ALMA MATER STUDIORUM - Cives Toscana · 2017-12-28 · 5.4 Fattori predisponesti e fattori...

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MATR. N. 0000252129 ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITA’ DI BOLOGNA FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA LE SEQUELE PSICOLOGICHE DEGLI OPERATORI D’EMERGENZA DOPO UNA CATASTROFE: IL TERREMOTO DELL’AQUILA Elaborato finale in Psicologia dell’Emergenza PRESENTATA DA RELATORE Laura Brunelli Prof. Massimo Monti SESSIONE II ANNO ACCADEMICO 2010 - 2011

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MATR. N. 0000252129

ALMA MATER STUDIORUM

UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA

CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA

LE SEQUELE PSICOLOGICHE DEGLI OPERATORI D’EMERGENZA DOPO UNA CATASTROFE: IL TERREMOTO DELL’AQUILA

Elaborato finale in Psicologia dell’Emergenza

PRESENTATA DA RELATORE

Laura Brunelli Prof. Massimo Monti

SESSIONE II

ANNO ACCADEMICO 2010 - 2011

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“…la cosa più difficile per Giulio è stato trovare

un posto nascosto dove piangere, dove nessuno lo vedesse,

lui che era in divisa…

e forse un uomo in divisa che viene chiamato in soccorso

non può inginocchiarsi e piangere.

Alla fine l’ha trovato quel posto

E le sue lacrime hanno bagnato la divisa.

Pare che nessuno se ne sia accorto.”

Paladini, Vallecchi, Gli artigli dell’Aquila,

Vita, morte e miracoli dal terremoto

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INDICE

INTRODUZIONE 9

PARTE PRIMA. LA PSICOLOGIA DELLE MAXIEMERGENZE

Capitolo 1. L’intervento psicosociale nei disastri

1.1 Elementi dell’intervento psicosociale nei disastri 131.2 Linee Guida Europee: European Policy Paper sul sostegno psicosociale 151.2.1 Principi generali della gestione psicosociale delle emergenze di massa 161.2.2 L’intervento in fase acuta, di transizione e a lungo termine 161.3 Criteri di massima per l’intervento psicosociale nelle catastrofi 171.3.1 La rete organizzativa dell’intervento psicosociale 171.3.2 Destinatari dell’intervento 181.3.3 Scenari d’intervento 191.4 La crescita post – traumatica 30

Capitolo 2. Le reazioni da stress

2.1 Inquadramento generale del problema 312.2 Fattori associati allo stress da calamità 312.3 Reazioni di stress peritraumatico estremo 352.4 Disturbo Acuto da Stress (DAS) 362.5 Il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) 372.6 Esperienze di calamità associate al DPTS cronico 392.7 Altri fattori associati al DPTS cronico 40

Capitolo 3. Il trauma

3.1 Concetti generali 413.1.2 L’interpretazione psicodinamica del trauma 423.2 Dissociazione e memorie traumatiche 433.3 Amnesie traumatiche 45

5

Capitolo 4. La biologia dello stress e il dolore

4.1 Introduzione 474.2 Lo stress 474.3 Modelli di risposta allo stress 504.4 Definizione di dolore 514.5 Dolore acuto e dolore cronico 524.6 Il dolore come esperienza soggettiva 534.7 Dolore e stress 54

Capitolo 5. Le emozioni e i sentimenti

5.1 L’infermiere “vittima” o “sopravvissuto”? 575.2 Le emozioni e i sentimenti 575.2.1 Le emozioni 585.2.2 I sentimenti 635.3 Lavorare stanca: il fenomeno burnout 655.4 Fattori predisponesti e fattori protettivi della sindrome del burnout 675.4.1 I fattori predisponesti 675.4.2 I fattori protettivi 69

Capitolo 6. Il soccorso

6.1 La vittima di terzo livello: il soccorritore 716.2 Tipologie degli operatori del soccorso e loro caratteristiche 726.3 I rischi connessi all’attività di soccorso 746.4 Il gruppo 756.5 Fasi dell’intervento di soccorso e reazioni psichiche correlate 766.6 La Sindrome Generale di Adattamento 786.7 La Traumatizzazione Vicaria 796.8 Il Critical Incident: Sindrome da eventi critici 816.9 Strategie di primo soccorso psicologico: Demobilization, Defusing e Debriefing

826.10 La Compassion Fatigue: troppa cura degli altri, poca di sé 84

Capitolo 7. Le emozioni dei soccorritori

7.1 Concetti generali 857.2 Le difese verso emozioni troppo intense: il contributo della psicologia del profondo 877.3 Lo studio delle emozioni dei soccorritori e della loro gestione 88

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7.4 Durante l’emergenza: tecniche di gestione delle proprie emozioni 89

Capitolo 8. L’infermiere mediatore nelle relazioni d’aiuto

8.1 Normativa n. 196 sulla formazione degli operatori d’area critica 918.2 La relazione d’aiuto 928.3 Lavorare in team: il profilo psicologico della squadra 948.4 Metodi di gestione dello stress e dei conflitti: le esercitazioni e la loro funzione psicosociale 958.5 Chi aiuta chi aiuta? 978.6 L’infermiere mediatore tra paziente, collega e psicologo 99

PARTE SECONDA. IL PROGETTO DI RICERCA

Capitolo 9. La ricerca: indagine sul benessere psicologico dei soccorritori

9.1 Introduzione al progetto di ricerca 1009.2 Setting dell’indagine: 118 Regione Abruzzo, 118 Regione Liguria, 118 Romagna Soccorso, Pronto Soccorso e Croce Rossa Italiana 1019.2.1 118 Romagna Soccorso 1019.2.2 118 Regione Abruzzo 1029.2.3 118 Regione Liguria 1039.2.4 Croce Rossa Italiana 1049.3 Metodologia. Il questionario: costruzione e calcolo della coerenza interna 1059.4 Analisi descrittiva dei campioni 1129.4.1 Dati derivanti dall’elaborazione dei questionari somministrati al 118 Regione Abruzzo 1129.4.2 Analisi ed elaborazione statistica 1169.5 Dati derivanti dall’elaborazione dei questionari provenienti dai servizi 118 della Regione Liguria, Romagna Soccorso, Pronto Soccorso e Croce Rossa Italiana 1619.5.1 Analisi ed elaborazione statistica 1669.6 Comparazione tra i risultati ottenuti dalla rielaborazione dei questionari abruzzesi con quelli provenienti da altre realtà italiane 210

CONCLUSIONI 255

BIBLIOGRAFIA 270

SITOGRAFIA 276

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8

INTRODUZIONE

Coppito, 6 aprile 2009 ore 3.32. Caserma della Guardia di Finanza

“Mi arriva una lettera scritta da un volontario che è rimasto colpito dalla seguente scena: una

mamma viene accompagnata davanti alla bara bianca dove giace la sua bambina. Le pulisce il

visetto, le toglie la polvere, la saluta per l’ultima volta e poi si fruga nelle tasche, nella borsa come

se cercasse qualcosa che non trova. Alza lo sguardo al cielo e a mezza voce, stravolta dal dolore,

dice: “Maneggia, nemmeno un crocefisso ho portato per il mio angioletto”. A quel punto un allievo

della Finanza, un ragazzo che il volontario nella lettera mi descrive sommariamente insistendo sul

fatto che fosse molto giovane, si sbottona la camicia, toglie dalla catenina il suo crocefisso e lo

porge alla mamma la quale, incredula, lo ringrazia con uno sguardo più intenso di mille parole e

depone la croce sul corpo di sua figlia. Questo è l’esempio che i ragazzi hanno dato.1”

Questa breve testimonianza, tratta dal libro Gli artigli dell’Aquila, vita, morte e miracoli dal

terremoto, serve per spiegare ciò che è successo a coloro che hanno prestato soccorso alla

popolazione colpita dal sisma del 6 aprile 2009. Medici, infermieri, volontari, ovvero uomini e

donne hanno lavorato in un contesto di forte pressione psicologica

Secondo l’opinione comune, chi presta soccorso deve essere dotato di una specie di corazza esterna,

il cui compito è quello di proteggerlo da ogni situazione, non solo fisicamente ma, anche

psicologicamente. Quanti di coloro che lavorano nelle professioni d’aiuto vorrebbero possedere

queste caratteristiche!

Il mancato riconoscimento delle proprie reazioni psicologiche a eventi drammatici e la difficoltà a

integrare tali reazioni nel sistema di risposta professionale, può essere recepito come un segnale che

conferma che non si è in grado di svolgere questo tipo di attività perché si è manifestata una

dissonanza tra il soccorritore e il modello di riferimento.

La mia tesi nasce dal desiderio di indagare su un aspetto trascurato della professione infermieristica

e delle professioni d’aiuto.

Troppo spesso si ricerca il costante miglioramento di quelle che possono essere le nostre abilità

tecniche e professionali, sottovalutando la nostra vita emotiva, ovvero i nostri sentimenti e i nostri

stati d’animo. Essi vengono percepiti come un ostacolo e, per questo, devono essere circoscritti e

1 PALADINI F., 2009, Gli artigli dell’Aquila; vita, morte e miracoli dal terremoto, Vallecchi, Città di Castello, p. 114.

9

arginati.

Molti sono i percorsi formativi che addestrano l’infermiere ad aiutare il paziente in condizioni

critiche e la sua famiglia ma, poco o nulla viene fatto per preparare gli operatori ad affrontare i

propri disagi emotivi. La vita emotiva degli operatori è stata presa in considerazione all’inizio degli

anni Ottanta, quando in Italia si iniziò a parlare del born – out, evidenziando così il rischio emotivo

delle professioni sanitarie.

La censura emotiva impedisce di entrare in rapporto con la sofferenza, generata dall’incontro con la

persona che richiede aiuto. In seguito a ciò, nei servizi di emergenza è stato assunto un modello di

professionalità neutra e impersonale, modello condiviso dagli operatori i quali mettono tra parentesi

il loro coinvolgimento emotivo, considerandolo un handicap.

Durante un evento catastrofico è fondamentale che ognuno conosca sé stesso, ovvero sappia come e

in quanto tempo agire e che cosa fare, in quanto è ragionevolmente sostenibile che chiunque ha

vissuto un evento simile ne diventa, in qualche maniera, vittima.

Da soccorritore si può diventare vittima della catastrofe, non solo perché si diventa potenziale ferito

o vittima (come ad esempio i Vigili del Fuoco che sono intervenuti nel disastro delle Torri Gemelle

di New York l’11 settembre 2001), ma anche perché si può essere congiunto, parente o amico delle

vittime appartenenti a quella determinata comunità o, ancora, pur non rientrando in queste

caratteristiche, si è esposti crudamente agli effetti dell’evento. In quest’ultimo caso, un’esposizione

intensa e ripetuta, rende il soccorritore vittima di un trauma.

Il problema è allora identificare le tecniche tramite le quali il soccorritore possa preservarsi e possa

assolvere al proprio compito, soprattutto perché lavorare con le vittime di eventi catastrofici espone

a tali livelli di sofferenza umana che possono notevolmente compromettere l’opera di soccorso.

Scopo primario di questo lavoro è quello di indagare sul benessere psicologico di tutti gli operatori

che hanno vissuto il terremoto d’Abruzzo e capire le caratteristiche che dovrebbero avere.

Consapevole che molto si deve alla predisposizione personale e all’esperienza propria, non ritengo

da sottovalutare la preparazione professionale, partendo dal concetto di “sapere” e giungere al

“saper essere”, transitando attraverso il “saper fare”. Il comportamento di ogni singolo individuo

non può prescindere dalle competenze e dalle conoscenze indispensabili per ogni settore d’azione e

bagaglio indispensabile, sia pure secondo diversificate esigenze per i professionisti sanitari e non

dell’emergenza.

Negli ultimi anni si è verificato un incremento notevole di interesse nei confronti delle reazioni dei

soccorritori che intervengono in eventi traumatici, il rischio di essere coinvolti nelle esperienze

delle persone alle quali si presta soccorso (traumatizzazione vicaria) deve essere tenuto in seria

considerazione.

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La psicologia dell’emergenza non si rivolge solo alle persone colpite da una catastrofe, da un

trauma o un lutto ma, anche ai soccorritori, cioè alle persone che intervengono per prime e che,

assieme ai sopravvissuti, sperimentano sentimenti di impotenza, ansia, angoscia e disperazione.

La psicologia dell’emergenza ha come finalità lo studio, il trattamento e la prevenzione dei processi

psichici, delle emozioni e dei comportamenti che si determinano prima, durante e dopo gli eventi

critici. Sono quindi oggetto di studio e di intervento il singolo e la comunità colpita dall’evento, con

il fine di aiutare a prevenire o superare quei fenomeni psichici negativi che si possono instaurare.

La formazione professionale e l’attitudine individuale non sono caratteristiche innate nell’individuo

ma, piuttosto, sono da coltivare con cura e assiduità al fine di evitare di diventare vittima secondaria

di un evento avverso. Per evitare ciò la formazione deve essere adeguata, incline al riconoscimento

e all’elaborazione delle emozioni.

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PARTE PRIMA. LA PSICOLOGIA DELLE MAZIEMERGENZE

Capitolo 1

L’intervento psicosociale nei disastri

La maxi-emergenza è un evento che può modificare ampiamente il tipo di vita sia dell’individuo

che della collettività, in quanto la sua straordinarietà è in grado di sopraffare sia le risposte della

persona che quelle del sistema. Spesso, la straordinarietà dell’evento, fa anche sì che il numero

delle risorse disponibili venga ulteriormente impoverito in termini materiali, economici e

sociali, venendo così a minare quel senso di giustizia e di ordine che appartenevano alla realtà

sociale fino a poco prima del verificarsi dell’evento (Giannantonio, 2003; Castelli e Sbattella,

2003).

1.1 Elementi dell’intervento psicosociale

Secondo la letteratura scientifica (Hobfoll e coll., 2007), l’intervento psicosociale rivolto alle

persone colpite da un evento disastroso, deve essere articolato in diverse fasi, che nell’ordine

sono:

- Promuovere il senso di sicurezza;

- Favorire il ritorno alla calma;

- Incoraggiare il senso di efficacia individuale e collettiva;

- Promuovere il senso di connessione alla rete sociale;

- Mantenere un senso di speranza nei superstiti.

Obiettivo primario dell’intervento di supporto consiste nel ripristinare il senso di sicurezza negli

individui colpiti dall’evento minaccioso, il quale è in grado di ledere l’esistenza del singolo, della

propria famiglia e di ogni qualcosa a cui l’individuo attribuisce un particolare valore (Basoglu,

Salcioglu, Livanou, Kalender e Acar, 2005). Se l’attività di supporto viene condotta in maniera

efficace, si è dimostrato che può diminuire gli effetti psicologici negativi a lungo termine, quali

ansia, fobie, disturbi del sonno e depressione.

Per soddisfare questo obiettivo, tutti i soggetti colpiti dall’evento dovrebbero essere sistemati in

luoghi sicuri; occorre prestare una particolare attenzione alle informazioni provenienti dall’esterno

(altri superstiti o mass media) che potrebbero aumentare l’ansia e la depressione nei sopravvissuti,

come conseguenza ad un circolare di voci incontrollabili e non ancora confermate su ciò che è

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avvenuto e su come si sta provvedendo (ad esempio, come e dove le attività di soccorso stanno

lavorando)2.

In seguito ad un evento minaccioso, è normale che nell’individuo colpito si verifichi un aumento

delle risposte e, l’ansia può essere inclusa tra le reazioni di vigilanza adattive, che come esposto

poc’anzi, possono appieno interferire con l’integrità della persona. Và altresì ricordato che nei casi

più estremi, queste reazioni possono aggravare stati depressivi o condurre all’insorgenza di disturbi

da stress acuto o post-traumatico o, ancora, procurare l’insorgenza di disturbi di origine

psicosomatica (Shalev e Freedman, 2005). L’attività di ritorno alla calma rivolto sia al singolo che

alla collettività, consiste nel far comprendere quanto queste reazioni siano normali e, far conoscere

le tecniche per poterle controllare nell’eventualità che siano molto intense. E’ importante sapere che

molte reazioni di ansia sono conseguenza a preoccupazioni reali e, l’operatore che presta soccorso

deve prestare supporto alla risoluzione dei problemi.

Terzo elemento dell’intervento psicosociale è promuovere il senso di efficacia individuale e

collettivo. Le persone colpite da un evento, si possono ritrovare nella condizione di non riuscire ad

affrontare tutte le conseguenze a livello economico, sociale e lavorativo che si presentano. Allo

stesso tempo, questo senso di impotenza, si aggrava quando l’individuo percepisce che la rete

sociale nella quale vive è anch’essa logorata, ovvero non è in grado di poterlo aiutare. L’intervento

dell’operatore si deve concentrare su due aspetti: in primis, fornire all’individuo tutti quei mezzi

tramite i quali esso senta di “potercela fare” in modo tale da avere una risposta positiva e, in

seconda battuta, l’operatore prima di aiutare la persona si deve accertare che esistano effettivamente

le risorse adeguate per affrontare i problemi. Se questi due aspetti non vengono considerati le

persone continueranno ad attribuire la responsabilità dell’evento a loro stessi e, gli operatori

esprimeranno un giudizio errato sulle risorse della popolazione colpita.

Per la popolazione colpita da un’emergenza di massa, sapere di appartenere a un gruppo sociale è

molto importante in quanto si ha la possibilità di ottenere informazioni precise per risolvere i

problemi pratici, avere un supporto emotivo e condividere le proprie esperienze. Vi sono anche

persone che vivono in uno stato di isolamento sociale, e che pertanto non hanno supporti emotivi da

parte di familiari o amici; l’operatore di primo soccorso, nel tentare di potenziare il sentimento di

connessione e solidarietà sociale, deve in primo luogo identificare chi si trova in maggiori

difficoltà da un punto di vista familiare e sociale. Da recenti studi si potuta confermare

l’importanza nel creare nuove reti sociali all’interno dei centri di accoglienza, ai quali possono

affluire chiunque.

Ultimo elemento dell’intervento psicosociale è mantenere il senso di speranza (Hobfoll e coll.,

2 PIETRANTONI L., PRATI G.,PALESTINI L.2008, Il Primo Soccorso Psicologico nelle maxi-emergenze e nei disastri. Un manuale operativo. Il Mulino, Bologna, pp. 21 – 34.

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2007). Nella popolazione colpita da una maxi – emergenza, si instaura una percezione catastrofica

della situazione, aggravata dal senso di disperazione e rassegnazione generate dall’insufficienza di

risorse personali per poterla affrontare. Antonovsky (1979) definisce la “speranza” come la fiducia

che il proprio ambiente sia prevedibile e controllabile e l’aspettativa possa risolversi in modo

positivo: questa percezione di basa sulle esperienze vissute e sul credere che ci siano risorse esterne

che agiscono a favore dell’individuo. Promuovere il senso di speranza, è strettamente connesso al

soddisfacimento degli altri quattro obiettivi: se si ripristina il senso di sicurezza si ha una visione

ordinata e non più minacciosa del mondo, l’ambiente torna ad essere controllato dall’individuo e le

reazioni emotive negative diminuiscono. Il senso di efficacia, inteso come raggiungere risultati

positivi tramite le proprie forze, fa si che ci sia speranza che la propria condizione possa migliorare.

L’intervento basato sui gruppi risulta più efficace di quello basato sul singolo, perché i bisogni e le

difficoltà della comunità sono gli stessi che emergono dal singolo soggetto. La situazione di

normalità si può ripristinare a partire da una comunità che mobilita mezzi e risorse atti alla

risoluzione dei problemi.

1.2 Linee guida europee: European Policy Paper sul sostegno psicosociale

Nel 2001, con il sostegno della Commissione Europea, il Ministero della Salute Pubblica del Belgio

ha pubblicato un documento chiamato “Psycho-social support in situations of mass emergency”

(Supporto psicosociale in situazioni di emergenza di massa; Seynaeve, 2001), esteso a tutti i paesi

dell’Unione Europea che prevedono una forma di intervento in situazioni di disastro o maxi

emergenza in funzione di aspetti teorici, economici e culturali. Il documento si focalizza sulla

preparazione, gestione operativa e valutazione degli interventi stessi.

In seguito ad un evento disastroso, le persone coinvolte presentano bisogni di ordine pratico,

sanitario e psicosociale che variano a distanza di tempo dall’evento e che se non gestiti in modo

appropriato, possono avere un forte impatto psicologico. I tre bisogni sono strettamente correlati tra

di loro e, occorre stabilire un ordine prioritario di risoluzione per ottimizzare e differenziare le

procedure decisionali. Nella fase acuta che segue immediatamente l’evento calamitoso, i bisogni di

ordine sanitario sono i più rilevanti, ma tendono a diminuire in seguito ai primi interventi che si

effettuano (ad esempio le medicazioni); nella fase di transizione (dal mese successivo fino al primo

anno dall’evento) i problemi di ordine psicologico connessi al trauma e ai lutti sono i più rilevanti e,

una parte di queste persone, a distanza di anni, ha mantenuto un disturbo mentale (ad esempio

disturbo post traumatico da stress o depressione).

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1.2.1 Principi generali della gestione psicosociale delle emergenze di massa

Per gestire i bisogni psicosociali in seguito ad una emergenza di massa, occorre prendere in

considerazione una serie di fattori tra cui prendono rilievo il numero delle persone coinvolte, le

dinamiche di gruppo che si possono attivare e, più in generale, l’aumento di complessità dovuto a

questi elementi (Seynaeve, 2001).

Lo European Policy Paper evidenzia come la vulnerabilità degli individui, influenzata sia dalle

proprie esperienze personali che dallo stato della propria rete sociale, può aumentare in seguito alla

condivisione di esperienze comuni che hanno un impatto psicologico non sempre positivo, come ad

esempio il senso di impotenza e disperazione.

L’assistenza pratica risente del numero delle persone coinvolte e poter raccogliere e diffondere

informazioni non sempre è facile, perché occorre evitare che ci siano distorsioni e dicerie sulla

situazione; inoltre, è difficile assistere singolarmente le persone, pertanto gli interventi saranno

focalizzati all’intera comunità stabilendo su scala i bisogni prioritarie e le tecniche d’intervento.

L’intervento, per ovviare agli aspetti negativi, deve essere di tipo dinamico, ovvero in grado di

prevedere quelle che saranno le possibili problematiche future, senza perdere tempo ad aspettare

che si verifichino nuovi problemi. E, per questo, è importante una costante monitorizzazione della

situazione in modo di adattare l’intervento stesso.

Lo European Policy Paper enfatizza l’importanza di inserire l’intervento psicosociale all’interno

della catena dei soccorsi e, deve avere un coordinatore che si occupi di gestire e integrare le varie

attività. Inoltre, l’intervento non può prendere in considerazione gli specifici problemi, ma deve

valutare le priorità.

Come detto prima, il team di soccorso psicologico, deve essere inserito all’interno della catena dei

soccorsi con la quale deve cooperare sotto l’aspetto decisionale tramite meccanismi prestabiliti di

cooperazione.

1.2.2 L’intervento in fase acuta, di transizione e a lungo termine

Lo European Policy Paper identifica diverse modalità di intervento in base alla fase in cui ci si

trova:

• In fase acuta, si afferma l’importanza di creare un centro che risponde all’acronimo RISC

(accoglienza, informazione e supporto), il quale deve essere inserito all’interno della catena

dei soccorsi e le cui attività sono l’’accoglienza, l’assistenza pratica, la raccolta di

informazioni, un primo sostegno di tipo emotivo, sociale e psicologico e lo screening di

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possibili reazioni post-traumatiche.In questa fase è importante individuare le fasce sociali

più vulnerabili come bambini, anziani, disabili e chi ha subito importanti perdite in ordine

affettivo, in quanto queste categorie possono sviluppare più facilmente sequele psicologiche

di notevole importanza.

• Nella fase di transizione, viene praticata un’attività di follow-up la quale deve garantire che i

servizi sanitari e sociali si prendano in carico i bisogni psicosociali della popolazione.

L’obiettivo, pertanto, è quello di ritornare alla routine quotidiana pre-evento.

• Nella fase a lungo termine, dove i bisogni primari della popolazione (bisogni di ordine

medico, assicurativo, di informazioni e di contatto) tendono a diminuire progressivamente,

si pone attenzione a quelle difficoltà di ordine pratico, sociale ed emotivo che una piccola

parte della popolazione potrebbe ancora sperimentare. Quindi l’attività di follow-up si

modifica e, deve garantire un percorso psicologico continuativo al singolo soggetto o

eventualmente l’invio ad un professionista della salute mentale.

1.3 Criteri di massima per l’intervento psicosociale nelle catastrofi

Con la legge n. 200 del 29 agosto 2006 (allegato 1), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, in Italia

si è verificato l’ingresso ufficiale dell’intervento di supporto psicosociale a seguito di un

disastro. La normativa prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri predisponga piani di

previsione e prevenzione dei rischi, i programmi nazionali di soccorso e i piani per l’attuazione

delle misure di emergenza.

La direttiva considera altresì l’importanza di rilevare problemi di ordine psichiatrico e

psicologico che si possono verificare sia nella popolazione colpita che nei soccorritori e, fornire

piani di intervento psicosociale anche a lungo termine in quanto le caratteristiche dell’evento

possono compromettere le capacità di adattamento degli individui.

1.3.1 La rete organizzativa dell’intervento psicosociale

La normativa prevede che l’intervento psicosociale venga svolto da un’Equipe Psicosociale per

le Emergenze (EPE) precedentemente formata utilizzando le risorse esistenti nei servizi

dipendenti ed afferente al Servizio Sanitario Regionale che deve garantire l’intervento non solo

in seguito ad un evento ad effetto limitato, ma anche in quelli travalicano le potenzialità di

risposta da parte delle strutture locali. L’equipe, oltre che da professionisti, può essere composta

anche da volontari e ordini professionali adeguatamente formati.

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A livello logistico, l’EPE a seguito di un evento calamitoso, deve essere localizzata in

prossimità del Posto Medico Avanzato (PMA), in un’area che garantisca caratteristiche di

riservatezza e sicurezza, presso punti di raccolta e accoglienza. L’equipe, inoltre, deve essere

coordinata da un referente il quale ha il compito si stesura del piano di intervento, coordinare gli

interventi e verificarne l’esito e, infine, allertare la squadra.

I criteri di massima sull’intervento psicosociale prendono in considerazione quattro aree

specifiche di intervento, distinguibili in:

• Raccolta di informazioni connesse ai bisogni della popolazione;

• Attività di ricongiungimento familiare:

• Informare la popolazione coinvolta dall’evento sulle reazioni emotive più comuni e

indicare le migliori tecniche di gestione dello stress;

• Raccolta dati per la valutazione post evento.

Nella direttiva del 29 agosto 2006, si identificano anche gli obiettivi della relazione di aiuto che

l’EPE deve raggiungere coi propri assistiti:

• Tutelare la salute psichica mediante l’attivazione di tutte le risorse individuali e comunitarie;

• Raccogliere le domande di aiuto spontanee e identificare i bisogni;

• Far si che i soggetti siano in grado di operare scelte consapevoli sulla propria salute;

• Aiutare l’individuo a ripristinare il proprio normale funzionamento in modo tale che sia in

grado di focalizzare la sua attenzione sui suoi bisogni principali ed essere in grado di

elaborarne una soluzione;

• Fornire strumenti per facilitare la comunicazione, la comprensione e l’utilizzo delle

informazioni trasmesse;

• In tutte le fasi di soccorso deve essere tutelata la dignità e il rispetto dell’individuo, evitando

che comportamenti anomali da parte dello stesso siano giudicati come patologici.

