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Periodico dell’Associazione di Volontariato Onlus VOCI DI DENTRO per promuovere la solidarietà a favore dei detenuti e per il loro reinserimento sociale Anno VI Numero 16 - Dicembre 2011 Tony, un amico ritrovato La sfida di Osman e Daniele Voci al femminile Il Teatro è vita Don Abbondio era meglio La crisi vista da dentro Liberi di sognare Periodico di cultura, attualità, cronaca dalle Casa Circondariali

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Tony, un amico ritrovatoLa sfida di Osman e Daniele

Voci al femminileIl Teatro è vita

Don Abbondio era meglioLa crisi vista da dentroLiberi

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Periodico di cultura, attualità, cronaca dalle Casa Circondariali

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Comune di Chieti

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Il carcere fa questi effetti: lovisiti una, due, dieci volte e tisenti affratellato a quell'uma-nità dolente che ti scaraventaaddosso la sua fame di liber-tà: vedi uomini e donne cheannaspano tra le sbarre e di-mentichi che la pena è la logi-ca giuridica conseguenza di undelitto. Sai razionalmente chequei reclusi, "prima" hannocommesso una o più azioni ri-provevoli, a volte orribili. Ep-pure davanti a questo "dopo"che ha il volto del dolore, quel"prima" si fa pallida ombra. Eprovi un solo, prepotente de-siderio: tirarne fuori quantipiù possibile.da “In giustizia”, Giancarlo DeCataldo giudice di Corte d’As-sise a Roma

nche i dete-nuti sognano.Soprattuttoad occhi aper-ti, immagi-nando unmondo mi-gliore, senza

sbarre, riuniti con le loro fa-miglie. E' l'unica cosa che pos-sono fare mentre se ne stan-no stesi in branda o quandoper poche ore al giorno vaga-no come fantasmi per i corri-doi delle sezioni. Per loro ilsogno rappresenta davverol'unica libertà. Una via di fugadalla disperazione, un ponteverso un altro mondo. Lo vedinei loro occhi, soprattutto loleggi nei loro scritti. In quellidi Giuseppe innanzitutto. Come se il Ponte dei Sospiriche è disegnato nella nostracopertina non fosse il tragicoponte che portava ai Piombie dunque alla morte, ma allalibertà, in una terra di sognoprotesa verso il cielo. Con lasperanza che il sogno diventirealtà e che qualcosa cambi,affinché non siano eccezioniquelle buone pratiche che rac-contiamo nelle pagine se-guenti: il permesso premio perFabio, i corsi in articolo 21 perDaniele e Osman, il teatro peri ragazzi di Paola, l'assunzio-ne di Tony in una fabbrica.Buone pratiche frutto del-l'impegno di tante persone,ma soprattutto delle personeincarcerate protagoniste inprima persona delle loro scel-te.

Francesco Lo Piccolo

A

Noi siamo i solitiquelli cosìSiamo i difficilifatti cosìNoi siamo quelli delle illusionidelle grandi passioniNoi siamo quelli chevedete quiAbbiamo frequentatodelle pericolose abitudiniE siamo vivi quasi per miracolograzie agli interruttoriNoi siamo liberi, liberi liberi di volareSiamo liberi, liberiliberi di sbagliareSiamo liberi, liberi liberi di sognareSiamo liberiliberi di ricominciareVasco Rossi

a storia di Tony la co-noscono in molti, perfortuna. Una storiaimportante e bellacon un lieto fine,come quelle che

si vedono al cinema.Il lieto fine è questo: adesso

abbiamo un magazziniere, un padre,un marito, un amico in più ed un de-tenuto in meno. In questo Voci diDentro c’entra, e molto.Tony nel carcere di Chieti ci arriva daSan Vittore dove era arrivato per unastoria uguale e diversa da tutte lealtre e una condanna pesante.Con il carcere Tony perde la libertàma anche per la giovane moglie e lafiglia che ha fuori la perdita non èmeno pesante, così tornano in Ro-mania dalla nonna. Per Tony cominciaun periodo duro, durissimo.Dopouna vita spesa tra lo sport (campio-ne di lotta scappato dalla Romaniadi Ceausescu) ed i concerti rock (bo-dyguard di Vasco Rossi) il nostroamico si ritrova in un girone infer-nale che non avrebbe mai immagi-nato di conoscere.Andando a ritroso nel tempo Tonyricorda il periodo di detenzione coni vari lavori fatti dentro e fuori le car-ceri: da cuoco a muratore, dalla cura

del verde pubblico alla manuten-zione degli edifici delle case popo-lari. Infine Voci di Dentro. Dappri-ma inizia la collaborazione scrivendo,poi con la semi libertà viene in sedea digitare i testi che gli ex compagnidi sventura inviano da dentro. In-tanto moglie e figlia lo aspettanofuori e mantengono il legame af-fettivo che tanto aiuta a mantene-re vivo chi è dietro le sbarre.Tony è la conferma della bontà delprogetto intrapreso da Silvia e Fran-cesco ormai tanto tempo fa, ha ri-pagato la fiducia accordatagli datutti i soggetti della filiera: dalla di-rettrice al magistrato a quanti nel-l’associazione hanno fatto da tutor.Adesso è alla Walter Tosto, da quan-do è finito il periodo di affidamen-to alla Voci di Dentro, doveva fare ilcuoco alla mensa, poi però è statodestinato al magazzino e qui si è di-stinto per fare bene il suo compito

anche grazie alle nozioni acquisitenel periodo al giornale, conqui-standosi la fiducia di colleghi e su-periori.Ho incontrato Tony e la signora conla piccola Michelle a casa loro. Unadimora semplice e decorosa, la figliagrande al lavoro, di lei dicono cheadesso è serena, felice dell’armoniaritrovata con i genitori finalmentetutti a casa.Di raccontare gli anni del carcerenon hanno remore, certo adesso chetutto è finito e che il cielo è serenoparlano di aver vissuto un incubo.Averlo vissuto per lunghi anni nonpotrà mai essere dimenticato. Tonyricorda episodi dolorosi come il nonesser potuto andare nemmeno al fu-nerale della mamma o l’aver persouna figlia durante la gravidanza enon essere stato vicino alla mogliecome sarebbe stato necessario. Ades-so è tutto finito e quando si parladell’oggi, del lavoro in fabbrica, dellefiglie e del futuro si accende una lucein fondo agli occhi, sul viso si allun-ga un sorriso, poi guarda la piccola,guarda la moglie ed aggiunge:« eh…va bene così. Grazie a tutti».Grazie a te, amico ritrovato.

Ivano Placido - giornalista volontario Voci di Dentro

La sceltaLuca Tosto, amministratore delega-to della Walter Tosto, ha sostenutoi costi per la stampa della rivista, hacontribuito con una borsa lavoro perarticolo 21 e successivamente dopoche Tony ha espiato la sua pena, l’haassunto in azienda a tempo pieno.“Ho subito apprezzato il progettodi Voci di Dentro – ha detto Luca Tosto- e sono contento di avervi parteci-pato. Ho conosciuto Tony di perso-na e ho avuto modo di verificare cheha considerato la sua assunzione inazienda una opportunità per un cam-biamento e una sistemazione per ilsuo futuro. Ho anche conosciuto lamoglie e la bambina, una bella fa-miglia. Sono soddisfatto di averglidato questa chance: non mi è costa-ta più di tanto, solo il minuto per de-cidere. Non siamo degli eroi, ho solorotto il ghiaccio. Diciamo che ho pro-vato a mettermi nei suoi panni, e al-lora è stato facile decidere di assu-merlo. Il resto l’ha fatto Tony”.

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Tony, l’amico ritrovato

Tony mentre percepisce una rata della borsa lavorodurante il periodo in cui è stato a Voci di Dentro".

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onumento, come dice l’eti-mologia del termine, si-gnifica ricordare conun’opera un avvenimen-to di notevole importan-

za. Ebbene, è sicuramente un mo-numento - grazie alla profusione dinotevoli energie che solo il volonta-riato riesce ad esprimere - il percorsoche ha potuto fare il nostro compa-gno di sventura Tony Nederu. L’Asso-ciazione ne ha fatto una bandiera e,esistendo per promuovere la solida-

rietà a favore dei detenuti e per il lororeinserimento sociale, non poteva es-sere diversamente. Peccato che restiperò una classica mosca bianca; uncaso unico di un’attività pluriennalein diverse carceri abruzzesi quando,magari, dovrebbe essere la norma,l’ordinario e non la sola eccezione.Tuttavia il monumento va eretto. Tonyè stato liberato assai prima del suo finepena dalla detenzione del carcere; haanche incrementato la sua libertà po-sitiva grazie al ruolo attivo di dipen-dente dell’azienda che lo ha, grazieal lavoro dell’Associazione, assunto.Quanto meno nel suo caso, non sononeppure venuti meno quei vincoli chegià in carcere - dove la sua vita venivavissuta in un mondo chiuso, ruotanteintorno a se stesso - solevano dargli si-curezza e senso di appartenenza. Que-sto proprio perché il lavoro importantedell’Associazione comincia dall’inter-no del carcere, ed è ben lungi dal-l’esaurirsi fuori delle quattro mura. Già, perché perdendo il suo “postofisso” in un mondo chiuso – il carcere– l’uomo perde anche la risposta sulsignificato della sua stessa vita, e laconseguenza più comune è che co-mincia a sorgergli il dubbio su se stes-so, oltre che sullo scopo della sua vita.È praticamente minacciato da poten-ti forze sovra personali, e il rapportocon i suoi simili è diventato un rap-porto di estraneità e di ostilità. Egli èlibero, ossia è solo, isolato, sopraffat-to dal senso di nullità e impotenza,minacciato da tutte le parti, e per Tonypenso che sia ancora peggio in quan-to non italiano. Anche qui secondome stanno i grandi meriti sia di Tonyche dell’Associazione Voci di Dentro.

Nicola Bruzzone - Vasto

l centro di tutto c’è il lavoro. E per molti detenuti proprioil problema lavoro assume connotati drammatici tantoche oggi ci sono detenuti che il lavoro non l’hanno maiconosciuto, altri che credono di saper fare un mestieree quando sono fuori si accorgono che le loro conoscen-

ze sono ormai superate, e altri ancora che frequentano un corso incarcere e si illudono di essere già all’altezza di qualsiasi prova. La man-canza di un confronto continuo con “il resto del mondo” rende, in-fatti, distorto e poco realistico qualsiasi rapporto di chi sta in carcerecon le realtà lavorative esterne. La conseguenza è che solo una po-chissima parte di detenuti, una volta tornati definitivamente in li-bertà, accetta l’inserimento nel mondo del lavoro nel rispetto delleregole e delle leggi.

Qui non parlo di statistiche, ma delle mie esperienze personali. Tantianni di carcere sono, di fatto, un osservatorio per capire che i dati ot-timistici profusi su questo argomento spesso tendono a nascondereuna realtà diversa. Infatti, di quella piccola percentuale di detenutiche la società ritiene inserita, solo una ancor più esigua parte ha chiu-so definitivamente il rapporto con il carcere, mentre tutti gli altri sitrovano ancora a dover fare i conti con varie “dipendenze”. Pertan-to prima del lavoro fuori occorre il lavoro dentro il carcere, e cioè du-rante la carcerazione. Questo perché il lavoro in carcere conferisceal detenuto identità e dignità dando un valore al suo tempo, ma ancheperché da una concreta prospettiva lavorativa dipendono gran partedelle sue possibilità di ottenere benefici e quindi di tornare libero.Quindi, se molti si troveranno senza lavoro, si troveranno anche prividi quella che è la vera unica essenza di ogni trattamento “rieducati-vo”, cioè la prospettiva del ritorno alla vita libera.

Chi ha coscientemente scelto di delinquere, con precisi calcoli del ri-schio e della convenienza, ha, di fatto, saltato la barricata morale, enon potranno essere i principi di legalità a farlo desistere dal delin-quere. È come se avesse oltrepassato un punto di non ritorno, dovetutti i timori e l’educazione ricevuta perdono la loro efficacia. Chi de-linque è un “contaminato” da sottocultura e dal calcolo del facileguadagno, e non lo si farà certo desistere dalle sue scelte convincen-dolo che rubare è illegale e che è immorale farlo! Non servono assi-stenzialismi pietosi, ma l’esaltazione di tutti gli aspetti migliori delsuo essere.

Cosa si può fare allora? Cambiare tutte le subalternità e sottocultu-re malavitose che legano tanti di noi al nostro passato, prima di tutto.E sollecitare chi è detenuto a definire e a vivere una dimensione dellavoro da subito, facendolo partecipare attivamente alla costruzio-ne del proprio futuro, dotandolo di tutti gli strumenti e valorizzan-do tutte le competenze individuali, in un preciso rapporto con il mondodel lavoro e con la società tutta, quella vera, insieme alla possibilitàdi inserirsi in un mercato gestito da sistemi imprenditoriali esterni.La formazione professionale dei futuri lavoratori consente di facili-tare la creazione di realtà produttive esterne, come le cooperativesociali (Legge del 2000) che diventerebbero veri e definitivi inseri-menti lavorativi. Investire su questo, sulla Legge Smuraglia del 2000,aiuterà i detenuti a guadagnare favorendo così il recupero del dete-nuto.

Pertanto, a mio parere, finché il lavoro non avrà la giusta collocazio-ne all’interno del trattamento rieducativo, lo Stato difficilmente riu-scirà ad avere la meglio sul fenomeno criminalità. Ben sapendo chel’unica cosa che conta è far apprendere una professione al detenuto,perché lavoro è uguale a dignità, che è uguale a reinserimento.

Nicola Paradiso - Chieti

Il lavoro prima di tutto

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e“Scopino, spesino…”Secondo i dati forniti dal Ministero di Giustizia in venti anni,dal 1991 al 2011, la quantità di detenuti lavoranti è lieve-mente salita in termini numerici (+ 3000 unità) ma è scesain termini percentuali (dal 34% al 20%) dato che nel frat-tempo le presenze in carcere sono più che raddoppiate,passando da 31.053 a 67.394. Oggi quindi su cinque dete-nuti uno solo ha accesso al lavoro. Un calo dovuto in parteall’assottigliamento progressivo delle risorse statali: l’am-ministrazione penitenziaria per le lavorazioni interne (cu-cina, pulizia di ambienti comuni, lavanderia, magazzinoecc.) impiega attualmente l’83,60% dei detenuti control’89,66% di vent’anni fa. Non solo, il lavoro ha subìto unaforte precarizzazione che rende la durata dei contratti sem-pre più breve, anche di un solo mese. Diversamente il la-voro che i detenuti possono svolgere alle dipendenze diimprese e cooperative esterne o anche amministrazionipubbliche pur rimanendo su valori bassi ha subìto una cre-scita progressiva soprattutto negli ultimi anni, passandodal 10,34% al 16,40%. Ancora poco battute, anzi assentinella nostra regione, strade alternative come le coopera-tive di tipo B. Su un altro versante la forma-zione professionale, pur rivestendo un ruolostrategico nell’inserimento di manodoperaqualificata in un mercato lavorativo compe-titivo e specializzato, soffre di difficoltà di tipoorganizzativo e cresce meno di quanto do-vrebbe.E’ dunque un quadro di luci e ombre quelloche emerge: ai diritti che i detenuti hanno ac-quisito sulla carta, tra cui quelli allo studio eal lavoro, si contrappongono ancora troppielementi di freno. Elementi intrinseci alla re-altà carceraria - instabilità ed eterogeneitàdella popolazione detenuta, limiti impostidalle condizioni stesse del trattamento peni-tenziario ecc. - oppure radicati nella societàesterna e nel rapporto ancora controverso cheessa ha col carcere, per cui pesano ancora pre-giudizi e paure, si evocano problemi di equi-tà sociale. Mentre d’altra parte crisi come quel-la attuale oltre a contrarre le opportunità dilavoro nel privato determinano ulteriori taglialla spesa pubblica; ciò non solo riduce i fondidestinati agli istituti penitenziari ma ad esem-pio anche quelli che la legge Smuraglia haprevisto per le imprese che assumono dete-nuti, sotto forma di sgravi contributivi. Eppure proprio la crisi potrebbe rappresen-tare un’opportunità: lo Stato chiede con maggior forza chein passato l’intervento dei privati nella gestione della re-altà penitenziaria; questi potrebbero trovare nella mano-dopera offerta dagli istituti penitenziari una risorsa cui at-tingere. Si tratta di una prospettiva nuova, che trova forseancora impreparato il tessuto sociale e imprenditorialespesso molto diffidente. Ci sono aree del paese dove datempo si sono creati circuiti virtuosi per il concorrere di piùfattori, una spinta maggiore alla solidarietà ma anche mag-giore capacità di impresa. Altrettanto dovrebbe auspicar-si per la nostra regione dove certamente la popolazionedetenuta è ridotta (1900 unità circa) ma stenta ancora atrovare un rapporto più aperto con il territorio. Esperien-ze positive come quella di Tony non vanno viste come goccenel mare quanto come esempi concreti cui ispirarsi per pro-seguire su questo cammino.

Laura Sacchetti - volontaria Voci di Dentro

Corsi in art.21Sono cominciati nella sede dell’Associazione Voci di den-tro a Chieti i nuovi corsi di scrittura, informatica, foto-grafia, uso di videocamera. Riservati a detenuti in artico-lo 21, i corsi sono stati resi possibili grazie ai contributidell’Amministrazione comunale di Chieti, della Fonda-zione Carichieti, della Camera di Commercio di Chieti, deLa Panoramica e del Gran Caffè Vittoria di Roberto D’Ora-zio.

Daniele Baldini e Elian Osman raccontano È successo tutto così in fretta che ancora adesso facciamodifficoltà a capire che cosa veramente è accaduto... ma fi-nalmente siamo riusciti a mettere i piedi fuori.

Osman: Nel mio caso la curiosità ha prevalso su qualsia-si altro sentimento o stato d’animo. Ma la cosa che più miha caricato in positivo è stato vedere che i volontari chevengono in carcere operano anche all’esterno con lo stes-so entusiasmio. Anzi, forse con qualcosa in più. Quellostesso entusiasmo inevitabilmente ha contagiato ancheme, perché ho visto con i miei occhi quanta dedizione met-

tono in questo progetto.

Daniele: Non avrei mai pensato che qualcuno potesse pun-tare su di me, invece lunedì sono stato chiamato per pas-sare nella sezione semiliberi dove sono alloggiati tuttiquei detenuti ammessi alla semilibertà o articolo 21 comenel mio caso. Quando ho varcato la porta della sezionedei semiliberi di colpo mi sono sentito più leggero, nontanto perché ero dimagrito ma perché di colpo mi erosvuotato di tutti i pensieri negativi che il carcere inesora-bilmente aveva generato dentro di me.

Dopo la prima settimana possiamo dire di essere entu-siasti di sentirci parte attiva di questo progetto, parte at-tiva tanto quanto lo sono i nostri compagni ancora dete-nuti. La cosa che più ci ha colpito delle persone checollaborano a questa iniziativa, è che a loro non importada dove siamo venuti ma bensì verso dove siamo diretti.

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Trattamentopsicoterapeutico

Tappe importanti anche quelle realizzate nella Casa Cir-condariale di Lanciano. Il trattamento psicoterapeuticocondotto dalle psicologhe Rita Scarinci e Renolsa Jaho hainfatti permesso a un gruppo di detenuti di lavorare sudi sé e sul proprio passato soprattutto attraverso la scrit-tura. Spiega Rita Scarinci: “Chi scrive propone un’aper-tura relazionale; attraverso le parole ci si può immedesi-mare negli affetti e nelle esperienze, cogliere la profonditàdelle nostre paure, dei nostri desideri, dei nostri ricordi edelle nostre nostalgie. Scrivere è uno dei canali di espres-sione e lo scritto rimane impresso all’esterno, così comerimane impresso nella mente di chi scrive, come fatti ela-borati e potuti raccontare. Il desiderio di chi è in uno statodi sofferenza, è quello di trovare all’esterno il conteni-tore che possa accogliere e aiutare a trasformare il pro-prio dolore”.

CasaHo sognato la mia casa,

mi aggiravo tra le stanzein cerca di qualcosa o di qualcuno.

Non ricordo il motivo, qualcosa mi è sfuggito, certamente non è per caso.

