto alla tematizzazione della profondità come dimensione, però, a Dufrenne

preme esplicitare anche e soprattutto le dinamiche che essa dischiude rispetto alla

relazione tra l’oggetto estetico e l’uomo. Tali dinamiche, infatti, permettono di cogliere

il ruolo attivo e fondativo che l’opera d’arte riveste nella visione di Dufrenne e, in

particolare, le conseguenze teoriche che tale ruolo consente di cogliere.

Del profondo che sottende il mondo, e in particolare il mondo dell’oggetto estetico,

Dufrenne tratta come di quel luogo in cui si gioca il destino dell’organismo, del

soggetto, del mondo stesso; luogo in cui si delinea e si afferma la figura irriducibile

dell’individuo. Se da una parte Dufrenne riconosce l’efficacia delle figure della

psicanalisi freudiana per esplicitare gli equilibri di tale fondo, “qui ne sont jamais

connues qu’à travers leurs représentants”476, dall’altra egli sa bene che non è necessario

invocare l’inconscio. L’elemento più interessante è quello per cui è possibile

individuare un luogo in certo qual modo segreto, nelle pieghe della totalità del soggetto,

un luogo in cui questa totalità si raccoglie e s’impegna tutta intera. “La totalité doit se

comprendere en intention, plutot qu’en extension”477 è il modo in cui si sintetizza allora

il rivolgimento necessario per comprendere la tipologia di mondo che Dufrenne ha di

mira.

Parlare di profondità dell’oggetto implica specularmene per Dufrenne riconoscere

gli effetti generati dalla profondità del soggetto, in un gioco di risposte reciproche che

non corre piano lungo pareti semplici ma segue i rimbalzi e le specularità delle

differenze. La profondità dell’oggetto è allora un’altra faccia della sua espressività 475 Ivi, p. 140. 476 Ivi, p. 141. 477 Ibidem.

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(“non-profond comme non-expressif”478), e la profondità designa al tempo stesso

“l’intensité d’une présence”479, di quella presenza in cui il soggetto e l’oggetto

risuonano nelle loro reciproche profondità. La profondità di un’opera è quella

componente che fa appello al ruolo attivo e creativo dell’immaginazione, quella

componente irriducibile al già-visto e già-saputo attraverso cui l’oggetto va oltre il puro

e semplice piacere momentaneo. La profondità dell’opera è quella sua parte

costitutivamente orientata al sentimento al quale, solo, rivela il proprio senso. Torniamo

quindi nuovamente a quel luogo in cui le parole non esauriscono il senso proprio

dell’oggetto esperito: “La profondeur du sens signifie alors notre impuissance à le

verbaliser; inépuisable signifie indicibile, mais cet indicibile n’est pas muet; il donne à

sentir.”480 È su questa linea che l’indagine di Dufrenne conferma la propria inclinazione

verso una lettura ontologica di queste questioni. L’oggetto estetico in quanto opera

profonda è quell’oggetto il cui senso, anch’esso profondo, affonda sì in qualità affettive

che però sono, a loro volta, più perspicuamente descritte come qualità ontologiche.

“L’oeuvre est profonde lorqu’elle exprime le fond.”481 L’oggetto estetico è allora

quell’oggetto grazie al quale il fondo viene in primo piano; quel fondo che si legge in

opposizione alla superficie delle cose determinata e sempre più o meno dominata,

concettualmente e materialmente. Parlare della superficie delle cose significa parlare del

mondo degli oggetti, di quel reale con cui, per abitudine, ci relazioniamo e che

“l’idéologie nous apprend, à coups de tautologie, à penser comme naturel, nécessaire,

immuable”482. La superficie cui si oppone il fondo che Dufrenne ha di mira è allora

quella parte di reale sottomessa alle ombre della doxa e alle false certezze della scienza

che vengono prese per stabili; quella parte di reale che Dufrenne, citando Adorno,

chiama “monde administré”483 e che indica un oggetto quale correlato di un soggetto

“socialisé, acculturé, on oserait dire lui-même administré.”484 Tale superficie così opaca

nella sua apparente chiarezza è quella che si oppone al reale del fondo, l’essere bruto la

478 Ivi, p. 143. 479 Ivi, p. 142. 480 Ivi, p. 144. 481 Ibidem. 482 Ibidem. 483 Ibidem. 484 Ibidem.

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cui caratteristica principale è quella di non essere ancora il correlato di una coscienza, di

non essere ancora mondo per alcuna coscienza, “la Nature avant qu’elle ne donne

naissance à l’homme et au monde”485, cioè in altre parole, dice Dufrenne, l’Originario.

Impensabile nel suo precedere la separazione stessa che è propria del pensiero, tale

fondo appartiene tuttavia tanto all’uomo quanto al mondo che egli abita, costituendone

il fondo selvaggio a partire dal quale ogni cosa assume senso e fondamento. “Comment

penser cet originare? Nous ne pouvons que le sentir, le pressentir, et seul le language de

la poésie ou de l’art peut l’exprimer.”486

La peculiarità del mondo che abbiamo visto dischiudersi intorno al soggetto che

esperisce l’oggetto estetico è allora propriamente quella di essere il mondo del naturante

molto più e molto prima che il mondo del naturato.487 Di più, quello che nell’opera si

mostra non è l’apparenza, ma l’apparire stesso delle cose, “le surgissment du réel: non

l’apparence mais l’apparaitre. L’Urbildlich dit Klee, image de la gestation, gestation de

l’image.”488 Il fuoco dell’attenzione torna a concentrarsi allora, nuovamente, sul ruolo

genealogico del contatto con il mondo, ruolo che l’oggetto estetico sa esercitare con

particolare e significativa intensità. Molto più che alle lusinghe della decostruzione

Dufrenne invita allora a guardare alle potenzialità di quella che egli chiama pré-

construction, dinamica genealogica che si verifica in un’epifania che dall’infinitamente

piccolo sa risalire all’infinitamente grande. A partire dal minuscolo dettaglio

485 Ibidem. 486 Ibidem. 487 “Ce que cette oeuvre imite, ce n’est pas le naturé, c’est le naturant.” (Ivi, p. 145) Sono evidenti in questa lettura le eco della lettura di Spinoza che, insieme a Kant oltre a Cartesio, fanno parte dei riferimenti storici più impegnativi per Dufrenne così come già per Merleau-Ponty. L’approccio spinoziano al problema della verità è un approccio che nella Phénomenologie di entrambi gli autori è più che presente. Come ha sintetizzato efficacemente Elio Franzini (La verità del corpo, art. cit., p. 16) “In Spinoza la verità ha in se stessa la propria causa: la natura non può essere concepita se non come esistente, la sua verità è nella presenza, nel suo essere qui e ora presente, con i suoi attributi e infiniti modi. Ogni causa, quindi, implica un’esistenza e ogni cosa esistente si inserisce in un ‘sistema’ di cose. Così il corpo, in questa lettura ‘francese’ di Spinoza, fortemente influenzata da Alain, è una realtà autonoma che esprime in maniera certa e determinata l’attributo divino della ‘estensione’. Se poi consideriamo che in Spinoza ‘l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose’ ne deriva un’intrinseca verità del corpo in virtù della sua unità sostanziale. Non solo, dunque, a immagine degli attributi divini, l’uomo consta di mente e di corpo, ma questi due elementi sono necessariamente uniti, e l’unione potrà venire compresa solo conoscendo il corpo in modo adeguato e ricercando attraverso la filosofia le modalità, anche ‘passionali’ di tale unione. Per Merleau-Ponty, come per Sartre e Dufrenne, Spinoza, sia pure uno Spinoza ‘deteologizzato’ appare come l’interprete di un principio monistico quale origine del senso, dell’unione tra l’uomo e il mondo.” 488 Ivi, p. 145.

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determinato sa ripensare l’immenso mai dettagliato indeterminato, origine e causa,

terreno fondativo, di ogni cosa possibile e reale. Attraverso l’oggetto estetico si assiste a

una forma di edificazione del mondo, in cui con termini di evidente eco pontiana,

“alors, dans cette épiphanie, se laisse pressentir le fond, l’invisible qui adhère au

visibile, l’ombre qui adhère à la lumière, le désordre qui adhère à l’ordre.”489 Nel caos

della profondità vige una forma di ambivalenza in cui caos e cosmos si sovrappongono

generandosi a vicenda. “Mieux vaudrait dire, avec Joyce, chaosmos.”490

Questo fondo che Dufrenne ha di mira, questa profondità che è caratteristica

essenziale dell’oggetto estetico è la figura in cui si condensa, ancora una volta, quel

riferimento fondamentale alla chair del mondo. “Ce qui surgit devant nous, c’est la

chair du monde, le flux ancore polémique du sensibile.”491 L’oggetto estetico, come il

mondo, come il soggetto, come l’immagine, è allora uno spazio conflittuale in cui il

reale si manifesta allo stato brado, “état brut”, all’interno di un dinamismo evolutivo in

cui il margine di crescita e mutamento è sempre molto ampio e produttivo492.

Il mondo con il quale l’oggetto estetico ci mette in contatto non è allora un mondo

altro, non è un mondo precedente né una realtà semplicemente possibile; è il mondo de

“les données sauvages du vécu”493, il mondo in cui, aldilà di ogni separazione, la

coscienza vive il suo stato aurorale e la Natura nàtura, in un andamento di influenza

reciproca dove entrambe si chiamano a vicenda.

Quella che emerge da queste analisi è un’indagine ontologica, incapace tuttavia di

esaurirsi di fronte al problema dell’Essere.

Dufrenne stesso esita spesso nel suo procedere e, come abbiamo già ripetutamente

specificato, tra ontologia, metafisica e antropologia nessun ambito sembra esaurire del

tutto il suo domandare. 489 Ibidem. 490 Ibidem. 491 Ibidem. 492 Le stesse dinamiche sono coerentemente applicabili al contesto artistico nelle sue forme specifiche di pittura, scultura ecc. Il riferimento di Dufrenne è alla pittura: “Je cite ici Le Bot, commentane la peinture de Velickovic: ‘Inquiétude, lutte violence sans fin qui témoignent que l’image est un espace conflictuel, jamais stabilisé, no refermé sur soi. L’état brut du réel dont parle Velickovic se qualifiera dans sa peinture sous forme d’images symboliques de l’insaisissable limite où toutes les réalités instituées ont ancore ou déjà partie liée avec le chaos et avec l’in-fini. En cela toute peinture est essentiellement sa propre genèse – Paul Klee le disait aussi. Elle s’inscrit, inceratine, sur un fond de chaos: elle en preserve le dynamisme évolutif où la forme ne cesse de se prendre et de se reprendre.’” (Ibidem.) 493 Ivi, p. 146.

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Le riflessioni portate avanti lungo questi temi rappresentano per Dufrenne i binari

della filosofia di tutta la vita, nella convinzione, da lui più volte ribadita, che il

ragionamento sull’esperienza estetica sia una via maestra per la filosofia:

Se non altro per una filosofia che intende dirigersi ‘verso il concreto’, come diceva Jan Wahl, che è più preoccupata di descrivere che di sistematizzare: una filosofia che prende le mosse dall’esame del primo rapporto dell’essere al mondo con il mondo, la percezione, ma a cui la fenomenologia della percezione non impedisce di andare un poco oltre. Ciò che rimane da pensare competerà dunque all’ontologia o alla metafisica?494

Con questa significativa domanda retorica Dufrenne indica con chiarezza la via del

suo indagare, i dubbi che lo animano e le intenzioni che persegue. L’assestamento tra

ontologia e metafisica, senza tralasciare l’interesse antropologico per lui essenziale,

rende il movimento teorico di Dufrenne a volte indeciso, eppure, proprio per questa sua

indecisione, esplicito nel segnalare quali interessi siano prevalenti.

Ne è un chiaro esempio l’articolo, uno degli ultimi, che nel 1985 il filosofo dedica

-di nuovo- all’oggetto estetico, esplorandone le correlazioni con le nozioni più

importanti della filosofia husserliana. Quest’ultima diventa così l’interlocutore

principale di un percorso che ha di mira proprio il suo superamento. In questo articolo

Dufrenne torna di nuovo sull’oggetto estetico, estrapolando dal percorso precedente

alcuni nodi rimasti irrisolti e, soprattutto, esplicitando alcune conclusioni prima presenti

ma del tutto silenziose.

Dell’equilibrio tra ontologia e metafisica Dufrenne riconosce ovviamente la

problematicità, tenendo ferme le posizioni particolarmente rappresentative di Sartre e

Heidegger, oltre che di Husserl, prima di provare a proporne a sua volta una nuova

lettura.

Husserl non basta a esaurire il domandare di Dufrenne; per il filosofo tedesco,

come viene letto dal francese, infatti, “l’essere non costituisce un problema”495.

Nell’ambito dell’essere si pongono con Husserl “quelle questioni che la filosofia come

494 M. Dufrenne, L’oggetto estetico come la “cosa stessa”, cit, p. 11. 495 Ibidem.

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scienza rigorosa è in grado di affrontare”496 e vi si possono distinguere le articolazioni

differenziate tra un’ontologia generale, in quanto formale, e le ontologie regionali. Nella

filosofia di Husserl, tuttavia, l’impegno non va oltre e si ferma prima della via

metafisica. Metafisica che invece risulta percorribile per Sartre con il quale comunque

tale strada non viene esaurita.497 Neppure il rovesciamento dei termini proposto da

Heidegger soddisfa pienamente Dufrenne. La sua lettura di Heidegger su questo

argomento, più fedele all’autore che in altre occasioni, ne rileva la metafisica nella

posizione di elemento che va superato verso una ontologia, “o che per meglio dire si

oltrepassa da sé perché il pensiero non può accedere alla metafisica se non in quanto

animato fin da principio dalla ‘cura dell’essere’: la metafisica si compie solamente

nell’ontologia dove al contempo si dissolve.”498

La posizione di Dufrenne propone una diversa linea teorica, che egli considera

conseguente alla fenomenologia husserliana, secondo la quale se si giunge a pensare

l’Essere come Natura, “al di là delle regioni o delle categorie secondo le quali lo

suddivide un pensiero ancora sistematico”499, l’ontologia viene vista compiersi solo

come metafisica.500 Tale compimento viene reso esplicito dalla trattazione dell’oggetto

estetico, quale in parte abbiamo già visto, e dalla lettura che Dufrenne ne propone in

termini di “cosa stessa” in senso husserliano. Heidegger resta presente sullo sfondo di

496 Ibidem. 497 Scrive Dufrenne: “Infatti, se l’ontologia fenomenologica gli ha permesso di cogliere ‘le sole regioni dell’essere che possono essere chiarite: quelle dell’in-sé, del per-sé e la regione ideale della causa di sé’, questa lascia senza risposta due problemi che è dunque necessario assegnare alla metafisica: la nascita del per-sé e l’articolazione del per-sé all’in-sé. ‘Dualità separata o essere disintegrato?’” (Ibidem). 498 Ibidem. 499 Ivi, p. 12. 500 Il richiamo a Husserl è sempre, e dichiaratamente, libero. Dufrenne lo specifica: tratterà di questo autore “a modo nostro, e non come storici.” (Ibidem) Sa bene che rifarsi a Husserl in questi termini può essere considerata una scelta libera, scelta cui ad esempio Fink obietterebbe. “Fink ritiene che per un simile progetto non ci si possa affidare a Husserl. Husserl, egli dice, non apre la via a un pensiero speculativo: egli è preoccupato della scienza, instaura un metodo che lo conduce in qualche modo fuori dalla storia e da quel ‘lavoro ontologico’ che vi si persegue, alla ricerca di un cominciamento radicale. L’uomo diviene allora misura di tutte le cose e il soggetto è posto come assoluto. Il reale è ciò che appare all’uomo: il fenomeno. Ma la ‘fenomenicità del fenomeno’, dice Fink, non è interrogata in se stessa. L’essente è dunque ridotto all’essere di un oggetto, un oggetto per un soggetto e il rapporto soggetto-oggetto in totalità, con tutte le sue strutture poetico-nnoematiche, diviene a questo punto il tema proprio della fenomenologia. Ciò è vero e dè del resto noto con quale pazienza e quale finezza Husserl si sia dedicato all’analisi dell’intenzionalità che mette in luce queste strutture. Ma questo stesso studio della vita intenzionale può anche impegnare la riflessione sulla via del pensiero speculativo. In questo caso certamente l’itinerario filosofico non sarà quello che auspica Fink e che Heidegger apre quando si ferma all’analitica del Dasein.” (Ibidem)

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questo percorso, avendo il merito in particolare, per Dufrenne, di aver richiamato

l’opera d’arte quale elemento essenziale per chiarire la propria ontologia. A Dufrenne

tuttavia l’opera d’arte, per quanto centrale, non è sufficiente; il suo è il riferimento ad

essa sempre in termini di oggetto estetico: “vale a dire l’oggetto essenzialmente offerto

all’aisthesis per compiersi in essa”501. E proprio in questo legame indissolubile con la

percezione si inserisce un nodo cruciale: quello per cui parlare di percezione implica

parlare di coscienza e conduce a una lettura dell’oggetto estetico all’ombra del concetto

di intenzionalità per cui la coscienza è definita come atto che ha sempre di mira

qualcosa. Accostata all’oggetto estetico e alla necessaria presenza con cui esso è, e lo

abbiamo già visto, in relazione, la coscienza cui Dufrenne fa riferimento si riconferma

da leggere nei termini, anche questi già visti, di coscienza percettiva, la cui trascendenza

è per Dufrenne stabile e per nulla illusoria. Egli conviene con Sartre sul fatto che: “La

coscienza non è nulla poiché essa esplode:‘essa esplode verso’ ed è così che l’uomo è

veramente al mondo, presente alle cose, invece di avere le cose in rappresentazione

nella sua coscienza.”502 È la presenza del mondo il tema decisivo, il punto critico, che

Dufrenne, rivisitando parzialmente Fink e Heidegger, oppone a Husserl.503 Punto che

egli vede quale inizio di un percorso che la metafisica potrebbe illuminare in modo

nuovo e che la sua riflessione sull’oggetto estetico gli consente di percorrere

autonomamente.

Attraverso Husserl si perviene, nella lettura di Dufrenne e degli autori che sta

citando, “alla concezione di un processo universale nel quale l’opposizione di soggetto e

oggetto è contenuta nella totalità concreta della vita intenzionale”504. È proprio sul

pensiero radicale dell’idea di intenzionalità che continua a concentrarsi l’attenzione

501 Specificare questa differenza è per Dufrenne essenziale. Certo l’opera d’arte rimane per lui centrale, ma più esaustiva ne è la lettura in termini di oggetto estetico, quindi “opera d’arte in quanto percepita e da una percezione che gli rende giustizia”. Esso diventa quindi ogni cosa estetizzatile in quanto estetizzata. (Ibidem.) 502 Ivi, p. 15. 503 La citazione di Fink è significativa: “Più originario di ogni essente,, di ogni oggetto e di ogni soggetto, c’è il mondo. Il pensiero è secondo la sua essenza propria l’operazione di aprire l’uomo al mondo. (…) L’essere stesso è lo spazio-tempo del mondo che contiene ogni cosa che è.” (Ibidem) 504 Ibidem.

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dell’autore: in essa si concentra il fenomeno autenticamente concreto e primo, “l’origine

dell’opposizione stessa dell’oggetto e del soggetto.”505

Ma è necessario collocare l’intenzionalità nella coscienza? Certamente l’intenzionalità deve essere pensata come origine, ma come origine di una reciprocità o di una complicità piuttosto che di una opposizione. L’intenzionalità non può essere posta nella coscienza poiché ne è la stessa origine, ma sarà piuttosto la coscienza a essere posta nell’intenzionalità di modo che l’intenzionalità possa assumere un senso propriamente ontologico. Questa ontologia dell’origine può essere concepita da una filosofia della Natura alla quale forse ci invita Merleau-Ponty.506

In ogni caso, ed è questo il punto saliente, è questa la direzione che l’oggetto

estetico, come viene descritto da Dufrenne, dischiude e indica.

Si capisce bene quale ruolo privilegiato continui ad avere, nella meditazione

dell’autore, il problema del rapporto soggetto-oggetto: problema che per lui la

fenomenologia della percezione consente di afferrare ma non esaurisce. Nella

percezione, l’abbiamo già visto a più riprese, l’oggetto estetico trova la propria

condizione di possibilità: esso è la cosa percepita per eccellenza.

In questa percezione si compie inoltre una forma di riduzione: diversa dalla

sospensione di ogni tesi di esistenza, la riduzione incarnata dall’oggetto estetico è di

stampo più esistenziale. È “la decisione di giocare un certo gioco, il gioco

dell’estetizzazione al quale ci sentiamo inclini, e di rinunciare così agli atteggiamenti

proprio della pratica o della conoscenza.”507 Tale riduzione, nella sua componente

percettiva ed estetica, resta comunque - e Dufrenne tiene molto a sottolinearlo - ben

distante da un ambito prettamente contemplativo. Qui l’esperienza estetica, infatti, è

intesa molto più come azione che come contempl-azione. “L’arpione si compie meglio

come oggetto estetico nell’uso che ne fa il pescatore eschimese che non sul muro di un

museo archeologico.”508 Qui Dufrenne si limita a un breve cenno, riconoscendo che

“sarebbe necessario spingere più a fondo questa analisi di una esperienza estetica 505 Ibidem. 506 Ibidem. 507 “L’oggetto estetico non sollecita né il sogno né la conoscenza, si dispiega in uno spazio di gioco dove il mondo quotidiano è messo tra parentesi, dove l’oggetto estetico basta a se stesso come basta al fruitore accoglierlo e gustarlo: è a queste condizioni che l’oggetto estetizzatile si compie come oggetto estetico.” (Ivi, p. 16.) 508 Ibidem.

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spontanea e irriflessa, vissuta in immediatezza vitale e che (…) fa della vita stessa un

gioco.” Questo resta tuttavia uno dei nodi più significativi della sua riflessione, che

dischiude la possibilità di “prendere di mira come opera d’arte non tanto un oggetto

determinato quanto piuttosto il mondo nel quale tale oggetto assume una funzione.”509

Le conseguenze di tale impostazione sono evidenti e non secondarie: come opera d’arte

l’oggetto estetico rappresenta un settore limitato e percorribile, indice però di un

meccanismo ben più ampio e antropologicamente più significativo e rilevante.

In ogni caso, grazie a questa impostazione, Dufrenne può affermare un altro dei

suoi punti più perspicui: “la percezione estetica è una modalità dell’intenzionalità

portata alla sua più alta intensità”510. Intenzionalità che rivela il proprio carattere

genealogico e fungente proprio nella relazione che lega la coscienza a questo tipo di

oggetto che si dà sì sempre “in un sol colpo”, ma è un sol colpo esteso in una durata,

poiché l’oggetto è a sua volta una totalità in divenire. L’esperienza estetica condivide e

mostra allora il carattere fungente di un’intenzionalità vissuta. Quell’intenzionalità che

nella sua commistione con la percezione ha il proprio carattere genealogico e dinamico.

Correlato teorico di tale intenzionalità percettiva che nell’esperienza estetica

raggiunge uno dei suoi culmini più rappresentativi è il fatto che l’essere proprio

dell’oggetto estetico risieda nel suo apparire. Esso infatti è il reale in quanto percepito.

Il suo essere è un essere percepito, profondamente integrato nella regione dell’aistheton;

le sue qualità si dispiegano nel campo del sensibile e in esso si radicano. “Senza dubbio

si potrebbe estendere ciò che diciamo dell’oggetto estetico ad ogni cosa percepita, ma

solo la riduzione spontanea che l’esperienza estetica opera si arresta all’essere sensibile

e lo gusta come tale.”511 Nel sensibile si radica così anche il senso dell’oggetto in

questione, “senso immanente che non è forse concettualizzabile ma che è sperimentato

senza equivoco e che può essere detto nel vocabolario dell’affetto.”512 Su questo punto

ci siamo già soffermati in precedenza e possiamo qui semplicemente rilevare come esso

rappresenti un caposaldo acquisito nel percorso dufrenniano. Ad esso si correla la

lettura, anche questa già vista, dell’oggetto estetico come un quasi soggetto, grazie alla

509 Ibidem. 510 Ivi, p. 17. 511 Ivi, p. 18. 512 Ivi, p. 19.

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quale Dufrenne può nuovamente sottolineare l’immanenza del senso all’oggetto estetico

e al contempo come mediante questo senso esso trascenda se stesso, esplodendo verso

un mondo al quale fa accedere anche noi.513

Porre l’accento sul radicamento dell’oggetto estetico nel sensibile conduce

Dufrenne a considerare un altro dei temi centrali della filosofia husserliana: quello della

costituzione. Per lui l’evidenza di un oggetto estetico, che si rivela solo a una coscienza

che lo ha di mira secondo una certa intenzione, non autorizza a dire che questa

coscienza lo costituisca né che gli dia il suo senso, “se è vero che il senso abita l’oggetto

che lo esprime invece di essergli aggiunto in una sorta di libera interpretazione

soggettiva.”514 Il senso del sensibile non è qualcosa che ad esso giunga da una coscienza

che lo costituisce, al contrario, per Dufrenne vi è al livello del senso uno scambio reso

possibile da una forma di accordo e apertura reciproca tra oggetto e soggetto che egli

legge come un a-priori affettivo. Il tema dell’essere al mondo trova in questa

impostazione una significativa apertura. La riflessione sull’oggetto estetico ha

rappresentato, infatti, un continuo rilanciamento della filosofia dei Dufrenne nella

direzione di un originario legame (tra soggetto e oggetto) che non cessa di presentarsi

problematico. In quest’ottica, il sensibile si riconferma per Dufrenne come il prodotto di

una cooperazione tra soggetto e oggetto, “il luogo della loro nascita comune”515 in cui

essi, non essendo due entità che preesistono alla propria relazione, si scoprono

vicendevolmente. È l’esperienza estetica a permettere questa frequentazione simbolica

del sensibile; diversamente, nell’esperienza della percezione quotidiana, animata da un

interesse conoscitivo o pratico, noi “riferiamo il sensibile a una cosa che esso qualifica”

ed esso si ritrova messo in campo “come strumento di un pensiero o di una pratica,

misurato dal metro del sapere e spiegato da questo sapere”. Al contrario, “l’esperienza

estetica restituisce il sensibile al suo essere enigmatico senza perciò sottrargli la sua

virtù espressiva.” 516 In questo modo Dufrenne può intendere l’esperienza che del

513 “In ciò possiamo essere heideggeriani: l’opera è vera nella misura in cui essa manifesta questo potere di Offenheit che presuppone anche un potere di ripiegamento o di dissimulazione, dunque nella misura in cui ad un tempo apre un mondo e appartiene alla terra. Piuttosto che l’opera preferisco dire l’oggetto estetico perché l’opera resta senza potere finché non è percepita e promossa al sensibile.” (Ibidem). 514 Ibidem. 515 Ibidem. 516 Ibidem.

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sensibile si fa in ambito estetico come una forma di esperienza originaria in cui il

cominciamento è tale che nessuno ha la priorità o l’iniziativa. È questa forma di

esperienza che si rivela in grado di condurci all’inizio, dove “il mondo sensibile, come

dice Merleau-Ponty, è più antico dell’universo del pensiero.”517 E proprio a questo

proposito, rispondendo al suo maestro, Dufrenne introduce una delle teorie che

maggiormente identificano il suo percorso dischiudendone di nuovi. Il riferimento è alla

nozione pontiana di carne, che abbiamo già visto a più riprese riferimento basilare per

Dufrenne. Merleau-Ponty è stato condotto a questa nozione (“Nozione ultima, egli dice,

ultima perché prima: è il nome dell’originario”518) perché la sua riflessione era partita

dal corpo e di ciò che in esso è in gioco e lo mette in gioco doveva render conto. Ma

Merleau-Ponty, fedele alla necessità di consustanzialità con le cose, ne fa un elemento;

per lui la carne è il luogo della “doppia deiscenza”, del vedente in visibile e del visibile

in vedente. Questo conduce, a parere di Dufrenne, all’indebolimento dell’aspetto

originario a favore di una lettura della carne come un “tra due”.519 E se questo tra due

merita considerazione, se non è semplicemente una relazione istituita da un pensiero

superficiale, “è perché può dare vita ai due, agli essenti che saranno e si affermeranno

per loro conto.”520 E il conferimento di questo potere conferma a Dufrenne la necessità

di leggere tale elemento in una chiave differente, secondo un termine tradizionale che

tutta la sua filosofia si è concentrata a reinterpretare, la Natura. Dire che l’originario

esplode significa riconoscere l’uomo e il mondo come parti che sorgono dalla Natura

essendo della stessa razza. “Ma l’originario continua ad esistere come supporto: essi

non nascono una volta per tutte, essi non rompono il cordone ombelicale poiché non vi

è che una sola esplosione dell’essere che dura per sempre.”521 In questo modo la carne

merleaupontiana, nel suo essere demoltiplicata di una pluralità indefinita diventa carne

della Natura o Natura come carne. “Il sensibile è la figura di questa carne quando, per lo

stesso movimento irreversibile che produce in essa, accede all’apparire.”522

517 Ivi, p. 20. 518 Ibidem. 519 Ibidem. 520 Ibidem. 521 Ivi, p. 21. 522 Ibidem.

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L’oggetto estetico, allora, riconferma il proprio ruolo e le sue valenze ontologiche:

esso è “precisamente questo oggetto che sorge all’apparire: la cosa stessa.”523 È in

questo modo che Dufrenne può ribadire e riconfermare la posizione occupata

dall’oggetto estetico all’interno della sua riflessione. Non si tratta, infatti, di un oggetto

particolare in sé le cui caratteristiche lo rendano eccentrico rispetto alle cose del mondo;

al contrario, proprio per le sue caratteristiche in esso si rendono manifeste strutture e

comportamenti propri del mondo in generale. Dire che esso è la cosa stessa significa

riconoscere la cosa stessa come inserita in un contesto dinamico e relazionale poiché

essa si manifesta nel movimento dell’apparire che, come abbiamo già accennato, è

venire alla presenza oltre che essere visibile. Di più, la cosa stessa risulta configurabile

solo come correlato di una relazione con un soggetto che, come abbiamo mostrato, si

presenta come una relazione genealogica e dinamica profondamente radicata nel

contesto del sensibile.

Le conclusioni di Dufrenne incarnano una posizione che con coerenza reagisce a e

fa reagire tra di loro le basi merlaeupontiane e i riferimenti husserliani:

Quando l’intenzionalità è percettiva, quando l’intenzione viene riempita e il suo oggetto si dà come presente, come nell’afferramento dell’oggetto estetico, ci si può domandare se questa intuizione che Husserl chiama originaria, perché fonda tutte le altre, non ci conduca nei dintorni dell’originario nel senso in cui lo intende Merleau-Ponty. La relazione intenzionale che la fenomenologia descrive tra il senziente e il sentito non è allora forse l’irrelativo da cui procedono l’uno e l’altro? La trascendenza che la descrizione presenta alla coscienza non è allora il fatto stesso dell’originario, la sua esplosione verso il mondo e l’uomo?524

Nella relazione intenzionale egli legge il fatto originario, il legame principe grazie

al quale ogni distinzione risulta possibile. Qui, come dice Dufrenne, il pensiero tocca il

fondo; arriva a intravedere la Natura “per la quale trascendersi e naturare è la stessa

cosa” e sa di non poter andare oltre né di potervisi soffermare. Tale fondo è, infatti, un

fondo in costante movimento, una Natura costantemente naturante alla quale solo

l’esperienza estetica consente di avvicinarsi nella fascinazioni esercitata dal sensibile.