1.3.2 Destinatari dell’intervento

I destinatari dell’intervento, indicati nella direttiva ministeriali, sono innanzitutto tutte le

persone che sono coinvolte in eventi dirompenti ed improvvisi, indipendentemente dalla gravità

dei danni materiali subiti.

In secondo luogo, l’intervento viene esteso anche a coloro che hanno assistito al decesso o alla

potenziale sopraffazione della vita di un altro soggetto, ai familiari e si soccorritori che hanno

prestato il proprio intervento.

Secondo la tassonomia di Taylor (1999), le vittime di un disastro vengono suddivise in quattro

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livelli:

• Vittime di primo livello: sono rappresentate dai deceduti, dai feriti e dai sopravvissuti

all’evento stesso;

• Vittime di secondo livello: sono coloro che hanno stretti legami con le vittime di primo

livello, quindi familiari o amici;

• Vittime di terzo livello: sono i soccorritori che hanno prestato servizio nell’evento;

• Vittime di quarto livello:sono i membri della comunità che sono intervenuti nell’evento,

come ad esempio i vicini di casa o il sindaco

Secondo altri studiosi (Cusano, 2002; Napoli, 2003) a queste quattro categorie se ne aggiungono

altre due, rappresentate da:

• Vittime di quinto livello: coloro la cui situazione pre-critica a seguito dell’evento

potrebbe sviluppare un disturbo psicologico;

• Vittime di sesto livello: coloro che durante l’evento sarebbero potute diventare vittime di

primo livello o che hanno spinto altri ad intervenire nell’evento o, ancora, che per

qualche motivo indiretto si sentono coinvolte.

Nei “Criteri di massima per l’intervento psicosociale nelle catastrofi” si ritrovano anche i criteri

per la diagnosi dello stress post-traumatico, secondo i quali l’individuo che ha assistito ad un

evento che avrebbe potuto portare a morte o minaccia di morte o gravi lesioni, può sviluppare

disturbi che minacciano la propria e altrui integrità fisica.

In riferimento al soccorritore, la normativa fa riferimento ad uno stress traumatico secondario,

secondo cui il soggetto può manifestare reazioni comportamentali ed emotive alla luce di

portare aiuto ai superstiti o in seguito all’essere venuti a conoscenza di eventi traumatici che

hanno subito altre persone.

1.3.3 Scenari di intervento

I “Criteri di massima per l’intervento psicosociale nelle catastrofi” distinguono gli eventi critici

in base alla loro entità in:

- Evento catastrofico ad effetto limitato: in questa circostanza le strutture di soccorso sono

integre e le operazioni di soccorso sanitario sono limitate alle 12 ore successive all’evento.

L’EPE viene comunque attivata e la sua attività di soccorso si estende per un tempo

maggiore a quella dei servizi sanitari. In quest’ottica, obiettivi dell’EPE sono tutelare la

salute psichica delle persone coinvolte, mettere in comunicazione coi servizi psicologici e

psichiatrici del territorio coloro che accusano disturbi e, infine, valutare l’intervento fatto

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sul campo.

- Evento catastrofico che travalica le potenzialità di risposta delle strutture locali: in questa

circostanza il territorio colpito è ampio e il numero delle vittime è elevato. Nella fase acuta

l’operato l’EPE agirà in parallelo alle attività di soccorso sanitario e alla messa in

sicurezza della popolazione, con interventi di supporto emotivo immediato e

soddisfacimento dei bisogni primari di sopravvivenza. Nelle fasi a breve – medio termine,

l’EPE dovrà spostare la sua attenzione sulle conseguenze psicologiche, sociali e adattive

della popolazione; dovrà ripristinare le reti di supporto sociale o, in alternativa, crearne

delle nuove qualora le prime fossero carenti o non più usufruibili. Inoltre, tramite

un’attenta attività di monitoraggio dovrà verificare l’esistenza di strutture e risorse nella

comunità per semplificare l’accesso ai servizi sanitari e sociali.

20

Gazzetta Ufficiale N. 200 del 29 Agosto 20063

DIRETTIVA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 13 giugno 2006

Criteri di massima sugli interventi psico-sociali da attuare nelle catastrofi.

IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Visto l’art. 5, comma 2 del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni,

dalla legge 9 novembre 2001, n. 401,in cui e’ previsto che il Presidente del Consiglio dei Ministri

predisponga gli indirizzi operativi dei programmi di previsione e previsione dei rischi, nonché i

programmi nazionali di soccorso e i piani per l’attuazione delle conseguenti misure di emergenza,

di intesa con le regioni e gli enti locali.

Considerata la particolare importanza di prestare la massima attenzione ai problemi di ordine

psichiatrico-psicologico che possono manifestarsi nelle popolazioni colpite da eventi calamitosi sia

tra le vittime che tra i soccorritori;

Ritenuto che le catastrofi possono produrre nella psiche degli individui effetti di lunga durata,

compromettendo così le capacità di reazione e di adattamento degli stessi;

Ritenuta, altresì, la necessità che gli interventi psico-sociali adottati tengano inoltre in massima

considerazione le caratteristiche specifiche del territorio e le abitudini degli abitanti;

Considerata l’esigenza di fronteggiare i bisogni psico-sociali che si manifestano a seguito di

emergenze nazionali, mediante l’avvio di attività e di iniziative utili a tali fini, nonché attraverso la

programmazione di interventi coordinati in grado di garantire risposte efficienti ed efficaci per le

popolazioni colpite da calamità;

Vista la proposta del capo del Dipartimento della protezione civile;

Vista l’intesa, espressa dalla Conferenza unificata nella seduta del 1° marzo 2006, ai sensi dell’art.

107, comma 1, lettera f), n. 1 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 sulla proposta del

3 http://gazzette.comune.jesi.an.it/2006/200

21

Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri in ordine ai «criteri

di massima sugli interventi psico-sociali da attuare nelle catastrofi»;

ADOTTA

i seguenti indirizzi operativi in ordine ai «Criteri di Massima sugli Interventi Psico-sociali da

Attuare nelle Catastrofi».

Premesse e finalità. Nel contesto degli interventi a sostegno delle vittime di eventi catastrofici e’

necessario prestare massima attenzione ai problemi di ordine psichiatrico-psicologico che possono

manifestarsi sulle popolazioni colpite e sui loro soccorritori. Essi possono palesarsi in fase acuta o

evolvere in modo subdolo, con ripercussioni, anche nel lungo periodo. I disastri, sia di origine

naturale o causati dall’uomo, possono essere distinti – rif. Gazzetta Ufficiale n. 126 del 12 maggio

2001 - in base alla loro entità in: eventi catastrofici a effetto limitato; eventi catastrofici che

travalicano le potenzialità di risposta delle strutture locali. In entrambi i casi si differenziano dalle

situazioni di emergenza individuale o di piccola scala in quanto necessitano di una risposta

qualitativamente diversa; il contesto delle maxi emergenze richiede infatti l’utilizzo di metodologie

e procedure peculiari che prendano in considerazione il numero dei soggetti coinvolti e la precarietà

delle condizioni ambientali che si vengono a determinare. E’ inoltre opportuno osservare che le

catastrofi possono produrre sugli individui effetti di lunga durata e mettere a dura prova le capacità

di reazione e di adattamento sia del singolo individuo che dell’intera comunità. Si assiste infatti in

questi casi al venir meno delle risorse di autoprotezione, normalmente presenti in un gruppo di

individui che condividono le stesse abitudini di vita, e pertanto e’ necessario che gli interventi

psico-sociali adottati tengano in massima considerazione le caratteristiche specifiche di quel

territorio e della comunità che lo abita.

Da tali considerazioni scaturisce l’esigenza di fronteggiare i bisogni psico-sociali che si manifestano

a seguito di emergenze nazionali attraverso azioni ed interventi coordinati in grado di garantire

risposte efficaci e di qualità. A questo fine sono stati redatti i presenti criteri di massima il cui

contenuto e’ così suddiviso: rete organizzativa, articolata in strutture di riferimento e risorse umane

dedicate; destinatari degli interventi; scenari d’azione.

1. Equipe psicosociale per le emergenze (EPE) . Le regioni e le province autonome di Trento

e Bolzano dispongono affinché, in relazione alle caratteristiche geosociali e all’entità dei

rischi presenti nel proprio territorio, si costituiscano equipe per il supporto psico-sociale alla

22

popolazione colpita da calamità. Tali equipe vengono identificate, di norma, utilizzando le

risorse esistenti nei servizi dipendenti dal Servizio sanitario regionale. Le equipe,

precedentemente formate, operano nell’ambito del sistema di emergenza garantendo il

proprio intervento sia in eventi catastrofici ad effetto limitato che in eventi catastrofici che

travalicano le potenzialità di risposta delle strutture locali.

• Obiettivi. L’equipe, in rapporto alle varie fasi dell’intervento ed agli specifici

bisogni emergenti, deve poter: consentire la realizzazione delle manovre prioritarie

per la sopravvivenza fisica dei destinatari dell’intervento e provvedere alla tutela

della salute psichica attraverso l’attivazione di tutte le risorse personali e

comunitarie; garantire, oltre alla raccolta delle domande di aiuto spontanee, processi

di identificazione attiva dei bisogni; mettere in atto le iniziative di supporto in modo

coordinato con le altre azioni previste ed attivate nella catena dei soccorsi sanitari, al

fine di evitare sovrapposizioni e potenziali conflitti; incentivare i processi di

autodeterminazione, riconoscendo ad ogni destinatario dell’intervento il diritto di

operare scelte consapevoli relativamente alla propria salute; tutelare la dignità ed il

rispetto della persona in tutte le azioni di soccorso, supportando la decodifica delle

differenze e delle specificità culturali dei destinatari e vigilando affinché non

insorgano processi di stigmatizzazione, in particolare attraverso l’etichettamento di

comportamenti che potrebbero sembrare anomali se separati dal contesto in cui sono

rilevati; porre particolare attenzione alla distribuzione delle informazioni utili ad

attivare comportamenti auto protettivi e di ri - orientamento e fornire strumenti per

facilitare la comunicazione, la comprensione e l’utilizzo delle informazioni stesse;

garantire la raccolta e la conservazione accurata dei dati utili all’intervento, al fine di

permettere una costante azione di monitoraggio degli interventi stessi.

• Organizzazione . La regione, attraverso la propria organizzazione, individua, di

norma, tra il personale dei servizi dipendenti i componenti dell’equipe. Il personale

selezionato, che può essere integrato con ulteriori risorse identificate nell’ambito di

associazioni di volontariato, enti locali, ordini professionali ecc.. Dovrà essere

adeguatamente formato sui compiti da svolgere in situazioni di catastrofe collettiva

ed addestrato tramite specifiche esercitazioni. L’equipe, per poter rispondere

immediatamente in situazioni di emergenza, deve inquadrarsi all’interno

dell’organizzazione sanitaria delle maxi-emergenze in modo da potersi avvalere di

supporti logistici e di radiocomunicazioni. Il suo responsabile, nell’area del disastro,

opererà nel rispetto delle linee gerarchiche, secondo la catena di comando e controllo

23

fissata dalle autorità competenti. L’equipe, che trova la sua sede di lavoro nei locali

di una struttura fissa o mobile, opera in prossimità del Posto Medico Avanzato

(PMA) e presso i luoghi di raccolta, smistamento e accoglienza della popolazione.

Ad essa deve essere garantita la sicurezza e la riservatezza per lo svolgimento delle

attività di colloquio oltre che un adeguato spazio per le attività di gruppo e di

coordinamento. I suoi operatori dovranno essere riconoscibili attraverso casacche o

giubbotti di colore verde a cui va apposta la sigla «PSIC».

• Referente dell’equipe psicosociale . La regione identifica, nell’ambito della propria

organizzazione, il referente della funzione di supporto psicosociale che svolge i

seguenti compiti: coordina la stesura del piano degli interventi dell’equipe, sulla base

della conoscenza degli specifici rischi del territorio, delle strutture della rete psico-

sociale presenti nell’area di competenza, delle capacità ricettive di tali strutture e del

personale che vi opera; definisce all’interno del piano di settore le attività che

l’equipe deve svolgere in emergenza nei riguardi delle vittime della comunità di

riferimento e dei soccorritori, collaborando con le istituzioni nelle varie fasi di

pianificazione e prevedendo la pronta disponibilità dei materiali e dei mezzi

necessari per lo svolgimento dei compiti; allerta l’equipe in emergenza; assicura

l’intervento sul luogo del disastro, immediatamente dopo il verificarsi di un evento

catastrofico, dirigendo gli interventi dell’equipe sotto il coordinamento del direttore

dei soccorsi sanitari; fa riferimento al responsabile della «Funzione 2» che ha il

compito di gestire tutte le problematiche relative agli aspetti sanitari dell’emergenza

successivamente alla costituzione dei Centri di coordinamento (COM-CCS, ecc.);

dispone il turn-over degli operatori; effettua una valutazione dei risultati acquisiti e

provvede alle correzioni necessarie a migliorare il piano di interventi per eventuali

emergenze successive; coordina in stretta collaborazione con i servizi sanitari del

territorio le attività di follow-up a lungo termine.

2. Destinatari . Destinatari primari degli interventi di supporto psicologico - psichiatrico in

emergenza sono le vittime dirette di eventi dirompenti ed improvvisi indipendentemente

dalla gravità dei danni materiali subiti ed evidenti. Debbono essere considerati potenziali

destinatari anche i testimoni diretti di fatti gravemente lesivi che hanno minacciato o

compromesso la sopravvivenza di un essere umano; i familiari delle vittime, per quanto

lontani da un diretto coinvolgimento; i soccorritori, volontari e professionisti, che a qualsiasi

titolo abbiano prestato il proprio aiuto alle vittime e ai sopravvissuti. Oltre che i singoli

24

individui, destinatari di intervento possono essere interi gruppi sociali quali famiglie,

squadre di soccorso, team operativi e altri gruppi: in tali casi l’intervento deve consentire di

far mantenere o riacquistare relazioni positive e costruttive. Nei casi in cui venga rilevata la

necessità di stabilire delle precedenze per l’attivazione di azioni supporto, priorità verrà data

alle fasce della popolazione più deboli e dunque a bambini ed anziani, persone con

disabilità, soggetti già sofferenti di disturbi mentali ecc. A prescindere dalla tipologia

dell’evento catastrofico, e’ opportuno valutare a priori i fattori di rischio di un contesto

emergenziale per poter prevenire disagi di natura psico-fisica nei soccorritori. Una volta che

gli operatori sanitari si troveranno ad intervenire sul luogo della catastrofe dovrà essere

garantito il loro lavoro attraverso un’azione di monitoraggio volta ad individuare segni e/o

sintomi di possibili condizioni di stress e/o di disturbi psichici.

3. Contesti d’intervento relativi all’entità dell’evento . 3.a. Evento catastrofico a effetto

limitato. Un evento catastrofico ad effetto limitato, secondo la definizione fornita nella

Gazzetta Ufficiale n. 109 del 12 maggio 2001, e’ caratterizzato dalla integrità delle strutture

di soccorso del territorio in cui si manifesta e da una limitata estensione nel tempo delle

operazioni di soccorso sanitario (meno di 12 ore). In caso di una maxi-emergenza, la C.O.

118 attiva il piano straordinario dei soccorsi includendo nell’allertamento anche il referente

dell’equipe di riferimento. Questi si rapporta al Direttore dei soccorsi sanitari (DSS), che

coordina gli interventi sanitari sul luogo del disastro. E’ ipotizzabile che tale equipe debba

rimanere in attività per un tempo più lungo rispetto al PMA, con cui e’ in continuo raccordo,

per consentire di essere a supporto anche a tutto il personale che ha preso parte alle

operazioni di soccorso. Al termine della fase di emergenza, dovranno essere garantite alcune

funzioni e interventi essenziali a tutela della salute psichica della popolazione colpita. Gli

individui che sviluppano disordini psicologici e psichiatrici (inclusi i disturbi da stress post

traumatico), dovranno avere accesso ad appropriati servizi di sostegno psicosociale presenti

sul territorio per permettere loro una continuazione terapeutica. Dovranno essere attivate

azioni di valutazione degli interventi realizzati durante l’emergenza con particolare

riferimento alle attività svolte sul campo. 3.b. Evento catastrofico che travalica le

potenzialità di risposta delle strutture locali. In una situazione generalmente caratterizzata da

devastazione di ampi territori, da un elevato numero di vittime e da un coordinamento delle

operazioni spesso estremamente difficile, l’attivazione dell’equipe dovrà avvenire

contestualmente all’inizio delle attività degli altri interventi di emergenza sanitaria. In tale

situazione, il supporto psicologico verrà offerto, nei limiti del possibile, nella fase

25

immediatamente successiva all’evento. Con l’attivazione dei vari centri di coordinamento

dove opereranno enti, amministrazioni ed associazioni di volontariato anche provenienti da

zone esterne all’area coinvolta, la gestione degli aspetti psicologico-psichiatrici dovrà

ricondursi nell’ambito della Funzione 2 «sanità umana e veterinaria». Sul piano operativo e’

utile distinguere una fase acuta, le cui caratteristiche e interventi sono sovrapponibili a quelli

già descritti in precedenza, ed una fase di breve-medio termine che si conclude con la fase di

ritorno alla normalità. Come per la catastrofe ad effetto limitato e’ difficile predeterminare la

durata specifica di ciascuna fase. Interventi a breve-medio termine. Nella fase acuta gli

interventi sono rivolti prevalentemente: alla salvaguardia della popolazione attraverso

l’allontanamento della medesima dalla zona di pericolo; all’adozione di tutte le misure

sanitarie di primo soccorso; al supporto emotivo immediato e di soddisfacimento dei bisogni

essenziali per la sopravvivenza. Successivamente emergeranno le necessità legate

all’adattamento della popolazione in un complesso abitativo provvisorio ed alle conseguenze

psicologiche, sociali e pratiche connesse agli esiti dell’evento disastroso. Nella fase a breve-

medio termine l’equipe svolge quindi non solo attività rivolte al sostegno della popolazione

ma anche funzioni volte a promuovere il ripristino delle reti di supporto sociale preesistenti

o la creazioni di reti alternative per il rafforzamento delle risorse locali e le strategie di

solidarietà presenti all’interno delle comunità. E’ necessario ricercare una collaborazione

costante con tutti gli altri soggetti coinvolti nella gestione dell’emergenza e con le istituzioni

della comunità, verificando la disponibilità delle strutture presenti (servizi sanitari pubblici,

servizi di salute mentale, servizi socio-assistenziali, strutture sanitarie private). E’ opportuno

inoltre facilitare l’accesso ai servizi sanitari e sociali; fornire documentazione sulle persone

a cui si e’ prestata assistenza in condizioni di emergenza e sugli interventi attuati; rendere

disponibile ai Servizi richiedenti le informazioni sulle valutazioni relative ai fattori di rischio

e di vulnerabilità individuali e collettivi allo scopo di attuare revisioni periodiche e follow-

up a lungo termine.

4. Formazione . Il tema della formazione riveste un’attenzione particolare poiché rappresenta

una delle principali risorse utilizzabili all’interno delle strategie di prevenzione. La

conoscenza diffusa ed approfondita degli scenari di rischio, delle procedure organizzative e

dei comportamenti più idonei da adottare in emergenza, può infatti migliorare i livelli di

vigilanza, ridurre i tempi di risposta, rinforzare i comportamenti più efficaci per contrastare

le minacce e limitare gli effetti degli eventi lesivi. Le ricerche dimostrano che una parte

degli stress individuali e collettivi che si sviluppano a seguito di disastri possono essere

26

ridotti da un’adeguata preparazione di tutti gli attori coinvolti, sia a livello individuale che

collettivo. Finalità generale di ogni azione formativa in questo campo e’ dunque quella di

diffondere e consolidare strategie efficaci a fronteggiare dei pericoli attivando rapidamente

processi di selezione percettiva e processi cognitivi complessi, a fronte di emozioni intense e

processi comunicativi non ordinari. In questo senso, ogni azione di formazione deve

necessariamente includere modi efficaci di comunicare, decidere, valutare, gestire le

emozioni e far conoscere procedure comuni all’interno dei differenti scenari ipotizzati. I

professionisti, che operano in campo psicosociale, devono essere adeguatamente formati a

svolgere attività che sono proprie di un contesto di emergenza collettiva. Tra queste si

possono elencare: attività informative rivolte alla popolazione sulle tecniche di gestione

dello stress e sulle reazioni a situazioni critiche; attività di ricongiungimento con i familiari;

raccolta di dati per la valutazione post-emergenza; informazioni connesse ai bisogni pratici

della popolazione.

Roma, 13 giugno 2006

Il Presidente: Prodi

Registrata alla Corte dei conti il 28 luglio 2006 Ministeri istituzionali Presidenza del Consiglio dei

Ministri, registro n. 9, foglio n. 331

mentali, 1994.

27

Allegato 1: TRIAGE

Il triage e’ l’insieme di criteri su cui l’operatore si basa per classificare i soggetti in classi di priorità

di trattamento (gravità della condizione clinica e differibilità/indifferibilita’ dell’intervento

terapeutico) e per indicare il tipo e le modalità di invio del paziente alle strutture sanitarie della

catena dei soccorsi. Il triage deve consentire la valutazione delle conseguenze psicologiche e

psichiatriche dell’evento catastrofico, essere prioritariamente rivolto alle vittime, alle categorie a

rischio ed ai soccorritori che presentano un’evidente condizione di disagio che può interessare la

sfera emotiva, cognitiva e comportamentale. Particolare attenzione deve essere posta alle modalità

di conduzione della valutazione, al contesto in cui essa viene effettuata, alle esigenze o priorità

espresse dal soggetto, alla tutela della privacy ed al rischio di stigmatizzazione.

Procedure. Per effettuare un efficace triage, selezione che deve avvenire a tutti i livelli della catena

dei soccorsi, si deve tener conto che: le operazioni richiedono la disponibilità di spazi adeguati che

consentano un livello accettabile di privacy; le procedure devono essere adeguate alla peculiarità

degli scenari ed essere utilizzabili da operatori con livelli di formazione differente; i protocolli

devono comunque essere semplici, di rapida memorizzazione ed esecuzione, basati su criteri di

assegnazione dei livelli di priorità attendibili e riproducibili; le valutazioni e gli eventuali interventi

effettuati devono essere sempre registrati e la documentazione relativa deve essere opportunamente

conservata e prontamente accessibile; le operazioni di triage non devono rallentare o interferire con

le altre operazioni di soccorso.

Strumenti. Per le operazioni di triage devono essere disponibili: schede di triage, possibilmente in

custodie impermeabilizzate, che devono seguire il soggetto nei vari trasferimenti e documentare le

valutazioni effettuate ed i provvedimenti adottati. E’ necessario che le schede contengano almeno i

seguenti dati: generalità, classe di priorità assegnata, ipotesi diagnostica, eventuali interventi

effettuati indicazioni per l’invio; tags di triage, in custodie impermeabili, per la identificazione del

soggetto e della classe di priorità assegnata. Per una facile identificazione, potrà essere utilizzata la

sigla Psic seguita da un codice numerico (1, 2, 3) corrispondente alla classe di priorità assegnata;

presidi farmacologici per gli interventi di emergenza.

CLASSI DI PRIORITA’ Priorita’ bassa (Psi 1). Soggetti con sintomi psicopatologici lievi che

richiedono interventi di supporto psicologico o trattamenti farmacologici differibili. Priorità

28

intermedia (Psi 2). Soggetti con sintomi psicopatologici di gravità intermedia che richiedono una

valutazione specialistica per interventi di supporto psicologico e/o trattamento farmacologico, dopo

eventuale periodo di osservazione. Priorità alta (Psi 3). Soggetti con gravi reazioni peritraumatiche

che comportano marcata riduzione dell’autonomia individuale, ridotta consapevolezza di malattia,

compromissione delle funzioni cognitive, pericolosità per sé e per gli altri e pertanto richiedono

interventi immediati o valutazioni specialistiche.

FORMAZIONE Gli specialisti che operano in emergenza devono essere preparati, durante la

formazione, a svolgere le seguenti funzioni, rivolte alle vittime di una catastrofe: Accoglienza –

Ridurre l’esposizione dei soggetti agli eventi traumatici ed alle loro conseguenze; soddisfare i

bisogni primari e pratici; facilitare la verbalizzazione delle emozioni e la condivisione delle

esperienze; favorire la ricomposizione dei nuclei familiari; aiutare a riguadagnare un senso di

controllo sulla situazione e favorire il recupero di un ruolo attivo ecc. Informazione – Fornire

informazioni semplici, accurate ed attendibili: sulle cause, sulla evoluzione, sulle conseguenze

dell’evento; sui servizi di emergenza immediatamente disponibili (accessibilità ai servizi); sulle

condizioni dei familiari; Raccogliere, verificare e diffondere notizie nel rispetto delle persone

coinvolte nell’evento (deceduti, vittime con danni fisici, ospedalizzati, dispersi) e degli addetti alla

comunicazione; registrare i dati delle persone assistite e degli interventi effettuati; valutare le

esigenze informative di specifici gruppi (bambini e adolescenti; anziani; persone con problemi fisici

e mentali) e la necessità di fornire le informazioni anche in lingue diverse.

Interventi clinici – Valutare la presenza di reazioni emotive, disturbi del comportamento e/o

significative alterazioni del funzionamento cognitivo che possono essere legate ad eventuali

condizioni patologiche organiche; identificare i soggetti che necessitano di assistenza psicologica –

psichiatrica immediata (per condizioni acute e gravi, che possono ridurre la capacità di autonomia,

intralciare le operazioni di soccorso e creare situazioni di pericolo per se e per gli altri) e coloro che

richiedono ulteriori approfondimenti diagnostici; individuare coloro che richiedono interventi

sanitari d’emergenza non psichiatrici; fornire interventi psicologici o psichiatrici non differibili a

soggetti con gravi reazioni emotive, disturbi del comportamento, alterazioni significative del

funzionamento cognitivo.

Interventi psico-sociali – Svolgere attività psico-sociale individuale, familiare e di gruppo per

mezzo di tecniche accreditate; effettuare interventi alle prime fasi dell’elaborazione del lutto in

situazioni specifiche (identificazione dei deceduti; partecipazione a cerimonie o rituali della

comunità), o su aspetti pratici (accesso ai servizi di emergenza sanitaria e sociale; accesso ai servizi

amministrativi e legali per problemi finanziari, lavorativi o abitativi); svolgere interventi di

29

consulenza individuali e di gruppo nei confronti di operatori che hanno compiti educativi o che

sono punto di riferimento delle comunità.

1.4 La crescita postraumatica

Nel pensiero filosofico e religioso, da lungo tempo, è stato riconosciuto che la sofferenza è una

condizione essenziale della vita umana e, l’esperienza di eventi avversi, rendono le persone più

sagge.4

Per Nietzche “tutto ciò che non uccide fortifica” mentre, per Frankl, la sofferenza obbliga le

persone a trovare un significato alla propria vita e questa ricerca può trasformare una tragedia in un

“trionfo”. Tedeschi e Colhaun nel 19965 hanno introdotto l’espressione “crescita postraumatica”,

secondo la quale l’individuo dopo un evento avverso può andare incontro a cambiamenti positivi in

tre aree:

• La percezione di Sé: può modificarsi al meglio in quanto non ci si sente più vittime o

superstiti, ma persone che ora “vivono” e non più sopravvivono: aumenta la fiducia in se

stessi e ci si sente in grado di fronteggiare ogni difficoltà. Al contempo, però, alcuni possono

diventare più consapevoli delle proprie fragilità e vulnerabilità.