Ora sono sveglio e percorrendo tale sogno, provo tanta nostalgia,

il vuoto era tanto come il vuoto dentro me,verso lei che sta dormendo.

Staticita’La mia storia,

lo scatto di una fotografia è rimasto come ricordo,ogni volta che mi sento solo mi fa compagnia.

La vita come viene va, è furtiva.L’amore che tanto cercavo ho trovato

ma in un attimo,è come se mi fosse scivolato dalle mani.

La vista si è offuscata e la mia vita oscurata.Ora cerco un po’ di luce, un bagliore che mi dia

la speranza di riempire la mia vita con più scatti e un lieto fine.

IllusioneHo rubato frasi da una canzone,

proverbi dai saggi, l’esperienza dagli anziani.Ma tu, senza fatica hai rubato la mia vita,

attivando nella mia testa un congegno difficile da disinnescare.

Hai segnato il mio corpo di cicatrici inguaribili, la mia anima di un dolore insuperabile.

Ho perso me stesso e le persone che tanto mi amavano.Falsa, ipocrita droga.

Vincenzo D.B.

San Donatochiama Marconi

Fare cultura, superare il pregiudizio, l’intolleranza e l’in-differenza; fare cultura per ridurre il disagio; unire il car-cere alla scuola e viceversa per fare prevenzione e for-mare una società pronta ad accogliere chi ha sbagliato,e per questo ha pagato, al fine di un reale e fattivo rein-serimento sociale. Parte da qui l’accordo realizzato trail Liceo Pedagogico Marconi di Pescara e la Casa circon-dariale di Pescara. Accordo importante per gli studentidal punto di vista formativo e per i detenuti in terminidi rielaborazione critica del personale percorso devian-te e per una progettualità futura. Alla base di tutto laconvinzione che solo una più corretta conoscenza deiproblemi legati al disagio, al disadattamento, alla de-vianza, può fondare giuste scelte; e che soltanto sceltefondate sulla conoscenza possono appartenere a per-sone libere e contribuire, così, a rendere liberi.

Il progetto è partito in questi giorni e prevede: 1) tiroci-nio degli studenti presso la Casa Circondariale di Pesca-ra; 2) partecipazione della scuola alla sistemazione delmateriale librario della Casa Circondariale, anche at-traverso azioni di informatizzazione dell’archivio; 3) usodella biblioteca in uno spazio dedicato alla presenta-zione di opere librarie; 4) interazione tra il laboratoriodi “Voci di dentro” e le classi del Liceo Marconi; 5) inte-razione e cooperazione tra il laboratorio teatrale del car-cere e le classi del Liceo interessate; 6) interazione e coo-perazione tra le classi scolastiche presenti in carcere esingole classi del Liceo, sia allo scopo di orientare i de-tenuti-studenti della III media verso una prosecuzionedegli studi, sia allo scopo di fornire da parte di singolistudenti-tutor azioni di supporto allo studio ai detenu-ti-studenti; 7) incontri informativo-formativi con gli stu-denti del liceo in tema di professioni socio-rieducative ,metodologie sociali e pedagogiche applicate; 8) parte-cipazione degli studenti a incontri-dibattiti all’internodel carcere.

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ne pratiche

Disegno realizzato da uno dei partecipanti allaboratorio di fumetti tenuto nella casa cir-condariale di Vasto da Franco Sacchetti

Progetto “Sole a strisce

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Dopo tanti anni sono uscito in permesso pre-mio. Ed è stata una emozione enorme, e che miha fatto capire che non esiste cosa più impor-tante della libertà: senza liberta non è vivere,ma sopravvivere. Sapere che stai per uscire ti faun effetto strano, per tanti anni si aspetta conansia quel giorno. A me è capitato che la seraprima è subentrata la paura. La paura di sba-gliare l’ora del rientro o che qualcosa potessecompromettere la mia libertà. Già immaginicome sarà il giorno dopo, aspettando che passiin fretta la notte con tutte le ansie e le paure. Io dovevo uscire alle dieci, e già dalle sette dimattina ero pronto e andavo avanti e indietroin cella aspettando. Finalmente arriva il mo-mento: mi trovo davanti al cancello per uscire,mi sento il cuore battere forte. Una volta aper-to esco e la prima cosa che faccio alzo gli occhial cielo: trattenevo il fiato e quasi mi mancaval’aria, facevo piccoli passi e mi sentivo leggerocome se camminassi nel vuoto. Poi abbasso gliocchi e vedo mia sorella e mia madre venirmiincontro, e nei loro occhi vedo tanta gioia. Misentivo ancora tanto confuso, come un bambi-no per la prima volta in un parco giochi. Abbiamo deciso di trascorrere la giornata almare, arrivato sulla spiaggia la prima cosa cheho fatto è stata di togliermi le scarpe e sentirela sabbia sotto i piedi. Sì, la sabbia: una cosa cheprima odiavo, e che in quel momento era unacosa che desideravo, poi ho preso i miei nipoti-ni e mi sono buttato in acqua, finalmente libe-ro. Nuotavo senza fermarmi, non riuscivo aduscire dall’acqua e senza rendermi conto ci sonostato due ore giocando con loro; ero frastor-nato, troppa gente, la testa piena di voci.Ma il tempo passa in fretta e si avvicina il mo-mento di rientrare in carcere; è il momento piùbrutto. Ma qualcosa ho imparato: ad esempioche giocando con i miei nipotini ho scoperto ilmio desiderio di diventare padre e ora davve-ro spero che un giorno trascorrerò una giorna-ta come questa con i miei figli; poi ho impara-to a dare valore a cose che prima erano routinenella vita “normale”, e ho imparato ad ester-nare di più i miei sentimenti. Non vedo l’ora che si ripeta. E’ stata una gior-nata che non potrò mai dimenticare.

Fabio Raia - Vasto

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disegno realizzato nel laboratorio di fumetti

tenuto nella casa circondariale di Vasto

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Speranza! L’attesa viva e fiduciosa di un bene futuro. Fino aoggi un bene prezioso non riservato a me. Eppure, nono-stante questo, ci sono ancora fatti che a volte mi fanno ri-flettere, non importa quando questo accade, non impor-ta cosa o chi riesce a farti scattare quella “molla” e riavviarela fiammella che tutti noi detenuti coviamo dentro. Maqualcosa accade. Oggi ho partecipato ad una riunione del gruppo chefa parte di “Voci di dentro”, e fra i vari argomenti cen’è stato uno che mi ha fatto pensare. L’argomentoin questione era scrivere in positivo del nostro vis-suto o di qualcuno che conosciamo, e dato che lestorie degli altri non mi appartengono, non mirimane che scrivere di me. Così sulla mia brandi-na, con i miei pensieri di rabbia e impotenza misono detto : “fanculo a tutto”! Ma quel rifiu-tarmi un’opportunità ha alimentato in mequella fiammella di cui parlavo.Speranza! Se ripenso al mio arresto, alla miaseparazione, alla detenzione che ho da-vanti, posso sperare ancora? Ero distrutto,annientato, eppure con l’aiuto di unanuova compagna, col suo amore ho ri-preso a sperare; quell’amore mi ha datola forza, ha riacceso in me la fiammel-la debole, ma viva ancora nonostan-te tutto. Quella stessa fiammella cheera stata soffocata dalle ceneri get-tate dagli eventi dei mei tre anniprecedenti: inviato in “esilio” permotivi di ordine e sicurezza senzanessuna motivazione valida, spe-dito da Velletri a Potenza, quat-trocentocinquanta chilometrilontano dai miei figli e milledalla mia compagna. La spe-ranza, un bene troppo pre-zioso per me. La fiammel-la sapevo che era lì, e conl’odio ho cercato di spe-gnerla con tutte leforze, tentando il sui-cidio tre volte. L’inat-tività ti annienta, nonti aiuta più neanchel’amore.

Nel gennaio del 2010 ri-torno a Rebibbia. E torna

la speranza: la direttricemi aveva concesso tre mesi

di avvicinamento, colloqui,protratti per venti mesi. Ma

dopo tre mesi, senza una mo-tivazione, mi comunicano così:

“Caltagirone, per gli stessi mo-tivi di ordine e sicurezza non

può uscire di reparto , né parte-cipare a qualsiasi attività, nean-

che alla scuola”. Speranza ridot-ta. Ma stavo vicino casa, ai figli, alla

compagna che nel frattempo si eratrasferita. Compensavo così la mia

inattività, con la speranza che primao poi qualcuno si rendesse conto che

non ero il “personaggio” descritto eche mi considerassero una persona da

osservare, perlomeno. Poi, il 20 agosto2011 mi portano a Potenza. Speranza.

No. Solo rabbia, impotenza e dolore. Atutto questo ha risposto il mio fisico e nel

giro di tre mesi sono dimagrito di dician-nove chili, con tanto di diagnosi di anores-

sia, stampelle e sedia a rotelle.Così vengo tradotto a Pescara, cella disabili.

Primo impatto: diffidenza, Speranza zero. Poiqualcosa cambia...il colloquio con la direttri-

ce, con la psicologa...cosa vorranno? Dov’è iltrucco? Possibile? Tutto per me?” Così la mia sa-

lute progressivamente migliorao, anche se an-cora pensavo: ”Occhio all’inganno”. Dopo tre

anni passati scartato da tutti! Possibile che qui dav-vero mi considerano per chi sono, un essere umano?

E lo dico con gioia, quella gioia che a volte ti fa sen-tire parte di qualcosa e ti fa anche scendere una la-

crima, non me ne vergogno. Ed ecco di nuovo la spe-ranza! Il giornale, un impegno, il teatro. Ecco cosa dà

alimento a quella fiammella, che spero non venga sof-focata di nuovo da giudizi e pregiudizi, la speranza di

sentirmi anch’io una persona per quello che sono. Ecco cosa scrivere di positivo, il positivo sta nella speran-

za di persone che ti allungano una mano senza pregiudi-zi. Sta a noi saper cogliere quella mano e camminare as-

sieme e fare qualcosa che ti faccia sentire vivo e ti ritrasmettaquei valori per affrontare una vita un giorno fuori di qui.

Una vita che di certo richiederà delle basi che assolutamen-te non potresti fondare da solo.

SperanzaGianni Caltagirone - Pescara

Si apre il sipario: c’è la platea piena,luci soffuse puntate sul palco, mitremano le gambe, tra poco toc-cherà a me. Dopo mesi di prove

ci siamo. Sono un pezzo del puz-zle. Insieme ai miei compagni.Tutti sentiamo il “peso” della re-sponsabilità. Dimostriamo insie-me che non siamo nomi e cognomicon annesso numero di matrico-la; abbiamo voglia di farci cono-scere, e questa è un’ottima occa-sione. Non siamo solo dei detenuti,siamo esseri umani, capaci di vi-vere delle emozioni e di trasmet-terle. Sento il primo applauso dallaplatea, è per i miei compagni giàsul palco e sorrido. Tocca a me:faccio il segno della croce e rice-

vo una pacca sulla spalla dalla miamaestra, seguo il suo consiglio,guardo un punto in alto, senzamai rivolgere lo sguardo verso laplatea. Primo, secondo, terzo atto,è finita: ce l’abbiamo fatta. Si saledi nuovo sul palco, uno ad uno ciprendiamo per mano e ringra-ziamo con un inchino. Si chiudeil sipario e sono ubriaca di felici-tà, dovuta all’emozione che midevasta dentro. Ho sempre amatoil teatro e mai avrei immaginatodi diventare attrice, per giunta inun carcere! Tutto è nato dalla mia iscrizioneal corso di laboratorio teatrale.Mesi di studio, prove che ti aiu-tano a concentrarti meglio, a ca-pire i tuoi limiti e provare a su-perarli, a vincere insicurezza etimidezza. Mi sono sempre detta:“Angy, se vuoi, puoi! Dal negati-vo cerca di trarne sempre e soloil positivo”. Devo tanto a que-st’esperienza. È proprio vero cheil teatro è terapeutico: ti dona si-curezza e autostima. Abbiamo lanostra regista, che è come unamadre per tutto il gruppo. Cisegue, ci studia, dandoci dei com-piti-riflessioni sul nostro perso-naggio.Porterò nel mio cuore per sem-pre ogni singolo ricordo legato alei e ai miei compagni. Dopo averrappresentato “Napoli miliona-ria”, ecco ora “Natale in casa Cu-piello” all’Auditorium De Ceccodi Pescara. È bello poter riviveree condividere nuovamente que-st’esperienza con vecchi e nuovicompagni, e poi, si ha la fortunadi trascorrere ore fuori dalla stan-za, grazie alle prove che si svol-

gono al teatro. Credo che per ognidetenuto sia fondamentale im-pegnarsi in qualcosa che ti faccia“volare” il tempo. Il teatro mi fastare bene: oltre la passio-ne a volerlo fare, c’è l’im-pegno costante con lo stu-dio, il lavoro di gruppo, legiornate che scorrono più ve-locemente. Ed è come lamanna che cade dal cielo!Sono qui perché tempo fa hosconfinato la linea sottile trail bene ed il male e, in questidiciassette mesi ho elaboratodiverse cose positive dalla con-dizione afflittiva, tramutando-le in luci nel buio. Il teatro è traqueste... Si riapre il sipario...io cisono: con tutto l’entusiasmo dichi vuole.

Angela Girinelli - Chieti

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Dopo “Napoli Miliona-ria”, lo scorso 3 dicem-bre la compagnia tea-trale di Madonna delFreddo è andata in“tournée” all’Audito-rium De Cecco a Pesca-ra dove ha portato inscena “Natale in CasaCupiello” (Eduardo DeFilippo), regia di PaolaCapone.

Si apre il sipar

“Niente e nessuno potràmai cancellare il de-siderio di bellezza che

c’è dentro ognuno di noi”. CristianDi Marzio, che poco prima avevaindossato i panni di Nicolino, haparlato a nome di tutti i sedici de-tenuti-attori del carcere di Chie-ti che sono saliti sul palco del-l’auditorium De Cecco di Pescarasabato 3 dicembre, per metterein scena “Natale in casa Cupiel-lo”. Ha parlato solo lui, esprimendoperò ciò che tutti gli altri dete-nuti-attori hanno vissuto e tra-smesso l’altra sera alle oltre cin-quecento persone presenti: lapersona che si sente voluta bene,anche se ha sbagliato, può tor-nare a sperare. E questo è sen-z’altro un successo. Così, gli applausi a scena aperta,ripetuti e insistenti, hanno cer-tificato questa doppia vittoria, dichi torna a sperare ma anche diuno spettacolo grandioso, capa-ce di suscitare il riso e calamita-

re l’attenzione dei presen-

ti per oltre due ore, in un ritmovertiginoso di gag, scenette, in-trighi, congetture tipici della com-media napoletana. Al termine,sul palco sono saliti Mauro Mo-retti, presidente del Csv Pesca-ra, Giuseppina Ruggero, diret-trice della Casa Circondariale diChieti, Maria Rosaria Parruti,magistrato di sorveglianza, Va-lentino Di Bartolomeo, coman-dante della Polizia Penitenziaria.Al termine della serata, Morettiha anche consegnato un buonospesa in giocattoli del valore di500 euro al carcere di Chieti, comeomaggio in vista di Natale. Lo spet-tacolo, per la regia di Paola Ca-pone (anche lei tra gli attori, nellaveste di Concetta), è stato pro-mosso proprio dalla collabora-zione tra il Csv Pescara e il car-cere di Chieti, ed ha rappresentoil momento conclusivo di Volon-tariamente, evento rivolto al mondodel volontariato, che si è svoltonella giornata di sabato sempre aPescara.

fotografie di Piergiorgio Greco

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elaiano definisce il teatro come un laboratorio.Ma, per quanto mi riguarda, nel teatro c’è qual-cosa in più, un qualcosa che sfugge alla perce-zione di coloro che mai hanno avuto il privile-gio di recitare sul palcoscenico. Quando unduro lavoro e una dedizione quasi maniaca-le, vengono ripagati con applausi scroscian-

ti e lacrime di commozione, ecco finalmentesi ha la piacevole sensazione di raccogliere quello che si è fa-ticosamente seminato. Successivamente mi sono chiesto per-ché questi momenti di gloria non sono affatto proporzionatial duro lavoro svolto. Quasi mi sembrava che per strappare unminuto di applausi, si dovesse faticare per mesi e mesi. Stra-da facendo, trovai delle risposte nel preciso istante in cui riav-volsi il nastro della mia vita. Già, perché in fondo il teatro ècome la nostra vita, bisogna faticare tanto per raggiungeredegli obiettivi, e tanto più sarà tortuoso il cammino, tanto piùacquisterà valore il risultato raggiunto. E’ per questi motiviche si parla di coinvolgimento dell’esistenza, un coinvolgi-mento che innesca dei meccanismi ancestrali che danno mododi giungere alla verità.Ho riflettuto molto su quale potesse essere il significato diquesta verità, e posso dire che guardando il percorso fatto daimiei compagni in ognuno ho constatato una vittoria perso-nale: c’è chi ha sconfitto la timidezza, chi l’orgoglio e l’arro-ganza, chi il pregiudizio e la supponenza, e soprattutto chi hariacquistato quell’autostima che, quando viene a mancare,può essere causa di molti mali.Ecco la verità! Ci sono verità nemiche e nefaste, contro le qualici siamo allenati a combattere, tentativo dopo tentativo, e cisono le verità più belle e vere, che in fondo sono presenti inognuno di noi, spesso seppellite nel profondo, ma pur sem-pre presenti.Un’altra domanda che spesso mi sono fatto è perché venisseanteposto il termine “laboratorio” a quello di teatro, e anchein questo frangente ho ottenuto l’ennesima risposta. Nel com-plesso le soddisfazioni personali possono essere tante, ma ilvero obiettivo è quello di lavorare sull’io, scavando nel pro-fondo, alla ricerca di nuovi stimoli che ci aiutano a prenderecoscienza che le rotte possono essere invertite. Certo, inizial-mente si partecipa per convenienza, ma col passare del tempoemerge con forza il senso di che cosa è “gratificante”. Alter-chi e dualismi vengono sostituiti con lo spirito di gruppo, qual-cosa in noi cambia. E questo cambiamento proviene da den-tro. Ecco perché sono convinto che, come per ogni uomo, ogniattore teatrale vale quello che vale il proprio cuore. Nel mo-mento in cui un gruppo di persone che ha lavorato insieme siappresta a salire sul palcoscenico, la sensazione è quella di es-sere una squadra vincente, in perfetta empatia, col propriotimoniere, che è il regista.Non ne ho conosciuti altri di registi. Ma ho conosciuto PaolaCapone. E’ stata lei che, mettendo insieme una dozzina discalmanati, ha ottenuto un successo fuori da ogni previsio-ne, e ci ha insegnato con passione un qualcosa che va moltoal di là del sapere recitare: ci ha insegnato che volere è po-tere, e che chi semina nella fatica, prima o poi raccoglierànella gioia, ma soprattutto ci ha resi partecipi di una pas-sione che ha il potere di abbattere qualsiasi mura. Cara Paola,è grazie alla tua immensa passione che è venuta fuori la miaverità, quella verità che mia portato alla vittoria, la mia vit-toria personale che non è altro che la tua!

n tanti anni di detenzione non homai frequentato il teatro. Il fattodi averlo fatto adesso è stato in-trigante e importante. Una stra-da da percorrere, e ogni metro diquesta nuova attività ha aumen-

tato in me la certezza che era quello che io cer-cavo senza sapere di cercarlo; è come uno cheha tanta sete, ma solo bevendo si accorge ditutta quella sete.Alla regista Paola Capone, devoveramente molto. Mi ha concesso una nuovaopportunità esistenziale in un momento “par-ticolare” della mia vita. Dopo alcuni incontri escontri “costruttivi” ho intuito che sarebbe stataun’esperienza entusiasmante, perché qui dav-vero c’è la possibilità di interagire e di scoprirei limiti a cui sono soggetto, vi è la necessità diascoltare e osservare gli altri, per poi definiresoprattutto se stessi.Un incontro che non hasbarre né cancelli, o meglio, ce ne sono eccome,ma non vengono mai chiusi né sbarrati, perchéio detenuto-attore riesco a vedere con gli occhidella mente. In questo spicchio d’umanità nonvige il dogma della statistica dei numeri, nonscorgo l’ipocrisia del sostenere una tesi per ri-confermare il valore di una corrente di pensie-ro, non alberga - in quanto laboratorio d’espe-rienza umana - l’arbitrario conteggio diadesione e compiacenze. E’ un la-voro di gruppo, un’evoluzionecostruttiva di analisi per ri-trovare ciò che eravamo,persone che insieme cam-minano e seguono sbi-gottite nuove proble-matiche e nelprocedere inciam-pano nei tantidubbi che sorgo-no davanti anuove consa-pevolezze.