523 Ibidem. 524 Ibidem.

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L’oggetto estetico è allora, precisamente, “questo essere sensibile, questo

frammento di carne che non appartiene né al mondo né all’uomo, ma che manifesta il

potere naturante della Natura.”525 Con esso la coscienza è convocata a penetrare un

mondo con il quale è in relazione consustanziale di carne sensibile. Se l’oggetto estetico

è la cosa stessa, allora, esso non lo è in quanto cosa già naturata, già determinata, già

collocata dal sapere nello spazio-tempo, che si tratterebbe solamente di trovare tra le

altre. Come cosa stessa l’oggetto estetico non sarà mai la cosa presa di mira, “ma la

cosa che mi prende di mira”, un in-sé che solo in quanto io sono per esso può essere

per-me. L’oggetto estetico come cosa stessa non si dà dunque come un essere, oggetto o

soggetto, ma come “un apparire, una folgorazione i cui precipitati saranno oggetto e

soggetto.”526

È pertanto un’esperienza limite quella che dà accesso a un tale oggetto, tanto che

“si potrebbe dire dell’atto estetico ciò che Kant dice dell’atto morale: che non è mai

stato compiuto.”527

3.2 Natura e coscienza: un legame poetico

Se, come abbiamo visto, l'oggetto estetico manifesta il potere naturante della

Natura, diventa allora estremamente importante comprendere in che senso tale nozione

rientri nella meditazione dufrenniana e quale ruolo essa giochi relativamente all'estetica.

Grazie all'oggetto estetico come lo abbiamo visto, l'arte, in Dufrenne, si pone infatti

quale superiore indifferenza di Natura e Spirito, come rivelatrice attiva dell'Essere, della

Sostanza, della Natura naturante.528 Come è stato già notato, ciò permette a Dufrenne di

525 Ibidem. 526 Ivi, p. 22. 527 Ibidem. 528 Sono evidentissimi i riferimenti alla conoscenza intuitiva di Spinoza come all’assoluto di Schelling, tanto che si renderebbe necessaria un’analisi dettagliata, purtroppo impossibile in questa sede, della loro azione sul pensiero di Dufrenne come anche sulla fenomenologia francese in generale. Nella lettura di Dufrenne resta comunque fondamentale che: “l’originalità di Spinoza consiste nell’identificare la necessità esistenziale, vale a dire quella pienezza conferita all’esistenza dal fatto della sua identificazione all’essenza, con la necessità logica: l’affermazione di sé che costituisce il conatus non è differente

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non annullare l'antropologico, l'uomo nella sua corporeità, in una statica realtà suprema

ma di porlo anzi quale protagonista del divenire dell'essere stesso.529

Una delle opere in cui l'avvicinamento di Dufrenne a tematiche ontologiche è più

fecondo ed evidente è Le poétique, del 1963. L'origine dell'opera d'arte di Heidegger è

qui sfondo teorico costante del percorso dell'autore francese; per entrambi è l'arte stessa

piuttosto che l'artista ad essere all'origine dell'opera e dell'artista stesso. Diversamente

da Heidegger, tuttavia, Dufrenne insiste sul collegamento tra l'opera d'arte (l'oggetto

estetico) e la sensibilità umana respingendo i caratteri "ontoteologici" presenti nel

secondo Heidegger a favore di una prospettiva "ontofenomenologica". Se anche per

Dufrenne, nell'opera, è heideggerianamente in opera l'evento della verità e si verifica

l'apertura dell'ente nel suo essere, è chiaro che la verità si afferma per Dufrenne in un

divenire percettivo che invece per Heidegger tradirebbe il senso stesso dell'opera d'arte. 530

Al concetto di Natura Dufrenne dedica esplicitamente il terzo libro del lavoro del

1963, con l'intenzione di estrapolare il poetico dalla serie di accidenti della storia e della

cultura per tentare di coglierlo invece nella sua componente essenziale e oggettiva fino a

renderlo una categoria a se stante.

Afferrare l'idea di Natura con Dufrenne significa, ancora una volta, interrogarsi

sulla questione della correlazione intenzionale – pratica e noetica – tra l'uomo e il

mondo. La soggettività è indeclinabile o è necessario assegnare a qualche istanza

preumana il senso di cui la coscienza si rivendica portatrice?531 Se l'uomo e il mondo

sono legati da una forma di patto originario che li vede indissolubilmente legati, uno dei

due poli può meritare una qualche priorità nella relazione?

A dare conto della loro uguaglianza Dufrenne si è concentrato con attenzione in un

altra opera, di poco precedente a Le poétique. In La notion d'a priori, infatti, del 1959,

uomo e mondo vengono descritti secondo una forma di uguaglianza reciproca che

descrive il soggetto accordato con il reale in una dinamica che non può identificare dall’affermazione logica che è anima del vero.” (M. Dufrenne, Brève note sur l’ontologie, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1954, n. 4, p. 404.) 529 E. Franzini, op. cit., p. 377. 530 Cfr. Ibidem. 531 M. Dufrenne, Le poétique, , PUF, Paris 1963, p. 139.

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nessuno dei due come preesistente all'altro. L'indispensabile reciprocità che lega il

mondo al soggetto che lo abita è contenuta in quella che Dufrenne presenta come una

formula apparentemente semplice: "le monde comprend le sujet, le sujet comprend le

monde."532 Ma la comprensione, nelle due proposizioni, cambia di segno. Se il mondo,

infatti, comprende il soggetto, è individualizzandolo ma rinunciando al contempo ad

integrarlo. Il soggetto non fa parte del mondo come una parte in un tutto, esso rimane

irriducibile: "être au monde ce n'est pas s'inscrire dans un ensemble, c'est naître à la

réalité."533 Il soggetto a sua volta comprende il mondo particolarizzandolo e solo a

questa condizione può definirsi come soggetto. "Le sujet comprend le monde comme ce

qui ne peut être compris, le monde englobe le sujet comme ce qui ne peut être

englobé."534 E se la dualità di questa relazione rimane insormontabile ciò che li oppone

è comunque ciò che li rende solidali.535

Questa visione non viene abbandonata, ma il passaggio alla Natura permette di

dipanare alcune delle ambiguità che con il suo percorso fenomenologico Dufrenne

aveva mantenuto. Con la nozione di Natura, infatti, egli mette in campo un principio

ontologico in grado di fondare e reggere i significati di mondo e soggetto attraverso un

passaggio dalla fenomenologia alla metafisica che egli vede come risolutivo. "Nous

pensons que la phénomnénologie peut montrer l'homme partagé entre le travail et le jeu,

entre la scission et la réconciliation, entre le malheur et le bonheur, et que peut-être la

métaphysique peut comprendre cette bipolarité par l'examen du statut de l'homme dans

la Nature."536 È su questa idea che si legittima, tra l'altro, la sua riflessione sulla

dimensione poetica dell'esistenza.

Lo abbiamo visto attraverso l'idea di un mondo dischiuso dall'oggetto estetico alla

stregua di un soggetto: il Mondo si configura con Dufrenne come un luogo

costitutivamente comunitario, intersoggettivo e dinamico, in cui interagiscono i mondi

singolari e soggettivi. Se il Mondo è questo luogo in cui sono raccolti e contenuti tutti i

diversi mondi in potenza attraverso cui esso stesso si manifesta, con la Natura si indica

532 M. Dufrenne, La notion d’a priori, PUF, Paris 1959, p. 254. 533 Ibidem. 534 Ibidem. 535 Questa relazione descritta come non dialettica sfida, per Dufrenne, ogni tipo di logica e rappresenta lo scacco di ogni tentativo di spiegazione naturalistico quanto idealistico. 536 M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 1.

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allora tutto il reale nel suo essere débordant.537 Nella Natura si ricomprendono tanto il

Mondo quanto i mondi che lo compongono, animano e abitano. In essa coesistono

differenti forme di realtà: "le réel dans sa présence immédiatement signifiante ordonné à

une conscience percevante et le réel dans son être extérieur et objectif, ordonné à une

conscience en général."538 Ma vi agisce anche un'altra forma più complessa di reale, "le

réel dans sa puissance, capable d'un devenir"539, con cui il possibile e il reale

confermano la propria azione congiunta e tuttaltro che oppositiva. Questo reale è quello

legato a una coscienza ispirata, poetica che tuttavia non si può riconoscere quale polo di

una relazione intenzionale che abbia nella Natura il proprio oggetto. Tra Natura e

coscienza ispirata o poetica non può esistere una forma di intenzionalità, grazie alla

quale si ricadrebbe nel problema costitutivo o comunque in una forma di oggettività di

cui invece la Natura è priva. Al contrario, la Natura rappresenta proprio il reale al di qua

della coscienza: la loro correlazione non è (solo) intenzionale, bensì (anche)

ontologica.540

Con l'idea di Natura quello che poteva apparire come un dualismo oppositivo tra

soggetto e mondo che, per quanto uguali, continuavano a presentarsi contrapposti, si

supera a favore di un riafferramento del fondo fondante che non resta più sottointeso ma

si può manifestare e intravedere nella propria inarrestabile produttività. Produttività che,

a sua volta, fa il pari con un'idea di libertà poichè, e Dufrenne sa che Heidegger l'ha già

ben mostrato, nel cuore dell'idea di fondamento c'è l'affermazione della libertà. Libertà

che rappresente il cominciamento, quel cominciamento di cui la Natura è figura

assoluta, che inaugura un ordine mai riducibile ai puri e semplici fatti.

Dufrenne individua in questa forma di interrogazione un passaggio essenziale, che

dal trascendentale porta al trascendente: il primo è rappresentato dall'esame della

correlazione intenzionale tra uomo e mondo, il secondo, dalla ricerca dell'origine prima

537 Ivi, p. 143. 538 Ibidem. 539 Ibidem. 540 Dufrenne si sta allontanando con ogni evidenza e sempre più da qualsiasi rigore fenomenologico: “Non seulement la réflexion doit désormais faire abstraction de ce que la phénoménologie ou la science ont pu lui apprendere, mais la conscience doit en quelque sorte faire abstraction d’elle-même.” (Ibidem) Ma anche questa scelta non è casuale. Il suo è un tentativo radicale, forse non rigoroso ma neppure ingenuo, di rileggere il rapporto tra soggetto e oggetto in una chiave produttiva, dinamica e propositiva che, come vedremo, non resta estranea a esortazioni di tipo etico.

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di questa relazione. Ciò significa che per Dufrenne il trascendentale stesso è considerato

alla stregua di un fatto. Questa considerazione fa sicuramente parte delle impostazioni

portanti del percorso di Dufrenne tutto teso a deformalizzare, delogizzare il

trascendentale, l'a priori, per farne piuttosto una struttura intramondana, che non

dipende dall'esperienza ma è in essa profondamente calata. La Natura di Dufrenne si

situa allora proprio a questo livello: ontico ma non del tutto metafisico, primo e

fondativo ma sempre reale e soprattutto materiale. È proprio la fedeltà al livello

materiale dell'esistenza, livello che il radicamento nel contesto percettivo rende

costantemente presente, a indicare quale sia l'orientamento costante dell'autore. La

Natura cui la scienza invita a tornare, così come è indicata dal positivismo, è proprio

l'esatto opposto di quella Natura che Dufrenne sta indagando: la Natura della scienza ci

parla di un mondo senza l'uomo, di un mondo prima dell'uomo. Con Dufrenne, al

contrario e in modo profondamente significativo, la Natura è il mondo dell'uomo:

mondo di fatti, oggetti, azioni e soprattutto loro significati benchè non ancora

cristallizzati. La metafisica di Dufrenne è allora il ricorso al fondo dell'ispirazione, che

precede le formalizzazioni concettuali e in cui vive il pensiero pre-critico. In questo pre-

pensiero, in questa realtà originaria, è all'opera non ciò che è, ma tutto ciò che potrebbe

essere: "La Nature c'est d'abord l'inépuisable réalité." Inesauribile perchè ogni possibile

e reale è solo uno degli infiniti possibili e irreali. Dire mondo piuttosto che oggetti è poi

una scelta ancor meno indifferente, poichè la determinazione degli oggetti presuppone

già quella concettualizzazione che resta invece estranea all'idea di mondo.541

Realtà inesauribile, la Natura è allora altro e di più rispetto al sistema o alla totalità

degli enti, poichè l'idea stessa di totalità si presenta già come idea della ragione o del

sentimento. Parlare di Natura con Dufrenne significa mettere in luce non l'insieme

affettivo né l'universo intellettuale, i quali entrambi presuppongono già sempre l'uomo

come loro correlato, bensì accettare di nominare "l'être inassignable, et en tout cas

inassigné, de l'étant."542 Significa quindi comprendere l'essere nelle sue possibilità non

541 Come l'autore ha esplicitato nuovamente più tardi, nel 1975, in un altro scritto sempre dedicato, seppur in modo differente, alla poesia. Cfr: La poésie: où et pourquoi?, “Revue d’esthétique”, 1975/ 3-4, oggi in Esthétique et philosophie, cit., tome 2, p. 251. 542 M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 152.

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ancora individuate badando bene, tuttavia, a non separare realtà da reale per evitare di

invocare un atto che conferisca al reale la sua realtà.

Si comprende bene in questo modo come l'obiettivo polemico del Dufrenne di

queste pagine sia rappresentato in particolare dai filosofi che distinguono essenza ed

esistenza, separando in modo netto l'ente dall'essere per subordinarli a qualche istanza

trascendentale. Subordinare l'esistenza all'essenza, facendone un predicato, è infatti per

Dufrenne un modo di privare l'esistente della propria autonomia mentre di essa egli mira

a riconoscere la soggettività di cui gli altri esseri sono predicati. Con l'idea di Natura

Dufrenne invita ad andare al cuore del reale, riconoscendo innanzitutto la realtà del

reale. Non è nemmeno la presenza ciò che egli sta invitando a mettere a fuoco, proprio

perchè come abbiamo visto la presenza sarà sempre presenza a mentre mirare alla

Natura equivale proprio a mirare a tutto ciò che potrà (o potrebbe) essere presente: il

fondo cioè, prima di essere illuminato dalla luce di una soggettività capace di introdurre

l'apparire nell'essere per articolarlo in figure e totalizzarlo in un mondo. La Natura è

questo fondo cieco, mai del tutto esplorabile proprio perché inesauribile nella sua

pesante opacità; fondo che, non appena viene avvicinato da una coscienza cessa di

essere tale per diventare già cosa identificabile e nominabile.

Relativamente al senso la Natura è allora descrivibile come non-senso, o non-

ancora-senso perchè "possibilité du sens"543. È a questo punto che si ritrova nuovamente

la necessità del salto dal contesto fenomenologico a quello metafisico: Dufrenne ripete

che la relazione intenzionale non è applicabile al livello del fondamento che per questo

richiede all'analisi un'impostazione metafisica, la sola capace di situarsi seriamente sul

fondo. Tale impostazione permette a Dufrenne di ristabilire la comunicazione tra quei

due estremi rappresentati dall'essere trascendente e dalla coscienza, estremi tra i quali

egli intende reperire una forma di comunicazione.544

543 Ivi, p. 154. 544 Tutta l’analisi è in dialogo stretto con le teorie di Sartre. Una è in particolare la tesi che egli mutua da Sartre: “Il punto di vista di una coscienza pura è contradditorio: non vi è che il punto di vista della coscienza impegnata. Il che significa che la conoscenza e l’azione non sono che due facce astratte di una relazione originale e concreta”. (Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 384). Per Sartre non avrebbe alcun senso, tuttavia, interrogarsi sull’essere precedente l’apparizione del per-sé. Diversamente da Sartre, invece, Dufrenne ritiene importante e possibile l’interrogazione del fondamento per comprendere come il per-sé sia possibile e come esso nasca all’interno dell’in-sé; questa domanda,

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Quello che gli interesse porre a tema è proprio la dinamica che regola essere e

apparire se, come abbiamo già indicato, è proprio l'apparire individualizzato e

soggettivo che porta la Natura al livello del mondo. Questa dinamica richiede una

attenta messa in questione delle relazioni tra possibilità e realtà: quando parla di

possibilità Dufrenne ne parla in termini materiali, in quanto possibilità che è potenza

dell'atto, e non in termini logici dipendenti da un'immaginazione in grado di avanzare

ipotesi. Il possibile significa per lui "la plénitude du réel, son autorité et son efficience"

e la Natura risulta quindi non certo l'insieme dei casi possibili (hasards) ma una riserva,

una sorgente alimentata da "la forza silenziosa dei possibili".545 Certo, Dufrenne

riconosce l'impossibilità di parlare davvero della Natura prima dell'uomo poichè noi

possiamo parlarne solo nella misura in cui essa si manifesta ed appare; ma "nous

pouvons faire au moins l'hypothèse métaphysique d'une Nature antéhistorique et

pourtant déjà temporelle, et d'un devenir de cette Nature vers l'homme."546 È un'ipotesi,

certamente, ma non priva di consguenze teoriche interessanti.

La notazione più interessante riguarda la trattazione del tema della temporalità

rispetto alla Natura, trattazione che pone Dufrenne in posizione piuttosto eccentrica

rispetto ad ogni ontologia tradizionale. La Natura è temporale, infatti, nella sua

descrizione. Negarle la dimensione del tempo proprio in nome di una teoria del tempo

equivale per Dufrenne a cedere ancora a quell'idealismo da cui egli, anche se a volte in

maniera un pò opinabile, cerca sempre coerentemente di stare lontano. Lo scorrere

irreversibile del tempo è per lui costante e primo, sia che riguardi i flussi di coscienza

che il divenire delle cose. Certo, Dufrenne lo riconosce, il tempo di per sé non è nulla se

non un'astrazione o un parametro all'interno dei nostri calcoli, ma esso è comunque "le

caractère donné de tout donné, le caractère essentiel de tout étant."547 Il fondo è

temporale, tanto quanto l'uomo che in esso si radica.

Se il tempo non è un essere di cui si possa cercare il cominciamento e la fine,

l'essere è comunque temporale, "et il est vain de chercher, en dehors des objets ideaux

per lui, rappresenta la via d’accesso per illuminare il per-sé stesso attraverso la delineazione dell’essere che lo precede. 545 M. Dufrenne, Le poétique, cit., pp. 154-155. 546 Ivi, p. 155. 547 Ibidem.

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qui sont eux mêmes conçus dans l'histoire, un être intemporel."548 Se l'eternità ha un

senso sarà solo per designare l'intelligibilità di un oggetto logico, o la pienezza di un

istante vissuto.

Ecco quindi che per Dufrenne riferirsi a una Natura naturante implica e richiede

una riabilitazione del tempo, il che comporta due conseguenze decisive nella sua

filosofia.

La prima conseguenza riguarda il concetto di fondamento come cominciamento. La

Natura precede sì l'uomo, ma non c'è un Essere che preceda a sua volta la Natura, nè un

essere intemporale che preceda quello temporale. Il fondamento è così, propriamente,

un cominciamento: "de même que l'acte libre commence avec la décision, l'histoire

commence avec l'homme"549 e ogni percezione che fonda è altresì una percezione che

dà inizio a una storia temporale. Temporale e tuttavia non storico, il fondo è allora il

luogo di una letterale pre-istoria, "d'un devenir où sa puissance se manifeste par

l'actualisation des possibles."550

La seconda conseguenza che Dufrenne trae dalla sua riabilitazione della

dimensione temporale relativamente alla Natura è la possibilità di parlare di una

"polarizzazione della Natura verso l'uomo"551, cioè verso la coscienza in cui essa si

riflette e raccoglie. Se, come abbiamo visto, è l'apparire che fa della Natura (in-sé) un

mondo, si capisce perchè Dufrenne dica che proprio l'apparire è la suprema possibilità

dell'Essere, ciò verso cui esso tende proprio in virtù della sua temporalità. Perchè il

tempo investe l'essere secondo due modalità: è in lui il principio del divenire, ma è

anche la possibilità di un logos. Riprendendo Heidegger come Hegel, Dufrenne mira a

far riconoscere come il divenire naturale prepari e prefiguri il divenire logico del

discorso. È il suo essere temporale che orienta l'Essere verso l'apparire.552 E proprio

perchè temporale la Natura può essere potenza produttrice.

548 Ivi, p. 156. 549 Ibidem. 550 Ibidem. 551 Ibidem. 552 È importantissimo tenere ben distinte temporalità e temporalizzazione, la seconda dipendendo strettamente da una coscienza e la prima caratterizzando invece anche l’Essere al di fuori del rapporto intenzionale.

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E proprio questo aspetto produttivo della Natura è ciò che Dufrenne ha di mira. Ma

non si tratta di un dinamismo produttivo finalizzato; il linguaggio di Dufrenne è tuttaltro

che antropomorfico. Dire, "in mancanza di termini migliori"553, che la Natura vuole

l'uomo non equivale affatto ad attribuire alla Natura una forma di volontà modellata su

quella umana, nè tanto meno su quella divina; non equivale neppure a ipotizzare una

premeditazione da parte della Natura nel concepire e volere l'uomo né che l'evoluzione

creatrice sia realizzazione di un programma.554 "Nous voulons seulement dire que la

Nature est puissance et que cette puissance produit l'homme."555 Certo la Natura non

tiene l'uomo in potenza come un possibile logico, ma neppure come un possibile

biologico: "l'homme n'est pas présupposé ou préformé dans la Nature, mais il est

produit par elle, même si, en tant qu'il est le correlat d'un monde, son surgissement est

absolu."556 Non vi è evidentemente qui alcun riferimento a insostenibili forme di

creazionismo, la figura che per Dufrenne esplicita meglio la relazione è allora piuttosto,

anche se con una certa torsione poetica, quella di destino. Con questo termine Dufrenne

crede sia più chiaro il legame che corre tra il fondo e l'uomo nelle sue vicende reali: "Et

ce qui permet au mieux de pressentir – sinon de penser – la Nature, ce n'est pas

seulement le fond, c'est la force du fond, ce que précisément l'homme appelle destin."557

Con il destino si vuole sottolineare la forza genealogica del fondo naturale, il suo essere

precedente ed estranea ad ogni struttura che nel mondo si trovi già fissata, e sia quindi

prevedibile o controllabile. Perchè se il mondo è soltanto "mondano", la Natura è

naturante, e mentre il mondo "est la figure du tout, la Nature est sa puissance."558

Quello che la Natura di Dufrenne permette di mettere a fuoco in modo decisivo è

allora l'emergere contemporaneo e coordinato di coscienza e oggetto: è nell'uomo che la

553 Ivi, p. 158. 554 Decisiva è per Dufrenne la critica bergsoniana della finalità e, ancor prima, il contributo di Schelling che negli Essais insiste proprio sull’essere teleologico della Natura che pure rimane un meccanismo cieco. Come Schelling Dufrenne rifiuta di mettere l’intenzione prima del prodotto poiché la più alta finalità è proprio in questa Natura da cui resta assente tuttavia ogni mira voluta o deliberata. (Ivi, p. 159 n.) 555 Ibidem. 556 Ibidem. 557 M. Dufrenne, Le jeu et l’imaginaire, “Revue Esprit”, Juillet-Aout 1971, oggi in Esthétique et philosophie, cit., tome 2, p. 147. 558 Ibidem.

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Natura viene alla coscienza, che le cose divengono immagini e che queste immagini

sono in grado di dire qualcosa. È sempre nella Natura che l'essere appare, viene alla

presenza e la potenza si rivela, in ultima analisi, potenza di svelamento.

Così Dufrenne propone di pensare la Natura come idea-limite, allo stesso modo in

cui Merlau-Ponty aveva riservato alla carne questa qualifica. Questa visione conferma

l'idea che noi non abbiamo a disposizione alcuna intuizione originaria, e che ogni

attività si esercita su determinati dati. "Elle peut donc suggerer que nous sommes aussi

bien donnés à nous-mêmes et que le sujet transcendental n'est pas souverainement

constituant."559

La conclusione più importante è allora che per esercitarsi, la potenza non è in attesa

di una coscienza che ne attivi i possibili poichè è dalla potenza stessa che si produce la

coscienza. "Ce qui se révèle à l'homme, l'être même du dévoilé implique dans cet être

une puissance de dévoilement dont l'homme n'a pas originellement l'initiative."560 Ed è

in questo modo che per Dufrenne si può comprendere la relazione dell'uomo in quanto

coscienza con la Natura.

Natura disponibile allo svelamento, che anzi implica ed esige affinché, tramite lo

sguardo dell'uomo, le cose possano diventare immagini ed essere quindi afferrate come

cose. L'uomo però a sua volta non è leggibile come un principio irriducibile che sorga

ex nihilo, esso è piuttosto prodotto dalla Natura come parte di sé, "une partie privilégiée

où le tout se reflète."561

Si torna così a una forma di circolarità, che vede il soggetto e l'oggetto

indissolubilmente legati nel loro stesso apparire; e all'interno di tale circolarità l'uomo

incarna il nodo essenziale, il luogo in cui il dualismo sorge e può oltrepassarsi."Car la

conscinece est l'autre de la Nature, mais cette conscience est elle-même produite et

portée par la Nature."562 È nell'uomo quindi che questa correlazione essenziale prende

corpo, essendo esso stesso indissolubilmente coscienza e Natura, correlato ed elemento

della Natura. Con questa conclusione, nonostante le torsioni metafisiche, Dufrenne può

guardare nuovamente alla fenomenologia nell'inesausto tentativo di reperire all'interno

559 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 160. 560 Ivi, p. 162. 561 Ibidem. 562 Ibidem.

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del corpo le radici del trascendentale. Il punto di passaggio, infatti, tra l'uomo come

coscienza e l'uomo come Natura è rappresentato dall'apertura percettiva, fondamento

instaurato in via esclusiva dall'uomo che dischiude il regno della presenza "où la

temporalité, reprise par une conscience temporalisante, devient clarté en ouvrant un

présent qui n'est plus ponctuel, en lequel l'homme est présent au monde et le monde

présent à l'homme."563 Ma la presenza dell'uomo al mondo è subordinata ancora al fatto

che l'uomo stesso continua ad essere Natura, in una forma di circolo sostanziale

debitore, da una parte, della filosofia di Spinoza e memore, dall'altra, della carne di

Merleau-Ponty. L'elemento di maggiore originalità inserito da Dufrenne non è, a questo

punto della riflessione, ancora del tutto articolato: la cerniera percettiva è già esplicitata

come piega all'interno della Natura che permette il sorgere contemporaneo e congiunto

di coscienza e oggetti -quindi della relazione intenzionale-, ma sarà solo più avanti che

di essa, con il concetto più ampio di sinestesia, sarà evidente la valenza di risposta non

ontologica a quelle domande qui ancora metafisiche.

L'uomo rappresenta dunque quel fondamento che è evento ed emergenza (delle

cose, del senso, della Natura stessa) tanto che Dufrenne arriva a ipotizzare di allargare

ad ogni uomo ciò che Kant attribuiva al solo genio: il fatto di essere una disposizione

innata dello spirito attraverso cui la natura dà la regola all'arte.564

Il rapporto tra l'uomo e la Natura si impronta allora a una dinamica di ispirazione

che mette in gioco, a sua volta, quella natura trascendente che nel soggetto e

nell'oggetto è formata da a priori che costituiscono per Dufrenne una forma di armonia

prestabilita tra uomo e mondo, il loro trait d'union essenziale. L'ispirazione è dunque la

figura che consente di cogliere quel movimento genealogico grazie a cui la dualità tra

spirito e mondo si conferma dualità tra oggettivo e soggettivo, cioè tra ontico e

trascendentale. Dualità che costruisce un unione che non è mai unità, reciprocità in una

presenza mai statica.565

563 Ibidem. 564 “De tout homme il faut dire ce que Kant a dit du génie, qu’il est lui-même nature: ‘Le génie est la disposition innée de l’esprit par la quelle la nature donne ses règles à l’art’; aussi ‘ne peut il indiquer scientifiquement comment il réalise so oeuvre; il ne sait pas lui-même d’où lui viennent les idées, et il ne dépend pas de lui d’en concevoir à volonté.’” (Ibidem) 565 Il concetto di ispirazione mette in gioco uno dei primi riferimenti concreti a quello che sarà l’interlocutore finale: il Merlau-Ponty de L’occhio e lo spirito. Proprio in quell’opera, infatti, compariva l’elemento dell’ispirazione in relazione all’Essere, quello stesso Essere che Dufrenne sta cercando di

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Cercare di privilegiare uno dei due termini significherebbe per Dufrenne cedere o

all'idealismo o al naturalismo, dai quali egli intende invece mantenere equa distanza.

Questa distanza è consentita precisamente dalla figura dell'ispirazione,566 grazie a cui si

annulla ogni possibile lettua meccanicistica in favore di una descrizione che valorizza

l'oscillazione e la sfumatura. È proprio l'idea della Natura così come l'abbiamo vista a

permettere questa impostazione. La Natura affonda nell'ontico, non è un sapere virtuale,

mentre il trascendentale, che pure è sempre parte di essa, è sempre incarnato. È l'uomo

che reca in sè il trascendentale e, essendo parte della Natura, rappresenta proprio la

funzione trascendentale della Natura. Dunque, e questo è forse un punto ambiguo

quanto interessante, la funzione trascendentale della Natura emerge "par procuration, et

non totalement, puisque le transcendantal vient s'incarner dans la nature de l'homme et

que cette nature est à la fois élément et produit de la Nature."567

È su questa caratteristica del trascendentale come incarnato che è allora bene

insistere, poichè è proprio l'incarnazione la condizione di possibilità del dualismo

uomo-mondo, della relazione intenzionale.568 L'uomo e il mondo, che sono soltanto suoi

prodotti, hanno la funzione essenziale di manifestare, con la loro presenza, la Natura

stessa che quindi a sua volta si mostra come il luogo della loro unione, come la capacità

produttiva immanente, non teologica, cui la loro unione dà luogo, come a priori di tutti

gli a priori materiali costitutivi.569 Ciò significa, ed è una delle conclusioni salienti del

caratterizzare. Certo, Merleau-Ponty, fedele al suo legame con la visibilità parlava di pittura, mentre con Dufrenne si è già slittati nel contesto della parola, ma la dinamica cui si fa riferimento non è troppo distnte: “Il pittore vive nella fascinazioni. Le sue azioni più proprie (…) gli sembrano emanare dalle cose stesse, come il disegno delle costellazioni. Tra lui e il visibile, i ruoli inevitabilmente si invertono. Ecco perché tanti pittori hanno detto che le cose li guardavano (…). Quel che si definisce ispirazione dovrebbe venir preso alla lettera: c’è realmente inspirazione e espirazione dell’Essere, respirazione nell’Essere, azione e passione così poco distinguibili che non si sa più chi vede e chi viene visto, chi dipinge e chi viene dipinto. Diciamo che un uomo nasce nell’istante in cui ciò che in fondo al corpo materno era solo un visibile virtuale si fa visibile per noi e, insieme, per se stesso. La visione del pittore è una nascita prolungata.” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1964), tr. it. di A. Sordini, SE, Milano 1989, p. 26.) 566 Di questo concetto è stata tuttavia già condivisibilmente notata l’impossibile riduzione ad alcuna fenomenologia. Come ha scritto Franzini, (op. cit. p. 380), esso porta Dufrenne nell’alveo di un’improbabile e non sempre credibile ‘rinascita’ romantica e surrealista. Esempi del poeta ispirato così come è concepito da Dufrenne si potrebbero trovare in Holderlin come in Eluard o Superville. 567 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 163. 568 Lo sbocco su di una filosofia della Natura, a partire dalla quale descrivere la coscienza, è per Dufrenne senza alcun dubbio più proficuo che non ipotizzare una psicologia, o filosofia della coscienza, a partire da cui desumere la Natura. 569 Cfr. E. Franzini, op. cit. p. 381.