• Le relazioni interpersonali: dopo l’evento avverso, si ha la tendenza a stringere nuove

relazioni, fortificare quelle esistenti e, interrompere quelle infruttuose. La capacità di

esprimere emozioni può aumentare e, allo stesso modo si ha un incremento dell’empatia o

l’altruismo verso gli altri e l’accettazione di un aiuto.

• La filosofia di vita: le persone che hanno visto minacciata la propria esistenza, imparano ad

apprezzare in miglior modo la vita stessa e, a vivere in modo più intenso ogni singolo

giorno. Gli affetti e le piccole soddisfazioni vengono anteposti, in ordine di importanza, ai

soldi e alla carriera; in molti si interrogano sul significato dell’esistenza e, questo passaggio

è caratterizzato dal dolore. In seguito a ciò ci si può avvicinare all’impegno religioso o,

allontanarsi se l’evento viene interpretato come una contraddizione ai precedenti principi

religiosi.

4 PIETRANTONI L., PRATI G.2009,La psicologia dell’emergenza, Il Mulino, Bologna,pp.. 98 – 103.5 TEDESCHI R. G., CALHOUN L.G., 1996, The posttraumatic Growth and deritualization: A re-interpretasion of findings from early disaster research, in “Social Science Journal”,44, pp. 161 – 166.

30

Capitolo 2

Le reazioni da stress

2.1 Inquadramento generale del problema

Le reazioni di stress possono essere la conseguenza di eventi traumatizzanti di vario tipo. Prima,

durante e dopo un evento avverso le persone possono aver subito traumi di diverso tipo, legati ad

esempio a precedenti lutti, perdite importanti, storie di abusi di vario tipo o, ancora, esperienze di

guerra dove sono stati vittime di rapimenti.

E’ importante partire dal presupposto che le calamità non portano nelle persone i medesimi effetti

ma, questi variano per l’appunto dalle proprie esperienza personali vissute e dalla propria

vulnerabilità. Ogni soggetto è diverso dall’altro e il modo con cui si vivono esperienze traumatiche

è vario; l’intensità e il tipo di reazioni varia nell’ambito dello stesso disastro.

Se si prendono ad esempio i superstiti, vedremo che alle difficoltà finanziarie, di ricostruzione delle

proprie abitazioni e allo stato di disoccupazione, si aggiungono altri stressor dati dalle

problematiche familiari o problemi cronici di salute. La ricerca di soluzioni a questi problemi

rappresenta un’ulteriore fattore di stress per loro stessi.

Le differenze culturali e personali e il proprio vissuto sono fattori importanti da prendere in

considerazione nello stabilire una relazione di aiuto, e per capire il perché ogni persona reagisce in

modo diverso alla stessa calamità e nel processo di ripresa6.

2.2 Fattori associati allo stress da calamità

Le persone esposte direttamente ai pericoli e al rischio di morire sono quelle che subiranno le

conseguenza più importanti. A prescindere dal tipo di stressor (evento calamitoso, abuso fisico,

combattimento..) la forza della stimolazione è un forte predditore di chi ne risentirà maggiormente:

la minaccia di morte e l’esposizione sensoriale – vedere immagini e sentire odori stressanti, udire

suoni stressanti – fanno aumentare la probabilità che si manifesti un disturbo post traumatico.

Non solo i superstiti, ma anche i loro familiari e i soccorritori sono persone a rischio di sviluppare

sequele psicologiche: nelle ultime due categorie si parla di “traumatizzazzione vicaria”, forma di

disturbo che si instaura in seguito alla relazione con persone traumatizzate e che si esprime con

ansia, agitazione, depressione, insonnia, apatia e problemi relazionali con parenti e amici.

6 TOUNG B.H., FORD J.D., RUZEK J.I., FIRIEDMAN M.J., GUSMAN F. D.2002, L’assistenza psicologica nelle emergenze. Manuale per operatori e organizzazioni nei disastri e nelle calamità. Erickson, Trento.

31

Alcuni fattori associati allo stress da calamità vengono riportati nella sequenza che segue:

- lesioni personali;

- decesso o lesioni subite dalla persona amata, parenti, amici o colleghi;

- perdita di beni materiali o trasferimento;

- stress preesistente;

- livello di preparazione personale e professionale;

- reazione di stress di altre persone significative;

- traumi precedenti;

- aspettative su di sé;

- esperienza precedente con situazioni di calamità;

- percezione/interpretazione delle cause;

- livello di sostegno sociale.

Come già accennato, le reazioni individuali variano nell’evento traumatizzante: nonostante ciò i

ricercatori hanno individuato un modello unico di reazioni comportamentali, biologiche,

psicologiche e sociali negli individui esposti direttamente o vicariamente all’evento e, questa seria

di risposte, prende il nome di “sindrome da stress post-traumatico”.

In fase di emergenza le reazioni di stress sono di grado lieve o moderato e ciò è dovuto alla capacità

delle persone di comprendere ciò che è successo. Generalmente dette risposte non mutano in

problemi cronici e, tendono ad esaurirsi nell’arco di 6 o 16 mesi dall’evento (Baum e Fleming,

1993; Bravo et al., 1990; Dohrenwend et al., 1981; Green et al., 1994; La Greca et al., 1996;

Steinglass e Gerrity, 1990; Vernberg et al., 1996).

Recenti studi di clinici esperti impegnati nei servizi di salute mentale, hanno constatato che le

reazioni biopsicosociali possono essere inserite in modelli predicabili e possono essere osservate in

un arco di tempo compreso tra l’insorgenza dell’evento e i 18-36 mesi successivi.

Questo modello è suddiviso in quattro fasi distinte, dove all’interno di ciascuna sequenza esistono

differenze nelle reazioni delle persone:

- Fase eroica : in questa fase gli individui e la comunità canalizzano elevati livelli di energia

nelle operazioni di salvataggio, aiuto e accoglienza. Questa fase di alto livello di

attivazione fisiologica dura da qualche ora a pochi giorni.

- Fase della luna di miele : nonostante le perdite subite, questa fase è caratterizzata da un

alto livello di speranza nei superstiti. La speranza è data dall’attenzione che i mass media

hanno nei confronti dell’evento e all’afflusso di risorse. Le persone credono che la loro

vita quotidiana pre-evento riprenderà velocemente. I clinici meno esperti tenderanno ad

andarsene con un giudizio positivo, senza preparare la comunità a ciò che succederà nei

32

giorni o mesi successivi all’evento. Generalmente entro la terza settimana le risorse

diminuiranno, l’attenzione dei vip e dei mass media si sposterà altrove e la comunità non

potrà far altro che rispondere con una diminuzione dell’energia e un aumento della fatica.

- Fase della disillusione : in questa fase nei superstiti aumenta il senso della disillusione a

causa delle difficoltà a tornare ad una vita normale. Le persone scoprono che i i soldi

promessi sono solo prestiti che dovranno essere restituiti, che le decisioni prese dai

burocrati si basano sugli scopi personali e non sulle necessità della popolazione. Sempre di

più la speranza diminuisce e contemporaneamente aumenta il senso di abbandono,

ingiustizie, incompetenze ed intoppi burocratici che bisogna subire.

- Fase di ristabilizzazione : le basi gettate nei mesi precedenti cominciano a produrre i loro

frutti: ad esempio, i prestiti arrivano e comincia la ricostruzione. Pian piano si ritorna ad

una vita meno caotica e più vicina a quella pre – evento. In questa fase alcuni individui

riescono a recuperare un equilibrio entro 6 mesi dall’evento, mentre per altri sono

necessari dai 18 ai 36 mesi. In alcuni casi, il primo anniversario dell’evento, può innescare

o aggravare i sintomi da stress post traumatico.

33

Reazioni comuni di stress alle situazioni di calamità

34

2.3 Reazioni di stress peritraumatico estremo

Lo stress peritraumatico estremo è un disturbo i cui sintomi compaiono durante o immediatamente

dopo l’esperienza traumatica e sono caratterizzati da reazioni talmente intense che portano a una

menomazione sul piano della realtà, della comunicazione, dell’apprendimento, delle attività del

tempo libero o di cura di sé o delle attività scolastiche e lavorative.

La sintomatologia viene classificata come segue:

- dissociazione (depersonalizzazzione, derealizzazzione, stati di fuga o amnesia);

- ripetizione dell’esperienza dell’evento (flashback, ricordi o incubi terrificanti o ripetizione

automatica nell’azione);

- esitamento (ritiro sociale analogo a quello agorafobico);

- iperattivazione (episodi di panico, problemi di collera o liti, reazioni di trasalimento);

- ansia (preoccupazione, nervosismo, vulnerabilità o senso di impotenza menomanti);

- depressione (anedonia, senso di indegnità, perdita di interesse per la maggioranza delle

attività, risvegli precoci, senso di affaticamento persistente e mancanza di motivazione);

- problemi connessi all’uso di sostanze (abuso, dipendenza o autosomministrazione

impropria di medicinali);

- sintomi psicotici (deliri, allucinazioni, immagini o pensieri bizzarri o catatonia).

Le persone a maggior rischio di stress peritraumatico estremo sono coloro che:

- si sono trovate in immediato pericolo di vita o hanno subito la perdita improvvisa di

qualcuno;

- coloro che hanno subito la perdita della loro casa, della comunità o della loro vita normale;

- sono state sottoposte a richieste emozionali intense da parte di superstiti sconvolti (ad

esempio i soccorritori);

- hanno già avuto problemi psichiatrici o coniugali/familiari in passato;

- hanno già subito perdite importanti.

Le persone che sviluppano questo disturbo corrono un rischio maggiore di sviluppare

menomazioni post-traumatiche ad esordio tardivo o cronico, ad esempio il DPTS, disturbi

d’ansia, abuso di sostanze e depressione (Carena e Spiegel, 1993; Joseph et al., 1994;

koopman et al., 1994; 1995; La Greca et al., 1996; Lonigan et al., 1994; Schwarz e Kowalski,

1991; Shalev et al., 1993).

35

2.4 Disturbo Acuto da stress (D.A.S.)

La caratteristica del Disturbo Acuto da stress è lo sviluppo di ansia, dissociazione e altri

sintomi entro un mese dall’esposizione allo stressor traumatico. Questo disturbo che nasce

solitamente in una minoranza di soggetti sottoposti a stressor importanti (Koopman et al.,

1995; Johnson et al., 1997), si suddivide in cinque pattern principali:

1. dissociazione o senso di ottundimento emozionale;

2. ripetizione dell’esperienza dell’evento;

3. esitamento comportamentale;

4. aumento dell’attivazione fisiologica (iper-arousal);

5. menomazione socio - lavorativa.

Per soddisfare i criteri diagnostici del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1996)

l’individuo deve presentare almeno tre sintomi dissociativi e almeno una forma di ripetizione

del vissuto dell’evento, una forma di esitamento comportamentale, una forma di attivazione

fisiologica e una forma di menomazione sociale o lavorativa significativa. Il disturbo deve

durare come minimo due giorni e al massimo quattro settimane, e deve manifestarsi entro

quattro settimane dall’evento traumatico.

I criteri del DSM-IV per la diagnosi di Disturbo Acuto da stress sono:

Α) la persona è stata esposta a un evento traumatico in cui erano presenti entrambi i seguenti

elementi:

1. la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che

hanno comportato la morte, o una minaccia per la vita, o una grave lesione, o una

minaccia all’integrità fisica propria o altrui;

2. fra le reazioni della persona ci sono state paure intense, senso di impotenza o orrore.

Β) Durante o dopo l’esposizione dell’evento stressante, l’individuo presenta (tre o più) dei

sintomi dissociativi seguenti:

1. sensazione soggettiva di insensibilità, distacco o assenza di reattività emozionale;

2. riduzione della consapevolezza dell’ambiente circostante (per esempio, rimanere

storditi);

3. derealizzazzione;

4. depersonalizzazzione;

5. amnesia dissociativa (incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma).

36

C) L’evento traumatico viene persistentemente rivissuto in almeno uno dei seguenti modi:

immagini, pensieri, sogni, illusioni o flashback persistenti, oppure sensazioni di rivivere

l’esperienza, oppure disagio all’esposizione a stimoli che richiamano l’evento traumatico.

D) Esitamento marcato degli stimoli che evocano ricordi del trauma (per esempio, pensieri,

sensazioni, conversazioni, attività, luoghi o persone).

E) Sintomi marcati di ansia o di attivazione accresciuta (per esempio, difficoltà a dormire,

irritabilità, scarsa capacità di concentrazione, ipervigilanza, risposte di trasalimento esagerate o

irrequietezza motoria).

F) Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale,

lavorativo o di altre aree importanti, oppure compromette la capacità dell’individuo di eseguire

compiti fondamentali come procurarsi l’aiuto di cui ha bisogno o mobilitare le risorse personali

riferendo l’esperienza traumatica ai familiari.

G) Il disturbo dura al minimo due giorni e al massimo quattro settimane, e si manifesta entro quattro

settimane dall’evento traumatico.

H) Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, una sostanza

d’abuso o un farmaco) o di una condizione medica generale, non è meglio spiegabile con la

presenza di un Disturbo Psicotico Breve e non rappresenta semplicemente l’esacerbazione

preesistente appartenente all’Asse I o all’Asse II

2.5 Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS)

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress è una reazione di stress post-traumatico protratta che può

portare a una menomazione della personalità o sociale maggiore rispetto a quella osservabile

nelle comuni reazioni da stress. I criteri per la diagnosi richiedono la presenza di una serie di

sintomi: una forma sintomatica di ripetizione dell’esperienza dell’evento traumatico, almeno tre

sintomi di persistente esitamento degli stimoli associati al trauma e almeno due sintomi di

attivazione elevata. La durata del disturbo (sintomi dei criteri B,C,D) deve essere di almeno un

mese (criterio E). Inoltre, deve esserci un disagio significativo o una menomazione nel

funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti (criterio F).

I criteri per la diagnosi del DPTS sono:

Α) La persona è stata sottoposta a un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le

seguenti caratteristiche:

1. la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con uno o più eventi che hanno

implicato morte o minaccia di morte o gravi lesioni o una minaccia all’integrità

37

fisica o altrui;

2. la risposta della paura comprendeva paura intensa o senso di impotenza o di orrore.

Β) L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno o più dei seguenti modi:

1. ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini,

pensieri o percezioni. Nota: nei bambini piccoli si possono manifestare giochi

ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma.

2. sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nota: nei bambini possono essere presenti

sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile.

3. agire o sentirsi come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include la

sensazione di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, episodi dissociativi di

flashback, compresi quelli che si manifestano al risveglio in condizioni di

intossicazioni). Nota: nei bambini possono manifestarsi rappresentazioni ripetitive

specifiche del trauma;

4. disagio psicologico intenso all’esposizione a fatti scatenanti interni o esterni che

simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.

C) Esitamento persistente degli stimoli associati al trauma e attenuazione della reattività

generale (non presenti prima del trauma), come dimostrato dalla presenza di tre o più dei

seguenti elementi:

5. sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate al trauma;

6. sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma;

7. incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma;

8. riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative;

9. sentimento di distacco o di estraneità verso gli altri;

10. riduzione della gamma di affetti (per esempio, incapacità di provare sentimenti di

amore);

11. senso di mancanza di prospettive (per esempio, aspettarsi di non poter avere una

carriera, un matrimonio o dei figli oppure un arco di vita normale).

D) Sintomi persistenti di forte attivazione (non presenti prima del trauma), come dimostra la

presenza di almeno due dei seguenti aspetti:

12. difficoltà di addormentamento o mantenimento del sonno;

13. irritabilità o scoppi di collera;

14. difficoltà di concentrazione;

15. ipervigilanza;

38

16. reazione di trasalimento esagerata.

E) La durata del disturbo (sintomi dei criteri B, C e D) è superiore a un mese;

F) Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento

sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

2.6 Esperienza di calamità associate al DPTS cronico

Un elemento estremamente importante che si deve ricercare nell’immediato post evento, è

l’individuazione di quei soggetti a rischio di problemi a lungo termine. L’identificazione dei

soggetti ad alto rischio e l’erogazione di specifici servizi preventivi di salute mentale, possono

migliorare la prognosi e permettere di risparmiare le scarse risorse assistenziali disponibili, che

servono alla comunità nei mesi successivi all’evento.

Le gravi reazioni di stress che compaiono durante o immediatamente dopo la calamità sono

segnali di avvertimento essenziali.

Qui di seguito vengono elencati alcuni esempi di eventi minacciosi e le conseguenze

psicologiche che si sono verificate nella popolazione colpita:

1. I superstiti o i testimoni di fenomeni di distruzione totale o di morte (per esempio,

manipolazione di cadaveri, “pulizie etniche” o torture) sono ad alto rischio di

demoralizzazione e menomazione psicosociale post – traumatica (Goijan et al., 1994;

Ursano et al., 1995);

2. Il lutto non risolto pone i superstiti in una condizione di alto rischio di menomazione

psicosociale post – traumatica cronica (Livingston et al., 1994; Green et al., 1983;

Joseph et al., 1994; Shore et al., 1986);

3. La perdita della famiglia o della propria comunità e del sostegno sociale connesso pone

i superstiti in una condizione di alto rischio di lutto cronico e menomazione psicosociale

post – traumatica (Bland et al.,1996; Erikson, 1976; freedy et al., 1992; Keane et al.,

1994; Lima et al., 1993; Lonigan et al., 1994; Palikas et al., 1992; Phifer et al., 1989;

Quarantelli et al., 1986; Solomon et al., 1993; Shore et al., 1986; Vernberg et al., 1996);

4. i superstiti che in passato hanno già subito traumi sono ad alto rischio di menomazione

psico – sociale post – traumatica (Bland et al., 1996; Goenjian et al., 1994; Hodgkinson

e Shepherd, 1994);

5. I superstiti sottoposti agli effetti di ulteriori stressor importanti (per esempio, un

divorzio, la perdita del lavoro o perdite finanziarie) dopo la calamità sono in una

condizione di alto rischio di menomazione psicosociale post – traumatica (Bland et al.,

39

1996; Garrison et al., 1994; Joseph et al., 1994; Koopman et al., 1994; La Greca et al.,

1996);

6. I superstiti di disastri che hanno implicato una contaminazione da sostanze tossiche sono

a rischio di tensione cronica a causa della perdita del fondamentale senso di integrità

personale e di fiducia e della concomitante paura di un deterioramento fisico

incontrollabile e invisibile ( Baun e Fleming, 1993; Dohrenwend et al., 1981;

Hodgkinson, 1989; Lopez-Ibor, 1987).

2.7 Altri fattori associati al DPTS cronico

Il rischio di problemi cronici o a esordio tardivo, in letteratura sono associati al sostegno sociale,

allo stile di fronteggiamento e al lavoro del superstite.

Il rischio, in particolare, è associato a:

1. bassi livelli di sostegno emozionale/sociale o alti livelli di richieste sociali (bambini; La

Greca et al., 1996; figure di accadimento o genitori solo; Solomon et al., 1993);

2. Fronteggiamento attraverso l’evitamento, l’autobiasimo o la ruminazione mentale

(=Hodgkinson e Shepherd et al., 1994; Nolen-Hoeksema e Morow, 1991; La Greca et

al., 1996; Noervel et al.,1993; Titchener et al., 1986; Vernberg et al., 1996; Webster et

al., 1995),

3. Fronteggiamento attraverso l’abuso di sostanze (Joseph et al., 1993);

4. Lavori in servizi di emergenza (per esempio, polizia, vigili del fuoco o professioni

sanitarie) (Bartone et al., 1989; Hodgkinson e Sheperd, 1994; Holen, 1993; Lundin e

Godegar, 1993; Marmar et al., 1996; McFarlane, 1988);

5 bambini i cui genitori hanno una menomazione psicologica peristente (Green et al.,

1991; McFarlane et al.,1987) e bambini i cui genitori sperimentano un di stress

peritraumatico significativo (Earls et al., 1988; Handford et al., 1986; McFarlane et al.,

1987; Milgram e Milgram, 1976). Nella famiglia sembra esserci una relazione reciproca

tra la risposta di stress acuta della figura di riferimento e quella del bambino, per cui la

risposta di stress di uno dei due amplifica quella dell’altro, ponendo sia il bambino che

l’adulto in una condizione di rischio per problemi a più lungo termine.

40

Capitolo 3

Il trauma

3.1 Concetti generali

L’obiettivo di questo capitolo, è ampliare la definizione di “trauma” rispetto a quella che ci

viene presentata dal DSM IV: gli eventi considerati “traumatici” non si riferiscono solo a quelle

circostanze che mettono in pericolo la vita delle persone o ne implicano minaccia alla loro

integrità psico – fisica, ma anche a quelle che l’individuo percepisce come tali per la loro

valenza negativa, per l’imprevedibilità e la non controllabilità.

La natura degli eventi è considerata traumatica: nel DSM III gli autori pensano a circostanze al

di fuori della comune esperienza umana, come “…uno stressor che causerebbe a quasi tutte le

persone sintomi significativi di stress…”.

Tutti quegli eventi nella vita delle persone, caratterizzati dalla loro intensità nell’impatto,

possono far sì che il soggetto si ritrovi in una situazione dove non è in grado di rispondere

adeguatamente, venendo così a determinare uno sconvolgimento dell’organizzazione psichica

della persona. Gli effetti possono essere durevoli e, quindi, assumere un aspetto di patogeneità:

le emozioni vissute in modo così intenso, non possono essere dominate in modo razionale e, ne

tanto meno, elaborate psichicamente (Laplanche e Pontalis, 1981)7.

Al di là delle definizioni, è importante ricordare che nell’ultimo secolo, il peso eziologico

attribuito al concetto di trauma, ha subito notevoli fluttuazioni e, solo negli ultimi anni lo si è

riconosciuto come causa di innumerevoli disturbi mentali (Van der Kolk and Var der

Hart,1989)8.

Tramite osservazioni cliniche, ricerche epidemiologiche e sperimentali, gli studiosi di tale

argomento, hanno confermato sempre di più l’ipotesi che prevedeva un nesso causale tra

concetto di trauma psichico ambientale e/o disagio psichico ad origine traumatica (Gershuny

and Thayer, 1999)9.

Nel 1994 Kihlstrom10, ridefinisce il concetto di dissociazione, definendolo come quel processo

disgregativo dell’Io, determinato da meccanismi psichici difensivi, tramite i quali l’individuo

fronteggia situazioni che percepisce come catastrofiche: l’originale valore adattivo di questi

7 LAPLANCHE J., PONTALIS J. B., 1981, Eniclopedia della Psicanalisi, Laterza, Bari, p. 41.8 VAN DER FOLK A., VAN DER HART O.., 1989, American Journal of Psychiatry, pp. 1530 – 1540.9 GERSHUNY, THAYER, 1999, Psychosis, trauma and dissociation; emergine perspective on severe psychopathology, Wiley – Blackwell, Oxford, pp. 83 – 86.10 KILSTROM J. F., 1994, Handbook of intelligence, Cambridege iversity Press, Cambridege, pp. 359 – 379.

41

meccanismi adattivi assume un aspetto patologico, nel momento in cui diventa lo stile difensivo

prevalentemente utilizzato dall’individuo, che ne modella il modo di stare al mondo e di

affrontare ogni altro evento stressante nel corso della sua esistenza (Spiegel,, 1986).

Il disagio psichico che ne deriva raccoglie in sé un’ampia gamma di disturbi largamente

connessi a patologie ad origine traumatica e, quest’area, comprende ad esempio il disturbo11

somatoforme, alcune sindromi “borderline” di personalità, i disturbi bipolari e le sindromi post

traumatiche da stress.

Il primo studioso a parlare di “trauma” fu S. Freud che, con la sua teoria della seduzione,

affermava che i sintomi isterici, genesi della nevrosi, erano il risultato di un trauma reale:

l’individuo era stato colpito da un evento talmente intenso che, non riuscendo a sopportarlo,

inconsciamente lo rimuoveva, lo “cancellava”.

Nel momento in cui si sarebbe poi verificato un evento simile all’originario, i ricordi sarebbero

riaffiorati alla memoria, con connotati distorti, sotto forma di sintomo isterico (Brauer and

Freud, 1895)12. Pertanto, interrogando il paziente, Freud capì che tutto ciò che egli andava

raccontando erano distorsioni della realtà, pure fantasie. Egli dovette pertanto rivalutare tutta la

sua teoria della seduzione, senza però togliere importanza al “trauma reale”, anzi pose

un’ulteriore attenzione al ruolo del trauma e della vulnerabilità individuale.

3.1.1. L’interpretazione psico – dinamica del trauma

E’ ormai noto che la funzione fondamentale del Sistema Nervoso Centrale è quella di

raccogliere le informazioni provenienti dall’esterno (output), elaborarle e, produrre delle

risposte (input), cercando sempre di mantenere uno stato di equilibrio. Gli stimoli che

raccogliamo dal mondo che ci circonda, vengono elaborati attraverso processi cognitivi e,

valutati nelle loro caratteristiche dal Sistema Nervoso Centrale.

Nel momento in cui lo stimolo assume connotati minacciosi e pericolosi (stressor), l’organismo

risponde con una intensa attivazione emozionale, detta reazione da stress, che se

eccessivamente intensa e protratta nel tempo, diventa patogena.

Nella genesi della risposta traumatica, assume notevole rilevanza la capacità o meno

dell’organismo di rispondere tramite una reazione motoria: il non poter reagire o, l’attesa del

pericolo, aumentano la probabilità che l’evento risulti ancora più dannoso. Nel momento in cui

un soggetto si trova a gestire una quantità di eccitazioni incontrollate, si troverà in uno stato di

11 ZACCAGNINI M. V.,2010. Biologia e Disturbo Post traumatico da Stress, pp. 1 – 5. http://animamea.splinder.com/post/.../biologia-e-disturbo-posttraumatico-da-stress.12 FREUD S., 1895, Studi sull’isteria e altri scritti, 1886 – 1895, Bollati Boringhieri, Torino.

42

sofferenze e, se non sarà possibile gestire tale stato in maniera “normale”, mobiliterà forme di

controllo patologiche ed arcaiche (meccanismi di difesa).

In questo caso tutta l’energia viene incanalata in un solo compito: costruire quelle contro

energie necessarie “a dominare l’invasione di una insopportabile eccitazione” (Fenichel,

1951)13; tutte le energie vengono mosse in favore della difesa, indebolendo le funzioni

percettive dell’Io (per non far affluire nuove informazioni che caricherebbero eccessivamente

un’Io già molto compromesso).

Per molti autori il termine trauma è una parola ad ombrello, che incorpora considerazioni

teoriche e cliniche provenienti dalle più svariate origini (Giannantonio, 2000)14. Per spiegare

questo concetto, una buona parte di dette teorie sul trauma poggia sull’assunto che l’organismo

tende, per sua natura, ad integrare tutte le informazioni provenienti dall’esterno e dall’interno,

per dare un senso unitario, di coesione e di continuità spazio – temporale a tutto ciò che lo

circonda (Freud, 1920; Horowitz, 1986; Liotti, 1993).

Se questa attività di integrazione è ostacolata in maniera considerevole, al punto che le

informazioni specifiche non vengono assimilate o lo sono in maniera scorretta, a causa di

disfunzioni a livello psicologico, neuropsicologico o biochimico, si può parlare di trauma.

Queste disfunzioni devono causare un significativo disagio psichico nel soggetto, che si riflette

in una delle principali aree di vita della persona: va infine precisato che, le memorie traumatiche

sono ricostruzioni sempre soggettive dell’evento e, mai supportate da fatti oggettivi.