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Cristian Di Marzio - Chieti

F IGRAZIE, PAOLA

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uò essere dopo un attimo o dopo una vita, ma il ri-sultato è sempre lo stesso. Finiscono le cose umane,sfioriscono le bellezze della natura, ma le opere let-terarie rimangono. Nel mondo è un continuo nasce-

re e morire, creare e distruggere e tutto mentre noi vivia-mo la nostra vita e non ci accorgiamo di nulla. Ogni tanto

però, leggendoun’opera come“Natale in CasaCupiello” ci guar-diamo intorno

smarriti e per un istante ci rendiamo conto di quanto siauguale alla nostra vita, al nostro pensare. Ma poi la vita ciaiuta a respingere quei pensieri di sgomento e di angoscia:anche la paura non può durare. Niente può durare, nep-pure quei sentimenti come l’odio e l’amore, che gli uomi-ni hanno chiamato eterni.Grazie alla lettura di “Natale inCasa Cupiello” io ricompongo il mio animo e acquisto unanuova consapevolezza. Per me non è stato difficile capireLuca Cupiello, è difficile capire il mondo, soprattutto per-ché difficile è fermarmi ad osservarlo, trovare un attimo dipausa nel vorticoso girare dell’esistenza. C’è nel mondo undualismo accentuato. Nell’umanità convivono due ten-denze opposte e complementari: da una parte il disfaci-mento, una disgregazione di fondo che intacca i valori car-dini della famiglia, aprendo la porta allo scetticismo,all’individualismo. Dall’altra parte c’è un bisogno profon-do di ritorno alle tradizioni e ai veri valori familiari: paro-le che oggi si bistrattano, si sciupano, ma che invece hannobisogno di essere rivitalizzate. Luca Cupiello aiuta a cono-scere se stessi e consente di esplorare i meandri della mente.Il personaggio di Eduardo risponde ai quesiti più profondiche ci attanagliano e non ci danno mai pace. A mio avviso,le parole dell’opera di De Filippo vogliono dire che anchenoi ci avviamo a morire e questo ci deve insegnare ad es-sere più cauti e a non affidare le nostre speranze e le no-stre gioie alle cose della terra, e soprattutto di non fare mo-rire “il bambino” che è in noi. Noi non dobbiamo sperarenelle cose umane, perché prima o poi le vedremo morire.Ma dobbiamo sperare e credere in “qualcosa” che sarà re-almente eterno. Raramente pensiamo alla morte, in fondoè umano fare così, ma spesso rischiamo di sciupare la no-stra vita, e quando ce ne accorgiamo molte volte è troppotardi. Non dobbiamo essere ossessionati dal pensiero dellamorte, ma non dobbiamo cercare di ignorarla: solo così po-tremo vivere serenamente e attendere senza angoscia. Maè difficile perché è duro morire, anche per chi ha fede, ancheper chi sa che tutto è stato inutile e che gli altri nel mondolo ricorderanno tramite la sua opera. Sebbene “Rinchiusi”,tutti devono capire che nessuno mai può dire:”Tu non deviapprendere”. Anche in carcere, a volte ci sono i soliti “furbi”,cioè coloro i quali hanno il coraggio di dire che “lì” in quelteatro studiare serve a ben poco! Ma, per esperienza di-retta, non lo è! Per mia fortuna nella mia lunga perma-nenza nelle “Patrie Galere”, ho incontrato persone “spe-ciali” che mi hanno aiutato a capire un concetto fondamentale:“Rinunciare alla cultura premeditatamente significa ne-gare il nutrimento vitale al proprio cervello e provocarneil regresso”, Ed allora eccomi qui, a scontare la mia con-danna sì, ma con la consapevolezza che sono un uomo “li-bero” di esprimermi, “libero” di essere me stesso. Con lacapacità di emozionarmi impersonando Luca Cupiello.

Nicola Paradiso - Chieti

Io, Luca Cupiello

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Dottor Di Costanzo, quanto e in che modo la camor-ra manipola le notizie e interferisce sulle istituzioni?“Alla prima domanda posso rispondere raccontando diun caso che ho seguito personalmente: si trattava dellascomparsa di un noto boss. I familiari convocarono i gior-nalisti a casa e raccontarono tra le lacrime che era statorapito. Il camorrista, in realtà, era fuggito da una clinicadove era ricoverato. Come appurarono le indagini, i fa-miliari sapevano tutto: questo è un tipico tentativo di ma-nipolazione di una notizia. Le dichiarazioni raccolte vannosempre prese con le pinze e riscontrate. Per quanto ri-guarda le interferenze sulle istituzioni, la criminalità or-ganizzata si serve di persone, all’apparenza di rispecchiataonorabilità, che, invece, non fanno altro che curare gli in-teressi dei clan per il proprio tornaconto. La commistionetra malavita e mondo politico-istituzionale è uno dei mo-tivi che rende difficile sconfiggere la camorra che sul pro-prio libro paga continua ad avere politici, ma anche ma-nager, commercialisti, avvocati, medici e rappresentantidelle forze dell’ordine”.

Come può un giornalista far acquisire ai lettori una co-scienza critica che consenta di capire e discernere unanotizia vera da una falsa?“Sarò banale, ma rispondo dicendo che le bugie hannovita breve. Un giornalista se inventa una notizia può farlafranca una volta, ma alla fine sarà smascherato e il gior-nale perderà credibilità e quindi lettori. Quindi il cronistadeve fare correttamente il suo compito e raccontare quel-le che vede e quello che scopre. Consiglio di leggere piùdi un giornale e ascoltare versioni diverse della stessa no-tizia: è il modo migliore per evitare trappole”.

Secondo noi un giornalista deve essere capace diguardare oltre alla semplice cronaca. Che cosa nepensa?“Sono assolutamente d’accordo. Con internet e tv tutti

possono sapere di un episodio di cronaca. Anche se av-viene nell’altro capo del mondo. Un giornalista non si develimitare a fare il “bollettino”, ma tentare di andare oltre.Approfondire quanto più possibile l’evento di cui si oc-cupa”.

Ritiene che le motivazioni e le passioni di un invia-to di guerra siano le stesse di quelle di un cronistache racconta Napoli e la camorra?“Non saprei rispondere. Ognuno porta dentro di sé unamotivazione personale. Certo, senza passione difficilmentesi può fare il giornalista. È un lavoro complicato ed estre-mamente logorante. Un vecchio inviato speciale, che hoconosciuto, fino a pochi giorni prima della pensione con-tinuava a raggiungere i territori di guerra nonostanteavesse gravi problemi al cuore. Figuratevi: andava in mezzoai campi di battaglia con tre bypass e un pacemaker. Unmio caro amico, invece, continua a occuparsi di camorranonostante le numerose minacce subite. Forse sì, riflet-tendoci bene, c’è molto in comune”.

Che cosa la spinge di più nel lavoro: la passione delloscrivere o l’amore per la sua città?“Fin da piccolo ho voluto fare il giornalista. Ho fatto sem-pre solo questo lavoro e credo di non essere in grado difare altro. Di sicuro l’amore per la mia città non è la mo-tivazione principale. Non ho vissuto solo a Napoli e ancheoggi sarei prontissimo a trasferirmi per confrontarmi connuove realtà. L’unico vero amore che mi spinge è quelloper il giornalismo. Un lavoro che farei ovunque e anchegratis”.

Che cosa ha significato per lei la figura di Giancar-lo Siani?“Per tutti i cronisti è un esempio. Tra parentesi, basta leg-gere i suoi pezzi per capire che, oltre a essere un ragazzoper bene, era anche un grandissimo giornalista. Uno chemetteva nel suo lavoro anima e cuore, nonostante non

una scena dal film “Gomorra”

Cronisti di stradaIn carcere a Chieti , presenteil giornalista Antonio di Co-stanzo, è stato proiettato ilfilm “Cronisti di strada”, do-cumentario del 2007 girato aNapoli da Gianfranco Panno-ne e Paolo Santoni. Protago-nisti del film sono Arnaldo Ca-pezzuto, di Napolipiù,minacciato dalla camorra dopoessersi interessato della mortedi Annalisa Durante, la ragaz-za uccisa a Forcella nel corsodi una sparatoria, e GiancarloPalombi , di Cronache di Na-poli, che indaga sul giro delladroga, provando a comporreuna mappatura per quartieridei clan dopo la faida di Scam-pia. Andato in onda su Rai Tre,il documentario è la storia diuna battaglia quotidiana con-tro la camorra in una città dovesi incrociano legalità e illega-lità, dove la camorra investe iproventi della droga in attivi-tà pulite. Dove la politica fafinta di niente.

avesse ne-anche unvero contrat-to. Uno che, tor-nando a quandodetto prima, nonsi fermava alla sem-plice cronaca di unavvenimento. Sianivoleva andare oltre.Capire che cosa si na-scondeva dietro a un omi-cidio. Denunciare le con-nivenze tra criminalità emalapolitica. Siani è il gior-nalismo. Esecutori e mandantidel suo omicidio, invece, sonodei vigliacchi”.

Come mai il caso di AnnalisaDurante ha fatto più scalporedella bambina di quattro anniuccisa a Somma Vesuviana?“Perché è avvenuto a Forcella, un rionestorico e conosciuto in tutto il mondo.Una zona di Napoli che è crocevia degliaffari illegali della camorra e di numero-si intrecci di potere. Qui sono nati alcunidei più pericolosi boss di Napoli. Inoltre, ilcaso di Annalisa Durante ha avuto una gran-de ribalta mediatica anche grazie al coraggiodi alcuni cronisti, tra loro il mio collega Arnal-do Capezzuto, più volte minacciato per quelloche ha scritto, di don Luigi Merola, il parroco checon forza si scagliò contro i clan della zona, e diGiovanni Durante, papà della ragazza uccisa pererrore durante un regolamento di conti tra banderivali”.

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La carita’ non ha cultura,ne’lingua, ne’colore di pelleIl periodo storico che stiamo attraversando non è deipiù facili, la crisi imperversa e la povertà non solo è inaumento, ma è anche in continua trasformazione. Adessere poveri oggi non sono più solo gli anziani soli, idisabili senza famiglia e tutti quelli che mai hanno avutoun lavoro, ma è di tutta evidenza che la povertà stacambiando faccia, condizionando persone che fino aqualche tempo fa non erano toccate da questo feno-meno, e che ora invece sono precipitate in una situa-zione di fragilità economica. Tuttavia quello che ci hamolto colpiti è che, nonostante tutto, abbiamo potu-to constatare quanto sia sempre viva la solidarietà dellagente. Noi detenuti siamo stati divisi e impegnati in di-verse mansioni, ed io ho trascorso l’intera giornata in-sieme ad un compagno mussulmano, e con lui c’è statoun piacevole confronto su quali fossero le differenzecon le iniziative del suo paese. Pur essendo “figli di cul-

ture diverse”, i nostri pareri sono statisubito convergenti e insieme si è giun-ti alla medesima conclusione: la caritànon ha cultura, né lingua, né colore dipelle. Essa è viva e presente da sempree dovunque, ed è eterna, perché tuttoin questo mondo passerà, ma la caritànon avrà mai fine. Se i poveri avesserodei diritti, il primo sarebbe quello dipoter sperare in una vita migliore, ed èper questo che tutti dovremmo esseregrati alla fondazione “banco alimen-tare Onlus” e a chi come loro, portaavanti queste iniziative di beneficenza,perché in questa società, dove i grandicapitali vanno in soccorso alla grandefinanza, loro continuano ad essere laluce e la speranza dei più bisognosi.Que-sta mia detenzione un giorno finirà,contrariamente a questa ricca espe-rienza che di certo non scivolerà nel di-menticatoio.

Cristian Di Marzio - Chieti

Il mio primo permessoSabato 26 novembre finalmente sono libero, anche se per pocheore. Ma sono felicissimo, percorrendo quel tratto di ponte che col-lega il carcere con il mondo esterno: dove ci sono emozioni, c’èvita, insomma c’è tutto! E in quelle sei ore passate da persona li-bera, ogni cosa che hanno visto i miei occhi resterà dentro dime per sempre; dopo quasi cinque anni isolato dalle vere emo-zioni!Sono andato a fare volontariato al Banco Alimentare al-l’interno di un Centro Commerciale e mi trovavo a incita-re la gente, proponendo a ognuno la Colletta Alimenta-re per chi ha più bisogno. Ho letto su un volantino una frase che mi è rimasta inmente (“Cristo, presente ora, colma quella solitudine,risponde a tutte le esigenze dei nostri cuori”)e mi ha portato a riflettere su me stesso.Ho capito che anche se ho sbagliato restocomunque una persona con un grandecuore!

Pasquale Pagano - Chieti

La mia vita cambiataHo passato la vigilia insonne immaginando la mia giornata fuori. L’adrenalina nelmio corpo era altissima, il momento fatidico di varcare l’ultimo cancello che mi se-parava dalla libertà era arrivato! Mi è stata concessa la possibilità di usufruire disei ore di permesso in occasione della Colletta alimentare. Le emozioni e le sen-sazioni mi hanno sconvolto e hanno ridato vitalità alla mia mente e al mio cuore.Le ore trascorse in libertà le ho vissute intensamente utilizzando tutti i minu-ti, gli attimi, i secondi a disposizione per comprendere meglio, osservando quelnuovo mondo, quasi dimenticato. Ho condiviso la gioia della giornata con al-cuni compagni di pena che sono usciti con me e con delle persone le quali conla loro disponibilità ed impegno mi hanno aiutato a rendere facile e possi-bile quel momento. Tutte le persone che ho incontrato in quel supermer-cato mi hanno consegnato un qualcosa che considero un valore sia per laloro disponibilità nell’aiutare il prossimo, sia per la sensibilità alle pro-blematiche sociali. Non nascondo che mi sentivo frastornato dal caos dellagente che c’era nel supermercato. Tanta emozione che nonposso e non potrò mai dimenticare conservandolo per sem-pre nel mio cuore. Se chiudo gli occhi per un attimo e pensoa un anno fa, mai avrei pensato di raggiunger questoobiettivo.

Dridi Said - Chieti

Dallo scorso anno idetenuti della CasaCircondariale di Chie-

ti partecipano, come volontari, alla Colletta Alimentare.Nel 2010 c’erano Ion Alexandru e Tommaso. Quest’ulti-mo, tragicamente e prematuramente scomparso pochimesi dopo aver riacquistato la libertà, in proposito scri-veva: “Sono state delle ore molto piacevoli e gratifican-ti, ma soprattutto mi sono reso conto che un gruppo dipersone di qualsiasi ceto sociale era lì per dare il propriocontributo... Non bisogna pretendere di trovare una so-luzione, ma ogni piccola azione porterà gioia e calorealle persone che hanno bisogno.Tommaso."Ripetere anche quest’anno la Colletta Alimentare con 5detenuti (Pasquale, Nicola, Giovanni, Said, Cristian) haavuto, per me, un enorme significato. Innanzitutto la gra-titudine per la vita e la compagnia di Tommaso, con ilquale tutto questo è iniziato.

Annamaria Raciti, educatrice

Colletta Alimentare 2011

16Liberi di sognare

uongiorno, salutome stesso, caffè, si-garetta, guardodalla finestra, vedoil mare, stamatti-na è calmo, sem-bra fatto a scac-

chi. Quasi subito ho visto labarchetta di Mario, un uomo ab-bronzato sulla sessantina, lo si vededalla sua pelle che è un uomo vissu-to, chissà quante ne ha viste andan-do per mare. Il mare, la sua vita, l’ele-

mento per lui vitale. Salgo sulla suabarca, buongiorno! Nessuna rispo-sta, forse è assorto nei suoi proble-mi, non è maleducato. Comincia agettare la rete, il sole comincia a ri-scaldarci, lui è serissimo. Quello perlui non è un lavoro, lui ama e rispet-ta il suo mare. Provo ad attaccare di-scorso, lui ascolta senza nessuna rea-zione. Sono un fiume di parole, gliracconto delle mie giornate, ognitanto sembra che lui accenni ad unsorriso, forse non è così, ma mi piacepensarlo. Ritira la rete, così, come sestesse accarezzando i capelli di unasirena. Continuo ad osservare i suoimovimenti. Mi dà l’impressione chenon si sia reso conto di non essere ilsolo su questo pianeta, ma per lui inquesto momento non c’è altro, soloil suo mare, non si accorge nemme-no di me, ma a me piace molto staresulla sua barca, in sua compagnia, midà un senso di pace. Stiamo navigandolenti, veniamo quasi cullati dalle onde,sembra che il piccolo motore non cisia. Mi piace Mario, provo ammira-zione nei suoi confronti, eppure nonci conosciamo molto, anzi, posso direche non ci conosciamo affatto. Vedoil mare a scacchi perché lo vedo dallafinestra della mia cella, attraverso lesbarre. Non so se l’uomo che vedo inlontananza si chiami Mario, non sose prova rispetto per il mare che na-viga e non so se riesca a vedermi. Nem-meno immagina che io lo guardo enavigo con lui ogni mattina e che,come un clandestino, salgo sulla suabarca, guardo i suoi occhi colore delmare, che fisso la sua pelle scura e ab-bronzata con un velo bianco procu-rato dalla salsedine, che seguo ognisuo movimento. Lui non sa niente dime, eppure a volte ho sperato di starecon lui e che lui, rivolto a me, dices-se: “Come va, figliolo?”