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percorso di Dufrenne, che la correlazione intenzionale soggetto-oggetto presuppone

"une corrélation ontologique qui subordonne l'homme comme partie de la Nature au

devenir de la Nature."570 E questo divenire si conferma allora come "l'infinito orizzonte

di oggetti non ancora ridotto a mera cosalità" che sintentizza Franzini, "materia che

l'uomo deve sfruttare e violentare nella produzione", fondo concreto, legato alla

corporeità dell'uomo e ad esso consustanziale.571

La Natura diventa mondo per l'uomo come il tempo diventa storia, "mais elle a

l'initiative de cette métamorphose en ce qu'elle suscite l'homme par qui elle

s'accomplit."572 Quello che la Natura indica, e che l'ontologia di Dufrenne mira a porre a

tema, è allora proprio questa componente di impensabile ed inesauribile potenza del

fondo: il fatto che l'essere non sia l'apparire, "ni le sens ni la lumière", ma sempre e solo

la realtà che potrebbe apparire, ma che apparirà sempre e solo con l'uomo e all'uomo, e

che infatti produce l'uomo proprio per apparire.

Certo l'impresa resta impossibile, quella metafisica rimane un'intuizione, la

verbalizzazione di tutto questo implica già la presenza dell'uomo poichè è impossibile

collocarsi nella contermporaneità del fondo buio che precede la coscienza, "dans la

ténèbre que nul regard ne traverse, dans le silence que nulle parole ne rompt."573 Il fatto

di parlarne non equivale alla possibilità di esperirlo, possibilità preclusa dal nostro

essere costantemente nella storia oltre che nel tempo, ma ciò non impedisce di afferrare

l'aspetto più importante del reale, che è quello di essere apparenza in cui qualcosa si

dissimula oltre che manifestarsi, in cui il possibile agisce costantemente richiedendo di

essere considerato. "Le monde peut offrir de multiples visages parce que tout est

possible à la puissance du fond."574

È questa potenza del fondo a rappresentare quello che Dufrenne chiama la

"dimensione poetica della Natura", dimensione su cui insiste e che esplora in varie

direzioni, interessato alla messa a fuoco dell'espressività del mondo come ciò che è

disponibile ad essere colto ma anche e soprattutto costantemente prodotto. Il poetico è 570 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 164. 571 E. Franzini, op. cit. p. 381. 572 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 164. 573 Ibidem. 574 Ivi, p. 165.

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quindi considerato in senso ampio; certo, Dufrenne non disdegna riferimenti concreti a

poesie ed autori, secondo quel suo procede per esempi non sempre indispensabili che lo

caratterizza e forse addirittura diverte. Ma se anche egli parla di poesia, quello che gli

interessa -o che comunque più interessa noi in questa sede- è il portato teorico delle sue

scelte.

Poesia quindi è da intendere qui come essere poetico della natura, che certo suscita

lo stato poetico e sollecita il linguaggio poetico (che diventano sue figure), ma in essi

non esaurisce il suo senso teorico. Questo senso sarà ancor più chiaro alla fine di questa

parte di percorso, là dove il poetico si rivelerà leggibile in termini di categoria, anzi nei

termini ancora più decisivi di prima categoria del fondo originario.

Prima di afferrare questa conclusione, tuttavia, è bene capire in che senso Dufrenne

possa parlare di un poetico interno alla Natura e in che modo esso sia legato all'uomo.

Se dunque ci capiterà, seguendo l'autore, di guardare alla figura del poeta, teniamola

sempre presente, appunto, come figura; indice di dinamiche universali.

Il contesto poetico implica innanzitutto il riconoscimento e l'apertura di un contesto

discorsivo. Poetico, infatti, non è solo qualcosa di immaginifico né rappresentativo, ma

innanzitutto qualcosa al cui interno si gioca principalmente un'azione di parole. Azione

che, in senso poetico, appunto, rivelerà significative affinità con le conclusioni cui

siamo giunti nell'esaminare, nel capitolo precedente, il potere significante dell'oggetto

estetico. Là abbiamo messo a fuoco l'azione stilistica del linguaggio e le sue possibili

incarnazioni grazie a quegli oggetti peculiari che sono gli oggetti estetici. Qui vedremo

uno schema molto simile agire però al di qua, o al di sopra degli oggetti, nell'ottica più

matura di un lavoro che segue di dieci anni la Phénomenologie.

Abbiamo visto come la Natura "voglia" l'uomo, lo chiami affinchè con la sua

presenza di cosa tra le cose egli attivi il contesto intenzionale e l'essere possa apparire.

Fin qui abbiamo indicato nella percezione la soglia di apertura che dischiude nella

Natura la dicotomia soggetto-oggetto. Qui Dufrenne fa un passo ulteriore e connette alla

percezione il linguaggio quale potere che l'uomo possiede di convertire la scienza

ingenua della percezione in saggezza e sapere. È un modo, sempre molto figurativo in

verità e poco utile al rigore ontologico, di articolare meglio quel tipo di relazione che

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egli sta indagando. È il linguaggio il luogo in cui le cose prendono forma e in cui "les

relations se dessinent entre elles pour composer la figure d'un cosmos."575 Di più, il

linguaggio diventa luogo in cui il trascendentale si esercita, in stretto legame con la

facoltà percettiva che, a sua volta, presuppone il potere di nominare. "Dès qu'il parle –

dès que l'homme perçoit – la Nature devient monde."576 È in questo senso che Dufrenne

può veder confluire l'attività di filosofo e poeta, sullo sfondo di una Natura magmatica e

tenebrosa che di volta in volta prende forma, come sotto un cono di luce, dandosi a

vedere e lasciandosi nominare.577 Quella Natura che abbiamo descritto inafferrabile e

invisibile, oggetto di quella che Dufrenne stesso riconosce come "un'intuizione

metafisica", si lascia tuttavia esprimere, nelle pieghe di un linguaggio non codificato ma

produttivo come quello poetico. Linguaggio che, infatti, come già l'oggetto estetico,

apre un mondo. E con questo mondo l'uomo può "co-naître, venir à un monde possible

qui s'ouvre jusqu'à se perdre en lui."578 Torna nuovamente quella scissione che

Dufrenne tiene ferma come molto produttiva tra un rapporto al mondo predicativo e

conoscitivo e una relazione intuitiva e sentimentale. L'aspetto di mondo, la

manifestazione della Natura che con il poetico è chiamata ad apparire è "ce visage d'un

monde possible qui se révèle à la lecture" che "si n'est pas conceptuellement identifiable

et définissable, est eprouvé vivement."579 Parlare di rapporto poetico con il fondo

significa allora parlare di quel potere del linguaggio che si manifesta nella sua

originarietà, che Dufrenne legge come la risposta dell'uomo al linguaggio della Natura

o, meglio ancora, ciò che porta ad espressione la Natura come un linguaggio. Ecco

perchè la Natura stessa si rivela poetica, nella poesia ma anche prima di essa, nella

575 Ivi, p. 167. 576 Ibidem. 577 Dufrenne interpreta in questo senso l’idea di un’ispirazione che parte dalla natura per investire il poeta (e l’uomo) e crede di trovarne esempio rappresentativo ed efficace nei versi dell’VII Elegia a Duino di Rilke che cita (tradotta in francese): “Mais parce qu’être ici est beaucoup, et parce que nous semblons / nécessaires à toutes les choses d’ici, ces éphémères, qui / étrangement nous sollicitent (…) Du penchant de la montagne le voyageur n’apporte pas / non plus dans la vallée une poignée de terre, pour tous indicibile, mais / un mot acquis, pur, la jaune et la bleue / gentiane. Sommes nous peut-être ici pour dire: maison / pont, fontane, porte, cruche, arbre fruiter, fenêtre, / tout au plus: colonne, tour…? Mais pour dire, comprens-le, / ô pour dire tout ce que les choses elles-mêmes jamais / ne pensérent être dans leur ntimité. N’est-ce pas une ruse cachée / de cette terre qui toujours se tait, lorsqu’elle presse les amants / pour que dans leur sentiment claque chose, chacune, se transfigure? (…) Voici le temps des choses dicibles, voici leur patrie.” (Ibidem) 578 M. Dufrenne, La poésie: où et pourquoi?, cit. p. 253. 579 Ibidem.

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misura in cui essa esercita ed esprime il proprio poiein. Ed il primo frutto di tale poiein

è, come abbiamo già visto, l'uomo stesso in quanto sguardo nel quale essa potrà

rispoecchiarsi, in quanto voce che saprà nominarla.

La Natura diventa allora quel fondo che già Kant aveva intuito nell'idea di sublime,

che Dufrenne allarga in chiave metafisica fino a qualificare quella Natura di cui

possiamo presagire la potenza grazie al suo inarrestabile divenire, alla sua grandezza

selvaggia quanto alla sua creatività. In questo senso il sublime è addirittura precedente

al poetico. Ma non è qui il punto che a Dufrenne interessa di più.

Molto più importante che il suo immenso e inarrestabile fluire, è la direzione della

manifestazione della Natura: essa mira la coscienza, il suo stesso divenire è un venire

alla coscienza, che si riconferma cardine di un'indagine che, per quanto ontologica, è

nella relazione intenzionale che fissa la propria stella polare. Tra essere e apparire, tra

possibile e reale, la Natura si colloca in posizione di stallo, imponendo di considerare

entrambi i poli dei due dualismi, perchè di nessuno si può pensare che sia definitivo e

definitorio. Ecco quindi che l'autore deve tornare a considerare l'apertura

dell'immaginazione, quella stessa apertura che anche noi abbiamo già visto agire più

sopra, parlando della sensibilité généralisatrice. Alla coscienza, per entrare in relazione

con il mondo, non è sufficiente essere percettiva senza essere immaginante. Certo, i

correlati noematici della relazione intenzionale mutano (è la coscienza che può scegliere

l'atteggiamento da assumere), ma accade che il poetico – come l'oggetto estetico –

susciti un atteggiamento immaginativo nello stesso tempo in cui lo percepiamo. Anzi,

pur essendo innanzitutto alla nostra percezione che tali immagini, tali oggetti, si

propongono senza però esaurire in essa le proprie sollecitazioni.

Di più, la produttiva possibilità della Natura rivela un'eccedenza rispetto alla

percezione che si apre ben oltre l'immaginazione: è lo sbocco etico di questa filosofia

della Natura, su cui dovremo tornare, ma che fin d'ora si manifesta con tutta la sua

importanza. L'immaginario che completa la percezione non è solo fantasia, esso può

essere anche utopia: "l'irréel peut être saisi comme à réaliser, la poésie qui le déploie

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peut être un appel à l'action dans le monde."580 E se il reale è anche quotidiano, esso non

è percepito che per essere agito, "et le champ de la présence est le lieu de la praxis."581

Punto di incontro e reazione di tutte queste componenti, l'immagine (la cosa, la

parola poetica) è allora il correlato di una coscienza sia percettiva, sia immaginante, che

di un individuo che sulla base di ciò si prepara ad agire: "elle est l'annonce faite à

l'homme d'une Nature naturante."582 Va da sé che non sempre essa si manifesta con il

suo potere poetico, essendo a volte oggetto preso di mira per conoscere o per essere

manipolato, ma la potenza dei possibili abita sempre, in possibilità appunto, ogni piega

manifesta dell'essere. Ma in quelle immagini che debordano la familiarità che si ha per

loro, in quelle cose che non esauriscono il loro senso perchè il loro stesso essere

significanti sfugge ogni codice, in tutto ciò la Natura può manifestarsi. "Ce monde aux

contours indécis, c'est la façon dont la Nature se suggère à nous."583 Ecco allora,

nuovamente, quella valorizzazione della sfumatura e dell'ombra che Dufrenne persegue

con decisione; valorizzazione contraria ad un approccio scientifico al reale e

consapevole, invece, della sua inesauribile e innafferrabile ricchezza.

Tale ricchezza ha un connotato ulteriore. Insistendo sul linguaggio poetico come

figura del linguaggio della Natura, Dufrenne riconosce come ogni volta tale linguaggio

sia parola parlata di un mondo singolare: quello del poeta, appunto. Ma tale figura è più

utile ad illuminare il versante soggettivo della ricchezza del reale; la soglia della sua

emergenza che è sempre legata al soggetto che la percepisce e nomina. Senza indulgere

ad alcun relativismo, ma riconoscendo ad ogni soggettività il potere di dischiudere un

mondo; che è fatto molto diverso dalla facoltà di accedere tutti allo stesso mondo. Ecco

in che senso Dufrenne sottolinea come il suo sia stato un tentativo di "comprendre les

mondes singuliers comme des possibles du monde."584 Infinite possibili delimitazioni di

un mondo illimitato. Proprio su questa infinita e indefinita diversità Dufrenne insiste,

poichè è esattamente nella proliferazione inarrestabile dei mondi singolari che si

580 Ivi, p. 255. 581 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 174. 582 Ibidem. 583 Ivi, p. 175. 584 Ivi, p. 176.

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manifesta la potenza infinita della Natura. "En se révélant dans une image singulière la

Nature s'exprime comme l'inépuisable foyer des possibles, le grand silence de Pan."585

La valorizzazione della soggettività non mira allora in alcun modo ad una

soggettività trascendentale; al contrario, è esattamente la singolare dispersione degli

individui ad essere l'obiettivo teorico. L'idea kantiana suggeriva a Dufrenne "un monde

impersonnel et objectif comme la raison elle-même, la promesse ou le voeu d'une

tonalité intelligible enfin conquise par l'entendement."586 Al contrario, la lettura estetica

del mondo, e la teoria della Natura, mirano a mettere a fuoco il dinamismo tuttaltro che

intellegibile della realtà: "l'irradiation d'une qualité affective, l'expérience pressante et

précaire où l'homme découvre un instant le sens de son destin, lorsqu'il est tout intier

engagé dans cette épreuve."587

Dufrenne parla allora del poeta e dell'artista, ma come tramite per mettere a fuoco

una vicenda decisamente extra artistica. Poetico è, infatti, l'essere stesso della Natura

che riguarda l'uomo in generale molto prima e molto più di quegli uomini particolari

che sono i poeti e gli artisti. La poesia diventa infatti il luogo che rende vivo e

manifesto, che esprime, la possibilità – disponibile universalmente – di frequentare gli

aspetti pre-concettuali dell'intelletto, "à mi-chemin entre le régime diurne du logos et le

régime nocturne de l'imagination."588 Lungi dal limitare il poetico ad una pratica

artistica, infatti, Dufrenne lo intende innanzitutto come la possibilità di entrare in

comunicazione con il fondo della Natura, con il suo essere poetico, attraverso quel

mondo che ci è dato da sentire: una possibilità di conoscenza, pour chacun de nous.589

585 Ibidem. 586 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, oggi in Esthétique et philosophie, cit. tome 1, p. 33. 587 Ibidem. 588 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 179. 589 Ivi, p. 180.

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3.3 Natura poetica ed Estetica

Abbiamo visto come il potere poetico della Natura, nei suoi legami con la

coscienza abbia condotto ad una valorizzazione della soggettività che consapevolmente

mira ad affrancarsi dall'idea trascendentale. Resta ancora da esplorare il versante

tipicamente artistico di cui, come abbiamo già intravisto, Dufrenne si serve ampiamente

nella sua indagine sull'umano. Relativamente alla Natura così come l'abbiamo descritta,

infatti, l'arte rivela un ruolo privilegiato e speciale, che gli oggetti estetici incarnano con

estrema fecondità.

L'essere poetico, che è poi, e Dufrenne lo dice chiaramente, l'espressività590 è

quell'elemento comune alla Natura e agli oggetti estetici così come lo stato poetico, che

è poi l'atteggiamento estetico, è quello condiviso da creatore e spettatore dell'opera.591

Se è chiaro che ogni singola apertura di mondo è una delle infinite possibilità di

apparizione dell'essere, si capisce allora anche in che senso ogni oggetto estetico, ogni

opera d'arte, sia un'imitazione della Natura. Imitazione, tuttavia, in un senso molto

diverso da quello tradizionale poichè ciò che della Natura viene riprodotto non è certo

l'aspetto formale bensì la consistenza espressiva, il fatto di essere Natura Naturata che è

un volto della Natura Naturante. Ogni oggetto estetico è espressivo in questo senso

come la Natura, cristallizzazione possibile e sempre in fieri di una potenza di fondo

inesauribile. Se l'arte imita la Natura sarà allora nel suo essere Abgrund, qualcosa di più

e di più originario di ciò che nel mondo è già concreto: Natura naturante, dove la

590 Ibidem. 591 In questo ritorno alla Natura così radicato nel piano estetico e che parte da concrete opere d’arte percepibili si riscontra un chiaro richiamo a Il visibile e l’invisibile di Merelau-Ponty dove allo stesso modo si tentava un ritorno ad un’ontologia (se non ad una filosofia della Natura) che comprendesse la consustanzialità di soggetto e oggetto. “Un ritorno verso un essere ‘selvaggio’, plesso di significati che l’uomo sempre di nuovo trae alla luce, physis dove originariamente gli uomini erano indivisi e in cui forse, dietro o sotto le scissure della nostra cultura acquisita continuano ad esserlo. Merleau-Ponty, poco prima della sua morte, affermava che la Natura ‘è l’essere dietro di noi’, mondo originario cui siamo carnalmente legati attraverso la nostra corporeità percipiente, fondo ontologico ‘che comprende tutte le possibilità ulteriori dell’esperienza’, ‘terra originaria’, ‘preoggetto’, comune Grund dove, come voleva Schelling, si incontrano il soggetto e l’oggetto.” (E. Franzini, op. cit., p. 378.)

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maiuscola ha molta importanza "perchè indica non solo l'esteriorità, ma l'anteriorità del

mondo in rapporto al soggetto; e significa anche l'energia dell'essere."592

La prima conseguenza teorica rilevante riguarda il tema del valore estetico

dell'oggetto (che è anche valore attribuibile alle cose del mondo in generale qualora

vengano afferrate secondo questa impostazione) e i modi in cui tale valore può essere

descritto. Non si può infatti in alcun modo giustificare più un'idea di valore formale.

Ogni singola opera d'arte, quindi ogni singolo oggetto, si rivela incarnazione di un

proprio specifico valore singolare. I valori estetici si trovano quindi moltiplicati

all'infinito, obbligando -e questo è senz'altro uno dei punti che Dufrenne stanno più a

cuore- ad abbandonare ogni ricerca di ordine formale per accettare invece di considerare

gli aspetti materiali, quelli sì davvero centrali, di "chaque essence singulière, donc

revenir au sens que propose chaque objet esthétique."593

Il valore estetico diventa allora qualcosa di molteplice, materiale e incarnato

riportandoci a riaggangiare il discorso sullo stile che più sopra avevamo lasciato in

sospeso contando di ritornarci. Il valore materiale riguarda infatti l'inseparabilità di

senso e segno nel contesto estetico, il loro sorgere simultaneo e autoproduttivo, ma

soprattutto l'inestricabile viluppo del senso in seno al sensibile. Nel manifestare la

potenza produttiva del senso, che artisticamente non si esaurisce mai in un segno

codificato, si apre come abbiamo visto il contatto con il fondo produttivo della Natura e

quello che viene espresso è dunque, in una qualità affettiva inesprimibile, la totalità

sintetica del mondo. L'estetico è allora un valore plurale e moltiplicato, afferabile

proprio in virtù di tale sua dispersione materiale.

Con questo approccio diventa insostenibile l'idea di concepire i valori estetici come

modelli esteriori all'oggetto per arrivare anzi all'estremo opposto e riconoscere gli

oggetti stessi come il loro valore estetico "en tant qu'il sont vraiment ce qu'ils prétendent

être"594. Il valore estetico sarà allora da identificare con l'oggetto medesimo, sarà ciò

che lo abita come suo principio e suo fine.

Questa concezione del valore investe a sua volta due aspetti.

592 M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 164. 593 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 31. 594 Ivi, p. 32.

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Il primo riguarda di nuovo il coté etico che abbiamo già visto fare capolino più

volte e sul quale Dufrenne finisce sempre con lo sboccare consentendo di afferrarlo

come uno dei suoi nodi teorici più personali. Se l'oggetto è il valore estetico, infatti,

creare oggetti significherà creare valori, con un notevole accrescimento dell'attenzione

da attribire all'impegno dell'individuo. "Créer le valeurs esthétiques, ce sera produire

des oeuvres nouvelles chargées d'un nouveau sens, initiatrices d'un nouveau style,

messagères d'un nouveau monde."595 Certo, questa lettura del valore può essere messa

in questione da chi neghi la possibilità che il valore sia creato; ma la posizione che

Dufrenne attribuisce alla dimensione del possibile all'interno della sua filosofia è uno

strumento efficace per rendere conto di questa "creazione del valore" che non è un

magico far apparire ma una dinamica di realizzazione sempre ben radicata nel reale.

Il secondo aspetto che questa lettura materiale del valore implica di considerare è,

di nuovo, il tema della soggettività (artistica) quale si è già prefigurato poco sopra.

Legato alla produzione di valore, letto in chiave profondamente sensibile e materiale, il

ruolo del soggetto richiede infatti di essere esplicitato, soprattutto in relazione alla

questione della verità.

Se si accetta, infatti, che ciò che si manifesta in un'opera sia quella particolare

espressione della Natura in rapporto a una singola soglia, si potrebbe essere tentati di

attribuire all'individuo un'attività di costituzione o di interpretazione del mondo. Ruoli

che Dufrenne rifiuta invece di riconoscere. La dinamica che nel suo pensiero resta

quella più esaustiva è la stessa che abbiamo già visto, improntata all'idea di ispirazione.

Con questa idea il meccanismo dello stile, come esistenza incarnata, presa di posizione

sul mondo, si arricchisce del connotato ontologico che il riferimento alla Natura

comporta. In questo modo soggetto e oggetto, uomo e mondo, si implicano a vicenda in

un contesto di scambi e mutazioni reciproci che esclude la costituzione degli oggetti da

parte di una coscienza come anche un'attività ermeneutica alla base del nostro rapporto

col mondo. Il contesto, nella dimensione materiale del valore, è molto più esistenziale

che ontologico, più estetico che artistico.

595 Ivi, p. 33.

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L'ispirazione è allora la figura che dà conto di come il mondo, "eterno personaggio

in cerca di autore"596, solleciti la paziente operazione dell'artista, dell'uomo, per apparire

e venire alla presenza.

Si capisce bene allora, nell'afferrare ogni opera come foyer di possibili e di verità,

come possa risultare instabile ogni tentativo di mettere a fuoco una verità. Ogni mondo

che si rivela in un'opera (ma ormai possiamo capire, in una vita) è portatore di una sua

propria verità, una delle tante possibili in quella sorgente di reale che è il Mondo della

Natura. È il gioco stesso della Natura a produrre e prodursi in una serie infinite di

singolarità, aperte ciascuna dall'incarnazione percettiva che, lo abbiamo già visto,

diventa infatti non a caso condizione dell'individuazione. Ma queste singolarità "ne sont

pas libres et nommables: elles s'investissent dans les choses, et surtout dans les

individus", e in questo senso, davvero e senza nessun relativismo: "chaqun son monde,

chaqun sa verité." 597

Così, se la verità non è un gioco di specchi, se ogni apparire è un'espressione

dell'essere, la verità stessa – che non ha più nulla di logico – confluisce nel regno delle

possibilità. Ogni singolarità è uno e uno solo dei "visages possibles" del mondo, e la

verità stessa condivide lo spazio con l'immaginazione. "Le possible ici – l'imaginaire –

atteste la force silencieuse du reél, la puissance du monde."598 Il possibile proiettato da

una singolarità sarà una verità del reale, non la prima né la sola ma neppure per questo

meno vera.

Ecco allora il destino della soggettività: "être au monde, c'est faire partie du

monde"599 e farne parte significa partecipare alla sua verità, perchè il mondo non è il-

mondo-senza-di-me più me, come scrive Dufrenne:

596 Ivi, p. 34. 597 Il riferimento esplicito da parte di Dufrenne è qui a Deleuze. Senza dubbio egli pensa alle singolarità in termini di avvenimenti, ma per Dufrenne in quanto eventi esse in qualche modo riguardano gli individui, senza però costituirli. “Le seul événement constituant, c’est celui qui constitue l’individu: la naissance. Et si, à claque perception, la naissance se démultiplie en renaissance? Oui, mais il y a bien une première naissance: l’individue est donné à lui-même une fois pour toutes, des événements ne cesseront de le’affecter, mais il aura une manière propre d’être affecté: son temps propre de cicatrisation, son style propre d’invention, comme son acuité propre de perception ou sa propre fantasmatique.” (M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 93.) 598 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 34. 599 Ibidem.

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Le monde n'est pas monde sans moi plus moi, et je ne suis pas l'autre du monde; j'existe à l'interieur de la corrélation dont je suis un des termes: il n'y a de monde que pour moi, mais je ne suis pas le monde; ce qui semblait naître de moi me donne naissance, l'idée kantienne revient à la nature, natura naturans; j'en reste pourtant l'indispensable et formel témoin.600

Ed ogni testimone è un possibile testimone di un possibile. È questo ruolo di

possibile testimone quello che l'artista, "subjectivité par excellence"601 incarna in

maniera specifica. Creare, infatti, è una maniera "éminente" di portare a compimento il

destino del soggetto, è uno dei modi privilegiati con cui il mondo, la Natura, si lascia

cogliere. È infatti sempre il mondo stesso, "cette puissance du possible interieur au

reél", l'abbiamo visto, a prender voce ed esigere la parola.

Come si configura quindi il mondo quale correlato della nostra frequentazione?

Esso si conferma in quanto entità che non è nascosta da qualche parte, in attesa di essere

scoperta; "il est là, infini sans cesse annoncé dans le fini, chose en soi chatoyante dans

chaque apparence, savoir présent dans chaque songe." Ed ogni cosa che l'arte, o la vita,

fissa annuncia il mondo come componente possibile, riflessa dalla coscienza estetica, di

questo reale "dont la signification est inépuisable." 602

La dicotomia adombrata da questa prospettiva è quella che angustia la filosofia

occidentale sin da Platone e da Aristotele, quella che oppone l’uno e il molteplice, il

particolare e l’universale, e che implica il problema di come il loro rapporto debba

essere inteso. Il generale, la Natura, parla sì di un invisibile, ma, diversamente da quello

platonico classico, non si configura come immateriale e sovrasensibile, coglibile solo

dall’intelletto. Con l’autore francese si ha, infatti, una lettura del generale come sempre

e solo concreto, dato sempre e solo nel particolare. Inoltre, il potere di coglierlo non è

appannaggio solo delle facoltà intellettuali grazie all’astrazione logica, poiché esso si

presta ad essere catturato in qualche modo anche dalla percezione, che anzi ne permette

l’incarnazione. È così possibile ritornare allo stile che si conferma come questa modalità

principale, nell’arte e nella vita, di realizzazione e manifestazione di questa generalità,

preconcettuale ma concreta.

600 Ibidem. 601 Ibidem. 602 Ivi, p. 35.

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È dunque nella stiftung della significazione, che avviene stilisticamente, che i due

estremi si riconciliano qui.603

Ogni uno, ogni opera d’arte, è quindi, un’onda con la sua schiuma di passato e la

sua cresta di avvenire, feconda di tutti i suoi concepibili effetti su qualsiasi spettatore

possibile e reale. È quanto si ritrova nella dialettica hegeliana mutuata e riconfigurata

nel fenomeno dell’espressione: “Un procedere che si crea da sé il suo corso e ritorna in

se stesso.”604 E proprio questo procedere espressivo dialettico, nell’intimità di ogni

espressione ad ogni espressione, implica “effettivamente la congiunzione

dell’individuale e dell’universale”605. Tutto ciò ripropone e riconferma l’estraneità di

ogni interpretazione solipsistica e psicologistica dall’intero percorso. Il mondo non è un

nostro costrutto, né della nostra ragione né della nostra fantasia, e neppure dei nostri

sensi. Il mondo percepito cade, infatti, sotto il dominio della nostra praxis

intersoggettiva, alla quale si offre congiuntamente al proprio significato, all’apparire del

senso che esso avrà per noi606.

La manifestazione, per quanto affettiva e non concettuale, di senso e verità ha

quindi la particolarità fondamentale di essere sempre “engagé dans le sensibile”607 che a

sua volta, anziché essere qualcosa che vada annullato e oltrepassato, rivela tutta la sua

radiosa portata.

Ogni apertura singolare incarnata da un artista, e dall’uomo in senso lato, è allora

sempre un modo diverso, ma concreto e sensibile, affettivamente orientato, di entrare in

rapporto con il mondo, “de saisir et de fixer un nouvel aspect du réel.”608

603 Questa relazione concreta tra l’uno e il molteplice è già stata formalizzata da Merleau-Ponty quando scrive: “Nella storia della pittura […] il predominio dell’uno sul molteplice non riassorbe la successione in una eternità, ma viceversa esige la successione, ne ha bisogno nel tempo stesso che la fonda come significazione.” (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 99.) 604 Ivi, p. 102. 605 Ivi, p. 103. 606 Si torna in questo modo alle considerazioni di apertura tratte da La fenomenologia della percezione: “Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. […] Il problema consiste allora […] nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del ‘reale’, nell’esplicitare la nostra idea del mondo come ciò che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo davvero un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. […] Noi siamo nella verità e la nostra esperienza è ‘l’esperienza della verità’. Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità.” (M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., pp. 25-26.) 607 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 35. 608 Ivi, p. 36.

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Eccoci dunque ricondotti al poetico come potere condiviso dall’artista e

dall’oggetto estetico, dall’uomo e dalla Natura. Con il Poetico Dufrenne intende render

conto dell’universalità dell’arte quanto fondarne l’oggettività, ad esso arriva ad

attribuire il fatto di essere “espressività di ogni espressione”609, condizione di possibilità

stessa di ogni apparizione del possibile. È così che arriva a rivendicare al poetico, come

potenza, il ruolo di categoria principale dell’estetica, “a priori des a priori

esthétiques”610 correlato della Natura che è a sua volta per lui l’a priori di ognuno degli

a priori che originariamente legano l’uomo al mondo.

Ogni categoria estetica, dal tragico al grottesco, sgorga sempre da quella categoria

fondamentale che è il poetico, inteso, come abbiamo visto, in senso molto più

ampiamente produttivo che letterario.

Il contesto poetico del mondo estetico si oppone per Dufrenne a quegli aspetti del

mondo che invece, ridotti a prosa semplice e piana, si presentano senza manifestare più

alcuna dinamica di espressività. L’universo della scienza è quella parte di mondo che,

benché utile e necessario ad una ovvia serie di competenze pratiche, non presenta per

Dufrenne alcun eco poetica. Non si tratta certo di dover scegliere tra poeti e scienziati,

né di voler escludere l’una o l’altra dimensione dalla propria analisi: si tratta

semplicemente di distinguere il poetico da ciò che poetico non è. Si tratta

semplicemente di mettere in evidenza, per differenza, come l’universo della scienza si

rivolga innanzitutto alla ragione, ben più che alla percezione e al sentimento; e come al

suo interno la percezione sia richiesta per registrare dati la cui interpretazione si rivolge

ad una prassi razionale e certo non a raccogliere un senso che faccia appello alla poesia.