3.2 Dissociazione e memorie traumatiche

Nel momento in cui ciascuno di noi rielabora le informazioni che provengono dal mondo

esterno, compie una “sintesi personale”, ovvero etichetta e categorizza tali informazioni in base

alle precedenti esperienze.

Nel momento in cui i nuovi eventi hanno connotati dolorosi o spaventosi, potrebbero non essere

integrati nella coscienza superiore e rimanere in uno stato di non elaborazione e, da qui,

scaturisce quel fenomeno definito di “dissociazione”, che si riflette in un meccanismo di difesa

che porta la persona a non essere in grado di rievocare le memorie traumatiche. Infatti, durante

l’immagazzinamento delle memorie traumatiche, il normale percorso lungo le vie amigdalo-

ippocampale subisce una inibizione e di conseguenza una dissociazione.

La dissociazione è una divisione dell’esperienza: gli elementi di quest’ultima non sono integrati

13 FENICHEL O., 1951, Trattato di psicanalisi delle nevrosi e delle psicosi, Astrolabio Ubaldini, Roma.14 www.psicotraumatologia.com/.../emdr_ptsd_disturbo_post_traumatic

43

in un sistema unitario ma, in una memoria con frammenti isolati (Van der Hart 1989;

Nemiah,1998)15.

Secondo Ruggieri (198816), la dissociazione è dovuta ad una frammentazione del pattern già

prodotto, in modo che se l’informazione viene immagazzinata su due canali, sensoriale

(domato-viscerale) e verbale (muscolare), uno dei due verrà inibito, facendo perdere alla

sensazione parte della sua connotazione.

Malgrado la dissociazione possa, temporaneamente, svolgere una funzione adattiva, qualora la

mancanza di integrazione delle memorie traumatiche fosse protratta nel tempo, potrebbe

rappresentare l’elemento critico scatenante il complesso cambiamento biocomportamentale

chiamato DPTS.

L’arousal intenso sembra interferire con l’elaborazione delle informazioni corrette e con il

deposito delle informazioni nella memoria narrativa (esplicita).

L’individuo rimane in uno stato nel quale non trova le parole per descrivere ciò che gli è

successo; come sostiene Janet, quando le persone sperimentano emozioni intense non sono in

grado di rifletterle in un resoconto neutrale, le tracce di memoria del trauma diventano un’ “idea

fissa inconscia” che può essere liquidata solo quando si è in grado di tradurla in un resoconto

personale (Janet 1909, 1925; van der Kolk and van der Hunt, 1991).

Studi recenti in persona con DPTS dimostrano che, durante la provocazione di memorie

traumatiche,m c’è una ridotta attivazione dell’area del Broca ed una simultanea attivazione delle

aree controlaterali che sembrano riguardare le emozioni intense e le immagini visive avute

(Rauch et al., 1995).

La gravità del processo dissociativo (misurata con la Scala Esperienza Dissociative – (Bernstein

and Putnam,1986)17 è correlata con una grande varietà di condizioni psicopatologiche che

sembrano essere associate con le storie del trauma.

Van der folk e Fisler (1995) hanno analizzato i ricordi traumatici, partendo dal presupposto che,

quando si riceve l’informazione sensoriale, essa è sintetizzata in modo automatico, in forma di

resoconto, senza la consapevolezza dei processi che la traducono in una storia personale. Tale

fallimento nell’elaborazione delle informazioni ad un livello simbolico è il fulcro della patologia

del DPTS.

Gli stessi autori riportano anche i risultati di un’altra ricerca in cui il sintomo era provocato con

neuroimmagini che riproponevano scene simili a quelle del loro trauma: in seguito a ciò si è

verificato un aumento significativo delle attività nelle aree dell’emisfero non dominate associate

15 http://www.psicotraumatologia.com/trauma_e_dissociazione.htm16 RUGGERI V., 1988, Mente corpo malattia, Il pensiero scientifico editore, Roma.17 BERNSTEIN E. M., PUTNAM F. W., 1986, Development, reliability, and validity of a dissociation scale, Journal of nervous and mental diseas, Chicago, p.174.

44

con l’elaborazione dell’esperienza emotiva, così come nella corteccia non dominate per

l’elaborazione delle associazioni visive; nell’emisfero dominante si è verificata invece una

diminuzione delle attività nell’area del Broca (Rauch et al.,1995)1819. Gli autori hanno ipotizzato

che, sotto condizioni di stress estremo, il sistema di categorizzazzione della memoria

ippocampale fallisce, lasciando solo tracce di stati affettivi e percettivi delle memorie

immagazzinate.

Questa ipotesi propone che l’eccessivo arousal al momento del trauma interferisce con

l’effettiva memorizzazione e, il risultante stato di “terrore” lascia un segno che può rimanere

immodificato nel tempo e da ulteriori esperienza.

E’ possibile che i flashback siano riflessi delle sensazioni sperimentate al momento del trauma.

L’aumento della sensibilità dell’amigdala, al momento del ricordo, può essere responsabile

dell’assegnazione del significato personale.

3.3 Amnesie traumatiche

Oltre alla dissociazione ed alle memorie traumatiche, il trauma può portare con sé anche altre

disfunzioni della memoria come l’amnesia traumatica e il danneggiamento della memoria

globale.

L’amnesia per eventi traumatici come ad esempio abuso sessuale, incidenti o catastrofi naturali,

per persistere per ore, settimane o anni. Generalmente, il richiamo è scatenato in seguito

all’esposizione a stimoli sensoriali o affettivi, legati a elementi dello stesso tipo, presenti o

collegati al trauma. Ciò significa che la valenza affettiva di alcune esperienza particolari gioca

un ruolo importante nel determinare quali schemi conoscitivi verranno attivati.

Ricordiamo che molte persone con storie di traumi sembrano non aver subito gravi

conseguenza, finché sentimenti connessi con le memorie traumatiche non si risvegliano.

Le amnesie connesse al trauma sono ben studiate e documentate, ma i processi che portano a un

deterioramento della memoria non sono stati ancora capiti. Questo meccanismo è ancora più

complesso quando si parla di bambini che hanno subito traumi, in quanto essi hanno minori

capacità mentali per costruire un resoconto coerente agli eventi traumatici.

E’ probabile che i vuoti tra memoria autobiografica e continue dissociazioni, facciano in modo

che sia pressoché impossibile per questi pazienti ricostruire un resoconto preciso del loro

vissuto, vista la complessità del meccanismo da attuare.

18 http://bjp.rcpsych.org/content/181/2/102.long19 RAUCH S. L., SAVAGE C. R., ALPERT N. M., 1995, A positron emission tomographic study of simple fobic sinptom provocation, Archive of general Psychiatry, Boston, p.52.

45

46

Capitolo 4

La biologia dello stress e il dolore

4.1: Introduzione

Nel momento in cui si cerca di indagare sulle conseguenze biologiche che il trauma può portare,

occorre differenziare i due concetti di “esperienza traumatica” ed “esperienza stressante”. Un

primo approccio si riferisce al senso comune secondo il quale lo stress è la forma estrema

derivante da un evento traumatico.

Sebbene il DSM-IV e le sue precedenti versioni cerchino di differenziare il trauma e lo stress, si

tende a considerare queste esperienze di vita come punti sullo stesso continum.

Questa tendenza è particolarmente rafforzata dalla convinzione che la severità dello stress o

dell’esperienza traumatica venga maggiormente definita, oltre che dalle caratteristiche obiettive

dell’evento, anche e soprattutto dalla risposta emozionale soggettiva

4.2: Lo stress

Lo stress è una reazione emozionale intensa, dovuta a una serie di stimoli esterni (stressor) che

mettono in moto risposte fisiologiche e psicologiche di natura adattiva.

Quando le risposte dell’individuo risultano insufficienti, egli si ritrova in uno stato di

vulnerabilità fisica e psichica.

Il concetto che l’immobilità fosse incompatibile con la vita risale ad Eraclito, dove nel suo

Panta Rei (tutto scorre), intuì come una condizione statica e immutabile, fosse incompatibile

con la sopravvivenza e che la capacità dell’organismo di adattarsi continuamente ai

cambiamenti fosse intrinseca alla vita stessa.

All’inizio del secolo scorso Claude Bernard affermò che la vera libertà e indipendenza di un

individuo dipende primariamente dal “milieu interieur”, il mezzo interno, meccanismi che ne

garantiscono l’integrità interiore e la costanza.

Da questo presupposto ha preso il via il concetto che l’organismo risponde a tutti i fattori esterni

che ne mettono in disequilibrio il funzionamento, principalmente armonico, di tutti i

meccanismi biochimici e metabolici20.

Il termine “stress” prima di essere impiegato in campo scientifico, era utilizzato per indicare

prima di tutto una “difficoltà, avversità o afflizione”, poi in riferimento a una “forza, pressione, 20 ZACCAGNINI M. V.,2010.Biologia e Disturbo Post traumatico da Stress, pp. 6 – 8. http://animamea.splinder.com/post/.../biologia-e-disturbo-posttraumatico-da-stress.2010

47

tensione”, significato che mantiene tutt’ora.21

Il medico W. Cannon fù il primo autore ad impiegare il termine “stress ” all’ambito biologico,

introducendo simultaneamente il concetto di “attacco e fuga” (fight or flight reaction): egli

definì lo stress come uno stimolo e, il livello massimo di stress lo intese come l’apice di

stimolazione sopportabile dai normali meccanismi di compenso dell’organismo umano

(Cannon, 1935;1963).

Durante il primo ventennio del novecento, egli condusse una serie di esperimenti per

individuare il ruolo del sistema simpatico-adrenomidollare in risposta a stimoli emozionale,

come paura e rabbia. Cominciò con lui, quindi, l’interesse per il momento di passaggio tra lo

stimolo e la risposta somato – comportamentale che l’organismo mette in atto, come risposta

adattiva, per mantenere la sua integrità.

Tutte le nozioni e la sistematizzazione del concetto di stress sono riconducibili a H. Selye che

tra l’altro, ha il merito di aver considerato lo stress come una delle principale cause

predisponesti le malattie.

L’autore definisce lo stress come “la risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta

effettuata su di esso” (Selye, 1973) e, definisce “stressanti” tutti quegli stimoli capaci di

aumentare la secrezione di ACTH (ormone adrenocorticotropo). Ciò anche in accordo con le

aumentate dimensioni della corticale del surrene, osservate negli animali da laboratorio, in tutte

quelle situazioni sperimentali nelle quali questi erano esposti a vari stimoli da lui definiti

nocuous (nocivi).

L’aumento nella produzione e secrezione di ACTH provoca una iperstimolazione della corticale

del surrene con incremento dei livelli ematici di cortisolo, responsabili, tra l’altro,

dell’inibizione del sistema immunitario cellulo-mediato, della iperglicemia e dell’azione

ulcerogena sulla mucosa gastrica.

Gli stimoli che l’organismo può percepire, possono essere di vario genere, tra i quali termici,

fisici, emozionali, mentre la risposta biologica , che rimane invariata in base allo stimolo che la

produce, è conseguenza di una reazione difensiva dell’organismo che consiste nell’attivazione

del sistema ipotalamo-ipofisi.corticosurrene (IICS).

21

48

Stimolifisici

Stimolibiologici

Stimolipsicosociali

STRESS (risposta fisiologica aspecifica)

Figura 4.1: Lo stress secondo Selye

S

T

R

E

S

S

O

R

Selye, considerando che la sintomatologia negli animali stimolati risultava costante, chiamò tale

risposta “sindrome generale di Adattamento” (Selye, 1973)22.

Questa sindrome si sviluppa in tre fasi:

1. Reazione d’allarme : L’organismo è improvvisamente esposto a stimoli nuovi. I sintomi

classici sono: tachicardia, perdita del tono muscolare, ipotermia e riduzione della

pressione sanguigna, Si presentano anche manifestazioni atte alla mobilitazione

dell’organismo, come l’aumento nella produzione di corticosteroidi e l’ipertrofia della

corteccia surrenale. Se lo stressor è eccessivamente pressante l’organismo per

sopravvivere dovrà affrontarla con la:

2. Fase di resistenza : completo adattamento dell’organismo al fattore perturbante con

conseguente attenuazione o scomparsa dei sintomi. Se il fattore perturbante persiste, si

ha la:

3. Fase di esaurimento : caratterizzata dal crollo delle difese dell’organismo e dal

22 SELYE, 1973, Impaired cortisol stress response in fish from environments polluted by path, PCBs and mercuri, Springer, New York.

Organismo

49

ripresentarsi delle risposte iniziali. Se lo stressor persiste, l’organismo andrà in contro

alla morte.

Lo stress però, non è da considerarsi solo come una risposta patologica, ma piuttosto come una

risposta adattiva, conseguente a situazioni di stimolo. Tale risposta è da considerarsi patologica

quando lo stimolo nocivo agisce a lungo o con particolare intensità.

La funzione adattiva rende lo stress inevitabile, così come lo stesso Selye definisce: “..la completa

libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa di solito, noi non dobbiamo, e in

realtà non possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace, e trarne vantaggio

imparando di più sui suoi meccanismi e adattando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso”.

Il lavoro di Selye è proseguito da Mason, il quale partì dall’ipotesi che alla base della risposta

biologica dello stress ci sarebbe, oltre alle strutture anatomo - funzionali, responsabili

dell’attivazione emozionale a livello fisiologico, l’apparato psichico dell’individuo, al quale

ricondurre le reazione endocrine di varia natura, individuali e perciò specifiche.Questo punto di

vista corresse il concetto di aspecificità della risposta da stress di Selye e cominciò a rendere

importante la rilevanza psicologica, sia a livello conscio che inconscio, che lo stressor assume per

l’individuo.

Con l’affermazione dell’importanza delle emozioni nelle reazioni da stress, si è originato il concetto

di “stress psicologico” che differisce da quello fisiologico in quanto, come sostenuto da Lazarus

(1966), la risposta dipende dalla valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Quindi, senza

tale rilevanza psicologica uno stimolo non risulta essere nocivo.

4.3: Modelli di risposta dello stress

Numerosi studi effettuati negli ultimi anni, mediante l’applicazione di vari modelli di stress, hanno

enfatizzato concetti quali le differenze esistenti tra lo stress acuto e quello cronico, la rilevanza che

assumono le caratteristiche intrinseche allo stimolo stressante, l’importanza della capacità di

organizzare una risposta appropriata ed efficace.

Sulla base di queste nuove acquisizioni e recuperando il contributo offerto da Mason e Lazarus, il

concetto di stress inteso da Selye è stato sostituito da una visione più integrata del fenomeno,

secondo la quale diverse sollecitazioni inducono differenti risposte nel singolo individuo e fattori

specifici, propri di ciascun individuo, conducono ad una estrema variabilità nella risposta fra

persone diverse23.

Un modello ritenuto valido per una buona parte degli stressor, è quello secondo il quale 23 ZACCAGNINI M. V.,2010. Biologia e Disturbo Post traumatico da Stress, pp. 9 –10. http://animamea.splinder.com/post/.../biologia-e-disturbo-posttraumatico-da-stress.

50

l’attivazione provocata dallo stress inizia con la percezione e il riconoscimento dell’evento

stressante da parte del Sistema Nervoso centrale.

Secondo la teoria proposta da J. Gray negli anni ’80, il sistema libico, e in particolare l’ippocampo,

sarebbe strettamente implicato nel processo di confronto tra lo stimolo e la sua risposta.

L’ippocampo che possiede una rappresentazione dell’ambiente basta su precedenti esperienza ed

immagazzinata in forma di engrammi, agirebbe da “comparatore”, individuando eventuali

discrepanza (“mismatch”) tra eventi attesi ed eventi attuali.

Un modello di Herman e Cullinan (1997)24 che recupera in parte quello di Lazarus, discrimina il

tipo di risposta a seconda dei circuiti seguiti dallo stressor e più precisamente sulla base delle

capacità degli stressor di guadagnare accesso al nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, in modo

diretto, monosinaptica (stimoli “sistemici”,come ad esempio quelli metabolici) o indiretta,

multisinaptica (stimoli “processivi”,come ad esempio quelli psico - sociali).

Ci sono anche stimoli, che a livello della corteccia limbica devono subire un processo di

assemblaggio prima di acquisire significato fisiologico e dare inizio alla cascata di eventi stress –

correlati.

La risposta adattiva è composta da tre elementi:

1. lo stress or: va considerato tenendo presenti le sue caratteristiche di intensità, frequenza,

durata di azione, grado di novità per l’individuo, prevedibilità ed evitabilità. Esistono stress

fisici (shock elettrico, esposizione al freddo), metabolici (ipoglicemia), psicologici (prova

d’esame, calcolo matematico), psico –sociali (perdita o lutto);

2. L’individuo : è il protagonista della risposta di stress su cui lo stressor può agire;

3. L’ambiente : sia interno che esterno, rappresenta la sorgente degli stimoli stressogeni.

Lo studio di questi tre elementi, delle loro modificazioni variamente combinate, dei parametri che lo

caratterizzano, consente di valutare una risposta di stress nelle sue caratteristiche di normalità o

patologia, nel suo pattern temporale e nella sua entità.

4.4: Definizione di dolore

Il dolore rappresenta un fenomeno complesso e di difficile delimitazione. Una sua definizione

universalmente accettata è quella della International Association for the Study of Pain (IASP,

1994), secondo la quale è “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno

tessutale presente o potenziale o descritta come tale”.24HERMAN I. P., CULLIGAN W. E., 1997, Neurocirciutry of stress: centrl control of the hypotalamo – pituitary – adrenocortical axis, Elsevier Science LtD, Vol. 20. http://people.usd.edu/~cliff/Courses/Advanced%20Seminars%20in%20Neuroendocrinology/CeA/CeA3bg.pdf

51

Il dolore è sempre soggettivo, è una sensazione in una o più parti del corpo sempre spiacevole; è

quindi anche un’esperienza emozionale, psicologica.

Spesso, non vi è una relazione tra stimolo nocicettivo e percezione di dolore: è quello che ad

esempio accade quando, in assenza di stimolo nocicettivo, si prova molto dolore (disturbo di

conversione). A parità di stimolo, l’esperienza dolorosa può essere profondamente diversa nei

diversi individui a seconda del significato soggettivo che il dolore ha per quella persona.

Si ricorda anche che il dolore è in grado di mantenere vivo il ricordo di persone decedute,

particolarmente nelle ricorrenze e negli anniversari. Nel momento in cui si sovrappongono cause

fisico – biologiche e psicologiche, risulta complesso orientarsi e, solo l’esperienza clinica del

terapeuta permette di valutare le componenti del dolore stesso.

4.5: Dolore acuto e dolore cronico

Il dolore acuto è quello che si presenta in condizioni traumatiche o quando si verificano alterazioni

nell’equilibrio dell’organismo umano, come ad esempio stati di infiammazione, infezioni,

alterazioni motorie o circolatorie e, ci avverte dell’imminente pericolo. La sua utilità è indiscussa,

in quanto senza esso non saremo in grado di percepire i pericoli che provengono sia dal mondo

esterno che da quello interno.

Per “dolore cronico benigno” si intende un dolore che dura da almeno tre mesi in forma

intermittente o continua, e rappresenta il sintomo più rilevante espresso dal paziente.

John Bonica, definisce nel 1953 il dolore cronico come quel sintomo che “..dura oltre il normale

tempo di guarigione”. Nel DSM-IV dell’American Psychiatric Association, il dolore cronico viene

denominato “disturbo algico” e fa parte dei disturbi somatoformi, la cui caratteristica comune è la

presenza di sintomi fisiche fanno pensare a una condizione medica di malattia e che non sono

invece giustificati da essa, dagli effetti di una sostanza o da un altro disturbo ad eziologia mentale25.

I sintomi devono causare un significativo disagio o menomazione nel funzionamento sociale e

lavorativo, e non devono essere intenzionali. Vi possono essere anche fattori psicologici coinvolti

nell’esordio, nella gravità, nell’esacerbazione o nel mantenimento del dolore cronico26.

Il dolore è in grado di sconvolgere vari aspetti della vita personale delle persone: disoccupazione,

invalidità e problemi di natura affettiva familiare si riscontrano spesso tra le persone affette da

dolore algido. Esse possono arrivare all’uso e abuso di sostanze ansiolitiche, analgesiche e

stupefacenti.

25 ROSSI N., 2004, Psicologia clinica per le professioni sanitarie, Bologna, Il Mulino, pp. 220- 227 .26

52

Il disturbo algido può presentarsi a qualsiasi età, sono più colpite le donne rispetto agli uomini e, i

pazienti possono andare incontro a inattività, isolamento e suicidio.

4.6: Il dolore come esperienza soggettiva

La percezione del dolore inizia già nelle prime fasi della vita infantile e, rappresenta quel mezzo

tramite il quale il bambino entra in contatto col mondo che lo circonda; la madre ha il compito di

aiutarlo a sdrammatizzare la situazione, in modo tale che egli non lo percepirà più come una

esperienza del tutto negativa, ma piuttosto come uno stimolo per imparare a conoscere il mondo che

lo circonda.

Questo aspetta diventa ancor più importante tra il primo e il secondo anno di vita, età nella quale il

bambino acquisisce capacità motorie e pertanto è più esposto al trauma fisico; se i genitori sono

negligenti, egli si abituerà a ricercare il dolore e rappresenterà uno strumento, che tramite il pianto,

avrà l’obiettivo di attirare l’attenzione dei genitori.

Questo comportamento condizionato potrà estendersi alla vita adulta, secondo un meccanismo di

dolore-pianto-soddisfazione-conforto-riduzione-scomparsa del dolore. In questo caso, il dolore

diviene una forma privilegiata di comunicazione e richiesta di affetto e, porterà il bambino nella vita

adulta ad assumere comportamenti del tutto anomali.

Nel corso dello sviluppo, se il bambino ritiene di aver esagerato in un suo comportamento,

ricercherà il dolore nella punizione: quest’ultimo mezzo sarà in grado di rimettere le cose a posto,

lenire il senso di colpa, permettere la riconciliazione e il perdono.

Per alcuni, quindi, essere cattivi e venir puniti può diventare una modalità comportamentale

privilegiata che permette un ricongiungimento affettivo non altrimenti possibile.

Di pari passo con l’acquisizione dell’autonomia motoria si sviluppa il senso di potere, ovvero la

consapevolezza della propria forza fisica e della capacità di ledere agli altri: in situazioni in cui

l’individuo è pervaso da una esplosione emotiva (allagamento emozionale), il dolore potrebbe

essere in grado di controllare la propria aggressività. In altre evenienze, colui che non è in grado di

controllare la propria aggressività, potrebbe esporsi banalmente e pericolosamente a fatti che

potrebbero procurargli danni fisici.

Secondo Gorge Engel (1959)27, ci sono dolori che compaiono nei momenti in cui tutto va bene: egli

ha descritto la figura del “paziente portato al dolore”: sono persone cronicamente depresse con

eccessivo senso di colpa, che presentano dolori cronici che permettono loro di ridurre la tensione

psichica legata al senso di colpa. In altre parole, sono paziente intolleranti al piacere con 27ENGEL G. L., 1959, Psychogenic pain and teh pain – prone patient, in “America Journal of Medicine”, 26, pp. 899 – 918.

53

depressione da successo, il cui dolore sostituisce le gioia e la soddisfazione che non si ritengono

meritate.

4.7: Dolore e stress

Come già descritto, nei primi anni del Novecento, Selye introdusse il concetto della sindrome

generale di adattamento, parlando per la prima volta di stress. Al giorno d’oggi, i termini

“esaurimento” e “stress” hanno assunto connotati così elevati da rientrare nella normale

terminologia ad uso quotidiano.

E’ oramai noto che lo stress rappresenta la risposta dell’organismo a uno stimolo non abituale che

viene interpretato come una minaccia, chiamato evento stressante. E’ quindi sinonimo di tensione,

agitazione, preoccupazione e indica uno stato nel quale l’organismo cerca di far fronte a una

minaccia reale o potenziale.

Occorre però precisare che non tutti i cambiamenti sono fonte di disagio fisico o psichico (distress);

alcuni possono creare piacevoli tensioni che modificano la normale routine quotidiana (eustress).

Ci sono alcuni agenti, come ad esempio quelli fisici, tossici o radianti che agiscono primariamente

sull’equilibrio fisico e, solo secondariamente, su quello psichico; altri, invece, rappresentano una

vera e propria minaccia per l’equilibrio psichico, come ad esempio:

1. la perdita o la minaccia di perdere oggetti significativi, persone care, parti del corpo, stato

sociale, lavoro, la propria abitazione, la propria cultura e gli ideali personali;

2. il danno e la minaccia di danno, sia essa reale o presunta, sia esso fisico, economico o

morale;

3. la frustrazione delle pulsioni, sia di quelle biologiche innate, sia di quelle stimolate

dall’ambiente o dall’immaginazione.

Particolare attenzione rivestono i microeventi, come piccole perdite o piccole insoddisfazioni, le

quali sommandosi tra di loro possono costituire un elemento scatenante di risposte stressanti.

La risposta ad un evento stressante non sarà la medesima in ogni individuo ma, dipenderà da

caratteri come la personalità del soggetto colpito, dal suo vissuto passato e dal suo comportamento.

Ci sono eventi che, per le loro caratteristiche simili ad episodi verificatisi in passato, sono in grado

di risvegliare nelle persone sentimenti e conflitti mai espressi fino ad allora, che sono rimasti

congelati e che hanno presentato un attentato alla propria integrità psichica.

La prima reazione all’evento avverso, sarà sempre di tipo psichico e comportamentale; però, a volte

l’apparato psichico non è in grado di contenere l’esplosione emozionale, per cui si avranno

manifestazioni di tipo fisiologico come alterazioni funzionali, le quali testimoniano l’inefficacia

54

delle difese biologiche.

A seconda del tipo di difese impiegate si avranno diversi tipi di risposta,e da ciò dipenderanno la

conservazione della salute o l’insorgere dello stato di malattia. L principali difese sono:

1. Difese psicologiche: si distinguono in adeguate e non adeguate. Quelle di tipo adeguate,

neutralizzano in modo positivo lo stress, facendo sì che vi sia un impatto positivo sulla

persona accrescendo la sua autostima e rafforzando le sue modalità di reazione (coping

skills). I meccanismi di difesa inadeguati, al contrario, non neutralizzano lo stress e portano

alla genesi di meccanismi psicopatologici inadeguati che possono amplificare la situazione

stressante (ad esempio, rimozione dell’inconscio, proiezione dei propri sentimenti

inaccettabili sugli altri, negazione di stati affettivi piacevoli);

2. Difese biologiche: esse entrano in gioco nel momento in cui i meccanismi di contenimento

mentale falliscono. Sono di due tipi: il primo definito di “lotta/fuga” mette in atto una serie

di modificazioni neuroendocrine che preparano il soggetto a mettersi in salvo da situazioni

percepite come gravi. Nelle risposte a medio e lungo termine, viene attivato anche l’asse

ipotalamo-ipofisiario che, tramite la secrezione di corticosteroidi, riduce le reazioni

infiammatorie ma, al contempo, indebolisce le difese immunitarie contribuendo alla

comparsa di malattie. Nelle reazioni di breve durata, si attiva il sistema nervoso simpatico e

la midollare del surrene, che tramite l’aumento della lipolisi, della glucogenolisi e della

frequenza cardiaca, mobilizza rapidamente le risorse energetiche. Il secondo modello è di

“ritiro/conservazione”:qui il soggetto sembra non rispondere attivamente, rimane inerme ed

immobile, assume un comportamento rinunciatario: vengono attivate le difese biologiche

locali, come le congiuntive, la pelle, le mucose delle vie aeree, i tratti gastroenterico e

genito-urinario. Lo spasmo, la peristalsi,il vomito e la diarrea hanno lo scopo di allontanare

l’agente nocivo. Sono generalmente processi transitori, ma se protratti nel tempo, in

individui predisposti, possono causare danni permanenti.