Giuseppe Festinese - Teramo

La barchetta di Mario

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disegno di C

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ono le 9,30 di una domenica autun-nale, mattino, i miei due compagni dicella dormono...anzi russano. Guardola finestra e dietro la grata fitta, “il pae-saggio” è ormai diventato un puzzleelementare incollato al muro come unvecchio poster. I rumori e gli odori sono

quelli di sempre, in particolare gli odori, cercoun’emozione che mi aiuti a rimanere vivo; chino ilcapo sul mio foglio bianco e mi ascolto, dentro.Libero!... Libero la mia coscienza e mi accorgo cheè un disastro. Se la lascio andare diventa un flussoirrefrenabile, un torrente in piena che inevitabil-mente mi travolge. Se invece riesco a prenderla,arginarla, lentamente mi riconquista e mi resti-tuisce la mia natura di uomo. Divento quello chesono; prendere per mano la propria coscienza èrealizzare in assoluto l’esatta consapevolezza di

chi si è in quel preciso istante. Se oggi, adesso, po-tessi andare incontro a mia figlia ed abbracciarla“forte forte”; se potessi seguirla standole accan-to per sorreggerla e potermi confrontare con leipotrei sicuramente avere coscienza di sentirmi unbuon padre.Ma ora... ora no, sono quello che sono! E questovale per un’infinità di piccole e grandi verità allequali – e credetemi ho fatto degli sforzi immaniper arrivare a scriverne con convinzione – la co-scienza stimolata dal “castigo” può diventare sen-sibile. Prendere per mano questo momento, co-gliere l’attimo, è una sensazione molto più cheliberatoria, e non lo considero un pentimento nèun mea culpa, ma un’estrema apertura alla sensi-bilità!Ho dipinto di azzurro i miei fogli bianchi e si sonotrasformati in cielo, in mare; ho usato i rossi sfu-mati con i gialli e l’arancio ed è apparso il sole; housato il nero ed è apparso il buio, ho visto la mortee poi di nuovo solo con il rosso, il sangue. Ho nuo-tato per ore per raggiungere la riva. Ho scontato esto scontando ancora le mie pene ed ho capito.E’ come se fossi un bambino di sei anni, ma ne hopiù di quaranta e tanta esperienza sulle spalle, sonoarrivato ora al punto di partenza. Il passato non sicancellerà mai, è storia! La mia, la tua che stai leg-gendo, di chi è vivo e di chi è morto. Per chi è vivoesiste un futuro, sicuramente, ma il futuro, co-munque tu possa sognarlo, sperarlo, progettarlo...non esiste, non è ancora accaduto. E’ un’ipotesi.Al limite. Ed è un’emozione che preferisco, lo de-sidero, considerato che anche i bambini sanno chea volte i desideri possono avverarsi. Dal diventareconsci al futuro, passando attraverso la condizio-ne attuale delle prigioni di stato, sono tante le ve-rità da scoprire.In una riunione di redazione abbiamo immagina-to il carcere come la barca di Caronte che traghet-ta, ammassate, anime dannate verso l’Inferno. Ma,a mio avviso, non è proprio così, è molto peggio.Sì, quel Caronte sono io, lo guardo bene e mi ac-corgo che sulla prua di quella zattera, lordo di su-dore flautolento, trascino i miei delitti e le miepene verso il vortice che mi scaraventerà drittoverso gli “inferi”, quello è il carcere che io cono-sco! Dove, a differenza della Divina fantasia diDante Alighieri, non esistono gironi definiti, maun unico grande calderone, dove “ammucchiati”uno sull’altro, assassini, lussuriosi, ladri, clandesti-

ni confusi della Jihad, truffatori, ecc. , nell’incan-tesimo globale di una clessidra lenta, si “trasmet-tono” le loro pene.Maledetto bastardo di un Caronte, dove mi haiportato?... Caro amico, il drago, l’orco, la mia lus-suria, la mia ingordigia, abbiamo combattuto tantoe ora è arrivata la “resa dei conti”.E se davvero la matematica non è un’opinione, rin-graziando l’Indiano che la concepì, gli Arabi chene definirono la grafia e la introdussero nel Me-diterraneo, e addirittura la millenaria preveggen-za dei Maya che vi indicavano la data di nascita del-l’universo, ho finalmente capito il concetto assolutodel numero “zero”. La mia resa dei conti ha fatto“zero”, è approdata ad un punto di partenza che,come tutte le grandi verità, sono due facce di unastessa medaglia.Dallo zero, passo dopo passo, - 0+1=1+1=2... si può

andare avanti, ma si può anche tornare indietro:0-1 = -1-1= -2.... e il crudo riferimento al consoli-dato meccanismo della “porta girevole” si con-cretizza anche nell’esatto concepimento della tuapersonale presa di coscienza, può scaraventarti“fuori”, ma può allo stesso modo ributtarti den-tro una fatalità? No! Cari signori, non mi basta! Edè dal profondo della mia “selva oscura” che dicono! Ho bisogno di approfondire e mi chiedo: madov’è lo Stato?Faccio un primo passo in avanti: lascio l’indiffe-renza ai ciechi ed ai sordomuti (o presunti tali). Lapolitica che, attenzione, è assoluta consapevolez-za di tutto quello che accade, la lascio agli ascetied ai vigliacchi e attraverso la punta di questo me-raviglioso strumento che è la penna, lancio un gridodi profonda rabbia.E lo faccio partendo dalla lettura del prezioso pam-phlet “Indignez vous”, di Stephane Hessel e dal-l’appello all’indignazione attiva nel quale si fannocontinui richiami alla Dichiarazione Universale DeiDiritti Dell’Uomo e dell’ ONU, al nostro ComitatoNazionale di Liberazione e alla ricostruzione delloStato Sociale tramite l’Art. 1 della nostra Costitu-zione… L’Art. 1 lo conosciamo tutti, vero? Sonopassati circa settanta lunghi anni e, allo stato at-tuale delle cose, come tantissimi altri anche io misento profondamente indignato, mi viene natu-rale. Ma non basta. Sono arrabbiato. E’ una rab-bia sana, molto lontana dalla violenza, che prefe-risco lasciare alla poesia e all’illuminante GuillameApollinaire in “Quanto è violenta la speranza”.Non la rabbia. Sono d’accordo: la speranza nonbasta. E’ la violenza il percorso che dobbiamo se-guire. Dobbiamo desiderare di cambiare perché ildesiderio è un sentimento molto più forte ed è conrabbia e desiderio che bisogna sottolineare cheproprio quest’anno ricorrono 150 anni dall’Unitàd’Italia.L’Italia, a due passi dalla Germania, dalla Francia,dall’Olanda, dall’Inghilterra, all’interno di un con-tinente culla del garantismo, della civiltà, dellascienza, dell’arte, della storia, della filosofia che sichiama Europa... Poi mi guardo indietro ed è conrabbia che mi chiedo quanto profondo sia il buconero che come un’ingorda gigantesca balena bian-ca ha inghiottito con violenza ogni piccola e gran-de speranza.

Carlo Di Camillo - Vasto

S

Il drago, l’orco, la mia lussuria

arlo Di Camillo (Cadica)

1Domani morirò nel braccio della morteHo fatto molto male e questa è la mia sorteIn cerca delle lacrimeperché non ho mai piantovado incontro al mio boia con un solo rimpiantoMi parla la coscienza sono rammaricatoDomani morirò perché non ho mai amato.

2Ascolto musica notturna di ChopinPoi mischio dei colori un po’ GauguinSalto sopra un cavallo mi sento un po’ GeronimoPoi scrivo dell’amore e sotto firmo anonimo.

3Rilasso i muscoli quando viene la seraAppesa a fianco al letto c’è una maschera neraNon è la sola ne ho pure delle altreEd il mio recitare è diventato un’arteButtarle via sarebbe molto belloMa forse ho un po’ paura che si arrabbi Pirandello

4 Ho scritto molte storie riguardo ai miei pensieriMa vengo circondatosoltanto da misteriIo cerco soluzioni a questo stare malePerò detto così sembra quasi banale Provo a guardarmi dentroandando nel profondoEd ecco la risposta malessere di fondoC’è l’hanno tutti quanti e non soltanto ioMi sa che forse a darcelo è stato il nostro Dio.

Giuseppe Festinese- Teramo

Da UNO a

QUATTRO

disegno di Carlo Di Camillo (Cadica)

18

Fin dalla più tenera età Angelo fueducato dai suoi a non dire mai NO.Da buon bambino doveva sempli-cemente acconsentire a quanto isuoi genitori gli dicevano e ubbi-dire ciecamente alle loro disposi-zioni, altrimenti veniva mandato aletto in punizione. Cosi Angelo cre-sceva ubbidiente e rispettoso, maiun capriccio o una marachella; pro-prio il figlio modello che i suoi de-sideravano. Angelo era certo che igrandi avessero sempre ragione, eanche a scuola diventò uno scola-ro modello e disciplinato: quader-ni e libri sempre in ordine, compitifatti giorno per giorno, mai un’obie-zione. Era veramente un angelo,l’Angiolino nostro, anche se c’eraqualcosa che lo turbava interior-mente. Era il bambino ideale per igrandi, ma non il compagno idea-le dei suoi coetanei a volte indisci-plinati, capricciosi e disubbidienticome tutti i bambini del mondo.Un giorno, però, non si sa come o

perché, gli uscì dalla bocca un “NO” pro-rompente e arrabbiato e da quel momentofu un susseguirsi di “No, non voglio, non sonod’accordo, non mi va, non mi piace...” Sa-peva finalmente quello che voleva e, since-ramente, non gli interessava se era di gra-dimento alle aspettative degli altri.Per i suoi familiari fu un trauma indicibilema una sorprendente novità per i suoi com-pagni. Quell’Angioletto di Angelo diventòun ribelle, irremovibile nei suoi “NO” , te-stardamente sordo ad ogni consiglio che nonlo appagasse. Non si curò della perdita dellasua reputazione di ragazzo modello. Avevafinalmente una propria vita, felice di segui-re le sue inclinazioni e ambizioni, di mette-re a frutto i suoi talenti, di sforzarsi di rag-giungere i traguardi che si era prefissato, dicommettere errori e a pagarli di persona. Oggi Angelo non è la migliore persona chela società si aspettava, ma è un uomo a tuttotondo, con le sue sconfitte e i suoi trionfi, lesue speranze e le sue delusioni, le sue gioiee i suoi dolori, le sue opinioni e la tolleran-za per quelle altrui. Poco importa che eglisia semplicemente Angelo e non quell’An-gelo che gli altri volevano modellare. Anzi.Dopo tutto quell’Angelo, se fosse rimastotale senza la sua ribellione, avrebbe potutovivere solo in un ambiente perfetto, ordi-nato e sicuro come il Paradiso e non in que-sto mondo, bello forse proprio per le sue im-perfezioni e le sue insicurezze, caotico eribelle.

Celestine Odogwe Chimezie - Vasto

Pronti? Ok. Tira la pallina. Così inizia per meun viaggio nel tempo. Siamo intorno ad uncalcio balilla, quattro uomini che d’un trat-to si ritroveranno bambini. Inizia la partita.Cominciamo con i soliti sfottò, ora segno,sono troppo forte, faccio finta di dare il per-messo al mio portiere di segnare e la sortevuole che segni davvero. I soliti commenti:che culo, è solo fortuna, e io che insisto “l’hogià provato questo tiro, era calcolato”. Cosìcominciano a ridere ed è da quelle risate chedi colpo vengo sbalzato dalla realtà alla fan-tasia. Ritorno bambino. In un attimo tuttointorno a me svanisce, soprattutto le quat-tro mura che tengono il mio corpo in ostag-gio. Sì, siamo in un carcere, e per me l’orad’aria non rappresenta molto. È tutto scon-tato, ma nel penitenziario in cui mi trovo,nel cortile, c’è un calcio balilla e ogni voltache le mie mani toccano le stecche parto.Posso andare ovunque con la fantasia, macon questo oggetto ritorno bambino. Men-tre gioco mi ritrovo a Napoli, la mia Napoli.I miei vicoli i profumi i rumori, tutto mi è fa-miliare, mi sembra quasi di sentire il bruciorealle ginocchia sbucciate inseguendo un pal-lone, sento il naso che cola e la mia camiciafa da fazzoletto. Guardo il buco sotto la scar-pa causato dalle frenate di una bici senzafreni e allora appoggio il piede sulla ruotae la pelle mi pizzica, sarà il sale che mi rimaneaddosso dopo un bagno a Santa Lucia e viaa giocare senza farsi la doccia. In tasca il miocoltellino, improvvisato con un chiodo gran-de appoggiato sopra i binari del tram. Nel-l’altra tasca un manico di scopa tagliato indue e una piccola catenella, ed ecco che seiuguale a Bruce Lee. Cammino per le stradeche mi appartengono o forse io apparten-go a loro, mangio ricotta con lo zuccherospalmata sopra una foglia che fa da vasso-io, mi arrampico sui tubi dei palazzi in re-stauro dopo il terremoto, “attento cadi!”,le voci di qualche anziano.Allora scendevisubito, perché c’era rispetto, quando par-lava un anziano non c’era da replicare. Cam-minando a San Gregorio guardo i pastori, ipresepi, la gente è calma, tranquilla. Alme-no così mi sembrava da piccolo. Eccolo, unuomo vestito da Pulcinella, la musica, i balli.Mi piaceva guardarlo, la sua maschera ma-linconica mi dava un po’ di tristezza ma poicominciava la danza e cominciavo a sogna-re. Continuo a camminare, sento il profumodel mare di Via Caracciolo, stoper agguantare un tarallo, edè proprio lì che qualcuno mi ri-porta alla realtà: “andiamo,rientrare in cella”.

Giuseppe Festinese - Teramo

La ri

belli

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di A

ngel

o Viaggio nel tempo

Liberi di sognare

20 PRIMO

Valentino Di Bartolomeo Comandante della Polizia Penitenziaria Casa circondariale di Chieti

Nel bar del paese, quando capita di andarci, mi chiedono spie-gazioni, chiarimenti e pettegolezzi sul “sovraffollamento”.Segno evidente che il sovraffollamento delle carceri ha col-pito l’immaginario e la curiosità dell’uomo comune. Qualcheanimo sensibile esterna, timidamente, un sentimento di pietà

e compassione per le condizioni disagiate in cui, a sentire letelevisioni, dovrebbero trovarsi i detenuti.In ordine di tempo l’ultimo, ed altissimo, richiamo morale èvenuto dal Presidente della Repubblica:“… una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sof-ferenza quotidiana … di migliaia di esseri umani chiusi in car-ceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo.” (*)Per definire il sovraffollamento abbiamo bisogno di indicatorie in Italia, fino al 2009, vigevano quelli dettati da un Decreto delMinistero della Sanità del 5 luglio 1975 che imponeva una su-perficie di 9 metri quadri per i cubicoli (cella singola), 14 metriquadri per cella doppia, 19 metri quadri per cella multipla da 3posti, 24 metri quadri per cella multipla da 4 posti e così a saliredi 5 metri per ogni detenuto in più.Una sentenza del 16 luglio 2009 della Corte europea dei di-ritti dell’uomo ha sancito che lo spazio detentivo per ogni per-sona ristretta nelle carceri non deve essere inferiore a 3 metri.Per intenderci, si tratta della sentenza che ha condannato inqualche caso lo Stato Italiano a risarcire il danno patito daidetenuti costretti a vivere in spazi ristretti.Alla luce della sentenza della Corte europea, non ha avutopiù senso parlare di capienze regolamentari o tollerabili, clas-sificazioni che dipendevano dai parametri indicati dal Decre-to del Ministero della Sanità. Infatti, se prima del 2009 il so-vraffollamento veniva calcolato rispetto alla capienza tollerabile(cioè quella ritenuta massima possibile), dal 2009 non si ca-pisce quale capienza debba essere presa a riferimento per in-

dicare il livello del sovraffollamento.Del resto l’Amministrazione Penitenziaria si esprime indicandole capienze e le presenze, sono i mass media ad usare la pa-rola sovraffollamento. È palese che il “sovraffollamento” non sia una espressionetecnica, oggettiva, ma è essenzialmente un’ espressione sug-gestiva, tesa a suscitare emozioni. Sovra, o sopra, significa, tral’altro, il superamento di un limite. Folla significa quantità digente riunita insieme (di regola per festeggiare). Affollamento

significa massa di gente raccolta in gran numero (ad esempioad una conferenza, in un teatro).Sovraffollamento è quindi una parola, abbastanza recente,composta da sovra e da affollamento che letteralmente si-gnifica eccesso di folla in un luogo, specialmente chiuso. Emo-tivamente dà invece la percezione di eccesso di folla che spon-taneamente, liberamente, riempie uno spazio per festeggiareo per, comunque, stare insieme.Ma un termine, che dovrebbe indicare la sofferenza degli uo-mini privati della libertà e degli spazi di vivibilità, non devesuscitare nei cittadini la percezione del libero afflusso versole carceri, non deve consentire l’espressione: “tanto ci sonovoluti andare loro!”. La verità è che nel penitenziario i dete-nuti entrano perché la società, attraverso le Leggi, tende adincarcerare sempre più persone e le ammucchia, come si facon le castagne, in totale promiscuità.Senza risorse, senza detersivi, senza strumenti, il personale ei volontari stanno già facendo l’impossibile, anche per ga-rantire la dovuta sicurezza. Il Presidente della Repubblica haragione: l’espressione sovraffollamento è un eufemismo.Dovremmo cominciare a parlare di stipamento, di ammuc-chiamento.

Carceri sovraffollate, detenuti ammucchiati

(*)dall’intervento del Presidente della RepubblicaGiorgio Napolitano al Convegno “Giustizia! In nomedella Legge e del Popolo sovrano” – luglio 2011.

Particolare del “Giudizio Universale” - Cappella Sistina

inque dicembre2011. Siamo a quota61, uno ogni 5 gior-ni. Ancora vittime,perché un suicidio

in carcere non può e non deve essereconsiderato diversamente. E uno dei61 si è ucciso due giorni e 48 ore primadella scarcerazione. Forse non sapevadove andare, da chi andare, cosa fare.Nell’anno in corso, al 339° giorno, sonodunque 61 i carcerati “che ce l’hannofatta” a morire. Ma c’è da considera-re anche il numero di quanti dispera-tamente hanno cercato la morte “dacarcerati”, senza successo ma solo perincapacità - non è facile darsi la morte- o perché il caso ha voluto che qual-cuno intervenisse in tempo. Non in-clusi in questa conta i decessi natura-li, molto più numerosi, ammesso che,sotto tutela dello Stato, la morte di undetenuto possa essere considerata “na-turale” quando causataanche dal ritardo o dallamancanza di soccorso. Allanotizia data in manierasecca, distaccata, cronacafra le cronache, sono seguitele immancabili e scontatedichiarazioni dei responsa-bili del Sistema Penitenzia-rio Italiano sul “dolore esenso di sconfitta che attanaglia in si-mili circostanze” seguite dalle soliteimmagini con relativi commenti: il so-vraffollamento con quattro o addirit-tura sei detenuti in celle nate per ospi-tarne a mala pena due, la mancanzadi personale, la carenza delle struttu-re, i tagli e il solito ritornello del “sa-rebbero necessarie nuove carceri”. Piùbanalmente sarebbero sufficienti un“nuovo” carcere e un più modernoconcetto di Giustizia, visto che in Eu-ropa il nostro sistema carcerario occu-pa la penultima posizione, seguiti solodalla Serbia. Potremmo però rifarci si-curamente nella classifica mondialeposizionandoci ai primi posti del TerzoMondo.Sono ancora vive le immagini di altrevittime del sistema, gli Agenti di Poli-zia Penitenziaria che, inappagati, de-motivati e sfiancati da una routine conturni di servizi massacranti in una bol-gia grottesca e disumana, la scorsa esta-te hanno manifestato davanti al Par-lamento per chiedere provvedimenti– clemenza compresa – per alleggeri-re la situazione. Seguirono, in occa-sione del Ferragosto, le rituali proces-sioni alle carceri da parte di Deputatie Senatori. In Parlamento, un cara-vanserraglio senza idee, senza con-vinzione, senza dignità, il tutto peròrisolto nel cicaleccio senza fine tra Mag-gioranza ed Opposizione, l’una ipe-rattiva nel presentare leggi mirate allasalvaguardia del capo e l’altra impe-

gnata esclusivamente a contrastare leleggi “ad personam”.E la Giustizia? Gli agenti? Le carceri? Icarcerati? Da mesi Marco Pannellasenza giri di parole parla di amnistia,la più impronunciabile fra le paroleche la nostra classe politicante nonvuole assolutamente sentire. Lo stes-so Giorgio Napolitano, che per tre volteci ha messo la faccia, ha parlato di “ver-gogna” per le nostre carceri e ha sol-lecitato il Parlamento a varare i prov-vedimenti necessari e inderogabili. Neè seguito un assordante silenzio. Adinterromperlo solo le dichiarazioni diun gruppo di Parlamentari della Mag-gioranza tese a stigmatizzare l’uso in-discriminato della carcerazione pre-ventiva rifilata al Deputato ed exMagistrato Alfonso Papa, detenuto aPoggioreale in uno stato di prostra-zione fisica e psichica. E vorrei vedere!L’On. Papa, proprio in virtù del suo pas-

sato di Magistrato e del suo presentedi Deputato, invece di piagnucolareper il suo stato di prostrazione, avreb-be dovuto sollecitare il silenzio dei Par-lamentari invitandoli, semmai, a pre-occuparsi indistintamente di tutti idetenuti e del sistema Giustizia che an-cora attende un ammodernamentodal 19 Ottobre 1930 - Vittorio Ema-nuele III° Re d’Italia, Mussolini Capodel Governo e Rocco Ministro di Gra-zia e Giustizia – giorno dell’entrata invigore del Codice Penale tuttora vi-gente. Alfonso Papa ha comunque e final-mente ottenuto gli arresti domiciliari.Un altro tassello di un mosaico scon-fortante di cui alcuni Magistrati ulti-mamente si sono resi protagonisti: ilPresidente di una Corte d’Appello cherilascia interviste sulle reti nazionaliper spiegare i motivi del ribaltamen-to di una sentenza di condanna peromicidio in primo grado; un Procura-tore Generale che dichiara di non averfiducia negli Ispettori – Magistrati ancheessi – inviati nei suoi uffici dal MinistroGuardasigilli e la ispirata performan-ce oratoria dal palco di un congressodi Partito del più ieratico PM di unadelle più importanti Procure Italiane. Ma i Magistrati non dovrebbero espri-mersi solo con gli atti e le sentenze? Ilcosto annuale del sistema Penale ita-liano ammonta a circa tre miliardi dieuro: centocinquanta euro per ogniitaliano membro privilegiato di quelclub che, nonostante tutto, continuaa dare a Cesare quel che è di Cesare.