“Mais en un sens plus précis le poétique est dans ce langage du monde une intonation

particulière. Il est la gloire de l’apparaître.”611 Su questa linea Dufrenne sceglie di

portare altri esempi che in qualche modo finiscono però per indebolire il suo

procedimento. Dire ad esempio che l’impressionismo sia più poetico del cubismo, sulla

base del fatto che rigore e austerità sono meno poetici di esuberanza e libertà, è forse

una concessione un po’ semplicistica a qualche forma di empirismo non del tutto 609 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 181. 610 Ibidem. 611 Ivi, p. 193.

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indispensabile. Quello che più conta, allora, non è tanto la descrizione dei modi in cui il

Poetico come categoria può incarnarsi, quanto piuttosto la messa a punto del ruolo che

esso gioca con il quale, abbiamo visto, è il possibile a legarsi profondamente con

l’Essere molto più che il reale.

Come categoria estetica, infatti, il Poetico riguarda proprio quell’apparire

dell’essere che è propriamente umano e che, proprio in virtù di tale sua caratteristica,

non cessa di far oscillare l’ontologia di Dufrenne verso una complessa antropologia:

“mais si l’on veut spécifier le poétique comme catégorie esthétique, c’est l’humanité de

l’apparaître qu’il faut alors invoquer: le poétique réside à la fois dans la générosité et

dans la bienveillance du sensibile.”612

Si rende allora ancora più esplicito quello che si è già visto emergere con la

dimensione di profondeur dell’oggetto estetico. Il potere dell’arte, in cui il poetico si

mostra come categoria persino esistenziale oltre che ontologica, è proprio quello di

manifestare questa potenza del mondo non come se esso fosse sempre lì, “il vecchio

stanco mondo” direbbe Dino Formaggio, in attesa solo di essere rappresentato, ma il

mondo nel suo instancabile e inarrestabile sorgere: “non l’apparence mais

l’apparaître.”613

Con una fertile tensione tra Spinoza e Schelling, Dufrenne mette a fuoco, con la

sua Natura naturante, l’idea di un fondo che è ben più di un fondamento. Nel fondo si

rivela, infatti, una potenza genealogica che nessun fondamento statico614 potrebbe

manifestare. Il coglimento di questo fondo, che resta radicalmente impensabile, si rivela

disponibile a quella modalità di pensiero non riflessiva che il sentimento dischiude. “È

questa potenza del fondo che l’arte si sforzerà di ridire.”615 Il potere dei poeti, che è

quello dell’arte e quello dell’uomo in quanto poieta è infatti quello di imitare la poesia

della Natura per, scrive Dufrenne, ricondurci “a quanto c’è di elementare negli elementi,

che non richiede una psicoanalisi, Bachelard l’ha capito, ma una fenomenologia

612 Ivi, p. 194. 613 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit. p. 145. 614 L’opposizione a quelle che Dufrenne addita come ontoteologie, incapaci di render conto proprio di questo potere poetico/poetico dell’Essere, è esplicitata e approfondita da Dufrenne nel saggio Pour une philosophie non théologique che egli aggiunge come prefazione alla seconda edizione de Le poétique. 615 M. Dufrenne, Inventare des a priori, cit. p. 71.

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dell’apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento irresistibile dell’apparizione,

l’insistenza dell’essere.”616 Tutta la pratica artistica, e con essa la pratica umana in senso

ampio, sfuggendo ad ogni possibile sistematizzazione, è allora testimonianza incarnata

di questa risalita costante verso l’originario che Dufrenne terrà ferma fino alla sua

ultima opera in cui leggeremo: “Le arti, forse, vivono proprio del tentativo di

completare questo movimento di avvicinamento.”617 La Natura come fondo genealogico

è quindi la sorgente inesauribile di tutta l’infinità non categorizzabile di possibili che

costituiscono il nostro mondo. Sono grandi immagini quasi archetipiche618 disponibili

per essere colte e dette al modo dell’arte, la quale risponde al linguaggio della Natura

stessa. Linguaggio in cui la potenza espressiva rimane in funzione, non ancora appiattita

dalla prosa informativa della scienza e della tecnica. È infatti il linguaggio, e quello

dell’arte e della poesia in particolare, “lo strumento dello scambio dell’uomo con

l’uomo e dell’uomo con se stesso” ma soprattutto “dell’uomo con il mondo, attraverso

la mediazione del segno analoga a quella dell’a priori che, insieme soggettivo e

oggettivo, è come un termine medio tra l’uomo e il mondo.”619 L’arte, il linguaggio del

poeta, l’espressione creatrice che abita il fare artistico, è allora il luogo in cui è data la

possibilità dell’apparizione di questa Natura madre, originaria e vitale, “infinita potenza

di Gaia sempre gravida di vita.”620

È in questo senso che Dufrenne può indicare nella Natura il luogo dell’a priori

primigenio all’interno del quale, quindi, “Il poetico può rivendicare di essere l’a priori

degli a priori estetici”621, in cui si radica la categoria che esprime il fondo, l’origine di

tutte le categorie affettive manifestabili dall’arte.

L’arte è allora quel luogo in cui il fare dell’uomo si rivela e conferma come quella

pratica che, proprio attraverso l’uomo, rinvia ad un poiein originario nel quale egli si

radica ed iscrive. Come categoria originaria dell’estetico il poetico dice molto più di

quanto l’estetica richiederebbe: esso conduce in un ambito nel quale la filosofia

616 Ibidem. 617 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 34. 618 Cfr. E. Franzini, op. cit., p. 378. 619 M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 71. 620 E. Franzini, op. cit., p. 379. 621 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 181.

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dell’azione diventa centrale, rappresentando una soglia non trascurabile tra estetica ed

etica, che per questo autore è subito anche politica. Soglia che tutto il percorso di

Dufrenne ha sempre frequentato con interesse e costanza. Con l’arte intesa come poiein,

e con il contesto genealogico nel quale la Natura la inserisce, si rende esplicita, infatti,

una lettura del fare umano come creativo ed irriducibile a qualcosa come un’esatta

realizzazione di un programma precedentemente scritto.622 L’abbiamo già visto

considerando la verità con cui il soggetto è in relazione, verità che si è confermata

percettiva e in costruzione; lo rivediamo con ancora maggior forza a questo punto,

riconoscendo alla dimensione pratica dischiusa dall’estetica una potenziale apertura

politica. Questa apertura è una sorta di punto di riferimento costante per l’autore, anche

quando le sue indagini sembrano focalizzate su aree differenti.623 È l’azione in generale,

non solo quella artistica, ad essere irriducibile ad ogni forma di sistema testimoniando

invece, ogni volta, un potere di avvicinamento all’originario che è anche riscoperta del

proprio potenziale essere naturante, quindi creativo, quindi sempre potenzialmente

aperto all’utopia, “poiché si tratta sempre, per l’individuo come per il gruppo, di

ritrovare il naturante sotto il naturato, cioè sotto ciò che il sistema sociale snatura.”624

Ogni azione creatrice in senso artistico o non conformista in senso sociale è

potenza poetica che spinge verso l’originario.625 L’originario diventa allora anche il

corrispettivo di una sorta di immaginario che attiva il desiderio del nuovo, artistico e 622 Su questo piano si inserisce anche la caratterizzazione che, proprio attraverso poetico e poesia, Dufrenne offre della filosofia. La poesia infatti, nel suo legame con la Natura, si mostra come l’espressione di un’esperienza che sfugge ogni riferimento a un sistema, anzi che è essa stessa ogni volta la sua propria rivelazione. “Et l’on comprend que la philosophie, lorsqu’elle renonce, non pas à la verité, mais à l’idée d’une vérité dogmatique énonçable, et qu’elle identifie la vérité au mouvement de la révélation plutôt qu’à son contenu, se tourne vers la poésie. Il faut en effet d’abord comprendre la poésie à partir de la philosophie, même si la poésie n’est pas philosophique, même si le poète ne sait pas qu’il est animé par un dessin comparable à celui du philosophe et qui prolonge la philosophie.” (M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 286) 623 Dufrenne esplicita questo aspetto ad esempio in Jalons quando riconosce a Sartre, con ammirazione, il fatto di aver manifestato con chiarezza l’inseparabilità di una filosofia autentica da una politica. 624 M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 316. 625 Resta il fatto, per Dufrenne poco felice, che la vocazione del soggetto suo contemporaneo sembra piuttosto quella di allontanarsi dai luoghi oscuri dell’origine, per affermarsi “en maitrisant l’objectivité par le savoir et la technique. En sacrifiant l’imaginaire au bénéfice d’une réalité décantée et manipulable. Regardez nos dirigeants: jamais l’imagination n’a été si loin du pouvoir. Jamais aussi une civilisation n’a autant ressemblé à un termitière. Peut être la praxis exige-t-elle pour son contenu cette sinistre ascèse. Mais pour ses motivations? Peut-être la praxis, et singulièrement la praxis politique, serait-elle plus efficace, moins morne en tout cas, si elle était animée par le rêve, ou par l’espérance. C’est peut-être, dans ce peuple de fourmis, ce qui privilégie ancore les savants: ils inventent, et pour inventer ils imaginent encore.” (M. Dufrenne, L’imaginaire, cit., p. 131.)

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politico. Gli uomini e le società si reinventano costantemente all’interno di pratiche mai

del tutto riconducibili a un modello; ogni arte (politica) è priva di sapere e saper fare

che possano regolarla, ma si basa soltanto su un’inesauribile potenza inventiva e, come

conclude L’inventaire des a priori: Bisogna che intervenga l’immaginario per ‘rinaturare’ il reale restituendogli l’aura di cui lo spoglia la rappresentazione; bisogna che il sentimento ci renda sensibili all’Essere bruto come focolare dei possibili: bisogna infine che gli a priori specifici del sentimento ci aprano alle qualità affettive attraverso le quali questo Essere si lascia presentire. Una filosofia dell’azione si appella a una filosofia della Natura.626

Parlando della pratica artistica Dufrenne parla allora anche, sempre, della pratica

politica. La loro analogia si basa proprio su quello che è stato chiamato “le risque de

l’inconnu”627 sul cui terreno le due pratiche si ricongiungono, proprio per il tentativo di

ridire quella potenza del fondo che abbiamo individuato. La figura dell’azione si

conferma allora quale segno sotto cui raccogliere l’arte e con essa la politica, attraverso

l’invenzione della vita e delle istituzioni: “la socialité a son fondement dans l’humanité,

et l’humanité dans la Nature. C’est l’expérience apriorique de ce fondement qui s’opère

dans la pratique utopique, quand le désir d’une société autre ranime l’expérience d’une

socialità originaire.”628 Etico, politico ed artistico attingono tutto il loro senso da questo

comune riferimento alla pratica, che a sua volta si richiama al naturante della Natura e a

tutto il virtuale629 e il possibile di cui essa è feconda.

Nell’avvicinamento della pratica artistica a quella politica che la teoria della Natura

consente a Dufrenne si può inserire, al fine di illustrarne ancora meglio le funzioni, una

terza esperienza differente, sulla quale Dufrenne torna in modi e momenti diversi. Si

tratta dell’esperienza del gioco. Il gioco umano ha per Dufrenne un senso profondo,

nella misura in cui con esso l’uomo imita il gioco della Natura, “il devient surhomme en 626 Ivi, p. 316. 627 Maryvonne Saison, Le matérialisme poétique et la puissance du fond, cit., p. 237. 628 M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 313. 629 Il virtuale si rivelerà categoria fondamentale all’interno dell’ultima opera di Dufrenne che, come vedremo, rappresenta un densissimo punto d’approdo e di rilanciamento per quanto esplorato sin qui.

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se laissant porter par la volontà de puissance qui le traverse, en mimant l’innocence et la

liberté de la vie.”630 È nel gioco che si può intravedere la figura che rende conto di quel

legame con l’irreale che per Dufrenne caratterizza la pratica artistica come quella

politica; legame creativo, innovativo e sempre rinnovantesi.

La Nature n’est pas le réel, lêtre reduit à sa plus simple expression par une pensée laborieuse et désenchantée, elle est la mère des possibles, de l’irréel comme du réel, de l’imaginaire comme des images par quoi elle se revèle. Ainsi l’homme qui joue avec le possible se dispose-t-il à pressentir la Nature.631

L’esperienza del gioco è una forma di esperienza senza concetto dove il

simbolismo dinamico di possibile e reale si manifesta con tutta la sua potenza nelle

manifestazioni della fantasia e dell’immaginario.632

È proprio il ruolo dell’immaginario, allora, quello che aiuta meglio a cogliere tanto

la Natura simbolizzata nel gioco quanto il fatto che questo gioco sia, innanzitutto ma

non solo, una questione di pertinenza dell’arte. Di fronte immagini, colte come

apparizioni della Natura prima e più che prodotti della ragione, il giocatore, cioè colui

che non rifuta di lasciarsi giocare633, sa cogliere l’evento prima del fatto naturato; sa

rapportarsi ad esso senza cedere alla tentazione, che invece appartiene all’uomo di

scienza e all’uomo comune, di cercare di interpretarle come effetti o come segni

incatenati al mondo della realtà. Il gioco condivide e mostra quella forza dell’arte che

abbiamo già visto essere imitazione dell’aspetto naturante della Natura, indifferente alle

sue già naturate individuazioni. Nelle immagini dell’arte e del gioco634 la Natura si

rivela doppiamente, “comme force du possible, comme éclat de l’apparaître.”635

630 M. Dufrenne, Le jeu et l’imaginaire, cit. p. 148. 631 Ibidem. 632 Il riferimento neanche troppo implicito di queste righe di Dufrenne è a Nietzsche, utilizzato però in forma forse più suggestiva che sostanziale. È il personaggio di Dioniso, con le caratteristiche di libertà che lo definiscono, a rappresentare il punto di contatto. Azione e passione diventano forme di quella duplicità della Natura su cui Dufrenne sta insistendo, e il gioco del culto è per lui esempio efficace di questa ambivalenza che lega il giocatore alla sua origine, il giocatore che sa di essere giocato “et tant pis s’il est pris au piège, s’il est dechiré par les Ménades!” (Ivi, p. 149.) 633 “Farsi giocare” in francese ha un senso simile al nostro “lasciarsi prendere in giro”, ma senza la componente di inganno e malignità che l’espressione italiana in qualche modo conserva. 634 La conclusione cui Dufrenne mira nell’accostare arte e gioco va oltre il piano del nostro discorso, arrivando ad investire un ambito esistenziale ed etico che egli ritrova nel contesto del lavoro. Se il gioco rappresenta quell’attività libera con cui, come nell’arte, l’uomo può riavvicinarsi alla Natura nella sua potenza, Dufrenne si chiede se noi siamo ancora capaci di giocare. Noi intesi come l’uomo

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Sotto questo segno si raccoglie di nuovo il poetico, tanto come forma di vita che

appartiene all’uomo – esercitata nell’arte, nel gioco, nella politica – quanto come

categoria estetica che, affondando in quell’humus originario che è la Natura, è

condizione di possibilità di ogni altra categoria estetica.

3.4 Materialismo poetico e trascendentale

In questa visione mitica e quasi romantica della Natura, che non a caso ha attirato a

Dufrenne alcune critiche636, restano ben radicati alcuni degli elementi chiave

dell’itinerario di pensiero di Dufrenne. Due in particolare rappresentano punti essenziali

e di rilievo del suo percorso.

contemporaneo, che lui ipotizza sconfitto da quelle che sembrano le nostre vittorie, e dal culto del lavoro. Nel lavoro che diventa un fine e non un mezzo, nell’alienazione del lavoro forzato (“et il ne l’est pas qu’au bagne”), l’uomo richiude la porta dei sogni e di se stesso, prendendo le distanze dal potere del fondo in cui, solo, egli potrebbe trovare la propria forza vitale. Le domande che chiudono la riflessione sono dense di suggestioni, strettamente legate all’aspetto politico che abbiamo richiamato più sopra, che vale la pena citare proprio perché caratterizzano l’uomo Dufrenne oltre che il filosofo: “Et sans doute l’homme ne devient-il adulte qu’en se soumettant au principe de realité. Mais lui faut-il pour autant faire son deuil de l’imaginaire et renoncer au jeu? Ne peut-on concevoir un travail qui serait jeu en même temps? L’artiste et le philosophe ont-ils le monopole de ce travail? Mais que devrait être une société pour que le travail de tous y soit jeu? Ne faudrait-il pas que la révolution y soit permanente? Et la révolution elle-même, pour préserver le jeu, peut-elle, doit-elle être jeu?” (Ivi, p. 150) 635 Ivi, p. 149. 636 Lo stato poetico descritto da Dufrenne è stato indicato come ispirato da un’idea di poesia “che sembra giustificata da una buona parte della poesia romantica” ma che è “difficile mantenere universalmente” (E. Casey, Le poétique, in “Revue d’esthétique”, 1966, n. 4, p. 318). Franzini stesso, che di Dufrenne si è occupato in Italia in modo specifico e quasi solitario, fa notare che: “Vi è nella Natura una dialettica che, dopo Feuerbach e Marx, non è riducibile alla sua romantica ‘poeticità’ o agli impulsi desideranti del surrealismo di Eluard. E vi sono nella poesia concetti, costruzioni, vera dialetticità con la filosofia che la Natura, naturante o naturata, rischia di portare, come accade anche in Maritain, su un piano mistico, confuso, inavvicinabile per il pensiero ed afferrabile da un sentimento che è in realtà vaga emozione senza un oggetto preciso.” (op. cit., p. 382) Un’altra delle debolezze imputabili al pensiero dell’originario di Dufrenne è stata sottolineata da M. Carbone che di Dufrenne scrive: “a ragione questi insiste sull’impossibilità di riattingere l’originario allorché l’intende quale ‘originario assoluto’ situato ‘al di qua della sua esplosione’ e quindi del pensiero e del linguaggio – un originario inevitabilmente posto a tergo come immediato irrimediabilmente perduto – ma finisce così per connotare quell’esplosione quale seconda anziché coessenziale all’originario stesso – l’originario non è tale se non esplodendo – e per gettare perciò sul pensiero e sul linguaggio un’ipoteca non emendabile quanto al pensarlo e al parlarne.” (M. Carbone, Il sensibile e l’eccedente, cit. p. 136.)

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Il primo è quello che possiamo considerare una forma di materialismo, poetico e

trascendentale, e che rappresenta uno dei punti più fecondi dei contributi di Dufrenne.

Nella visione della Natura come natura naturante, infatti, e nel suo correlato

poetico, si radica da una parte l’affermazione di un materialismo, come ciò che rinvia

alla natura, e, dall’altra parte, il rifiuto assoluto di ogni forma di naturalismo. Proprio la

natura, che è sempre poetica perché sempre naturante, incarna questa esigenza basilare

nel percorso di Dufrenne.637 Tutta la fenomenologia di Dufrenne è infatti basata su un

assunto materialistico che si traduce in quella cui lui si riferisce sempre come ad una

filosofia della presenza, presenza intesa, come è stato ben sintetizzato, come il porsi hic

et nunc del reale prodigo e imprevedibile, dono che non implica donatore, che non

richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell’uomo che abita questa

potenza.638 L’invocazione della Natura, all’ombra della presenza, assume un insieme di

significati che Dufrenne riassume suggerendo che forse non è senza importanza che una

filosofia della Natura – “de l’étant qui s’exprime” – dalla quale scaturiscono sia

un’Estetica che un’Etica si opponga a una filosofia dell’Essere, “qui est une philosophie

du Neutre”. Con la filosofia della Natura quello che viene caratterizzato in modo

specifico e importante è il soggetto, il quale esiste come trascendentale, ma

profondamente radicato nel mondo: “comme réciproque du monde et capable de le

produire à la coscience, parce que en même temps il est au monde, parce que il y a un

fait de son être-là.”639 Dufrenne si mantiene così ben a distanza tanto dal naturalismo

quanto dall’empirismo:

Si le sujet est constitué, c’est par le trascendental: il n’est pas le résultat d’une histoire, et l’histoire ne peut che faire apparaître ce transcendental. Autrement dit, c’est le transcendental qui est un fait, un fait premier sur lequel se fonde l’histoire des rapports de l’homme et du monde: par nature l’homme est accordé au monde, il connaît quelque chose du monde, le monde qu’il révèle se révèle comme ce qu’il connaît.640

637 Tanto che Maryvonne Saison è arrivata ad indicare proprio in questa teoria il nodo indispensabile per la comprensione del pensiero di Dufrenne sia in direzione retrospettiva che nei confronti dei lavori successivi al 1963. 638 E. Franzini, op. cit., p. 382. 639 M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 276. 640 Ibidem.

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Il secondo risvolto di questa filosofia della Natura è il difficile concetto di a priori

applicato all’esperienza poetica. Questa idea rappresenta per Dufrenne il cardine di uno

dei suoi interessi principali, articolato nei due punti inseparabili del lato dell’oggetto e

di quello del soggetto. Nel primo il senso eccede sempre le sue differenti incarnazioni,

che sono solo alcune reali di tutte quelle possibili. Dal lato del soggetto, ugualmente, vi

è sempre, sul piano dell’espressività, un’eccedenza rispetto a qualsiasi discorso logico

che volesse metterla a punto. Al di là, o meglio al di qua, come ha fatto giustamente

presente Paul Ricouer,641 di questa separazione “Mikel cherchait à rejoindre ce lieu

d’émergence, source des deux faces de l’a priori, ce nexus primordial entre l’homme et

le monde, cette affinità qu’il célébrait sous le nom de Nature.”642 Su questo concetto di

a priori che Dufrenne rilegge in chiave poetica, materiale ed esistenziale, si potrebbe

insistere senza mai esaurirlo. Il contributo fondamentale, tuttavia, e l’impostazione che

lo rende efficace al nostro percorso, riguardano il proposito essenziale che anima

l’autore e che consiste nel deformalizzare quell’a priori che da Kant abita la filosofia

occidentale per riafferrarne invece il carattere non logico di struttura intramondana che

solo l’esperienza e la vita possono trasmettere. È quanto la dinamica della Natura

naturante come egli la rivisita mette in scena: l’assenza di una dipendenza dell’a priori

dall’esperienza ma anche, al contempo, il suo esser privo di ogni primato nei suoi

confronti.

Con il poetico quale a priori di ogni a priori estetico emerge un’opposizione

essenziale. Il carattere poetico della Natura naturante, infatti, oppone la posizione di

Dufrenne a ogni forma di strutturalismo e neopositivismo scientifico. A questa

opposizione era dedicato in particolare Pour l’homme che mira proprio alla messa in

discussione del materialismo scientifico e di ogni discorso strutturalista. Tale lavoro,

apparso senza grande successo nel 1968, segna proprio l’inizio di quella opposizione,

che Dufrenne ha poi coltivato per tutta la vita, nei confronti della natura proposta dallo

strutturalismo nella quale si dissolve, a parere di Dufrenne, la storia concreta e del

641 P. Ricouer, In memoriam Mikel Dufrenne, in “Revue d’esthétique”, 1996, n. 30, p.13. 642 Ibidem.

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singolo individuo. Con Pour l’homme compare invece quella alternativa concezione del

materialismo su cui l’autore ha continuato ad insistere successivamente, secondo la

quale il terreno stesso della filosofia è da ricostruire sulla base di una centralità

dell’uomo come oggetto per eccellenza e solo oggetto che non può mai essere oggetto.

È l’uomo in quanto uomo che apre il mondo intero alla filosofia: La philosophie n’exige pas que l’homme soit mis entre parnthèse, ou pacé au service de quelque insane transcendante, et par exemple de la philosophie elle-même. Au contraire la philosophie ne garde son sens que si elle est le discours d’un homme qui s’addresse à des hommes et leur parle du monde et de l’homme.643

Ribadendo il ruolo e le possibilità della filosofia Dufrenne sta però soprattutto

ribadendo il ruolo e le possibilità dell’uomo; è proprio la soggettività “dans sa relation

au système”644 l’elemento che continua a rappresentare un problema per lui e che egli si

sente costantemente chiamato a rivedere e ricomprendere.

Senza scivolare neppure nel rischioso contraltare di sogiologismo o empirismo,

Dufrenne tiene fermo un costante obiettivo polemico: quel logocentrismo scientifico

che, dimentico del potere originario della parola poetica, pretende di identificare e

strutturare il reale secondo le proprie regole, all’interno di un universo chiuso che esso

stesso ha costruito. Il naturalismo del poeta è invece quella capacità di riaffondare nella

potenza del reale, per attingere innanzitutto e per lo più alla dimensione naturante della

Natura. Il privilegio che comunemente si accorda alla scienza deve restare immune da

una confusione letale: “il n’autorise pas la confusion du monde scientifique et de

l’univers, même si la science appelle univers le monde qu’elle élabore.”645 Per quanto la

scienza abbia presa sul reale, di esso controllerà sempre e solo una porzione definita, già

decontestualizzata e astratta dal fondo di potenza che invece la Natura apre, incarna e

rende possibile. Il reale dischiuso dalla scienza è contemporaneamente il più vicino e il

più lontano, il che non assicura affatto una reale conoscenza: “il est le monde de l’être-

au-monde, ce dans quoi on est – et la science aussi est au monde – et qui, précisément

643 M. Dufrenne, Pour l’homme, cit. p. 122-123. 644 Ivi, p. 123. 645 M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 244.

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parce qu’on est dedans, est toujours au-dehors.”646 La rappresentazione del mondo come

universo della scienza è allora proprio una rappresentazione perché esso non si dona

affatto come tale. “Le monde scientifique représente un effort pour traduire le monde en

univers, et c’est sa dignità, mais il n’est ni l’un ni l’autre, car le monde est donné en

deça dans les mondes, et l’univers comme verité du monde est toujours au delà.”647

Contrapporre il poetico della Natura al logocentrismo della scienza, e farlo su base

estetica, conduce quindi a caratterizzare anche il rapporto percettivo con il reale in

termini che vanno sempre rivisti e di cui è necessario render conto. Infatti, quello cui la

percezione ha accesso è quella porzione possibile di reale, ma la percezione ne coglie

anche la plénitude, che tuttavia si prospetta solo in forma di sentimento, “c’est-à-dire en

intension plutôt qu’en estension.”648 E in questo senso la percezione avrà sempre

accesso a un mondo e mai a il mondo.

Questa caratterizzazione del rapporto con il mondo sotto l’egida del possibile si

ammanta di una forma di apparente ambiguità, ma quello che viene in evidenza e che

per Dufrenne rappresenta uno degli snodi più fecondi parte proprio da qui: da questo

soggetto inteso come partecipante a una potenza di fondo di cui egli è depositario

privilegiato. Con tutte le ombre e le sfumature che un reale inteso “solo” come possibile

può comportare, si sottolinea però come ha scritto bene Ricoeur che “l’homme fait jeu

égal avec le monde” e che i due opposti sono legati da una forma di legame paritario di

cui Dufrenne parla esplicitamente in termini di ‘affinità’. Concetto apparentemente

sfuocato, l’affinità è invece altamente funzionale alla descrizione di un rapporto che per

Dufrenne sfugge completamente ogni logica, ogni dialettica e ogni sistema. Il

trascendentale stesso si configura come un fatto, e un fatto principale, come abbiamo

già visto, “sur le quel se fonde l’histoire des rapports de l’homme et du monde.”649

In questa affinità si radica un rapporto a priori con il mondo che qualifica

contemporaneamente l’oggetto e il soggetto. L’a priori che Dufrenne vuole mettere a

fuoco è una forma relazionale implicata dalla nozione di intenzionalità. “La rélation

entre le sujet et l’objet que dénote cette notion”, infatti, non presuppone solo che il

646 Ibidem. 647 Ibidem. 648 Ibidem. 649 Ivi, p. 276.

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soggetto si apra all’oggetto, “ou se transcende vers lui, mais ancore que quelque chose

de l’objet soit présent au sujet avant toute expérience, et qu’en rétour quelque chose du

sujet appartienne à la structure de l’objet antérieurement à tout projet du sujet.”650

Chiamato in causa proprio dalla teoria dell’intenzionalità, l’a priori serve ad indicare

quella forma di comunione e comunicazione tra l’uomo e il mondo in quanto soggetti e

oggetti incarnati, presenti, possibili e reali e non in quanto elementi teorici utili a

descrivere relazioni logiche. E se il mondo e il soggetto non sono estranei, come

abbiamo visto, alla dimensione del possibile e del poetico, non lo sarà neppure la

relazione dell’a priori che li lega. Se il possibile è potenza del reale, si ‘possibilizza’

anche l’a priori, che non sarà più struttura teorica indefinibile, ma variegata struttura

dell’esistente e dell’affettivo, “dans la mesure où il est constituant de certains objets ou

de certains mondes”, ma anche altrettanto nella misura in cui “il appartient au sujet et le

constitue comme transcendental.”651 La percezione del mondo, frammista di sentimento

e inerente un contesto precategoriale, dischiude quindi l’accesso a qualità materiali che

appartengono agli oggetti, in particolare estetici, costituendone la struttura espressiva.

Queste qualità sono a priori materiali, non formali come li avrebbe voluti Kant, che

ineriscono al sentimento e all’espressività dell’oggetto e che esprimono ‘dall’interno’ il

mondo affettivo del soggetto e dell’oggetto, radicandosi in essi come loro strutture

costitutive. La possibilità dell’esperienza esula allora da qualsiasi apparato logico di un

a priori puramente formale, per radicarsi invece in un a priori materiale (nel senso di

Husserl e Scheler) “che è insieme nel soggetto e nell’oggetto e che, in virtù di questa

duplicità, permette l’apertura dell’uomo al mondo e del mondo all’uomo come catena

infinita di possibilità.” 652

Così, ed è quello che a noi interessa maggiormente recepire e mettere in luce, a

costo di tralasciare altri aspetti non meno importanti ma qui meno essenziali della teoria

dufrenniana degli a priori, intenzionalità e a priori arrivano ad illuminarsi a vicenda

proprio sulla base della ineludibile e inesauribile storia di relazioni tra l’uomo e il

mondo.

650 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 60. 651 M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 245. 652 Cfr. E. Franzini, op. cit., p. 373.