In quest’ultimo caso, stiamo parlando del processo di somatizzazione, che si può manifestare in

ogni momento e in ogni persona sottoposta a un particolare impegno fisico e psichico. In questo

processo, rientrano coloro che hanno deficienze nell’organizzazione della loro personalità: sono

persone molto attente alle manifestazioni fisiche, ai dettagli esteriori e incapaci di profondità nei

rapporti affettivi.

Negli anni Settanta, nella scuola di Boston (Sifneos, 1973)28 è stato studiato un difetto

neurobiologico caratterizzato da una scarsa interazione tra sistema limbico e neocorteccia: è

stato chiamato alessitimia, termine che vuole indicare la “mancanza di parole per le emozioni”.

28 SIFNEOS P., 1973, The prevalence of alexithimic characteristics in psychosomatic patients, in “Psychoterapy and Psychosomatics”, 22, pp. 255 – 262.

55

Si tratta di individui che non riescono ad esprimere le proprie emozioni,a descrivere i propri

sentimenti e, che presentano una marcata riduzione della fantasia e dell’espressività verbale

associata ad un impoverimento degli scambi interpersonali.

Gli stessi autori descrivono anche una alessitimia secondaria o pseudoalessitimia, in cui il

carattere dominante è l’arresto dei processi evolutivi e non una disfunzione neurobiologica.

La maggior parte delle persone affette da somatizzazione non sono consapevoli della loro

sofferenza mentale e insistono sul carattere esclusivamente fisico del loro sintomo.

Merita particolare attenzione l’interazione esistente tra dolore e lutto. Essi sono processi

psicologici che vanno dallo stadio dello shock o dell’incredulità alla consapevolezza della

perdita fino alla fase di restituzione, in cui l’oggetto perduto viene sostituto da altri oggetti e la

sofferenza può essere trasformata in esperienza di crescita. Poiché questo avvenga, possono

essere necessari mesi o anni e, il superamento è evidenziato dalla capacità di ricordare con

tranquillità e senso di realtà la persona scomparsa.

Gorge Engel (1963) evidenzia come l’elaborazione del lutto sia influenzato da numerosi fattori

da prendere in considerazione quando si ha in cura un paziente:

1. l’importanza della persona persa: quando più vi era un rapporto di dipendenza, tanto più

sarà difficile il compito di superare la perdita;

2. l’età della persona persa; la perdita di un bambino ha effetti più devastanti rispetto a

quella di un adulto;

3. l’età del sopravissuto;

4. il numero e la natura delle altre relazioni;

5. il numero e la natura delle precedenti perdite ed esperienze di afflizione;

6. il grado di preparazione alla perdita: con una persona anziana o malata gravemente da

tempo, il lavoro del lutto può svolgersi prima della morte;

7. la salute fisica e psicologica del sopravissuto al momento della perdita.

Valutare nella loro interezza tutti questi elementi, permetterà al terapeuta di attuare interventi

più mirati ai singoli bisogni della persona, oltre che di rispondere ai suoi desideri.

56

Capitolo 5

Le emozioni e i sentimenti

5.1: L’infermiere “vittima” o “sopravvissuto”

All’interno del contesto lavorativo l’infermiere è senz’altro soggetto ad un carico emotivo gravoso

ed affaticante, in quanto è la stessa relazione d’aiuto che richiede un’enorme dispendio di energie

emotive e risorse personali.

Nel momento in cui le emozioni che si provano prendono il sopravvento sulla razionalità, ecco che

ci si ritrova di fronte a quello che viene definito “infermiere vittima”. Nell’atto di aiutare il paziente,

un coinvolgimento emotivo mal gestito, può assumere i connotati di una trappola che può portare ad

un burnout emozionale. Le originarie motivazioni che spingono l’uomo a scegliere un lavoro di

cura, vengono sopraffatte dalla demotivazione e dallo scoraggiamento.

L’unico metodo a disposizione affinché venga scoraggiata l’insorgenza che questa situazione si

presenti, è la formazione: essa rappresenta la conoscenza, porta alla crescita dell’individuo come

entità e, rende l’infermiere in grado di comprendere che rappresenta una figura rilevante all’interno

del contesto sanitario. Pertanto il professionista sanitario ha il diritto ad essere formato e, il dovere

di informarsi e di crescere, non solo da un punto di vista professionale, ma anche emotivo, in modo

tale da diventare un “sopravvissuto”, libero di provare emozioni e sentimenti che non lo

coinvolgano negativamente, ma che lo sostengano per migliorare sé stesso come professionista

della cura e gli utenti con i quali quotidianamente si deve affrontare.

5.2: Le emozioni e i sentimenti

Le emozioni e i sentimenti sono parte integrante dell’uomo come essere sociale e, inevitabilmente,

si sviluppano all’interno delle varie interazioni che instaura con i suoi simili.

Sono stati definiti con il termine di “sale della vita”, per indicare quanta importanza abbiano

affinché si possa dare un significato concreto alla nostra esistenza. La relazione d’aiuto rappresenta

il contesto idoneo nel quale poter collocare le emozioni; qui l’infermiere quotidianamente

interagisce con il paziente, i suoi familiari, l’equipe e, emergono situazioni che possono avere un

diverso impatto emozionale. Le dinamiche in esso contenute sono molteplici e consentono in modo

inequivocabile l’instaurarsi di situazioni ricche di emozioni ma, spesso, anche destabilizzanti29.

29. IORI V., 2003, Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale, p.209

57

5.2.1: LE EMOZIONI

Le emozioni sono una caratteristica presente in tutti gli esseri viventi che implica una reazione

cognitiva e fisica, prevalentemente improvvisa, ad uno stimolo. Quindi, sono intese come uno stato

affettivo di tipo fuggevole.

Cartesio, nel 1649, distinse altre qualità umane contrapposte alla razionalità, quindi introdusse il

concetto di emozione: “..Le emozioni hanno la funzione di incitare l’anima a volere le cose a cui

esse predispongono il corpo; (…) esistono sei passioni primitive, le altre sono una mistura di

queste”30. Le emozioni vengono viste come un qualcosa che permette il contatto con comportamenti

più semplici rispetto a quelli diretti da un’anima capace di risposte di tipo cognitivo; viene così

introdotto il concetto di separazione tra la ragione e l’emozione.

Solo nell’Ottocento, le emozioni acquisiscono rilievo scientifico, tramite il trattato redatto da

Charles Darwin intitolato “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”;

l’interpretazione scientifica si basa sulla “teoria dell’adattamento”, secondo la quale le emozioni

rappresentano la prima risposta attuata da un individuo all’ambiente circostante, garantendo una

pronta ed efficace risposta dell’organismo in condizioni critiche e assumendo quindi un importante

significato adattivo legato alla sopravvivenza31.

Ritenne, inoltre, che lo stato d’animo venisse espresso da una serie di espressioni facciali, senza

bisogno dell’uso della parola. Darwin, tramite studi che fece sulle popolazioni indigene per stabilire

se le emozioni fossero innate o acquisite, concluse che esisteva una base comune nelle espressioni

caratteristiche di ogni emozione nei vari popoli e che occorreva ritenere innata questa capacità.

A suffragio degli studi di Darwin, ci fù anche lo psicologo statunitense Paul Ekman che, insieme a

Friesen ed Ellswort si prefisse di studiare: felicità, rabbia, paura, tristezza e sorpresa, in particolare

su alcune popolazioni della Papua Nuova Guinea. Essi sostennero che una caratteristica comune

delle emozioni primarie, consisteva nel venire espresse da ogni essere umano a prescindere da etnia,

cultura e luogo, attraverso modalità simili.

Da ciò si può comprendere l’importanza del linguaggio non verbale rispetto a quello verbale, in

quanto in grado di rafforzare la comunicazione.

James, nel 1884, ha paragonato l’emozione al “sentire”, elaborando la “Teoria periferica”, secondo

la quale un evento emotivamente coinvolgente darebbe origine a una serie di reazioni viscerali e

neurovegetative che percepite dal soggetto sarebbero all’origine dell’esperienza emotiva. Ecco che

l’evento emotivo non è più semplicemente percepito ma anche emotivamente sentito.

James e Lange producono una “Teoria somatica” secondo la quale “i cambiamenti corporei 30 OBINU S., 2003,Cartesio, le passioni dell’anima, p.47831 DARWIN C., 1872, Expression of the emotion in man and animals.

58

seguono direttamente la percezione del fatto eccitatorio, e che il sentimento dei cambiamenti stessi

al loro manifestarsi è l’emozione”. Cannon, nel 1927, ha proposto una “Teoria centrale delle

emozioni”, la quale colloca i centri di regolazione e controllo delle emozioni, non nelle vie

periferiche ma, nella regione talalamica, i cui segnali nervosi, sono in grado di indurre le

manifestazioni espressivo - motorie, sia di determinare le componenti soggettive tramite le

connessioni con la corteccia cerebrale32.

Cannon coniò il termine di “reazione d’allarme” indicata come complessa reazione viscerale che

avviene in concomitanza alle esperienze emotiva soprattutto nelle situazioni pericolose per la

sopravvivenza e l’integrità dell’organismo finalizzata a preparare le migliori condizioni per la lotta

o per la fuga33.

Schachter, nel 196234, introdusse la “Teoria cognitivo attivazionale”, secondo cui l’emozione è il

risultato dell’interazione tra due componenti: una fisiologica ed una psicologica.

I ricercatori concordano sul fatto che i fenomeni emozionali siano il legame centrale tra la persona, i

suoi bisogni interni ed il suo mondo esterno. Robert Plutchik35 identifica otto emozioni primarie,

suddivise in quattro coppie:

• La rabbia e la paura;

• La tristezza e la gioia;

• La sorpresa e l’attesa;

• Il disgusto e l’accettazione.

Dalle emozioni primarie, secondo altri autori, nascono quelle secondarie così distinte:

• L’allegria;

• La vergogna;

• L’ansia; la rassegnazione;

• La gelosia;

• La speranza;

• Il perdono;

• L’offesa; la nostalgia;

• Il rimorso;

• La delusione.

In una società come la nostra, fondata prevalentemente sul tecnicismo e la ragione, le emozioni

32 CANNON W. B., 1927, The James – Lange theory of emotion: a critical examinationj and an alternative theory, American Journal of Psicology, p. 106 - 12633 CANNON W. B.,1911, Bodily chances in pain, hunger, fear and rage.34 SCHACHETER S., SINGER J.,1962, Cognitive, social and physiological determinants of emotional state, Psycological Review, p. 379 - 39935 PLUTCHIK R., 2001, The nature of emotion, American Scientist.

59

spesso vengono considerate con sospetto e timore. Non potrebbe essere altrimenti, perché se la

ragione permette all’uomo il pieno controllo su sé stesso e sulle cose, l’emozione rappresenta

l’esatto contrario, facendo si che l’agire sia impetuoso. Eppure sono le emozioni a muovere molti

agiti e se sono positive aiutano a superare il contatto con la sofferenza umana, ma se negative,

possono diventare spunto di riflessione per sé stessi e i membri dell’equipe.

A livello internazionale, sono state riconosciute sei emozioni che rientrano nell’agire quotidiano

dell’infermiere: la felicità, la rabbia, la tristezza, la paura, il disgusto e la sorpresa.

LA FELICITA’

La felicità è intesa come una condizione più o meno stabile di soddisfazione totale e, la sua nozione

occupa un posto di rilievo nelle dottrine morali dell’antichità classica.

Al giorno d’oggi, il termine è associato al concetto di “soddisfazione per la propria vita” e

rappresenta l’aspetto soggettivo più importante e significativo della Qualità della vita.

La “felicità” è un problema che l’umanità si è posta da molto tempo e come è noto, si trova presente

in larga misura in quasi tutte le formulazioni filosofiche (Donati, 1984)36. Secondo psicologi,

psichiatri e medici, la qualità della vita è caratterizzata sia da fattori oggettivi che soggettivi, i quali

sono strettamente interdipendenti.

Secondo Argyle, il maggior studioso di questa emozione, la felicità è rappresentata da un senso

generale di appagamento. Argyle e Martin (1991) la definiscono come uno stato di gioia e uno stato

di soddisfazione: il primo è un sentimento e, il secondo, una cognizione risultante da riflessioni e

giudizi di valore37.

La felicità è anche legata al numero e all’intensità di esperienze positive che la persona sperimenta.

Ma chi è l’individuo felice? Secondo Argyle e Lu (1990) la persona estroversa è più felice perché

ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipa ad un maggior numero di attività sociali

dove trova maggiori motivi di interesse e divertimento. Inoltre, la persona felice sta bene con sé

stessa e ha fiducia nelle sue capacità. Gli stati d’animo positivi influiscono in modo considerevole

sia sul comportamento che nei processi di pensiero, rendendoli maggiormente adeguati e funzionali

alle situazioni di vita dell’individuo. Il buon umore ha anche effetti positivi sulle capacità di

apprendimento.

36 DONATI P., 1984, Risposte alla crisi dello stato sociale, Milano, Franco Angeli.37 ARGYLE M., MARTIN M.,The Psycological causes of happiness,. Oxford, Pergamon Press, pp. 77 – 100.

60

LA RABBIALa rabbia è un’emozione specifica che nasce da un senso di frustrazione, impotenza e oppressione

che si manifesta attraverso aggressività rivolta verso gli altri, se stessi o verso oggetti. In quanto

insita nella reazione primordiale di lotta e di fuga, la rabbia è radicata nei fondamentali meccanismi

della sopravvivenza. Si manifesta quando vengono calpestati i propri diritti o i propri valori; quindi

consegue a un determinato stimolo e si manifesta con l’impellente necessità di attaccare l’oggetto

frustrante. E’ da considerarsi fondamentalmente un’emozione distruttiva: “ogni emozioni che causa

danni a noi stessi o agli altri è un’emozione distruttiva…la rabbia rende ciechi…sono le emozioni

distruttive, quelle che limitano la libertà dell’uomo”38.

L’eccessivo sfogo e il mancato controllo della rabbia possono arrecare gravi conseguenze negative

a sé stessi e agli altri; considerare ogni cosa come un attacco, sentirsi sempre messi in discussione

anche per solo una piccola scortesia da parte di un familiare o un amico o un collega, è l’inizio

dell’iter che percorriamo ogni qualvolta si innesca il meccanismo della rabbia.

LA TRISTEZZA

Anche la tristezza fa parte delle emozioni primarie e, generalmente è associata a situazioni di

perdita simbolica o reale, non solo riferita al lutto per la morte di una persona cara, ma legata anche

alla perdita di ruolo, di un valore, alla lontananza improvvisa di una figura d’attaccamento

importante.

Secondo Izard e Terrine, uno degli effetti della tristezza è il rallentamento dei movimenti e

dell’attività mentale. L’espressione “triste” caratterizzata da volto abbassato, rima labiale rivolta

verso il basso e spalle ricurve, è più fugace rispetto al sentimento di tristezza, in quanto

l’espressione tende a scomparire entro pochi secondi, mentre il sentimento dura per più tempo39.

“nel comportamento emotivo c’è una continua, mutevole oscillazione tra il lasciarsi andare e il

contenersi; il reagire e l’agire di propria iniziativa, l’assumere il controllo ed essere controllati, in

risposta a agli eventi esterni come anche alle variazioni interne nelle proprie inclinazioni40”.

Ma chi è la persona triste? E’ colui che è impotente di sfruttare le opportunità positive presentate

dall’evento e chi si sente apatico, ovvero insofferente verso gli altri e senza alcun interesse. La

tristezza, infine, tende a suscitare l’aiuto e il conforto degli altri; un volto triste fa nascere il

desiderio di aiutarlo: “L’espressione della tristezza è un richiamo automatico per l’empatia e le

38 GOLEMAN D.,GYATSO T.(DALAI LAMA), 2003, Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione.”.Mondadori, Milano.39 GARRESE A., 2008, I volti della tristezza: un’analisi psicologica, Liguori. p. 84.40 GARRESE A, I volti della tristezza: un’analisi psicologica, edito da Liguori, pag. 86

61

relazioni amichevoli41”

LA PAURA

La paura è una delle emozioni primarie per la sopravvivenza : è un campanello d’allarme, una

reazione di fronte a un pericolo. Nell’uomo si colloca al centro della vira psichica, divenendo un

determinante fattore di crescita o d’involuzione. Secondo Olivieri e Ferrarsi (2001), la paura serve

per strutturare il mondo e la vita stessa e, quando appare, produce una serie di alterazioni

fisiologiche e psicologiche, quali la tachicardia, la produzione di adrenalina, l’aumento della

pressione arteriosa, rendendo l’individuo più vigile e pronto all’azione.

La paura peggiore è quella della morte,in quanto è da essa che ha origine la consapevolezza che

l’uomo è una persona finita e che un giorno morirà. E’ un elemento irrisolvibile che crea tutte le

altre paure (A. Oliviero Ferrarsi, 2001).

Si può pensare a quante volte l’infermiere incontra la morte nella sua carriera e, a ciò che essa

rappresenta in termini di coinvolgimento emotivo. Occorre familiarizzare con essa ed intenderla

come un aspetto della vita; occorre considerarla come un “processo” e, non solo come un evento.

L’evento è qualcosa che capita comunque; il processo è qualcosa a cui ci si prepara42.

IL DISGUSTO

Il disgusto è uno stato affettivo evocato da stimoli repellenti. Le teorie sull’origine biologico-

evolutiva di quest’emozione sostengono che esso può essersi evoluto come una risposta

d’accompagnamento al rifiuto del cibo pericoloso per la salute43. Perciò a differenza delle altre

emozioni, il disgusto non ha per stimolo scatenante un essere vivente, ma qualcosa di inanimato

rappresentato essenzialmente dal cibo. Al disgusto è stata attribuita una funzione protettiva, ovvero

evita il contatto con sostanze potenzialmente pericolose per la salute e quindi per la vita : “Si prova

disgusto principalmente di fronte a stimoli sensoriali:vedere, toccare o essere colpiti dall’odore di

qualcosa che ispira repulsione, spinge ad allontanare dal proprio campo percettivo l’oggetto

disgustoso, distogliendo lo sguardo, scuotendo le dita o sputandolo se lo si è già messo in bocca”

(Garotti, 1992).

Inoltre, nonostante si sia rilevato che gli oggetti che ispirano disgusto variano da cultura a cultura

più che da individuo a individuo, ne esistono alcuni, come urine, feci e muco che unificano tutti.

41 Galati D., 1993, Le emozioni primarie, Bollati, Boringhieri, Torino, p. 4142 Bassetti O., Lesca R., L’infermiere di fronte alla sofferenza e alla morte.43. DI GROSSI, dipartimento di Psicologia Seconda Università di Napoli , Neuropsicologia delle emozioni.

62

Purtroppo, la professione infermieristica viene considerata, da buona parte dell’opinione pubblica,

spiacevole poiché si articola attorno ad alcune manovre sgradevoli.

E’ altresì facile sentirsi dire “..io il tuo lavoro non lo farei mai!”, frase accompagnata da sguardi di

vero e proprio disgusto. Un professionista della cura è abituato a sostituire il disgusto con la

compassione, a capire la situazione di bisogno in cui si trova colui che gli viene affidato.

LA SORPRESA

La sorpresa è l’emozione più breve. Lo stimolo fa scattare immediatamente la risposta. Se abbiamo

il tempo di pensare, cioè di valutare a livello cognitivo l’evento, non è più sorpresa. Essa è vissuta

sempre in modo soggettivo e, dipende dal nostro modo di valutare l’evento e dalla nostra

disposizione d’animo. Poiché l’esperienza della sorpresa è breve, seguita quasi sempre da un’altra

emozione, il volto mostra una miscela delle due emozioni. Così si possono osservare sopracciglia

alzate, che segnalano la sorpresa, raggentilite da un sorriso che indica un segnale di emozione

positiva. Oppure le sopracciglia rialzate della sorpresa possono apparire insieme con la bocca stirata

indietro, chiaro segnale di paura44.

5.2.2: I SENTIMENTI

La radice della parola sentimento, derivante dal latino medievale, è riconducibile con il significato

di “sentire”. Leonardo Da Vinci credeva che i muscoli ricevessero il sentimento dai nervi, o

Leopardi che chiamava i sentimenti principali la facoltà del vedere e dell’udire: erano considerati

sentimenti quelli che per noi oggi sono i sensi o la capacità di percepire sensazioni a livello fisico,

mediante gli organi di senso. Oggi, il significato del termine è legato allo stato d’animo, le emozioni

danno origine ai sentimenti.

Kant (1724-1804)fu il primo a collocare il sentimento, accanto alla ragione e alla volontà, tra le

categorie fondanti la qualità umana. Al sentimento, in particolare, attribuisce la facoltà di giudicare

un oggetto in base al piacere o dispiacere che suscita; una qualità del tutto soggettiva. I sentimenti

sono l’espressione di ciò che ci circonda e che agisce direttamente o indirettamente su di noi45.

La maggior parte di essi è controllata dal nostro subconscio e perciò ogni elemento esterno ci

affligge anche internamente. Con i sentimenti ci confrontiamo per capire chi siamo e da dove

veniamo46.

44 J.A. RUSSEL.,. DOLS J. M. F. ,Psicologia delle espressioni facciali, Erickson.45 LE DOUX J., 1999, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni,Baldini e Castaldi – Milano, p. 12946 SLEPOJ V., 1996, Capire i sentimenti. Per conoscere meglio se stessi e gli altri , p.11

63

La differenza fondamentale tra emozione e sentimento risiede nella durata; essi sono contigui e, non

è facile delimitarne i confini. Sono tante le emozioni che possono comporre un sentimento ma,

nonostante questo, esso non può essere considerato la somma delle emozioni, piuttosto è la

risultante di diversi stati d’animo che interagiscono tra di loro, filtrati di volta in volta dal controllo

critico, intellettivo, che elabora i sentimenti47.

L’emozione è fugace, immediata e improvvisa, solo in seguito, quando entra a far parte di noi,

diventa sentimento. I sentimenti sono stabili, scaturiscono dal legame tra gli individui e dai vissuti

comuni4849. Essi hanno una durata temporale in quanto sono guidati dai valori e dagli scopi che si

vuole raggiungere nell’arco della propria esistenza. Il sentimento, infatti, oltre che dalle emozioni, è

motivato anche da un preciso orientamento cognitivo sui valori che si attribuiscono all’oggetto, alla

persona, alla situazione per i quali si prova un determinato sentimento.

L’emozione va racchiusa nella sfera irrazionale nell’agito di un individuo, mentre al sentimento

viene riconosciuto la facoltà di attribuire valore ad un oggetto.

L’infermiere, all’interno del suo operato, può diventare facilmente “vittima” quando si lascia

coinvolgere emotivamente in modo inappropriato. Si allontana da se stesso, non sa gestire ed

elaborare le emozioni. Nel suo lavoro sono presenti numerosi attori: il paziente,i suoi familiari, i

colleghi, ognuno con il suo “bagaglio” di problemi, aspettative ed esigenze.

Il professionista della salute, pertanto, si sente solo di fronte ad innumerevoli richieste e

sollecitazioni; tutto ciò, inevitabilmente, lo porterà a rinchiudersi in un isolamento emozionale che,

successivamente, inciderà su ciò che lo circonda e su sé stesso. Ancor più preoccupante è che

spesso tali vissuti vengono portati all’interno delle relazioni che l’infermiere ha al di fuori

dell’ambito di lavoro; gli affetti e le amicizia, che dovrebbero essere un momento di evasione e di

distacco, diventano l’occasione di sfogo dei disagi acquisiti durante la giornata lavorativa.

L’espressione “rinchiudersi in un isolamento emozionale” può essere ricondotta metaforicamente al

concetto di “gabbia”. La gabbia rappresenta quel limite che l’operatore sanitario pone a sé stesso nel

momento in cui non è in grado di stabilire una giusta distanza emotiva nei riguardi di ciò che lo

circonda.

E’ facile che un ambiente caratterizzato da un intenso coinvolgimento emotivo crei una prigione

destabilizzante ed oppressiva che allontana l’infermiere, favorendo l’instaurarsi del “burnout

emotivo”. Mettersi in gioco anche sul piano emotivo è utile per creare una relazione significativa

con l’utente ma, questo non vuol dire accorpare su di sé tutti i suoi vissuti e le sue sofferenze.

47 Slepoj V., 1996, Capire i sentimenti. Per conoscere meglio se stessi e gli altri, p.17

48 MASINI V., Gli attentati ai sentimenti ,Counseling psicologico w.w.w.incanta.it49

64

L’infermiere rischia di diventare oggetto di veri e propri “sequestri emozionali”,perché è giusto

occuparsi dei bisogni dell’utente ma, prima di tutto, occorre che ascolti le proprie esigenze e i propri

bisogni. La relazione d’aiuto richiede un faticoso lavoro di elaborazione dei propri vissuti emotivi,

per imparare a gestire non solo il carico emotivo che la relazione stessa porta ma anche per

utilizzare i propri sentimenti per trovare una direzione di senso al proprio agire50.

Ma tutte le emozioni soppresse e sottovalutate che, accompagnano il lavoro di cura, che fine fanno?

Non riconoscerle può far credere di tenerle sotto controllo, ma spesso può succedere che, anche

involontariamente, le si manifesti in modo del tutto inappropriato con le funzioni professionali e,

soprattutto, con le proprie risorse emotiva51.

Il rischio di “analfabetismo emotivo” impone le sue carenze in quei contesti dove sarebbe

necessario comprendere le emozioni dell’altro e saper esprimere le proprie, in una sorta di

equilibrio, per non restare paralizzati da incomprensibili problemi di comunicazione o, per non

liquidarli ai danni dell’interlocutore52.

5.3: Lavorare stanca: la sindrome del burnout

Lavorare stanca è una poesia di Cesare Pavese nella quale la tensione emozionale rimanda alla

continua ricerca della relazione possibile e all’assunzione di responsabilità rispetto a questa, il tutto

intercalato nella concreta quotidianità che può così ritrovare senso53.

Il lavoro solitamente occupa molto tempo e molto spazio mentale nella quotidianità di ciascuno di

noi; ad esso si collegano passione, interesse. Entusiasmo, ma anche impegno, fatica e stanchezza. Il

lavoro di cura, se da un lato è gratificante, dall’altro è particolarmente esposto al disagio perché

appesantito dalle stanchezze e dalle sofferenze altrui.

L’ambiente lavorativo si basa sull’incontro di persone diverse, con professionalità differenti, che

spesso non possono scegliere con chi lavorare in base a preferenze individuali, di chi aver cura e di

cosa occuparsi, in quanto il tutto è deciso dall’organizzazione. Quindi, in un contesto simile, è facile

che si creino aspri conflitti e dinamiche distruttive che comportano forte disagio.

Il “burnout” è un fenomeno complesso e multidimensionale. Sembra che il termine derivi dal gergo

dell’atletica professionale e, negli anni Trenta veniva usato per definire quel fenomeno tipico

dell’atleta che, dopo tanti successi, si esauriva, si bruciava, e non era più in grado di dare niente da

un punto di vista agonistico. E’ chiara l’analogia con il fenomeno tipico dell’operatore sanitario che,

dopo un periodo di intenso lavoro, svolto con impegno ed entusiasmo, si “brucia”, e non ha più 50 MORTARI L.,2006,La pratica dell’aver cura, p.7051 IORI V., 2003,Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale, p. 20752 CALMIERI C., 2000,La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare.53 ROSSI N., 2004, Psicologia clinica per le professioni sanitari, Bologna, il Mulino,pp. 243 – 259.