E’ una cifra spropositata per mante-nere un apparato mastodontico il cuiscopo principale dovrebbe essere lariabilitazione e il reinserimento socia-le del detenuto. Ogni giorno il carcere ingoia personealla loro prima esperienza da detenu-ti. Frastornati da un rituale burocrati-co, disumano e umiliante, i nuovi giun-ti si ritrovano scaricati in celleparagonabili a una sorta di Torre di Ba-bele. Di fronte ai letti a castello e conil rumore, alle spalle, del cancello chesi chiude, si rendono conto di non es-sere più “cittadini detenuti” ma piùbrutalmente “detenuti”. Si tratta aquel punto di affrontare la nuova con-dizione, costretti a una full immersionper inserirsi e sopravvivere in una re-altà che nulla concede e tutto toglie,con la copertura di regolamenti ela-sticamente interpretati e utilitaristi-camente applicati a seconda delle ne-

cessità e degli umori delmomento. All’interno dellacella e nel contesto socialedella popolazione detenu-ta, a un solidale buonismoiniziale, seguono, invece,millanteria, prevaricazione,violenza e strumentalizza-zione con liturgie e ritualitribali. Il tutto con la super-

visione e la complicità compiacentedel sistema giustizia; sistema ideal-mente finalizzato a restituire alla vitacivile quegli “esseri umani” chel’hanno rifiutata contravvenendo allesue regole o per casualità o per di-sperazione o per una ben precisa scel-ta di vita.E il sempre citato e più disatteso, senon completamente ignorato, art. 27della Carta Costituzionale? Per controogni giorno escono per benefici, prov-vedimenti alternativi o fine pena de-tenuti destinati e anche determinati atornare a delinquere, forti di nuove re-lazioni e più raffinate competenze spe-cifiche acquisite nel loro periodo di“rieducazione e reinserimento”. E’ loStato che, venendo meno al suo ruolo,in questo modo di fatto alimenta unsistema delinquenziale con la totaleindifferenza della società civile. Al postodi “nuovi cittadini” restituisce alla so-cietà larve umane. Il tutto sotto gli occhistupiti e sempre più smarriti di giuri-sti, sociologi, psicologi, esperti. A di-mostrazione che “il crimine paga...”almeno nell’indotto. Eppure baste-rebbe un minimo di coraggio, anchemeno di quello che Don Abbondio, persua stessa ammissione, non aveva.Anche lui avrebbe fatto di meglio.

Domenico Silvagni - Vasto

dal 1/1 al 5/12/2011 sono 61 i detenutimorti suicidi nelle carceri italiane. Fonte“Ristretti”.

21 PIANO

Quota 61

c

PRIMO

disegno di Carlo Di Camillo (Cadica)

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23 PIANO

Giustizia al collassoLa Giustizia è al collasso. Basta con le false speranze chevengono alimentate per quietare gli animi (indulto, am-nistia, nuove leggi). Ormai non c’è più un soldo da de-stinare alle carceri. Eppure un detenuto costa 100-120euro al giorno. Circa 7 milioni al giorno, considerando70 mila detenuti a cento euro l’uno al giorno. Vale a dire210 milioni al mese. Con queste cifre le nostre prigioni-galere dovrebbero essere il fiore all’occhiello del siste-ma Giustizia. Invece è la vergogna. I fondi per i vari ca-pitolati (vale a dire la destinazione) vengono ridotti del30% all’anno. Il risultato è noto: mancanza di soldi peril lavoro ai detenuti, mancanza di fondi per l’acquisto dicarta igienica e detersivi, mancanza di fondi per l’as-sunzione di personale penitenziario, mancanza di fondiper l’assunzione di educatori, mancanza di fondi … perreperire i fondi. Eppure vi assicuro che con circa 4,50 euro al giorno aidetenuti viene fornita colazione, pranzo e cena (cifre uf-ficiali). Gli altri soldi dove sono? Se il personale viene re-tribuito, i fornitori pagati regolarmente, non dovrem-mo essere al collasso. Invece l’obbrobrio di questa realtàviene nascosto. Il carcere in Italia, forse per chi non lo sao lo nasconde, è la prima e dico prima industria. Ci sono60.000 persone che svolgono mansioni lavorative negliistituti (polizia penitenziaria, personale amministrativoe civile). Ci sono decine di ditte fornitrici per i più svariatiservizi. Ci sono le famiglie dei 70.000 detenuti che set-timanalmente si muovono su strada per effettuare i col-loqui da Bolzano a Marsala, acquistano generi alimen-tari da portare ai loro cari. Migliaia di euro che vengonoimmessi nell’economia italiana, che sommati fanno mi-lioni di euro al mese. Eppure siamo gli ultimi, anzi, gli in-visibili, che tutti ignorano. Il carcere è una onlus no-pro-fit. La situazione è giunta al traguardo, le poche eccellenze(203 istituti) sono state cancellate dalle 200 galee gal-leggianti per l’Italia, laddove, forse, il termine galee ri-chiamerebbe al profumo del mare. Qui oggi l’unico pro-fumo che si sente è di morte, di suicidi. L’opinione pubblicanon si deve indignare dinanzi a un assassino che esce inbeneficio, ma dello Stato italiano che non riesce a rein-serirlo, iniziando dal percorso trattamentale interno, va-nificato dall’enorme numero e dagli scarsi fondi. Il per-sonale ormai è giunto allo stremo, situazioni gravi chein quest’anno hanno visto già 8 suicidi. Sono già cin-quantanove quest’anno i detenuti che hanno deciso dinon regalare la loro vita allo Stato italiano, ma di con-segnarsi al Signore. Le soluzioni ci sono, ma non si vo-gliono attuare: lavoro in carcere remunerato con giornida scalare sul fine pena, in mancanza di soldi la monetasarebbe il reinserimento (un mese di lavoro, 24 giorniscalati dalla pena) con doppia finalità: risparmio enor-me per lo Stato, reinserimento per il detenuto; tradu-zione immediata per legge dei detenuti comunitari neiloro Paesi a scontare la pena; da 90 a 120 giorni la libe-razione anticipata per buona condotta con retroattivi-tà dal 2006 (vale a dire 6 mesi per ogni detenuto). Mifermo qui perché non vorrei che il Ministro di Giustiziasi offendesse e pensasse che voglio soffiargli il posto. Ilposto no, ma qualche buona idea la potrebbe carpire. IRadicali insegnano che scavando, la melma viene a galla.Forza, combattete per noi!

Antonio Di Giacomo- Vasto

Di solito si pensa che in unPaese sviluppato non av-vengano violazioni dei dirit-ti umani. Ma non è così, cometestimoniano alcuni rappor-ti pubblicati da importanti as-sociazioni che da anni si bat-tono in tutto il mondo per ladifesa dei diritti inviolabilidelle persone. Si tratta di vio-lazioni che riguardano in par-ticolare i diritti definiti di “terzagenerazione”, che cioè sonosorti in questi ultimi anni comeconseguenza dei profondicambiamenti economici, po-litici e sociali, che interessa-no in varia misura un po’ tuttigli Stati. Le violazioni de-nunciate dai rapporti diconoche nelle carceri c’è sovraf-follamento di detenuti e ilpersonale di sorveglianza èinsufficiente. Che i processisono troppo lunghi e questopone il cittadino che è in at-tesa di essere giudicato, inuna situazione di precarietà,molto dannosa per se stesso,per i suoi rapporti personali,per la sua situazione lavora-tiva. È vero che fino alla sen-tenza definitiva nessuno èconsiderato colpevole, ma èaltrettanto vero che chi viene

sottoposto a un processo pe-nale viene già giudicato col-pevole dall’ambiente in cuivive, spesso dagli stessi amicie parenti, con tutte le conse-guenze morali e psicologicheche questo comporta. I rap-porti denunciano anche i cen-tri di permanenza tempora-nea dove sono accolti glistranieri, extracomunitari, inattesa di essere controllatiper decidere se devono es-sere rimpatriati oppure pos-sano rimanere. Qui ricevonouna prima assistenza, ma sonotenuti come se fossero dete-nuti, perché non possono al-lontanarsi, sono sorvegliatidalla polizia e le condizioniigieniche e sanitarie lascianomolto a desiderare. Le per-sone che sono detenute incarcere, pur essendo privatedella libertà personale, go-dono di diritti inviolabili, chegarantiscono il rispetto dellaloro dignità, devono esseretrattate con umanità, devo-no poter compiere percorsidi riabilitazione che le aiuti-no a capire lo sbaglio com-messo e a reinserirsi nella so-cietà una volta finita la pena.

Daniel Raducan - Vasto

Diritti e Rovesci

PPerche’ sono q

ui

Perché pioveva

Avevo fame

Per disgrazia

Non lo so

Per tossicodipendenza

Per incidente di percorso

Perché credevo ci fosse sempre il sole

invece pioveva da una vita

Perché mi hanno ingannato

e non c’è lavoro

Per scelte sbagliate e forzate

Per coincidenze

Per alzata di spalle

24

I miei figliGuardo fuori dalla finestra e là al-l’orizzonte vedo la collina che degra-da sul mare, la c’è casa. Casa per me èil posto dove ho lasciato il mio cuore eil mio cuore sta con i miei figli, il miocuore e il mio criceto. E’ il posto doveio indirizzo i miei pensieri, è il mio postoche mi tormenta la notte, che mi im-pedisce di dormire e che, nelle lunghegiornate del carcere, mi riempie di an-goscia. Qui il tuo essere madre devenecessariamente fare a cazzotti conl’impossibilità contingente di seguirei tuoi figli. A pensarci bene sono loro

che pagano lo scotto della tua reclu-sione, sono loro che devono rinuncia-re a molte cose, sono loro che devonoconvivere con la tua assenza, sono sem-pre loro che devono camminare senzapunti di riferimento e tu devi solo spe-rare di avergli insegnato a essere fortie che i problemi vanno risolti senza pa-nico ma con attenzione e soprattuttouniti. Che la vita va affrontata e vissu-ta ma mai subita e che anche le cosenegative e la sofferenza possono in-segnarti qualche cosa. Certo per il tempoin cui tu non ci sei, loro dovranno ri-nunciare a trovare la biancheria puli-ta e piegata al suo posto, non trove-ranno più il pranzo e la cena in tavola,non avranno più orari da rispettare,non troveranno più il frigorifero e gli

stipi riforniti, non ci sarà più mammache al bisogno ti aiuta con i compiti oche ti spiega un argomento scolasticoparticolarmente ostico e non ci saràpiù mamma a cui confidare problemi,pensieri, a cui chiedere consigli. A contifatti, pure loro devono sopravvivere etu speri che il tempo scorra veloce, chetutto questo finisca presto e senza la-sciare danni irreparabili o traumi de-leteri perché alla fine di questo calva-rio, tu da sola oltre ai problemi materialie logistici che dovrai risolvere, dovraianche ripristinare i difficili equilibri psi-cologici di tre adolescenti che, anchese per un periodo limitato, hanno do-vuto scendere a patti con una condi-zione a cui non erano abituati.

Sonia Gregoratti - Chieti

Ogni persona nasce con un destino. Il mio destino ha gio-cato con me, da ventitre anni provo a cambiare il corso

della mia vita però purtroppo non sono abba-stanza forte per cambiare rotta. Ormai mi sono rassegnata al mio destino, sonofatta per soffrire, sono nata in Romania, in unafamiglia composta da sei persone. Mia mamma,mio padre, le mie sorelle. Ero felice di crescerein un ambiente familiare tranquillo e sereno.Fino al giorno in cui il destino mi ha preso il miotesoro: mio padre. Avevo tredici anni, e da al-lora la mia vita e la vita della mia famiglia è an-data sempre in discesa. Sono cominciati i pro-blemi, ogni volta sempre più grandi. Il tempoè passato in fretta, e mi sono ritrovata all’etàdi quindici anni lontana da casa.Amo la libertà, affrontare da sola la vita e ilmio destino, lontano da tutti. Non avevo laforza di combattere, non capivo, non sape-vo nulla delle persone. Credevo che la vitafosse tutta rose e fiori. Ho avuto la sfortu-na di conoscere solo persone che mi hannofatto del male e che mi hanno fatto sof-frire, non riuscivo a distinguere il bene dalmale, ho fatto degli errori e oggi mi trovoa pagarne le conseguenze. Mi trovo incarcere da sei mesi, sono stata trasferitatre volte, ogni volta è stato un trauma.Però ho avuto l’opportunità di cono-scere tante persone che mi hanno aiu-tato, che mi sono state vicine nel mo-mento del bisogno, e ho imparato tantecose belle da loro, perché ogni perso-na ha sempre una storia da racconta-re. Perché si può imparare dagli sba-gli degli altri.

Elena Feraru - Chieti

Il mio destino

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“Avete compagnia”. Quantevolte nel corso dei diciassette mesipassati qui ho sentito questa frase!Alcune le ho viste andar via dopoqualche giorno, altre meno. Conalcune mantengo ancora un rap-porto e ci scriviamo. Ma oggi il

mio pensiero va a quelle “newentry” di nazionalità straniera,che quando varcano il cancello,portano in stanza solo loro stes-se: hanno la paura negli occhi , èla prima volta che entrano nel“pianeta carcere”, per giunta interra straniera, si guardano at-torno frastornate dai loro mille“perché”. Io e le miecompagne, le acco-gliamo, facendole sen-tire subito a proprioagio. “Alice”, (la chiameròcosì) è entrata ieri, consé ha solo venti euro,e sono davvero pochi,visto che la sua per-manenza qui dovrà du-rare almeno fino a di-cembre. Qui in Italia,è sola, non ha nessu-no su cui poter conta-re, né dal lato morale,né da quello pratico.Lei è molto meno for-tunata di me, che a dif-ferenza faccio collo-qui con i familiari che misostengono su tutti i fronti, inol-tre, lavoro e ogni mese percepi-sco uno stipendio. Alice con sénon ha vestiti, lenzuola colora-te, morbide coperte di ciniglia,lettore CD con annessi Cd, o libri,riviste , beauty-case con tutto ciòche occorre per la cura persona-le. Alice non sa che sarà suppor-tata dalle sue compagne di stan-za, che ancora e nonostante tuttonon hanno smarrito il senso dellasolidarietà. Dopo diversi mesi di reclusione,fai di questo posto la tua unicadimensione, dove è estremamentefacile perdere di vista alcuni va-lori che fuori sono normali. In pri-mis vige la sopravvivenza, e lalotta per non perdere te stesso etutto ciò che eri prima di avercommesso il reato che giusta-

mente ti ritrovi a pagare. Lotti, eti sudi il coraggio, e sei fiera di te,se oltre a tutto ciò riesci anche aregalare un sorriso!Ma Alice, avrà bisogno di benaltro che del mio sorriso! Nel miopiccolo posso condividere le cose

che possiedo, e insie-me alle mie compagneci faremo carico di ciòche le servirà per poter

sopravvivere in modo decentequi, con noi.Dicono che un detenuto”costa”alla società! Non so se la societàsa quanto è difficile sopravvive-re in carcere se non hai soldi. Ierile ho fatto richiedere vestiti allaCaritas, tramite un modulo, inpiù ha fatto richiesta di poter la-

vorare presso questo Istituto, sonocerta che ciò accadrà. Di certonon in tempi brevi, visto che cisono delle graduatorie da ri-spettare! Ad Alice è andata“bene”, perché il caso ha volutoche ci fosse un letto vuoto in que-sta stanza, dove cercheremo difarla sentire il meno possibile adisagio.Una volta persa la libertà, devi atutti i costi riuscire a mantenerela tua dignità. Solo così una voltafuori puoi riprendere in mano leredini della vita che hai lasciato,i sogni, i progetti che hai messovia in un cassetto, e sai che se sevuoi puoi provarci ancora, unavolta fuori. Ora Alice dorme, eforse almeno al suo risveglio ledirò: niente paura, tutto passe-rà.

Angela Girinelli - Chieti

Ale, ce la puoi fareE’ l’ironia che può salvarti da ogni tipo di situa-zione. Nell’attimo in cui vorresti piangere, senti illamento di una compagna, l’istinto ti fa venire vo-glia di spaccare tutto. Cosa c’è in fondo che po-trebbe farti sentire più viva? Basta una frase pun-gente, anche detta a te stessa, una battuta gridatafuori dalla cella e applaudita dalla risata coraledelle compagne...e si ricomincia a sopravvivere.Ma poi si avvicina per tutti, inevitabilmente e ine-sorabilmente il momento che ci ricondurrà tra gliaffetti più intimi, tra la pazza folla alla ritrovata li-bertà. Ma la sensazione non è mai quella che avevisognato, quella che avresti data per scontata. Larealtà è un attimo di panico allo stato puro ed è an-goscia quella mano di ferro che ti stringe come unamorsa la bocca dello stomaco. Giri lo sguardo ve-lato e lo posi sulla branda che per tanto tempo èstata la tua tana, la cella intera vissuta per mesicome un rifugio. E le compagne? Con loro hai fe-

steggiato, bisticciato opianto, e sono state loro iltuo unico riferimento emo-tivo. Già solo pensare didover saltare la partita ascala diventa un vuoto in-colmabile. E ti aggrappi aquelle che erano certezzee che sono diventate spe-ranze. Il vento tra i capelli, il solesulla pelle. Quattro passiincerti verso la sognata li-bertà fino alle braccia dichi ti sussurra che non seimai stata sola. Altri pro-blemi arriveranno ma ades-so ci sarà la forza per af-frontare ogni cosa. Non èfacile affrontare, né cer-care di condividere ciò cheda un po’ di tempo domi-na i miei pensieri. Credo

che ognuna di noi abbia stampate nel cervello emai potrà dimenticare le immagini all’ingresso inquesto luogo: i nostri passi tentennanti e insicurie quelli dell’agente che ti segue decisi e risonanti.Poi le chiavi, quel tintinnio sinistro che ti accom-pagnerà costantemente e poi quel suono, inquie-tante come null’altro nella tua vita, quello dellagabbia che si chiude alle tue spalle.La porta dell’inferno. E solo allora realizzi di esse-re stata privata della dignità, dei sogni che stavicoltivando, e non solo la libertà. E le cose che cre-devi di aver lasciato all’ingresso come un cappot-to appeso ad un porta-abiti, che credi di poter ri-prendere tranquillamente all’uscita, quasi mai sonolì ad aspettarti.Ora devi solo organizzarti per sopravvivere, pernon lasciarti andare. Ho sempre creduto che persfuggire all’apatia ci fossero due modi: la pazzia ol’ironia. La pazzia ti servirà quando giungerà la ne-cessità di placare la rabbia, l’impossibilità di accet-tare o di condividere qualcosa. Un grido nella nottee poi la fuga verso quei sogni che avevi lasciato ametà.