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L’intentionnalité signifie donc que l’homme et le monde sont de la même race: la communication qu’elle con note se fonde sur une communauté. Elle a ainsi un sens ontologique, mais sans autoriser pour autant une ontologie, car elle n’implique pas nécessairement l’idée de l’Être comme d’une instance transcendante, d’un sens dont l’objet et le sujet seraient les phénomènes; elle suggère plutôt que le sujet et l’objet, parce qu’ils restent distincts au sein même de leur rapport et pour pouvoir le contracter, ne peuvent être subordonnés à un principe supérieur: la totalità qu’ils forment en vertu de leur affinità ne les engendre pas, le dualisme ne peut être résorbé dans un monismo, dialectique ou non. L’homme est au monde comme dans sa patrie, mais il n’y est pas comme un objet parmi d’autres; de même que l’objet esthétique est à la fois en-soi et pour-nous, le monde est pour lui et il est pour le monde: c’est parce qu’il est en quelque sorte égal au monde qu’il est aussi dans la vérité.653

Questa unità apriorica e intenzionalmente precategoriale dell’uomo e del mondo, la

quale si lascia mettere a fuoco al livello di un sentimento percettivo e immaginativo, è

quel superamento del dualismo che Dufrenne ha sempre di mira. Superamento che

avviene dunque al livello del sentimento il quale si lascia suscitare e trasmettere, nella

sua unità, proprio dalla parola poetica o da quella pratica umana che ne raccoglie le

caratteristiche poietiche.654

In questo a priori definito sì in termini materiali ma, elemento ancor più

importante, in termini relazionali, si situa uno degli snodi più densi del percorso di

Dufrenne. La sua ricerca di fondamento dell’uomo, benché a tratti indecisa tra

un’ontologia molto lontana dalla fenomenologia e interessi di stampo prettamente

antropologico, ha in questo punto uno dei suoi fondamenti essenziali. Il fondamento

stesso, l’origine, l’essere stesso forse, ma lo vedremo di nuovo più avanti, non sono da

ricercare né nella apparente fissità del mondo degli oggetti né nell’Io del soggetto che li

esperisce, costituisce o quant’altro. Al contrario, e in questo risiede il senso ontologico

dell’intenzionalità e del rapporto di affinità apriorica che lega oggetto e soggetto, il

fondamento risiede propriamente nella relazione: “le fondement n’est ni le monde ni le

sujet, il est l’accord de l’homme et du monde.”655

653 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 61 (corsivo mio). 654 Si può allora capire perchè Levinas, commentando proprio questo materialismo trascendentale, sia giunto a scrivere che “tout ce matérialisme transcendental n’est pas très matérialiste!” (E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris p. 186.) 655 M. Dufrenne, Jalons, cit., p. 211.

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Sulla base di quanto visto fin qui si tratta ora di capire quali sviluppi abbia avuto la

ricerca di Dufrenne e in quale direzione pieghi dunque la nostra. L’ambito di

riferimento sembra infatti caratterizzato secondo un’indagine di stampo ontologico ma

proprio su questo punto è necessario soffermarsi. È davvero un’interrogazione

dell’Essere quella che si è andata delineando? La proposta di Dufrenne, o il lato di essa

che ci interessa di più, sembra invece aprire in un’altra direzione. Direzione che

diventerà più chiara seguendo il suo ultimo lavoro, L’oeil et l’oreille. Molto più che a

una teoria dell’essere, infatti, l’indagine di Dufrenne si è orientata a una messa a fuoco

e messa in discussione del rapporto intenzionale tra l’uomo e il mondo perché se di un

essere si può parlare è per lui solo sulla base di questa relazione. L’ontologia di

Dufrenne raccoglie ed esaspera i caratteri antropologici ed esistenziali che già

l’ontologia di Merleau-Ponty aveva manifestato. L’obiettivo principale e condiviso

riguarda l’annullamento dell’alternativa tra soggetto e oggetto al fine di risalirne

all’indistinzione originaria che, benché sfugga sempre necessariamente a un suo

completo coglimento, rappresenta quella profondità inesauribile che sola può illuminare

il nostro rapporto con il mondo. Con Dufrenne questo obiettivo risulta potenziato, e

tutto il suo lavoro, in particolare nelle ultime opere, si concentra proprio sull’infinità

delle articolazioni di questo rapporto. “Du fond comme tel, nous ne pouvons rien dire

que sa métamorphose dans les figures avec lesquelles nous co-naissons.”656 Queste

figure che aprono il contatto con il fondo sono quelle dell’arte, la sola che può

manifestare l’originaria potenza poetica, ma più importante ancora è proprio che il

fondo come tale sia inafferrabile e che di esso si possa parlare solo in figura: proprio il

ricorso a figure, infatti, intese come immagini ma anche come metodologia filosofica,

costella tutto il procedere di Dufrenne. E persino l’Essere e l’ontologia che una parte

della sua meditazione sembra perseguire sembrano prestarsi in parte a questa lettura.

Che il percorso di Dufrenne sembri ontologico è quasi più una conseguenza formale,

animata dalla mira originaria che lo anima, che non un’istanza teorica. La

fenomenologia di Dufrenne diventa ontologia se e perché dalla percezione passa alla

vita intenzionale, sua base e fondamento: “Ainsi la phénoménologie est nécessairement 656 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit. p. 98.

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phénoménologie de la perception. Quand elle se fait phénoménologie de la

phénoménologie, quand elle s’interroge sur l’être de la vie intentionnelle à quoi elle se

découvre liée, elle devient ontologie.”657

Se c’è ricerca di fondamento ontologico allora, è nel senso di una ricerca molto più

orientata all’uomo che all’Essere, e il carattere poetico della Natura è proprio su questo

che in fondo insiste. “Le fondement, ce serait la Nature, non pas la Nature en-soi qui ne

porte pas le sens dont la science décide, mais la Nature dans son mouvement vers

l’homme, à la fois perçue et percevante, s’exprimant dans l’homme et par l’homme.”658

657 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 216. 658 Ivi, p. 217.

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CAPITOLO 4: L’OCCHIO E L’ORECCHIO

4.1 Il pittore e il soggetto sinestetico

L’opposizione, che abbiamo incontrato a più riprese, al pensiero riflessivo e al

naturalismo chiuso della scienza, con il suo logocentrismo che universalizza il mondo

senza poterne mettere a fuoco la componente poetica e potenziale, appartiene

fisiologicamente a tutta la tradizione fenomenologica, in Francia in particolare.

L’originarietà della vita percettiva configura tanto la descrizione dell’umano quanto una

riconsiderazione polemica, presente in Dufrenne quanto in Merleau-Ponty, della verità

scientifica e dell’atteggiamento che la consente. Recuperare il valore fungente

dell’operatività percettiva del corpo, accanto a quelli che sembrano sistemi incrollabili

di certezze scientifiche, significa ricollocare tutto l’umano su tale livello e riconoscere

quanto più problematico risulti quindi l’accesso alle strutture che lo regolano. Significa

inoltre configurare la verità, e le possibilità di accedervi, secondo uno schema specifico,

molto lontano dalla tradizione causalistica che, da Aristotele in poi, ha animato la

ricerca filosofica e scientifica occidentale.

Non è un caso, allora, che le due opere più mature e concluse di Dufrenne e di

Merleau-Ponty, L’occhio e l’orecchio e L’occhio e lo spirito, a cui il primo rappresenta

risposta puntuale, aprano considerando l’atteggiamento scientifico, “il pensiero allegro e

improvvisatore della scienza”659, e i meccanismi che esso attua, per opporvi due

proposte affini ma differenti, estremamente rappresentative dei pensieri dei due autori.

Vedremo, e sarà la conclusione del nostro lavoro, come sia proprio la figura della

sinestesia quella cui Dufrenne affida la propria risposta, nel tentativo di problematizzare

659 M. Merelau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 15.

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il piano estetico e fungente del nostro rapporto intenzionale al mondo ma anche con

l’obiettivo e il risultato di assottigliare le valenze ontologiche di questi temi per

riconfigurarli in un piano innanzitutto antropologico ed esistenziale.

Con il suo ultimo lavoro, Dufrenne sembra raccogliere e radicalizzare una

esortazione presente nelle prime pagine del lavoro del suo maestro: “Bisogna ritrovare il

corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni,

che è un intreccio di visione e movimento.”660 Il corpo che Dufrenne ha di mira, in parte

erede della proposta merlaupontiana, è un fascio ancor più complesso: “L’oeil oui, mais

pourquoi pas l’oreille, aussi bien la main?”661 Un intreccio sì di visione e movimento

ma ancor più di visione, tattilità e ascolto, un corpo da cui non è estranea neppure la

dimensione verbale.

Commentando esplicitamente lo scritto di Merleau-Ponty, Dufrenne prima e più

ancora di affrontare le complesse questioni teoretiche che lo attraversano,662 si

concentra su quanto va in scena nel titolo. L’occhio e lo spirito, le due entità coordinate,

si rivelano ben presto trattate in modo molto differente all’interno del testo. Se il primo

ritorna costantemente pagina dopo pagina, il secondo è raramente nominato, “car

l’esprit n’est pas un organe comme l’oeil, ni une substance qu’un substantif peut

désigner.”663 Altrove Dufrenne dirà che se Merleau-Ponty non lo nomina anche nel testo

“non è per dimenticanza, bensì perché lo cerca dove esso non ha nome.”664 A suo modo,

è sullo spirito come ‘ordine umano’ che egli vuole insistere, su quella dicotomia tra

pensare e vedere che il testo pontiano e tutta la filosofia di entrambi i filosofi ha

esplorato sistematicamente. Lo spirito è allora il luogo della divisione tra soggetto e

oggetto, che ha luogo nel pensiero; divisione che la visione introduce ma non consuma

del tutto. E proprio su questo dualismo, e sulle sue condizioni di possibilità, indagherà il 660 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 17. 661 M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, Conferenza tenuta a un Colloque Merleau-Ponty, organizzato dall’Università di New York a Stony Brook nel 1977, oggi in Esthetique et philosophie, cit. tome 3, p. 101. 662 Autoironico con disarmante serietà, Dufrenne introduce l’argomento così: “Un des derniers textes de Merleau-Ponty, peut-être le plus beau, dont Sartre a écrit: “Il y a L’oeil et l’esprit qui dit tout, pourvu qu’on sache le déchiffrer” (Temps modernes, n° Merleau-Ponty, p. 372). Le saurais-je? Plutôt que m’y risquer, je voudrai principalement commenter le titre même.” (Ibidem.) 663 Ibidem. 664 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 45.

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Dufrenne de L’occhio e l’orecchio, per cercare fin dal corpo stesso e dalle polivalenti

sensibilità che lo costituiscono, l’accesso al mondo precategoriale e preriflessivo.

Se L’occhio e lo spirito ci parla dunque dell’opposizione tra vedere e pensare, “ma

première interrogation porte sur le et. Que signifie cette conjonction?”665 Non un

rapporto dialettico, essendoci solo due termini; ma potrebbe trattarsi di un rapporto di

priorità, come tra causa ed effetto, o persino di un rapporto di complementarità, come

tra la forma e il contenuto? Dufrenne conosce l’opposizione seguita da Merleau-Ponty,

sa in che senso la visione preceda il pensiero. “L’homme voit avant de penser, et sans

doute vient-il à la pensée parce que la vision l’y provoque, ancore que Merleau-Ponty

ne suive pas cet avénement.”666 A questa prima notazione solo lievemente critica

Dufrenne ne aggiunge subito una seconda, che caratterizza la sua posizione lungo tutte

le teorie che abbiamo seguito fin qui. Il passaggio tra la vita irriflessa della visione e

quella del pensiero non ha in Merleau-Ponty alcuna caratterizzazione verbale, mentre

per Dufrenne il contesto del linguaggio resta sempre presente, come la definizione

poetica della Natura lasciava intendere. Questo riferimento al linguaggio, su cui egli

torna lungo i suoi lavoro come ne L’Occhio e l’orecchio, non è in realtà del tutto

articolato con rigorose motivazioni. Sembra più un’esigenza costantemente riproposta,

una consapevolezza ciclicamente mostrata, secondo quel rilancio di prospettive che

caratterizza – positivamente e negativamente – il percorso di questo filosofo.667 Resta

sempre presente, ed è comunque un altro debito nei confronti di Merleau-Ponty, il

linguaggio inteso nel suo senso originario, impegnato ad esprimere al di là delle

significazioni concrete, il nostro contatto muto con le cose, prima che esse siano dette. Il

linguaggio cui Dufrenne vuole dare spazio, tra l’occhio e lo spirito, è quel linguaggio

che la filosofia contemporanea gli ha insegnato essere mediazione.668 Se gli interessa il

linguaggio non è allora perché esso possa suscitare né chiarire il vedere, è piuttosto

665 M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit., p. 97. 666 Ibidem. 667 È stato già ragionevolmente notato che “Dufrenne è un filosofo, per così dire, sempre in presa diretta, poco incline, se non addirittura ostile, a ogni forma di decostruzionismo, al quale preferisci sempre e comunque il rilancio di prospettiva.” (C. Fontana, Prefazione all’edizione italiana de L’occhio e l’orecchio, cit. p. 19.)

668 “Merleau-Ponty n’invoque pas cette médiation, et c’est là l’ojection principale que lui addresse par exemple Lyotard.” (M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 98.)

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perché proprio la dinamica linguistica, nelle suo componenti poetiche, gli sembra

comprensibile come un vedere e in questo ulteriormente utile a quella descrizione del

rapporto intenzionale al mondo che egli persegue: “Mais en revanche peut-être le parler

peut-il se comprendre lui-même comme un voir: l’homme parlant est au langage comme

il est au monde, il s’accorde à son épaisseur comme à la chair du sensibile, il le vit en

l’habitant.”669 A questa considerazione del linguaggio Dufrenne resta fedele, tanto che

essa viene riproposta in forma esplicita all’interno de L’occhio e l’orecchio come

strumento utile al chiarimento della relazione che corre tra i sensi e il sensibile, tra

l’uomo e il mondo. Lì Dufrenne instaura una circolarità descrittiva tra il rapporto

intenzionale e il rapporto linguistico tra mondo parlato e uomo parlante che usa in

questo modo:

Certo il linguaggio preesiste all’uomo, la lingua all’individuo; ma è anche necessario che l’uomo, unico tra i viventi, sia capace di parlare, ed è la sua parola che anima il linguaggio e ne rivendica la padronanza: egli fa uso del linguaggio, ci gioca, istituisce dei giochi linguistici. Il suo divenire soggetto accade nel linguaggio, ma non discende esclusivamente da esso; e il volto che il mondo assume ai suoi occhi non è interamente determinato dalla lingua che egli parla; la ligua orienta e sollecita la sua percezione, ma sembra che essa sia, a sua volta, sollecitata dal percepito, come se le cose e gli eventi del mondo si nominassero di fronte a lui affinché lui li possa nominare, in maniera tale che, nella misura in cui la lingua preesiste all’individuo, essa non detenga questa priorità come un suo peculiare potere, vale a dire in forza del suo essere culturale, bensì in forza della natura stessa che chiama l’uomo al linguaggio per riflettersi nella parola dell’uomo; questo però non significa attribuire alla natura un potere assoluto né rimuovere il soggetto parlante rifiutandogli l’iniziativa della sua parola. La relazione di uomo e mondo all’interno del linguaggio si rivela piuttosto una sorta di simbiosi nella quale è impossibile attribuire a uno dei termini un’anteriorità o una preminenza.670

Questa corrispondenza linguistica, di cui Dufrenne tratta come se non necessitasse

alcuna chiarificazione perché già implicita nella sua impostazione poetica come in

quelle strutture significanti che abbiamo visto incarnate nell’oggetto estetico, viene

inserita nello stesso contesto del rapporto intenzionale che egli sta cercando di chiarire e

che, a suo parere, Merleau-Ponty ha esaurito senza l’apertura definitiva a un piano che 669 Ibidem. 670 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 54.

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esulasse quello delimitato dalla visione. È il suo modo di riportare tutti gli elementi che

lo interessano, compreso quello linguistico ma ancor più quello percettivo, sotto il

segno di quel rapporto affettivo e a priorico al mondo che egli indaga come unitario e

principale. Ne L’occhio e lo spirito questa dimensione non è presente, ma se Dufrenne

ritiene utile inserirla non è per indicare una mancanza, quanto per suggerire un’ipotesi

di ampliamento. La medesima solidarietà tra uomo parlante e mondo parlato unisce,

“senza che si possa scoprire tra di loro un’ineguaglianza”671 i sensi (tutti i sensi, nelle

loro commistioni con la vista) che costituiscono (tutti insieme) il soggetto aprendolo al

mondo e il sensibile che in quanto carne è disponibile per i sensi.

De L’occhio e lo spirito, e più in generale della lezione pontiana, Dufrenne tiene

fermi diversi punti di riferimento, ma più che di binari teorici si tratta di interrogazioni

che ne animano il percorso: il “regime selvaggio” della visione rimane il fondo da

investigare, e il suo correlato – artistico e umano – oggetto della ricerca.

Dell’interrogazione della pittura operata da Merleau-Ponty Dufrenne raccoglie

volentieri l’idea che nella pittura abbia luogo l’esplosione dell’originario, “le

surgissement de l’apparaître”, e che questo éclatement produca un chiasma che a sua

volta va indagato. Nella filosofia di Dufrenne precipita tutto il vigore di questa

interrogazione con il senso e la consapevolezza che proprio l’apparire instauri una

distanza tra l’uomo e le cose, dualismo che simultaneamente viene realizzato, “mais

sans que leur séparation soit jamais radicale”.672 Che la questione dell’origine sia

ineludibile è certezza che l’ha accompagnato per tutta la vita e che il confronto con

L’occhio e lo spirito non fa che riconfermare; ma la risposta di Merleau-Ponty rimane

ancorata a una forma di certezza ontologica che l’ultimo Dufrenne non può far sua.

La pittura presa di mira da Merleau-Ponty, nella sua adesione quasi totale alla

dimensione del visibile, “risveglia, porta alla sua estrema potenza un delirio che è la

visione stessa, perché vedere è avere a distanza, e la pittura estende questo bizzarro

possesso a tutti gli aspetti dell’Essere”673; essa apre su una trama dell’Essere “di cui i

messaggi sensoriali discreti sono solo le interpunzioni o le cesure, e che l’occhio abita 671 Ibidem. 672 M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 100. 673 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 23.

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come l’uomo la sua casa.”674 È questa dimensione che invece Dufrenne ha di mira, ed è

il carattere sensoriale di questo messaggio che egli pone a tema poiché, ed è forse qui

uno dei suoi meriti maggiori, la simbolicità della pittura, dell’arte, ma anche

potenzialmente delle cose in generale, non è da cercare in un fondo ontologico

inaccessibile ma nella problematicità stessa nel nostro rapporto, intenzionale e

percettivo, con il mondo. Il soggetto de L’occhio e lo spirito è il pittore, “l’unico ad

avere diritto di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle”, di fronte al quale

perdono il loro potere “le parole d’ordine ‘conoscenza’ e ‘azione’”.675 Per Dufrenne, che

fedelmente persegue, al fine di descriverne una possibile assenza, l’opposizione alle

parole d’ordine di ‘conoscenza’ e ‘azione’, tale soggetto è meno specificamente

caratterizzato. Il soggetto, al di fuori di conoscenza e azione, è innanzitutto, “un oeil et

une oreille qui s’ouvrent, un creux dans le sensibile, où la coleur et le son se

recueillent.”676 Cambia pertanto in modo sostanziale il referente teorico che incarna il

soggetto che si ha di mira e che la definizione di esso come creux, letteralmente ansa,

conca, specifica in maniera estremamente significativa. “À chercher l’esprit comme être

separé, comme âme voltigeante, on ne le trouvera nulle part; mais à chercher l’âme

comme forme du corps, on la trouve.”677 Con L’Occhio e l’orecchio, Dufrenne

radicalizza la sua posizione: se l’arte è utile, lo è come strumento attraverso cui si rende

manifesta quella duplicità essenziale che è innanzitutto nel e dell’uomo in quanto corpo.

Se si vuole interrogare l’originario e le sue manifestazioni sensibili, sarà necessario

svuotarlo di contenuti ontologici perché è su un altro piano che si metterà a fuoco quello

che davvero gli importa. “Trouvez le corps individué, la machine sentante et désirante,

chair co-naturelle à la chair du monde, et vous aurez bientôt l’homme.”678

Si potrebbe addirittura ipotizzare, con sincero timore di eccedere in libertà

interpretativa, che il ruolo che Merleau-Ponty attribuisce alla pittura, e di conseguenza

al pittore, slitti in Dufrenne alla sinestesia, e di conseguenza al soggetto percipiente. Il

soggetto come creux in cui si condensa il sensibile, la sua costitutiva apertura al

possibile, all’immaginario e a quello che vedremo tra poco come virtuale, sembrano i 674 Ivi, p. 24. 675 Ivi, p. 16. 676 M. Dufrenne, Le jour se lève, in Esthétique et philosophie, cit. tome 3, p. 204. 677 Ivi, p. 205. 678 Ibidem.

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luoghi in cui precipita quello che ne L’occhio e lo spirito era il potere della pittura:

“Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile: la pittura confonde

tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di

rassomiglianze efficaci, di significazioni mute.”679 Il soggetto della percezione

sinestesica è la proposta dufrenniana per illustrare questo soggetto che non è (ancora)

soggetto grammaticale né soggetto di diritto, il quale vive i paraggi dell’originario e sa

perdersi nell’oggetto “come nel grembo del naturante dal quale non sarebbe ancora

nato.”680 Che di esso Dufrenne arrivi a parlare come di un soggetto che “può anche

essere definito soggetto ontologico” ci spinge ancor più in là nella prospettiva che

abbiamo introdotto: l’accesso all’Essere, qualora esistesse, non è appannaggio di una

pratica artistica, ma diventa con Dufrenne accesso incarnato, vissuto, articolato

nell’infinita dispersione percettiva che è il corpo umano.

I soggetti sinestesici sono come i pittori che, ne L’occhio e lo spirito, hanno

sovente amato raffigurare se stessi nell’atto di dipingere, “aggiungendo a quel che allora

vedevano ciò che le cose vedevano di loro, come a testimoniare che esiste una visione

totale e assoluta, al di fuori della quale niente rimane, e che si richiude su loro stessi.”681

Il soggetto sinestesico sarebbe allora molto meno il pittore che si autoritrae che non il

pittore ritratto, colui che nel suo essere guardato dalle cose all’interno di una visione (e

non è più solo visione) totale si può afferrare solo in figura; colui del quale si può

parlare solo ex post.

È al livello del soggetto sinestesico che si rivela come la genesi del senso solo “à

ras de l’homme”682 possa attivarsi. Il livello originario della sinestesia, così come

Dufrenne lo intende, investe tanto l’attività percipiente del soggetto quanto il suo

apporto immaginativo; su questa duplicità, che benché radicata nel corpo sa

oltrepassarlo, si costruisce il senso del soggetto sinestesico e la sua stretta vicinanza con

il soggetto del pittore che aveva in mente Merleau-Ponty. Quello che Dufrenne ha di

mira, in un’ottica di ripensamento pontiano in grado di esplicitarne il portato universale,

679 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 28. 680 M. Dufrenne, L’occhio e lo spirito, cit. p. 135. 681 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 28. 682 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208.

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è quella “base di natura disumana su cui l’uomo si colloca”683 e che rappresenta quel

Tutto indivisibile da cui ogni separazione successiva prende avvio. Per renderne conto

sarebbe opportuno mirare al pre-estetico, a quell’unità primordiale che precede la

dispersione percettiva, ma, e Dufrenne ne è più che consapevole: “è il sinestetico e non

il pre-estetico che il pensiero può cogliere.”684

Il soggetto sinestetico è dunque la figura del punto zero in cui la percezione

primordiale si apre e manifesta al quale le cose del mondo si presentano innanzitutto

abitate e vissute e per il quale esse rappresentano il centro da cui i sensi stessi si

irradiano. Nel soggetto sinestetico sembra rivivere con forza e significati precisi quel

pittore incarnato dal Cézanne di Merleau-Ponty: colui che ha sempre voluto “rimettere

l’intelligenza, le scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo che esse

sono destinate a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienza

‘che ne sono scaturite’.”685 Il soggetto sinestetico è allora colui che vive ciò che il

Cézanne di Merleau-Ponty metteva in arte: la non scelta tra sensazione e pensiero,

l’adesione totale alle cose “dietro l’atmosfera” a un livello primordiale cui tutto il resto

è secondo. Il soggetto sinestetico è colui che vive ciò che nell’arte di Cézanne veniva

evocato, cioè l’ordine nascente delle cose che, da un fondo inarticolato, si coagulano

sotto i nostri occhi. Entrambe le figure pongono a tema le certezze dell’ambiente in cui

viviamo, quelle cose di cui siamo abituati a pensare come necessarie e incrollabili: in

loro si invera quella visione che “va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita.”686

Ecco allora che nel soggetto sinestetico si raccoglie e manifeste di nuovo il senso

espressivo della frequentazione del mondo. Il pittore di Merleau-Ponty “riprende e

converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita

separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”687;

il soggetto sinestetico abita questa vibrazione, è colui nel quale questa genesi stessa ha

realmente e originariamente luogo. Colui del quale la figura del pittore è neccessaria

683 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 35. 684 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 131. 685 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 32. 686 Ivi, p. 35. 687 Ivi, p. 36.

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incarnazione seconda, poiché in quanto sinestetico egli non può avere coscienza di

quanto accade. 688

4.2 Il mondo del tangibile

Si esplicita in questa dimensione l’ineludibile valore che con Dufrenne e la sua idea

di sinestesia si attribuisce alla sfera del tangibile. Toccare significa essere prossimi alle

cose, averle intorno, e da queste reciprocamente essere toccati. Il carattere reversibile

della visibilità assume con la dimensione tattile un’estensione in cui si manifesta,

fortificata, la carnalità del mondo e del suo senso. “Così il tangibile riveste i caratteri del

sensibile, sotto gli indici dei quali la carne si esperisce nella presenza.”689 Il tatto è quel

senso cui si presta tradizionalmente minor attenzione, ma che per Dufrenne incarna un

asse fondamentale del rapporto uomo-mondo. Di più, nella dimensione tattile – “dalla

quale, tra l’altro, avremmo potuto cominciare”690 – si raccoglie il senso fondamentale

del rapporto verticale che correla l’uomo e il mondo; rapporto fatto di ombre e

sfumature, di sopravanzamenti che annullano, o quanto meno indeboliscono, la rigidità

di ogni dualismo. Lo abbiamo già visto nel capitolo dedicato alla sensibilité

généralisatrice, ma lo ritroviamo in forma ancora più esplicita nell’ultima opera

dell’autore, a testimonianza di una instancabile forma di interrogazione del reale molto

coerente e decisa, la difesa della tattilità fa parte delle posizioni di Dufrenne lungo tutto

il suo percorso. Ma cosa motiva una tale insistenza?

È nel tatto, secondo Dufrenne, che si manifesta con maggior forza, la dinamica di

scambio e reazione che caratterizza il contatto dell’uomo e del mondo; mondo inteso

come fondo naturale e, nel senso che abbiamo già visto, poetico. Il primato del tatto

688 Cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e…, cit. p. 49. “La visione del pittore non è più uno sguardo su un di fuori, relazione meramente fisico-ottica col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile e il quadro, infine, può rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere anzitutto ‘autofigurativo’; può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo ‘spettacolo di niente’, perforando ‘la pelle delle cose’ per mostrare come le cose si fanno cose e il mondo mondo.” 689 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 117. 690 Ivi, p. 114.

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deriva sì da considerazioni di carattere filogenetico (“per la filogenesi il tatto è

certamente il primo tra i sensi”691), ma rinvia anche a caratteristiche primarie della

frequentazione del mondo:

Essere al mondo significa essere a contatto, cosa tra le cose, toccante e insieme, toccato. Il tatto è il culmine della prossimità e mi rende prossimo al mondo, giacchè manifesta al meglio quella reversibilità secondo la quale la mia carne è innestata sulla carne del mondo: io non tocco le cose se non nella misura in cui esse mi toccano, ed esse hanno spesso l’iniziativa; mi capita di essere toccato pur non volendolo, senza nemmeno sentirmi attivamente toccante. Le cose non sono, dunque, tangibili, se non nella misura in cui lo sono io stesso. Siamo di sicuro della stessa specie. È proprio da quel fondo di co-naturalità che io emergo.

E ancora, certo l’ontogenesi stessa riconferma tale primato (“il bambino non è forse

quel tocca-tutto che deve essere costantemente sorvegliato?”692), ma di nuovo non è su

questo piano che a Dufrenne interessa insistere. Il tatto del bambino incarna in maniera

empirica ed esplicita la potenzialità estrema di questo senso: potenzialità che investe il

possedere l’esterno prima e più che il conoscerlo. Nella ricerca di seno da parte del

neonato vi è più la richiesta di un oggetto confortante accanto al nutrimento del latte che

non la semplice soddisfazione di un bisogno specifico. Egli cerca “meno un oggetto da

conoscere che un oggetto da possedere per esserne posseduto, per ritrovare l’estasi.”693

È proprio questo che interessa a Dufrenne, aldilà delle implicazioni infantili: la

caratteristica di estasi e possesso che può riguardare un senso. Il fatto che il senso della

tattilità possa rappresentare anche, accanto ad un organo di esplorazione del mondo

esterno, la soglia di un’interiorizzazione che ingloba l’esterno per esserne a sua volta

inglobato in una dinamica di riconoscimento del mondo ma anche si se stessi. È nel

tatto che si dà la massima possibilità percettiva dell’esperienza di sé. È toccando le cose

che non sono me che posso, mentre ne esperisco le caratteristiche di ruvidità e

consistenza, fare esperienza anche di me: “un me toccante, distinto e insieme solidale

con il me toccato, con il quale si identifica, senza con ciò che si possa dire quale sia

691 Ibidem 692 Ibidem. 693 Ivi, p. 115.

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l’oggetto per l’altro nella misura in cui il toccare è tanto passione quanto azione, in

maniera tale che l’autoposizione e l’autoaffezione, in questo caso coincidano.”694

Al tatto appartiene quella che Dufrenne chiama una “familiarità congenita”,

descritta in termini di azione spesso inconsapevole svolta dal corpo tutto intero; il tatto

non ha neppure un organo specializzato, investe tutta la superficie dell’organismo, “ed è

appunto quando si evoca tale funzione che è possibile parlare di un corpo senz’organi o

di un corpo tutto organo, tutto aperto al sensibile.”695

Torna nuovamente un parallelismo, che sottolinea una differente posizione, con le

indagini de L’occhio e lo spirito di Merleau-Ponty. Lì, come del resto altrove e sovente

nell’opera del filosofo, la reversibilità e il rapporto attivo-passivo di un senso con le

cose riguardava principalmente la visibilità. È nel mondo della visibilità che egli colloca

in maniera importante sia la reversibilità che il potere delle cose di esercitare un certo

senso su di noi. I pittori che ricorda Merleau-Ponty sono coloro che spesso hanno detto

di sentirsi “guardati dalle cose”696. Ancora, è nel dominio della visibilità che si giocano

alcune delle massime contraddizioni del “tentativo” e del “fallimento” cartesiano.

L’esempio pontiano, che la trattazione del tatto di Dufrenne richiama alla memoria

anche se forse senza rimando esplicito e voluto, è quello dello specchio. Davanti allo

specchio il filosofo avverte tutta la potenza dell’enigma della visione, con la sua

ubiquità e il suo simbolismo. Il cartesiano, al contrario, “non si vede nello specchio,

vede un manichino, un ‘fuori’ e ha tutte le ragioni di pensare che gli altri lo vedano allo

stesso modo, ma questo manichino non è carne, né per lui né per gli altri.”697 Lo

specchio, invece, emblema dello sguardo pre-umano del pittore, è la figura dell’essere

vedente-visibile, perché “esiste una riflessività del sensibile che esso traduce e

raddoppia.”698 Lo specchio di Merleau-Ponty condivide con il tatto di Dufrenne una

forma di magia, esso infatti “è lo strumento di una magia universale che trasforma le

cose in spettacoli e gli spettacoli in cose, me stesso nell’altro e l’altro in me stesso.”699

694 Ivi, p. 114. 695 Ivi, p. 115. 696 “E André Marchant, dopo Klee: ‘Più volte in una foresta ho sentito che non ero io a guardare la foresta. Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano…Io ero là, in ascolto.” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e…, cit. p. 26.) 697 Ivi, p. 30. 698 Ibidem. 699 Ibidem.