65

niente da offrire a livello psicologico. Il primo a utilizzare il termine in questo senso fu Freudenberg

(1974).Il termine evoca l’immagine “dell’ultimo guizzo di una fiamma, di un guscio vuoto e

consunto, di ceppi morenti e ceneri fredde e grigie”.

Ma cosa succede all’operatore in burnout? Cherniss (1980) propone un modello articolato in varie

fasi e, descrive la sindrome come una “ritirata psicologica” dal proprio lavoro. L’operatore

attraversa, inizialmente, una fase in cui avverte uno squilibrio tra richieste provenienti dall’ambiente

e risorse personali (fase dello stress lavorativo), in cui continua a svolgere il proprio lavoro, seppur

con estrema fatica. Successivamente inizia a sperimentare tensione emotiva, ansi, irritabilità, noia,

disinteresse e apatia (fase dell’esaurimento). La tappa terminale è il disinvestimento emozionale del

proprio lavoro: vi è una caduta della spinta emozionale, con perdita di entusiasmo, interesse e senso

di responsabilità (fase della conclusione difensiva). L’operatore inizia a lavorare in maniera rigida.

Si ricorda che la relazione d’aiuto richiede una grande flessibilità, occorre adattarsi continuamente a

stili di relazione diversi, non solo di pazienti e familiari, ma anche delle diverse figure professionali

con cui si lavora. Il burnout rappresenta, quindi, una strategia difensiva altamente disfunzionale:

danneggia l’operatore in prima persona, sia nei suoi vissuti più profondi, sia nelle qualità del suo

lavoro nei confronti di pazienti e familiari.

Contessa (1982) afferma che la sindrome ha uno sviluppo ciclico che tocca cinque stadi:

• Entusiasmo idealistico : è legato alle motivazioni che hanno portato l’operatore a scegliere il

lavoro di cura e che hanno una base di tipo entusiastica. Accanto alle motivazioni

consapevoli (ad esempio, migliorare se stessi e la sicurezza di avere un lavoro) troviamo

quelle meno consapevoli (esercitare potere o controllo sugli altri) spesso accompagnate da

un senso di onnipotenza, di successo immediato e di miglioramento del proprio status.

• Stagnazione : l’operatore passa da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno,

continuando a lavorare, ma con la consapevolezza che il lavoro non soddisfa più i suoi

bisogni. Gradualmente, le prestazioni lavorative diminuiscono. Si parla di un sentimento di

“carriera bloccata”, come se non ci fossero nuove esperienze da fare e nuovi sforzi;

• Frustrazione : è caratterizzata da un diffuso senso di impotenza nei confronti dell’utente,

spesso aggravata da scarso apprezzamento da parte dei superiori e , dalla consapevolezza di

una formazione inadeguata;

• Apatia : l’operatore si chiude in sé e sperimenta un senso di noia e fastidio per le richieste

che gli vengono poste. Contessa afferma che: “l’apatia nasconde una disperazione” che

consiste in una sorte di consapevole “morte professionale”. L’apatia è contagiosa in quanto

può espandersi dall’individuo al gruppo, deteriorando il clima lavorativo. A questo punto è

assolutamente necessario un cambiamento che si riflette nella quinta fase:

66

• Intervento : deve portare a un cambiamento delle condizioni lavorative e degli atteggiamenti,

per portare a una ristrutturazione cognitiva della propria situazione professionale.

La sindrome sembra insorgere in modo improvviso e devastante; essa porta con sé una lunga storia

di stanchezza e sovraccarico emozionale.

Maslach (1982) parla di una sindrome caratterizzata da tre componenti:

• Esaurimento emotivo : svuotamento delle risorse emotive ed emozionali, unito alla

sensazione di non poter più offrire nulla a livello psicologico:

• Depersonalizzazione : è un atteggiamento negativo di distacco, cinismo e ostilità soprattutto

nei confronti delle persone a cui sono rivolte le cure;

• Ridotta realizzazione personale : è la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, che

implica una caduta della stima di sé stessi e del desiderio di successo.

In base a queste tre dimensioni si è costituito il Maslach Burnout Inventory (MBI) [Maslach e

Jackson, 1986]. L’ MBI è lo strumento più utilizzato per rilevare la presenza della sindrome e la sua

entità. L’autore e i suoi collaboratori si concentrano più sui fattori socioambientale all’origine della

sindrome, considerandola la conseguenza di uno stress occupazionale cronico peculiare di coloro

che si dedicano alle professioni d’aiuto.

5.4: Fattori predisponenti e fattori protettivi della sindrome del “burnout”

5.4.1: I fattori predisponenti

I fattori che predispongono all’insorgenza del burnout possono essere ricercati sia nelle

caratteristiche individuali che in quelle socio ambientali o situazionali. Tra i fattori predisponenti

alla genesi della sindrome,vi sono:

• Fattori individuali : alcuni tratti di personalità come ad esempio l’ambizione, l’aggressività,

le competitività, l’iperattività, l’ostilità, la maggior vulnerabilità e l’instabilità emotiva.

Alcuni autori (Duquette et al. 1995) riscontrano alte correlazioni tra burnout e mancanza di

hardiness, ovvero l’incapacità di aprirsi al cambiamento e accettare la sfida, unitamente al

poco impegno;

• Motivazioni e aspettative nel lavoro : quando ad esse vengono attribuiti caratteri irrealistici,

l’operatore tende a lavorare troppo in termini di impegno e tempo, arrivando al cinismo se

agli sforzi non corrispondono i risultati attesi;

• Stili di attribuzione causale : consiste nell’attribuire ai propri insuccessi delle colpe che

provengono dal mondo esterno. L’attribuzione della cause di eventi, risultati e successi

67

professionali ad altri, alle circostanze o al caso (locus of control esterno) piuttosto che alle

proprie abilità e ai propri sforzi (locus of control interno) provoca l’insorgenza della

sindrome (Maslach, Schaufeli e Le iter, 2001);

• Le modalità di coping : sono tutte quelle strategie di fronteggiamento che l’individuo mette

in atto di fronte a situazioni stressanti. Nella scelta di queste strategie si distinguono quelle

orientate all’azione e al controllo, oppure all’emozione e all’evitamento. Tra le prime si

ritrovano la pianificazione e soluzione attiva dei problemi, che include la ricerca di

informazioni e supporto sociale; questi atteggiamenti in genere sono protettivi. Al contrario,

strategie di esitamento e fuga, l’autocolpevolizzazione o l’attribuzione di colpe ad altri

predispongono al burnout. Evitare situazioni difficili da gestire, rimandandole nel tempo o

lasciandole ad altri, si rivela dannoso per l’operatore, che vede aumentare i suoi livelli

d’ansia o insoddisfazione e diminuire il proprio senso di competenza.

Tra i fattori socioambientali o situazionali si annoverano:

• Predispongono a un’ampia gamma di fenomeni che vanno dalle condizioni lavorative al

contesto organizzativo: mancanza di comunicazione e supporto sociale da parte dei

colleghi, assenza di lavoro in team, leadership inefficace, mancanza di autonomia e

partecipazione alle decisioni, frammentazione in compiti elementari e conseguente

impossibilità di affrontare compiti interessanti e di sperimentare un sentimento di sfida

professionale, formazione inadeguata, carenza di occasioni di apprendimento e sviluppo,

conflitti e ambiguità di ruolo, sovraccarico lavorativo, eccesso di richieste in rapporto

alle risorse disponibili, mancanza di feedback positivo riguardo al proprio operato e

apprezzamento per i propri sforzi, costrizioni temporali e sistema retributivo inadeguato;

• I conflitti di ruolo : può sorgere in risposta a richieste fra loro incompatibili, come

differenti aspettative da parte dell’organizzazione e diversi ideali personali, accade

spesso che il desiderio e l’aspettativa di fornire una prestazione di alta qualità si scontri

con un eccessivo sovraccarico lavorativo, che non consente di dedicare a tutti i pazienti

un tempo adeguato, creando frustrazione nell’operatore.

• Le ambiguità di ruolo : nel momento in cui a causa di politiche amministrative non chiare

o conflitti in èquipe multidisciplinari si viene a creare un dispendio di risorse emozionali

personali, viene minato il benessere personale e le prestazioni lavorative, sfociando in

burnout;

• Il sovraccarico lavorativo : il lavoro in ambito sanitario tende spesso a essere influenzato

da valori di produttività, efficienza e razionalizzazione di risorse finanziarie, con il

68

risultato di aumentare il carico di lavoro e con la richiesta al personale di fare sempre di

più con meno risorse a disposizione;

• La mancanza di controllo :consiste nell’incapacità di stabilire le priorità del lavoro

quotidiano, di scegliere approcci migliori da adottare nel lavoro e prendere decisioni

circa l’utilizzo delle risorse a causa delle politiche amministrative. Tutto ciò mina

l’autonomia individuale e il coinvolgimento nel proprio lavoro.

• La mancanza di feedback positivo : si ha quando il paziente non gratifica l’operatore,

ovvero quando non gli dimostra la sua gratitudine per il lavoro svolto nei suoi confronti.

Ciò permetterebbe all’operatore di aver conferma di aver fatto un buon lavoro e di

sapere che i suoi sforzi sono stati apprezzati. In molti casi questo feedback non esiste,

anzi, l’operatore diviene bersaglio delle ostilità da parte dei pazienti.

5.4.2: Fattori protettivi

Una delle variabili più frequentemente citata è il supporto sociale percepito nell’ambiente di lavoro.

Quando esse sono positive implicano la libera espressione di idee, al condivisione del disagio e un

reciproco incoraggiamento; l’aiuto che viene fornito è di natura sia emotiva che pratica. il gruppo è

portatore di nuove prospettive e conoscenze. L’ascolto empatico, attivo e riflessivo da parte dei

colleghi può assistere l’operatore nell’organizzare il proprio pensiero e sviluppare nuovi metodi per

aiutare pazienti e loro familiari. Il supporto del team può essere “ciò che mantiene sano di mente”

l’operatore nelle difficoltà quotidiane (Sclhlenz, Guthrie e Dudgeon, 1995).

La percezione di un supporto e di un clima collaborativi, spingono i professionisti ad accettare i

problemi come nuove sfide per migliorare le proprie prestazioni professionali. In merito a questo,

non va dimenticata l’importanza della percezione del proprio lavoro come sfida e il sentimento della

propria efficacia personale, del proprio successo nel raggiungimento degli obiettivi.

E’ importante che l’ambiente offre opportunità di crescita sia relazionale che professionale, in modo

che un alto livello di competenza diventi uno strumento per combattere il burnout.

La formazione personale può essere intesa come un ulteriore metodo per accedere a forme di

sostegno sociale; permette quindi il potersi confrontare con altri operatori in modo tale da

condividere la propria esperienza. Purtroppo, però, succede che i fondi che dovrebbero essere

dedicati alla formazione personale, scarseggino o che l’esigenza di aggiornamento si scontri on la

mancanza di tempo da dedicarvi.

Pertanto, sono considerati fattori protettivi dal burnout la congruità tra ruolo professionale, compiti

richiesti e aspettative create dalla preparazione professionale, mentre l’autoefficacia, cioè l’efficacia

69

personale percepita nella gestione del percorso assistenziale e la comunicazione con i pazienti, è

associata a un maggior senso di realizzazione personale e ad una minor depersonalizzazione

(Bettinardi et al. 2002).

70

Capitolo 6

Il soccorso

6.1: La vittima di terso livello: il soccorritore

Come si è già detto, la psicologia dell’emergenza si occupa sia delle emergenze individuali, che di

quelle collettive o di massa.

Quando si verifica l’instaurarsi di un evento critico, l’intervento svolto dalle squadre di soccorso si

articola verso l’assistenza sia del singolo individuo sia della molteplicità delle persone a vario titolo

coinvolte.

Si è visto inoltre che, secondo diversi studiosi, le vittime possono essere articolate in diversi livelli,

ovvero:

• Vittime di primo livello : coloro che sono coinvolti direttamente nell’evento critico;

• Vittime di secondo livello : sono rappresentate da parenti o amici delle vittime di primo

livello;

• Vittime di terzo livello : ovvero i soccorritori, professionisti o volontari, che intervengono

sullo scenario critico (Cusano, 2002, p.38).

Secondo altri autori, si parla anche di:

• Vittime di quarto livello : rappresentate dalla comunità coinvolta nel disastro o, eventuali

responsabili;

• Vittime di quinto livello : rappresentate da individui la cui condizione pre – evento è così

critica che, anche se non coinvolti nel disastro, possono reagire sviluppando un disturbo

psicologico;

• Vittime di sesto livello : sono coloro che possono essere potenzialmente vittime di primo

livello o che hanno spinto altri ad essere presenti nell’area del disastro o che si sentono

coinvolte per altri motivi indiretti. (Napoli, 2003, p.352).

In base alle diverse tipologie di vittime si deduce che, mentre nell’evento critico collettivo la

comunità colpita è traumatizzata per la crisi che investe l’intero sistema sociale, nell’evento

individuale la persona traumatizzata è costituita dalla vittima in senso stretto o, da chi presta

soccorso.

L’operatore del soccorso, quindi, rientra nella categoria delle vittime di terzo livello in quanto

condivide con le vittime di primo livello ansia, dolore, paura e angoscia54.

54 SPINELLO A., 2006,:La psicologia dell’emergenza a supporto degli operatori della Polizia Stradale, . Reggio Calabria, Città del Sole, p. 25.

71

L’intervento, sia nei professionisti che nei volontari, può causare uno stato di stress o di

sovraccarico emotivo, in virtù della straordinarietà dell’evento il quale, a causa della sua criticità,

richiede tempi di intervento celeri e modalità operative impreviste.

Di rado si assiste all’insorgenza nei soccorritori di gravi traumi, ma ciò può accadere quando non si

tiene in considerazione la ripetitività degli stress vissuti.

6.2: Tipologie degli operatori del soccorso e loro caratteristiche

Gli operatori di emergenza possono essere membri di team ben addestrati, vittime che cercano di

aiutare persone più colpite di loro o semplici spettatori.

Alle emergenze rispondono molti tipi di soccorritori:

• Operatori di ricerca e salvataggio dei superstiti;

• Operatori impegnati nel controllo degli incendi e nella sicurezza;

• Conducenti di mezzi di trasporto;

• Personale medico e infermieristico;

• Il medico legale con il suo staff;

• Polizia, forze dell’ordine e investigatori;

• Ecclesiastici;

• Personale dei servizi sociali e di salute mentale;

• Funzionari eletti;

• Volontari che partecipano alle attività dei centri di accoglienza, collaborano all’opera di

assistenza e verificano e riparano le infrastrutture;

• Operatori dei media.

In tutti questi operatori, si combinano valori condivisi e differenza individuali. Meyers (1987) ha

osservato che gli operatori di emergenza spesso hanno tratti di personalità contrastanti:

• Delicatezza;

• Grande forza;

• Fiducia;

• Cautela;

• Molta sicurezza di sé;

• Forte inclinazione all’autocritica;

YOUNG B. H., FORD J. D., RUZEK J. I., FRIEDMAN M. J., GUSMAN F. D., 2002, L’assistenza psicologica nelle emergenze. Manuale per operatori e organizzazioni nei disastri e nelle calamità.,Trento, Erickson, p. 127.

72

• Dipendenza;

• Indipendenza;

• Durezza;

• Sensibilità;

Young (2002) definisce invece le caratteristiche dei soccorritori:

• Capacità di organizzarsi creativamente;

• Socievolezza e attenta disponibilità;

• Stabilità emotiva e sicurezza psicosociale;

• Capacità di comunicare rispetto;

• Capacità di fornire aiuto;

• Autenticità;

• Empatia;

• Capacità di riconoscere le problematiche e le risposte di stress.

E’ altresì importante riportare gli stili di personalità secondo Beck i quali sono generatori di stress

nel lavoro:

• Perfezionismo : bisogno pressante di riuscire, sensazione di non aver mai fatto

abbastanza,tendenza a criticarsi quando le proprie prestazioni non sono perfette;

• Bisogno di controllo : preoccupazione per l’impressione suscitata negli altri quando si è

nervosi, convinzione che ogni mancanza di controllo sia un segno di debolezza, disagio ogni

qualvolta le circostanza richiedono di delegare una parte del lavoro agli altri;

• Bisogno di piacere agli altri : dipendenza della propria autostima dalle opinioni di qualunque

altro, esitamento di certi compiti lavorativi per paura di deludere, maggiore abilità nella cura

degli altri piuttosto che in sé, non manifestare i propri sentimenti negativi per paura di

dispiacere agli altri;

• Preoccupazioni di incompetenza : paura di non riuscire mai a fare un lavoro bene come gli

altri, di non sapere valutare abbastanza bene le situazioni e di mancare di buon senso,

sensazione di non poter dire in buona fede di aver fatto bene il proprio lavoro.

Tutti questi stili possono peggiorare la situazione stressante in quanto fonte di stress essi stessi.

Gli operatori dell’emergenza hanno spesso una forte capacità di fidarsi l’uno dell’altro, ma tendono

comunque ad essere cauti nei confronti degli individui esterni al gruppo. Essi, inoltre, possono

avere una buona stabilità emozionale e mentale nel corso di un’operazione e avere reazioni emotive

intense successivamente, a causa della loro sensibilità si sentimenti dei superstiti e dei loro

familiari.

73

6.3: I rischi connessi all’attività di soccorso

Le opere di salvataggio e aiuto ai superstiti, l’identificazione e il trasporto di cadaveri sono solo

alcuni degli stressor che possono contribuire a creare livelli elevati di sofferenza emotiva in tutti

quegli operatori che intervengono in situazioni di calamità (Uranso, McCaughey e Fullerton,1994).

Generalmente, il lavoro in situazioni di emergenza è una combinazione di esperienza positive ed

esperienza negative. Si possono provare profondi sentimenti di dolore, disperazione, impotenza,

orrore e repulsione. D’altra parte, la condivisione di scopi ed obiettivi con altre persone che fanno

parte della squadra o la rivalutazione delle priorità della vita, possono rendere questo tipo di lavoro

molto gratificante e rafforzare le proprie convinzioni professionali e personali.

I rischi connessi all’opera di soccorso e, le situazioni e gli stressor personali degli operatori,

spiegano la maggioranza delle reazioni da stress. Alcuni rischi professionali riguardano:

• L’esposizione a pericoli fisici imprevedibili;

• L’incontro con la morte violenta o resti umani;

• L’incontro con la sofferenza di altre persone;

• La percezione negativa della causa del disastro;

• La percezione negativa dell’assistenza offerta alle vittime;

• I turni lunghi, il lavoro disorganizzato e la fatica estrema;

• Le differenze culturali tra gli operatori e la comunità colpita;

• L’inefficienza dei mezzi tecnici e la percezione di scarso controllo;

• L’incontro con la morte di massa;

• L’incontro con la morte di bambini;

• L’ambiguità del proprio ruolo;

• La necessità di compiere scelte difficili;

• La difficoltà di comunicazione;

• La scarsità di fondi e risorse;

• Gli errori umani;

• L’urgenza;

• Il senso di fallimento della missione.

Fra le situazioni e gli stressor personali figurano55:

• Le lesioni personali;

55 YOUNG B. H., FORD J. D., RUZEK J. I., FRIEDMAN M. J., GUSMAN F. D., 2002, L’assistenza psicologica nelle emergenze. Manuale per operatori e organizzazioni nei disastri e nelle calamità., ,.Erickson, Trento, pp. 127.

74

• I decessi o le ferite subite dalle persone amate, dagli amici o dai colleghi;

• La perdita di beni materiali;

• Lo stress preesistente;

• Uno scarso livello di preparazione personale o professionale;

• Le reazioni di stress di altre persone che rivestono un’importanza personale;

• Le aspettative su di sé;

• L’esperienza avuta in passato con altre calamità;

• La percezione/interpretazione negativa dell’evento;

• L’esistenza di traumi precedenti;

• Uno scarso livello di sostegno sociale.

6.4: Il gruppo

Il gruppo ha un’importanza vitale per l’essere umano in quanto fornisce condizioni essenziali di

protezione, sostegno,solidarietà, nonché informazioni e distrazioni. In epoca primitiva offriva le

condizioni stesse per la sopravvivenza fisica56.

Il gruppo è strutturato da regole e fornisce un senso di appartenenza e, rappresenta quella situazione

in cui comportamenti ed emozioni sono spesso a confronto.

Il gruppo esiste in quanto gli individui a contatto gli uni con gli altri, danno vita a una serie di

relazioni. E’ una struttura dinamica che si evolve nel tempo seguendo varie fasi: dalla pluralità

indifferenziata ad una strutturazione delle relazioni interpersonali, all’associazione ed accettazione

di un modello, alla relazione sociale, tutto finalizzato ad avere un obiettivo comune. In un ambiente

di lavoro è un insieme di persone con diverse competenze, dei ruoli prestabiliti, dei compiti e un

assetto gerarchico57.

Interessante è citare la prospettiva che propone Trombini (2000) per la lettura delle configurazioni

che le persone si danno in assetti grippali. Fa riferimento alla vita in branco dei lupi: solitamente

hanno una disposizione a piramide, con gerarchie definite: quando attaccano una preda, si

dispongono in assetto circolare, più paritario e cooperativo ad anello.

A differenza di Trombini, Bion (1961) considera il gruppo come un assetto unitario, che vive una

vita propria animata dai membri che ne fanno parte. Egli parla di due configurazioni sempre

esistenti: quella chiamata del “gruppo di lavoro” e quella del “gruppo in assunto di base”. Nel

56 VERONESE G., 2002 – 2003, Corso di perfezionamento in psicologia dell’emergenza in situazioni di calamità naturali o umane in ambito nazionale o internazionale. Università Degli Studi di Padova, Facoltà di Psicologia.57 ROSSI N., 2004. Psicologia clinica per le professioni sanitarie,Il Mulino, Bologna, pp. 259 – 269.

75

primo caso, l’intero gruppo si organizza attorno a un compito e procede con un assetto

prevalentemente razionale del pensiero, ad esempio, all’interno di una riunione del reparto, si

decide la turnazione delle ferie. Può accadere che il lavoro del gruppo venga interrotto perché si

pongono altre questioni cariche di emotività negativa e di modalità comunicative disturbate, ad

esempio, gli infermieri del reparto che deve organizzare le ferie, colgono l’occasione di quella

riunione per parlare di un disguido successo tra due colleghi usando terminologie offensive e toni

alquanto concitati. In questo caso prevale un assetto di “assunto di base”.

Gli “assunti di base” sono stati primitivi della mente che si sviluppano in modo inconsapevole e

automatico quando gli individui si riconoscono nel gruppo. E’ una modalità difensiva, sempre

presente e, rappresenta l’equivalente delle difese individuali.

All’interno del gruppo, maggiore è la possibilità di comunicazione, più alta è la probabilità di

riuscire a fronteggiare gli eventi avversi e sviluppare delle strategie di coping efficaci. La

comunicazione è fondamentale, in quanto permette la formazione della fiducia reciproca58.

La coesione per Festinger (1951) indica il grado di attrazione reciproca dei componenti di un

gruppo. Quando essa è di grado elevato e l’appartenenza al gruppo è investita da forti valori, allora

si parla di un alto grado di coesione interna. Le minacce provenienti dall’ambiente esterno possono

accrescere la stima reciproca e in questo modo aumenta la coesione (Stein, 1976).

Da ciò si deduce che la competizione esterna favorisce la coesione, al contrario, quella interna

disgrega il gruppo.

Elemento altresì fondamentale all’interno del gruppo di soccorritori è rappresentato dalla fiducia: di

solito essa si instaura con maggior velocità, perché l’avversità e la minaccia esterna creano la

condizione per una maggior coesione interna.

6.5: Fasi dell’intervento di soccorso e reazioni psichiche correlate

L’intervento di soccorso si articola in varie fasi (Hartsougt 1985) e a ciascuna di esse si associano

specifiche reazioni del soccorritore, talvolta molto marcate, ma che comunque vanno considerate

come reazioni normali a eventi anomali e straordinari59.

Le fasi sono:

1 fase di allarme: la fase prende avvio dalla comunicazione di un evento critico grave, in cui

bisogna intervenire. La comunicazione può assumere un forte connotato intrusivo, che monopolizza

l'attenzione dell'operatore, attiva fantasie di inadeguatezza ed incapacità e crea un senso di 58 DE CATALDO, GULLOTTA L., Sapersi esprimere, Milano, Giuffrè59 BAGNATO M. P., RUOZZI A., 2008, La sicurezza nel soccorso extra ospedaliero,Cap. 13.

76

smarrimento e confusione, che in alcuni casi può arrivare anche ad uno stato di shock. Questa fase

possiamo intenderla come fase dell'impatto, ed è caratterizzata dallo stordimento iniziale e

dall'ansia, dalla irritabilità e dall'irrequietezza che caratterizzano la maggior parte degli operatori.

Non mancano anche soccorritori in cui si determina una reazione più o meno grave di tipo

inibitorio. I soccorritori in questa fase di impatto vivono varie categorie di reazioni: - reazioni

fisiche (accelerazione del battito cardiaco, aumento pressorio, difficoltà respiratorie); reazioni

cognitive (disorientamento, difficoltà nel dare senso alle informazioni ricevute e nel comprendere la

gravità dell'evento); reazioni emozionali (ansia, stordimento, shock, paura per ciò che si incontrerà

sulla scena dell'evento, inibizione in alcuni altri casi); reazioni comportamentali (diminuzione

dell'efficienza, aumento del livello di attivazione, difficoltà di comunicazione).

2 Fase di mobilitazione: questa fase entra nel pieno della sua attuazione quando, superato l'impatto

iniziale, gli operatori si preparano all'azione. L'agire aiuta a dissolvere la tensione, lo stato di

allarme e l'interazione necessaria per predisporre, coordinare ed avviare i piani di intervento,

favorendo il recupero dell'autocontrollo emozionale. Concorre al recupero dell'autocontrollo anche

il trascorrere del tempo che comporta la naturale attenuazione dell'impatto emotivo. In questa fase

sono quindi presenti in tono minore la maggior parte dei vissuti e delle reazioni della fase

precedente, ai quali si associano come preziosi fattori di recupero dell'equilibrio il trascorrere del

tempo, il passaggio all'azione finalizzata e coordinata.

3 Fase dell’azione: la fase si caratterizza per il pieno passaggio all'azione, consistente

nell'adoperarsi del soccorritore a favore delle vittime. In questa fase l'operatore è attraversato da

momenti di gratificazione ed euforia relativi alle situazioni in cui si riesce a prestare soccorso, a

momenti di profonda delusione, colpa, inadeguatezza, paura, etc., scatenati dalle circostanze in cui

l'intervento non è tempestivo, non risulta efficace, o non è possibile, per inadeguatezza dei mezzi,

insufficienza delle competenze, etc. La fase dell'azione assume caratterizzazioni molto differenti

anche in base alla sua durata che, potendo variare da alcune ore ad alcuni giorni od anche qualche

settimana, determina differenti tipi e livelli di sintomi psichici e fisici legati all'esposizione allo

stress traumatico. I vari tipi di reazioni che più spesso si manifestano in questa fase si possono

raccogliere nelle seguenti categorie: reazioni fisiche (aumento del battito cardiaco, della pressione,

della frequenza respiratoria, nausea, sudorazione, tremore, ecc.); reazioni cognitive (difficoltà di

memoria, disorientamento, confusione,perdita di obiettività, difficoltà di comprensione); reazioni

emozionali (senso di invulnerabilità, euforia, ansia, rabbia, tristezza, sconforto, apatia, assenza di

sentimenti); reazioni comportamentali (iperattività, facilità allo scontro verbale o fisico, aumento

77

dell'uso di tabacco, alcol, farmaci, perdita di efficienza ed efficacia nelle azioni di soccorso, ecc.).