Alessandra - Chieti

la tela di Penelope

Disegno realizzato da uno dei partecipanti al laboratorio di fumettitenuto nella casa circondariale di Vasto

Avete compagnia

“La Legge è uguale per tutti” è la massima espres-sione per riassumere il concetto dell’eserciziodella giustizia. Questa massima è scritta in tuttele aule giudiziarie italiane, ma la sua collocazio-ne, purtroppo, è errata: la scritta è imponente-mente visibile agli avvocati, agli imputati e alpubblico ma, poiché è posizionala alle spalle delcollegio giudicante, non è visibile ai giudici, aiquali questo principio dovrebbe essere di moni-to costante. Il suo significato dovrebbe ricorda-re agli organi giudicanti il sensato e saggio spi-rito della giustizia: il rispetto della legge e lapunizione di chi ad essa contravviene con im-parzialità ed equanimità, concetto banale nellasua semplicità, e purtroppo, spesso, disatteso.Nel sistema giudiziario italiano, basato sullo JusRomanum, l’accusato parte già perdente, a di-spetto della norma di non colpevolezza fino aquando non venga giudicato tale: lo aspettanoreclusione in carceri fatiscenti, fughe di notizieper creare contro di lui un clima di ostilità daparte dell’opinione pubblica, disparità di forzefra accusa e difesa. Al contrario, nel sistema giu-diziario anglosassone, l’imputato è innocentefino a prova contraria della sua colpevolezza aldi là di ogni ragionevole dubbio, può chiederela libertà su cauzione in attesa di giudizio e puòconfidare in una difesa con pari poteri rispettoall’accusa e in un organo giudicante realmenteterzo.Ecco perché nel sistema italiano molti imputatiin attesa di giudizio vanno a finire in carceri so-vraffollate e inadeguate insieme a condannatidefinitivi, privati anche di elementari diritti a di-spetto di moniti e sanzioni della comunità in-

ternazionale, e spesso portati all’autolesionismo e al suici-dio dalla disperazione di una reclusione iniqua.In queste condizioni “La Legge è uguale per tutti” sta allo-ra a significare non il principio di equa giustizia, ma, per ci-tare Orwell nella sua Fattoria degli animali: “tutti sonouguali davanti alla legge, ma alcuni sono più uguali di altri”.Il che spiega perché l’imputato, già perdente in partenza,è ancora più perdente se straniero e nero.Per non stravolgere e criticare un sistema giudiziario fon-dato orgogliosamente su sagge norme risalenti solo a duemillenni fa, e non cadere nella vana illusione di una sua ri-forma aggiornata, mi limito a proporre tre alternative allamassima: ”La legge è uguale per tutti”. Prima ipotesi: lascritta sia collocata su tutte le pareti delle aule di giustiziain modo da essere visibile e di monito a pubblico, avvocatie soprattutto agli organi giudicanti; seconda ipotesi: la scrit-ta venga riproposta con la dicitura:” non tutti sono ugualidavanti alla legge” per togliere ogni speranza ai poveri il-lusi; terza: la scritta sia rimossa da tutte le aule per elimi-nare ogni imbarazzo nell’esercizio della giustizia.La prossima volta che ti capita di entrare in un’aula di tri-bunale come imputato, non riporre trop-pe speranze nel principio “La legge èuguale per tutti”: augurati semplicementeche il pubblico ministero e il giudice sianodi buon umore, altrimenti... va a farti lagalera!

Celestine Odogwe Chimezie - Vasto

Nel principio (quando l’ostetrica - all’epoca si chia-mava levatrice - venne a prelevarmi da quel campodi carciofi dove la cicogna mi aveva depositato),erano leoni, e i veri leoni erano la politica, e la poli-tica è andata da Einaudi a De Gasperi. Ma non durò.Da Questi ecco che si passò al “bunga bunga” e aiministri scelti secondo il metro dell’ossequio e delfascino o alle manovalanze promosse secondo cri-teri clientelari. Il risultato fu arroccamento, difesa,rabbia.

I due “leoni” che hanno ruggito, spesso malamen-te, per l’ultimo ventennio, sono drammaticamente,impietosamente stati ripresi, durante il fatidico votoalla Camera, “mano nella mano”. Stanchi, uno diloro visibilmente malato, stretti l’uno all’altro, in-vecchiati, contestati negli stessi partiti che hannofondato. Sedevano sui banchi del Governo con lastessa vigoria che s’addice a due vecchietti sulla pan-china d’un parco. Sguardo basso per Bossi, occhi soc-chiusi per Berlusconi. Thelma e Luise, ma al maschi-le. Difficile attendersi rinascite da Berlusconi o Bossi.La quasi impossibilità di una loro rinascita è moti-vata anche dalle spaccature in atto tra un po’ tutti isettori politici. Più frantumate saranno le Camere,meno potrà riproporsi un regime personale, e ciòanche senza parlare (come alcuni stanno già facen-do) di Terza Repubblica. C’è da dubitare, anzi, cheuna Seconda Repubblica sia mai esistita, dato che lenorme costituzionali sono rimaste quali erano, conla loro ideologia da immediato dopoguerra, e anchela corruzione è semmai cambiata in peggio: una voltainfatti gli imputati si vergognavano e tentavano disparire, qualcuno addirittura suicidandosi… Oggi-giorno ghignano, aspettando la prescrizione… in-somma: se qualcosa è veramente cambiato nell’ul-timo ventennio, è che fra affarismo, modello socialeimposto, oltre che dai potenti, da quell’influentis-simo portavoce che è la TV, il bipolarismo (che s’im-maginava a portata di mano), è scomparso e, conesso, anche l’etica nazionale. I due ex “leoni” vannofatalmente incontro a un destino che li travolge, civanno soli, senza gli applausi di una vita, e quandosi percepisce l’odore di questa fine,forse non basta la mano stretta dal-l’amico… mentre per ricompattarel’etica nazionale, di certo non ba-steranno tempi brevi.

Nicola Bruzzone - Vasto

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thelma elouise

26 tempi

Da molto tempo ormai le prigione ita-liane sono diventate una scuola di nonviolenza” (Fonte: Corriere della Seradel 15 settembre 2004). Con questopensiero Adriano Sofri commenta lebattaglie delle carceri delle scorse set-timane: scioperi della fame e le pro-teste di chi sta in prigione in condi-zioni disumane.

Dall’inizio dell’estate si sta registran-do nelle carceri italiane una singola-re protesta da parte dei detenuti: di-giuno volontario, sciopero dei lavoranti,battitura di oggetti metallici controle sbarre delle celle. Si tratta, salvoqualche eccezione, di manifestazionicondotte in forma sostanzialmentepacifica, con il proposito, da parte deidetenuti, di lanciare un preciso mes-saggio al mondo politico per un in-dulto generalizzato, l’abolizione del-l’ergastolo e del regime del 41 bis el’incremento delle misure alternativeal carcere. La protesta è partita, si èallargata a una dozzina di istituti, quasiubbidendo a una tacita intesa di soli-darietà nella formulazione delle co-muni richieste. Ma, nonostante il dif-fondersi a largo raggio del fenomeno,ne sono rimaste alterate le caratteri-stiche originali: in particolare l’assenzadi violenza, la ricerca di dialogo con iresponsabili politici e amministratividelle carceri, la scelta di puntare sullaforza simbolica dello sciopero della

fame.Una simile realtà non deve sfuggireal mondo politico italiano per il “con-tenuto civile” delle proteste delle set-timane scorse, tanto più rilevante sesi considera che alla loro base apparepalese il riconoscimento della legitti-mità della funzione dello Stato anchenel mondo carcerario.

E’ questo un modo nuovo d’imposta-re i rapporti fra i detenuti e gli orga-ni dello Stato, di fronte al quale sa-rebbe un grave errore, da parte delpotere politico far finta di nulla, la-sciando senza risposta i chiari segna-li di maturità e di consapevolezza pro-venienti dal mondo carcerario. Certo,a parte il valore ideologico e moraledelle manifestazioni non violente, bi-sogna evidenziare che le richieste avan-zate non appaiono tutte di facili sod-disfazioni, almeno nel breve periodo.Soprattutto per le richieste di carat-tere più generale (abolizione dell’er-gastolo, del regime del 41 bis, e del-l’art. 4bis Ordinamento Penitenziario),che presuppongono la ripresa da partedel parlamento, di lavori da troppotempo interrotti perché se ne possaprevedere una rapida conclusione. Perle altre richieste, maggiormente le-gate alla vivibilità nelle carceri, l’ap-plicazione integrale della legge Goz-zini, non è invece del tutto irrealepensare a qualche intervento legisla-tivo di razionalizzazione del sistema.

In ogni modo, anche nelle condizioniattuali, il sovraffollamento non si-gnifica di per sé cattivo trattamento.C’è solo una questione di limitazionedegli spazi, ma tutti gli altri servizi aidetenuti risultano attivi. Non dob-biamo dimenticare che la condizionedel carcere è per sua natura una con-dizione di disagio. Anche qui non con-

fondiamo la soffe-renza dovuta allareclusione con la sof-ferenza dovuta aldegrado dell’am-

biente. Questa la strada da incomin-ciare a percorrere per dare una rispo-sta di positiva consistenza alle istanzecivilmente espresse dal mondo carce-rario.La nostra Costituzione, il nostro di-ritto penale, il sistema di norme checostituiscono l’impianto penitenzia-rio, citano che un uomo ristretto incarcere debba, sì, scontare il propriodebito con la Società, ma che la penadebba tendere alla rieducazione e allarisocializzazione dell’individuo pri-vato della libertà, ciò nel rispetto dellasua dignità di essere umano.Se il carcere vuole diventare un “luogoultimo”, che assolve alla sua vera fun-zione di salvaguardia della collettivi-tà, di sicurezza e di recupero effetti-vo degli uomini, forse dovrà rifarsianch’esso a quan-to ci ha detto il Bec-caria: “Uno statoha tutto il diritto didifendersi, mai divendicarsi”.

Nicola Paradiso - Chieti

Lo sciopero dei detenuti

i chiamo Ioan e vengo dalla Ro-mania, un paese molto diverso dal-

l’Italia, con usi e costumi diversi. Unadiversa cultura. Lo posso dire con chia-

rezza, perché sono passati nove annida quando sono venuto a vivere in Italia. Nonho avuto tanto tempo per imparare la lingua,non è stato facile con il ritmo del vivere. Ho vi-sitato tante città e visto tanti posti belli, dalMonte Bianco fino alla splendida Venezia. Intutto questo tempo ho lavorato e ho avuto unavita normale con tante attività. Non avevo maicommesso nessun reato prima. Ora mi trovo in

carcere da quasi otto mesi, e mi sono informa-to su tutte le regole e le leggi che bisogna co-noscere.Vorrei che lo Stato Italiano offrisse più possibi-lità a quelli che vivono in carcere, la possibilitàdi qualche beneficio. In Romania, per esempio,esiste la liberazione anticipata, in base alla con-dotta e alle attività lavorative svolte in istitu-to. Ci sono in questo caso degli sconti di pena.Vorrei tanto che si parlasse pure in Italia di unalegge come questa.

Ioan D’Amir

m

27moderni

tempi

Edward Murrow (Good Night endGood Luck): “…Al momento at-tuale siamo tutti grassi, benestan-ti, compiaciuti e compiacenti. C’èun’allergia insita in noi alle noti-zie spiacevoli e disturbanti, e i no-stri mass media riflettono questatendenza. Ma se non decidiamo discrollarci di dosso l’abbondanza,non riconosciamo che la televisio-ne soprattutto viene utilizzata perdistrarci, ingannarci, divertirci edisolarci, chi la finanzia, chi la guar-da e chi ci lavora si renderà contodi questa realtà quando oramaisarà troppo tardi per rimediare. Secontinueremo così, la storia primao poi si vendicherà, e il castigo nonimpiegherà molto ad arrivare…”(25 0ttobre 1958)

Davanti a

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29moderni

ino a qualche tempo fa era considerata una chi-mera, oggi invece è diventata uno strumento or-dinario, e straordinario è il solo pensiero di nonpossederne almeno uno in casa: è la televisione.E in carcere è lo stesso. Mi ricordo che in una delle

tante serate trascorse da internato del carcere di Chietiper qualche minuto venne a mancare la corrente elettri-ca. Di lì a poco ebbi modo di “sentire” il malcontento ge-nerale di tutti i detenuti, la maggior parte dei quali si la-mentavano per la brusca interruzione del loro “viaggio”attraverso l’etere. Ho provato così a immaginare comepotrebbe essere il dover affrontare un periodo di deten-zione, chiusi venti ore al giorno in una cella e senza poterusufruire della tanto amata televisione. Suppongo che,per la maggior parte di noi, questa ipotesi sarebbe para-gonabile ad una tragedia, ma per le condizioni in cuisiamo, è più che comprensibile.Tra i cosiddetti “beni secondari”, la televisione si è rita-gliata un suo spazio non indifferente, tanto più che inquasi tutte le famiglie c’è n’è almeno una. E’ buffo pen-sare quanto questo meraviglioso strumento possa esse-re nemico di quelle casalinghe che non godono più del-l’attenzione dei propri uomini, i quali impegnano il pocotempo libero a loro disposizione poltrendo sul divano, ip-notizzati davanti allo schermo. Nel contempo la televi-sione può diventare grande alleata delle medesime ca-salinghe che, troppo stressate, “parcheggiano” per l’interopomeriggio i loro bambini davanti allo schermo, renden-do così meno pesante quello che è il loro mestiere di madre.Tuttavia non si può non considerare che la televisione èanche capace di trasmettere conoscenza, ma quante voltel’aumento delle emittenti e dei programmi non si è sem-pre tradotto in un miglioramento qualitativo? La tendenzaa puntare su programmi commerciali di basso livello, osta-colano la ricerca di programmi più validi sotto l’aspettoculturale con la conseguenza che siamo diventati spet-tatori sempre più passivi di uno strumento di comunica-zione che si sta pian piano fossilizzando.

Un altro aspetto deli-cato riguarda l’infor-mazione e la sua enor-me potenza persuasiva

che condiziona notevolmente l’opinione pubblica soffo-cando quel pluralismo indispensabile e dal quale non sidovrebbe mai prescindere. Sta di fatto che la televisioneoggi va alla disperata ricerca del consenso e del succes-so commerciale che si misura in termini di ascolto, e noinon siamo altro che spettatori passivi esposti ad un bom-bardamento di immagini e di suoni deleteri. Forse nontutti sanno che è stato sostenuto che la televisione agi-sce come una droga, crea un “buco” nel cervello, can-cella la memoria storica, appiattisce la cultura e ottundel’intelligenza. Qualcuno la definisce uno dei mali della no-stra società del benessere, per l’uso smodato e demago-gico che se ne fa, ma essa ormai esiste e il mondo con-temporaneo non ne può più fare a meno. Bisognerà quindiconvivere con la televisione, ma questa convivenza saràmeno rischiosa se sapremo utilizzarla con senso critico ecapacità di giudizio.

Cristian Di Marzio - Chieti

empo fa Berlusconi ha tentato di rassicurarci di-cendo che non c’è crisi perché la gente va in va-canza, viaggia, i ristoranti sono pieni, va a tea-tro…Stavolta non gli ha creduto davvero nessuno.Ora si è dimesso, e di certo lui a teatro, al risto-rante e in viaggio ci andrà di sicuro. Fossi statoin lui avrei aggiunto anche nelle carceri! Sono

addirittura sovraffollate, chissà se ha voglia di fare una ca-patina anche qui da noi. Sì, perché nel nostro “piccolo”, il“mercato” lo smuoviamo anche noi. Ogni detenuto inmedia spende circa € 50,00 a settimana, e per le nostre fa-miglie la spesa è maggiore. Facendo un piccolo calcolo lacifra base si aggira sui € 100,00 a settimana, considerandoil costo del carburante che i nostri famigliari spendono perraggiungerci. Non sono molto bravo in matematica pro-vate a moltiplicare il tutto per 70.000 detenuti circa. Qual-cuno potrebbe pensare, a cosa serve del denaro ai dete-nuti, hanno tutto, tre pasti al giorno, barbiere, serviziomedico, tutto gratis.Se non sbaglio credo che per i tre pasti al giorno siano stan-ziati un euro e cinquantotto, pertanto il menù del matti-no comprende 100 ml di latte e una brodaglia color mar-roncino trasparente, prodotto indefinito tra orzo e caffèindustriale. Per cui se non metti mano a quei pochi “euri”che ci lasciano i nostri cari per acquistare latte e merendi-ne… Come si fa con un euro e cinquantotto? Noi non ce lafacciamo, e anche se qui ci danno frutta, pane e cibo, le fa-miglie ci danno soldi per comprare pasta, carne, per chi puòpermettersela, pentole, padelle, soldi anche per pagare ilbarbiere, sì, che a volte è magari un magrebino che non hamai preso un paio di forbici in mano e così ti affidi alla sorte.E non dimentichiamoci del problema igiene: anche per que-sto ci vogliono soldi aggiunti, altrimenti c’è una saponet-ta al mese.Il servizio sanitario non lo commento, inesistente tranneche per gli psicofarmaci. Meglio farci dormire.La crisi è globale e le nostre famiglie fanno il possibile, mapurtroppo questa crisi ci allontana anche dagli affetti. Iodovrei stare a Roma o nel Lazio, così da poter vedere i mieifamiliari sei volte al mese, ora invece qui a Pescara li possovedere 2/3 volte. Alla gente “perbene” arriva solo il mes-saggio: “hanno pure la Tv”. Bene, io rinuncerei volentierialla Tv in cambio di ore di colloquio con le persone che amo,i miei figli, la mia compagna, mia madre che a 86 anni nonpuò affrontare un viaggio di 600 Km. andata e ritorno. Achi pensa che la Tv sia un lusso, dico di provare a restareuna notte svegli, da soli o con uno sconosciuto sulla bran-da sopra di te. Pensate che i vostri figli, i vostri mariti, lepersone che amate non sono lì, provate ad accendere la Tv,e se riuscite a colmare il vuoto nei vostri cuori guardandouno schermo vi do pienamente ragione. Noi di notte cosìne passiamo molte: l’una, le due, le tre, le quattro, le cin-que: quante notti passiamo a pensare alle persone cheamiamo. Crisi o non crisi, comunque, tra i detenuti c’è so-lidarietà, comprensione e ci si aiuta, se qualcuno non hanulla lo vestiamo, gli diamo da mangiare e questo lo fac-ciamo col cuore.Non fatevi abbagliare dalla propaganda dei tre lauti pastial giorno che ci vengono assicurati, qui si può contare solosul nostro aiuto. Sì, la crisi la sentiamo e abbiamo paura peri nostri cari che per la maggior parte vivono di lavoro one-sto, che hanno un problema in più, pensano anche a noi,ci amano e fanno sacrifici. Fanno male? No, semplicemen-te ci amano.Con la crisi in atto ed i problemi che deve affrontare l’Ita-lia credo che il piano “costruiamo altre carceri” sia finitonel dimenticatoio… Forse dopo la crisi, tra quanto? Tradieci anni? Perché non dimenticate che ci sarebbe (il con-dizionale è d’obbligo) da rimettere a norma le strutturegià esistenti che sono circa duecento. Noi detenuti, affol-lati come bestie, non siamo anche noi italiani? Siamo sol-tanto 70 mila corpi? In un Paese che si vanta di essere par-tecipe in primis a creare una Europa Unita nel pieno dirittocivile…ci siamo anche noi e siamo 70 mila per ora!

Giovanni Caltagirone - Pescara

a questa TV

F TLa crisi vista da dentro

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INDIGNADOSLeggendo i giornali e guardando la tv, anche daqui dentro abbiamo chiaro quello che accade fuori:la gente è stanca, in particolare i giovani di oggi,quelli che chiamiamo indignados. Si capisce chesono indignati, anzi, aggiungerei che sono fru-strati e indignati da quella massa di incompeten-ti che dovrebbero fare qualcosa e non lo fanno.E poi devono sentirsi dire che “i giovani non hannoidee”. In realtà, pur prendendo di petto questio-ni molto serie, i giovani sono demoralizzati per lamancanza di riferimenti nel mondo della politi-ca e nelle istituzioni. Lo spettro della disoccupa-zione aleggia su tutto, e questo nonostante fac-ciano parte di quella generazione checontinuamente si sente dire che chi studia occu-perà in futuro, rispetto ai genitori, una posizionesociale ed economica migliore. Ma i sondaggi lapensano diversamente, visto che due terzi degli italiani sono convinti chechi oggi studia o inizia a confrontarsi col mondo del lavoro avrà in futurouna posizione sociale ed economica peggiore rispetto alla generazione pre-cedente. E così tanti oggi pensano che andare all’estero sia l’unica oppor-tunità. Mi chiedo, i giovani fanno bene a protestare? Credo di sì, e ricono-sco che le nuove generazioni hanno subìto più pesantemente l’impatto dellacrisi sul mercato del lavoro. Come potrò allora essere otti-mista, una volta uscito dal carcere, quandodovrò confrontarmi col mondo del lavoro? Perora devo però confrontarmi soprattutto col pre-sente. A volte ho la sensazione di vivere semprelo stesso giorno, come se il tempo andasse avan-ti dimenticandosi della mia vita. Le giornatesono fotocopie e non c’è nulla di nuovo, nulla di particolare, tutto male-dettamente uguale. Resto alla finestra e guardo il cielo, ma è come se tuttoappartenesse a un mondo che non è il mio, come un pesce in un acquarioche guarda le cose dall’altra parte del vetro.