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Più difficile ma non impossibile sarebbe però per un cartesiano opporsi alla “magia” del

tatto. Il contrasto però è il medesimo, quello che oppone colui che coglie il rapporto col

reale, sia esso visivo, tattile o sinestetico, come un rapporto problematico e sempre in

fieri a colui che, come ad esempio Cartesio, rifiuta per principio ogni promiscuità tra

visibile e vedente, toccabile e toccante. La concezione carnale che Merleau-Ponty ha

della visibilità e Dufrenne persegue nella tattilità è proprio l’opposto di quel giudizio

che, facendo di ogni dualismo i propri rigidi binari, interpreta con meccanicità il

rapporto del corpo al mondo secondo una schema di riflessi interpretati come effetti

prevedibili e fisiologicamente descrivibili.

È probabilmente ovvio ma bene specificare che né Dufrenne né Merlau-Ponty

immaginano di negare gli aspetti fisici e fisiologici della percezione. Quello che

entrambi questionano, e che per Dufrenne diventa cardine ancora più importante, è la

riduzione di ogni descrizione a questo piano meccanico ed effettuale, tutto concentrato

sugli effetti e totalmente ignaro delle implicazioni umane e metafisiche che il rapporto

uomo-mondo esige. La percezione, per entrambi gli autori, è esperienza molto più densa

e ambigua di quanto il meccanicismo consenta di presupporre e proprio in questa

ambiguità si radicano le caratteristiche dell’umano e del suo senso. In questa ottica,

quello che si dispiega di fronte ai nostri occhi, o per meglio dire intorno ai nostri sensi,

non è mai puramente un oggetto, ma un fondo, e come tale pluridimensionale, verticale,

orizzontale ma anche obliquo, qualcosa che si può indagare seconde le rigide coordinate

di spazio e tempo ma anche, e con non minore efficacia, secondo le prospettive

aconcettuali che di tali coordinate conoscono il punto zero.

Su questa lettura del mondo come fondo prima che come oggetto si concentra,

come abbiamo già visto a più riprese, il percorso filosofico di Dufrenne. Quello che non

abbiamo ancora visto, e che solo ne L’occhio e l’orecchio viene esplicitato in modo

importante, è il distanziamento dell’autore da una lettura di questo fondo in termini

ontologici come vedremo emergere nelle pagine che seguono.

Il mondo come fondo è il mondo del soggetto sinestetico e dell’artista, riappropiato

al di là del suo essere puro Gegen-stand e riconfigurato a partire dal punto zero -di

tempo e di spazio- che solo l’individuo è. Dufrenne parla di mondo del tangibile, per

descrivere con forza le caratteristiche inglobanti di cui è passibile il fondo. Certo, per il

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vedente che può tenere le cose a distanza questo mondo può rimanere spesso nascosto

sotto il visibile. Ma il tangibile “fa mondo” non meno del visibile, pur rappresentando

questa un’esperienza limite che solo una condizione di cecità consente di comprendere

davvero. Il mondo del tangibile è anzi ancora più simbolico di quella coestensione che

implica carnalmente l’uomo e il mondo. Se la visibilità di principio ha il contraltare di

una notte nera e l’udibilità fa sì che il silenzio appartenga in qualche modo al rumore,

invocare una tangibilità generalizzata di principio induce a riconoscervi l’assenza di

lacune: “Non c’è lacuna nel tessuto del tangibile equivalente al silenzio o alla notte.

Non c’è nulla che sia di diritto intoccabile.”700

Di questa immersione totale nel fondo del mondo il soggetto è protagonista

assoluto e della originaria apertura su questo fondo unico detentore. Di questa sua

caratteristica di originaria apertura creativa l’artista mostra la figura più densa come ha

ben mostrato Merleau-Ponty dedicando alcune delle sue pagine più memorabili proprio

alla descrizione del pittore come “più umano tra gli umani” il cui emblema è uno

“sguardo pre-umano”. Dufrenne conosce il ruolo dell’arte in questa risalita verso

l’originario, ne riconosce il senso e rispetta il ruolo. Non a caso tutto L’occhio e

l’orecchio è un dialogo aperto con le forme d’arte più varie, chiamate in causa a dire il

vero anche quando non sembra essercene ragione assoluta. E anche parlando del tatto

l’autore sceglie di metterlo in relazione con una forma d’arte; ma non lo fa scomodando

la scultura e il piacere tattile, quasi sempre istituzionalmente negato, cui essa a volte ci

chiama. La scelta di Dufrenne è più originale, e significativa. L’arte legata al tatto è

quella pratica che fu arte ai tempi di Ovidio, in un epoca in cui essa (l’arte) “non si era

ancora gelosamente definita per ottenere uno statuto privilegiato.”701 L’autore si sta

riferendo all’erotismo, “un’arte propriamente popolare che non è, grazie a Dio, riservata

a specialisti o a geni, che ciascuno reinventa per proprio conto con esiti più o meno

felici.”702 L’arte erotica è quella forma d’arte che “ha come materia prima la carne”,

intesa in senso propriamente pontiano: “carne di un corpo che è tutto zona erogena,

700 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 116. 701 Ivi, p. 117. 702 Da distinguere naturalmente dalla pornografia, che al contrario è “sistema di ricette precostituite.” (Ibidem)

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carne che si esperisce illimitandosi nel dono che offre e insieme che riceve.”703 Intesa

come arte quella dell’erotismo implica e mette in scena in maniera evidente la

spersonalizzazione di cui è passabile il corpo umano, una forma di “reversibilità per

antonomasia”704 che ne investe il corpo nella sua interezza e un sopravanzamento di

attività e passività i cui contorni si disperdono: “infatti la mano o la bocca che si fanno

strumenti della carezza, ispirate (quando quest’ultima non sia il gesto indifferente di una

tecnica professionale) da ciò che le si dona e che le suscita, non si appartengono più, la

loro attività diviene passività e la passione dell’uno suscita quella dell’altro.”705 In

questa dinamica in cui la reversibilità raggiunge il suo apice si intravede, nella

descrizione di Dufrenne, la struttura che caratterizza le interazioni carnali del nostro

corpo con il mondo, fatte di reciprocità, attività che è anche passività e conseguente

riavvicinamento all’originario, “mentre la pelle è ciò che vi è di più profondo, giacché

nutre l’esperienza del fondo nel quale il soggetto si perde.”706 Nel momento in cui il

sensibile giunge a questo suo culmine tangibile esso assurge al livello di sensuale,

“merita di chiamarsi sensuale.”707

Con questa analisi del tangibile relativamente a sensualità ed erotismo Dufrenne sta

dicendo qualcosa di molto più importante che non un semplice riferimento alla sfera

erotica dell’esistenza. Innanzitutto, richiamando il carattere di Arte di questa

dimensione egli prende posizione contro la considerazione dell’arte (pittorica, scultorea

ecc.) come unica depositaria della possibilità dell’uomo di avvicinarsi all’originario.

Richiamado l’erotismo come Arte egli sottolinea la dimensione artistica che sottende la

vita di ogni uomo, a prescindere dal suo essere un artista; egli ribadisce il ruolo della

corporeità, innanzitutto e soprattutto, nel fungere da soglia principale per l’originario,

soglia comune e disponibile per ogni individuo. Il contesto erotico è, inoltre, un

contesto caratterizzato da una strutturale apertura intersoggettiva; apertura che la

reversibilità del tatto che vi viene esercitata manifesta con estrema puntualità. Certo, la

considerazione artistica dell’erotismo rientra nella riabilitazione del tatto in un contesto

artistico, nella consapevolezza che le arti tradizionali non sembrano riservare grande 703 Ibidem. 704 Ibidem. 705 Ibidem. 706 Ivi, p. 118. 707 Ibidem.

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spazio al tatto. Ma quello che più interessa a Dufrenne non è una retrograda

classificazione delle arti in base al senso con cui comunicano, bensì il reperimento del

nucleo originario del corpo all’interno della sfera corporea medesima. In altre parole,

con la riabilitazione del tatto l’autore mira a una considerazione globale della

sensibilità, nei cinque sensi in cui si articola: cinque sensi che un’accezione sensuale del

sensibile chiama in causa con una potenza che nessuna considerazione artistica o

pittorica potrebbe fare.

È in una dimensione memore del portato tattile dell’esperienza, nella

consapevolezza del corpo come luogo zero di scambi che si vogliono intersoggettivi e

reciproci, che si può intravedere quel corpo che interessa a Dufrenne: un corpo che non

è lo strumento dei cinque sensi, ma loro depositario.708 Questo permette di considerare

ogni cosa, tutto il mondo, con lo spazio e il tempo che lo scandiscono, proprio a partire

da questo sempre diverso punto-zero corporeo che mai vive il mondo secondo il suo

involucro interiore ma sempre vi è inglobato. “Dopotutto”, come diceva Merlau-Ponty,

“il mondo è intorno a me, non di fronte a me.”709 E proprio su questa immersione del

soggetto nel mondo Dufrenne insiste, indicandovi la condizione principale della

possibilità di cogliere il fondo originario come qualcosa di sempre vissuto

immediatamente, prima e oltre che percepito.

L’occhio e l’orecchio allora, come risposta decisa e decisiva, evocata da un corpo

che è sì abitato dallo spirito, ma è innanzitutto e per lo più corpo, e come tale vissuto e

indagato. Ecco allora che l’arte erotica diventa importante proprio in quanto arte,

indebolendo quel primato snobistico che attribuisce all’arte un potere che sembra

lontano dall’uomo che vive. È il tatto il senso che dischiude l’accesso all’esperienza

corporea e intercorporea, e solo attraverso il tatto è dato prefigurare quell’insieme

organico e organicamente connesso al mondo che è il corpo. Riconoscere al tatto un

dominio artistico, e nel senso poco artistico dell’erotismo, significa allora riconoscergli

un ruolo fondamentale, cardine, in quell’esperienza di mondo che si vuole totale,

donatrice di senso e lontana da una concezione scientifica del corpo del quale invece si

riconosce, ed esalta, al contrario il carattere dinamico e genealogico.

708 Come del resto già scriveva Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito, cit. p. 42. 709 Ibidem.

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La considerazione artistica dell’erotismo ci chiarisce, tra l’altro, un’ulteriore

posizione dell’autore: quella che riguarda la pratica dell’arte. A questa Dufrenne sembra

rimproverare una frammentazione incontrollata e sottomessa a pressioni di tipo più

sociale che culturale. Scrive: “il concetto di arte si frantuma sotto la pressione del

moltiplicarsi delle pratiche e dell’interferenza dei generi”, come a dire che la

differenziazione pratica finisce col discostare il fare artistico, come chi lo compie, dal

suo più autentico senso, finendo, proprio in virtù di questa specializzazione col rendere

l’arte qualcosa di “gelosamente definito per ottenere uno statuto privilegiato.” Se l’arte

erotica “non è, grazie a Dio, riservata a specialisti o a geni” 710, proprio in quel grazie a

Dio si rivela il senso di oppressione e vuoto che una pratica artistica avulsa dalla

corporeità e dall’umanità finisce con l’incarnare.

Se l’arte è più che un dato e un prodotto dell’uomo, ma rappresenta operativamente

quello che il corpo fa nella sua frequentazione del mondo, si spiega perché non sia tanto

secondario per Dufrenne concedere all’erotismo lo statuto di arte. Così facendo, è

possibile continuare ad occuparsi di arte, sia essa pittura, scultura o anche performance,

con la consapevolezza che si tratta sempre e in maniera molto rilevante di uno schema

umano, importante in quanto umano prima e più che in quanto artistico.

Con l’apertura all’erotismo in quanto arte Dufrenne ha quindi esplicitato in un

certo senso la propria posizione rispetto all’arte medesima, esortandoci a seguirlo là

dove l’arte è gesto, progetto e dinamica vissuta a scapito di quelli che, per quanto seri,

non sono altro che oggetti, prodotti e cristallizzazioni di quella progettualità originaria e

genealogica che il corpo è.

Solo a questa condizione, e non in virtù di qualche magica caratteristica intrinseca,

l’arte merita l’ernorme considerazione che le indagini di Dufrenne, come di Merlau-

Ponty e altri, le hanno concesso.

710 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 117.

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4.3 Un soggetto immaginario

Abbiamo visto come, per seguire Dufrenne nelle sue analisi sulla sinestesia

mantenendole vicine all’arte, sia necessario riafferrare l’arte stessa come pratica

genealogica e produttiva, diagramma corporeo, prima di identificarla con gli oggetti che

essa produce. Questo consente di comprendere in che senso l’arte sia importante,

proprio come figura altamente simbolica di tale pratica corporea, così come in che senso

il corpo possa agire quale punto zero di una produzione di senso che da esso poi si

separa.

Molte delle considerazioni del Dufrenne de L’occhio e l’orecchio, lo abbiamo

detto, sono una risposta puntuale al Merleau-Ponty de L’occhio e lo spirito. E proprio a

questa risposta il primo sembra affidare i punti di maggiore distacco, con il risultato di

rimarcare la propria autonomia filosofica proprio a partire da domande comuni.

Intimamente legata a quanto detto fin qui è una pagina pontiana, che merita di

essere letta con attenzione:

Qui il corpo non è più strumento della vista e del tatto, ma loro depositario. I nostri organi non sono affatto strumenti, semmai sono i nostri strumenti ad essere degli organi aggiunti. Lo spazio non è più quello di cui ci parla la Dioptrique, un reticolo di relazioni fra gli oggetti, come lo vedrebbe un testimone della mia visione o un geometra che la ricostruisse sorvolandola, ma è uno spazio considerato a partire da me come punto o grado zero della spazialità. E non lo vedo secondo il suo involucro esteriore, lo vivo dall’interno, vi sono inglobato. Dopotutto il mondo è intorno a me, non di fronte a me. La luce viene riscoperta come azione a distanza, e non più ridotta all’azione di contatto, ossia concepita come potrebbe essere da coloro che non vedono. La visione riacquista il suo fondamentale potere di manifestare, di mostrare più che se stessa. E poiché ci dicono che un po’ di inchiostro basta per farci vedere foreste e tempeste, bisogna che la visione abbia il suo immaginario. La sua trascendenza non è più delegata a uno spirito lettore che decifra gli impatti della luce-cosa sul cervello, e che potrebbe esercitare questa funzione anche se non avesse mai abitato un corpo. Non si tratta più di parlare dello spazio e della luce, bensì di far parlare lo spazio e la luce esistenti. Interrogazione senza fine, poiché la visione, a cui essa è rivolta, è anch’essa interrogazione. Tutte le ricerche che credevamo concluse si riaprono. Che cosa sono la profondità, la luce, τι το ον? Che cosa sono, non per uno spirito che si isoli dal corpo, ma per quello spirito che come disse Cartesio, è diffuso per tutto il corpo? E che cosa sono, infine, non solamente per lo spirito, ma per se stesse, dal momento che ci attraversano, ci inglobano?

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È questa filosofia ancora tutta da fare, che anima il pittore, non quando egli esprime le sue opinioni sul mondo, ma nell’istante in cui la sua visione si fa gesto, quando dirà Cézanne, egli “pensa in pittura”.711

È questa filosofia ‘ancora tutta da fare’ che anima Dufrenne che proprio

raccogliendo e rilanciando questi interrogativi sviluppa la propria sinestesia. In

particolare, quell’immaginario che qui si suggerisce appartenere alla visione diventa con

Dufrenne una struttura cardine della sinestesia che, a sua volta, si rivela una

commistione di percezione e immaginazione. La sinestesia diventa il luogo in cui

figurare la correlazione tra tutti gli elementi che, proprio a partire dal corpo, articolano

la realtà; proprio questa correlazione è quella che permette di afferrare l’unità della

carne “prima della sua differenziazione e di avvicinarci all’idea dell’originario al di qua

della sua esplosione.”712 Questa differenziazione accentua in Dufrenne il proprio

carattere estetico; se con Merleau-Ponty lo spirito ha in tutto questo un ruolo

importante, Dufrenne preferisce assestarsi là dove, come abbiamo appena letto nella

citazione, lo spirito è diffuso in tutto il corpo.

Questo significa ribadire l’assenza di elementi concettuali e di pensiero da questa

sfera per concentrarsi invece sul luogo in cui essi stessi emergono: quello strato

originario, che sarà chiamato carne, in cui il sentire emerge. Si ripresenta su questo

piano l’opposizione programmatica alle impostazioni della scienza:

Nel corpo-oggetto, vale a dire nell’organismo differenziato, è la carne che bisognerebbe ritrovare ma la scienza non lo consente. Quest’ultima affronta sì il problema del molteplice, studia la solidarietà tra gli organi, le procedure che regolano l’equilibrio del tutto e che assicurano il suo funzionamento, infatti è attraverso questo funzionamento che il tutto si esperisce. La scienza ha pensato l’organismo come macchina, mentre oggi lo pensa come sistema, ma ciò non significa ancora pensare la carne, tanto meno quando si studia questo sistema come sotto-sistema inscritto in un sistema più ampio, l’essere al mondo del soggetto incarnato.713

711 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. pp. 42-43. 712 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 121. 713 Ivi, p. 131.

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Proprio contro questa sistematizzazione del corpo prende allora posizione il

pensiero di Dufrenne. Continuando il parallelismo tra il pittore di Merleau-Ponty e il

soggetto sinestetico potremmo dire che a questo soggetto ne L’occhio e l’orecchio è

dato di “far parlare lo spazio e la luce esistenti”, di agire il proprio pensiero prima che

esso sia tale. Così come nell’erotismo accade ciò che l’arte poi ripresenta: un’adesione

immediata all’altro da sé, che è fusione orgasmica, tattile e aconcettuale. Persino il

corpo dell’altro ci indica una totalità sinestetica e sinergica che, al pari di un’opera

d’arte, è coinvolto nella sua totalità da ciascuna delle sue posture.714

Ma c’è di più. Se il pittore cui si riferisce Merleau-Ponty è colui la cui visione si fa

gesto e che, dicendola con Cézanne, “pensa in pittura” anche nel corpo sinestetico c’è

un’importante riferimento al contesto del pensare, al contesto riflessivo e allo scarto che

esso introduce nella frequentazione del mondo. In fondo è proprio sull’esistenza di

questo piano concettuale e sul ribadirne la non esclusività che, abbiamo già visto, con

queste riflessioni si torna ampiamente. L’originario assoluto non è coglibile, come già

detto, “nulla ci può venire in aiuto a proposito di un originario assoluto, sciolto da ogni

pensiero, poiché per poterlo pensare, avremmo bisogno di un non-pensiero o di un pre-

pensiero”715, tuttavia è proprio nel corpo e nella sua commistione sinestetica al mondo

che tale pensiero stesso si genera. In una circolarità importante, che la scienza ignora

completamente, il pensiero ha origine in una profonda corporeità che proprio nel

momento in cui lo origina si ritrova definitivamente allontanata dalla propria origine.

“Infatti, è dell’essere e non dell’esperire – del vissuto e non del vivere – che si può

sondare lo spessore e intuire il fondo.”716 L’apertura produttiva di pensiero all’interno

del corpo, pensiero che solo a posteriori sarà tale e diventerà verbalizzabile, condivide

con il pittore una forma di creatività o, meglio, immaginazione che ne rappresenta la

risorsa caratteristica. Questo significa cogliere e ribadire nella percezione, e in generale

nell’adesione sentimentale, precategoriale, aconcettuale al mondo da parte del corpo, la

soglia a partire da cui tutto il resto si articola e concettualizza. Ma Dufrenne va oltre. La

sua posizione sembra raccogliere e superare i due binari, che cita, di Straus e Merleau-

Ponty. La psicologia del primo, nel sottolineare l’irriducibilità del biologico al fisico, 714 Ibidem. 715 Ivi, p. 125. 716 Ivi, p. 129.

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“descrive la relazione vitale del vivente al proprio ambiente, l’Einfulung animale,

l’animalità primigenia dell’Einfulung”; mentre la fenomenologia del secondo si spinge

verso la costituzione di un’ontologia, “guardando all’essere bruto che si rivela come

carne, il naturante in cui si originano al contempo il mondo e l’essere al mondo.”717 La

cosa che sembra maggiormente stargli a cuore è l’asse delle sovrapposizioni (Merleau-

Ponty li chiamava sopravanzamenti) che costituiscono l’umano; asse che egli vuole

situare e rafforzare principalmente all’interno dell’umano anche quando essi implicano

aperture verso il mondo esterno.

I punti che articolano questo principale interesse di Dufrenne sono due. Il primo

riguarda il concetto del virtuale, dell’immaginazione immanente al percepito che apre il

percepito stesso a qualcosa che esula il rapporto con il corpo. Il secondo fa parte delle

conclusioni non solo del suo lavoro ma di tutta la sua vita ed è il punto relativo al

carattere non ontologico dei sopravanzamenti che costituiscono i rapporti stratificati tra

il corpo umano e tutte le altre dimensioni che lo riguardano. Dopo aver dedicato lunghe

indagini, di cui abbiamo visto l’orizzonte ontologico, al concetto di Natura, Dufrenne si

assesta infatti su una posizione che di esso tiene ferme le caratteristiche e l’importanza,

spostandone tuttavia il livello d’azione completamente all’interno dell’umano e

precisamente del suo corpo.

Se non è un oggetto ciò di cui egli è in cerca, ma il fondo, L’occhio e l’orecchio

sembra compiere quello che il suo autore aveva già indicato come progetto di ricerca

nelle sue pagine dedicate a Merleau-Ponty: il pensare l’accordo dell’uomo e del mondo

attraverso una filosofia capace di congiungere filosofia della Coscienza e filosofia della

Natura.718 La filosofia della Natura si rivela anzi un’impresa impossibile da conseguire

proprio perché il mondo è mondo solo nella sua relazione dialettica all’uomo.

Vediamo ora come egli tratta il tema del virtuale, che è ancora tema percettivo e

discorso sull’immaginazione; tema artistico ma soprattutto umano. La definizione di

virtuale rappresenta per Dufrenne la condizione imprescindibile perché sia possibile

parlare di immaginazione nel contesto della percezione. “L’immaginazione”, infatti, “è

717 Ivi, p. 130. 718 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 221.

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strettamente legata a questa percezione nella misura in cui si definisca l’immaginario

mediante il virtuale.”719 Quell’immaginazione che abbiamo già visto nel capitolo

dedicato alla sensibilté généralisatrice torna nell’ultimo lavoro di Dufrenne con un

ruolo e una forza ancora più espliciti. Nella sua lettura, infatti, una percezione “limitata

al solo registo sensoriale”720 è condannata a una forma di insicurezza. Attraverso

l’intervento dell’immaginazione, di un’immaginazione che abbiamo già visto è “meno

potere di associare che potere di aprirsi e di comunicare, di lasciare che il sentito

riecheggi nel senziente”721, la percezione stessa si ritrova potenziata e arricchita. Senza

concedere all’immaginazione un anarchico potere associativo, Dufrenne la legge in

stretta relazione con il mondo percepito, “essa restituisce all’oggetto presente la sua

pienezza, si direbbe anche la sua aura, nel momento in cui consacra il reale come

surreale.”722 Cosa significa allora questo reale consacrato come surreale? Esso mostra

quella caratteristica del reale su cui insiste tutta l’opera di Dufrenne, coerentemente con

la tradizione da cui discende: un reale cui non è mai del tutto estranea la dimensione del

“come se”, dell’analogia e della modificazione. Tale idea è strettamente connessa alla

sfera della percezione intesa come sinestesia, nella quale con Dufrenne si vuole mettere

in luce e ribadire l’impossibilità di immobilizzare i dati e farne astrazioni poiché è

sempre necessario, come già scriveva Bergson che Dufrenne certamente conosce,

riconoscerne il movimento, un certo ritmo, la ‘durata’. È in questo senso che Dufrenne

può attribuire all’oggetto la capacità di permetterci di esperire “l’affinità di quel diverso

che lo costituisce come oggetto determinato.”723

Prendendo le distanze da quella corrente di pensiero che, ad esempio con Sartre,

vedevano percezione e immaginazione come due atteggiamenti irriducibili della

coscienza, che si escludono a vicenda, Dufrenne preferisce portare avanti l’idea

opposta: quella che di percezione e immaginazione riconosce l’interazione in una forma

di rapporto con il mondo che dialetticamente unisce tutte le modalità della coscienza

sotto il segno del corpo. È nella presenza del soggetto che l’oggetto può espandersi fino

a riguardare aspetti non del tutto piani e semplici. “Una simile espansione dell’oggetto 719 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 133. 720 Ibidem. 721 Ivi, p. 134. 722 Ivi, p. 133. 723 Ibidem.

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richiede la pienezza della mia presenza; io mi lascio fare dall’oggetto, lascio che il mio

corpo si affidi a esso come sinergico, come tutto-organo, ricco della sua cultura, carne

che comunica con la carne dell’oggetto, con l’oggetto come carne.”724 Ed è proprio

attraverso l’appello dei sensi che avviene l’appello all’immaginazione, in un gioco di

sopravanzamenti dell’attività umana che difficilmente si prestano ad una analisi

definitiva. È in questo senso che Dufrenne può specificare quanto lontana sia questa

immaginazione “aderente al percepito” dalla fantasia, che è invece “la madre dei

fantasmi e dei sogni, potere d’errare e di deviare”725. Il problema che ruota intorno al

ruolo dell’immaginario nel percepito non riguarda la capacità, per quanto meravigliosa,

di creare fantasie e irrealtà. Al contrario, con questo tema Dufrenne si assesta con

coerenza in quella prospettiva fenomenologica per la quale, come ha già puntualizzato

Dino Formaggio, “l’oggetto, non può, non può più, consistere in una solida esistenza in

sé posta ed affermata (oltre che costituita) da uno spirito che è ogni spirito e da un Io

che è ogni io.”726 In quest’ottica si rivela una forma di relatività degli oggetti rispetto ai

molteplici io che con essi si relazionano, “l’oggetto non è mai solo, l’io non è mai tutto

con se stesso. Tutto entra in sistemi a più variabili relazioni.”727 L’intervento

dell’immaginazione non è appannaggio esclusivo della percezione quando essa incontri

oggetti estetici, al contrario, esso non cessa di essere presente per Dufrenne a tutti i

livelli del commercio estetico con il mondo. Tuttavia, è quasi ovvio, di fronte a quegli

oggetti il cui senso è costitutivamente in fieri tale ruolo si presenta con maggior

pienezza. Che vi sia un’immaginazione al lavoro durante la lettura di un’opera poetica è

cosa esplicitata, almeno da Bachelard in poi.728 Nella prospettiva che da lui deriva la

lettura dell’opera avviene secondo una forma di époché, come sospensione del reale e 724 Ibidem. 725 Ibidem. 726 D. Formaggio, Appunti sull’oggetto immaginario, in "Fenomenologia e scienze dell' uomo", n. 1, 1985, p. 5. 727 Ivi, p. 6. 728 E infatti è proprio a Bachelard il riferimento di Dufrenne in queste pagine. “È comprensibile che questa immaginazione aderente alla percezione sia del tutto differente dalla fantasia, la madre dei fantami e dei sogni, questo potere d’errare, di deviare, di delirare secondo associazioni arbitrarie. Per corroborare questa differenza si potrebbe ricorrere all’opposizione, sottolineata da Bachelard, tra sogno [rêve] e fantasticheria [rêverie], cogito notturno e cogito diurno; il lettore bachelardiano di poesie si abbandona alla fantasticheria senza sprofondare nel sonno, quando sono le parole a sognare, quando, invece di abbandonarsi agli azzardi di costellazioni psicologiche, si lascia ispirare dalla poesia stessa. Oggi si parla volentieri di iconicità; è in generale, dell’iconicità del linguaggio che si tratta e, più precisamente, dell’opera scritta, romanzo o poesia.” (M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. pp. 133-134.)

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apertura all’immaginario. La posizione di Dufrenne però, mira ad un allargamento della

possibilità di questa prospettiva non solo ad opere che non siano letterarie ma anche agli

oggetti in generale, investendo pertanto un tipo di relazione al mondo più ampio rispetto

a quello voluto dal contesto artistico. Per Dufrenne, infatti, non è soltanto all’opera

letteraria, ma anche all’oggetto, sia esso plastico o musicale, che si deve attribuire

l’iconicità e, “più in generale, quando la percezione è sinestesia, all’oggetto percepito,

gravido di virtuale, grazie a cui si manifesta pienamente nella totalità dei suoi

aspetti.”729 Se le parole, in poesia, possono sognare, anche le cose del mondo possono

farlo. E la condizione di possibilità di questo sognare non è nelle cose ma nel soggetto,

che deve essere “veramente in contatto con quelle cose.”730 Questo contatto profondo

non riguarda ovviamente nulla di mistico; si tratta della conseguenza coerente di quella

dinamica poetica che abbiamo visto può animare il rapporto tra soggetto e oggetto.

L’immaginario come virtuale, infatti, non è qualcosa che il soggetto aggiunge

all’oggetto per così dire dal di fuori, esso “è chiamato in causa dal reale che lo abita.”731

Ancora una volta il soggetto sinestetico condivide una posizione con il pittore di

Merleau-Ponty, che non aggiunge nulla di surrettizio dall’esterno ma si limita in un

certo senso a raccogliere ciò che le cose volevano dire. Il rapporto col mondo si

arricchisce, con l’apertura all’immaginario, di una descrizione efficace dei molteplici

piani che lo caratterizzano, perfettamente in sintonia con quell’opposizione agli schemi

rigidi della scienza da cui siamo partiti in questo capitolo.

Il rapporto con i fenomeni è allora un rapporto ondeggiante, e non per questo meno

fecondo, del quale è bene riconoscere la ricchezza a scapito della chiarezza definitiva.

Ogni io percettivo correlato ad un oggetto dà vita ad un agglomerato ogni volta diverso.

Questi agglomerati, nelle parole efficaci di Formaggio, “costituiscono centri egologici e

oggettuali momentanei”, di volta in volta instabili e mutevoli nel tempo, sempre in via

di trasformazione. In tutto questo ondeggiare fenomenico, dove il puro fenomeno

trionfa senza più un sopra, un sotto, o altro che non sia il puro fenomenico,

l’apparizione dell’adirivieni dinamico delle apparizioni, si deve dire che entra

costitutivamente in base a permanenze più o meno fisse (ma mai del tutto stabili, una 729 Ivi, p. 134. 730 Ibidem. 731 Ibidem.