La significatività dei disturbi a cui il soccorritore può andare incontro per la più o meno prolungata

esposizione allo stress traumatico deve indurre i responsabili dell'organizzazione a prevenire un

altro importante aspetto negativo di questa fase che consiste nella sottovalutazione dei bisogni del

soccorritore e nella sopravvalutazione delle sue risorse.

4 Fase del lasciarsi andare: questa fase è costituita dall'insieme dei vissuti che il soccorritore

sperimenta nel periodo compreso tra la fine delle operazioni di soccorso ed il ritorno alla normale

routine lavorativa e sociale. Due diversi ordini di contenuti emozionali caratterizzano questa fase. Il

primo è costituito dal carico emotivo che durante la fase dell'azione è stato represso, inibito e

negato, per dare spazio all'attività di soccorso, ed è caratterizzato prevalentemente da

ansia,delusione e rabbia. Il secondo consiste, invece, in un complesso di vissuti indotti dalla

separazione dagli altri soccorritori, e dalle attese positive o negative rispetto al ritorno alla

quotidianità. Tra i contenuti psichici negativi inibiti durante la fase di azione, che trovano poi la

forza di riemergere e manifestarsi nella fase del lasciarsi andare, particolarmente comuni sono: la

difficoltà nel distendersi, nel rilassarsi, nell'addormentarsi, la tristezza, la tensione, il riaffiorare di

episodi e vissuti particolarmente forti sul piano emotivo, la rabbia. Tra le reazioni legate alle attese

positive o negative verso il ritorno alla quotidianità lavorativa e socio-affettiva possiamo ricordare

tanto il desiderio continuo di tornare a casa, quanto il timore della conflittualità con i familiari e con

i colleghi, critici verso la scelta di prendere parte ai soccorsi, il disagio per il lavoro arretrato, i sensi

di colpa verso il partner ed i figli, ecc.

6.6: Sindrome Generale di Adattamento

Hans Selye è lo scienziato che negli anni ’30 ha coniato la definizione "Sindrome Generale di

Adattamento", per descrivere la risposta automatica, inconsapevole e sistemica dell’organismo a

qualsiasi tipo di stressors, anche a quelli che normalmente riteniamo utili e piacevoli.

Se l’organismo diviene incapace di adattarsi correttamente agli stimoli ambientali, manifesterà la

propria sofferenza sviluppando sintomatologie e malattie sia della sfera psichica che fisica60.

Tale situazione potrà aggravare il decorso di particolari malattie.

Alla Sindrome Generale di Adattamento, l’organismo risponderà in due modi, entrambi aventi

l’obiettivo di non soccombere a quelle che sono le richieste ambientali:

• Un adattamento di tipo psichico, emotivo e comportamentale;

60 ISTITUTO RINALDI FONTANI La sindrome generale di adattamento http://www.irf.it

78

• Un adattamento dei principali sistemi di controllo dell’organismo, ovvero: endocrino,

ormonale, immunologico, vegetativo e muscolare

Selye distinse la sindrome in tre fasi ritenute oggi ancora valide:

• La prima fase detta di allarme attivata dalla presenza dello stimolo ambientale (positivo o

negativo) innesca la risposta primordiale alla sopravvivenza, sia a livello fisico (aumento

della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della glicemia, del tono muscolare, del

metabolismo e di alcuni neurotrasmettitori), sia a livello psico emotivo con l’aumento dello

stato di allerta e di "tensione emotiva" e a livello comportamentale ad esempio con reazioni

muscolari di difesa;

• La seconda fase detta di resistenza, mette in atto un complesso programma, sia biologico

che comportamentale con l’attivazione di una risposta ormonale che ci aiuta a resistere a

sostenere l’interazione con gli stimoli ambientali;

• La terza fase detta esaurimento rappresenta, purtroppo, il fallimento dei tentativi attuati dai

meccanismi difensivi per realizzare una risposta adeguata agli stimoli ambientali. Questa

fase determina inconsapevoli alterazioni permanenti. L’organismo perde la capacità di

adattarsi in modo funzionale agli stimoli ambientali, mantenendo una risposta ormai

inadeguata che predispone allo sviluppo di malattie anche croniche, che possono interessare

sono solo la sfera fisica, ma anche quella psicologica.

La capacità di mantenere la stabilità dinamica dei sistemi fisiologici di fronte al mutarsi

dell’ambiente circostante, è stata definita con il concetto di allostasi.

Quando l’organismo, confrontandosi con le "pressioni" ambientali, non riesce a conservare la sua

funzionalità nell’ambito di una risposta fisiologia, si parla di stato allostatico, inteso come risultato

complessivo di una alterata risposta fisiologica (disfunzione adattativa) al carico allostatico. Lo

stato allostatico non è in grado di garantire la corretta gestione dei sistemi fisiologici e quindi lo

stato di salute e di benessere dell'individuo.

6.7: La traumatizzazione vicaria

Com’è noto, il trauma costituisce l’esperienza vissuta in modo estremo, violento,oltre le condizioni

di normalità, causando minaccia o ferendo l’integrità psico – fisica di una o più persone e si

distingue in61:

La traumatizzazzione vicaria è la possibilità per il soccorritore di vivere il trauma, seppur

61 SPINELLO A., 2006, La psicologia dell’emergenza a supporto degli operatori della Polizia Stradale, Reggio Calabria, Città del Sole, pp. 25 – 28.

79

secondario e indiretto, al contatto con la persona traumatizzata, e i sintomi di essa vanno dalla

stanchezza alla depressione, all’irritabilità, all’ansia, all’insonnia, all’affaticamento, ai problemi

familiari, al cinismo, al senso di inutilità, ai problemi relazioni con i parenti, all’alienazione,

all’apatia, alle crisi ideologiche.

Nei soccorritori, la traumatizzazzione vicaria, può manifestarsi nella difficoltà di concentrazione,

nell’irritabilità, in difficoltà respiratorie ed in forme di isolamento, nel calo del tono dell’umore

(area cognitiva, somatica, affettivo – relazionale, del comportamento)62.

Esistono numerosi fattori di rischio per lo sviluppo di una traumatizzazzione vicaria e, sono

raggruppati in tre classi:

1. Fattori di rischio oggettivi:

• Eventi che comportano gravi danni per neonati e bambini;

• Eventi che coinvolgono molte persone;

• Eventi che causano lesioni gravi, mutilazioni o deformazioni del corpo delle

vittime;

• Eventi che causano la morte dei colleghi;

• Il fallimento di una missione di soccorso che provoca la morte del paziente;

• La necessità di compiere scelte difficili e/o inadeguate al proprio ruolo;

• La necessità di prendere decisioni importanti in tempi rapidissimi.

2. Fattori di rischio soggettivi:

• Tendenza del soccorritore ad identificarsi con la vittima;

• Bisogno marcato del soccorritore di tenersi a distanza dalle vittime;

• Presenza di significative problematiche psicologiche del soccorritore e/o

presenza di traumi pregressi in elaborati;

• Mancanza di idonee strategie per fronteggiare lo stress e/o la mancanza di

capacità per valutare la propria tolleranza allo stress;

• Scarsa conoscenza delle risposte fisiologiche delle persone davanti allo stress;

• Lesioni personali.

3. Fattori di rischio collegati all’organizzazione nella quale si presta servizio:

• Ritmi di lavoro eccessivi;

• Inadeguatezza logistica degli ambienti destinati ai soccorritori;

• Carenze nei processi di comunicazione;

• Conflitti interni all’organizzazione e tra soccorritori;

62 BAGNATO M. P., RUOZZI A., 2008, La sicurezza nel soccorso extra ospedaliero,Cap. 13.

80

• Carenze nei processi di selezione e formazione dei soccorritori;

• Mancanza dei programmi di supporto psicologico dei soccorritori.

6.8: Il Critical Incident: Sindrome da eventi critici

E’ risaputo che gli operatori impegnati nelle cosìdette “helping professions” o professioni d’aiuto,

sono esposti più di altri ad una notevole dose di stress e, che ognuno reagisce a questo in modo

diverso, in base al ruolo ricoperto e alle caratteristiche intrinseche del gruppo di appartenenza.

Mitchell e Everly (1999) definiscono il Critical Incident come “qualunque situazione capace di

esercitare nell’individuo un impatto fortemente stressante, tale da annientare i meccanismi di coping

(di adattamento) solitamente utilizzati” (Monti, 2003, p. 40)63.

In altri termini, l’evento stressante sconvolge il soggetto, lo rende vulnerabile facendogli perdere il

controllo su di sé e sulla realtà che lo circonda.

Il Critical Incident è caratterizzato dai seguenti aspetti:

• Determina nell’individuo una reazione emotiva che causa il negativo utilizzo dei propri

schemi cognitivi:

• Da disagio può diventare patologia, con diminuzione della professionalità, che a sua volta

può sfociare in comportamenti asintomatici con gli altri operatori;

• Può arrecare danno sia a chi lo subisce che agli altri soccorritori – colleghi, o alla persona da

soccorrere;

• Può essere causato sia per la vastità dell’evento che per la carenza di risorse umane e mezzi

di fronte ad una domanda di soccorso spropositata;

• Può essere causato dalla ripetizione di eventi stressanti in breve tempo;

• Può essere causato per l’identificazione con la vittima, per il ricordo di un proprio trauma, o

per il soccorso effettuato verso un aprente o un amico (Monti, 2003, p.42).

“[…] I ricercatori clinici hanno identificato un modello comune di reazioni comportamentali,

biologiche e sociali osservabili negli individui esposti direttamente o vicariamente a eventi che

comportano una minaccia alla vita e tale modello è noto con il nome di sindrome di stress post -

traumatico” (Young et al. 2002, p.32).

La risposta ad un trauma è sempre soggettiva e, non dipende solo dall’evento in senso stretto, bensì

da altri fattori che esercitano il ruolo di variabili:

• Dal tipo di evento stressante;

63 SPINELLO A.,2006, La psicologia dell’emergenza a supporto degli operatori della Polizia Stradale, Reggio Calabria, Città del Sole, pp. 31 – 34.

81

• Dalle variabili soggettive della vittima;

• Dalla risposta soggettiva all’evento stressante;

• Dal supporto e dalle risorse sociali (Giannantonio, 2003).

Pertanto le reazioni della vittima all’evento, dovranno essere ricondotte ai suoi tratti di personalità,

ancor prima del verificarsi dell’evento.

6.9: Strategie di primo soccorso psicologico: demobilization, defusing e

debriefing

Il Critical Incident Stress Managment (CISM) proposto da Everly e Mitchell (1999) è un

programma globale, multicomponente ed sistemico che ha l’obiettivo di ridurre la tensione emotiva,

facilitare il naturale processo di recupero e identificare le persone che necessitano di sostegni

aggiuntivi o invio a strutture sanitarie.64

Prima di tutto, i programmi sono volti alla prevenzioni primaria e, sono temporalmente collocati

prima dell’evento critico e hanno carattere di preparazione, educazione, formazione e

pianificazione. Una volta accaduto l’evento, gli interventi erogati sono in sessioni singole, volti ad

assistere le persone n fase acuta, a fornire una prima valutazione della gravità dell’evento e stimano

l’intensità delle reazioni.

Se l’evento colpisce più di una decina di persone, si effettuano interventi di demobilizzazione

(demobilization), ovvero interventi di gruppo erogati nel primissimo periodo e nelle immediate

vicinanze dell’evento, con l’obiettivo di effettuare una decompressione psicologica.

Sempre nelle vicinanze dell’evento, entro 12 ore, si effettua il defusing, dove le persone esposte

all’evento, vengono raggruppate in piccoli gruppi di 6 o 8 individui; in una durata di circa 20 – 45

minuti, si cerca di attenuare le reazioni intense, ricostituire la rete sociale per evitare l’isolamento e,

si effettuano operazioni di screening per eventuali ulteriori interventi.

Nel modello proposto da Everly e Mitchel, il defusing è costituito da tre fasi:

• Introduzione dell’intervento e del team;

• Esplorazione della natura e dell’impatto dell’evento (fatti e reazioni personali);

• Informazioni su come far fronte allo stress.

Nella forma proposta da Young e colleghi (2002), vi sono sei fasi:

• Stabilire un contatto;

• Valutare la disponibilità;

• Cercare di fare emergere i fatti;64 PIETRANTONI L., PRATI G., 2009, Psicologia dell’emergenza, Il Mulino, Bologna .

82

• Indagare i pensieri;

• Esplorare gli stati d’animo;

• Sostenere;

• Rassicurare e informare.

L’intervento più diffuso è il debriefing psicologico, meglio conosciuto come Critical Incident

Stress Debriefing (CISD) [Everly e Mitchell 1999]. E’ un intervento di prevenzione secondaria che

viene svolto da uno a dieci giorno dopo l’evento critico e da tre a quattro settimane dopo un

disastro. L’incontro che dura da 60 a 180 minuti, è rivolto a un gruppo omogeneo di 8 o 10 persone,

sia soccorritori che vittime dirette. Gli obiettivi riguardano l’aiutare i superstiti a comprendere e

gestire le emozioni, identificare strategie di doping efficaci e ricevere sostegno da simili

normalizzando le emozioni attraverso il confronto sociale. Il CISD è suddiviso in sette fasi:

• Introduzione: si definiscono gli obiettivi, si chiarisce il rapporto di confidenzialità e si

definiscono le regole del gruppo.

• Fase dei fatti: si chiede ai partecipanti di descrivere dove si trovavano, cos’è accaduto, cosa

hanno fatto e cosa hanno percepito (odori, suoni e immagini);

• Fase dei pensieri: si chiede di ricordare i pensieri, i ragionamenti e ciò che è passato alla

mente nel momento dell’evento e, se ci sono pensieri riguardo a norme o regole che sono

state rispettate o lese al momento dell’evento;

• Fase di reazione: si chiede di esprimere sensazioni o sentimenti provati durante e dopo

l’evento, facendo bene attenzione a non esplorare materiale emozionale in grad di generare

ansia e vulnerabilità. Si incoraggia a dare un nome all’emozione (come ad esempio, collera,

tristezza, paura, vergogna, disgusto o rabbia) e a quantificarla e, poi si valuta l’opportunità

di indagare eventuali risposte positive all’evento.

• Fase dei sintomi: evitando la terminologia patologica, si aiutano le persone a manifestare le

reazioni da stress.

• Fase dell’insegnamento: si danno informazioni e suggerimenti, si incoraggia a dedicarsi ad

attività volte a ridurre lo stress (per esempio l’attività fisica o trascorrere più tempo con le

persone alle quali si vuole molto bene), a mantenere uno stile di vita sano tramite una

corretta alimentazione e mantenere vivi i contatti sociali.

• Fase di rientro: si riassume e si verifica se ci sono cose in sospeso.

Si termina il debriefing sottolineando gli aspetti positivi emersi, parlando di risorse e non di

problemi e ricordando i mezzi personali per fronteggiare momenti di crisi. Infine di danno

indicazioni per incontri futuri e si rimarca il patto di confidenzialità.

83

6.10: La compassion fatigue: troppa cura degli altri, poca di sé

L’espressione “compassion fatigue” (fatica da compassione) è stata coniata da Figley nel 1995 e

indica il lavoro emotivo che deve compiere il soccorritore il quale, dedicandosi ad alleviare la

sofferenza degli altri, raccoglie informazioni su di essa finendo in qualche modo per assorbirla65. Si

ha “compassion fatigue” quando nella vita quotidiana il soccorritore è costretto a fare i conti

continuamente con il lavoro che si è lasciato alle spalle, senza riuscire a “staccare” e, spesso, imita i

sintomi della persona che sta curando.

I segni di questa condizione mentale sono:

• Umore negativo;

• Intrusione di pensieri circa la sofferenza delle persone di cui ci si sta occupando;

• Difficoltà a separare la vita lavorativa dalla vita personale;

• Diminuita tolleranza alle frustrazioni e scoppi di collera;

• Timore a lavorare con vittime particolari;

• Sviluppo di sentimenti transferali intensi;

• Depressione;

• Assunzione del punto di vista delle vittime e difficoltà a staccarne;

• Senso di inefficacia e inutilità;

• Allentamento di alcune funzioni dell’Io: senso del tempo e dell’identità; volontà;

• Difficoltà a funzionare in modo appropriato fuori dalla vita professionale;

• Perdita della speranza.

La “compassion fatigue” fa riferimento a un sentimento, la compassione (“patire con”), che è una

delle componenti motivazionali più intense e valide del lavoro di soccorso. Essa prevede che nel

soccorritore ci sia la sensibilità senza la quale non sarebbe adatto a quel tipo di lavoro.

Mantenere la giusta dose di sensibilità senza incorrere in conseguenze negative è quindi un compito

importante di autoprotezione del soccorritore.

65 FENOGLIO M. T., 2010, Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria, – quadrimestrale della Federazione Psicologi per i Popoli, numero 4, pp. 60 – 61.

84

Capitolo 7

Le emozioni dei soccorritori

7.1: Concetti generali

“E’ il 6 aprile ore 3.32 nei dintorni di Villa Sant’Angelo. Giulio è in divisa e sta per prendere

servizio..è una guardia forestale, una specie di soldato del verde pubblico…alle 4 deve trovarsi ad

Assergi e in macchina ci mette una ventina di minuti. Prende le chiavi dell’auto, il portafogli,

l’arma e il cappello. Beve il caffè e la tazzina traballa. Il caffè deborda…il muro del garage e della

cucina si aprono, cade qualche calcinaccio e qualche soprammobile..Giulio capisce che quello

sconquasso che così tanto lo ha spaventato, non può che aver causato danni alle case del suo

paese, Villa Sant’Angelo..settecento metri da fare col cuore a duemila, mentre la polvere ancora

non si dirada..parcheggia in piazza..è in divisa e si sente autorizzato a iniziare..non ha bisogno di

cartine del catasto..lui c’è nato tra quelle quattro case e sa tutto di tutti.. sa quali sono le case

disabitate e dove non bisogna perdere tempo..Nella prima casa ci sono quattro persone di cui tre

seppellite..sa che c’è anche Michelina con la madre, ma bisogna fare con ordine. È da solo e non si

rende conto della forza che riesce a sviluppare. Intorno a lui la gente grida qualcuno prova a fare

qualcosa ma a piedi nudi o in pigiama non riesce neppure a fare due passi sui cavi tranciati..Villa

Sant’Angelo ha 400 abitanti e, a mezz’ora dal sisma, Giulio è l’unico soccorritore in divisa. Ecco lì

la casa di Francesco Olivieri, professore di educazione fisica…la porta era aperta, la camera da

letto di Francesco e sua moglie Antonella non aveva più ne tetto ne solaio..nella camera di

Francesca, una carissima amica di Giulio, era venuto giù il tetto, Giulio sa bene dov’è il letto e

dov’è la testa e dove sono i piedi..scava con le mani e trova una ciocca dei suoi capelli..il viso è

deformato..nemmeno per Francesca si può far nulla..con le lacrime per Francesca, ma fedele al

suo proponimento di abbandonare i morti, Giulio cambia casa…Giulio ancora non riesce a

fermarsi, l’adrenalina pompa come se fosse tutto appena successo ma saranno passate quasi due

ore dal botto…Paura? Ma certo, Giulio non è un Superman. Più che paura è una fifa boia quella

che lo prende alle gambe..e ogni volta che entri in una casa, sai bene che forse resterai lì. Ma è

una paura che non paralizza e in ogni caso scatta un qualcosa nella mente di Giulio: posso anche

morire per tirare fuori uno di loro… 66”

Questo racconto introduce nel complesso mondo delle emozioni che vivono i soccorritori nel

proprio lavoro, sia professionale che volontario. Vi è un misto di impressioni, emozioni, pensieri e

66 PALADINI F. , VALLECCHI, 2009, Gli artigli dell’Aquila, Città di Castello (Perugia), Le Stelle, pp. 15 – 24.

85

azioni in cui le persone si impegnano in un lasso di tempo ben definito e limitato67.

Inizialmente la mente del soccorritore è attraversata da una emozione, lo sgomento, che ben presto

viene sostituita con l’azione; infatti, indulgendo in quell’emozione, il soccorritore non sarebbe più

in grado di operare. Sulla scena del disastro, il mondo del soccorritore viene tenuto in bilico tra forti

sensazioni /emozioni, adattamento, razionalità e operatività. L’operazione che il narratore effettua

e , che caratterizza la specie umana, è quella di pensare il pensiero, ovvero far transitare le emozioni

attraverso il pensiero, prima che si traducano in una reazione non controllata.

Nel caso in cui l’operatore non sia sufficientemente preparato, quando le emozioni sono troppe e,

quando tutto l’ambiente circostante si ritrova in una condizione di stress estremo,può accadere che

dalle emozioni si passi direttamente all’azione. E’ un’operazione rischiosa, perché irriflessiva; si

parla allora di un “agito”, poiché l’azione intrapresa in quel momento esclude il pensiero.

67 FENOGLIO M- T., 2010, Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria, quadrimestrale della Federazione Psicologi per i Popoli, numero 4, pp. 46 – 49.

Emozioni

Azioni

Pensiero

Azioni

Emozioni

Pensiero

86

Durante il loro percorso formativo, i soccorritori hanno un breve contatto con le dimensioni

psicologiche; è un argomento che, di solito, occupa un paio d’ore d’aula e, si concentra o sulla

“comunicazione” con le vittime o sul problema dello “stress” del soccorritore stesso.

In Italia il ruolo delle emozioni all’interno delle attività di soccorso ha una storia relativamente

breve; infatti, è a partire dalle “grandi emergenze”, in particolare quelle connesse con il conflitto in

Ex – Jugoslavia e la missione Arcobaleno nei Balcani che le dimensioni psicologiche delle vittime e

dei soccorritori cominciano a trovare spazio nella pratica e nella letteratura.

7.2: Le difese verso emozioni troppo intense: il contributo della psicologia del

profondo

Quando si presentano situazioni di emergenza, i soggetti mettono in atto difese psicologiche: con

questo termine si intendono gli artifici della mente, di tipo inconsapevole, attraverso i quali si cerca

di eludere la consapevolezza di emozioni suscitate in lui dalla situazione in cui è coinvolto. Alcune

di queste difese possono essere utili al mantenimento della lucidità come accade ai soccorritori in

situazioni di urgenza, i quali per poter agire si difendono tramite il distacco emotivo.

Al contrario, ci sono meccanismi che prendono il sopravvento alla mente, facendo sì che

quest’ultima assorba tutte le energie emotive della persona come accade con la compassion fatigue,

il DPTS e il burnout.

Un altro meccanismo di difesa, è la rimozione, ovvero allontanare dalla mente fatti e circostanze

che rimandano a un’emozione insostenibile. Un altro ancora è la conversione. In base a quanto

ricordato da Brunori e Risoldi, alcuni poliziotti, in seguito al crollo delle Torri Gemelle, furono

ricoverati per paralisi alla mano destra, rivelatosi poi un sintomo di conversione ad eziologia

psicogena. I poliziotti, infatti, avevano convertito il loro sentimento di totale impotenza

“paralizzando” la mano con la quale solitamente afferravano la pistola per rispondere al pericolo.

Può anche essere messa in atto l’ inibizione , ovvero non voler più svolgere azioni un tempo usuali

in quanto collegate all’esperienza traumatica. Lo spostamento invece,avviene quando l’angoscia

suscitata da una situazione viene spostata in un’altra circostanza diversa, che funge da schermo. È,

ad esempio, il caso di un soccorritore che sposta sul timore a lasciare parcheggiata l’auto incustodita

l’angoscia di aver lasciato un proprio collega in balia delle fiamme.

La razionalizzazione può essere considerato come il più diffuso tra le difese psicologiche e, consiste

nel dare per forza spiegazioni razionali a eventi forieri di angoscia.

L’ isolamento affettivo si ha quando l’evento viene riconosciuto dalla coscienza, ma slegato dalle

emozioni corrispondenti. Nel soccorritore, un singolo episodio traumatico o l’accumulo di gravi

87

stress può portare a una sorta di desensibilizzazione o alla riduzione progressiva del proprio

coinvolgimento emotivo con gli altri.

La regressione consiste nell’adottare comportamenti infantili come, ad esempio, l’adulto che in

seguito a un fallimento si rifugia nel cibo o nell’assunzione di alcool.

La negazione è il rifiuto di prendere atto di un fatto realmente accaduto, per esempio il fatto di aver

fallito una missione o le conseguenze di un comportamento errato. Essa, induce anche a

sottovalutare i pericoli connessi al soccorso o ad allentare l’allerta sui rischi.

In base a questa breve trattazione sui meccanismi difensivi psicologici, si evince l’importanza di

un’adeguata formazione e forme di sostegno sociale, specialmente in concomitanza con esperienze

particolarmente stressanti. Va reso presente alla coscienza del soccorritore la natura dell’impatto

con l’emergenza e le possibili reazioni disfunzionali che si possono verificare.

7.3: Lo studio delle emozioni dei soccorritori e della loro gestione

Numerosi sono gli studi nei quali si è cercato di apprendere le strategie che i soccorritori mettono in

campo per gestire le proprie emozioni. Uno di questi, della durata complessiva di sei anni, si è

effettuato in America68 su un gruppo si soccorritori “Search and Rescue”: dalla ricerca si è

evidenziato che una strategia molto comune adottata, è quella della depersonalizzazione delle

vittime, ovvero non considerarla come una persona ma, piuttosto come una “carcassa” e, allo stesso

modo non guardarla in volto, pena la perdita di concentrazione e ripercussioni emotive pesanti. In

Italia69, invece, viene raccomandato di considerare il corpo del deceduto come una persona, in

quanto forma di rispetto per la persona stessa e per i parenti.

Riveste molta importanza la rielaborazione narrativa dell’esperienza vissuta, la quale comprende

anche la possibilità di poter parlare delle proprie esperienze negative, dei propri fallimenti o sensi di

colpa. Se una missione ha avuto un esito negativo, i soccorritori sono esposti al senso di colpa e, un

modo per poter eliminare questa emozione, è quello di allontanare da sé le proprie responsabilità;

ecco allora che, l’organizzazione alla quale appartengono impartisce regole rigide per proteggerli,

come: primo, proteggi te stesso; secondo, i tuoi; terzo, la vittima.

Di fronte a un insuccesso, giova richiamare alla mente esperienze positive, magari quelle dove

qualcuno è stato aiutato dal soccorritore stesso.

All’interno della ricerca italiana, è possibile individuare un “sistema di convinzioni circa le

emozioni“ (Lois, 2003).

Le organizzazioni di soccorso sembra che sviluppino un proprio sistema di convinzioni implicite 68 LOIS J., HEROIC E., 2003, The emotional culture of Search and Rescue volunteers, New York University Press.69 Corso di formazione La relazione di aiuto, Idea Solidale, Torino, maggio 2005

88

circa le emozioni appropriare in certe situazioni: quanto è lecito esprimerle, quanto devono essere

controllate, ecc. il significato che il soccorritore attribuisce alle sue emozioni incide sull’idea che

egli si fa di sé stesso e degli altri e sul modo di vivere e rappresentare la propria organizzazione e la

propria esperienza in essa.