Vincenzo Marotta - Vasto

QUESTA CRISI CI MANDA IN CRISILe ripercussioni all’interno delle carceri sono tangibili a livello materiale e percetti-bili a livello morale. È ormai un dato di fatto che l’intero globo è avvolto in una col-tre di degrado economico che sfocia a sua volta in un degrado socio-culturale chesembra aver toccato un punto di non ritorno. Le conseguenze disastrose di tale per-dita infrangono la serenità della popolazione, carceraria e non, per tutto ciò che ri-guarda il regolare scorrimento della vita. Noi siamo dei detenuti, e la consapevolez-za della situazione è un fardello che appesantisce ancora di più la nostra condizione.Sovraffollamento delle carceri, mancanza di in-frastrutture adeguate, scarsità del personale pe-nitenziario, assenza dei beni igienici di prima ne-cessità, sono tutte problematiche che viviamogiorno per giorno in prima persona. I segnali checi giungono dall’esterno sono continuamente ne-gativi e il compromesso con la vita “di dentro” èpraticamente inesistente. Per le nostre famigliesiamo sempre più di difficile gestione, le spese daaffrontare aumentano e noi non possiamo faraltro che rimanere inetti e confidare nell’unicaamica che da sempre ci accompagna: la speran-za! Nel frattempo andiamo avanti, un giorno dopol’altro, in attesa che qualcosa cambi.

Stefano Caldarelli - Chieti

la crisi vi

Tutto è cominciato negli StatiUniti D’America con il falli-mento di due istituti di credi-to e per colpa di qualche bro-ker finanziario senza scrupoli.Poi, in breve tempo, la crisi èarrivata in Europa. E oggi paesicome la Grecia stanno ri-schiando il fallimento. Maanche l’Italia non se la passabene: se ascoltiamo le infor-mazioni fornite dai nostri Tgcapiamo che il nostro Paese starischiando molto di più dellaGrecia. Anche perché la BCEsta facendo man bassa dei no-stri titoli di Stato comprando-li a prezzi stracciati. Mi do-mando quanto tutto questo siripercuota sulle nostre fami-glie. Oggi siamo arrivati ad unpunto in cui di lavoro c’è nepoco e quel poco che c’è vieneretribuito pochissimo e per lopiù aumentano i costi dei ge-neri di prima necessità...e l’ope-raio viene di continuo spre-muto come una spugna. Cosasuccederà, tra breve, quandola spugna sarà asciutta e secca?

Pasquale Pagano - Chieti

INCIPIT

tempi

La crisi mondiale è derivata dal mal funzionamento delle ban-che mondiali. Ma parliamo della crisi italiana. Abbiamo undebito pubblico spaventoso, e l’Italia è l’ottavo paese più in-dustrializzato del mondo. Per risolvere questa crisi italiana sideve fare un disegno di legge per introdurre la cosiddetta“Patrimoniale”; se l’Italia non si dà una mossa e il nostro PILnon si valuterà, faremo la fine della Grecia, sono più di diecianni che l’Italia non cresce produttivamente;la crescita è pariallo zero. Secondo noi il Governo attuale è alla frutta; se non

si fa un governo di larghe intese o un governo tecnico, il pro-blema non si risolverà mai. Ci auguriamo che il nostro Gover-no sia in futuro più responsabile e che tutto possa risolversial meglio. Noi detenuti la crisi la risen-

tiamo di più perché le nostre famiglie fanno fatica adarrivare a fine mese. Questo è il nostro caso: noi siamo napo-letani e le nostre famiglie per venire qui a Pescara e per ef-fettuare un colloquio spendono quasi trecento euro; i nostricari sono molto in difficoltà e noi ci possiamo permettere soloun colloquio al mese; tutto questo ci fa sentire molto la man-canza degli affetti familiari.

Raffaele Regina e Pasquale Perfetto

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STAND BYGiorno dopo giorno vediamo perdite in borsa,un’economia in stand by che tarda a ripartire eche si riversa nelle tasche dei più deboli (ope-rai, pensionati). Ci viene spontaneo dire: madove viviamo? E chi ci guida? Ecco il nodo prin-cipale di una matassa che è il sistema italiano,ingarbugliato e ricco di ipocrisia e di “magnamagna”. Una matassa che ha portato tantagente a manifestare e protestare: tutti insiemecontro un sistema che “ti sistema”. I cosiddettiindignati, gente ormai stanca di vivere così, conlavori precari, senza certezze e un futuro, conla paura di affrontare anche piccoli investimentinel campo lavorativo – imprenditoriale, perchélo Stato non è capace di dare loro certezze. Anzi,forse qualche certezza ce le dà pure, ma sonoquelle di aumentare le tasse a chi già versa il60% sul lordo, di tagliare pensioni, agevola-zioni fiscali, facilitare il licenziamento per ra-gioni economiche, senza però mai toccare glistipendi da capogiro dei parlamentari, dei gran-di imprenditori e di tanti altri.Beh, come si dice, “chi maneggia festeggia” echi mai si è privato di tutti i privilegi della casta?L’egoismo e l’ipocrisia sono un velo che avvol-gono e plasmano la politica italiana. Altro cheindignati! Speriamo solo che il mondo di fuoritorni ad essere prosperoso e sereno, così da darciuna possibilità di una vita dignitosa una voltascontata la pena.

Mariano Grande e Costantino Bizzarri - Vasto

SEMPRE LA STESSA MUSICAPersonalmente penso che la crisi economicasia soprattutto un problema mondiale, che nonriguarda solamente il nostro Paese. Questo fe-nomeno è dovuto anche all’avidità di chi è alpotere e riesce a manipolare attraverso leggie artifizi l’economia. A mio avviso, penso chel’entrata dell’euro all’inizio poteva in qualchemodo giovare all’economia, ma devo consta-

tare che non è stato così. Seprima dell’entrata dell’euroun operaio percepiva un men-sile di due milioni, adesso pren-de mille euro, c’è un abissonotevole, magari l’aumento

dei salari ad una cifra più consistente avrebbegiovato al bilancio economico di ogni singolafamiglia. Governi di destra, centro destra, si-nistra, la musica è sempre la stessa! Spero so-lamente che la situazione economica finan-ziaria possa cambiare radicalmente in Italia,con un giusto Governo, e con politici che ef-fettivamente svolgono il loro mestiere.

Italo Gaspari- Chieti

sta da dentro

moderni

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La mia storia è come tantealtre che si sentono fuori edentro il carcere. Da ragaz-zo c’è stato l’incontro, se sipuò chiamare tale, con ledroghe, partendo da quel-le leggere fino a quelle pe-santi, un incontro totaliz-zante, a trecentosessantagradi, l’importante era usci-re dalla routine e dagli sche-mi. La trasgressione, però,porta anche problemi giu-ridici, psichici e altro. Perchého iniziato? Bella domanda.Certo, dopo un cammino co-munitario di quaranta mesi,qualche risposta l’ho trova-ta, anche se non sono ba-state. In carcere partecipo adegli incontri dove si af-frontano varie problemati-che: la crisi fuori e dentro,alternative alla detenzionee possibili soluzioni, perchési ricorre alle droghe e ildanno che comportano al-

l’individuo. Per quanto riguarda gli effetti dellacrisi nel carcere, sicuramente si sentepiù fuori che dentro. E’ fuori che cisono problemi, per le famiglie, perchi ha dei mutui. Certo, il proble-ma esiste anche per noi, è già duraper chi non vive la realtà del car-cere, figuriamoci per noi detenu-ti, è come se partissimo con qual-che metro di svantaggio. Lo stessoproblema lo affrontai dieci anni fa,dopo la comunità. Prima di rimet-tere tutto a posto mi ci vollero anni,non solo dal punto di vista econo-mico. Come risolvere la crisi? Ormaisiamo entrati in un circolo vizioso.Lo Stato sta strozzando i cittadini,che in buona parte vivono ai limi-ti della sopravvivenza. Tutto que-sto porta, a volte, a fare cose chetanti non avrebbero mai fatto inun contesto diverso, migliore. Furti,spaccio, come ci si può arrangiareci si arrangia, tutto per riportarequalcosa a casa. Ecco perché, tra leproposte, sarei d’accordo a toglierel’immunità ai politici, così si ren-derebbero conto di come si vive incarcere. Peccato che il comune mor-tale paga, il politico no. C’è un bel-lissimo detto al mio paese, cado iocon la bici sto ubriaca, cade il sin-daco è una disgrazia. Bello, no?

R.D.M. - Chieti

IL TEMPO BUTTATO

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La crisi vista da dentro

Rifletti bene prima di com-mettere un reato perché nonci sarà mai tempo a sufficienzaper comprenderne le conse-guenze una volta rinchiuso incarcere. I figli che ti cercano enon ti trovano quando hannobisogno di te; la moglie sola etriste fra mille difficoltà e chenon può condividere con te spe-ranze, gioie e dolori; gli amiciai quali non puoi più confida-re i tuoi piccoli segreti. Solo ladolorosa solitudine per la se-parazione dagli affetti piùcari.Io, purtroppo, non ho ri-flettuto a dovere e nella soli-tudine della mia cella tremo al-l’idea che la mia vita possaandare allo sbando. Basteràpromettermi che non com-metterò più quell’errore? Ba-sterà pregare di uscire fisica-mente e mentalmente integroda una così dura esperienza eavere imparato la lezione? Miconfortano la speranza e la vo-glia di tornare alla normalitàdella vita. Credo di essere di-ventato una persona miglioree più matura, di aver imparatoad apprezzare l’affetto che micirconda, il voler essere un “nor-male” padre, marito e cittadi-no, semplicemente felice di es-sere di nuovo un uomo libero.Vorrei ascoltare il richiamo dellamia Africa e contribuire a crea-re un futuro migliore per la miagente, a lottare al suo fiancoper ottenere il sacrosanto di-ritto a vivere dignitosamentenella propria terra nella mera-viglia di un ambiente unico nelsuo genere per ricchezze di flora,fauna e risorse naturali. Ma nesarò capace? O sono solo in-tenzioni di chi ha buttato viauna parte della sua vita?

Celestine Odogwe ChimezieVasto

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È passato tanto tempo dal quelgiorno in cui ho sbagliato e chemi ha portato a finire in carcere.Ormai di quel ragazzo che nonaveva regole non è rimasto piùniente. Se mi soffermo a pensa-re a quello che sono stato, e aquello che credevo di essere, miviene da ridere. Rido, perché ormaia piangere non ci riesco neanchepiù. Credevo che ci fosse sempreil sole, e invece piove da una vita,e io non ero preparato, per cuinon ho potuto fare altro che guar-dare quella pioggia incessantescorrermi addosso e lasciarmi ilgelo nell’anima. Eppure ancoraoggi sono qui e ho la possibilitàdi poterlo raccontare, per cui credodi essere stato fortunato rispet-to ad altri, e ringrazio Dio perquesto. In tutti questi anni di cal-vario, di sofferenze, di rinuncia,di malinconia, di sensi di colpa,ne ho viste di tutti i colori, e hocapito tante cose. Ho imparato avivere con poco, a dare valoreanche alle piccole cose. Ho capi-to il valore della vita, della fami-glia, dei figli. Ho capito cosa si-gnifica essere amati realmenteper i sacrifici che ha fatto la miafamiglia, pur di starmi vicino. Hocapito cosa significa l’amore diuna moglie, la responsabilità diavere una figlia, e alle rinunceche hanno dovuto fare per colpamia. Vi assicuro che è stato pro-prio questo a distruggermi più ditutto. Sapere che una moglie euna figlia di dodici anni debba-no pagare senza avere fatto maialcun errore. Pagano senza mo-tivo, senza colpe, senza ragione,e pagano più di tutti specialmentei bambini. Eppure come dicevopoc’anzi, sono ancora qui, sonoancora vivo e quello che mi hadato la forza di andare avanti èstato l’amore.L’amore di mia moglie e di mia fi-glia, l’amore incondizionato chemi hanno donato sempre, co-munque in tutto questo tempo.Quest’amore mi ha aiutato a vi-vere e a non morire, mi ha aiuta-to a crescere e a cambiare, ma so-prattutto mi ha aiutato ad amare,ad amare più di prima.

Davide Pecoraro - Pescara

NON TUTTO IL MALEVIENE PER NUOCERE

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In queste parole ti parla il mio cuore

Lontano da te sento solo dolore

Neanche più il sole riesce a darmi calore

E’ un quadro dipinto senza colore

La realtà è che mi manchi tu amore!

Vorrei poter essere sempre presente

Starti vicino in questo giorno importante

Svegliarmi al mattino con te al mio fianco

Guardare i tuoi occhi e sapere quanto ti manco

Vorrei che sentissi quando la notte ti chiamo

quando stringo il cuscino e gli dico ti

amo

Ti chiedo scusa per averti fatto vivere questa ipocrisia

E sappi che meriti di più di una semplice poesia

Pensando a te e a quanto mi ami

Una lacrima scende e mi mordo le mani

Non ci voglio pensare altrimenti ci sto male

Voglio dirti ti amo fino all’universo

Voglio dirti che domani sarà diverso

Cerco tutti i tuoi baci, non so dove stanno

Ti sussurro all’orecchio buon compleanno

Ti prometto che presto potrò ritornare

Ti saluto con un abbraccio affettuoso

Con un ti amo un bacio grandioso

con immenso amore

tuo per sempre Davide

Davide PecoraroPoesie

Mi rendo conto del tempo che è passatoundici anni sembra non essermene accortoe pure il tempo passa anche se non si fa sentireSei diventata altissima, amore sei bellissimaoggi è il tuo compleanno ed io non ti sono accantoQuesto mi rattrista, amore non sai quantoVorrei esserti vicino e stringerti forte fortePurtroppo siamo vittime di questa brutta sorteVorrei tornare indietro e cancellare il mio passatoVorrei farti sapere che ti ho sempre amatoVorrei che questo tempo te l’avessi regalato

Amore mi dispiace se per colpa mia ti son mancatoNon era mia intenzione ferire il tuo cuoreMa adesso non pensiamoci perché oggi è la tua festa

Voglio che sia serena insieme ad ai tuoi amicivoglio vedervi ridere sapendovi feliciAmore chiudi gli occhi , la senti la mia voce?E’ il tuo papà che ti parla, ascolta cosa diceCome una voce che trapela attraverso i muridolcemente ti sussurro, amore tanti auguri ! Adesso apri gli occhi e soffia forte, forteEsprimi un desiderio, ti giuro che lo avveroBuon compleanno amore mio, di te sono fieroPresto tornerò, amò te lo prometto. A presto il tuo papà col tuo sogno nel cassettoCon affetto il tuo papà

Ho 36 anni e sto in carcere da 44mesi. Il mio fine pena è settembre2016, quindi mi mancano ancora5 anni. Sono il secondogenito ditre figli, i miei genitori sono duepersone molto speciali, mio padreun gran lavoratore e mia madrecasalinga. Come dire, una famiglianormale. Ero un lavoratore e unbravissimo ragazzo, nel 1990 mi fi-danzo con quella che è diventatamia moglie; nel 1994 lei rimase in-cinta, mi sposai e andai a vivere conlei che nel frattempo partorì miafiglia che oggi ha 17 anni. Tuttobene, avevo anche un lavoro: mioccupavo infatti della pulizia di au-tobus, treni e stazioni. Nel 1998nacque il mio secondo figlio cheora ha 13 anni. Nel frattempo i miei

Nel vorti

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Prima di arrivare in Italia nonero consapevole dell’esattosignificato del termine “ti-ranno”. Anche perché es-sendo Magrebino conosce-vo solo le realtà politiche delmio Paese e di quelle dei paesilimitrofi. Le potenze euro-pee hanno sì portato una ven-tata di cultura e progresso,ma sempre limitata ai propribisogni, e una volta che sisono accaparrati gran partedelle nostre ricchezze, cihanno lasciato in balia di falsipresidenti, poi dimostratisiveri e propri dittatori. Solooggi riesco a comprenderequanto di falso ci sia in quel-le forme di presidenzialismodispotico con a capo un“Rais”. A volte militare, avolte economicamente po-tente, che guida il proprioPaese manifestando odio ebrutalità nei confronti di co-loro che chiedono solo dia-logo. Questi tiranni si arric-chiscono facendo levasull’ignoranza del popolo,inculcando loro sentimentidi odio e rabbia, contro chiun-que la pensa in modo diver-so. E poi la storia finisce sem-pre allo stesso modo: alminimo contrasto o diverbiosia interno che con altri Paesisi pensa subito ad un conflittoper la risoluzione, come sefosse l’unico strumento effi-cace per far valere i propri di-ritti.Siamo forse tornati all’etàdella preistoria, dove conta-vano solo le vittorie in guer-ra? Devo forse pensare chequesti tiranni-dittatori sonotanto ignoranti da non co-noscere altro strumento chel’egoismo e l’avidità perso-nale, noncuranti delle vereproblematiche del loro po-polo?

Dridi Said - Chieti

s c r i t t i c o r s a r i

REGIMI

amici fumavano una droga chia-mata “cobret”, io ero molto incu-riosito e così provai. Intanto fui tra-sferito a lavorare all’aeroporto diNapoli, dove mi occupavo della pu-lizia degli aerei, del recupero car-relli, carico e scarico dei bagagli.Ritornando al cobret, iniziai a fu-mare tutti i giorni, a volte quandonon fumavo stavo male. All’epo-ca nessuno sapeva della mia di-pendenza quindi invece di uscireda quel tunnel continuai a per-correrlo fino in fondo. Un bel gior-no di agosto del 2000 decisi di dirloa mia moglie e lì nacquero i pro-blemi e lei, visto che io non riusci-vo a smettere, mi mise davanti aun bivio, o me o la droga, e così èstato. Da settembre del 2000 lei è

andata via con i bambini e non liho più visti. Nel frattempo mi li-cenziai e iniziai a rubare, andai incarcere per un furto e da lì invecedi uscirne entrai sempre di più inmezzo a questo vortice. Adesso hocapito tutti i miei errori e se potessitornare indietro non li ricommet-terei per potermi godere l’infan-zia dei miei figli. Di tutti gli errorifatti sono pentito non solo per miamoglie e i miei figli ma anche peri miei genitori che sono delle per-sone speciali. In tutto questo temponon so come avrei fatto senza diloro, nonostante tutto il dolore chegli ho causato mi vogliono ancorapiù bene.