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volta per sempre), di diritto il sensibile, l’estetico, l’immaginazione, l’immaginario, in

tutto o in parte per legame con altre parti, sempre di nuovo.732

In questa connessione, variamente articolata e sempre sfumata, alla moltitudine

degli io qualcuno potrebbe leggere un’inclinazione insostenibile verso psicologismo e

soggettivismo. Al contrario, Dufrenne è ben lontano dall’attribuire al soggetto capacità

demiurgiche o da varie propensioni allo psicologismo della teoria associazionista. Il suo

è un soggetto che è sì immerso nella molteplicità dei soggetti, ma che in tale

molteplicità vive con la forza dell’adesione a un fondo originario. In questo senso il

soggetto sinestetico è un soggetto ontologico, “esso tende a ritornare nei paraggi

dell’originario, a perdersi nell’oggetto come nel grembo del naturante dal quale non

sarebbe ancora nato”.733 Il soggetto può essere ontologico oltre che sinestetico proprio

perché il fondamento è radicato in lui. Ma, e questo è certo uno dei nodi fondamentali,

questo radicamento del fondamento non riguarda il soggetto in quanto soggetto, ma in

quanto correlato del mondo. Di più: il fondamento stesso “n’est ni le monde ni le sujet,

il est l’accord de l’homme et du monde. Non un terme, mais une relation.”734 E solo

all’interno di questa relazione i termini possono esitere, mentre di essi non si trova

traccia a cercarli isolatamente. In questa relazione ogni volta diversa si comprende

perché sia tanto importante l’apertura immaginativa: “la forza di trasformazione

fenomenica e di relazione reciproca nella costituzione temporanea dei centri egologici

od oggettuali – o di entrambi insieme, come per lo più avviene – appartiene

all’immenso regno dell’immaginario.”735 Da questo ruolo sempre nuovo e rinnovato

della relazione soggetto-oggetto e sulla sua costante mutevolezza si potrebbe desumere

una forma di arbitrarietà che tenderebbe ad indebolire l’apparato generale

psicologizzando l’immaginazione. Non è questo che interessa a Dufrenne che risponde:

“Non è secondo me, né tanto meno secondo il parere generale, che quella tal sonorità

possiede quel tal colore, ma solo secondo Kandinsky.”736 A questo punto

l’immaginazione potrebbe essere solo foriera di errori e astrusi psicologismi privati;

oppure ogni individuo è portatore di una personale e individuale esperienza sinestetica, 732 Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6. 733 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 135. 734 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 211. 735 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6. 736 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 135.

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che si impone a lui e solo a lui rivelandogli un certo mondo che egli può a sua volta

rivelare ad altri. “E se fossimo noi, tanto peggio per noi, ad essere ciechi a quel

mondo?”737

È in queste pagine che Dufrenne esplicita una delle sue conclusioni più importanti,

nella quale si articola e chiarisce la sua posizione rispetto al ruolo del soggetto in questa

poetica, sfumata e sfrangiata realtà che lui ha di mira. Tale soggetto non si annulla in

nessun disperato annichilimento, né si dissolve in una intersoggettività incapace di

raccoglierne il contributo. Al contrario, “il riferimento all’individuo non è vincolato allo

psicologismo se questo individuo si rende capace di vivere un’esperienza ontologica che

non inclina più al relativismo.”738 Se è nell’individuo, nella sua relazione al mondo, che

si innesta lo scambio carnale originario e originale, si può accettare che tale scambio

riguardi tutti i soggetti nella loro dispersione individuale e investa il mondo non solo al

livello del reale, ma anche al livello, altamente significativo, del possibile. “Il fatto che

certi aspetti del mondo si rivelino solo ad alcuni soggetti ciò non impedisce che siano

dei possibili del mondo; all’intersoggettività non si richiede di fornire la propria

garanzia di credibilità se non per un pensiero impersonale del mondo.”739 Ogni oggetto

nasce nella relazione con il soggetto aprendosi al senso e a tutti i sensi che questo

soggetto mette in campo. Ogni oggetto si apre al senso come “una potenzialità naturale

suscettibile di infinite saturazioni di significati (sia pure dentro a gamme delimitate),”740

ma tale senso si costituisce ogni volta in base alle variazioni del contesto di soggetti, o

centri egologici, che vi interagiscono. “Nuota nell’intersoggettività ed anzitutto nella

intercorporeità naturale e sensibile.”741 Ogni oggetto diventa tale all’interno di una

comunità e pertanto il suo senso si sviluppa nelle prassi operative e conoscitive di

società storiche “in pieno travaglio elaborativo di culture.”742 Relativismo storico o

soggettivismo? Tuttaltro. Proprio nella descrizione sinestetica dell’emergenza di un

senso sempre diverso legato a una soggettività, a sua volta legata a una comunità

storicamente determinata, si radica un presupposto universale di grande portata. Quel

737 Ibidem. 738 Ibidem. 739 Ibidem. 740 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 7. 741 Ibidem. 742 Ibidem.

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presupposto di cui Dufrenne è in cerca fin dalle prime pagine delle sue ricerche e che

mira a reperire il fondamento dell’umano e del suo senso in una prospettiva consapevole

della carnalità e della temporalità che costituiscono il soggetto. Dufrenne si schiera con

forza, come dichiara di aver imparato da Merleau-Ponty, su una posizione di netto

rifiuto di tutte “les tentations du système et même des majuscules” per mirare invece a

sorprendere la genesi del senso “à ras de l’homme, au lieu de la déployer dan un ciel

métaphysique.” 743 L’infinito dell’Essere si stende allora per Dufrenne solo a partire da

quella concrezione spazialmente incarnata e temporalmente vissuta che è un soggetto

sinestetico nell’apertura della sua sensibilità; e solo a partire dalla sua apertura

immaginativa, costitutivamente presente nel suo corpo, ogni possibile entra a far parte,

di diritto, del reale che si deve esaminare.

Ecco in che senso l’arte torna utile, e Dufrenne continua a rivolgersi ad essa anche

se forse non con il rigore che altre parti del suo percorso hanno manifestato. È

nell’operazione creativa che si manifesta con massima forza questa dinamica

genealogica, espressiva, che caratterizza il rapporto percettivo al mondo. È l’arte il

luogo in cui si riversa al suo grado più evidente la progettualità infinita

dell’immaginario.

In questo senso la storia dell’immaginario e dei suoi oggetti più puri, le opere d’arte, appartiene alla storia della libertà, o, meglio, della infinita liberazione dell’uomo. Ed è per questo che l’immaginario, con tutti i suoi segni e con tutti i suoi simboli, ha sempre a che fare con l’infinito.744

4.4 Il virtuale: un’ontologia impossibile

La sinestesia e l’immaginario che la abita, dunque, si qualificano quali modi attivi

d’essere, svelatori di possibilità di senso infinite all’interno del mondo. Tale svelamento

accade a un livello originario di adesione al mondo che, lo abbiamo già visto, non può

mai essere oggetto di conoscenza specifica proprio perché della conoscenza è esso

743 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208. 744 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 7.

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stesso condizione principale. Ecco perché la pratica delle arti, così come gli oggetti

estetici, mantengono la loro costante utilità nel riferimento: è in questo ambito che

l’unità del sensibile, se non avvicinata, è almeno suggerita. È in quest’ambito che

l’oggetto può essere colto nel suo atto di nascita, che è produzione espressiva di sensi

senza la cristallizzazione congelata dei significati. L’oggetto estetico, così come il

mondo a un livello sinestetico, è un oggetto in nascita e rinascita continua,

costantemente in movimento per essere illuminato ogni volta da una realtà egologica

differente cui non si chiede di produrre certezze sempre valide. Dino Formaggio

distingue con efficacia questo duplice ruolo del senso con gli aggettivi plurisituazionale

e unisituazionale.745 Il significato univoco e plurisituazionale è quello della scienza, che

deve servire per valere allo stesso modo in situazioni differenti. Al contrario, nella

pulviscolare differenziazione corporea ogni oggetto, e in particolare quello estetico,

modifica il proprio senso in base all’agglomerato corporeo con cui entra in contatto

dando ogni volta luogo a differenti formazioni. Sempre valide, ma sempre caduche. In

questo modo “si verifica ad ogni istante la nascita seconda di un diverso senso (…)

Diverso innanzitutto perché di segno opposto: monovalente tendenzialmente, univoco e

plurisituazionale il primo, plurivalente tendenzialmente, plurivoco e unisituazionale, il

secondo, che appartiene all’immaginario.”746

L’immaginario, che stiamo per comprendere nel suo senso di virtuale, per

Dufrenne appartiene costitutivamente alla relazione tra l’oggetto e il soggetto; anzi è

proprio ad un soggetto che ci si deve riferire innanzitutto quando si parla di

immaginario e virtuale. Infatti, “il tratto che conferisce lo statuto di virtuale a quel

presentito che si associa e, al limite, si identifica al sentito, orienta l’attenzione verso il

soggetto.”747 Se il percepito passa sempre, ovviamente, attraverso la mediazione

fondamentale di un corpo percipiente, “è proprio per un soggetto e mediante un

soggetto che c’è dell’impercepito intrecciato al percepito.”748 Anzi, la presenza del

soggetto si rivela molto più determinante che non quella dell’oggetto; la sinestesia

745 Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 8. 746 Ibidem. Il saggio di Formaggio cui si sta facendo riferimento non è commento specifico a Dufrenne né utilizza il linguaggio filosofico di quest’ultimo ed è qui usato per la sua efficacia strumentale e descrittiva degli stessi problemi di Dufrenne. 747 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p 195. 748 Ibidem.

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rivela una relazione dinamica che avviene all’interno del sensibile “senza doversi

affidare all’identità di un oggetto che sia principio dell’associazione.”749 La virtualità

della sinestesia che Dufrenne vuole mostrare riguarda la possibilità originaria e

genealogica di raggiungere, attraverso la percezione, stimoli che non riguardano

informazioni da raccogliere ma sollecitazioni non del tutto categorizzabili che da certi

oggetti ci vengono. La virtualità riguarda allora una stratificazione di senso che non

riguarda la sollecitazione contemporanea e congiunta di occhio e orecchio: non è uno

spettacolo danzato e musicato ciò che si sta indagando. Al contrario, è quel ben più

difficilmente determinabile insieme che riguarda, ad esempio, “la musica del quadro”:

non un oggetto determinato offerto a determinati sensi, ma un oggetto indeterminabile

capace di creare una forma di confusione sensoriale. Di fronte a certi oggetti, come

anche a determinate situazioni, non è in ciò che vediamo né in ciò che sentiamo che si

racchiude il senso che ci raggiunge. Tale senso viene da un più inafferrabile insieme,

che riguarda tutti i sensi, nella loro indivisibilità, nonché – come abbiamo già visto più

volte nei capitoli precedenti – un’azione originaria descrivibile in termini di sentimento.

Dove si colloca dunque questo virtuale? Dufrenne avanza l’ipotesi della memoria,

chiedendosi se esso non riguardi qualche cosa che si sa per lo meno per averla già

percepita e quindi custodita nella memoria. Quest’ultima non basta però a Dufrenne,

poiché con essa si rimanda principalmente a una dimensione di sapere e conoscenza.

Se di memoria, relativamente al virtuale, si può parlare, è molto più in termini di

familiarità con le cose del mondo.750 Ecco allora che il virtuale inizia a caratterizzarsi in

maniera più ampia rispetto sia all’immaginazione sia alla memoria, arrivando a coprire

un’area più estesa che le comprende entrambe senza esaurirsi al contributo di nessuna

delle due.

Il virtuale non è un sapere cieco del corpo, “cieco quanto un riflesso condizionato

innestato sul corpo-oggetto, la presenza che gli va riconosciuta è quella di un

immaginario immanente al percepito.”751

Ecco allora che si delinea un'altra posizione che definisce la meditazione di

Dufrenne, non senza un’analogia e una differenza sostanziali nei confronti del suo 749 Ibidem. 750 Cfr. Ibidem. 751 Ibidem.

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riferimento teorico Merleau-Ponty. Quello che per quest’ultimo era visibile o invisibile

per Dufrenne non è percepito o impercepito. La cesura fondamentale per lui è piuttosto

tra immaginato e non immaginato, intendendo questo secondo termine nel senso forte di

non dato in immagini, non dato in figura, non dato in presenza. Eppure non assente, ma

dato in altro modo. Questa insistenza sul ruolo dell’immagine ci dice evidentemente

molto, soprattutto tenendo fermo il fatto, su cui torneremo ancora tra poco, che il potere

e l’importanza del virtuale per Dufrenne risiedono proprio in questo suo non essere

ancora immagine.752

Questa dicotomia investe con conseguenze importanti il modo di concepire il reale

ed il vero. Il virtuale, infatti, non appartiene al regno dell’irreale, esso non è “l’altro

rispetto al reale”753 poiché, al contrario, è profondamente radicato nella realtà della

relazione tra soggetto e oggetto. Ne consegue un’idea di verità e realtà estremamente

aperta e flessibile, che abbiamo già visto comparire a più riprese a partire dalle

considerazioni sull’oggetto estetico fino a quelle sulla Natura poetica. Non è tuttavia

senza importanza che su tale insieme di riflessioni si trovi ad insistere l’autore nella sua

ultima opera. Il reale che egli ha di mira non è un mondo pieno e positivo, ma una realtà

stratificata e variamente articolata in cui ogni oggetto si mostra e rivela su un piano

sensibile, ma anche precategoriale, preriflessivo e extralogico.

Delineando l’immaginario come virtuale Dufrenne mantiene una forte coerenza

con queste idee. Il suo immaginario come virtuale presenta due caratteristiche molto

dense: esso non è necessariamente immaginato né necessariamente soggettivo. Questo

significa riconoscere la possibilità di afferrarlo a prescindere dalla sua concretizzazione

752 Con questa sua elaborazione finale del tema dell’immaginazione Dufrenne prende definitivamente le distanze da Sartre: “Tutto ciò implica che ci guardiamo da una teoria dell’immaginazione come quella che ha formulato in maniera così brillante Sartre: l’immaginazione ‘grande funzione della coscienza’ il cui potere di derealizzazione, di volgere deliberatamente le spalle la reale, testimonia la libertà del per-sé, almeno fino a che la coscienza non si lasci prendere nella sua stessa trappola, ceda alla vertigine, sprofondi nel delirio; essa può divenire, infatti, tanto la manifestazone di una fntasmatica ossessiva quanto la manifestazione di un potere atipico di invenzione e creazione. Non si tratta di rifiutare senza appello questa dottrina dell’immaginazione, possiamo anzi augurare buona fortuna alle diverse scienze del sogno che la sviluppano. Essa non è senza conseguenze per una filosofia del soggetto; ponendo l’accento su una fantasmatica privata, si fornisce alla nozione di individuo un appiglio non indifferente. L’io dell’io penso si manifesta nella sua particolarità nel caso in cui l’io penso si pieghi verso l’io deliro. E non è possibile negare al soggetto il fatto che il potere di affermarsi si rivela, talvolta, come potere di nientificazione e quello stesso potere come potere di immaginare. Ciò nonostante quest’idea dell’immaginazione non può essere d’aiuto per una teorizzazione del virtuale.” (Ivi, p. 196.) 753 Ivi. p. 196.

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in immagini e a prescindere dalla soggettività che lo produce. “Ciò che è presentito

all’ombra del sentito, lo chiamiamo immaginario, vale a dire non sentito, non dato in

carne e ossa, leibhaft come dice Husserl, ma nemmeno necessariamente dato ‘in

immagine’ né necessariamente immaginato.”754 Ecco perché sarebbe meglio dire

immaginabile, riconducendo anche questo aspetto sotto il segno del possibile, del

poetico e del genealogico. Immaginario virtuale nel senso di Dufrenne non è il risultato

dell’operazione di immaginazione, non è la figura del sogno o il prodotto dell’arte; esso

è una possibilità sempre aperta, che si sposta sempre un po’ più in là ogni volta che

un’immagine immaginata prende corpo. L’immaginario condivide quindi l’orizzonte

dell’invisibile di Merleau-Ponty, e persino la dinamica che sembra descriverlo meglio

potrebbe venire proprio da quest’ultimo; ci riferiamo a quell’idea di dialettica senza

sintesi, che non vuole aprire né allo scetticismo, né al relativismo né a uno sterile

ineffabile. Il virtuale di Dufrenne sembra calare nel rapporto percettivo, sinestetico,

proprio l’impossibilità di fermarsi mai definitivamente di fronte a un nuovo positivo,

una nuova posizione. “Come nella vita, così nel pensiero e nella storia noi conosciamo

solo superamenti concreti, parziali, oberati di sopravvivenze, gravati di deficienze; non

c’è superamento onnicomprensivo.”755 L’apertura possibile è quella della “carne

inesauribile”756 dell’oggetto che si rivela, di nuovo, il fuoco dell’attenzione dell’autore.

È proprio attraverso la nozione di virtuale, e all’oggetto che essa implica, suscettibile di

investimenti immaginifici sempre differenti, che l’oggetto stesso è più fortemente

coglibile come carne. “Il virtuale invita a cogliere l’oggetto come carne.”757

La seconda caratteristica che abbiamo visto appartenere all’immaginario come

virtuale era il non essere necessariamente soggettivo. Cosa significa? L’immaginario

come virtuale è una nozione che Dufrenne vuole concepire senza appellarsi

all’immaginazione intesa come facoltà di un soggetto. Esso designa “una virus o una vis

dell’oggetto: non più ciò che è in potere di un soggetto, come ciò che egli custodisce

nella memoria e che può evocare o come ciò che egli può inventare, bensì ciò che è in

754 Ivi, p. 198. 755 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. p. 115. 756 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p 198. 757 Ibidem.

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qualche modo in potere dell’oggetto senza manifestarsi immediatamente.”758 Di nuovo

torna il rimando a questa dimensione di invisibile tanto pontiana; con Dufrenne tuttavia,

di essa si accentua il carattere di potenzialità intrinseca e di trasformazione genealogia

costante. Non vi è nessuna idea di disvelamento di lati nascosti che si tratta di scoprire,

al contrario, vi è l’idea sempre più marcata della possibilità.

Così è del possibile di cui è gravido il reale, quando il possibile non significhi la contingenza dell’evento come il ‘può darsi che’, ma quando si annuncia come possibile di – di chi può dire ‘io posso’, o di chi senza dire nulla, diviene ciò che non è e che, tuttavia, è in qualche modo se promette di esserlo, come il germe promette di essere frutto, costituendo ciò che Bloch chiama ‘possibilità reale’.759

Nel quadro del possibile vanno allora a confluire impercepito e invisibile, dei quali

si sottolinea la presenza infinita e inesauribile a livello potenziale. Questa blochiana

‘possibilità reale’ diventa per Dufrenne quella dell’impercepito “che non appare, ma che

è un possibile dell’apparire e che annuncia mediante ciò la pienezza del reale.”760 È

questo l’invisibile che ha per Dufrenne peso e importanza; un invisibile che niente ha a

che fare con il non visto, con ciò che il giudizio può dedurre quando si concentra sulla

percezione e ne trae conseguenze logiche. Un invisibile dunque che aderisce al visibile

come sua potenzialità infinita che la figura della sinestesia, come percezione di rapporti

verticali, indica con precisione. “Il visibile dice questo invisibile come l’oro dell’acino

dice lo zucchero che contiene, come la trasparenza del cristallo dice il suo tintinnio.”761

Dino Formaggio, che qui Dufrenne cita,762 scriveva del parlare dell’oggetto; è questo

parlare che si esplicita come espressione, che a sua volta diventa virtuale soglia di un

758 Ivi, p. 199. 759 Ibidem. 760 Ibidem. 761 Ibidem. 762 “L’oggetto parla, come la canoa evocata da Dino Formaggio, la cui linea ‘esce dagli uomini che cavalcano i tronchi sui fiumi, avanza, si pulisce, si perfeziona dentro allo stesso lavorare le canoe, fino a che emerge limpidissima; la sua funzionalità d’uso si fa perfetta, taglia l’acqua in maniera impareggiabile, ma al tempo stesso ‘dice’ tutto questo, dice delle misure, dei movimenti, del peso del corpo umano, dice delle sue potenze e insieme dice l’agilità dei propri movimenti nella corrente, dice la velocità, si solleva in simbolo di una certa unità di vita, raccoglie in sé una precisa unità temporale di prassi umana, si fa memoria e immaginazione viventi, tanto che può essere amata come un corpo ricco di segni’.” (Ibidem.)

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mondo, che a sua volta è “ancora un virtuale molto vicino a schiudersi, per conferire

all’oggetto la pienezza del suo significato.”763

Ecco in che senso l’immaginario virtuale di Dufrenne non è necessariamente

soggettivo. Esso appartiene altrettanto all’oggetto, abita il reale, “è in esso come

sovrabbondanza d’essere, sovrabbondanza di senso”764 e ad esso si deve la possibilità di

abitare poeticamente il mondo senza restarvi ancorati nella chiusura delle dicotomie

cartesiane. Con questo si arriva a chiarire ulteriormente la valenza dell’a priori

dufrenniano: “assegnato al tempo stesso all’oggetto, nel quale designa un potenziale, e

al soggetto nel quale designa una possibilità”.765 È questa ambivalenza dell’a priori a

farne uno specifico del virtuale, un cardine fondamentale delle conclusioni di Dufrenne.

Con questa descrizione del virtuale, infatti, e della sinestesia, in quanto percezione in

cui esso si manifesta, si mette a fuoco quel luogo intermedio tra soggetto e oggetto. La

loro verità è nella loro relazione; la loro carnalità è nella densità dei reciproci rapporti.

La separazione degli a priori dell’oggetto e del soggetto può avvenire solo a un livello

razionale, che fondamentalmente non li riguarda. Tra essi esiste una relazione

partecipativa, una profonda “comunanza”.

Di conseguenza, il discorso sul virtuale torna a chiudersi su quello

dell’intenzionalità, che abbiamo già visto emergere come relazione originaria,

“irrelativo” da cui procedono sia l’oggetto che il soggetto. L’immaginazione come

virtuale, infatti, qualifica una modalità di relazione tra il soggetto e l’oggetto che è

“capacità di apertura a quanto non è immediatamente percepibile”, riconfermandosi in

quanto “modo di quell’intenzionalità che marca il soggetto come essere al mondo.”766

Definito in questi termini che ne ribadiscono l’apertura, la comunicatività, la

disponibilità e la responsabilità nei confronti del mondo, il soggetto si rivela anche

“incerto, intrappolato e perduto” ma per questo sempre liberabile. Tale liberazione passa

proprio attraverso l’immaginario la cui storia, incarnata dai suoi oggetti più

rappresentativi che sono le opere d’arte, è proprio la storia dell’infinita liberazione

dell’uomo. Certo l’apertura dell’immaginazione è sempre singolare, essa appartiene

763 Ivi, p. 200. 764 Ibidem. 765 Ivi, p. 201. 766 Ibidem.

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precisamente ad un soggetto e da esso dipende. Ma il suo contenuto, ciò che inerisce

alla sua virtualità, appartiene al mondo: “un mondo singolare perché subordinato a una

disponibilità singolare, diciamo il mondo di un soggetto, ma questo mondo è un

possibile del mondo, non è il mondo privato nel quale si inabissa una coscienza

intorpidita o delirante.”767 È questo un altro dei punti salienti cui approda Dufrenne;

punto che lo situa con coerenza all’interno di un quadro filosofico che tiene fermo il

valore dell’intersoggettività e dell’apertura comunicativa. L’immaginazione che lavora

nella percezione, questo aspetto virtuale del nostro rapporto con il mondo che non è mai

pura raccolta di dati, si dimostra transoggettiva nel senso che fonda il soggetto stesso

come correlato di un mondo. Non siamo lontani da quanto abbiamo indagato seguendo

Dufrenne nella sua descrizione del mondo dell’oggetto estetico; ora però se ne

comprende maggiormente la valenza, inserendone la struttura nel rapporto tutto umano

tra soggetto e oggetto.

Questa ricerca di fondazione del soggetto stesso è molto distante da una sua

psicologizzazione. Al contrario, l’apertura virtuale insiste nuovamente sulla carnalità di

tale soggetto, del quale si vuole evidenziare il carattere di naturato, nato dalla Natura,

piuttosto che di naturante. Scrive Dufrenne, con molta determinazione: “Rifiutiamo il

trionfalismo del trascendentale, l’identificazione di costituente e di naturante, ma

nemmeno accettiamo il trionfalismo di un sapere che ridurrebbe il soggetto all’essere

determinato di un oggetto.”768 La caratterizzazione dell’immaginario come virtuale ha

quindi l’ulteriore merito di evitare un’eccessiva inclinazione allo psiclogismo

assestando piuttosto l’intera riflessione nell’ambito di un’indagine carnale.

Il virtuale non è dunque un sinonimo di immaginario, esso è, lo ripetiamo,

l’immaginabile, qualcosa che esercita la propria potenza proprio perché non è ancora

immaginato, “vale a dire, realizzato in immagini.”769

Relativamente all’oggetto estetico, e artistico in particolare, questo virtuale assume

dunque una valenza importante ed esemplare. È di fronte ad oggetti così poco

determinabili che la possibilità di creazione di senso e di immagini si moltiplica e che

l’immaginario si presenta al suo massimo grado di potenzialità. 767 Ivi, p. 202. 768 Ibidem. 769 Ibidem.

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Relativamente alla percezione, ancora, il virtuale riconferma la necessità di

riconoscere l’impossibilità di inscrivere ogni cosa in un registro determinato, “visto che

è a cavallo di molti registri: transsensibile perhcè multisensibile, oseremmo dire, ma

anche multisensibile perché presensibile.”770 Certo il virtuale restituisce al percepito il

suo spessore, ma con molta più pregnanza esso restituisce al percepito il suo carattere

primigenio; ne ribadisce il potere genealogico, l’appartenenza a un regno che non è

quello del non sentito (né dell’invisibile) ma del “sentito prima della differenziazione

sensibile.”771 Tutto questo rimanda, nuovamente, al problema del senso che si riconosce

di nuovo, e con maggior forza, come un elemento dinamico, la cui origine assoluta resta

sfuggente e del quale tuttavia si deve dire chiaramente che essa è sempre all’opera.

Nell’afferramento virtuale delle possibilità della sinestesia, il soggetto può avere

una certa esperienza di un ritorno nei paraggi dell’originario.

Non si esperisce più come naturate, del tutto individualizzato, differente, ritrova semmai, per un momento, l’intimità prenatale (che la riflessione può esplicitare teorizzandone l’a priori) con l’altro, con l’oggetto che non è nemmeno definitivamente naturato, che non è ancora oggettivato, l’oggetto come carne, ancora indifferenziato.

Ecco quindi a cosa approda la riflessione di Dufrenne: a un’ontologia della carne,

chiamata proprio dalla fenomenologia del virtuale. Ma, e questo è senza dubbio il punto

finale che, nella sua ambiguità mantiene ferma la sua importanza, un’ontologia di

questo tipo sarà sempre “un’ontologia impossibile”772. Conclude infatti l’autore, con

righe dense che meritano di essere citate completamente:

Ontologia impossibile, tuttavia. L’idea di un’omogeneità del sensibile sfugge alla nostra presa, l’unità del plurale non è afferrabile. Il virtuale può certo invitare a parlare di uno stato primigenio del sensibile, ma questo non può essere provato. O ancora, l’affinità del diverso che ispira le sinestesie non si compie nell’unità di quel diverso. Questo è infatti il paradosso del presentito: non è ancora sentito, ma è sensibile, e in quanto tale non specificato.773

770 Ivi, p. 203. 771 Ibidem. 772 Ivi, p. 204. 773 Ibidem.

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Si esplicita allora in maniera evidente la relazione che il virtuale consente di

mettere in luce a livello ontologico. Dire che l’ontologia sia impossibile sposta il fuoco

su una dimensione di carattere metafisico eppure antropologico: carattere antropologico

perfettamente in linea con quello sfondo esistenziale che animava già l’ontologia di

Merleau-Ponty e che con Dufrenne si radicalizza. L’Essere non può essere oggetto di

indagine, il fondo resta confuso e come tale sfuggente; tuttavia, proprio la relazione

intenzionale, caratterizzata in senso sinestetico e virtuale, può mettere in luce

l’orignarietà di tale fondo e il suo carattere relazionale. Se di essere si può parlare, è

sempre alla luce della presenza del mondo e in virtù di un contesto percettivo; sapendo

che l’essere in quanto tale precederà sempre sia l’oggetto che lo presenta che l’uomo

che vi si avvicina, eppure potrà compiersi sempre e solo nella relazione tra i due. È qui

che Dufrenne forse compie quanto aveva dichiarato di voler fare nel suo scritto su

Merleau-Ponty: non legare l’afferramento del fondo ad una ontologia sempre sfuggente,

ma congiungere l’idea della Natura all’idea di fondamento, come a priori di ogni a

priori, “et de surprendre la naissance du dualisme et les métamorphose de l’homme et

du monde à la racine meme du monisme.”774

Nel corpo la distinzione tra il soggetto e l’oggetto è “irrémédiablement brouillée” e

quello che li lega, sia esso chiasma merleaupontiano o rapporto sinestetico dufrenniano

sfugge ad ogni definitiva sistematizzazione; al contrario vi si manifesta con chiarezza

l’azione costante di elementi precategoriali e originari.

Il soggetto sinestetico, quindi, e l’immaginario virtuale che lo abita, interagiscono

ancora con il pittore pontiano: essi sono i protagonisti dell’avvenuto chiasma, coloro i

quali aprono mondi di sensi e ne abitano la labilità e la trasformazione. Al contrario del

pittore di Merleau-Ponty, tuttavia, il soggetto sinestetico si spoglia di ogni valenza

ontologica. L’Essere mostra nel soggetto sinestetico la sua radice ineludibilmente

antropologica, forse poco fenomenologica in questo, ma profondamente poetica. Anche

il compito della filosofia ne viene quindi influenzato: con Dufrenne si fa evidente il

rifiuto di quelle che egli chiama filosofie “dell’assenza”, come quelle di Derrida o

Blanchot. L’estetica di Dufrenne si riafferma come portatrice, o come è stato scritto, 774 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 218.

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“oggi l’unica portatrice, di una filosofia della presenza, presenza intesa come il porsi hic

et nunc del reale prodigo ed imprevedibile, dono che non implica donatore, che non

richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell’uomo che abita questa

potenza.”775 Il virtuale che abita la sinestesia ci ricolloca pertanto sul piano della Natura

molto più che dell’essere, caratterizzandola come possibilità; possibilità che solo il

rapporto reciproco, dinamico e genealogico tra un oggetto e un soggetto può attivare.

“Si vuole con ciò riaffermare, attraverso l’estetica, un’ontologia non come teoria

dell’essere, ma come esplicitazione del significato fenomenologico dell’esperienza, da

ricercare e disgelare nell’incontro preriflessivo fra l’io e il mondo, fra l’uomo e la sua

‘terra’”.776

Si capisce dunque, infine, quanto pregnante sia all’interno del percorso dufrenniano

la conclusione della sua meditazione sulla sinestesia. Con questo tema egli si riconferma

come ultima voce francese concentrata sull’estetica fenomenologica e di questa

posizione segna, al contempo, un deciso passo di distacco. L’ontologia cui approda,

infatti, nel suo essere impossibile, si assesta su una prospettiva che nulla condivide

dell’ontologia husserliana orientata alle regioni degli oggetti e dell’essere traminte cui

risalie al significato dell’esperienza. Al contrario, l’introduzione della sinestesia di

Dufrenne, e con l’idea che la base dell’ontologia sia proprio il rapporto intenzionale,

l’ambiguità e la verticalità del rapporto uomo mondo si spostano proprio sul punto di

contatto tra essi. Il nodo ontologico, quella figura chiasmatica che dopo Merleau-Ponty

consentiva di porre a tema l’ambigua ricchezza relazionale del corpo, si spoglia con

Dufrenne proprio del suo portato ontologico. La forza di quest’ultimo, infatti, viene

raccolta e potenziata da una lettura antropologica del chiasma, cioè della sinestesia e

della sua ambigua virtualità; antropologia che non si vuole né ingenua né psicologica,

ma comunque nemmeno ontologica.