Non è possibile rintracciare una vera e propria cultura delle emozioni ma, piuttosto una serie di

motivazioni e incentivi che hanno spinto il soccorritore a fare quella determinata scelta nella sua

vita, ovvero aiutare gli altri. A questo proposito è fondamentale il senso di cooperazione, l’umiltà,

lo spirito di squadra e la socialità; viene pertanto abolita la figura del “Rambo della situazione”,

ovvero il protagonismo individuale, il mettere a rischio non solo se stessi ma anche la squadra e, in

ultimo, le aspettative di vivere situazioni eccezionali e di svolgere un ruolo da “salvatori del

mondo”.

Anche se il soccorritore è modesto, collaborante nei confronti della sua squadra e sociale, nulla gli

vieta di sentirsi un po’ speciale: sulla sua attività si regge la possibilità per i cittadini di ricevere, nel

momento del bisogno, un soccorso efficiente e senza defezioni.

7.4: Durante l’emergenza: tecniche di gestione delle proprie emozioni

Durante l’emergenza, i soccorritori indicano una precisa strategia di coping per fronteggiare le

proprie emozioni: è fondamentale concentrarsi appieno su quello che si sta facendo senza farsi

condizionare da quello che non è direttamente collegato all’evento. Occorre guardare solo il

problema tecnico e restringere il focus e dissociarsi.

Questo metodo di gestione è il più citato: diffuso sembra anche quello di una breve discussione col

proprio gruppo e, una volta terminata l’emergenza concedersi un po’ di relax, magari bevendo

qualcosa tutti assieme.

Più temute sono le situazioni dove i familiari della vittima appaiono poco gestibili, ostacolando il

soccorso e minacciando i soccorritori con il proprio caos. In questa eventualità, sono molti i

soccorritori che confermano il fatto di non avere un repertorio di contromisure efficaci e, il

contributo di un professionista della relazione appare più che opportuno.

In merito a quest’ultima osservazione, si vuole citare un esempio: un argomento da valutare

riguardo gli aspetti psicologici della Rianimazione Cardiopolmonare70 è l’interazione che si viene a

creare tra soccorritori e familiari presenti sulla scena. Si è sempre riscontrato nei sanitari due diversi

modi di pensare e agire: ci sono operatori che permettono al parente, se lo desidera, di assistere alle

70 PRATI G., MONTI M., 2010, La presenza dei familiari durante la rianimazione cardio – polmonare e altre manovre, Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, Supplemento B. Psicologia, Vol. 32, N. 3, pp. 42 – 49.http://gimle.fsm.it

89

manovre rianimatorie; altri, vietano la presenza del familiare perché da una parte, le tecniche

incruente possono provocare un forte disagio psicologico nell’osservatore, dall’altra, perché il

parente potrebbe essere di ostacolo e, motivo quasi mai reso pubblico, evitare di avere testimoni che

critichino il proprio operato. La “gestione umana” dell’emergenza, appare alla portata del

soccorritore, che cita attenzione alla privacy, disponibilità a parlare con la vittima per rassicurarla e,

capacità di esprimere vicinanza.

In ultima analisi, l’esposizione con corpi martoriati suscita emozioni durevoli: non vengono citate

strategie di coping particolari, però assume particolare rilevanza il poter condividere con gli altri la

propria esperienza, raccontandola in ogni singolo dettaglio.

90

Capitolo 8

L’infermiere e la relazione d’aiuto

8.1: Normativa n. 196 sulla formazione degli operatori di area critica

La necessità di affrontare alcuni aspetti e problematiche di carattere non solo prettamente tecnico,

ma anche di natura psicologica, riguardanti l’attività assistenziale degli operatori di area critica, è

nata alcuni anni fa in seguito a cambiamenti avvenuti in ambito sanitario.

Non che prima gli aspetti relazionali operatore - paziente non fossero importanti, ma sicuramente

negli ultimi anni i cambiamenti che si sono verificati hanno fatto comprendere al personale di

soccorso che la loro attività non si esprime solo con l’esecuzione di un corretto BLSD, con la sola

somministrazione della terapia o la corretta immobilizzazione del politraumatizzato, ma che si

avvale di una serie di elementi di carattere psicologico che se non considerati possono minare

l’equilibrio dello stesso operatore a danno di quest’ultimo, del paziente e dell’équipe 71 .

A tal riguardo, occorre ricordare la normativa, inserita in Gazzetta Ufficiale, numero 196 del 25

agosto del 2003 intitolata “Linee – guida su formazione, aggiornamento e addestramento

permanente del personale operante nel sistema di emergenza - urgenza”72, la quale definisce i

CONTENUTI FORMATIVI OBBLIGATORI per tutti gli operatori di Pronto Soccorso, Medicina

D’urgenza, 118 e convenzionati (medici, infermieri, soccorritori, tecnici e volontari).

Essa, definisce due tipologie di obiettivi:

• OBIETTIVI ORGANIZZATIVI: tra di essi ricordiamo:

1. Conoscenza dell’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale e regionale;

2. Conoscenza dell’organizzazione dei sistemi di emergenza urgenza e dei relativi

protocolli;

3. Conoscenza delle modalità complessive del trasporto sanitario della rete regionale

dell’emergenza;

4. Acquisizione delle capacità di predisporre e utilizzare i protocolli operativi

organizzativi, clinici, ospedalieri e territoriali;

5. Conoscenza e capacità di utilizzo dei sistemi di comunicazione e delle tecnologie;

6. Conoscenza degli aspetti medico – legali nell’urgenza ed emergenza;

7. Conoscenza delle modalità di coordinamento con enti istituzionali preposti

71 VENTURINI L, 2002, Non solo Psico – formazione, riflessioni e considerazioni sui corsi AISACE di psicoformazione, Emergency Oggi, Key communication, Roma, p. 26.72 www.ipasvi.it/archivio_news/leggi/244/ACC220503.pdf

91

all’emergenza non sanitaria;

8. Conoscenza e capacità di gestione di protocolli organizzativi e assistenziali, attivati

nell’ambito di maxi emergenze, grandi eventi ed emergenze non convenzionali;

9. Conoscenza dei sistemi di auto protezione e di sicurezza.

• OBIETTIVI RELAZIONALI: essi includono:

1. obiettivi clinico assistenziali;

2. organizzativi;

3. RELAZIONALI.

Tra gli obiettivi relazionali si annoverano:

1. Acquisizione delle CAPACITA’ DI RELAZIONI D’AIUTO;

2. Conoscenza e metodologia del LAVORO D’EQUIPE;

3. Conoscenza della metodologia per la GESTIONE dello STRESS e dei

CONFLITTI;

4. Acquisizione delle capacità di RELAZIONE nella COMUNICAZIONE tra le

DIVERSE COMPONENTI della RETE D’EMERGENZA.

8.2 La relazione d’aiuto

La relazione d’aiuto viene definita come “..l’incontro fra due persone di cui una si trova in

condizioni di sofferenza,confusione, conflitto, disabilità (rispetto a una determinata situazione o a

un determinato problema con cui è a contatto e che si trova a dover gestire) e, di un’altra persona

dotata, invece, di un grado superiore di adattamento, competenza, abilità, rispetto a queste situazioni

o tipo di problema. Se fra queste due persone si riesce a stabilire un contatto (una relazione) che sia

effettivamente di aiuto, allora è probabile che la persona in difficoltà inizi qualche movimento di

maturazione, chiarificazione, apprendimento che la porti ad avvicinarsi all’altra persona”73.

Molte relazioni amicali, familiari e di vicinato sono così relazioni di aiuto ma, lo possono essere

anche molte relazioni a sfondo professionale come, ad esempio, il rapporto medico – paziente o

infermiere – paziente.

I rapporti, quindi, le relazioni d’aiuto che l’infermiere sia di reparto che di area critica instaura con

gli assistiti (o anche con i propri colleghi), è assolutamente fondamentale e, costituisce l’elemento

determinante dell’efficacia della relazione stessa.

L’infermiere deve avere la capacità di uscire da schemi prefissati per adattare il proprio intervento

alle persone che ha di fronte, siano pazienti che colleghi in difficoltà, in modo che questi ultimi si 73 MUCCHIELLI R., 1993, Apprendere il counseling, Erickson, Bologna, pp. 8 - 15

92

possano sentire veramente al centro della sua attenzione; l’approccio del professionista deve,

quindi, essere centrato sulla persona in difficoltà, in modo da stabilire con essa quella relazione

all’interno della quale c’è la persona.74

Auger ha individuato sei attitudini fondamentali che chi aiuta deve possedere in modo tale da

garantire un supporto efficace:

• Empatia: capacità di entrare in relazione, di capire il significato delle emozioni altrui,

provare ciò che egli prova, mettersi nei suoi panni ma, avendo ben a mente che non si è

l’altro; per instaurare bene un rapporto empatico occorre conoscere bene le proprie reazioni

emotive, non solo con l’introspezione, ma anche con l’aiuto dei propri colleghi di lavoro.

L’empatia permette di instaurare un rapporto professionale ed equilibrato con chi è in

difficoltà, evitando sia il coinvolgimento emotivo dell’operatore sia l’isolamento affettivo

dell’assistito.

• Rispetto: è una considerazione positiva di chi si trova di fronte a noi, privo di qualsiasi tipo

di pregiudizio, quindi rispetto delle sue potenzialità, della sua dignità ed unicità.

• Autenticità: dell’operatore nel rapportarsi alla persona in difficoltà, in modo tale da creare

un rapporto di scambio verbale o non verbale che permetta la nascita di un clima di fiducia e

di rispetto reciproco.

• Specificità: del proprio ruolo all’interno dell’équipe assistenziale, disponibilità a cooperare

per il bene dell’assistito.

• Confronto: tra i membri dell’équipe, capacità di mettere in discussione le proprie idee e i

propri atteggiamenti.

• Immediatezza: nel rapporto con il paziente, nelle pratiche assistenziali, capacità all’ascolto

e arrivare subito all’essenziale.

Augen, inoltre, ci ricorda che “..nessuno dà quello che non possiede lui stesso..”; ciò che distingue

un tecnico da un professionista, consiste nel fatto di sapere “giocare” il proprio ruolo in termini

relazionali, di uscire da schemi predefiniti per adattare il proprio intervento alla persona che ha di

fronte, di lasciarsi coinvolgere nella giusta misura in questa relazione, in modo tale che l’assistito si

senta al centro della sua attenzione e della sua professionalità.

74 http://www.ipasvict.it/index.php?option=com_content&view=article&catid=91:edizione-nd1-del-2007&id=168:la-relazione-daiuto&Itemid=137

93

8.3: Lavorare in team: il profilo psicologico della squadra

Il team è una squadra di lavoro composta da diverse figure professionali, con diversi ruoli, le quali

operano insieme con un assetto prevalentemente circolare e cooperativo volto, in ambito sanitario,

ad un fine comune: la prevenzione e il recupero del benessere di tutti quei soggetti, sia pazienti che

operatori stessi, che si trovano in una situazione di disagio sia fisico che psichico75.

Attraverso il lavoro integrato, il team discute il caso per gli aspetti tecnici e il modo di procedere: ci

si occupa, cioè, di cosa fare, come fare, in che tempi e con quali attese76.

Qualora l’attenzione sia spostata al paziente che si trova in condizioni di disagio psico – fisico o, nel

caso in cui l’attenzione sia concentrata su un componente dell’èquipe che presenta la medesima

situazione di disagio, sarà compito del team rappresentare una sorta di profilo del soggetto oggetto

di cure e, indirizzarlo verso il professionista esperto.

Sarà quindi importante notare se il paziente o il collega si dispone con una modalità collaborante, se

è oppositivo, se tende a isolarsi, se è troppo depresso, se deduttivo o troppo dipendente, come pure,

che tipo di emozioni, di reazioni, comportamenti suscita negli operatori.

Trombini e Chattat (2002), definiscono alcuni stili relazionali e comportamentali ricorrenti, definiti

macrocomportamenti: gli autori forniscono suggerimenti sul modo più adeguato per individuarli ,

interpretarli e rispondervi77. Tutto ciò ha risvolti positivi sulle possibilità di recupero e di

guarigione.

Purtroppo, è ancora troppo spesso una cattiva abitudine da parte dell’operatore sanitario, tagliare

corto quando la conversazione assume connotati di tipo psicologico e relazionale; peggio ancora,

quando alcuni particolari del comportamento vengono derisi e, divengono oggetto di volgari e

ciniche allusioni.

Nel momento in cui la disposizione a comprendere gli altri viene persa, gli operatori dovrebbero

avere occasione di ripensare a come mai ciò sia potuto accadere: i sentimenti negativi non vanno ne

taciuti né non considerati, ma vanno riconosciuti, occorre dargli un senso, una comprensione e,

delle possibilità trasformative che li riconducano in un flusso positivo.

La paralisi del team avviene quando stati mentali negativi carichi di malessere, provenienti oltre

che da sé stessi anche dagli altri operatori, hanno inconsapevolmente contagiato la squadra; essa

non funziona più o funziona male, si verificano troppi attriti e la comunicazione distorta a tutti i

livelli fa sì che le minime informazioni non circolino, mettendo alla deriva sia gli operatori stessi e,

non per ultimo, il paziente.75 ROSSI N., 2000, Dal medico psicologo allo psicologo clinico: aspetti professionali e psicologici di un tragitto, in “Quaderni di Scienze dell’Interpretazione. Psicologia clinica, psicoterapia, psicosomatica”, pp. 131 – 145.76 ROSSI N., 2004, Psicologia clinica per le professioni sanitarie, Il Mulino, Bologna, pp. 268 – 270.77 TROMBINI G., CHATTAT R., 2002, Educare alla relazione in medicina, in “Medic, pp. 128 – 132.

94

Importante è che il team periodicamente si incontri per capire qual è lo stato affettivo delle sue

componenti il clima presente; è buona regola che i rappresentanti riflettano sulle criticità del lavoro

comune, per prevedere e prevenire sviluppi negativi.

Infine, il team svolge funzioni psicologiche aspecifiche: consente ai suoi membri di condividere

scelte e responsabilità, alleggerendo il peso di lavorare in solitudine, consentendo quindi di evitare

la spersonalizzazione, ridando un assetto unitario alla squadra . Condividere all’interno del team un

progetto, permette allo stesso di far assumere una valenza positiva e creativa che aumenta la

motivazione negli operatori stessi.

8.4: Metodi di gestione dello stress e dei conflitti: le esercitazioni e la loro

funzione psicosociale.

Le esercitazioni sono una delle attività più pratica per la prevenzione delle emergenze all’interno di

una comunità: esse hanno molteplici funzioni, tra cui ricordiamo le finalità formative,

l’addestramento e l’educazione. Vengono effettuate per valutare empiricamente i piani di

emergenza locali e territoriali e per stimolare e stabilire coordinamento e sinergia tra operatori e

varie organizzazioni78.

Nel nostro paese esse sono obbligatorie sulla base di specifiche normative e legislazioni sulla

sicurezza, difesa e protezione civile, dove, in quest’ultimo, devono testarne il sistema in presenza di

un evento disastroso come, ad esempio, un terremoto, un’alluvione, un’eruzione vulcanica o un

attentato terroristico.

Secondo Peterson e Perry (1999)79, le esercitazioni offrono cinque vantaggi:

1. Consentono di verificare l’adeguatezza dei piani di emergenza a partire da quanto è stato

progettato in termini di risorse umane e strumentali, quindi si dimostra se il piano funziona

correttamente.

2. Viene verificato il livello di addestramento e formazione del personale di soccorso, tramite

la costruzione di scenari che replicano quelli reali. In merito all’addestramento, si valuta se

esso è sufficiente e quali cambiamenti devono essere introdotti.

3. Si promuove la visibilità degli enti e organizzazioni all’interno della comunità: i cittadini

così vengono rassicurati perché vedono che le autorità sono consapevoli dei potenziali

pericoli e sono preparate per ridurre l’impatto negativo del disastro.

4. Consentono di mettere alla prova dal “vivo” il funzionamento dei sistemi di comunicazione,

78 PIETRANTONI L., PRATI G., 2009, Psicologia dell’emergenza, Il Mulino, Bologna, pp. 230 – 234.79 PETERSON D. M., PERRY R. W., 1999, The impacts of disaster exercises on partecipants, in “Disaster Prevention and Management”, pp. 241 – 255.

95

dei mezzi, delle attrezzature e di altri materiali.

5. Le esercitazioni permettono di verificare la fattibilità dei piani di soccorso e del

coordinamento operativo e decisionale fra molteplici organizzazioni tra di loro

interdipendenti , come ad esempio, vigili del fuoco, polizia e 118.

In genere vengono distinti tre tipi di esercitazioni:

1. Le esercitazioni a tavolino, dove ai partecipanti viene esposto un evento simulato in forma

narrativa e, ognuno di essi, dovranno interagire al fine di sviluppare la risposta alla

maxiemergenza, descrivendo verbalmente le azioni che farebbero in quel momento. I

conduttori, interverranno apportando variazioni dove richiesto.

2. Le esercitazioni funzionali si svolgono in tempo reale su scala reale, con gli

equipaggiamenti normalmente utilizzati dagli operatori. Ciò richiede una preparazione dello

scenario e il realismo risulta importante.

3. Le esercitazioni su larga scala richiedono il coinvolgimento di numerosi enti, lo sviluppo di

obiettivi e sottobiettivi e, la creazione di uno scenario altamente realistico. Un gran numero

di risorse umane e materiali viene coinvolto. I partecipanti svolgono il loro compito in

tempo reale.

Questi tre tipi di esercitazioni possono essere usate in modo sequenziale.

Molto importante è l’impatto psicosociale che ha la partecipazione a un’esercitazione ben riuscita

sui soccorritori. Gli studi empirici si sono soffermati sull’effetto del training o della simulazione su

dimensioni come il team works, la percezione di efficacia, la valutazione dell’adeguatezza della

formazione/addestramento ricevuto o la capacità di gestire lo stress.

Secondo Peterson e Perry (1999), le esercitazioni portano a un cambiamento nelle percezioni

riguardo il lavoro di squadra, l’efficacia del sistema di soccorso, l’adeguatezza della formazione e

delle attrezzature e il rischio lavorativo.

Se l’esercitazione è ben riuscita, il lavoro di squadra e la fiducia nelle capacità di integrazione e

coordinamento tra i vari attori del soccorso, migliorano notevolmente. Analogamente, aumenta

anche la percezione di efficacia del sistema dei soccorsi: osservando ciò che le organizzazioni di

soccorso possono e sanno fare con le loro abilità e strumenti, si consolida la percezione che il

sistema è in grado di rispondere ai bisogni della comunità in modo tempestivo ed efficace.

§Infine, le esercitazioni rappresentano una simulazione realistica della portata stressogena del

soccorso: in questo senso i partecipanti hanno la possibilità di apprezzare come la pianificazione,

l’addestramento e le abilità personali li rendano in grado di operare in un ambiente minaccioso.

Negli operatori d’emergenza, le esercitazioni e le simulazioni, oltre ad avere finalità educative e di

miglioramento tecnico ed organizzativo, svolgono un’importante funzione psicosociale in

96

cementando il team work, la percezione di efficacia nel fronteggiamento dei rischi e dello stress e

consentendo la verifica dei piani di soccorso.

8.5: Chi aiuta chi aiuta?

Abbiamo già parlato di come, nella realtà lavorativa quotidiana, gli operatori dell’emergenza si

possano trovare di fronte ad eventi altamente critici e rischiano di subire un Critical Incident

(incidente critico) e, nel tempo, di manifestare una Critical Incident Stress Sindrome80.

Si è già detto anche che il Critical Incident produce nell’operatore una forte reazione emotiva che

interferisce negativamente con i propri schemi cognitivi e le proprie capacità. Nell’operatore

d’emergenza, questa condizione produce un forte disagio che si esprime con una diminuzione delle

proprie capacità professionali, un disorientamento nella scena dell’evento, un forte malessere che

non permette di ottenere sintonia con gli altri operatori con i quali si trova ad operare, sia all’interno

della propria équipe che all’esterno di essa; l’evento critico fa sì che l’operatore non adempia ai

protocolli operativi o linee guida, non sia in grado di valutare con lucidità le esigenze del paziente al

momento del triage e i pericoli presenti sulla scena dell’evento.

Chi si trova in questa condizione potrebbe essere fortemente pericoloso non solo nei confronti di sé

stesso, ma anche in quelli del paziente e degli altri membri dell’équipe.

Da qui, risulta assolutamente fondamentale utilizzare qualunque strumento che risulti utile nel

prevenire l’insorgenza di condizioni psicologiche patologiche negli operatori.

Il metodo di intervento solitamente utilizzato è stato messo a punto da Mitchell e Everly ed è

chiamato CISM, Critical Incident Stress Management, che si suddivide in diverse fasi di intervento

e, la più importante è il Debriefing.

Per Critical Incident Stress Debriefing (C.I.S.D.) ci si riferisce al modello sviluppo alla fine degli

anni settanta negli Stati Uniti da Mitchell. Questo modello nasce per mitigare o eliminare le

conseguenze dello Stress Acuto negli operatori d’emergenza sanitaria, sebbene sia utilizzato anche

in realtà differenti, come ad esempio le scuole e gli ospedali.

Il C.I.S.D. viene utilizzato con gruppi omogenei di soggetti che hanno vissuto l’evento critico

durante lo svolgimento della loro attività e, la tecnica dovrebbe iniziare dopo ventiquattrore

dall’evento : quest’arco di tempo permette solitamente agli individui di essere liberi dal carico

lavorativo, con l’aspettativa di non ritornare sulla scena dell’evento.

Lo scopo è di ridurre l’impatto dello stimolo stressante nei confronti dell’operatore per mitigare

l’intensità e la cronicità dei sintomi susseguenti al trauma. Ma l’aspetto più significativo del

80 MONTI M.,SARCHIELLI G., 2000, Chi iuta chi aiuta?, Emergency Oggi, Key Comunication, Roma, pp. 4 – 8.

97

C.I.S.D. consiste nella chiusura positiva dell’evento traumatizzante.

Esso è strutturato in sette fasi e, come già detto, deve iniziare dopo ventiquattro ore dall’evento e

non oltre i 12 giorni successivi:

1. Introduzione: consiste nel presentare l’intervento ai membri della squadra, spiegare il

contenuto del processo, rendere note le aspettative nei confronti della tecnica e quali saranno

le regole elementari per rendere efficaci le varie fasi del processo stesso. Ci si presenterà ai

partecipanti indicando il proprio nome, il motivo per il quale ci si è riuniti e quali sono le

regole di base.

2. Il fatto: si chiederà ai partecipanti di descrivere ciò che è accaduto, parlando della loro

personale esperienza nei confronti dell’evento traumatico, permettendo a chiunque di

mantenere il silenzio e di non intervenire.

3. Pensieri:l’evento viene affrontato sia cognitivamente che affettivamente. I partecipanti

racconteranno l’evento caricandolo del contenuto emotivo; non ci soffermerà sulle

caratteristiche dell’evento, ma su quali sono state le reazioni psicologiche vissute. Ognuno

verrà incoraggiato ad esprimere pubblicamente il proprio stato d’animo.

4. Reazione: in questa fase si procede sempre di più sul versante emotivo. Verrà chiesto di

rivivere l’esperienza sottolineando i sentimenti vissuti mentre si era esposti all’evento,

qual’era lo stato d’animo e i sentimenti vissuti durante questi incontri. Di solito, la domanda

fatta per iniziare il dialogo è: “Nell’incidente vissuto ultimamente, cosa l’ha colpita di più,

quali segni ha lasciato in lei questo episodio?”. I partecipanti potranno far domande.

5. Sintomi: verranno identificati tutti i sintomi di stress e disagio psicologico di cui i

partecipanti hanno dichiarato di soffrire. Avviene una condivisione delle informazioni, una

comprensione sia cognitiva che affettiva del proprio vissuto.. ciò esprime l’intento di far

migrare dal dominio affettivo a quello cognitivo la propria esperienza.

6. Insegnamento: si cercherà di facilitare un ritorno al dominio conoscitivo per normalizzare la

reazione dei partecipanti alla crisi ed insegnare tecniche di coping utili alla gestione dello

stress personale. Queste tecniche sono fondamentali per ridurre l’angoscia corrente.

Il personale d’emergenza deve essere considerato una risorsa preziosa: la presenza di uno stato di

malessere psicologico nell’operatore, provocato da un evento avverso, se non riconosciuto in

tempo, può sfociare in un Disturbo Post Traumatico da Stress.

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8.6: L’infermiere mediatore tra paziente, collega e psicologo

In questo capitolo, abbiamo visto innanzitutto che esiste una normativa a livello nazionale che

obbliga l’infermiere di area critica ad acquisire, dopo la formazione di base universitaria, tutta una

serie di abilità tecniche fondamentali per lo svolgimento corretto del proprio operato. Altresì

importanti sono le capacità relazionali che egli deve acquisire per poter instaurare un efficace

rapporto all’interno della sua squadra e nei confronti delle persone soccorse.

L’infermiere che instaura efficaci relazioni d’aiuto, che riconosce il suo ruolo all’interno

dell’équipe e rispetta i colleghi, che è a conoscenza delle strategie di gestione dello stress e dei

conflitti e che è in grado di relazionarsi tra le diverse componenti della rete d’emergenza, possiede

tutte quelle facoltà intellettuali che gli permettono di riconoscere situazioni di disagio psichico non

solo nel paziente, ma anche nel collega.

Nei confronti dei disagi psicologici delle persone soccorse, l’infermiere instaurerà una relazione

d’aiuto basata sull’accoglienza delle emozioni e stai d’animo negativi, indirizzandolo verso il

professionista della salute mentale, anticipandogli ciò che l’infermiere stesso ha potuto apprendere

dal colloquio con l’aiutato.

Questa caratteristica si riversa anche nei confronti dei propri colleghi di lavoro, sia all’interno della

squadra di appartenenza che, all’esterno di essa: l’infermiere che vede un proprio collega “turbato”

da un evento critico, può sostenerlo, accogliendo anche in questo caso le sue emozioni e i suoi stati

d’animo, capire i bisogni, quindi, di chi gli stà di fronte. Come nel caso del paziente, anche il

collega in difficoltà, sotto consiglio dell’infermiere, può essere indirizzato a uno psicologo che lo

aiuti ad alleviare la sua sofferenza.

L’infermiere che capisce i bisogni di chi gli stà di fronte, che li accoglie, che comprende e che

ascolta le persone che chiedono aiuto, possiede delle abilità e delle capacità che lo distinguono in

una strada professionale difficile ed impegnativa.

Questa attività di “mediazione” dà l’opportunità di entrare realmente in relazione con chi soffre ed

accompagnarlo nel suo percorso, è un’occasione per conoscere sé stessi più in profondità e

sviluppare al meglio il proprio potenziale.

L’infermiere per sviluppare una relazione d’aiuto che agevoli la soluzione del problema, deve saper

applicare strategie operative diverse a seconda della situazione; deve saper integrare le dimensioni

dell’espressione umana nella sua interezza: sensoriale, affettiva, intellettuale, sociale e spirituale.

Ecco allora che sarà in grado di trattare con gli altri in campo affettivo, cognitivo e

comportamentale81.

81 http://www.counselling-care.it/pdf/pdf_couns/Counselling24.pdf

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Importante è precisare che la relazione d’aiuto deve essere onesta: solo questa caratteristica

permette l’espressione del disagio e del dolore in chi li sta vivendo.

L’ambiente con le sue forti sollecitazioni stressa il potenziale di adattamento personale dando

origine a risposte emotive e comportamentali di disagio esistenziale, relazionale e sociale. In questo

contesto, l’infermiere ponendosi con disponibilità, chiarezza e accoglienza, agevola l’assistito nel

riscoprire la fiducia nel proprio potenziale.

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