Alberto Giannetti - Pescara

ce della droga

ominciamo dal ’72. Ero an-cora un ragazzo e un gior-no, anzi, era sera, in com-pagnia di un amico rubouna Seicento. L’abbiamofatto per divertirci, ma sa-

pevo bene di sbagliare. Ovviamentefui arrestato ed era giusto che pagassiper quel reato. Sono uscito dopo poco,non ricordo come, ma uscii. Passiamoal 1973. Ricordo che si erano rotte leluci della mia macchina e che mi erofermato davanti a un chiosco di co-comeri vicino alla caserma militare diSan Giorgio a Cremano. Mentre mene stavo abbassato davanti all’autocon il cofano aperto per cercare di ag-giustare le luci ecco che tutto a untratto si ferma una pattuglia dei Ca-rabinieri che mi arresta per furto. Ciprovai a dirgli che l’auto era la mia,e intestata a mio padre, ma non ci funiente da fare, mi arrestarono. Perfortuna quella volta venni subito ri-lasciato. Mi trasferii in Liguria, ero almercato dei fiori di Sanremo, dovecompravo dei fiori per mandarli almercato di San Giorgio a Cremano,dove abitavano i miei familiari. Ognitanto tornavo a Napoli, ero ancoraun ragazzo e andavo a divertirmi cometutti i ragazzi di quell’età in discote-ca. Lì conobbi una ragazza, che è lamia attuale moglie, ci fidanzammo eme ne andai al mercato dove lavora-vo. Ci sentivamo sempre per telefo-no, tutti i cittadini sanremesi mi co-noscevano, nel 1976 mi sposai e portaimia moglie a Sanremo con me dovepresi un appartamento a venti metridal mercato dei fiori. A quell’epocaaspettavo un bambino, e mia mogliemi disse che non ce la faceva a starelontana dai suoi familiari. Così la por-tai a Napoli, io facevo sotto-sopradalla Campania alla Liguria, ma al-l’improvviso, nel 1977, venni accusa-to per un grave omicidio, e fui rin-chiuso nella Casa Circondariale diNapoli Poggioreale. E poco dopo mitrasferirono al penitenziario vecchiodi Avellino, dove ho combattuto pertre anni per la mia innocenza. Venneil giorno del processo e dopo tre oquattro giorni di dibattimento venniassolto! Dopo tre anni di mala giu-stizia. Nel 1981 l’ennesimo abuso: con

l’assurda accusa di far parte di bendue clan opposti, mi spedirono perun anno in carcere: se ci penso non soancora come riuscii ad uscire. Nel 1982ancora mi accusarono di mancato omi-cidio con rapina; ricordo che il giudi-ce mi mandò libero dopo quasi 18mesi ma il PM si appellò e mi arresta-rono di nuovo, ancora 18 mesi e poiancora assolto per non aver commessoil fatto. Ma non è finita: nel 1987 mifecero una perquisizione in casa e lapolizia mi trovò circa sei grammi dicocaina. Risultato: altri sei anni di car-cere che diventarono tre perché usciiil 24 dicembre del 1990. Ma era solouna tregua: nel 1996 di nuovo fui ac-cusato da dei pentiti e scarcerato dopo14 giorni con formula piena. Il 2001davvero ho commesso il mio vero reato!Sentendomi alle strette economica-mente accettai di andare in Spagna aritirare dello stupefacente: al ritornomi arrestarono a Ventimiglia, sonostato interrogato dal PM e dopo sonostato accompagnato nella Casa Cir-condariale Arma di Taggia di Sanre-mo. Mi condannarono a 5 anni e 6mesi di reclusione, ma questa voltanon posso lamentarmi della condan-na. Ero consapevole di aver sbaglia-to. E ora interrompo un attimo questasequenza di eventi, per riferire di unepisodio che mi ha visto protagoni-sta. Era sera, stavo andando al bagnoquando vedo un ragazzo che si eraappena impiccato. Mi sono messo disotto, cercando di sollevarlo e intan-to ho cominciato a chiamare gli altriamici di cella. Con un forbicina ab-biano tagliato la corda che aveva alcollo e fatto portare in infermeria.Ma durò poco, ricordo che si era ap-pena ripreso e già volevano rispedir-lo in cella. Dopo tutto questo che erasuccesso, volevano portarlo in isola-mento. Ci siano opposti, ci siano presicura del ragazzo, siano stati ringra-ziati da tutti gli operatori compresoil cappellano. Anche i familiari delmancato sucida ci hanno scritto rin-graziandoci.Ma torniamo alla mia storia: mentresono in carcere, sempre per il reatodi Ventimiglia, mi arriva una nuovacustodia cautelare dalla Procura diRoma. E così nel 2002 vengo trasferi-

to nella CasaCircondarialedi Beneventoe l’anno dopo

vengo chiamato dall’ufficio matrico-la che mi notifica la scarcerazione perdecorrenza dei termini di Ventimi-glia. Vado ai domiciliari, seguo il pro-cesso di Roma a piede libero, e dopo18 mesi andando avanti e indietro traRoma e Napoli vengo assolto per nonaver commesso il reato! Nel 2005 in-tanto va a definitivo il procedimen-to di Ventimiglia, mi presento alla Po-lizia e dopo gli accertamenti mitrasferiscono nella Casa Circondaria-le di PoggioReale dove mi arriva unanuova custodia cautelare della Pro-cura di Milano. Continuo a scontareil mio residuo di pena e finalmenteviene il giorno della scarcerazionedopo 5 anni e 4 mesi. E siamo al 26maggio 2007: all’uscita l’ufficio ma-tricola mi consegna un ordinanza chemi obbliga a presentarmi dai Carabi-nieri e dove mi notificano che dove-vo sottopormi a firmare tre volte allasettima, e questo per ben quattroanni. L’ultimo giorno che sono statoa firmare è stato il giorno del mio ar-resto per definitivo. Di nuovo accer-tamenti in Questura, vengo accom-pagnato nella Casa Circondariale diPoggioreale. E siamo ai giorni nostri:il 5 marzo di quest’anno inoltro istan-za dove chiedo l’applicazione dellacontinuazione delle due sentenze ri-tenendo che la Corte D’Appello di Mi-lano non fosse al corrente della primacondanna. Milano che fa? Per nonfarmi uscire mi aumenta la pena di 4anni. Un grave abuso, secondo me.La Corte d’Appello di Milano mi fissauna nuova camera di consiglio e il 12agosto 2011 mi viene notificata l’istan-za dalla matricola di Poggioreale cherettifica l’ordine di scarcerazione.La storia è finita: e mi chiedo: conquale diritto, con quale licenza giu-ridica si può giungere all’aumentodella condanna, non sapendo, nonconoscendo, non informandosi, nonprendendo in considerazione la ver-sione dei fatti? Il Codice Penale diceche una persona non può essere giu-dicata due volte per lo stesso reato,io lo stesso reato l’ho subito tre volte,come lo vogliamo chiamare? Abuso,leggerezza o distrazione?

Antonio Sannino - Chieti

Una storia kafkianaC

36s c r i t t i c o r s a r i

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RIFLETTERELa mia vita era abbastanza tran-

quilla, tranne qualche piccolo screziocon qualcuno, purtroppo a volte ca-pitano cose che non abbiamo mai nem-meno pensato che potessero succe-dere. Ho quarantuno anni, ho semprelavorato e pensato solo alla mia fami-glia, non ho mai subìto nemmeno unamulta, ma da circa dieci mesi mi trovoin carcere, non ci sono scuse o motiviche possano giustificare il mio gesto.Se solo avessi riflettuto anche solo unattimo ora non mi troverei in questabrutta situazione, lontano dalla miabambina, da mia moglie, separati daqueste quattro mura grigie. Mi sarebbebastato riflettere e tutto questo nonsarebbe mai successo. Spero solo chefinisca molto presto questa mia con-danna, e allora ci rifletterò mille volteprima di agire. Questo posto grigio epieno di sofferenza mi è servito a farmicapire almeno in parte la differenza

tra il giusto e lo sba-gliato, tra il bene e ilmale, un confine sot-tilissimo, basta solo ri-flettere anche solo unattimo e tutto sareb-be migliore!

Silvio Ciaschetti -Chieti

LONTANO DA QUEICONFINI

Odio parlare di carcere! Questa è la pre-messa, perché voglio che questo miosentimento sia ben chiaro.Questo è il luogo dove mi trovo oggi, illuogo dove farò in modo di non torna-re più in futuro. Odio lo stereotipo car-cerario, odio questo contesto dove l’in-telligenza, l’umiltà e il buon sensoaffogano nella straripante e umiliantebanalità. Odio la prevaricazione in ge-nere, specialmente se perpetrata neiconfronti dei soggetti deboli. Odio i mil-lantatori di vari crimini e appartenen-ze, e odio tutti coloro che nutrono unasorta di pseudo rispetto solo per chi haalle spalle molti anni di galera, o qual-che muscolo in più. Odio la discrimina-zione nei confronti di chi ha un colorediverso della pelle o di chi è vittima dellatossicodipendenza, ma odio anche co-loro che augurano ognisorta di male a dei sempli-ci padri di famiglia, colpe-voli soltanto di avere un la-voro che impone loro diindossare una divisa.Spesso sento parlare di penealternative, di disparità ditrattamenti eccetera: pre-ferisco lasciare questi ar-gomenti ad altri. Ritengoche il carcere sia paragona-bile a un mostro il cui me-tabolismo può digerire l’ani-ma delle proprie vittime. Unmostro che non va in girocercando chi divorare, magiace indisturbato nel pro-prio territorio delineato daisuoi confini. Siamo noi che,consci del rischio, spesso an-diamo a invadere quei ter-ritori, snobbando l’even-tualità di rischiare di poteressere la prossima vittima.Per questo preferisco concentrami su mestesso, proiettando i miei pensieri e ilmio futuro lontano da questi funesti con-fini

Cristian di Marzio - Chieti

SULLE SOSTANZEProgresso consumismo e benessere

sono indici che fotografano un Paese. Mal’altra faccia della medaglia è il disagio.Sappiamo benissimo che ogni forma di di-sagio è fonte di malessere, e per affron-tarlo e porvi rimedio è più semplice ane-stetizzarsi con l’uso di sostanze, pensandocosì erroneamente di aver risolto i proble-mi quando invece si sono solo messi daparte. Sostanza uguale disagio è un’ equazione

imprescindibile.Da premettere che con il termine sostan-za non mi riferisco solo all’eroina e alla co-caina, ma a tutto ciò che crei dipendenzae che sia capace di alterare ogni forma dipercezione della realtà, inducendo così lostato di coscienza. Altra importante preci-sazione da fare riguarda l’uso delle sostanzenei giovanissimi. L’uso che questi ne fannodiventa spesso prerogativa del gruppo diappartenenza. Dall’alcool agli spinelli, allepasticche alla ketamina, sostanze perico-losissime che danneggiano il sistema ner-voso centrale. Ci sono poi coloro che ri-tengono l’uso della cocaina un incentivoalla maggiore lucidità e alla capacità di re-lazionarsi con gli altri. Per ultimi, ma nonper questo di minore importanza e gravi-tà, ci sono i dipendenti da eroina, i vecchi“tossici”, che con i loro corpi logorati e as-suefatti sono nello stesso tempo saturi diuna vita passata dietro all’ero e abbando-nati al loro destino.

Italo Gaspari - Chieti

Ci ricordiamo di queste cose solo quandosuccede una disgrazia. Ci si ricorda di que-ste persone che prendevano quattro euroe novanta all'ora solo dopo, e c'è pure chiprende di meno. Nessuno va lì a guardarenei tanti laboratori dove lavorano tutti innero, anche perché servono soldi per man-dare avanti la famiglia e i figli da mantene-re, mentre gli stipendi rimangono sempregli stessi. Soprattutto dopo che il mercatocinese ci ha costretti a tenere persone innero e pagarle il meno possibile. Spero chele cose si possano risolvere, perché noi in Pu-glia siamo rovinati, e con uno stipendio dasettecento euro al mese non si va avanti.

Tommaso Musicco - Chieti

Barletta, 4 ottobre: tragediaal maglificio, crolla il labo-ratorio: morte cinque donne. Imprigionato

Va a sederti nella tua cella, lei ti inse-gnerà la saggezza. Diventa fiero dellasua vastità. E ricorda che hai dentrodi te la risposta ad ogni domanda cheponi. Non lamentarti del destino, seitu a farlo. Dai un taglio netto al pas-sato, fai il grande balzo. Non si puòattraversare il baratro a piccoli salti.Abituati a dormire per terra, così nonrischierai più di cadere dal letto.

Davide Di Paolo

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N. 16 - DICEMBRE 2011Periodico di cultura, attualità, cronaca delleCase Circondariali di Chieti, Pescara, Vasto,

Lanciano edito dall’Associazione “Voci di Dentro” [email protected]

Redazione: via De Horatiis 6 - ChietiDirettore responsabile: Francesco Lo Piccolo

Art Director: Ivano Placido

Impaginazione: Mario D’Amicodatri - CSV Chieti

Editing: Mascia Di Marco, Luisa Vaccari

Organizzazione e coordinamento:Silvia Civitarese Matteucci

Laboratori di scrittura e giornalismo a cura di:Giuliana Agamennone, Silvia Civitarese Mat-teucci, Mascia Di Marco, Francesco Lo Piccolo,Ivano Placido, Laura Sacchetti

Stampa: TECNOVADUE viale Abruzzo 232, Chieti

Registrazione Tribunale di Chietin. 9 del 12 /10/2009

Voci di Dentro è un’associazione di volon-tariato senza fini di lucro che opera nelleCase Circondariali di Chieti, Pescara, Vastoe LancianoLo scopo è quello di promuovere la solida-rietà a favore dei detenuti e agire per il lororeinserimento.Voci di Dentro è iscritta al registro delleOnlus. Organizza incontri, convegni, ini-ziative di sensibilizzazione sociale comespettacoli teatrali e altro, attività di for-mazione all’interno e all’esterno del car-cere.Questo giornale è scritto dai detenuti estampato grazie ai contributi di enti, isti-tuzioni e aziende.

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L’AMORE E L’AFFETTO

Nella vita le cose più importanti che conta-no sono l'amore, l'affetto e la famiglia. Chesenso ha la vita senza avere queste tre cosecosì importanti?Il mio cuore è a pezzi come un puzzle. E ioho cercato di aggiustarlo pezzo dopo pezzo,perché si può e si deve aggiustare. Nella miavita ho sempre sofferto, la mia vita è statapiena di sacrifici, illusioni, delusioni. Sonomaturato da solo, mi sono costruito da soloe me la sono sempre vista da solo. Tutti ab-biamo un cuore che batte, e il cuore batteper tutti, non possiamo avere un cuore dipietra e tutti siamo esseri umani, non siamoné possiamo essere di ghiaccio né di pietra.Ringrazio Dio che mi ha dato la forza di re-sistere e mia moglie per non avermi ab-bandonato né lasciato solo qui dentro contutta questa sofferenza. Qui dentro la si-tuazione è molto difficile perché non si samai che persone puoi incontrare. Il carcereè un cimitero di uomini vivi. A volte entra-no persone buone e altre volte personecattive, e la cosa peggiore è che non sai maicon chi puoi stringere rapporti nella cella.In questo anno che sono dentro ho comunqueimparato a conoscere le persone e a distin-guere le persone che mi stanno vicine e chesono sincere da quelle che agiscono solo perinteresse. Ma per mia fortuna, grazie al corsodi catechismo mi sono avvicinato a Dio. Eadesso, inoltre, un po' alla volta comincioa scrivere, perché le persone che stanno incarcere sono comunque persone che hannodei sentimenti e un cuore e che hanno bi-sogno di affetto come un giardino ha biso-gno dell'acqua. E intanto io penso alla miafamiglia ogni giorno e questo mi dà la forzadi resistere perché qui dentro un'ora è comeuna settimana e una settimana è come unmese e un mese è come un anno e un annoè come un secolo.

Argelis Melenciano De Los SantosPescara

IL DIRITTODEI POPOLI

Negli ultimi cinque secoli il mondo occi-dentale ha imposto un sistema di valori sututto il pianeta che niente ha da vedere conla cultura dei vari popoli. Ma data la suaenorme superiorità tecnica, economica ebellica, ha costretto le minoranze etnichead integrarsi nel suo sistema o a scompari-re.I civilizzatori occidentali, denominati "StatiDemocratici", cercano così didistruggere le varie culture per appropriarsidel territorio dove i popoli, grandi o picco-li che siano, vivono, producono e si evolvo-no. Tuttavia chi ha il potere di manovrare a

suo piacimento e secondo il proprio tor-naconto l'informazione, usa due pesi edue misure per valutare lo stesso feno-meno. Questo ci fa capire come il potere,pur manifestandosi in modi diversi, attuain questi casi il medesimo meccanismo: larepressione anche nell'informazione. Ogginon si presentano più con il mitra in manofacendo sterminio di popoli per depre-dare materie prime e capitali, al contra-rio preferiscono far gestire direttamenteagli indigeni il loro stesso sfruttamento,intervenendo tramite embarghi più omeno calcolati, o con vendite di materia-le tecnici obsoleti a prezzi esorbitanti. Cosìi nostri amatissimi governi denominati de-mocratici, mentre da una parte si scan-dalizzano per l'invasione Irakena nel Ku-wait ed esultano per l'ondataindipendentistica dell'europeo, dall'altraparte reprimono militarmente e domina-no economicamente e po-liticamente i popoli chehanno la sventura di vi-vere sotto di loro. Per-tanto chiudo dicendo: sìall'autodeterminazionedei popoli.

Ciro Improta

LA FAMIGLIASpesso si legge sui giornali di rapine e vio-lenze con protagonisti addirittura dei mi-norenni. E spesso si viene a scoprire chegli autori di questi episodi sono giovaninati da famiglie proletarie e socialmenteemarginate; ma non sempre perché capi-ta anche che gli autori siano a volte ra-gazzi dei quartieri "alti". E di questi ulti-mi voglio parlare. Credo infatti che moltodipenda dalla cattiva educazione ricevu-ta, a casa e a scuola. E ritengo anche cheil permissivismo, con buona pace dei buo-nisti, sia foriero di cattivi comportamen-ti. Per esperienza personale, affermo chela "manica larga" è la prima causa di tantimali. Prima o poi tutto si paga, e si pagacontanti e pronta cassa. I maggiori re-sponsabili della devianza di tanti giovanisono la famiglia, innanzitutto, e la scuo-la. I genitori non fanno, o non sanno fare,o non vogliono fare, i genitori. Entrambilavorano, i figli sono spesso lasciati a sestessi o a badanti che non sanno fare illoro lavoro. La famiglia si ritrova la sera,a cena. I genitori sono stanchi e i figli nonsi confidano, e non si affidano a loro. Perfarsi perdonare l'assenza, resa necessariadal lavoro, gliele danno vinte tutte. Ma èin famiglia che si impara a lottare per lavita. In famiglia e nella scuola, dove nonesistono più gerarchie fondate sul meri-to e sulle reciproche responsabilità. Le con-seguenze sono disfacimento, disgrega-zione dei valori cardini della famiglia,individualismo. La rivoluzione culturaledella donna perde efficacia, perché non

si riconosce nel ruolo di genitore e moglie.Il progresso ha plasmato la famiglia e ilmondo, rendendoli esteriormente irrico-noscibili. Un mondo senza amore, dove ilruolo della famiglia perdeautorità e efficacia. La famiglia è un capi-tolo importante della vita di tutti noi, per-ché è un capitolo che non finisce, è l'intrecciodella storia, il filo conduttore della vita. Amio avviso, la famiglia è l'unica cosa certanel nostro "Mare di Passioni". Un valoreinestimabile e insostituibile che dovrebbecontinuamente essere rinnovato.

Dridi Said - Chieti

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Eccomi nuovamente quamentre una giornata d'inverno

sta passando lentaio mi trovo a pensare

ma è inutile, non ci sono più rifugi

dove nascondersi, non piùnon come da bambini

che non vedevamo l'ora che arrivasse il Natale

per passare la giornata a fare festa con tutta la famiglia

e vedere che regaloti portava Babbo Natale

La mia famiglia è lontanadurante le feste

soffro la loro mancanza ancora di piùe io sto chiuso in questo cubo.

È difficile anche solo pensare oratutto è difficile visto da qui

le piccole cose della vitache diventano enormi

una vita che seppur era veramente povera

era piena d'amoredi calore, di entusiasmo

di libertà, di respiro.La cosa più importante

passare le giornate con le personeche hai nel cuore

quando sei libero di sceglierecosa ti fa felice

cercando di vivere pensando alla ricchezza

che non è tua pure se ti appartieneSi sta male, così male

che anche il respiro non alimenta il cuorepensando a tutta la bellezza che la vita ti dà

Non voglio più respirarequest' aria avvelenata

ora desidero solo riempire i polmonidi aria fresca, aria pura, aria pulita.

Til Miroslav

Lo sento, è nell'aria, sta arrivandoTra colorate luci di vetrine,

A malincuore ma lo sto aspettandoSommerso da un dolore senza fine.Schiacciato da un'acredine che salea tormentarmi nelle notti assurdeGiunge tra noi, solenne, puntuale,Giunge e la coscienza mi rimorde.

E rimestar tra me stesso oblioA nulla serve, anzi è doppia pena,

Debbo far finta di lodare DioNel mentre mi trascino alla catena.Provo a tentar di ridere a soggetto,Riprovo ancora, no, niente da fare,

È un giorno come un altro, maledetto,Che mi tien dentro qui, a meditare.

A meditare sulle delusioniDimentico di ricercar ripari

Tra un rifiorir di sentimenti buoniAlla ricerca dei miei tempi ignari.Quanto mi pesa il dire 'sta parola,Che mal si addice ai momenti duri,A pronunziare, con il cuore in gola,Assurdamente, tanti, tanti auguri.Si apre il cuor alla speranza, cosa?

Che vai dicendo, Cosa vai cianciando?Non senti le campane della chiesa?

"che voglion dir?" che è nato e sta arrivando.E in mezzo a tanta gente che sorride

Fingi anche tu, almeno per un giorno,Fingi che solo un niente ti divide

Da tutto il gioir che senti attorno.Mordi 'sto maledetto panettone

Che giunge come sempre puntualeÈ senza sbarre oggi la prigione

Ma sì, ma sì, d'accordo: Buon Natale!

Nicola Bruzzone

Quante volte può un uomo voltare il suo sguardo fingendo di non vedere? (Bob Dylan)