La sinestesia incarna allora, riportandoci alle considerazioni con cui abiamo aperto

questo lavoro, la forza del mostrare; la potenzialità espressiva, stilistica e poetica del

corpo umano in cui si raccoglie e manifesta tanto il sensibile quanto l’immaginazione.

775 E. Franzini, La verità del corpo, art. cit., p. 28. 776 Ibidem.

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Con il soggetto sinestetico si mette a fuoco un soggetto il cui rapporto con la verità non

sarà mai nichilistico, e però neppure mai causalistico né definitivo; un rapporto con la

verità che l’arte, senza poterla mai davvero produrre fino in fondo, può tuttavia

felicemente mostrare come dinamica simbolica e relazionistica, espressiva e

genealogica, infine virtuale e sinestetica.

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CONCLUSIONI

“Le jour se lève. Ce n’est pas le lendemain qui chante, c’est l’aujourd’hui: le

vierge, le vivace et le bel aujourd’hui. (…) Pour moi qui ne suis pas dans une situation-

limite, il convient que j’ouvre l’oeil: le jour m’y invite, pour sourgir de ma nuit. (…)

Quoiqu’il en soit, nous sommes sans prise sur le jour: il a l’initiative quand il se

lève.”777

A questo giorno che si leva, senza che noi possiamo impedirgli di rischiarare il

mondo intorno a noi e aprirlo alla nostra frequentazione ed esperienza; a questa forza

spontanea che ci mette in condizione di aprire i nostri sensi e rendere possibile ogni

evento della presenza; a questo soggetto chiamato a testimoniare dell’apparire delle

cose come alle interazioni tra esso e il mondo dischiuso dai suoi sensi, è stato dedicato

lo sforzo di Dufrenne e di questo lavoro da lui ispirato.

Il problema alla base dell’indagine era in fondo piuttosto semplice: non siamo in

contatto con un mondo che possiamo trattare come un puro e asettico fatto, non

abbiamo a che fare (solo) con oggetti che basta analizzare per comprendere o conoscere

per usare. Tutta l’estetica di Dufrenne si basa proprio sullo sforzo di descrivere quella

forma di adesione al mondo che dalla pratica e dalla conoscenza prescinde, senza

tuttavia essere fusione informe e sterile.

Eccoci allora alla prima conclusione da esplicitare, che riguarda il modo in cui

possiamo ridescrivere il soggetto umano nella sua dinamica relazionale con il mondo.

777 M. Dufrenne, Le jour se lève, cit. p. 203.

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Dufrenne sottolineava come il suo sia stato un tentativo di "comprendre les mondes

singuliers comme des possibles du monde."778 Infinite possibili delimitazioni di un

mondo illimitato. Senza indulgere ad alcun relativismo, ma riconoscendo ad ogni

soggettività il potere di dischiudere un mondo; che è fatto molto diverso dalla facoltà di

accedere tutti allo stesso mondo. Proprio su questa infinita e indefinita diversità

abbiamo insistito con Dufrenne, poichè è esattamente nella proliferazione inarrestabile

dei mondi singolari che si manifesta la potenza infinita della Natura. "En se révélant

dans une image singulière la Nature s'exprime comme l'inépuisable foyer des possibles,

le grand silence de Pan."779

La valorizzazione della soggettività non mira allora in alcun modo ad una

soggettività trascendentale; al contrario, è esattamente la singolare dispersione degli

individui ad essere l'obiettivo teorico. L'idea kantiana suggeriva a Dufrenne "un monde

impersonnel et objectif comme la raison elle-même, la promesse ou le voeu d'une

tonalité intelligible enfin conquise par l'entendement."780 Al contrario, la lettura estetica

del mondo, e la teoria della Natura, mirano a mettere a fuoco il dinamismo tuttaltro che

intellegibile della realtà: "l'irradiation d'une qualité affective, l'expérience pressante et

précaire où l'homme découvre un instant le sens de son destin, lorsqu'il est tout intier

engagé dans cette épreuve."781

Dufrenne ci ha portati a parlare del poeta e dell'artista, ma come tramite per mettere

a fuoco una vicenda decisamente extra artistica. Poetico è, infatti, l'essere stesso della

Natura che riguarda l'uomo in generale molto prima e molto più di quegli uomini

particolari che sono i poeti e gli artisti. La poesia diventa infatti il luogo che rende vivo

e manifesto, che esprime, la possibilità – disponibile universalmente – di frequentare gli

aspetti pre-concettuali dell'intelletto, "à mi-chemin entre le régime diurne du logos et le

régime nocturne de l'imagination."782 Lungi dal limitare il poetico ad una pratica

artistica, infatti, Dufrenne lo intende innanzitutto come la possibilità di entrare in

778 Ivi, p. 176. 779 Ibidem. 780 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 33. 781 Ibidem. 782 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 179.

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comunicazione con il fondo della Natura, con il suo essere poetico, attraverso quel

mondo che ci è dato da sentire: una possibilità di conoscenza, pour chacun de nous.783

Tutto ciò spinge a riproporre e riconfermare l’estraneità di ogni interpretazione

solipsistica e psicologistica dall’intero percorso. Il mondo non è un nostro costrutto, né

della nostra ragione né della nostra fantasia, ma neppure dei nostri sensi. Il mondo

percepito cade, infatti, sotto il dominio della nostra praxis intersoggettiva, alla quale si

offre congiuntamente al proprio significato, all’apparire del senso che esso avrà per

noi784.

La manifestazione, per quanto affettiva e non concettuale, di senso e verità, ha

quindi la particolarità fondamentale di essere sempre “engagée dans le sensibile”785 che

a sua volta, anziché essere qualcosa che vada annullato e oltrepassato, rivela tutta la sua

radiosa portata.

Ogni apertura singolare incarnata da un artista, e dall’uomo in senso lato, è allora

sempre un modo diverso, ma concreto e sensibile, affettivamente orientato, di entrare in

rapporto con il mondo, “de saisir et de fixer un nouvel aspect du réel.”786

Il soggetto della percezione sinestesica è la proposta dufrenniana per illustrare

questo soggetto che non è (ancora) soggetto grammaticale né soggetto di diritto, il quale

vive i paraggi dell’originario e sa perdersi nell’oggetto “come nel grembo del naturante

dal quale non sarebbe ancora nato.”787 Che di esso siamo arrivati a parlare come di un

soggetto che “può anche essere definito soggetto ontologico” ci ha spinto ancor più in là

nella prospettiva che abbiamo introdotto: l’accesso all’Essere, qualora esistesse, non è

appannaggio di una pratica artistica, ma diventa con Dufrenne accesso incarnato,

vissuto, articolato nell’infinita dispersione percettiva che è il corpo umano.

783 Ivi, p. 180. 784 Si torna in questo modo alle considerazioni di apertura tratte da La fenomenologia della percezione: “Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. […] Il problema consiste allora […] nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del ‘reale’, nell’esplicitare la nostra idea del mondo come ciò che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo davvero un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. […] Noi siamo nella verità e la nostra esperienza è ‘l’esperienza della verità’. Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità.” (M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., pp. 25-26.) 785 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 35. 786 Ivi, p. 36. 787 M. Dufrenne, L’occhio e lo spirito, cit. p. 135.

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Il soggetto di cui siamo andati in cerca con Dufrenne precede quindi ogni soggetto

grammaticale o di diritto, ogni soggetto empirico e anche trascendentale: è il soggetto

puro, nel suo essere innanzitutto un creux all’interno del sensibile, in cui suoni e colori

precipitano. E in questo soggetto, tutto corporeo, attraverso gli organi che lo

compongono nella loro indifferenziata interazione, si raccoglie un particolare e unico

visage du monde. L’uomo, lo spirito, si rivelano lì dove i sensi aderiscono al mondo

rendendolo oggetto per un soggetto: “Trouvez le corps individué, la machine sentante et

désirante, chair co-naturelle à la chair du monde, et vous aurez bientôt l’homme.”788

Nella sua adesione sinestetica alla realtà, con il coté virtuale e eternamente aperto

alla possibilità che tale originarietà implica, l’uomo diventa quel punto zero a partire da

cui tutte le coordinate del mondo si dispiegano. È da questo medesimo punto zero,

profondamente corporeo, che si apre il passaggio all’universo del pensiero. La

vocazione del soggetto avviene proprio in questo passaggio: “Car lorsque l’homme

invente la pensée, c’est parce que il la veut si différente, si incorruptible, si autonome

qu’il se refuse à lui assigner une source ou un lieu; mais si prêt qu’il soit à la

dépersonnaliser, il doit bien l’attribuer à un je et ce je c’est bien l’individu.”789

Individuo che Dufrenne descrive come un essere fragile, investito dal mondo da ogni

lato, ma in grado di affermarsi e rompere il cordone ombelicale proclamando il mondo

esterno e preparandosi a dominarlo. Ma tutto ciò è solo quella situazione, che pure

siamo condannati ad abitare, che segue la distinzione di soggetto e oggetto, il momento

in cui la cerniera è definitivamente aperta.

Del soggetto si può parlare in senso ontologico oltre che sinestetico proprio perché

il fondamento è radicato in lui. Ma, e questo è certo uno dei nodi fondamentali, questo

radicamento del fondamento non riguarda solo il soggetto in quanto tale, nella sua

autonomia, ma in quanto correlato del mondo. Di più: il fondamento stesso, quel

fondamento cui tutta la meditazione dufrenniana mirava, “n’est ni le monde ni le sujet,

il est l’accord de l’homme et du monde. Non un terme, mais une relation.”790 E solo

all’interno di questa relazione i termini possono esitere, mentre di essi non si trova

traccia a cercarli isolatamente. In questa relazione ogni volta diversa si comprende 788 M. Dufrenne, Le jour se lève, cit., p. 205. 789 Ibidem. 790 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 211.

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perché sia tanto importante l’apertura immaginativa: “la forza di trasformazione

fenomenica e di relazione reciproca nella costituzione temporanea dei centri egologici

od oggettuali – o di entrambi insieme, come per lo più avviene – appartiene

all’immenso regno dell’immaginario.”791 Da questo ruolo sempre nuovo e rinnovato

della relazione soggetto-oggetto e sulla sua costante mutevolezza si potrebbe desumere

una forma di arbitrarietà che tenderebbe ad indebolire l’apparato generale

psicologizzando l’immaginazione. Tale rischio è però annullato nel momento in cui

dell’apertura immaginativa e virtuale si colga non il lato che pertiene al soggetto e alla

sua privata individualità, bensì il carattere poetico, produttivo ed espressivo che

riguarda sempre la relazione del soggetto al mondo che è sfumata e sfrangiata realtà.

Tale soggetto non si annulla in nessun disperato annichilimento, né si dissolve in una

intersoggettività incapace di raccoglierne il contributo. Al contrario, “il riferimento

all’individuo non è vincolato allo psicologismo se questo individuo si rende capace di

vivere un’esperienza ontologica che non inclina più al relativismo.”792 Se è

nell’individuo, nella sua relazione al mondo, che si innesta lo scambio carnale

originario e originale, si può accettare che tale scambio riguardi tutti i soggetti nella loro

dispersione individuale e investa il mondo non solo al livello del reale, ma anche al

livello, altamente significativo, del possibile.

L’infinito dell’Essere si stende per Dufrenne solo a partire da quella concrezione

spazialmente incarnata e temporalmente vissuta che è un soggetto sinestetico

nell’apertura della sua sensibilità; e solo a partire dalla sua apertura immaginativa,

costitutivamente presente nel suo corpo, ogni possibile entra a far parte, di diritto, del

reale che si deve esaminare. Tutto questo consente, come da intenzione dell’autore, di

sorprendere la genesi del senso “à ras de l’homme, au lieu de la déployer dan un ciel

métaphysique.”793

Tutto questo conduce con decisione verso la seconda conclusione saliente, relativa

a una domanda che abbiamo visto riproporsi a più riprese nel nostro percorso: la

791 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6. 792 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. . p. 130. 793 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208.

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questione della verità che questo rapporto carnale e sinestetico al mondo implica e di

come essa vada intesa.

Abbiamo visto come ne L’occhio e l’orecchio, coerentemente con tutto il percorso

dufrenniano, sia presente una forte istanza oppositiva al pensiero riflessivo, al

naturalismo chiuso della scienza e a quello che Merleau-Ponty chiamava il pensiero

allegro e improvvisatore della scienza. Recuperare il valore fungente dell’operatività

percettiva del corpo, accanto a quelli che sembrano sistemi incrollabili di certezze

scientifiche, significa ricollocare tutto l’umano su tale livello e riconoscere quanto più

problematico risulti quindi l’accesso alle strutture che lo regolano. Significa inoltre

configurare la verità, e le possibilità di accedervi, secondo uno schema specifico, molto

lontano dalla tradizione causalistica che, da Aristotele in poi, ha animato la ricerca

filosofica e scientifica occidentale.

Del reale con cui abbiamo a che fare Dufrenne, attraverso la sinestesia e

l’intervento dell’immaginazione che in essa si esercita, arriva a cogliere la potenza

surreale. Cosa significa allora questo reale consacrato come surreale? Esso mostra

quella caratteristica del reale su cui insiste tutta l’opera di Dufrenne, coerentemente con

la tradizione da cui discende: un reale cui non è mai del tutto estranea la dimensione del

“come se”, dell’analogia e della modificazione. Tale idea è strettamente connessa alla

sfera della percezione intesa come sinestesia, nella quale con Dufrenne si vuole mettere

in luce e ribadire l’impossibilità di immobilizzare i dati e farne astrazioni poiché è

sempre necessario, come già scriveva Bergson che Dufrenne certamente conosce,

riconoscerne il movimento, un certo ritmo, la ‘durata’. È in questo senso che Dufrenne

può attribuire all’oggetto la capacità di permetterci di esperire “l’affinità di quel diverso

che lo costituisce come oggetto determinato.”794 L’oggetto non è, non è più, una solida

esistenza in sé posta e affermata (oltre che costituita), come scriveva Formaggio795, da

uno spirito che ogni spirito e da un Io che è ogni Io; in una forma di relatività per nulla

negativa in cui, anzi, il rapporto con il vero è sempre più denso perché cangiante. Il

rapporto con i fenomeni è allora un rapporto ondeggiante, e non per questo meno

fecondo, del quale è bene riconoscere la ricchezza a scapito della chiarezza definitiva.

794 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 133. 795 Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 5.

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Profondamente fedele, almeno in questo, agli intenti fondamentali della

fenomenologia, Dufrenne ci conduce alla ricerca del senso del mondo senza voler tenere

conto delle cause ma rimanendo profondamente ancorati alla nostra presenza al mondo.

La verità cui la sinestesia e il virtuale introducono è un flusso continuo e comunicativo

tra il mondo e la mia presenza a lui, fondata su un’intenzionalità come voleva Husserl

ma che, diversamente, diventa fondamento assoluto, originario se non addirittura

ontologico. La sinestesia è allora, ogni volta, percezione in cui si realizza di una verità,

mostrando come ogni interazione percettiva con il mondo sia già essa stessa filosofia796

in quel senso in cui è stato maestro Merleau-Ponty: “la filosofia non è il

rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la realizzazione di una

verità”797 e, “la vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo”798. Attraverso

l’apertura sinestetica si mostra dunque come siamo sempre in contatto con una verità799

che non somiglia alle cose, che non si riscontra necessariamente in un modello

eternamente replicabile, che non ha strumenti di espressione e tecniche predestinati e

privilegiati, e che, nondimeno, è verità perché al di là di essa non vi è niente800: “è il

relativo che diviene irrelativo”. Nella sfera dischiusa dal soggetto sinestetico non è

possibile nominare nessuna distinzione cartesiana fra organico e psichico, esteriorità e

interiorità, o ancora res cogitans e res extensa; esso è il luogo in cui questi livelli vivono

796 È questa interazione percettiva, ineludibilmente corporea, che funge da legame tra le cose e la coscienza, uno dei principali obiettivi teorici che Dufrenne eredita dal percorso merleaupontiano. Tale percorso era esplicito fin dalla prima opera La struttura del comportamento nel cui passo finale ci sembra risuonare con forza la spinta e la direzione raccolta e seguita dal nostro autore: “La ‘chose’ naturelle, l’organisme, le comportement d’autrui et le mien n’existent que par leur sens, mais le sens que jaillit en eux n’est pas ancore un object kantien, la vie intentionnelle qui les constitue n’est pas encore une représentation, la ‘compréhension’ qui y donne accès n’est pas ancore une intellection.” (M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, cit., p. 241.) 797 M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., p. 30, corsivo mio. 798 Ibidem. Le stesse pagine riportano inoltre: “L’incompiutezza della fenomenologia e il suo modo di procedere incoativo non sono il segno di un fallimento, ma erano inevitabili perché la fenomenologia ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione. Se la fenomenologia è stata un movimento ancor prima di essere una dottrina o un sistema, ciò non è un caso né un’impostura. Essa è laboriosa come l’opera di Balzac, quella di Proust, quella di Valéry o di Cézanne – per lo stesso genere di attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo e della storia allo stato nascente.” (Ivi, p. 31.) 799 Risulta così evidente la pregnanza del concetto di verità che impariamo dai greci: alétheia è, letteralmente, il disvelamento che, come tale, è soggetto alla reiterazione eterna. 800 “Ma l’opera d’arte non è un che di arbitrario, o, secondo l’espressione comune, finzione. La pittura moderna, come in generale il pensiero moderno, ci costringe ad ammettere una verità che non somigli alle cose, che sia senza modello esterno, senza strumenti d’espressione predestinati, e che nondimeno sia verità. (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 84.)

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ancora sovrapposti, avviluppati in un senso vitale il cui portato poetico e produttivo si

manifesta in nuce e sempre in fieri. L’iconicità non è categoria estetica che riguardi solo

l’opera d’arte, essa si estende “quando la percezione è sinestesica, all’oggetto percepito,

gravido di virtuale, grazie a cui si manifesta pienamente nella totalità dei suoi

aspetti.”801

La percezione sinestetica mostra come l’oggetto possa essere colto nel suo atto di

nascita, che è produzione espressiva di sensi senza la cristallizzazione congelata dei

significati. L’oggetto estetico, così come il mondo a un livello sinestetico, è un oggetto

in nascita e rinascita continua, plurivalente tendenzialmente, plurivoco e

unisituazionale; costantemente in movimento per essere illuminato ogni volta da una

realtà egologica differente cui non si chiede di produrre certezze sempre valide. La

virtualità della sinestesia che Dufrenne vuole mostrare riguarda la possibilità originaria

e genealogica di raggiungere, a partire dal corpo e attraverso la percezione, stimoli che

non riguardano informazioni da raccogliere ma sollecitazioni non del tutto

categorizzabili.

La filosofia di Dufrenne, in questo autenticamente fenomenologica, non si pone

come fittizia costruzione di un ordine ideale e di verità, perché la verità cui essa tende

non si risolve nella dialetticità del pensiero, ma si pone come costituzione dinamica di

una tensione sempre aperta ad un più vasto sistema di relazioni. Pertanto, la verità non è

un essere dato, ma un senso cui si tende, in una dinamica di progetto e azione

continuamente rinnovati. Il rapporto tra verità e mondo si rinnova dunque

ininterrottamente; ogni soggetto apre un mondo nuovo, secondo quelle forze che negli

gli oggetti estetici si manifestano perspicuamente. Nella presenza del corpo, dei corpi, si

attua ogni volta il cominciamento della verità del mondo: verità intersoggettiva,

intercorporea e comunicativa, mai solipsistica né dogmatica.

Attraverso quest’ultimo punto si giunge ad un’ulteriore notazione di rilievo: il

legame simbolico, espressivo e genealogico che nella sinestesia si manifesta non passa

innanzitutto per oggetti le cui caratteristiche avvierebbero tale processo. Al contrario,

come abbiamo visto, la relazione dinamica che avviene nel sensibile avviene in quanto 801 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 134.

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legame e relazione, per un soggetto e mediante un soggetto, “senza doversi affidare

all’identità di un oggetto che sia principio dell’associazione.”802 Nessun primato

dunque, né al lato soggettivo né a quello oggettivo, bensì l’afferramento dell’ambiguità

della loro relazione nella sua ricchezza e nei suoi adombramenti chiasmatici. Di nuovo,

il fondamento è la relazione; la percezione e lo stile si sovrappongono, per restituire del

mondo una descrizione espressiva e poetica.

Il tema dell’immaginazione interessa qui in particolar modo nella misura in cui la

maggior parte delle dottrine che lo hanno affrontato sembrano averlo fatto sotto l’egida

di un appiattimento di immaginario e irreale. Tale appiattimento conduce a una forma di

opposizione tra reale e immaginario basata sull’idea che il reale sia già sempre

determinato, o se non altro determinabile, e renda sempre possibile l’esclusione

dell’irreale immaginario dal quadro percepito. L’immaginario definito come irreale va

rapidamente a corrispondere all’illusorio, incarnando così il nemico principale di ogni

forma di razionalismo. Tuttavia, è proprio tale corrispondenza affrettatamente articolata

tra immaginario e irreale quello che Dufrenne mette in discussione. Perché la

percezione non sia, infatti, solo registrazione passiva di dati ma, più proficuamente, atto

dello spirito, è necessario che l’immaginazione sia sempre presente in essa. “Que la

perception soit fausse d’abord, cela signifie sans doute la servitude d’une pensée

soumise à l’empire du corps, mais aussi la liberté du jugement; le faux, c’est aussi

l’invisible qui n’apparait jamais, que l’art seul peut fixer, et dont l’introduction dans le

plein du monde témoigne pour l’esprit – un esprit qui se révèle et s’éprouve au détour

de l’erreur.”

Ne consegue l’importanza del ruolo dell’immaginazione all’interno della relazione

e la necessità di sottolineare l’azione, all’interno del reale, del possibile e del virtuale.

Ad essi non si guarda in cerca di una poco proficua indagine sull’irreale, al contrario:

attraverso la descrizione del soggetto sinestetico e la conseguente lettura della verità, si

può cogliere perché tanto importante sia riconoscere la presenza e l’azione di un

immaginario immanente al percepito. Al di là di visibile e invisibile siamo portati a

ritrovare un’opposizione ancora più originaria e originale: quella tra immaginato e non

immaginato, intesi nel senso forte di dati o non dati in immagini, in figura. 802 Ivi, p. 195.

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L’immaginario è ciò grazie a cui al reale si guarda con la consapevolezza delle infinite

possibilità di cui esso è intessuto; possibilità che solo la scintilla innescata dall’apertura

percettiva nella sua originarietà sinestesica può rendere reali. L’immaginario è quella

fessura grazie a cui il rapporto percettivo si conferma carne inesauribile; esso è da

intendere come una virus o una vis dell’oggetto nella sua relazione con il soggetto che

lo percepisce e non, semplicemente, come un potere esclusivo del soggetto. In questa

possibilità di apertura che è a priori nell’oggetto e nel soggetto si designa proprio il

loro potenziale poetico ed espressivo, e, di nuovo, il fatto che la loro verità sia nella loro

relazione.

L’ultima conclusione cui quanto detto fin qui ci conduce è, infine, quella che

riguarda il lato propriamente artistico di quanto esplicitato. Ma se all’arte si guarda non

sarà in nessun modo con l’obiettivo di aggiungere nulla a qualsivoglia teoria estetica in

senso di teoria dell’arte. L’esito teorico del discorso sviluppato fin qui ha il pregio di

utilizzare l’ambito artistico come regione d’esperienza significativa in cui veder

esercitare quella vitalità che pertiene però all’uomo in generale.

In questa direzione la meditazione di Dufrenne ha fornito due contributi importanti

strettamente intrecciati l’uno all’altro: il primo relativo alla rivalutazione da lui operata

della sensibilità in generale contro la tradizionale predilezione per la vista; il secondo

relativamente alla differenza non ontologizzabile che appartiene all’arte e che

riconferma, insieme a tutta la realtà che può sempre essere estetica, polo attivo di una

relazione fondativa e genealogica in cui, se di Essere si può parlare, è sempre alla luce

della presenza del mondo e in virtù di un contesto percettivo; sapendo che l’essere in

quanto tale precederà sempre sia l’oggetto che lo presenta che l’uomo che vi si avvicina,

eppure potrà compiersi sempre e solo nella relazione tra i due. “Per quanto si estenda

oggi il dominio dell’arte, vi appaiono sempre delle opere. Ma non confiscano l’apparire:

con esse, i esse, sorge il senso. Nello stesso momento in cui si rivelano, rivelano

qualcosa. Accendono la luce, ma sono esse stesse luce: mostrandosi, mostrano.”803

Quel distanziamento dell’autore da una lettura del fondamento in termini

ontologici, reso esplicito in particolare ne L’occhio e l’orecchio, ha come correlato 803 M. Dufrenne, Arte e natura, in M. Dufrenne-D. Formaggio, Trattato di estetica, cit. p. 40.

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teorico una proposta di lettura del mondo come qualcosa di cui riappropiarsi al di là del

suo essere puro Gegen-stand, da riconfiguare a partire da quel punto zero che

l’individuo è. In questo senso gli oggetti estetici rivelano la propria efficacia nel

descrivere tale relazione proprio per il loro essere forme, cose, di fronte ai nostri sensi;

ma forme e cose che tali sensi riattivano costantemente spingendoli al limite stesso delle

loro possibilità, là dove il non figurato, il non percepito e l’invisibile prendono corpo.

“L’oeil oui, mais pour quoi pas l’oreille, aussi bien la main?”804 La corporeità tutta

intera è protagonista della felice ambiguità intenzionale che le opere d’arte sanno

incarnare con validità. È il passaggio dal sensibile al sensuale, a quella dimensione della

realtà cui il corpo tutto tende con forza in un’interazione carnale con il mondo, fatta di

reciprocità, attività che è anche passività e conseguente riavvicinamento all’originario.

L’esperienza del mondo che ne consegue è naturalmente quanto di più lontano da una

concezione scientifica del rapporto con il corpo del quale invece si riconosce ed esalta il

carattere dinamico e genealogico. All’arte non si guarda pertanto alla ricerca di dati e

prodotti dell’uomo da analizzare ma in quanto ambito in cui da una parte si rappresenta

operativamente ciò che il corpo fa nella sua frequentazione del mondo e, dall’altra, si

ripresenta ogni volta da capo l’originarietà fungente, precategoriale e sentimentale di

questa frequentazione. In ogni forma d’arte si libera il sensibile e, almeno fin dove è

possibile farne esperienza, si può forse presentire la sua unità. Il pre-estetico sarà

sempre al di fuori della nostra portata, ma il sinestetico, almeno in figura, può essere

presentito.

In questa sfumata partecipazione al sinestetico, che la percezione estetica sa

figurare, emerge con forza come la forma cui la percezione aderisce non sia leggibile

solo in termini di forma di qualcosa ma al contempo Forma tout court, precategoriale e

inserita in una dinamica di processi fungenti. In questo senso l’oggetto estetico (e

potenzialmente il mondo intero, è sempre bene ripetere) si presenta decisamente come

polo intorno a cui freme una genesi estetica, densa di contenuti simbolici in costante

trasformazione. Di nuovo, è al processo, nel suo essere percettivo, fondativo e

genealogico, che si guarda; non agli oggetti, per loro supposte caratteristiche

intrinseche. 804 M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 101.

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Se l’oggetto estetico esibisce ed esplicita l’adesione umana all’originario esso ci

conduce però a ricomprendere gli schemi della percezione e allargarli all’inverosimile.

È la potenza del fondo che l’arte si sforza sempre di ridire, come scrive Dufrenne

ne L’inventaire; “i poeti imitano la poesia della Natura, ci riconducono a quanto c’è di

elementare negli elementi, che non richiede una psicanalisi, Bachelard l’ha capito, ma

una fenomenologia dell’apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento stesso

dell’apparizione, l’insistenza dell’essere.”805

Ci è sembrato utile, in questa direzione, accostare il soggetto sinestetico

dufrenniano al soggetto del pittore di cui parla Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito,

con cui L’occhio e l’orecchio dialoga in modo esplicito fin dal titolo. Il soggetto

sinestetico è emerso in quanto figura del punto zero in cui la percezione primordiale si

apre e manifesta, al quale le cose del mondo si presentano innanzitutto abitate e vissute

e per il quale esse rappresentano il centro da cui i sensi stessi si irradiano. Nel soggetto

sinestetico sembra rivivere con forza e significati precisi quel pittore incarnato dal

Cézanne di Merleau-Ponty: colui che ha sempre voluto “rimettere l’intelligenza, le

scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo che esse sono destinate a

comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienza ‘che ne sono

scaturite’.”806 Il soggetto sinestetico è allora colui che vive ciò che il Cézanne di

Merleau-Ponty metteva in arte: la non scelta tra sensazione e pensiero, l’adesione totale

alle cose “dietro l’atmosfera” a un livello primordiale cui tutto il resto è secondo. Il

soggetto sinestetico è colui in cui si vive ciò che nell’arte di Cézanne veniva evocato,

cioè l’ordine nascente delle cose che, da un fondo inarticolato, si coagulano sotto i

nostri occhi. Entrambe le figure pongono a tema le certezze dell’ambiente in cui

viviamo, quelle cose di cui siamo abituati a pensare come necessarie e incrollabili: in

loro si invera quella visione che “va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita.”807

Ecco allora che nel soggetto sinestetico si raccoglie e manifesta di nuovo il senso

espressivo della frequentazione del mondo. Il pittore di Merleau-Ponty “riprende e

converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita 805 M. Dufrenne, L’inventaire…, cit. p. 71. 806 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 32. 807 Ivi, p. 35.

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separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”808;

il soggetto sinestetico abita questa vibrazione, è colui nel quale questa genesi stessa ha

realmente e originariamente luogo.

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, il ruolo decisivo della sinestesia: crocevia

chiasmatico che sfugge ogni definizione ontologica per riafferrare, invece, la Natura e la

Coscienza come poli inseparabili dell’originarietà fondamentale. Nel soggetto

sinestetico dufrenniano si offre in figura il movimento poetico della Natura verso

l’uomo, insieme alla loro espressiva relazione reciproca.

Alla preoccupazione per l’Essere Dufrenne propone di sostituire la cura (souci) per

gli enti, la preoccupazione di rendere giustizia agli oggetti lasciandoli essere e lasciando

che nella relazione con loro si eserciti con tutta la sua forza la nostra adesione

sinestesica, mai visibile ma se non altro vivibile come partecipazione immaginativa,

attiva e creativa. Nei confronti della verità, dell’arte e del mondo tutto intero perché

interamente passibile di estetizzazione.

Le jour s’est levé. Plus tard, midi le juste. Mais déjà la lumière rend justice à ce

qu’elle dévoile. Elle lasse être ce qui est, elle le conduit seulement à la gloire de

l’apparaître. Et sans doute, l’homme aussi est lumière; c’est dans la lumière de son

regard que le monde apparaît. Est il possible qu’il rend justice, lui aussi, que son

regard ne soit pas celui du maître, qui ne jouit que d’asservir, mais celui de l’ami, qui

en appelle à l’anarchie?809

808 Ivi, p. 36. 809 M. Dufrenne, Le jour se lève, cit. p. 207.

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